sabato 10 novembre 2007

l’Unità 10.11.07
«Mi spaventa il potere di uccidere»
di Pietro Ingrao


Ingrao & Bettini
LUNEDÌ SERA, alle ore 21, al Teatro Argentina di Roma verrà presentato il libro di Goffredo Bettini A chiare lettere. Un carteggio con pietro Ingrao e altri scritti (Edizioni Ponte Sisto, pp. 220, euro 12). A discutere con l’autore, guidati da Barbara Palombelli, saranno Giuliano Ferrara, Anna Finocchiaro, Mario Tronti e Sergio Zavoli.
In questa pagina anticipiamo brani da due lettere inedite - che risalgono all’ottobre scorso - in cui Pietro Ingrao e Goffredo Bettini dialogano su temi, apparentemente «distanti», come il cinema, la pena di morte, la guerra e l’impegno poltico. Ingrao, nella sua lettera, parte dal film di Charlie Chaplin, Monsieur Verdoux, e inizia una riflessione sulla pena di morte (collegando la vicenda del film a quella, recente, di un condannato a morte negli Stati Uniti). Da qui il ragionamento si allarga, attraverso ricordi personali, al tema del carcere, della privazione della libertà e della tortura, per estendersi alla guerra.
Bettini, nella sua risposta, dopo aver argomentato sulla capacità del cinema di affrontare importanti problemi sociali (cita i casi di film come Umberto D e Germania anno zero), e dopo il racconto della sua personale esperienza politica, intrecciato con episodi della sua vita, risponde ad Ingrao sui temi della pena di morte e della guerra.

Caro Goffredo,
(...) La pena di morte ancora oggi è strumento largamente praticato in grandi imperi, in molti paesi del mondo. Si stima che siano attorno ai sessanta i paesi in cui la pena di morte è parte codificata e praticata del sistema punitivo. La grande Cina in testa a tutti: si calcola che in quello sterminato paese siano a migliaia i condannati a morte (circa il 98% del totale mondiale): segue l’Iran (197 le condanne accertate), e ancora l’amato Vietnam per cui si contano 82 esecuzioni capitali, e ancora la Corea del Nord, l’Arabia Saudita con almeno 38 giustiziati, il Pakistan 29, il Bangladesh 17, il Kuwait almeno 9. Quanto alla Cina le cifre parlano di un uso che direi «normale» della pena capitale con un ritmo che si potrebbe definire continuo.
E stringe il cuore se il ricordo va all’amore (questa è la parola) che ci ha stretto a quel paese come simbolo di liberazione e speranza di un nuovo mondo. I numeri si dilatano ancora di più se si va al calcolo dei cittadini cinesi finiti in galera; si giunge a cifre agghiaccianti, incredibili: nell’arco del 2005 sarebbero finiti nelle galere circa ottocentomila cinesi, e la repressione avrebbe colpito non solo il delitto, l’uccidere, ma largamente e penosamente anche il dissenso politico. Una flebile speranza sembra ora venire dalla decisione - probabile - del governo di restituire al potere centrale - alla Corte suprema del popolo - la facoltà esclusiva di approvare le condanne a morte.
Ma il quadro va assai oltre quell’immenso paese che abbiamo amato con tutta l’anima. L’Asia ne è investita: e questo per me è ancora più amaro, se penso alla rapina e alla violenza che nei secoli passati noi europei abbiamo portato in quello sterminato continente. E il quadro si fa più amaro se penso alla rete di convinzioni, all’idea dell’umano che entrano in campo, quando ci arroghiamo il potere di cancellare dalla vita gli esseri umani: i nostri simili.
E poi, non è singolare, curiosamente contraddittorio l’impegno enorme e le alte conquiste che abbiamo toccato nella cura delle malattie, e la passione trascinante dell’uccidere che coltiviamo da secoli. «Nessuno tocchi Caino»: ricordi quella ammonizione solenne che è entrata nei nostri pensieri, così densa nei suoi significati: un nuovo comandamento rispetto a quelli che apprendevo fanciullo sul grembo di mia madre.
E qui la riflessione si dilata: non riguarda più soltanto il dilemma elementare fra la vita e la morte; torna il tema della regola comunitaria, e della sua tutela. Se ripudio l’uccidere e cancello la pena capitale, come risponderò alla violazione della regola? Se rispetterò la vita del colpevole, come risponderò alla sua colpa o al suo errore? Che risposta, che vincolo metterò in campo?
Vedi Goffredo: qui io mi spavento: quando chi ha tutto il potere nelle mani, uccide. E lo fa quando ormai il condannato è prigioniero nelle sue mani. Perché entro in allarme? Perché l’altro - quello che è giudicato colpevole - è già mio prigioniero, serrato in una cella circondata da armati. Perché allora voglio ucciderlo? Per punizione. Una punizione che cancella dall’esistere. Espelle da quella esperienza unica sulla terra che noi chiamiamo vita, mondo.
Adesso uso una parola delicata che è pentimento. Goffredo, tu sai già con quale prudenza e riluttanza io accetti questo termine, e non perché non riconosca i miei peccati, ma il pentirsi rimanda a un aspetto sacrale. E io invece sono laico.
Mia moglie Laura mi ha guidato a vivere un’esperienza per me cruciale. Io, negli anni duri della cospirazione, avevo avuto la grande fortuna di non finire in galera: riuscii a fuggire, a un passo dall’arresto, quando un gruppo di compagni con cui cospiravo era già finito in manette. Mi salvai dalla polizia fascista (che mi cercava) dandomi alla clandestinità nelle montagne della Sila: per mesi nascosto in una capanna solitaria, una specie di reggia per topi da cui mi difendevo accendendo un gran fuoco prima di addormentarmi e poi arrampicandomi su un pagliericcio.
In seguito, nell’Italia liberata, fu mia moglie Laura che mi guidò più volte dentro le mura di Rebibbia. Forse lo sai: Laura faceva scuola ai detenuti, e per parecchi di loro era divenuta una specie di madre o sorella con cui continuò un rapporto anche quando alcuni di quei prigionieri divennero finalmente liberi.
Tra le mura dolenti di Rebibbia vidi presto quanto era difficile avviare un dialogo con chi aveva violato la legge e fatto del male al prossimo, e ora doveva ricostruire la sua vita dentro le strette mura di una cella. Provai una stima enorme per coloro che in quel carcere aiutavano quei condannati a ricostruire - se possibile - una loro integrità di esistenza civile. Appunto: i dirigenti di quel carcere romano erano umani e aperti. Avevano cercato di costruire collegamenti tra quei prigionieri e il mondo, attraverso l’aiuto di volontari che contribuivano a tenere un esile filo di relazione con le loro famiglie, la loro terra, il loro mondo. Stare serrati dentro un carcere, separati dal loro cielo e dalla loro famiglia: come deve essere aspra quella condizione!
Guidato da mia moglie cominciai a riflettere sui modi per aiutare quei rinserrati a ricostruirsi una vita umana. Non credevo molto alla punizione: alla sua utilità. Speravo nel dialogo e nell’incontro. Quale salvezza difficile per quei condannati era quella da costruire tra quelle mura. Esclusi dal proprio mondo e persino dalla aspra ma creativa esperienza del lavoro in società: nella durezza, ma anche nell’invenzione e trasformazione che esso genera.
Non ho potuto mai dimenticare la malinconia struggente che mi prendeva quando, al calar della sera, Laura e io salutavamo quei coatti e ci appressavamo al pesante portone di metallo che separava quei reclusi dal mondo libero. Quel mondo spaccato: diviso tra criminali e onesti.
(...) Ho visto tornare sulla scena la tortura. Mi ricordo che quando da giovane ero impegnato nella cospirazione, più del carcere temevo il mio cedimento: temevo che sotto l’incalzare dei poliziotti aguzzini tradissi e rivelassi informazioni sui miei compagni di lotta. Non dimenticherò mai quel compagno giovanissimo, Gianfranco Mattei, che si impiccò in carcere per timore di svelare nomi e rifugi dei compagni ancora liberi.
Ora ho appreso il nome triste di Guantanamo; e ho visto - come milioni nel mondo - l’immagine di prigionieri irakeni torturati da militari americani: esseri umani con la testa e gli occhi serrati in un triste cappuccio e la parte bassa del corpo nuda, a mostrare parte del ventre, le spoglie gambe e quel luogo segreto del sesso che tanti moralisti nei secoli hanno usato chiamare le nostre «vergogne». E torna la riflessione su quella singolare condizione dell’umano che mischia il pensiero e la carne, la nostra infinita immaginazione e la nostra cruda debolezza corporale.
Qui, di colpo, il mio ragionamento si arresta, perché temo il ridicolo. Temo un ascoltatore che mi guarda e mi dice: «tu protesti per un prigioniero incappucciato o anche per un criminale mandato al patibolo, ma non t’avvedi che c’è una guerra che ormai dura da anni e fa migliaia di morti innocenti, devasta città, cancella strade, distrugge ospedali, mette a sacco nazioni?». Già. È così. E altre guerre si sono appena spente. Altre covano sotto la cenere. (...) Dopo due guerre mondiali, durate anni e anni, la guerra è tornata. Una guerra nuova: preventiva, ci spiega il capo del più grande impero mondiale, il quale ordina l’uccidere in massa per prevenire l’uccidere. Tutto questo in fondo noi tutti l’abbiamo accettato: sì, qualcuno protestando, ma l’abbiamo accettato. Non c’è stata ribellione: certo, non ribellione di popoli. Forse perché la guerra oggi sa truccarsi? O perché siamo reclusi ciascuno nel nostro nido di nazione?
Eppure, se vado indietro, lontano nei secoli, trovo ancora e sempre la guerra. E la vedo gradualmente ma potentemente allargarsi sino a coprire il mondo: la prima e poi la seconda volta, sino a produrre milioni di morti, e a inventare sistemi raffinati per razionalizzare l’uccidere legale, l’uccidere di massa.
Pietro Ingrao
ottobre 2007

«Sì, è quando la politica diventa gusto del dominio»
di Goffredo Bettini

Caro Pietro,
torniamo a parlarci per lettera, con il piacere di scavare interrogativi comuni (...) Ho cercato di ragionare attentamente sul tema della pena di morte, che tu poni con tanta crudezza. È solo una punizione sbagliata? O c’è qualcos’altro che chiama in causa una inesorabile tendenza degli esseri umani a uccidere i propri simili? Cosa soddisfa questa tendenza? Cosa tacita? Perché l’esempio del patibolo tranquillizza tante masse di benpensanti?
Ho l’impressione che nel togliere la vita, e nel sopravvivere, si lenisce una profonda paura della propria morte, che ognuno, consapevolmente o inconsapevolmente, prova dal momento in cui viene al mondo. Noi veniamo dal nulla, e torniamo nel nulla. Eppure nell’arco dell’esistenza, con il nostro pensiero possiamo immaginare ripetuti all’infinito i piaceri della vita. I suoi colori, i suoi amori, le sue passioni, le sensazioni che attraversano il nostro corpo. Quel corpo si deteriora. Carcassa destinata a finire. Questa contraddizione, se pensata, risulta insopportabile. Il nostro animo si arrovella per renderla meno stringente e lancinante. La rimuove. Oppure, beati coloro che ci riescono, abbraccia una fede: che qualcosa continua, che la vita si trasforma da terrena in celeste.
Tuttavia l’assurdità di questa condizione rimane viva in tutti nelle parti più nascoste. Ci sono parole bellissime del cardinal Martini, che la illumina, con l’intensità di uno spirito religioso. Ci illudiamo, talvolta, di combattere e sconfiggere il nostro limite, lasciando ai posteri qualche segno della nostra immortalità. La politica, allora, si presta al gioco. Da tecnica «regia» che coordina le altre tecniche per migliorare l’esistenza delle comunità, secondo giustizia e un disegno razionale, deborda. Si innamora di se stessa. Diventa gusto e ostentazione di forza, non solo al servizio di un riequilibrio talvolta necessario, ma per il gusto del dominio. Da qui sono nate molto tragedie. Il dominio spesso tende a farsi assoluto. La potenza si gonfia fino a simulare la mano e la volontà di Dio. L’uomo mima Dio. E in quella messa in scena, esso spera di allontanare la morte e di difendersi dall’angoscia che il suo pensiero condensa. Dare la morte è il punto massimo di vicinanza a quel potere assoluto. Elias Canetti descrive la soddisfazione del «sopravvissuto». La morte dell’altro come conferma della propria vita. E James Hillman riflette sull’attrazione che suscita la guerra; come nelle battaglie, guardando in faccia la morte e attraversandone concretamente la paura, il soldato, sollevato da un vincolo interiore, si sente più libero, pronto ad atti eroici, o all’espressione di sentimenti di amicizia, d’amore, di solidarietà, i quali, nella vita normale, difficilmente riesce a provare.
Tutto questo ci dice, caro Pietro, come sia difficile la ricerca di una politica che cambi le cose e sappia limitarsi, che rivoluzioni senza poi ossificarsi, che elimini i carnefici senza crearne altri, che crei reti di comunicazione e solidarietà invece che gerarchie, magari rassicuranti, ma oppressive, che faccia prevalere nell’umano l’energia positiva della vita, invece che l’istinto di morte per paura della morte.
Se il Novecento è stato attraversato dalla grande politica, oggi sembra soverchiante l’antipolitica. Si dice che la politica stia invadendo tutto. Forse. Ma per eccesso di forza o per debolezza? La ricerca del potere per il potere, credo sia la dimostrazione di un’ansia e di una insicurezza del «politico» a fronte di tante potenze di fatto che sostanzialmente governano il mondo. Si cerca così di accaparrare uno spazio personale, ma cade l’ambizione del progetto e di un coordinamento più alto. E i politici, sensali di giornata, rinunciano all’egemonia, alla qualità, alla creatività, necessarie per tenere insieme una comunità.
Non resta che riporre una fiducia cieca e interessata nella rapidità dello sviluppo della tecnica e della scienza, sperando che esso sia più veloce del degrado che l’azione umana determina. Come nel caso dell’ambiente, che apre una domanda seria sulle capacità e volontà della nostra specie di curare la propria esistenza e sopravvivenza. Trionfano il nichilismo e l’assenza del soffio umano nelle decisioni. La combinazione delle cose è determinata dagli interessi; la misura è la quantità; la forza fa il merito delle cose e tacita lo spirito critico. Non abbiamo ancora valutato (tu sì, anche un po’ troppo solitariamente) quanto la guerra dell’Irak sia stata in questo senso uno spartiacque. Gli Usa hanno deciso una guerra illegale, l’hanno motivata con la presenza di armi chimiche che poi si è verificato non esserci mai state, hanno bombardato città e ucciso civili, donne e bambini, e hanno torturato i prigionieri. Bene. Io sono contento che sia stato tolto di mezzo l’odioso Saddam, come criminale di guerra. Ma lì il criminale non era solo lui. Tranne inchinarsi senza ritegno alle ragioni dei vincitori.
Ma ancora. Ci disperiamo per la Birmania. Ma non tocchiamo la Cina. Anzi, quando la visitiamo per accordi commerciali, stiamo attenti a non infastidirla parlando troppo dei diritti civili. Perché la Cina è forte, ricca, conveniente. La verità è che siamo anime belle solo con chi ha poca possibilità di farci pagare prezzi veramente salati. (...)
Con affetto e gratitudine,
tuo Goffredo

Repubblica 10.11.07
La memoria del male e l’identità dell’Europa
di Tony Judt


PER quanto nazismo e comunismo fossero completamente diversi negli obiettivi (anche se, come diceva Aron, «c´è differenza tra una filosofia dalla logica mostruosa e una filosofia alla quale può essere data un´interpretazione mostruosa»), si tratterebbe di una magra consolazione per le vittime. Le sofferenze umane non dovrebbero essere misurate sulla base dei fini perseguiti da chi le ha inferte. Insomma, per chi è stato maltrattato o ucciso, un gulag comunista non è né meglio né peggio di un campo di concentramento nazista.

Allo stesso modo, l´importanza assegnata ai "diritti" (e a un risarcimento per chi ne ha subìto la violazione) dal moderno diritto internazionale e dalla retorica politica ha fornito un ottimo argomento a chiunque sia convinto che le proprie sofferenze e perdite non siano state adeguatamente riconosciute e risarcite. In Germania alcuni conservatori, prendendo spunto dalla condanna internazionale della "pulizia etnica", hanno espresso le rivendicazioni delle comunità tedesche espulse dalle proprie terre alla fine della seconda guerra mondiale. Per quale motivo, domandano, dovrebbero essere considerate vittime di categoria inferiore? Quale differenza c´è tra ciò che Stalin aveva fatto ai polacchi o, più recentemente, Milosevic agli albanesi, e ciò che il presidente della Cecoslovacchia Benes aveva fatto ai tedeschi dei Sudeti dopo la fine della seconda guerra mondiale? Nei primi anni del nuovo secolo, in alcune rispettabili cerchie si parlava di erigere a Berlino ancora un altro monumento: un "Centro contro le espulsioni" museo dedicato a tutte le vittime delle pulizie etniche.
Quest´ultimo sviluppo del dibattito – con la sua implicita tesi che tutte le forme di sofferenza e oppressione collettiva sono in sostanza paragonabili, addirittura intercambiabili, e deve quindi essere loro accordata la medesima memoria – ha suscitato un´aspra reazione da parte di Marek Edelman, l´ultimo leader della rivolta del ghetto di Varsavia ancora in vita, che, nel 2003, firmando una petizione contro la creazione del sopra menzionato centro, ha esclamato: «Hanno davvero sofferto così tanto? Ovviamente, è una cosa molto triste essere cacciati fuori di casa ed essere costretti ad abbandonare la propria terra. Ma gli ebrei hanno perso le case e tutti i parenti. I trasferimenti forzati sono causa di sofferenze, ma il mondo è pieno di sofferenza» (Tygodnik Powszechny 17 agosto 2003).

La reazione è un tempestivo e opportuno richiamo ai rischi che si corrono indulgendo in maniera eccessiva al culto della commemorazione e ponendo al centro dell´attenzione le vittime anziché i colpevoli. Da un lato, non esiste in teoria limite alle memorie e alle esperienze degne di esser ricordate e richiamate in superficie. Dall´altro, commemorare il passato con monumenti e musei è anche un modo per tenerlo sotto controllo e persino per trascurarlo, lasciando ad altri la responsabilità di conservarne la memoria. Sino a che ci sono state persone che avevano ancora un autentico ricordo, per diretta esperienza individuale, la cosa non ha probabilmente rappresentato un problema. Ma ora, come l´ottantunenne Semprun ha ricordato ai compagni di prigionia il 10 aprile 2005, in occasione del 60º anniversario della liberazione di Buchenwald, «il ciclo della memoria vivente si sta chiudendo».
Anche se l´Europa potesse in qualche modo rimanere indefinitamente aggrappata a una memoria vivente dei crimini passati (che è proprio quanto i monumenti e i musei hanno lo scopo di ottenere, per quanto inadeguatamente), la cosa avrebbe ben poco senso. La memoria è, per sua stessa natura, polemica e faziosa: il riconoscimento di un uomo significa l´omissione di un altro. Ed è anche una guida mediocre per orientarsi nel passato. L´Europa dell´immediato dopoguerra è stata costruita e si è fondata su una deliberata distorsione della memoria, sull´oblio come stile di vita. Dopo il 1989, è stata invece riedificata su un eccesso compensativo di memoria: una rammemorazione pubblica istituzionalizzata come pilastro fondante dell´identità collettiva. La prima non ha potuto durare a lungo, ma anche la seconda non è destinata a molto di più. Un certo grado di omissione e persino di oblio è presupposto essenziale per la salute civica.
Ciò non significa invocare un´amnesia. Prima di poter iniziare a dimenticare, una nazione deve aver ricordato qualcosa. Sino a quando i francesi non hanno preso coscienza di ciò che realmente fu Vichy – e del modo alterato in cui avevano scelto di ricordarla – non hanno potuto mettersela alle spalle e procedere. Lo stesso vale per i polacchi e la loro tortuosa memoria degli ebrei un tempo vissuti in mezzo a loro. Soltanto compreso e assimilato l´orrore del passato nazista (un processo sessantennale di negazioni, istruzione, dibattito e consenso), i tedeschi hanno potuto iniziare a convivervi, ossia a metterselo dietro le spalle.
In tutti questi casi, strumento del ricordo non è stata la memoria. È stata la storia, in ambedue i significati: come passaggio del tempo e, soprattutto, come studio professionale del passato. Il male, in particolare quello compiuto dalla Germania nazista, non potrà mai esser ricordato in maniera soddisfacente. La stessa enormità del crimine rende necessariamente incompleta ogni forma di commemorazione. La sua intrinseca non plausibilità – la pura e semplice difficoltà di concepirlo in calma retrospettiva – apre le porte alla minimizzazione e persino alla negazione. Impossibile da ricordare nella sua autentica realtà, appare facilmente vulnerabile alla possibilità di essere ricordato come invece non fu. Contro questa minaccia, la memoria non può nulla: «Soltanto lo storico, con la sua austera passione per i fatti, le prove e le testimonianze, ossia gli strumenti fondamentali del suo lavoro, può mantenere la guardia con efficacia».

A differenza della memoria, che conferma e rafforza se stessa, la storia contribuisce al disincanto. Quasi tutto ciò che ha da offrire è sconfortante, addirittura devastante, il che spiega perché non sia sempre politicamente prudente sbandierare il passato come arma con la quale bastonare un popolo per le sue precedenti colpe. Ma la storia dev´essere imparata, e periodicamente imparata di nuovo. Una famosa barzelletta dell´era sovietica calza davvero a proposito: un ascoltatore chiama Radio Armenia e domanda: «E´ possibile prevedere il futuro?». Risposta: «Sì, nessun problema. Sappiamo esattamente come sarà il futuro. Il nostro problema è il passato: continua a cambiare».
E´ proprio così, e non solo nelle società totalitarie. Allo stesso tempo, l´indagine rigorosa sui diversi e contrastanti passati dell´Europa – e sul posto che occupano nella coscienza collettiva – è stata una straordinaria impresa e fonte, per quanto poco riconosciuta, della stessa unità europea negli ultimi decenni. È, tuttavia, un risultato i cui effetti sono destinati a scomparire se l´opera non viene continuamente rinnovata. La barbara storia recente dell´Europa, l´oscuro "altro" allontanandosi dal quale si è costruito il dopoguerra, è già lontana, al di là di un ricordo diretto per la maggior parte dei giovani. Nel giro di una generazione, i monumenti e i musei inizieranno a ricoprirsi di polvere, visitati, come oggi i campi di battaglia del fronte occidentale, soltanto da appassionati e parenti dei protagonisti.
Se nei prossimi anni vogliamo continuare a ricordare perché è sembrato così importante costruire un certo tipo di Europa dalle macerie dei forni crematori di Auschwitz, soltanto la storia può venirci in aiuto. La nuova Europa, tenuta insieme dai segni e dai simboli del suo terribile passato, è un´impresa straordinaria, ma rimane per sempre vincolata da un´ipoteca a questo passato. Se gli europei vogliono davvero mantenere questo legame vitale – se si vuole che il passato dell´Europa continui ad avere un significato di ammonizione e un valore morale – , esso dovrà essere insegnato a ogni nuova generazione. L´"Unione" europea può essere una risposta alla storia, ma non potrà mai prenderne il posto.
©2007 Arnoldo Mondadori Editore

Repubblica 10.11.07
Il Paese senza confessione
di Giancarlo De Cataldo


Lo straordinario business dei pellegrinaggi cresce del venti per cento all´anno Aerei selezionati, conventi a cinque stelle. E l´extraterritorialità consente guadagni esentasse

Da Cogne a Perugia, passando per Erba e Garlasco, l´Italia sta diventando un paese dove nessuno confessa più. Capita spesso, nei romanzi di Georges Simenon, che a un certo punto, di solito verso il finale, Maigret e i suoi collaboratori si chiudano in un ufficio sul Quai des Orfévres.
Assistiti da vassoi di robusti panini e birre dalla vicina "Brasserie Dauphine", i valorosi poliziotti procedono ad interrogare ad oltranza il sospetto di turno. Finché, nel cuore della notte brumosa o in una luminosa alba parigina, non risuona il fatidico grido: "Ha confessato!". Allora, e solo allora, i bravi sbirri aprono le finestre per arieggiare il locale impregnato dell´acre odore di fumo, sudore e paura che è il marchio olfattivo della giustizia, raccattano gli incartamenti, affidano il colpevole, ormai confesso, al suo futuro domicilio a sbarre e vanno a godersi il meritato riposo. Solo a confessione ottenuta.
Eppure, contro la confessione milita il pregiudizio storico dovuto all´uso distorto che di questo istituto si è fatto nel corso del tempo. Si evocano, di solito, al riguardo, le torture della Santa Inquisizione e i processi-farsa staliniani. Da quando "tortura" è diventata parola impronunciabile, i poteri che continuano ad avvalersene, si mascherano dietro locuzioni politicamente meno scorrette: interrogatori "straordinari", mezzi di persuasione "decisi", "interventi" atti ad ottenere la "collaborazione" del sospetto, e via dicendo. Dietro il pudore linguistico si cela il tratto comune di ogni torturatore: la fede cieca in una finalità "superiore" che tollera e anzi incoraggia la violazione dei diritti più elementari: la salvezza dell´anima o del comunismo, la difesa, anche "preventiva", da un nemico esterno. Ottenuta con simili sistemi, la confessione, qualunque confessione, non ha e non può avere alcun valore.
Ma i poliziotti di Simenon non sono dei torturatori. E i rei confessano senza giri di corda né scosse elettriche. Anche quando non ce ne sarebbe bisogno, anche quando le prove sono schiaccianti. Ma allora perché tanto accanimento, se non si tratta di salvare la Chiesa, il Partito o la Democrazia? Il fatto è che, grazie alla confessione, il cerchio è chiuso. L´inquisitore può dormire sonni tranquilli. La confessione, in una parola, è rassicurante. Alla fine, se c´è confessione, c´è ordine. E non solo. Se sincera, se vissuta come esigenza "morale" del colpevole, la confessione avvince investigatori e investigati in un caldo senso di appartenenza a un sistema condiviso di valori. I vecchi pregiudicati, nel loro linguaggio franco e icastico, non "espiavano" la pena. La "pagavano". Questo tipo di confessione, l´unica compatibile con un assetto democratico della giustizia, oggi, praticamente, non esiste più.
A voler andare all´osso del fenomeno, si potrebbe dire, semplicemente, che non conviene. I sistemi processuali positivi tendono a trasformare la tensione etica dell´accertamento della verità in sfida, gara, competizione. Lo Stato della California contro mister O.J. Simpson, e vinca il più forte. Non necessariamente il migliore. Il più forte. Il più abile nello scontro dialettico, o semplicemente, il più fornito di adeguati mezzi finanziari. Nato dall´esigenza di limitare lo strapotere dell´accusa, questo modello processuale, ormai dominante, si è, nel tempo, a sua volta modificato, trasformato, imbastardito. Un confronto fra forze contrapposte può funzionare solo se c´è condivisione almeno delle regole essenziali. Ma chi lotta per la sopravvivenza è incline a considerare le regole carta straccia. Specie se ha il potere - e i mezzi - per farlo.
A metà degli anni Sessanta Jimmy Hoffa, leader sindacale in odor di mafia, tenne in scacco per un lunghissimo periodo la giustizia americana. Più avanti nel tempo, grandi gruppi criminali e potentati economici hanno ottenuto significativi trionfi sostituendo, alla strategia di difesa nel processo, la difesa dal processo. In casi disperati, quando tutto sembrava perduto, si è agito sulle leggi. A volte, le leggi hanno agito, più o meno consapevolmente, a favore del vilain: restano indimenticabili le espressioni di giubilo dei mafiosi intercettati all´indomani dell´entrata in vigore dell´attuale codice di procedura penale. Lo spettacolo della progressiva, crescente inerzia della giustizia non poteva non produrre effetti di massa. Il più umile e inesperto assassino di paese è legittimato a chiedersi se quelle stesse strategie di impunità che tanto hanno giovato ai potenti non potrebbero, in fondo, essere utilmente sfruttate anche da lui.
In un sistema che garantisce all´imputato il diritto, a un tempo, di tacere, mentire, ritrattare, una richiesta di confessione equivale all´istigazione al suicidio. C´è sempre la speranza che una prova sia dichiarata nulla. C´è sempre una battaglia di perizie da ingaggiare. Quanto alla "società civile", a stare a interviste, blog, prese di posizione e via dicendo, la si direbbe equamente divisa fra il gusto del linciaggio e l´ammirazione per chi, nonostante tutto, riesca a scampare al castigo. Il quale castigo non si vede perché debba essere definito "meritato". La nostra percezione sociale del crimine si avvia a sfuggire al criterio morale, e naviga veloce verso un approdo squisitamente estetico. Non parteggiamo per i "buoni" in quanto tali, sarebbe fin troppo ovvio. Semmai, sono i belli che ci attraggono. I belli, i simpatici, i piacioni, quelli che sanno piangere in modo convincente, o che come tali ci vengono presentati. È un lombrosianesimo mediatico che ci spinge al giudizio sommario: alla forca il brutto rumeno, libero l´angelico ragazzotto. Gli sbirri di Maigret possono mettersi l´animo in pace. L´ineluttabile futuro è il televoto.

Repubblica 10.11.07
Turisti in nome di Dio un affare da 5 miliardi di euro
di Curzio Maltese


Dal blog di papa Ratzinger, ufficioso ma benedetto dal Santo Padre, si legge: «Nell´era del low cost, l´Opera Romana Pellegrini si adegua. La ricerca di Dio si affida a voli rigorosamente a basso costo. Il Boeing 707-200 della flotta Mistral, fondata nel 1981 dall´attore Bud Spencer, e ora targato Orp, è decollato il 27 agosto da Roma con destinazione Lourdes.
I pellegrini, 148 fra i quali l´invitato Luciano Moggi, hanno intrapreso il viaggio spirituale supportati da una guida d´eccellenza: il cardinale Camillo Ruini. Il rettore della Pontificia Università Lateranense ha elargito la sua benedizione ai devoti. All´ingresso, le hostess in completo giallo e blu, spilla del Vaticano e fazzoletto giallo al collo, accolgono i passeggeri e li accompagno al posto. Sul poggiatesta si legge: "Cerco il tuo volto Signore"».
È nato insomma con un lancio pubblicitario in grande stile l´accordo fra il Vaticano e la Mistral nel settore del turismo della fede. Per una «ricerca di Dio con voli rigorosamente a basso costo», la Chiesa si affida al testimonial Luciano Moggi, all´epoca già rinviato a giudizio, e alla chiacchierata compagnia delle Poste Italiane. La Mistral, fondata da Bud Spencer e salvata durante il governo Berlusconi con un´operazione giudicata fuori mercato perfino da alcuni parlamentari della destra e ancora oggi avvolta nel mistero. Un´interrogazione del deputato di An Vincenzo Nespoli sul perché le Poste sborsavano fino a quindici volte il valore nominale delle azioni Mistral, per fare oltrettutto concorrenza all´Alitalia in crisi, non ebbe mai risposta dal governo.
Il patto fra Mistral e Opera Romana Pellegrinaggi per trasportare il primo anno 50 mila pellegrini italiani verso i santuari d´Europa e Terra Santa, con la previsione di arrivare a 150 mila nel 2008 (centocinquantesimo anniversario dell´apparizione di Fatima) non è che la punta dell´iceberg di un affare gigantesco: il turismo religioso. Quasi sempre esentasse.
Il turismo è il primo settore commerciale del mondo per espansione, terzo per margini di profitti dietro il petrolio e il traffico di armi. In Italia, una delle principali mete del pianeta, la chiesa cattolica è di gran lunga il dominus del settore. Secondo l´indagine Trademark la chiesa cattolica controlla ogni anno un traffico di 40 milioni di presenze, 19 milioni di pernottamenti, 250 mila posti letto in quasi 4 mila strutture. Il volume d´affari supera i 5 miliardi di euro all´anno, il triplo del fatturato dell´Alpitour, primo tour operator italiano. In cima alla piramide organizzativa del turismo cattolico sta l´Opera Romana Pellegrinaggi, che ha convenzioni con 2500 agenzie e una rete con migliaia di referenti sul territorio.
L´Opr è presieduta da Camillo Ruini, Vicario di Roma, con Liberio Andreatta già amministratore delegato e ora vice presidente, alle dirette dipendenze della Santa Sede. A fianco dell´Opr svolge un ruolo importante l´Apsa, l´amministrazione patrimoniale della Santa sede, che gestisce gli immobili della Chiesa e spesso gli utili alberghieri. Entrambe le società hanno sede nella Città del Vaticano, godono dunque di un regime di extraterritorialità che significa in pratica non dover presentare bilanci e sfuggire alle leggi italiane in materia fiscale, di igiene, prevenzione eccetera.
In più, in tutte le convenzioni fra l´Orp e i clienti, esiste un comma (16) che rimanda «per tutte le eventiali controversie» alla «legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano». E qual è la legge fondamentale della Città del Vaticano? Questa, che su qualsiasi controversia legale, civile o penale, l´ultima parola spetta al Papa. Il turista cattolico o no, ma in ogni caso al novanta per cento cittadino italiano, che volesse reclamare contro il servizio offerto, dovrebbe dunque aspettare la parola definitiva del Santo Padre. Nonostante questo, lo Stato italiano favorisce in vari modi l´Orp, patrocinata anche dal ministero delle Comunicazioni.
L´extraterritorialità del resto è una regola piuttosto diffusa per le attività commerciali della Chiesa, come nella sanità privata. L´ospedale pediatrico romano del Bambin Gesù, per fare un esempio, notissimo ai genitori della capitale, riceve numerosi finanziamenti statali e della Regione Lazio. Ma né l´amministrazione statale né quella regionale hanno il potere di rivedere gli accordi col Bambin Gesù perché ogni modifica deve essere trattata direttamente dal ministro degli esteri con il Vaticano.
In un settore ricco e in forte espansione come il turismo, l´extraterritorialità si traduce in un formidabile ombrello fiscale. Non si tratta soltanto dell´Ici non pagata per alberghi, ristoranti, bar di proprietà degli enti ecclesiastici. Ma anche del mancato gettito di Irpef, Ires, Irap e altre imposte. Su questo lungo elenco di privilegi fiscali, non soltanto sull´Ici, la commissione europea ha chiesto da tempo chiarimenti al governo italiano. I lavoratori delle «case religiose», sempre più spesso veri e propri alberghi rintracciabili sul circuito commerciale normale, sono spesso suore o preti o volontari o legati da contratti anomali di collaborazione. Quindi la Chiesa non deve pagare le imposte sul lavoro dipendente.
Nel sito della Cei, a questo proposito, si legge negli ultimi tempi una ricorrente lamentela per il fatto che, visti gli indici di crescita, la catena turistica religiosa deve ricorrere sempre più spesso al personale «esterno». «Personale esterno non garantisce le stesse prestazioni» di suore e preti, pretende di essere pagato per gli straordinari e cerca di introdurre tutele sindacali. Sia pure con i limiti enormi di libertà imposti dalla giurisdizione pontificia.
I privilegi fiscali della Chiesa si traducono in un vantaggio sulla concorrenza e nella possibilità di praticare prezzi fuori mercato. Se il settore turistico cresce ovunque in Italia, l´espansione di quello religioso ha tratti spettacolari, con un aumento di quasi il venti per cento all´anno.
Nel volgere di quattro o cinque anni il volume d´affari potrebbe sfondare il tetto dei 10 miliardi di euro. Non si tratta soltanto di turismo «povero» o «low cost». «Sono ormai un centinaio i monasteri-alberghi entrati nei network Condè-Nast, Relais & Chateaux o Leading Hotel of the world» scrive il Sole 24 Ore. Ma si tratti di due, tre, quattro o cinque stelle, i prezzi sono sempre inferiori alla concorrenza, grazie alle minori spese.
Abbiamo parlato nelle puntate scorse dell´hotel delle Brigidine, 190 euro a notte, ma in una zona dove un quattro o cinque stelle costa quasi il doppio. I casi soltanto nella capitale sono decine. Dai Carmelitani di Castel Sant´Angelo, che offrono camere con frigobar, tv satellitare e aria condizionata a 120 euro, fino ai «tre stelle» a 60 o 70 euro. La spendida abbazia di Chiaravalle alle porte di Milano costa 300 euro, ma è un cinque stelle a tutti gli effetti. Lo stesso vale per le celebri Orsoline di Cortina e per il monastero di Camaldoli nell´aretino, mete di turismo intellettuale, culturale e politico d´alto bordo.
Se si scende al livello del turismo di massa, i prezzi calano ma il fatturato esplode. E lo stato italiano favorisce in ogni modo. Con le esenzioni e con i finanziamenti diretti. I 3.500 miliardi di lire versati dall´erario alla Chiesa per il Giubileo sono serviti in buona parte a riorgazzare la rete di accoglienza turistica. Ma quella pioggia di soldi non si è mai davvero fermata. In varie forme, governo ed enti locali continuano a sovvenzionare la rete alberghiera religiosa. Per il rilancio dell´antica Via Francigena, che nel medioevo collegava Roma a Canterbury, l´ultimo finanziamento statale è stato di 10 milioni di euro.
Ma bisogna aggiungere le centinaia di contributi degli enti locali. Visto il successo, l´Orp ha deciso di rilanciare anche altri pellegrinaggi: il Commino di Sigerico, da Milano a Roma; la Via dell´Est, che da Venezia attraversa Romagna e Umbria; l´antico cammino del Sud da Roma a Otranto. L´ultimo con un passaggio d´obbligo al santuario di San Giovanni Rotondo, il cui boom turistico ha messo di gran lunga in secondo piano le recenti rivelazioni sui dubbi di Giovanni Paolo XXIII a proposito della santità di Padre Pio, i suoi rapporti con le fedeli e l´origine reale delle stimmate.
In tutti questi progetti non c´è stato comune o provincia o regione o comunità montane, governata da destra o da sinistra, che non si sia accollata finanziamenti, agevolazioni fiscali, oneri di ristrutturazione.
Non stupisce insomma che l´Opera Romana Pellegrinaggi allarghi di settimana in settimana il raggio d´azione. Il 2007 è stato l´anno dei voli della fede in Europa e Terra Santa. Il 2008 sarà l´anno dello sbarco nel mercato americano con il progetto «Christian World Tour». «Fra il 2008 e il 2009 - dichiara l´amministratore delegato dell´Orp, padre Cesare Atuire - i progetti saranno estesi all´America Latina e all´Oriente, in particolare Cina, India e Filippine». Tutto «rigorosamente low cost».
(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)

Repubblica 10.11.07
La bussola di Foa
di Simonetta Fiori


L´ultima "mossa del cavallo" s´intitola Le parole della politica, una sorta di bussola civile quanto mai preziosa in tempi di confusa antipolitica. A novantasette anni Vittorio Foa non rinuncia a sorprenderci consegnando a Einaudi - che le pubblicherà a gennaio con la cura di Federica Montevecchi - alcune note essenziali sul significato ultimo del far politica («Pensare agli altri: solo l´altro dà un senso alla nostra identità»). Un significato che appare ormai perduto, travolto da un inutile flusso di parole vuote. Perché la parole della politica appaiono senza senso, sotto il berlusconismo ma anche in tempi correnti? «Una caratteristica dell´irrilevanza dei discorsi di oggi è che l´interlocutore non ha più importanza. La parola è un impegno verso qualcuno, verso qualcosa: quando l´interlocutore non è considerato o non c´è, la parola è nel vento». La scomparsa dell´interlocutore, a destra come a sinistra.
Foa interpreta il "berlusconismo" come un germe capace di infettare tutti indistintamente, dunque anche a sinistra, specie «nella incredibile corsa verso i posti, cioè verso il danaro». Più che la retorica sui valori, conta l´esempio. «Mi colpisce il fatto che dell´esempio non si parla mai, anzi non esiste come categoria di giudizio del proprio e dell´altrui comportamento: eppure sappiamo che tutto viene da lì». Scritto nella casa di Formia, questo denso baedeker restituisce nitidamente il profilo d´un grande saggio che continua a guardare avanti, senza arrendersi. Per Foa la politica è stata sempre "ricerca", sentirsi insieme agli altri. «Forse il degrado della politica e delle sue parole sta proprio nell´agire pensando di essere soli, e nel pensare solo a se stessi». Il tono è pacato, la sostanza grave.

Repubblica 10.11.07
Quando comincia il Novecento: Emilio Gentile contesta lo storico inglese
Il Secolo breve? Hobsbawm sbaglia
di Simonetta Fiori


Ma tra le icone simboliche figura Peter Pan, contrario al cambiamento
Il nuovo evo inaugurato da Freud e Nietzsche: la modernità è di per sé apocalittica

«Novecento come secolo breve? È un´invenzione che non regge». Comincia da qui, dal rifiuto d´una periodizzazione ormai convenzionale inaugurata da Eric J. Hobsbawm nel suo The short twentieth century (1914-1991), la lezione-show del professor Emilio Gentile, pioniere della nuova serie di conferenze laterziane quest´anno dedicate al XX secolo. Ma se "corto" non va bene, neppure "lungo" gli si adatta. Bocciati dunque anche Charles Mayer e Giovanni Arrighi, che fissano intorno al 1870 gli albori del nuovo secolo.
Quando comincia il Novecento? Come tutte le domande semplici, anche questa nasconde delle insidie. «Sarebbe sbagliato farlo partire dal 1914, come propone il grande storico marxista», spiega Gentile. «Egli raffigura il Novecento come "l´età degli estremi" - questo è anche il titolo del suo lavoro - ossia come un lungo e tormentato conflitto tra nazifascismo, comunismo e capitalismo reso possibile dalla Grande Guerra che mette fine al vecchio mondo. Ma fissando il principio in quella data, si perdono le premesse fondamentali della deflagrazione bellica». Per coglierne appieno i prodromi, bisogna tornare indietro, «quando affiora la consapevolezza che qualcosa di nuovo e terribile sta per accadere. E questa sensibilità frammista di paura e speranza nasce proprio nel 1900 o al più tardi nel 1901. «Se abbiamo bisogno di due effigi simboliche per inaugurare il Novecento, ci soccorrono i busti di Sigmund Freud, autore nel 1900 di Le interpretazioni dei sogni, e di Friedrich Nietzsche, morto in quello stesso anno. Entrambi incarnano il significato fondamentale del nuovo secolo: la consapevolezza che la modernità è per sua essenza apocalittica, proprio perché sintesi di concezioni opposte e incompatibili dell´uomo e della vita». Una condizione antagonista e conflittuale che scuote la stessa coscienza individuale. «Altro medaglione emblematico è quello di Thomas Mann, che combatterà il nazismo nutrendo in sé le medesime componenti decadenti».
La modernità come sintesi tra vecchio e nuovo, tra razionale e irrazionale, tra individuo e massa, tra libertà e autorità. Pian piano ci si avvicina al gorgo di contraddizioni che inghiotte la storia novecentesca fino al suo epilogo, ma appare ben disegnato sin dagli albori. Come inoltrarsi in un arazzo intessuto di chiaroscuri, la luce del progresso e la tenebra della guerra, il nitore del floreale liberty e la disgregazione futurista, l´elettrizzante ballo Excelsior e l´annuncio sacrificale con Stravinsky, la scienza ottocentesca che tutto spiega e la teoria della relatività di Einstein che insieme ai "quanti" di Max Planck mette in crisi l´idea stessa d´una conoscenza razionale di leggi immutabili. Il XX secolo come cognizione del dolore palingenetico, della catastrofe quale necessaria apocalisse che apre al mondo nuovo. I paesaggi devastati di Ludwig Meidner ne sono il sigillo artistico. «Catastrofe è una parola chiave del Novecento», spiega lo studioso, non solo nel senso di sciagura ma in chiave aristotelica di rinnovamento, di profondo mutamento. «In fondo tutto il secolo è segnato da una reiterata catastrofe». Da Giovanni Pascoli ad Alexander Blok, nella poesia di tutta Europa riluce la Cometa di Halley, comparsa nei cieli del 1910 quale profezia dell´ignoto che avanza. Ma c´è anche chi si oppone ostinatamente al nuovo, rifiutandosi di crescere. E tra le dotte citazioni di Gentile fa capolino Peter Pan, l´eterno adolescente creato da James Matthew Barrie nel 1904, simbolo d´una umanità che si sottrae alla responsabilità del cambiamento.
Il 1901 è anche l´anno in cui scompare la regina Vittoria: con lei comincia il declino dell´universo di teste coronate. Ma il laboratorio del conflitto novecentesco è più che altrove l´Italia. «Al regicidio di Umberto I che dà avvio al secolo segue non un´involuzione reazionaria ma la più lunga stagione liberale che però si conclude con la settimana rossa, periodo tra i più rivoluzionari in Europa alla vigilia della Grande Guerra». Se anche per la storia esistesse la rubrica del "chi sale chi scende", nel 1912 declina Giolitti settantenne e comincia la sua ascesa un esuberante socialista romagnolo non ancora trentenne (un film del Luce mostra un inedito Mussolini con vesti e andatura borghesi). Si brinda al Novecento con le parole d´ordine del positivismo razionalistico e dopo pochi anni le nuove generazioni sono conquistate dal furore futurista e nazionalista. «Lo stesso Croce», postilla Gentile, «nel 1907 condanna come malattia morale il misticismo e l´irrazionalismo, ma l´anno successivo scrive l´introduzione alle Considerazioni sulla violenza di Georges Sorel, che di quelle tendenze è un maestro». L´Italia nel 1907 riceve il Nobel della Pace con Ernesto Teodoro Moneta, ma la maggior parte degli italiani vuole la guerra. È il trionfo della contraddizione.
Ed è facendosi largo tra pulsioni opposte, che ci si imbatte in umori non lontani dalla sensibilità di questo inizio XXI secolo. La democrazia produce noia, e la noia provoca ribellione. «S´afferma una generazione che sogna la guerra e la rivoluzione, mentre condanna la stabilità come fattore di noia e putrefazione. L´antiparlamentarismo nasce anche da lì, e attraversa tutta la cultura dell´epoca. Da Prezzolini ad Amendola e Salvemini, esplodono gli umori dell´antipolitica, in qualche caso per avere una democrazia più funzionante. Fu Salvemini a inventare per Giolitti l´epiteto di "ministro della malavita", ma poi si ricrederà: per creare il paradiso in terra si salta il purgatorio e si produce l´inferno». Continuando nel gioco delle analogie tra gli albori del secolo scorso e dell´attuale, ecco la rinascita del fervore religioso che reagisce alla morte di Dio sanzionata dall´Ottocento. «Una sensibilità vicina a fenomeni contemporanei: la rinuncia alla libertà della razionalità e il ritorno all´autorità della fede». Se il sentimento di catastrofe segna la nascita del Novecento, una catastrofe in diretta televisiva ha introdotto il nuovo secolo. La storia che si ripete? «No, la storia come una giostra in cui non cambiano i cavalli ma chi li cavalca. Tutti sono convinti di andare da qualche parte, ma tornano sempre al punto di partenza».

Corriere della Sera 10.11.07
Esce una riflessione del pensatore francese su Jean-Luc Nancy
Derrida, se la filosofia è questione di tatto
di Armando Torno


La filosofia non ama le scritture scontate. Da Kant in poi ha capito che può anche permettersi di essere poco ossequiosa con le regole grammaticali. Nel secolo scorso ha scoperto che le verità non sono figlie della logica, meno che mai della ragione. Per tal motivo Heidegger ha utilizzato le sue considerazioni etimologiche come una sonda lanciata nell'ignoto del linguaggio; per analoghe strade ha camminato Jacques Derrida, il filosofo francese che, soprattutto a partire dagli anni '80 del secolo scorso, ha dato vita a interrogazioni decostruttive sempre più mirate.
Derrida è morto nel 2004, aveva 74 anni. Nel 2000 pubblicò, elaborando un contributo del 1993, un volume dai percorsi fascinosi, nel cui titolo era racchiuso l'omaggio a un collega (e discepolo) più giovane: Toccare, Jean-Luc Nancy. Il libro è ora tradotto in italiano da Andrea Calzolari, con una serie di soluzioni linguistiche felici (Marietti 1820, pp. 408, e 35). Leggere il pensiero di Nancy sotto l'aspetto del tatto, attraverso i diversi significati che la parola ha assunto nella cultura occidentale, sembrerà a taluni un assurdo. Invece si rivela una soluzione feconda: l'opera incentrata sul giovane filosofo mette a confronto la sua scrittura con le tesi classiche attraverso numerose digressioni. Nel volume di Derrida, in altri termini, c'è Nancy ma vi trovate anche Aristotele; ci sono inoltre Descartes, san Giovanni della Croce, il Nuovo Testamento, l'immancabile Kant, Husserl, Lévinas, Heidegger. Insomma, c'è la linea «franco-tedesca» che si interroga e chiama in causa Nancy in nome del tatto.
Toccare, gran bella cosa. Se Aristotele per spiegare questo gesto essenziale evoca la doxa, l'opinione, e poi deve ricorrere all'anima per meglio focalizzarne gli effetti, Derrida annota accanto alle mille considerazioni: «Il tatto è dunque una questione di vita o di morte». Toccare significa peccato, redenzione, conoscenza, nonché vedere meglio. Scrive Husserl: «L'occhio che guarda l'oggetto, insieme lo palpa, per così dire». Ne nasce un'opera da meditare, che non si riduce «né alla poesia, né alla filosofia, né alla scienza».

Corriere della Sera 10.11.07
Dibattiti. Dopo la replica di Piattelli Palmarini, Boncinelli interviene su creazionismo e specie
La legge di Darwin e il peso della casualità
«Ma proprio gli eventi accidentali dimostrano la bontà dell'evoluzionismo»
di Edoardo Boncinelli


Sono gli esperimenti, non le teorie, che fanno procedere la ricerca

Di tanto in tanto si parla di evoluzione biologica e subito gli animi si infiammano. Probabilmente occorre ricordare a tutti che la teoria dell'evoluzione è una teoria scientifica e come tale procede solo attraverso esperimenti e contro-esperimenti. Le speculazioni teoriche appartengono certamente alla storia delle idee, ma non alla scienza: divengono scienza solo se danno luogo ad esperimenti e se questi ne dimostrano le anticipazioni, o per meglio dire, ne dimostrano alcune anticipazioni e ne confutano altre. Purtroppo molti tendono a dimenticare tutto ciò e scambiano per scienza le interpretazioni teoriche della stessa, dando più o meno involontariamente l'impressione che su certi punti ci sia un dibattito scientifico, che invece non c'è.
La teoria dell'evoluzione biologica, nella sua ultima versione chiamata neodarwinismo, rappresenta un corpo di conoscenze teoriche e sperimentali ormai assodate e ampiamente corroborate sperimentalmente, che ci danno la migliore spiegazione al momento possibile della presenza e dell'evoluzione della vita sulla terra. Questa non spiega tutto perché nessuna teoria scientifica può spiegare tutto, ma ci fornisce uno strumento interpretativo potentissimo per il lavoro quotidiano dei biologi di tutto il mondo.
Nessun biologo può oggi prescindere dalla visione neodarwiniana del processo evolutivo, sia che si occupi di genetica, di sviluppo embrionale, di sistematica, di fisiologia o di ecologia. Anche chi non si serva esplicitamente dei principi del neodarwinismo, finisce per adoperarli in ogni circostanza, perché nulla ha senso in biologia se non è iscritto in un quadro evolutivo.
Avendo premesso che nessuna teoria riguardante il vivente può violare i principi della fisica e della chimica, che riguardano sia il vivente che il non vivente, vediamo che cosa dice la teoria dell'evoluzione. Essenzialmente due cose. In primo luogo, che ogni organismo vivente oggi, nonché l'insieme degli organismi fossili, derivano tutti da un gruppo di organismi primitivi vissuti su questo pianeta più o meno tre miliardi e ottocento milioni di anni fa. In secondo luogo, che tutta questa incredibile e affascinante varietà si è originata grazie all'azione di solo due meccanismi biologici sempre in azione: la creazione di nuove mutazioni e la cosiddetta selezione naturale.
La comparsa di nuove mutazioni e la loro ridistribuzione nei diversi genomi porta alla continua comparsa di individui diversi, poco o tanto, in ogni popolazione naturale. Alcuni di questi nuovi esemplari scompaiono subito dalla circolazione o lasciano comunque pochi discendenti. Altri «vivacchiano » per qualche tempo a fianco degli organismi precedentemente presenti nella popolazione e che, volendo, possiamo definire «normali», anche se il significato di questo termine cambia necessariamente con il passare delle generazioni. Di tanto in tanto i nuovi esemplari hanno un grosso successo riproduttivo in un certo ambiente e finiscono per rimpiazzare i «normali» di una volta. Si è così avviato un processo che porterà alla creazione di una nuova specie biologica, al posto della precedente o accanto ad essa.
Questa scelta — condanna dei nuovi esemplari, approvazione tiepida o approvazione entusiastica degli stessi — è messa in atto dall'ambiente, organico e inorganico, dove vivono gli organismi in questione. L'ambiente ha così operato una selezione naturale, senza che questo termine significhi niente di più di quanto abbiamo appena detto. Gli organismi momentaneamente prescelti possono anche essere definiti come i più «adatti» all'ambiente in cui vivono, ma il termine non regge ad un'analisi concettuale stringente.
Personalmente preferisco dire che la selezione naturale concede ai diversi tipi di individui presenti in una popolazione di lasciare una quantità di discendenti diversa: chi ne lascia di più si afferma. Tutto qua.
Fin qui quello che dice la teoria da decenni e che trova quotidiana conferma negli esperimenti biologici sul campo o in laboratorio e nell'analisi dei diversi genomi oggi disponibili.
Che cosa è successo negli ultimi trenta- quaranta anni? Abbiamo imparato tantissime cose sui geni, sui meccanismi dello sviluppo e sulle dinamiche delle popolazioni naturali. È inevitabile che tutto ciò abbia lasciato il segno anche sulla teoria dell'evoluzione, chiarendo molti punti, mettendo in secondo piano alcuni meccanismi e dando nuovo risalto ad altri. Personalmente riassumerei tutto questo affermando che in questi anni è aumentato di molto il peso che si dà al caso, cioè agli eventi accidentali — di natura geologica, meteorologica, genetica e ecologica — che propongono sempre nuove situazioni all'azione dell'ambiente e in definitiva alla selezione naturale. Che comunque è sempre quella che ha l'ultima parola.
Dal gorilla all'uomo: una reinterpretazione fotografica della teoria dell'evoluzione di Charles Darwin (foto Corbis)

Corriere della Sera 10.11.07
Chi nega l’unicità dell’Olocausto
di Luciano Canfora


Si riaffaccia ciclicamente la tendenza a sminuire, o meglio negare, la unicità della Shoah. L'altro giorno il neoleader Walter Veltroni ha pensato bene di coinvolgere Pol Pot. Gioco imprudente, vista la protezione accordata dagli Usa a Pol Pot al tempo in cui il Vietnam riuscì a scacciarlo. Ieri un appello «Gaza vivrà », che equipara spericolatamente ai lager hitleriani la situazione in cui Hamas ha precipitato Gaza.
Con buona pace degli interessati, le due operazioni appaiono entrambe sbagliate: non solo per il carattere sommario e, nel caso del neoleader del Pd, un po' strumentale, ma per l'uso confusionario e parziale dei dati di fatto. L'appello «Gaza vivrà» vuol essere anche una ricostruzione storica della crisi israelo- palestinese di questi ultimi anni.
Però essa appare alquanto lacunosa. Ci sono vari elementi importanti che l'appello passa sotto silenzio; il che ne inficia la solidità logica: 1) viene taciuto che il governo israeliano ha imposto con la forza ai suoi coloni insediatisi nei territori occupati di andarsene; 2) che Hamas chiede la distruzione dello Stato di Israele, cioè pone una condizione non solo iniqua e contraria alle deliberazioni Onu votate nel '47 da Urss e Usa (con l'astensione inglese) ma anche politicamente devastante e foriera di ulteriori conflitti; 3) l'appello squalifica gli elettori palestinesi, e sono tantissimi, che si oppongono ad Hamas e li tratta come pavidi ricattati; 4) dimentica gli scontri armati tra Fatah e Hamas.
Gli appelli dovrebbero proporsi di aiutare il negoziato piuttosto che abbandonarsi alla propaganda.

l’Unità 110.11.07
Documento unitario approvato dall’Assemblea di redazione de l’Unità


Con l’avvio della ”due diligence” da parte della Tosinvest, società della famiglia Angelucci, diviene concreta la prospettiva che il pacchetto azionario di maggioranza de l’Unità venga acquisito dallo stesso gruppo che edita il quotidiano Libero. Al di là del rispetto che riconfermiamo per i giornalisti, i poligrafici e i tecnici che in quel giornale lavorano, non possiamo non rimarcare la nostra forte preoccupazione per la circostanza, del tutto nuova nel panorama editoriale, di un gruppo imprenditoriale proprietario contemporaneamente di testate che conducono iniziative e battaglie antitetiche. Realtà che porrebbe una forte ipoteca anche sulla credibilità del nostro giornale nei confronti dei lettori. Non conosciamo le motivazioni che spingerebbero la Tosinvest ad investimenti definiti "rilevanti". Le domande che ci poniamo, d’altra parte, non possono essere evase sbrigativamente con un generico riferimento al "mercato", visto che un giornale politico non è un prodotto da abbandonare alle normali dinamiche di "mercato". La prospettiva che l’Unità, e la sua testata, appartengano allo stesso editore di Libero viene vissuta con forte preoccupazione dai lettori, dai giornalisti e dalla platea di riferimento politica e culturale del nostro quotidiano. Anche perché non sembrano oggetto di trattativa, come risulta dall’incontro tra il Cdr e la presidente della società editrice, Nie, Marialina Marcucci, garanzie forti da far valere circa il mantenimento del radicamento politico e culturale de l’Unità, così come la consapevolezza dell’esigenza di salvaguardare storia e immagine del quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
Di queste preoccupazioni il Comitato di redazione si è fatto carico incontrando il segretario del Pd, Walter Veltroni, e quello dei Ds, Piero Fassino. Che hanno preso atto dell’inquietudine dei giornalisti e dei lettori de l’Unità e hanno apprezzato, condividendola, la richiesta di garanzie precise per il futuro del giornale. Lo ribadiamo: nel momento in cui, con lo scioglimento dei Ds, il nostro quotidiano va sempre più "in mare aperto", l’autonomia e la salvaguardia dei valori ai quali l’Unità si ispira, spetta sì alla direzione e alla redazione, ma - assieme - a strumenti nuovi e autorevoli, da far valere a prescindere dai gruppi imprenditoriali interessati alla proprietà della testata. Il tema di un Comitato di garanti di altissimo profilo, che garantisca innanzitutto i lettori, riguarda, d’altra parte, e più complessivamente, le imprese editoriali italiane, nel momento in cui gli "editori puri" non esistono più. Il problema va perfino oltre la stessa Unità, e sarà oggetto dell’iniziativa pubblica promossa dalla Fnsi e dal nostro Cdr per mercoledì 14 novembre, anche in relazione alla nuova legge sull’editoria. L’Unità non può appartenere alla stessa proprietà di Libero, ma - in ogni caso - sarebbero indispensabili garanzie precise. E per salvaguardare l’autonomia e la libertà d’informazione non sarebbero sufficienti la continuità direzionale e quella delle attuali cariche di vertice della Nie. Il Cdr de l’Unità chiede, d’altra parte, segnali politici chiari e rapidi che riconfermino il legame del giornale con la sinistra e con l’area di riferimento del nuovo Partito democratico. Nel contempo, però, i giornalisti chiedono un impegno forte perché i nuovi assetti proprietari siano plurali e articolati. Ben vengano capitali privati freschi, ma l’Unità, e la sua testata, non possono diventare proprietà esclusiva di un solo imprenditore, chiunque esso sia. Per questo si rinnova l’appello affinché si concretizzino iniziative che mobilitino altri soggetti imprenditoriali interessati a partecipare allo sviluppo del quotidiano, posto che l’intesa preliminare stipulata dalla Nie con Tosinvest dimostra che l’Unità è un giornale vivo, in grado di andare oltre le attuali dimensioni di mercato, indispensabile per il pluralismo dell’informazione.
Le rassicurazioni della presidente Marcucci circa le intenzioni della compagine azionaria che si va formando, vanno misurate in concreto. Se è vero che si vogliono tutelare i livelli occupazionali e sviluppare il quotidiano con opportuni investimenti, va anche riverificato il piano industriale elaborato nei mesi scorsi dalla Nie. Nessuno degli impegni scadenzati è stato, al momento, realizzato. Dimostrando, in realtà, una logica basata solo sui tagli e sui contenimenti dei costi e non sullo sviluppo. Una filosofia che incide non poco anche sul calo delle vendite in edicola. Non solo. Mentre l’azienda promuoveva, nei mesi scorsi, una durissima trattativa - partendo dal presupposto di un disavanzo di bilancio del tutto fisiologico, e chiedendo sacrifici economici alla redazione in cambio di investimenti - parte degli attuali soci Nie avevano già manifestato la volontà di sfilarsi dalla proprietà della testata. Con la conseguenza che l’annunciata ricapitalizzazione è stata attuata solo parzialmente e gli impegni di rilancio sono rimasti in larga misura sulla carta. Per tutto ciò, in attesa di un chiarimento sulle strategie di rilancio del giornale, i redattori de l’Unità ritengono necessario il congelamento delle ricadute economiche del piano industriale che pesano negativamente sui giornalisti, a partire dalle intese sul lavoro domenicale. Di questa posizione il Cdr si farà pienamente carico, Dando corso, anche in relazione al tema degli assetti proprietari, alle forme di lotta decise dalla redazione nelle scorse settimane.
L’Assemblea dei giornalisti de l’Unità

Corriere della Sera 10.11.07
La vendita del giornale
Unità, i giornalisti bocciano lo sciopero contro gli Angelucci

ROMA — Quarantuno voti contro trentasette.
L'assemblea dell'Unità ha detto no alla sciopero contro l'ingresso degli Angelucci nella proprietà del giornale. Alla notizia che gli imprenditori delle cliniche nonché editori di Libero, il quotidiano diretto da Vittorio Feltri, i giornalisti del giornale fondato da Antonio Gramsci erano insorti. Forte preoccupazione per l'autonomia della testata, paura di confusione per l'ingresso con quote di maggioranza di una famiglia che edita un giornale di destra (ma che finanzia anche il Riformista). E quindi era seguito un durissimo comunicato, sostenuto dall'intera redazione. Fine dello scontro?
All'Unità invitano alla prudenza e spiegano che il no allo sciopero immediato è prevalso perché la maggioranza ha voluto dare credito ai tentativi di Walter Veltroni e Piero Fassino. Di che cosa si tratta? Il leader del Pd e l'ex segretario dei Ds si sono impegnati a percorrere strade per la ricerca di nuovi finanziatori, che riducano il peso degli Angelucci nella proprietà, secondo uno schema già seguito quando l'Unità fu sottratta al controllo diretto del partito di riferimento. Le possibilità che un tentativo del genere vada a buon fine sono tutte da verificare e il tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti, ha già chiarito che da quel fronte non ci sono soldi da investire nel giornale.
Prima della protesta dei giornalisti e degli incontri con Veltroni e Fassino la trattativa con gli Angelucci era già ben incardinata con la prospettiva di concludersi entro Natale con un assegno di circa 25 milioni che avrebbe conferito alla famiglia un ruolo determinante nella proprietà.
«La testata non è in vendita», aveva gridato l'assemblea, affidando al Comitato di redazione un pacchetto di sette giorni di sciopero se i colloqui per cambiare la sorte del giornale non avessero dato «risultati soddisfacenti».
Ieri l'accelerazione, con una parte della redazione intenzionata a dare un segnale forte agli Angelucci e a mettere in mora i tentativi di Veltroni e Fassino con la proclamazione immediata di un giorno di sciopero. Ma la maggioranza dei giornalisti a detto di no.
La votazione dell'assemblea del quotidiano fondato da Gramsci: 41 contrari, 37 favorevoli

il manifesto 10.11.07
Intervista a Fausto Bertinotti Crisi della politica, bilancio di un anno e mezzo di governo e «cosa rossa»
Un'altra sinistra è possibile. Anzi, obbligatoria
di Gabriele Polo


«La scommessa sul rapporto virtuoso tra governo e movimenti non ha funzionato. Serve un'unità politica a sinistra, da subito. Per evitare che il nostro ruolo sia solo quello di limitare i danni. E poi scomparire» La riforma elettorale è urgente. Ma i vincoli di coalizione immobilizzano. Le alleanze si facciano in Parlamento

Come rilanciare l'alternativa politica in Italia e in Europa senza adattarsi alla limitazione del danno e, contemporaneamente, senza riaprire le porte del potere alla destra? Tradotto: come riavere una sinistra non subalterna al centro senza far cadere Prodi e rimettere Berlusconi (o chi per lui) a palazzo Chigi? Bel busillis. Cui Fausto Bertinotti risponde con una rievocazione: «In certi momenti vale quel che dicevano gli operai a proposito degli aumenti salariali, 'Pochi, maledetti e subito è sempre meglio che niente'». Tradotto: teniamo in piedi il governo, facciamo una riforma elettorale che limiti i vincoli del maggioritario e diamo subito vita a un soggetto «unitario e plurale» della sinistra con chi ci sta. «Anche perché - va al dunque il presidente della Camera - il nostro scommettere su un circolo virtuoso tra azione di governo (riformatrice) e movimenti (che incalzano il quadro politico), è stata sfiduciata dai fatti». Cioè si è ridotta alla contrattazione del «meno peggio», mentre si divarica la forbice tra la rappresentanza politica e conflitti sociali e si erode il consenso elettorale della sinistra.

Sembra che tutta la sinistra sia un po' inadeguata. Pensa alla manifestazione del 20 ottobre: una grande partecipazione, una richiesta di «esserci» e, poi, scarsissime risposte, se non generiche, della rappresentanza. Non è questa la vera crisi della politica?
Più si constata il successo della manifestazione del 20 tanto più si vede in controluce la profondità della crisi della politica. Nel Pd e dintorni c'è stata una omissione totale di quell'evento. A sinistra c'è stato più un sollievo da scampato pericolo che un investimento politico-intellettuale, mentre ci si aspetterebbe una socializzazione di una riflessione comune su cosa è accaduto, sul perché c'era così tanta gente in piazza e con così tanta passione politica, su quali problemi sociali ciò rivela. Invece, avendo la questione del governo come problema centrale - sia per rifiutarlo che per consolidarlo - l'indagine sulla soggettività del movimento - su ciò che rappresenta e chiede - viene lasciata in secondo piano. Allora la crisi cui siamo di fronte sta nella difficoltà di trovare la soggettività politica e sociale necessaria a potere realizzare un protagonismo capace di intervenire sulla scelta dello stato, sulle scelte economiche, sulle grandi scelte dei diritti sociali, cioè nei luoghi della formazione della decisione politica. Questo mi pare il punto irrisolto.

Nel merito e nel metodo, nei contenuti e nella loro rappresentanza politica. Parlando dei primi: nel tuo editoriale dell'ultimo numero della rivista, «Alternative per il socialismo», ritorni alla centralità del lavoro. E' un ripensamento rispetto alla fase dei movimenti, seguita poi da quella della battaglia politica dentro le istituzioni?
Quei passaggi sono tutte facce dello stesso prisma. Io però riconosco che di volta in volta, se non una centralità però un bandolo della matassa andrebbe tirato e io penso che la crisi sta arrivando proprio al fondo. Se mi si chiede: ma quale è la chiave di volta dell'uscita dalla crisi? quale è la ragione prima della crisi della sinistra? Rispondo che il nodo va cercato nel rapporto fra il lavoro, la società e la politica. Non per una nuova centralità operaia, non per ignorare la critica del femminismo alla società patriarcale o quella ambientalista alla devastazione prodotta dal capitalismo, non per cancellare le storie e i contenuti dei movimenti e le loro diversità, ma perché possano collocarsi in una ipotesi di trasformazione della società e di capacità di intervento sulla decisione della politica, sul luogo strategico di decisione della politica. E secondo me hanno bisogno di ritrovare un nesso con il lavoro in tutte le sue dimensioni. Non è casuale che il successo della manifestazione del 20 sia legato alla lotta alle precarietà. E quella del lavoro non sarà asaustiva ma è paradigmatica.

Sul metodo e sulla rappresentanza politica il minimo che chiedeva la piazza del 20 ottobre era un luogo per una pratica comune, anche istituzionale.Mi sembra invece che persino su questo ci sia un tira e molla, tra identità da conservare e ruoli dirigenti da preservare... Insomma, se continua così non ci sarà né cosa rossa, né semplicemente nessuna «cosa».
Con il massimo rispetto per tutti coloro che si spendono quotidianamente nelle attività di partito, mi sembra che ci siano troppe rigidità. Capisco i problemi e le resistenze, però per questo vale il vecchio detto di Vittorio Foa quando fu tentata l'unità sindacale: «Per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua». E' già troppo che stiamo sulla spiaggia.

C'è un passaggio politico obbligatorio, che chiama in causa i gruppi dirigenti della sinistra...
Come era la vecchia formula operaia a proposito di aumenti salariali? Pochi, maledetti ma subito. Benissimo. Come viene fuori questa «cosa»? Un po' rozza, approssimativa, ma unitaria. Tutto il resto viene subito dopo: come deve essere organizzata, che tipo di costruzione teorico-politica, la definizione del programma fondamentale... Ma bisogna partire, con chi ci sta.

Intanto la sinistra si sta logorando in una continua rincorsa alla riduzione del danno stando in un governo che non godendo di ottima salute pone spesso l'antica alternativa tra mangiare una cattiva minestra o saltare dalla finestra. Un po' logorante...
Io credo che la prosecuzione dell'attuale governo sia auspicabile, perché alcuni risultati si possono ottenere anche con la riduzione del danno, basti pensare alle recenti vicende sul pacchetto sicurezza: cosa sarebbe successo con un governo di centrodestra? Per quante critiche si possano fare alla situazione attuale, non c'è paragone. Tuttavia non possiamo non fare il bilancio di un anno e mezzo di governo e vedere - lo dico per me - che l'investimento su un rapporto inedito tra movimenti e governo per realizzare una nuova fase riformatrice, è stato contraddetto dai fatti. E, allora bisogna anche agire sul terreno dell regole istituzionali, per liberare la politica dai lacci che la imprigionano. Da una logica che impone maggioranze per riavere la possibilità di scegliere le alleanze non prodotte da una coazione.

E se non riesce a farlo questo governo, con un esecutivo istituzionale che cambi la legge elettorale? Per far sì che le alleanze si facciano in Parlamento e non in campagna elettorale?
Sì, alleanze che si annuncino prima, che si fanno in Parlamento ma che in ogni caso producono una possibilità di libertà nella scelta delle alleanze. Mentre penso che nell'attuale sistema politico istituzionale la rottura del rapporto tra la sinistra e il centrosinistra sia una tragedia, in un sistema liberato da questo vincolo del maggioritario si aprirebbe una dialettica politica più ampia, quella permessa da un sistema alla tedesca. Anche per riguadagnare la centralità del «medio termine», ed evitare che tutto sia assorbito dall'emergenza del giorno per giorno con al centro solo la sorte del governo.

Ritorniamo alla questione del governo e al ruolo della sinistra al suo interno. Per quanto può durare la strategia della riduzione del danno senza provocare danni irreparabili in termini di rappresentanza sociale e di consenso elettorale? Non è che la sinistra salvando il centrosinistra rischia di estinguersi?
Il rischio c'è, ma come fai a proporre un'uscita da sinistra? Scartiamo che si possa fare con una crisi di governo, non mi sembra che sia quello che chiede la nostra gente, lo abbiamo visto anche il 20 ottobre. Secondo me c'è uno spazio per un rilancio dell'attività di governo, attraverso una rivitalizzazione di alcuni suoi elementi programmatici da ottenere con un dibattito politico molto impegnativo, valorizzando l'iniziativa sociale - e non penso solo alle manifestazioni o al volontariato, penso alle tante pratiche politiche positive in tante parti d'Italia. E poi attraverso una verifica politica.

Stai pensando a un rimpasto di governo?
E' un terreno su cui non posso entrare. Ma credo che vada messa in campo e fatta pesare la partecipazione delle persone. Mi piacerebbe che la maggioranza inventasse, nelle forme che vuole, con l'approssimazione che crede, una sorta di verifica programmatica. Le forze della maggioranza possono pensare a un percorso di consultazione di massa, aperta, pubblica, assembleare? Credo che la sinistra avrebbe tutto da guadagnarci per contare di più e recuperare alcuni punti programmatici dell'Unione.

Però intanto ci si divide persino sulla simbologia. In un processo unitario e plurale, che ne facciamo dei simboli di ciascuno? Falce e martello in soffitta?
E' bene che ciascuno tenga per sé i propri simboli e sarebbe un male pensare che i simboli abbiano la stessa valenza temporale dei programmi o degli schieramenti. I simboli non sono legati a una contingenza e per averne di nuovi non ci si può affidarere a delle invenzioni, nascono da processi storici. E, poi, per l'immediato un nome che unisce ce l'abbiamo già. Semplice, semplice: sinistra.

Un'ultima cosa. Se te la riproponessero oggi, accetteresti la presidenza della Camera?
L'accetterei, per tre motivi. Perché permette una conoscenza delle istituzioni che troppo spesso viene sottovalutato, come ci aveva ricordato parecchi anni fa Pietro Ingrao. Perché permette di dare visibilità e far diventare elementi di battaglia politica temi sociali troppo spesso messi in secondo piano: per fare solo un esempio gli infortuni sul lavoro. E perché dodici anni di direzione di un partito sono tanti, troppi per chi la esercita, come per chi la «subisce».

venerdì 9 novembre 2007

l’Unità 9.11.07
Riforme, Veltroni non molla «Al Paese non servono urla»
«Disponibili al confronto, sistema tedesco solo se corretto»
Sulla sicurezza scontro aperto con Rifondazione
di Bruno Miserendino


«LORO PENSANO ALLE SPALLATE, noi alle riforme». Quindi, dice Veltroni, «andremo avanti e cercheremo ampie intese per il bene del paese», nonostante i niet di Berlusconi. Sembrerebbe l’epilogo di una ordinaria giornata di incomunicabilità tra maggio-
ranza e opposizione, invece il confronto a distanza tra il leader di Forza Italia e il neosegretario del Pd disegna una partita molto aperta. Berlusconi, rimarcano tutti nel centrosinistra, «con l’ossessione della spallata ha rinunciato a fare politica», ma nella Cdl il tempo concesso al leader naturale sta scadendo. L’Udc è pronta al dialogo, la Lega potrebbe esserlo e An aspetta solo gennaio per vedere le carte. Pare sia così anche per molti azzurri, anche se formalmente, davanti alle telecamere smentiscono. Mastella, ieri, spiegava perchè un senatore non fa una spallata, però citava un suo professore che diceva: «Non so se le cose andranno meglio o diversamente ma so che per andare meglio dovranno andare diversamente». Aggiunta: «Noi - dice - non ci fermiamo davanti al fatto che, nella contingenza politica quotidiana e nella vocazione alle spallate, ci sia questa volontà di non dialogare. Il Paese ha bisogno di soluzioni».
Veltroni lo sa e per questo iniste. L’altro ieri aveva detto che se la maggioranza superava la prova della finanziaria sarebbe stato «tutto un altro film», ieri lo ha spiegato più chiaramente: «Il Paese vive una difficoltà del sistema democratico, questo è evidente ed è responsabilità di tutti impegnarsi per risolvere questo nodo». «Noi dichiariamo la nostra disponibilità al dialogo e mi auguro che anche dalle altre forze ci sia analoga disponibilità. Il Paese ha bisogno di dialogo e di soluzioni. È un’idea sbagliata che il Paese abbia bisogno di urla».
Infatti Veltroni ha iniziato a girare le prime prove del film in una riunione ristretta a palazzo Madama con Finocchiaro, Chiti, Amato, Enzo Bianco, e Violante e i giuristi Ceccanti e Vassallo, dedicata proprio alla legge elettorale, da cui sono emersi con più chiarezza i paletti del Pd per il confronto. In sintesi, la base discussione è il sistema tedesco ma con correzioni maggioritarie. Solo che anche per Veltroni la partita è a rischio. Sa benissimo, come chiede anche palazzo Chigi ufficialmente, che bisogna prima trovare l’unità del centrosinistra su una proposta, ma sa anche che la cosa è quasi impossibile. Sa che nello stesso Pd ci sono molti fautori del sistema tedesco puro, e sa quanto la partita delle riforme sia inevitabilmente inquinata dalle urgenze del dibattito politico. Sulla sicurezza, ad esempio, è in corso un braccio di ferro nemmeno tanto sotterraneo. Veltroni e i sindaci non sono entusiasti delle correzioni imposte da Rc al decreto espulsioni e continuano a ritenere utile un confronto con la Cdl. Sul tema c’è una discreta frizione tra Veltroni e Rifondazione, e anche se alla fine il centrosinistra riuscirà a mantenersi unito, perchè il decreto è meglio di niente, tutti capiscono che in queste ore si confrontano due modi di intendere il rapporto tra politica e bisogni dei cittadini.
Veltroni per ora si muove, tenendo fede all’impianto descritto nel discorso di Milano: sostenendo il governo ma reclamando novità. Sulla legge elettorale Veltroni ha confermato che si può partire dal modello tedesco, purchè venga corretto in senso maggioritario. «Ma da questa posizione - ha detto il neosegretario - non ci si sposta» Infatti l’attenzione si è spostata tutta sui correttivi, con Vassallo e Ceccanti che hanno esposto le soluzioni praticabili. Fermo restano che si presuppone una sola Camera politica, e che il 50% dei seggi viene assegnato col metodo maggioritario uninominale il correttivo maggioritario potrebbe essere adottato sul riconteggio proporzionale che viene fatto sul restante degli eletti con le liste. L’idea è di inserire correttivi «spagnoli» sul modello tedesco, con circoscrizioni elettorali più piccole o con un premio di lista per evitare situazioni di stallo come è avvenuto proprio in Germania. Come si sa in questa partita Prodi Veltroni, e tutti gli ulivisti, sono perfettamente d’accordo: bisogna resistere alle lusinghe del tedesco puro che, calcoli alla mano, porterebbe o ad ammucchiate di centro, o a governissimi o a governi di centrodestra. Il problema è che nell’Unione alcune forze piccole, come il Pdci e i Verdi non vedono di buon occhio nessuna riforma, mentre Rifondazione e Udc sembrano al momento interessati a discutere solo di tedesco puro. Ieri Russo Spena scherzava: «Walter sta studiando il tedesco? Fa bene...» L’Udc non a caso invita Veltroni a uscire dalla logica delle alleanze che invece sta a cuore a palazzo Chigi, perchè altrimenti, dice D’Onofrio, «sarà un’ennesima sceneggiata». Veltroni invece è convinto che su un tedesco corretto in senso bipolarista, alla fine anche An sarebbe della partita. Le condizioni per il dialogo non ci sono tutte, ma qualcuna l’ha creata.

Repubblica 9.11.07
Il senatore del Pd D'Ambrosio: troppe disparità tra italiani e comunitari
"Decreto emotivo e anticostituzionale modifiche profonde o non passerà"


ROMA - «Il decreto non deve passare». Parola dell´ex procuratore Gerardo D´Ambrosio, oggi senatore Pd. «È un testo contro l´Europa e la Costituzione».
Non lo voterà?
«Va profondamente modificato. Così com´è va contro le direttive Ue, e quindi contro i tempi e la realtà di un´Europa allargata con diritto di libera circolazione».
Anche quella di delinquere?
«Il decreto crea disparità pesantissime, dal punto di vista penale, tra cittadini italiani e comunitari, e tratta questi ultimi peggio degli extracomunitari».
Quali sarebbero gli errori?
«Le ragioni imperative per l´espulsione non sono delineate a sufficienza, col rischio di provvedimenti arbitrari. Allo stato, anche se sarà corretta, non c´è una sufficiente tutela giurisdizionale. È assurdo trasformare in delitto il rientro dell´espulso punendolo con tre anni».
Il dl non andava fatto?
«Agire sotto una forte spinta emotiva fa fare misure che non andavano assolutamente fatte. L´Italia è tra i paesi che ha "fatto" l´Europa e non possiamo approvare un dl che ne è la negazione».
(l. mi.)

Repubblica 9.11.07
Riappare un capitolo del "Ramo d´Oro" che James Frazer non pubblicò per prudenza
Le maschere del potere
Quando si crocifigge un re
di Antonio Gnoli


Nei Saturnali della Roma antica si metteva a morte un finto sovrano giovane e bello
Le analogie tra i riti antichi e la storia di Cristo avevano colpito la fantasia dell´autore

Tra quelle infime derive che la storia a volte crea, può accadere di imbattersi in una figura bizzarra. È un curioso personaggio che si ammanta delle insegne regali e che è fatto oggetto di scherno e venerazione. È un re. O almeno così appare, o dice di essere. Di solito la sua sovranità lambisce la decadenza di un´epoca, ne ravviva le ombre. E sembra, allora, che giochi, come un bimbo, con il declino che tutto e tutti avvolge. La figura ridanciana si fa carico di un potere eccessivo, mostra il suo lato meno cupo, ma non per questo meno insidioso. Ogni qualvolta ci sentiamo attratti da questa recita trasgressiva, scorgiamo la stessa stravaganza che Svetonio nella Vita dei Cesari ritrovava in Nerone, in Caligola, in Eliogabalo. Ed è come se improvvisamente la sovranità porga il proprio orecchio all´altezza della voce di un popolo, ne ascolti (deliziata o irritata) i motteggi, gli insulti, la derisione, ma anche l´adulazione più sfacciata. Quel costrutto, minaccioso e ilare, non rinuncia tuttavia al suo mandato teologico, alla sua discendenza divina.
Come è possibile dunque che un potere, intangibile e remoto, legato alle ritualità del sacro, si nutra di una sostanza così greve? C´è un saggio di James George Frazer dedicato ai Saturnali e alla crocifissione del Cristo - che ora appare per la prima volta in italiano (La crocifissione del Cristo, pagg. 254, euro 16, curato ottimamente da Andrea Damascelli, edizioni Quodlibet) - nel quale si abbozza una risposta, in larga parte involontaria.
Nel 1890 - in uno di quei momenti in cui la storia si immagina felicemente in marcia - uscì Il ramo d´oro di James Georges Frazer. Era un´opera di intensa ingegneria spirituale nella quale agivano le forze razionali il cui compito era di spiegare su quale base il mondo umano aveva costruito le proprie civiltà. Frazer - figlio di un farmacista e del positivismo ottocentesco - andò a stanare il rapporto che l´umanità aveva da sempre avuto con la credenza, le superstizioni e naturalmente le religioni.
Tra quelle migliaia di pagine, che esordivano accostando un quadro di Turner a un bosco sacro dell´Italia arcaica, Frazer aveva inserito un capitolo dai tratti culturali esplosivi. Egli amava spesso divagare. Con la frenesia dell´accumulatore compilava lunghe annotazioni. Ma rispetto alle vaste comparazioni fin lì condotte quel capitolo, dedicato alla crocifissione di Cristo, sembrava una deviazione troppo netta. Una stranezza. Un´escrescenza. La provocazione che un ateo (almeno tale era stato considerato) lanciava contro il cristianesimo e le sue origini. La tesi, ancorché fragile nello sviluppo, era affascinante. Frazer - come in un gioco di scatole cinesi - immaginò che la passione e poi la crocifissione del Cristo per larghi tratti si potevano ricondurre al Purim, una festa ebraica che mostrava degli evidenti legami con le Sacee babilonesi e i Saturnali romani.
Frazer - colpito dal fatto che durante i saturnali c´era l´usanza di mettere a morte un finto re - descrive il modo in cui i soldati romani celebravano ogni anno quel rito cruento e pagano: «Trenta giorni prima della festa sceglievano tra loro, sorteggiandolo, un uomo giovane e bello, che veniva vestito con abiti regali perché assomigliasse a Saturno. Così ornato e scortato da uno stuolo di soldati, questi andava in giro in pubblico, autorizzato a dare libero sfogo a tutte le passioni e a gustare ogni piacere, per quanto vile e ignominioso». Allo scadere dei trenta giorni - durante i quali il falso re si permetteva qualunque licenza - l´impostore si dava o trovava la morte tagliandosi la gola. Era, il suo, un regno breve, gioioso ed efferato; burlesco, come saranno in seguito certi Carnevali italiani, ma anche sommamente tragico come dimostra l´anonima cronaca del martirio di San Dasio. Soldato romano, convertito al cristianesimo, e di stanza sul Danubio, Dasio viene prescelto per svolgere la parte del finto re. Il suo rifiuto lo condurrà al martirio e alla morte.
Ma cosa c´entra tutto questo con la festa di Purim? Nel Libro di Ester si narra della festa che venne istituita per commemorare la liberazione degli ebrei dal pericolo di cadere sotto il giogo persiano durante il regno di Serse. I contenuti di quel rituale liberatorio e gioioso richiamano, secondo Frazer, i tratti fondamentali delle Sacee babilonesi che sfociavano come è noto in un frenetico baccanale. In quell´occasione c´era l´usanza di mascherare uno schiavo da re. Quel sovrano provvisorio alla fine del suo "mandato" moriva sulla forca o, a volte, sulla croce. Anche nel Libro di Ester c´è un finale cruento e lieto. Fra intrighi di corte e complotti contro il re Assuero, si svolge la vicenda di Aman, visir del regno di Assuero e di Mardocheo, un ebreo influente e giusto che si rifiuta di onorare la carica di Aman e per questo è accusato dallo stesso Aman di congiurare contro il re. La pena richiesta prevede lo sterminio degli ebrei e l´impiccagione (o crocifissione) di Mardocheo. Ester, sposa di Assuero, implora il re di risparmiare il suo popolo, e svela che a capo della congiura c´è Aman che a quel punto il re fa giustiziare. Quanto a Mardocheo, che aveva fatto fallire il complotto, viene portato in trionfo. Aman, nella tradizione festosa del Purim, subirà, dice Frazer, una trasformazione parodica, diventando egli stesso un finto re, oggetto di scherno.
Molti studiosi hanno rilevato le forzature, l´approssimazione con cui l´antropologo accostava vicende storiche e letterarie molto diverse. In soccorso, almeno parziale, alle sue tesi, venne Edgard Wind, studioso d´arte legato alla scuola di Warburg che nel 1938 rianalizzò la morte di Aman riconducendola a un affresco di Michelangelo, e ad alcuni versi di Dante. In quell´affresco, un dettaglio della Cappella Sistina, l´esecuzione del Visir raffigura un uomo crocifisso. Aman come il Cristo? L´idea che la morte di Gesù fosse accostabile a quella di Aman, quantunque suggestiva aprirebbe una questione delicatissima.
Può il cristianesimo fondarsi su una parodia? Frazer si tenne alla larga da una simile conclusione (tanto è vero che espunse il capitolo sulla crocifissione da Il ramo d´oro e lo stesso Wind, ove avesse accolto pienamente una simile lettura, avrebbe visto sfigurarsi il volto stesso della storia. Sia Frazer che Wind non furono del tutto indenni alla suggestione che la passione del Cristo, pur nella sua tragedia, ricalcasse il paradigma del finto re: la corona di spine, lo scherno dei soldati, le grida della folla tumultuante erano indizi a carico di quella versione. Che il Cristo fosse una variante di quel modello parodico è stata in seguito respinta e smontata da gran parte degli studiosi.
Resta una questione che Frazer e Wind lasciano sullo sfondo: chi è il re? Vi è un potere che aspira alla regalità, all´unto, alla non contraddizione. Esso si serve di quel retroterra sovrannaturale, grazie al quale cerca di infondere ai propri gesti una natura divina. Al tempo stesso quel potere si può mostrare buffonesco, logorroico, impertinente. Esso ci appare come un mero scherzo, una maschera comica, segnata da una corona sbilenca e instabile sempre sul punto di rovinare miseramente al suolo. Di norma, quei re finti, scherzosi, gaudenti, che venivano eletti nel corso di una baldoria, avevano vita breve. Duravano il tempo della festa. Sufficiente tuttavia per mostrare il lato nascosto della sovranità.
Nella folle Ninive, racconta Frazer, si poteva incontrare un antico Ercole persiano dalle accentuate movenze femminee. Incedeva tra la folla come un re. A volte era un re, irriconoscibile: la biacca sul viso pallido, le ciglia annerite dal bistro, carico di anelli, catene e orecchini, con l´ascia in una mano e la coppa di vino nell´altra.
Chi vedesse in queste insegne ridicole il puro aspetto licenzioso e stravagante, perderebbe di vista quel bisogno che il potere a volte ha di mostrare il suo volto indegno. Il potere grottesco - che con il potere criminale condivide l´arbitrio assoluto - non è semplice rappresentazione teatrale, e non si esaurisce nell´acclamazione in vista di un riconoscimento. Il potere grottesco è l´altra faccia del carisma. La sua nudità. Che il sovrano, a volte, riveste di infamia.

Repubblica 9.11.07
Se Hamas e Al Fatah leggessero Shakespeare
di Adonis


Shakespeare dice che soltanto la lingua è in grado di «mutare il verde in rosso». Il problema è che noi arabi crediamo a questa capacità e alle sue conseguenze.

Mentre tutto ciò accade, la questione palestinese non soltanto assume l´immagine di una tragedia a cielo aperto, in cui vengono annientati una patria e un popolo, ma anche un´immagine che fa poco onore ai principi e ai valori per i quali quel popolo combatte, e poco importa se quei principi s´ispirino al panarabismo o all´Islam, oppure a entrambi. Da quest´immagine balza agli occhi una assurdità storica tale che per esprimerla servirebbe uno Shakespeare palestinese.

Malgrado l´assurdità dello scenario, non mi sorprende affatto che i palestinesi abbiano due governi contrapposti e che dinanzi a un unico nemico un solo esercito arabo si spacchi in due eserciti rivali. Né mi stupirà il fatto che la realtà palestinese si riveli un´anteprima, e in questo senso prefiguri la probabile immagine di tutti i paesi arabi. Quasi che l´immagine dei "feudi" sia alla radice della storia araba e del suo corso, e ne determini il destino se non s´invertirà radicalmente la prospettiva della storia, della sua connotazione religiosa, soprattutto se non si getteranno le basi per edificare una nuova società e scrivere un´altra storia.
Se vogliamo davvero cogliere l´essenza di quel che va accadendo, e la traiettoria futura, non dobbiamo fermarci a quel che affiora in superficie: eventi, interpretazioni, analisi, notizie, pubblicità, slogan, propaganda, canti e lodi per i leader. Dobbiamo andare oltre gli eventi: trascurare il fuso propagandistico che tesse soltanto vesti mimetiche, abiti che appena indossati invecchiano consunti.
E´ semplicistico e impreciso sostenere che Hamas sia soltanto un gruppo di fanatici estremisti. E´ molto più di questo. Rappresenta sogni storici, immaginario religioso e ambizioni represse che non riconoscono alcuna realtà o limite. E´ un´immagine che racchiude verità considerate universali, complete e definitive.

Lo si potrebbe sconfiggere in quanto "potere", ma non in quanto fenomeno socio-religioso dalla portata esplosiva, a meno che non si debelli alla radice il male che lo ha generato e che, prima ancora, ha dato vita a fenomeni simili. Combattere Hamas non tenendo conto di quelle radici e limitando gli sforzi ad eliminarlo in quanto "potere", vuol dire insistere con una terapia già decretata inutile dall´esperienza storica, passata e presente. Anzi, può avere un effetto contrario, e la terapia divenire essa stessa un "male". E´ accaduto altre volte: ci ridestiamo e vediamo che il "male" dal quale ci eravamo illusi di essere guariti, si è propagato. Lascio perdere gli esempi del passato, per ricordarne soltanto due, rilevanti, del presente. I risultati cui ha portato il regime di Saddam Hussein: soppressione del "potere" dei feudi senza riuscire a eliminare il fenomeno stesso. Prima di lui, toccò al regime di Nasser trattare con il "male" rappresentato da Sayyd Qutb (leader intellettuale dei Fratelli musulmani, ndr.), che fu arrestato e giustiziato. Ed ecco che ora Nasser è senza eredi e sempre più in declino, mentre i discendenti di Sayyd Qutb, sempre più numerosi, attivi e potenti, scuotono la struttura della società egiziana e i pilastri dello Stato.
Sia Nasser sia Saddam Hussein, malgrado le tante differenze che li separano, hanno costruito un "potere" ma non una società. E questo lo si può affermare per tutti i governanti arabi dei due secoli passati. In verità, la storia degli arabi negli ultimi duecento anni non è stata storia di scienza, arti, tecnologia, libertà e progresso, ma una storia di lotta per il potere, di lacerazioni, arretramento e cedimenti. Ed è una storia che continua tuttora.
Hamas-Al Fatah: una dicotomia che evidenzia la probabile o possibile frattura tra arabi musulmani. Una frattura del presente, portatrice della frattura del futuro. Ogni qualvolta la Palestina rivela, in quanto "questione", l´impotenza e la frammentazione degli Arabi, la frattura tra Palestinesi rivela la frattura della "realtà" araba. Forse i cuori dei musulmani sono con Hamas e sicuramente non tutte le menti sono con Al Fatah. Mentre Hamas sembra un passato che fagocita il presente, Al Fatah sembra un presente che fagocita il passato.
Non si può cambiare la realtà di Hamas con gli stessi metodi usati da Nasser contro i "Fratelli musulmani", o dai governanti arabi con i loro oppositori. E´ probabile che si riesca a cambiare il "potere" in questa realtà, ma ciò non varrebbe granché: si limiterebbe al controllo delle sue armi materiali. La forza di Hamas sta non solo in queste armi ma nelle basi religiose su cui si regge. Però nel frattempo la catastrofe tragicomica continua: il potere è "illusione", nella "realtà" in cui vive Hamas. Illusione che si regge sulla violenza. La violenza dell´illusione armata è più fatale della violenza della realtà armata, perché la prima parla e agisce in "vece" del cielo.
Non è quindi una violenza "assediata" da confini, perché li scavalca come se volesse "cancellare" la Terra stessa. Poiché la Terra, secondo Hamas, è Dar al-Islam (dimora dell´Islam) ovunque sia e ovunque si possa immaginare che essa sia, oltre le nazioni, le lingue e i Paesi, e oltre la storia. E´ un´estensione trans-continentale che attraversa le organizzazioni jihadiste islamiche in tutte le loro denominazioni, forme e varianti. Così Hamas sembra combattere la storia attuale rimanendo nell´orbita universale della storia islamica, mentre Al Fatah sembra combattere un nemico specifico e delimitato rimanendo nell´orbita del potere. Hamas è in ogni luogo islamico, Al Fatah è soltanto nella West Bank o a Gaza.

Per tutti questi motivi se Al Fatah vuole uscire dalla "logica" di Hamas, deve elevare il livello del conflitto, concentrarsi sulla costruzione del futuro e non sulla rievocazione del passato. Per riuscirci non c´è altra via che la fondazione di una società civile palestinese. Solo così potrà uscire dalla "illusione" e dalla "ambiguità" e dalla violenza che esse generano; di conseguenza potrà fondare una nuova società e nuovi valori, e costruire un presente diverso come nucleo e preludio di un´altra e diversa storia.
Senza dubbio Al Fatah rimarrà al di sotto della storia poiché noi possiamo interpretare Hamas valutandola col metro del passato, ma come interpretare e valutare Al Fatah? Il suo significato storico, culturale e sociale si fonda soltanto sulla differenza: sul fatto di essere l´antitesi di Hamas, specie nelle sue connotazioni religiose. Creerà così una frattura radicale con Hamas e darà legittimità civile e umana alla propria causa. E, cessando di subire gli eventi, innescherà una dinamica creativa.
Senza di ciò, Al Fatah, anche se conquisterà il potere, non sarà soltanto al di sotto della storia come il resto dei regimi arabi, ma sarà oggettivamente valutata, in un modo o nell´altro, da una mentalità religiosa che appartiene al passato, alle sue ideologie e alle sue illusioni.
In questo caso, quale sarà il suo significato?
Traduzione dall´arabo di Fawzi Al Delmi

Repubblica 9.11.07
Anticipazione / Esce un carteggio tra Pietro Ingrao e Goffredo Bettini
Parlando di cinema e di politica


Sarà presentato lunedì sera al teatro Argentina di Roma il volume A chiare lettere - Un carteggio con Pietro Ingrao e altri scritti di Goffredo Bettini (Edizioni Ponte Sisto di Roma, pagg. 220, euro 12). A discuterne saranno Giuliano Ferrara, Anna Finocchiaro, Mario Tronti e Sergio Zavoli coordinati da Barbara Palombelli. Anticipiamo qui parte di una lettera di Ingrao a Bettini.
«E´ vero - scriveva Ingrao a Bettini - ci sono due facce contraddittorie (ma è giusto chiamarle così?) della mia vita. Evidentemente io devo avere una "passione" per la politica che è tenace: altrimenti non si spiega come essa passione duri così a lungo, e ancora adesso - in un´età così avanzata - fatichi a spegnersi». Ingrao rispondeva ad un articolo di Bettini uscito su Paese Sera, Bettini rispose alla lettera solo molti anni dopo, ma il tempo pare non aver consumato il nocciolo forte del dialogo: la politica e il suo rinnovarsi continuo a contatto con la realtà. Nella fattispecie emerge l´esperienza di un uomo politico che ha vissuto intensamente il Novecento guidato, specie negli anni più maturi, dal dubbio e quella di un politico più giovane alle prese con una dimensione nuova della politica e con la necessità di non lasciare alla sinistra la sola identità forte dell´antiberlusconismo.
Ma attraverso queste lettere passa anche un discorso culturale, un dialogo fatto, per esempio, di passioni per il cinema che diventa termine emblematico di confronto con i problemi che il mondo si trova ad affrontare. «Tu - scrive Bettini a Ingrao - preferisci Umberto D a Germania anno zero. Sai che la penso diversamente. Il dolore nel finale di Umberto D. ... è per me più sopportabile: lo vive un uomo anziano, povero, senza famiglia. Un contesto lo spiega. È il risultato di una situazione particolare, anche se diffusa, nel dopoguerra italiano... In Germania anno zero il bambino che va verso il suicidio ha una vita di fronte, è bello, ha una famiglia, è pieno di sentimenti e di voglia di vivere... L´atto finale, quel precipitare improvviso nel vuoto, fa avvertire la precarietà della nostra condizione, appesa a una misteriosa combinazione delle cose...».
Ed è ancora un film, Monsieur Verdoux di Chaplin, nel brano di lettera che qui segue, che Ingrao usa per affrontare il problema terribile della pena di morte.

Repubblica 9.11.07
"Monsieur Verdoux" il film di Charlie Chaplin affronta in modo esemplare il tema della pena di morte
di Pietro Ingrao


Caro Goffredo, ti ricordi quel film singolare di Chaplin, Monsieur Verdoux? Se non sbaglio, uscì nel ‘47, all´alba della "guerra fredda". Non è fra le opere di Chaplin più belle. Ha delle parti curiose, messe nell´opera come per breve memoria: almeno, a me così sembra tutta quella parte - ricordi? - in cui il protagonista, un piccolo investitore rovinato dalla crisi (penso a quella cruciale del ‘29), fa vedere la sua breve famiglia: la moglie, un figlioletto, salvati dalla tempesta in un angolo sperduto della Francia. Ecco: tutta quella parte è un breve ritratto di maniera (...).
Alla fine dell´opera però, c´è una conclusione fulminante, che è il racconto scarno della fine di Verdoux in manette e dell´approdo al supplizio. (...) In piedi, ormai avviato alla morte, Verdoux dice così rivolto ai giudici: «Signori, l´accusa è stata piuttosto parca di complimenti, ma ha ammesso che ho cervello. La ringrazio signore, ha ragione, e per 35 anni l´ho usato in maniera onesta. Dopodiché non è tornato più utile a nessuno e io ho dovuto cercarmi una nuova attività. Carnefice? Credevo che il mondo li incoraggiasse i carnefici. Non costruisce forse armi con l´unico scopo di commettere carneficine? Non ha fatto forse saltare in mille pezzi bambini e donne ignare, con precisione persino scientifica? In confronto, io come carnefice sono un dilettante...».
È un testo bruciante: in brevi, scarne parole, è un giudizio sul secolo (...). Che io mi ricordi forse è l´unico - brevissimo - testo di Chaplin in cui egli evoca il drammatico senza concedere nulla al buffo. Non vediamo il patibolo. Sappiamo solo che per l´omino al termine di quel cammino c´è l´uccidere: l´essere umano che uccide l´altro essere umano, che pure adesso è in suo assoluto possesso: inerme ormai, i polsi serrati nelle manette.
(...) Nei suoi modi la favola di Verdoux sembra tornare. Stavolta il mondo intorno al protagonista non è più la Francia. Siamo all´estremo dell´Occidente: in California. Protagonista è un bandito delle parti di Los Angeles, che si chiama, se ho annotato bene, Stanley Williams, detto "Tookie". Williams nasce e cresce in un ghetto povero della periferia di Los Angeles. E mette in piedi, nel 1969, con Raymond Washington, un´organizzazione criminale che prende il nome di "Crips": insieme danno vita a un´ondata di violenza e di delitti. A Williams sono stati addebitati l´assassinio di Albert Ovens, di Tzai-Shai Yang, di Yen-lo Yang e Yee Che Lin, compiuti nel corso di più rapine separate. Dice un testimone che «Williams stava uccidendo tutta la gente bianca». Ma viene sterminata anche la famiglia di Yang, che era immigrata da Taiwan.
L´arresto di Williams è del marzo del 1979, quasi trenta anni fa. E l´accusa denuncia efferati incitamenti di Williams ad assassinare la polizia, e commissionare delitti anche dall´interno della prigione dove è stato rinchiuso. Poi Williams ha una svolta nella sua vita. Ripudia quel passato sanguinoso. Scrive nella prigione libri per bambini in cui sostiene la non-violenza. Amici, che l´hanno conosciuto in quegli anni di carcere e di svolta, addirittura propongono il Williams per il premio Nobel per la pace. E vengono raccolte firme per chiedere clemenza. Ma il "regolatore" californiano Arnold Schwarzenegger è inflessibile. Respinge la richiesta. Il 13 dicembre del 2005 Williams viene condotto al patibolo. Il boia, nell´eseguire la condanna, fatica a inserire nel braccio del condannato la siringa avvelenata. Poi è la fine.
Più o meno quasi tutti i giornali del mondo escono criticando il rifiuto della clemenza. Ma presto - già il giorno dopo - altri eventi incalzano nel globo. La storia di Williams cade subito nell´oblio. Anche coloro che si erano commossi sono chiamati dalla vita ad altre premure, e su Williams scende la cupa cappa del silenzio. Ancora una volta, nei secoli, sulle terre del globo è tornata la pena di morte.

Corriere della Sera 9.11.07
Dibattiti. Piattelli Palmarini risponde ai rilievi di Boncinelli e Pievani sul «Foglio»
Tra Dio e Darwin meglio ascoltare la natura
«Ma superare l'evoluzionismo non vuol dire credere a un disegno esterno»
di Massimo Piattelli Palmarini


Il mio articolo di critica al neo-Darwinismo ortodosso, pubblicato domenica 4 novembre nelle pagine di cultura del Corriere della Sera, ha trovato un'ampia e positiva eco su Il Foglio del 6 e 7 novembre. Sono grato al direttore, ai redattori e ai collaboratori di quella testata per la gentile attenzione rivoltami, per il fedele riassunto degli argomenti da me trattati e per una lusinghiera biografia. Intelligentemente, Il Foglio ha consultato due qualificatissimi colleghi e amici, il genetista Edoardo Boncinelli e lo storico della scienza Telmo Pievani. Con loro sono da tempo in perfetta sintonia sul modo di ri-pensare l'evoluzione. Vorrei qui rassicurare Pievani che sono lungi dall'invocare qualsiasi intervento «esterno» e Boncinelli che sono lungi dall'invocare un'alternativa all'evoluzione. Arricchimento sì, alternativa no. Da loro mi distanzio solo per quanto riguarda alcune valutazioni espresse sul peso delle cose che dico in quell'articolo e sull'opportunità di dirle.
Boncinelli mi accusa garbatamente di «dire cose vecchie» quando faccio presente l'intreccio delle regolazioni dei geni maestri (sui quali lui stesso e i suoi colleghi hanno lavorato tanto) e di dire «un'ovvietà» quando sottolineo l'importanza delle leggi della fisica nel fornire grandi linee maestre e insospettate leggi di ottimizzazione per lo sviluppo degli organismi viventi. Alcune delle scoperte alle quali mi riferisco in quell'articolo sono vecchie di circa vent'anni, ma quasi ogni mese vengono pubblicate scoperte nuove e spesso sbalorditive. Per esempio l'intero campo della giunzione alternativa di segmenti di geni (alternative splicing) è in pieno e tumultuoso sviluppo, al Broad Institute di Cambridge Massachusetts (congiuntamente di Harvard e del Mit) e la prima sintesi comprensiva sull'argomento è del 2006. I lavori sulle ottimizzazioni biologiche spontanee delle quali parlavo spaziano dal 1999 al 2006, quindi non sono poi tanto vecchi.
Christopher Cherniak e colleghi all'Università del Maryland hanno sudato per ben due anni (dal 2002 al 2004) a soddisfare le obiezioni dei recensori scientifici, prima di poter pubblicare il loro articolo sull'ottimizzazione naturale (innata ma non geneticamente determinata) delle connessioni nervose, dal verme al macaco. Non proprio il trattamento riservato a chi dice un'ovvietà. Sia Boncinelli che Pievani dichiarano che i darwinisti ortodossi sono, oggi, una minoranza, che quanto affermo è ormai condiviso dalla maggioranza dei biologi e dei genetisti e che, quindi (lasciano capire), avrei agitato una tempesta in un bicchier d'acqua. Li smentisce l'eco immediata e notevole suscitata dal mio articolo, i messaggi di posta elettronica che sto ricevendo (in maggioranza di apprezzamento, soprattutto da professori di biologia dei licei), il folto pubblico che mi ha onorato al Festival di Genova e la nutrita discussione che ne è seguita (alla quale Pievani era presente). Se anche fossero cose vecchie e ovvietà, non sembrano essere state abbastanza divulgate. Ma vengo adesso ai colleghi ascoltati da Il Foglio, dai quali, invece, parzialmente dissento. Il corsivista riporta correttamente le parole del cardinale Christoph Schoenborn, che invitava, in un suo celebre articolo del 2005 (pubblicato sul New York Times), a «superare la visione materialistica dell'evoluzionismo». Il cardinale ed io concordiamo (in sintonia con i laicissimi biologi Stephen Jay Gould, Richard Lewontin e Stuart Kauffman) nel rivendicare il ruolo centrale giocato nell'evoluzione della vita dalle leggi della forma e da principi universali di coordinazione e ottimizzazione molto generali ed astratti. Ma anche questa è una visione perfettamente materialistica. Complessa, astratta, ma materialistica, proprio come lo sono la fisica e le sue leggi. L'antropologo e paleontologo monsignor Fiorenzo Facchini, nella sua intervista a Il Foglio, dice tantissime cose con le quali concordo, in particolare che esula dalla scienza trovare «il significato di un mondo che ha una sua storia evolutiva ». Su questo, a mio giudizio, Montale, Goethe e Borges ci hanno detto molto. Dissento, però, quando afferma: «L'evoluzione non può dimostrare, ma neppure escludere la sfera trascendente».
Invece penso proprio che la escluda, almeno quando si resta in ambito scientifico. Introdurre il trascendente violerebbe il patto scientifico, che consiste nello spiegare la natura restando nel naturale. Il significato del mondo, appunto, esula dalla scienza e ciascuno lo cerca a suo modo, nella letteratura, l'arte, la filosofia, la musica e, ovviamente, i credenti nella religione. Ma la spiegazione dell'evoluzione biologica è, per contratto intellettuale, impresa estranea al trascendente. Vengo infine al genetista Giuseppe Sermonti, il cui pezzo del 7 novembre assimila la selezione naturale a enti inesistenti congetturati dagli scienziati di altri tempi. La selezione naturale, a differenza di quanto afferma Sermonti, è ben reale ed avviene da miliardi di anni e avviene anche dentro di noi mentre leggiamo questo articolo (anticorpi, cellule del pancreas, cellule epiteliali, per non parlare delle connessioni nervose). Che non basti da sola a spiegare l'evoluzione e vada integrata con molti altri complessi meccanismi è quanto anche io sostengo, ma assimilarla all'inesistente flogisto degli antichi alchimisti e all'inesistente etere dei fisici di inizio Novecento è scorretto. A differenza di quanto afferma Sermonti, c'è continuità tra la genetica di popolazioni e l'evoluzione dei viventi, così come c'è continuità tra la biochimica e l'embriologia. Parafrasando nel presente contesto una bella espressione di Bertrand Russell, è un errore ritenere che, siccome la selezione naturale non è sufficiente, allora essa non è nemmeno necessaria.

Redattore sociale 8.11.07
Psichiatria 2007
Lo 0,4% degli italiani colpito da schizofrenia; il 55% non guarisce


Roma - Disabilita', stigma, isolamento. Senza contare le difficolta' per i familiari e i servizi assistenziali. Sono solo alcuni dei problemi derivanti dalla schizofrenia, uno dei disturbi mentali piu' gravi e invalidanti, che generalmente colpisce nella fascia di eta' compresa tra i 15 e i 35 anni, e che nel nostro paese, attualmente, coinvolge circa 150 mila persone (245 mila, invece, equivalente a circa il 0,4% della popolazione, nel complesso, gli individui che sono, o sono stati affetti, da disturbi di tipo schizofrenico). "Un fenomeno che non e' in aumento, ma che si segnale stabile. Noi ci aspettiamo dai 10 ai 20 nuovi casi ogni 100 mila abitanti" spiega Mirella Ruggeri, della Societa' italiana di epidemiologia psichiatrica, che questa mattina ha partecipato, al ministero della Salute, alla presentazione delle linee guida "Interventi precoci nella schizofrenia", promosse dal ministero e realizzate dalla Siep.
Ma anche un fenomeno che, come spiega Giovanni De Girolamo, dell'agenzia sanitaria regionale dell'Emilia Romagna, in circa cinquant'anni, ovvero da quando sono stati introdotti i farmaci, ha avuto un incremento di guarigione solo del 10%. "Erano, infatti, il 35% prima del 1956, mentre ora si attestano intorno al 45%". Con il conseguente risultato che il 55% delle persone colpite da schizofrenia non riesce ancora a trovare una via d'uscita dalla patologia.
E proprio per agevolare la ricognizione di validi strumenti per l'identificazione precoce di soggetti a rischio, il ministero della Salute a messo a punto le linee guida sulla schizofrenia, primo caso a livello internazionale, realizzate da un gruppo di lavoro multidisciplinare e destinate non ai medici di base, ma ai dipartimenti di salute mentale. Nell'elaborazione delle linee guida, il criterio prioritario sta nella distinzione tra "soggetti a rischio di schizofrenia" e quelli che si trovano al "primo episodio psicotico". Per i primi, l'efficacia degli interventi e' stata valutata assumendo come obiettivi la modifica del decorso di malattia o la prevenzione della sua insorgenza. Mentre, per quanto riguarda i pazienti al primo episodio psicotico, lo studio di valutazione ha portato ad una serie di raccomandazioni: da quella di attuare programmi di strutturati di identificazione e trattamento precoci dei soggetti al primo episodio, a quello di usare tecniche di "imaging" (come Tc e Mri) a supporto delle diagnosi, ma non in regime di screening, fino a quello di trattare farmacologicamente il paziente all'esordio psicotico, o nel periodo successivo all'esordio. (DIRE)
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il Riformista 9.11.07
Provocazioni. Hilary Putnam continua la battaglia contro i sofismi
I filosofi della polenta, troppo mega e troppo micro
Speculazioni come quella di Galimberti su Heidegger danno un senso di appagamelo, ma in realtà non ci svelano nulla. Rimane la fame di conoscere la verità, che si nasconde nei dettagli, non nei grandi temi. Meglio il sano pragmatismo della cattiva letteratura della mente.
di Filippo La Porta


Qualche giorno fa ho ascoltato all'auditorium di Roma Tre l'ottuagenario Hilary Putnam che ripercorreva i temi della sua ricerca filosofica, è stato particolarmente avvincente. Duemila anni dopo, si continua la battaglia di Socrate contro i sofisti. Contro ogni relativismo e scetticismo postmoderni c'è stato assicurato che la verità esiste, ancorché sia fallibile e ovviamente condizionata dal linguaggio che usiamo per dirla. Non si esaurisce in un effetto retorico e anzi ci impedisce di parlare a vanvera di qualcosa. Putnam infatti, dopo molte svolte teoretiche, è approdato a una idea di «realismo naif», per cui la realtà esterna, che pure possiamo descrivere in tanti modi diversi, decide in ultima istanza se un nostro enunciato sia vero o falso. Il mondo non è perduto, anche se ne esistono innumerevoli versioni. La verità è conoscibile, benché la nostra conoscenza sia sempre esposta all'errore, come sottolinea uno dei nostri più acuti interpreti di Putnam, Massimo Dell’Utri. Una conclusione che da qualche conforto anche a chi, come me, dilettante di filosofia, cerca nelle opere letterarie le tracce, i frammenti di una verità che, al tempo stesso, è «inventata» e anche «trovata» dagli scrittori. Ma torniamo per un momento alla filosofia.
Da qualche tempo mi vado convincendo che i filosofi sono non tanto i nemici dell'umanità ma, paradossalmente, i nemici di ogni genuina curiosità verso il reale? Non mi riferisco tanto alla annosa querelle sulla fede nazista di Heidegger, un filosofo molto amato (nell'ordine) dalla spaesata sinistra, ipnotizzata dal suo stile signorile, dai critici letterari perché da una patina di ineffabile alle loro interpretazioni, dai poeti in virtù del suo aroma di «profondità». Anche se è vero che nella filosofia dell'insondabile Heidegger sia arduo distinguere tra un Lager e una fabbrica di automobili, e anche se resta singolare il fatto che una rivista come Micromega, che dovrebbe essere naturalmente attratta da sobri filosofi neoilluministi e neorazionalisti pulluli invece di heideggeriani e metafisici alquanto verbosi.
No, il punto è un altro. Direi piuttosto che il limite principale della filosofia consiste nell'illuderci di capire, d'un tratto - e con poche formule ingegnose -, il mondo, l'essere, la storia, etc... quando non riesce a mettere bene a fuoco neanche la realtà a noi più prossima. In questo senso, ovviamente, i filosofi analitici e anglofobi (accomunati più da uno «stile» che da una «teoria»), giustamente ossessionati da rigore, chiarezza, coerenza, adesione all'esperienza, etc. (e quando non siano interamente votati allo scientismo e a un naturalismo riduzionista) sembrano un po' meglio attrezzati rispetto ai continentali, inclini alla metaforizzazione e alla cattiva letteratura. In genere quell'illusione di dominio conoscitivo sulle cose - non lontana utilmente "testare" attraverso un inconfondibile "effetto-polenta", a lettura conclusa.
Prendiamo proprio un numero di Micromega uscito la primavera scorsa e dedicato, come del resto molti altri (tutti utilissimi per orientarsi nel pensiero contemporaneo) alla filosofia. C'è un contributo di Umberto Galimberti, peraltro pieno di osservazioni stimolanti, che si incarica di riassumere – e lo fa benissimo - il pensiero di Heidegger. Dopo aver letto l'articolo - almeno questa è stata la mia esperienza - ci si sente davvero "pieni", appagati. Si è convinti di aver capito, finalmente, il nocciolo della nostra epoca e dell'occidente: abitiamo l'era della tecnica, dove ha spazio solo il pensiero calcolante e la logica dell'utile, e dove le uniche domande sul senso dell'esistenza possono nascere da una esperienza del negativo, dell'essere gettati, etc.
Magnifico. Però, esattamente come dopo una scorpacciata di polenta, ci troviamo ad aver fame quasi subito! Il teorema Heidegger, qui sobriamente compendiato, da l'ebbrezza - lievemente sadica - di incapsulare l'intera realtà, dal Macintosh alla Coca-Cola, ma poi lascia tantissime cose importanti fuori del suo raggio. Come una volta osservò il pragmatico Richard Rorty, da poco scomparso, i filosofi sono degli asceti, nel senso che riportano la realtà alla sua "essenza", perdendo così di vista i "dettagli", che invece, apparentemente banali, sono quasi sempre più significativi.
Anche se il mondo sembra oggi sparire nelle sue simulazioni non siamo cervelli immersi in una vasca come in Matrix, e illimitatamente manipolagli. Le nostre innumerevoli "narrazioni" devono pur sempre confrontarsi con una realtà esterna che a loro resiste.

Liberazione 8.11.07
Il sociologo entra nel dibattito su sicurezza e società
Bauman: «Con la menzogna politica
i governi oggi corrono pochi rischi»
di Susanna Marietti


Secondo il famoso sociologo molti governi cercano di seguire la strategia sulla sicurezza made in Usa: le minacce
devono essere dipinte con i colori più sinistri, così se non accade niente è il risultato di abilità degli organi statali
Bauman: «Con la menzogna politica i governi oggi rischiano poco»

Zygmunt Bauman, sociologo di origini polacche rifugiatosi in Gran Bretagna giovanissimo, ha raccontato nelle sue opere la solitudine del cittadino globale (come recita il titolo di un suo notissimo volume) e la ‘modernità liquida' dei nostri tempi. La liquidità, nel lessico di Bauman, è la mancanza di punti di riferimento, di progetti unitari e direzioni definite da seguire. Nella prefazione a un libro curato dall'associazione Antigone di imminente uscita per le edizioni Carta scrive:
«Gli stati cercano oggi urgentemente nuovi fondamenti per la loro autorità e la loro richiesta di obbedienza. I fondamenti esistenti - la promessa, e in buona parte la pratica, dello ‘stato sociale' che assicura i cittadini contro la sfortuna sofferta individualmente, benché originata socialmente - sono stati progressivamente indeboliti e rischiano di venir smantellati del tutto. La custodia della sicurezza personale sembra allora essere un'alternativa attraente».

In Italia viviamo in questo senso una situazione esemplare. Centrodestra e centrosinistra fanno a gara nel denunciare i pericoli drammatici delle nostre città, nonostante gli omicidi siano nettamente in calo e gli altri reati siano più o meno stabili da decenni. Eppure si distraggono le persone dai problemi di natura sociale, indirizzando il loro sguardo verso la parte economicamente debole e di conseguenza non integrata della società.
Certo. Per rendere efficace questa nuova legittimazione dell'autorità statale, i governi sono tentati di esagerare in ogni modo l'intensità delle minacce alla sicurezza. Essi hanno anche un disperato bisogno di dimostrare la propria fermezza nel combattere queste minacce stroncando il pericolo sul nascere. Nello sforzo di soddisfare entrambi i bisogni mantenendo un umore di costante emergenza, la menzogna politica si dimostra un espediente ideale. E curiosamente i cittadini quando vengono sottoposti a forti restrizioni delle proprie libertà personali, come interminabili controlli agli aeroporti o telecamere disposte ovunque, tendono a essere grati piuttosto che a sentirsi disturbati. Ricevono la dimostrazione che lo stato li protegge contro pericoli inimmaginabili in cui altrimenti si imbatterebbero… In molti acconsentirebbero a rinunciare a una buona parte delle proprie libertà personali per la sicurezza così intesa.

Il ricorso alla menzogna politica, dunque, porta a far sacrificare di buon grado quote di libertà personale.
Due minacce incombono oggi sul futuro della democrazia e dei diritti umani, nonché sulle speranze di far fronte seriamente alle sfide della nuova interdipendenza planetaria: i segreti di stato e le menzogne politiche. Entrambe le cose sono in rapida crescita ed entrambe sono usate per far spostare la legittimazione dei poteri locali e statali dalla sicurezza sociale a quella individuale. La menzogna politica, al contrario dei segreti di stato, è urlata a gran voce ‘per il bene dei cittadini'. Ma la sua efficacia nell'assalto alle libertà personali si basa sul presupposto che lo stato sa cose che i suoi cittadini non sono in grado di venire a sapere ed è meglio che non sappiano.
Il ricorso a una menzogna politica comporta un rischio minimo. Lo stato fabbrica un'informazione che finge di possedere, benché di nuovo ‘per il bene dei cittadini' non possa rivelarne i contenuti e le fonti. Ogni domanda posta dagli scettici è così squalificata in anticipo e costretta a rimanere senza risposta. Visto che tutte le possibili prove sono ben nascoste nel regno inaccessibile dei segreti di stato, il bluff non potrà mai venir scoperto. Nel caso in cui l'inganno venga messo a nudo da successivi eventi che lo stato non può controllare - come nel caso delle armi di distruzione di massa che Saddam Hussein doveva essere in grado di rovesciare sulle isole britanniche in meno di un'ora - questi può ancora contare sulla deplorevolmente corta memoria pubblica e sulle ben note fluttuazioni della pubblica attenzione. La menzogna sarà rapidamente dimenticata, oppure al momento della sua rivelazione non sarà più al centro dell'interesse pubblico. Mentire è oggi sicuro come mai prima: se gli allarmi dello stato su un imminente disastro non trovano conferma, non si sarà mai in grado di decidere se la minaccia non si sia materializzata grazie alla vigilanza del governo e all'efficacia delle sue contromisure o perché si basava su invenzioni.

Nella modernità liquida i rifiuti umani divengono sempre più numerosi.
Lo ‘stato sociale', quel coronamento della lunga storia della democrazia europea che fino a poco fa ha costituito la sua forma dominante, è oggi in ritirata. Esso fondava la richiesta di lealtà e obbedienza da parte dei cittadini sulla promessa di assicurarli contro la disoccupazione e l'esclusione, contro l'assegnazione alla condizione di ‘rifiuto umano' delle sfortune individuali, inserendo certezza in quelle vite altrimenti preda e dell'imprevisto. Se individui sfortunati inciampano e cadono, ci sarà qualcuno pronto ad aiutarli a rimettersi in piedi. Le instabili condizioni di occupazione dovute alle leggi del mercato erano allora, e continuano a essere, la maggiore fonte di insicurezza rispetto alla condizione sociale e all'autostima personale. Fu in primo luogo contro questa insicurezza che lo stato sociale prese a proteggere i suoi cittadini. Questo oggi non è più il caso per molte ragioni, tra cui principalmente la globalizzazione e la redistribuzione globale dei suoi rifiuti, processi gemelli che gli unici attori politici effettivi, gli stati nazione, non possono arrestare né influenzare seriamente. Gli stati attuali non possono mantenere la promessa dello stato sociale, e i loro politici neanche la rinnovano. Le politiche di questi ultimi preannunciano invece un'esistenza ancor più precaria e ossessionata dal rischio. Si chiede agli elettori di essere ‘più flessibili' - cioè di prepararsi a un'ulteriore futura insicurezza - e di cercare individualmente le proprie soluzioni ai problemi socialmente prodotti….

In Italia, l'ultima frontiera dell'emergenza è costituita dai rumeni.
A differenza di quanto accade con l'insicurezza, tangibilissima e quotidianamente esperita, prodotta dai mercati, i quali non hanno bisogno di alcun aiuto da parte dei poteri politici eccetto essere lasciati in pace, la mentalità da ‘fortezza assediata' e da proprietà privata e corpi individuali minacciati deve essere coltivata attivamente. Le minacce devono essere dipinte con i colori più sinistri, cosicché non l'avvento dell'apocalisse preannunciata, ma al contrario la non materializzazione delle minacce possa essere presentata al pubblico spaventato come un evento straordinario, e soprattutto come il risultato di abilità, vigilanza, cura e buona volontà eccezionali degli organi statali. E' ciò che viene fatto, e con risultati spettacolari. Quasi ogni giorno, almeno una volta alla settimana, Cia e Fbi mettono in guardia gli americani dagli imminenti attentati alla loro sicurezza, mentre il Presidente americano continua a ricordare ai suoi elettori che «basterebbe una fiala, una bomboletta, una bottiglia introdotta in questo paese a portarci un orrore mai conosciuto prima». Questa strategia è copiata con impegno, anche se finora con ardore un po' ridotto per mancanza di fondi (ma non di volontà), da altri governi che sovrintendono alla sepoltura dello stato sociale.





Su iniziativa di alcune associazioni e di numerosi militanti iscritti ai quattro partiti di sinistra o animatori di importanti e significative strutture politiche, culturali e sociali è nata “Sinistra per Roma” che vuole contribuire alla costruzione di un movimento culturale e politico che abbia come obiettivo l’apertura di una fase costituente per la nascita di un nuovo soggetto politico a sinistra, unitario, plurale ed ecologista.
Le associazioni e i firmatari dell’appello pure convinti che un nuovo soggetto unitario a sinistra non può nascerete prescindendo dal ruolo decisivo dei partiti, sono altrettanto convinti che i partiti da soli, se non vi sarà una vigorosa spinta dal basso, non sono in grado di determinare questo esito, anzi rischiano di realizzare pericolose scorciatoie o di dar vita ad accordi dettati dalla solo necessità di eventuali difficoltà elettorali. Occorre invece indicare, con nettezza e coerenza, un percorso, una strategia, delle tappe. Insomma, impegnarsi in un lavoro politico, organizzativo e culturale di medio periodo per costruire una grande moderna sinistra, capace di rinnovare la politica e di ricostruire il rapporto tra politica, cultura e cittadini.
Per queste ragioni i promotori dell’appello (è in corso la raccolta delle adesioni ed è intenzione dei promotori superare, entro la fine del mese, le mille firme) sollecitano tutte le organizzazioni della sinistra e in particolare i gruppi dirigenti romani dei partiti del PRC - SE, PdCI, Verdi, Sinistra Democratica, affinché condividano con i promotori dell’iniziativa la proposta di avviare una fase costituente attraverso la formazione di una Assemblea rappresentativa di tutto il popolo della sinistra, e segnare così, unitariamente, in termini forti, il dibattito politico nazionale sul futuro della sinistra italiana.
Per rafforzare il carattere insieme unitario e propositivo dell’iniziativa si è deciso, assieme ai promotori di altre iniziative analoghe, di tenere entro la prossima settimana una riunione di tutti i firmatari dei diversi appelli. Nel corso della riunione saranno anche affrontati, in modo democratico e partecipato, i problemi da affrontare e gli intendimenti che dovranno emergere dalla grande assemblea cittadina di tutta la Sinistra di Roma prevista per lunedì 3 dicembre, con la partecipazione di personalità e rappresentanti di iniziative simili alla nostra maturate in altre città d’Italia.
“Sinistra per Roma” ha la sede presso L’Associazione Culturale di Monteverde, in Via di Monteverde 57.

Segue l’appello con le firme.


Sinistra per Roma
Un movimento politico per la costituente
Appello
(Roma, 12 novembre 2007)

L’unità della sinistra è necessaria e urgente, pena il suo inesorabile declino. È infatti essenziale porre fine alle divisioni e al frazionamento che rendono sempre più deboli le sue ragioni per la pace, la democrazia, la libertà, l’uguaglianza e la salvaguardia del pianeta. Occorre uno strumento adeguato ed efficace per dare una diversa e nuova rappresentanza politica al mondo del lavoro, ai movimenti pacifisti, ambientalisti e di tutela dei diritti civili. Una sinistra che sappia, inoltre, condurre una sfida politica e culturale anche nell’ambito del centrosinistra e nel ricercare convergenze e intese col Partito Democratico ne contrasti, con una sua specifica iniziativa, la deriva neocentrista nelle idee, nelle culture e nelle politiche. Una sinistra, infine, in grado di sostenere e assecondare i migliori valori collegati alla laicità dello Stato e che sia in grado di svolgere una critica di massa al sistema capitalistico e ai suoi dis-valori basati sull'individualismo e che, proprio perché intende misurarsi con i Democratici sul terreno dell’egemonia politica, operi per un’alternativa di società.

Per queste ragioni è indispensabile dar vita a un processo per la costruzione di un nuovo soggetto unitario della sinistra, plurale e di massa, aperto alla società e ai movimenti, insediato nel mondo del lavoro e nei territori. Un soggetto innovativo che recuperi il concetto migliore sia di rappresentanza diretta che di delega, oggi colpevolmente trascurati e sacrificati da una politica sempre più distante dalle esigenze dei cittadini e delle cittadine; un nuovo soggetto politico che sappia dunque sostenere – valorizzandoli – sia la partecipazione democratica sia il conflitto sociale e ricerchi un nuovo spazio pubblico per uscire da sinistra dalla crisi della politica. Pertanto proponiamo di realizzare un modello partecipativo che si basi su forme innovative e più avanzate di democrazia che realizzino una rottura con il modo attuale di fare politica – professione separata dalla società – e con i suoi alti costi. Un nuovo soggetto politico quindi in netta discontinuità con il carattere monosessuato della politica e con la pratica organizzativa piramidale, verticale e gerarchica e che traduca positivamente, tra quelle le rivendicazioni condivise delle comunità locali, prima di tutto sui temi del lavoro e dell’ambiente.

Siamo convinti che la proposta della “Federazione della Sinistra”sia inadeguata. e che per avviare il processo unitario di un nuovo soggetto politico sia decisivo aprire una vera e propria fase costituente, attraverso la formazione di un’ “Assemblea Costituente” rappresentativa di tutto il popolo di sinistra. Un’Assemblea eletta in termini democratici e che sia il risultato di un coinvolgimento popolare vero, dal basso, di rappresentanze dai territori. Dunque, un’Assemblea che vada oltre i partiti esistenti e i loro apparati. La convocazione pertanto degli “Stati Generali” deve essere l’occasione per un lavoro che abbia come risultato l’indicazione dei tempi, delle forme e delle norme con le quali giungere all’”Assemblea Costituente”.

La volontà dei gruppi dirigenti dei partiti di sinistra di lavorare su un progetto unitario è una condizione, ma da sola è insufficiente, anzi a lungo andare potrebbe diventare una pericolosa e fallimentare scorciatoia. Infatti, un soggetto politico unitario nuovo non può essere la sommatoria delle debolezze dei partiti Per questo occorre che si realizzino case della sinistra, laboratori sociali, momenti di aggregazione nei territori: luoghi aperti del confronto e della contaminazione per dare costante impulso e forza al processo costitutivo. Sul piano elettorale è necessario dar vita a liste unitarie a tutti i livelli, la cui formazione deve svolgersi in modo partecipato e trasparente. Le liste unitarie comunque non sono né un punto di partenza né un punto d’arrivo del processo costitutivo, bensì una tappa di un lavoro politico, culturale e organizzativo di lunga lena che non può esaurirsi con la composizione di unitarie rappresentanze istituzionali.

La grande area urbana di Roma è attraversata da drammatici problemi come la precarietà sociale, l’insicurezza di vita soprattutto per le nuove generazioni, la scarsa qualità dei servizi, l’insufficienza organizzativa delle strutture amministrative, il degrado ambientale e il consumo continuo di territorio, il caotico sviluppo urbanistico e l’inadeguatezza delle infrastrutture, il traffico congestionato. Il cosiddetto “modello Roma” sta assumendo le sembianze di un blocco sociale e di potere per la modernizzazione neoliberista della società romana. La necessità di una sinistra capace di dare risposte adeguate e di indicare un percorso di profonde trasformazioni dell’area metropolitana per una diversa qualità della vita è quindi forte e urgente, anche in considerazione del fatto che la sinistra governa insieme con il Partito Democratico in quasi la totalità dei Municipi, al Comune, alla Provincia e alla Regione.

È tempo dunque di promuovere e favorire un lavoro comune di analisi e proposta politica, un lavoro collettivo culturale e di iniziativa nel sociale e nelle istituzioni, per unire la sinistra su un progetto di cambiamento del Paese e attorno a un programma di governo per Roma, per la Provincia e per la Regione. Occorre favorire e sostenere tutte le attività di carattere politico e programmatico impegnate in questa direzione.

Per questo i firmatari del presente appello si fanno promotori, nella sede de “L’Associazione Culturale di Monte Verde”, storica struttura unitaria della sinistra romana, di “Sinistra per Roma”, con l’obiettivo di mettere insieme – in un sistema a rete - tutte quelle forze ed energie, singole personalità e militanti ma anche realtà associative e collettivi territoriali, che a Roma si riconoscono nella proposta di aprire una fase costituente per dare - da subito - forza e consenso popolare al processo costitutivo di un soggetto unitario e plurale della sinistra. Crediamo, inoltre, che “Sinistra per Roma” possa contribuire all’unificazione di tutte quelle iniziative analoghe per dare vita a un movimento per la costituente. Questo è il nostro impegno, la nostra finalità politica.

Intendiamo, lavorando in primo luogo con i partiti, anzi in stretta collaborazione con essi, dare - donne e uomini di sinistra della Capitale - il nostro fattivo ma autonomo contributo per realizzare l’unità della sinistra. Crediamo che questa nostra scelta sia importante e meritevole di essere condivisa e sostenuta. Per questo chiediamo che questo nostro appello sia pubblicato su tutti i siti delle organizzazioni della sinistra.

Firmatari:

Antonio ALCARO; Salvatore ALFIERI; Pino ARLACCHI; Andrea AMATO; Bruno AMOROSO; Bruno BARTOLOZZI; Mariella BACARINI; Paolo BERDINI; Stefano BOCCONETTI; Salvatore BONADONNA; Sergio BELLUCCI; Elena CANALI; Mario CANINO; Tommaso CAPEZZONE; Aldo CARRA; Antonio CASTRONOVI; Bruno CECCARELLI; Giulietto CHIESA; Armando CIPRIANI; Neno COLDAGELLI; Paola CORTESE; Mariopaolo DARIO; Anubi D’AVOSSA LUSSURGIU; Ivano DI CERBO; Carlo DRAGO; Maurizio FABBRI; Giorgio FABOZZI; Daniela FALCONE; Antonello FALOMI; Sergio FORTUNATO; Simone FUSCO; Pino GALEOTA; Paolo GENTILE; Fabio GRIECO; Claudio LAUDISA; Lino LELLI; Lucio LIBONATI; Enrico GIARDINO; Luciano IACOVINO; Francesco MANCUSO; Augusto MANGIONI; Vittorio MANTELLI; Paolo MENICHETTI; Raul MORDENTI; Antonio MURRI; Roberto NAPOLEONE; Franco OTTAVIANO; Carlo PATRIGNANI; Cirio PESACANE; Anna PIZZO; Giovannella PODESTA’; Raffaele PRINCIPE; Francesco PULIA; Simona RICOTTI; Mimmo RIZZUTI; Elio ROMANO; Vittorio SARTOGO; Enzo SCANDURRA; Roberto SCIACCA; Luisa SEVERI; Volfango SINISCALCHI; Ester STOCCO; Luigi TAMBORRINO; Corrado TEOFILI; Marco TIMARCO; Tommaso VACCARO; Alessandro VALENTINI; Sergio VASARRI; Anna Maria VIRGILI; Angelo ZOLA.

Hanno inoltre aderito le seguenti strutture:

Associazione AMBIENTE E SINISTRA – NODO AMBIENTALISTA; Associazione Culturale MONTEVERDE; ARS – Associazione per il Rinnovamento della Sinistra; Associazione SINISTRA EUROMEDITERRANEA; Associazione ROSSOVERDE per la sinistra europea; Circolo Culturale “A SINISTRA, PUNTO E BASTA!”; Forum LUIGI PETROSELLI – Uniti a Sinistra; Rivista LEFT; SINISTRA ROMANA – Uniti a Sinistra.