venerdì 9 marzo 2007

Liberazione, 6 marzo 2007
Inserirsi per trasformare


Cara “Liberazione”
nella polemica tra Nichi Vendola e Sansonetti sull’importanza della governabilità, mi pare utile ricordare il pensiero di Riccardo Lombardi in occasione dell’esperienza del primo governo di centrosinistra, che fu poi guidato da Amintore Fanfani negli anni 1962-1963. Al XXXIV Congresso del Partito Socialista, Riccardo Lombardi sostenne vivamente la mozione di Nenni favorevole alla nascita di un governo di centrosinistra. Ma non si deve dimenticare che Lombardi era quello che teorizzava la possibilità e la necessità di «conquistare lo Stato dall’interno», sostituendo gradatamente il «criterio assoluto del profitto con quello dell’utilità collettiva». Era peraltro ben consapevole che qualsiasi sforzo in questa direzione avrebbe comportato uno scontro con i poteri forti, fossero quelli di un capitalismo fortemente viziato dalle rendite parassitarie, dell’imperialismo americano o della Chiesa Cattolica, allora come ora sempre troppo pronta ad intervenire nella politica italiana. D’altra parte, solo tre anni più tardi, di fronte all’evidente fallimento di quell’esperienza lo stesso Riccardo Lombardi in una lettera a Francesco De Martino lo invitava ad intervenire, in quanto segretario del Psi, per contrastare l’affermazione fatta da Nenni secondo cui: «l’idea ispiratrice della politica di centrosinistra era garantire la stabilità politica nella democrazia repubblicana».
Quello che “spaventava” Lombardi non era il riferimento alla “stabilità”, ma che questa fosse diventata per Nenni il «momento essenziale, prioritario e decisivo». Riuscirà la sinistra nei prossimi mesi ad uscire dall’angolo in cui è stata messa dal ricatto della caduta del governo Prodi? Forse l’unica strada, sempre citando Lombardi, è la forza che le verrebbe «dall’unità di tutte le forze che si richiamano al socialismo», un socialismo che, conscio della reazione a cui necessariamente andrà incontro (si chiamino Confindustria, Stati Uniti d’America o cristianesimo) si inserisca con le necessarie alleanze nel sistema capitalistico per trasformarlo, per trasformare gradatamente i modi di produzione, per far sì che tutti lavorino meno ma lavorino meglio, per produrre cose di pubblica utilità. Forze politiche di sinistra unite da una visione politica che sappia anche indirizzarsi ad una trasformazione dell’essere umano, ovvero «più capacità per gli operai di leggere Dante o di apprezzare Picasso» «per una società in cui l’uomo diventa diverso e diventa uguale, uguale non perché ha l’automobile altrettanto bella dell’imprenditore, ma perché è capace di studiare e di apprezzare i beni essenziali della vita». Vogliamo ricordare, infine, ai sostenitori del Partito Democratico, la sua totale e ferma contrarietà alla fusione tra il Psi e il Partito Social Democratico? «Noi siamo socialisti» diceva «perché crediamo possibile cambiare il mondo, non semplicemente amministrarlo!».

Sergio Grom via e-mail


Repubblica 9.3.07
Le idee. Il nazismo di Heidegger e i conti col passato
E Celan incontrò Heidegger
La poesia fa i conti col nazismo
di Adriano Sofri


C´è ancora chi pensa si possa confutare il filonazismo del filosofo di "Essere e tempo" Ma la sola idea, stando alle sue dichiarazioni, è inaccettabile
Nel 1949 T.W. Adorno scrisse una frase poi citata all´infinito sul fatto che scrivere poesie dopo Auschwitz era una barbarie
L´heideggerismo è una filosofia della guerra e la guerra travolge e trascina gli individui, li mette in uniforme e li avvia ad un solo destino
Paul, ebreo, era nato in Bucovina nel 1920 e aveva perso il padre e la madre in un campo di concentramento: è il poeta della Shoah

È DIFFICILE fare i conti col passato. Soprattutto col proprio: con il passato altrui ci si sbriga. Prendo le mosse da una succinta notizia nella pagina culturale del Corriere (Pierluigi Panza, «Heidegger difeso dall´accusa di hitlerismo») sul libro curato da François Fédier che confuta il «presunto filonazismo» di Heidegger. Ho fatto un salto sulla sedia: Heidegger non fu filonazista solo perché fu nazista, con fervida compromissione nel 1932-35, e un´adesione rinnovata fino alla fine. Negli stessi giorni Pierluigi Battista ha ripreso il tema del «silenzio» degli intellettuali italiani dopo il fascismo, sulla scia della rivelazione di Günter Grass, fin troppo clamorosa.
Non saprei conciliare una severità verso gli intellettuali convertiti anesteticamente all´antifascismo, e verso Grass, con l´indulgenza per Heidegger. Il silenzio (o peggio) dell´Heidegger del dopoguerra a proposito del suo passato e dello sterminio è stato più penoso della stessa adesione al nazismo. Esce anche da Sellerio una raccolta di saggi (impervii) di Jean Bollack, La Grecia di nessuno, titolo che calca Paul Celan, Niemandsrose, la rosa di nessuno. L´ultimo saggio è dedicato all´episodio più frequentato fra i mille della controversia su Heidegger e il passato: l´incontro fra il filosofo e Celan. (Grass rifece l´episodio ne Il mio secolo). Mi terrò ai bordi, per inadeguatezza e per un pregiudizio contro Heidegger. Una volta un suo visitatore citò con reverenza il commiato del maestro: «E poi, sa, non è ancora detta l´ultima parola». Si trattava nientemeno che del giudizio storico sul Reich. Frase oracolare, che qualunque barbiere potrebbe ridire: «E poi, sa, l´ultima parola non è mai detta». Enigmistica buona per congedare un devoto, col viatico della sapienza oscura.
Al momento di sciogliere l´enigma, nell´intervista del 1966 allo Spiegel, da pubblicare postuma, Heidegger avrebbe detto: «Per me oggi una domanda decisiva è: come può adattarsi un sistema politico - e quale - all´età della tecnica? A questa domanda non so dare risposta. Non sono convinto che sia la democrazia».
Se il profetismo di Heidegger era arduo, la poesia di Celan non lo era meno, di una difficoltà pronta a spezzarsi nella lingua come si era spezzata nella vita, mentre la difficoltà del filosofo restava per così dire tutta d´un pezzo. Celan, ebreo, nato in Bucovina nel 1920, aveva perduto padre e madre in un campo nazista, ed era scampato trovandosi un rifugio di fortuna, poi sopravvivendo ai lavori forzati. È stato il poeta della shoah, e in quella lingua tedesca - lingua madre, lingua della madre assassinata - proprio quando veniva coniata la pretesa che non si potesse far più poesia dopo Auschwitz: e gli fu rinfacciata la stessa "bellezza" della sua poesia più famosa, Todesfuge, fuga di morte («...la morte è un mastro di Germania». Le poesie sono curate in un prezioso Meridiano da Giuseppe Bevilacqua).
Il 24 luglio del 1967 Celan, reduce da un ricovero in casa di cura, tiene una conferenza a Freiburg. Heidegger è fra gli ascoltatori, e Celan, che pure rifiuta di essere fotografato con lui, accetta l´invito a visitarlo all´indomani. L´incontro avviene alla Hütte - la baita - che Heidegger ha trasformato nel monumento al proprio prestigio di pensatore e di tedesco della Foresta Nera, di «uomo che ha una patria ed è radicato in una tradizione». Celan firma il libro dei ricordi: «Nel libro della hütte, lo sguardo sulla stella del pozzo, con, nel cuore, la speranza di una parola a venire. Il 25 luglio 1967, Paul Celan». Sei giorni dopo, nella sua stanza d´albergo, scriverà una poesia: «Arnica, eufrasia, il / sorso dalla fonte con sopra / il dado stellato, // nella / baita, // la riga nel libro / - quali nomi accolse / prima del mio? -, / la riga in quel libro / inscritta, / d´una speranza, oggi, / dentro il cuore, / per la parola / ventura / di un uomo di pensiero, // umidi prati silvestri, non spianati, / orchis e orchis, separati, // più tardi, in viaggio, parole crude / senza veli // chi guida, l´uomo, / che anche lui ascolta, / percorsi a / mezzo, i viottoli / di randelli sulla torbiera gonfia, // umidore, / molto».
L´arnica, l´eufrasia risanatrici c´erano davvero, e c´era la fontana con la stella intagliata in un cubo. C´era il libro delle firme, la speranza della parola a venire. E poi il cammino nel prato, e le orchidee solitarie, il testimone che ascolta, e infine la palude di tronchi-randelli. Ciascuno di questi ingredienti, a cominciare dal nome del luogo e della poesia, Todtnauberg, il monte della morte, evoca altre immagini senza fine.
Celan manderà a Heidegger la prima copia di un´edizione privata della poesia. Heidegger risponderà con una formula elusiva, ma mostrerà con orgoglio la poesia agli amici. Forse senza averla intesa, o l´oscurità dei versi sarà bastata a tranquillizzarlo. La poesia uscirà poi in volume nel 1970. In quell´anno Celan tiene un´ultima lettura pubblica a Friburgo, e rinfaccia ad Heidegger di non ascoltarlo abbastanza attentamente. Un testimone ricorda: «Heidegger si fermò pensieroso presso la porta della sua casa per dirmi, scosso dall´emozione: "Celan è malato- e non esiste cura"». Heidegger non è stato tradito dall´aria della sua montagna: è morto nel 1976, ottantasettenne. Quanto all´incurabile Celan, il suo cadavere è stato ripescato nella Senna di Parigi il 1º maggio del 1970. Così l´incontro alla Hütte - confronto di radicamento e sradicamento, del filosofo affiliato al nazismo e del poeta scampato, nella lingua comune e irriducibilmente opposta - riceve il suggello del contrasto fra il professore di buona salute e il poeta malato di suicidio. Ci sono longevità vantate come un merito e un segno di aristocrazia: grattate quella longevità, e troverete l´impostura. Ci sono molti modi di "essere per la morte". Il confronto con la morte, che Heidegger incarica di riscattare la distrazione della vita ordinaria, può essere, sulla scorta di Ernst Jünger, la sfida cercata col pericolo estremo, con l´azzardo del soldato nella guerra di trincea. Ecco che la longevità appare, piuttosto che l´indizio di un´esistenza condotta al riparo, come la vincita strappata alla morte in battaglia. L´"essere per la morte" dell´ammalato ha un´autenticità tardiva e di rango inferiore, né scelta né cercata, ma miseramente subita.
Immaginarsi dunque l´"essere per la morte" delle vittime designate di un annientamento, per il loro solo essere quello che sono - ebrei, zingari, gente di scarto. Il suicidio del poeta è agli antipodi della morte sfidata dal soldato: cui, una volta superstite, arridono i centotré anni di Jünger. Chi sopravviva a un "essere per la morte" non voluto, inferiore, nemmeno deciso dal destino o dall´arruolamento obbligato, ma deliberato da nemici superiori, da soldati delle tempeste d´acciaio, gettato nel mondo e rigettato dal mondo - quel superstite infatti muore già in vita, muore così spesso suicida, la vita è la sua malattia.
L´accettazione del destino - rassegnata o entusiasta, nel qual caso la si chiama missione - culmina nella circostanza della guerra: cui ci si piega per solidarietà nazionale, o generazionale o cui si aderisce per passione, soldati di una Missione collettiva, patriottica, religiosa, classista. Il nazismo è una filosofia della guerra - l´heideggerismo anche. La guerra travolge e trascina gli individui, la chiamata alle armi taglia loro i capelli allo stesso modo, dà loro un´uniforme, li sottomette al destino collettivo, l´"oceano" rispetto al quale, come in Jung, la psicologia personale è un´increspatura insignificante. Quello che chiamiamo coscienza è la risalita dalla profondità, dalla barbarie e dal trascinamento collettivo, alla civilizzazione e alla libertà individuale. La civiltà è la camera iperbarica di questa risalita.
Essa non può che essere lenta e intermittente, mentre la discesa è precipitosa. Questo doppio movimento, ineguale e iniquo - perché la civiltà è fragile, una pellicola recente, una lastra di ghiaccio sottile sulla quale danza una pattinatrice adolescente, e invece la barbarie è forte e antica - si riproduce nel doppio movimento della comunità verso la distruzione, velocissimo, e chiamavamo fino a poco fa questa velocità progresso, o verso la pausa di riflessione, la moratoria, il fermo biologico, la ritirata, che è lenta. La riparazione culturale ed ecologica è la tartaruga che insegue l´Achille della consumazione e della manipolazione. È una doppia partita, ma truccata. Non si può che perdere, ma dilazionare la fine. Forse, mentre prendiamo tempo, sarà inventato un farmaco nuovo, si troverà una nuova strada.
La volta in cui accennò allo sterminio, nel 1949, Heidegger lo fece di passaggio, per accostare grottescamente la trasformazione dell´agricoltura in industria alimentare meccanizzata alla lavorazione dei cadaveri nelle camere a gas e nei campi.
Insofferente verso la trasfusione di esperienze vissute, di emozioni, di relazioni linguistiche e culturali, dentro i versi di Celan, che li fa sembrare illeggibili fuori da quella trama di informazioni, Hans Georg Gadamer preferisce che la poesia miri a «un mondo nel quale il poeta è di casa proprio come i suoi lettori». Ma per l´appunto Celan non è di casa a questo mondo, e ha tolto il disturbo. Si è arrivati a sostenere che il suicidio di Celan sia stato causato dal tentativo fallito di far riconoscere ad Heidegger la colpa dello sterminio: tesi impudente, che finisce per alzare di qualche centimetro il monumento al filosofo. Il grande e disgraziato poeta, che non la fa finita per la shoah, la morte e la vita, ma perché non è riuscito a strappare ad Heidegger la parola giusta!
Heidegger avrebbe poi accostato Celan a Hölderlin. Ma Celan abita poeticamente la terra, Heidegger no. La svolta di Heidegger verso la poesia, e Hölderlin in particolare, è un falso movimento: un modo per serbare intatta l´oscurità, per rifiutare "poeticamente" la chiarezza. Si è perfino fatto passare il silenzio di Heidegger sulla shoah come una dichiarazione della sua indicibilità! Anche Derrida cede alla sovrainterpretazione dei silenzi, pur dichiarandoli forse imperdonabili: «Io intendo questo terribile, forse imperdonabile silenzio di Heidegger come un´eredità. (...) Ci lascia l´obbligo di pensare ciò che egli stesso non ha pensato». Ma il silenzio di Heidegger va tutto intero sul suo conto.
Nel 1949 T. W. Adorno scrisse quel pensiero citato all´infinito: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie, e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie». È difficile oggi spiegarsi come potesse essere accolto letteralmente, al punto che qualcuno, abbiamo visto, accusò la Todesfuge di Celan di un sacrilegio contro Auschwitz. Confesso una diffidenza per la frase di Adorno, nella quale sento una retorica quasi fatua. Non era un bando alla parola e alla sua inadeguatezza: è in parole che Adorno dichiara prescritta la poesia. Se no, era uno dei molti modi in cui si cercò di significare il troppo di orrore e di iniquità dello sterminio, l´unicità. Ma l´unicità, che ha argomenti forti dalla sua parte, si impoverisce, o addirittura si avvilisce, quando la si voglia stringere in un´argomentazione. Sicché si potrebbe dire che dopo Auschwitz la prosa è diventata, se non inetta - che vorrebbe dire cedere all´"indicibile" e screditare i testimoni - molto più difficile e debole. E, viceversa, che la poesia è stata forte. Celan fu terribilmente ferito dall´accusa grottesca. Nel 1965 scrisse i versi conosciuti solo dopo la sua morte, che evocavano Theodor Wiesengrund Adorno (la traduzione è di Michele Ranchetti e Jutta Lesckien): «Madre, madre / Strappata dall´aria / Strappata dalla terra. / Giù / Su / trascinata. / Ai coltelli ti consegnano scrivendo, / con abile mano sciolta, da nibelunghi della sinistra, con / il pennarello, sui tavoli di teck, anti- / restaurativi, protocollari, precisi, in nome della inumanità da distribuire / di nuovo e giustamente, / da maestro tedesco, / un garbuglio, non / a-bisso/ab-gründig/ ma / a-dorno /ab-wiesen/ / scrivendo, / i reci-divi, / consegnano / te / ai / coltelli».
Adorno stesso avrebbe riconosciuto più tardi che «forse è falso che dopo Auschwitz non si possa più scrivere una poesia». E «dire che dopo Auschwitz non si possano più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un´arte serena». Che vuol parere un´attenuazione, ed è un vero capovolgimento. Adorno si sarebbe chiesto allora se fosse possibile, dopo Auschwitz, vivere: che era un gioco al rincaro.
"Wahr spricht, wer Schatten spricht" - dice il vero, chi parla oscuro: è un verso di Celan. La differenza fra l´oscurità di Heidegger e quella di Celan ha per posta la verità. Si ha l´impressione che la poesia di Celan, piuttosto che dirla, sia la verità.
Una volta Primo Levi rispose a un intervistatore a proposito del decreto di Adorno: «La mia esperienza è stata opposta. Allora mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro... Avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz». Tuttavia Levi, che pure diceva di esser stato salvato dalla poesia, metteva in guardia dallo "scrivere oscuro": «Nel mio scrivere... ho sempre teso a un trapasso dall´oscuro al chiaro».
Levi ha di mira Celan nell´articolo del 1976: «Non si dovrebbe scrivere in modo oscuro... L´effabile è preferibile all´ineffabile, la parola umana al mugolio animale. Non è un caso che i due poeti tedeschi meno decifrabili, Trakl e Celan, siano entrambi morti suicidi, a distanza di due generazioni. Il loro comune destino fa pensare all´oscurità della loro poetica come ad un pre-uccidersi, a un non-voler-essere, ad una fuga dal mondo, a cui la morte voluta è stata coronamento. Per Celan soprattutto... Si percepisce che il suo canto è tragico e nobile, ma confusamente... un linguaggio buio e monco, qual è appunto quello di colui che sta per morire, ed è solo, come tutti lo saremo in punto di morte. Ma poiché noi vivi non siamo soli, non dobbiamo scrivere come se fossimo soli». Noi vivi: ancora dieci anni, e Levi sarà così solo da decidere il suo punto di morte. Prima, il suo corpo a corpo con Celan gli avrà fatto scrivere quella poesia, Il superstite, che grida (invano, come decreteranno fra poco I sommersi e i salvati) la propria incolpevolezza, evoca ancora una volta il suo Ulisse e ripete il nome fatidico del Salmo di Celan, la Rosa di nessuno: «Non ho soppiantato nessuno, / Non ho usurpato il pane di nessuno, / Nessuno è morto in vece mia. Nessuno».

Repubblica 9.3.07
Le radici del nuovo potere temporale
La chiesa di Ratzinger e la politica
di Giuseppe Alberigo


Dal governo territoriale alla spiritualità, come è mutata la loro funzione nei secoli
Cosa accadrà dopo il cambio al vertice della Conferenza episcopale

All´interno della storia della chiesa e in rapporto alla società la funzione, il ruolo e il peso dei vescovi è stato molto diverso. In origine questa figura aveva il compito di curare i rapporti tra le varie comunità ed eleggere i nuovi vescovi; elezione accettata e convalidata, in genere per acclamazione, dal popolo. È una situazione che durerà parecchi secoli, durante i quali assistiamo all´affermazione di un´autorità soprattutto spirituale.
La prima grande novità si verifica nell´età feudale. Moltissimi vescovi diventano veri e propri signori feudali. Nascono figure impensabili prima. Il vescovo-conte o il vescovo-principe esercitano non solo un potere spirituale ma anche e soprattutto una signoria territoriale. Appartengono a una nuova geografia sociale che travalica i compiti tradizionali della chiesa. La conseguenza è che si diventa vescovo meno per vocazione e sempre più spesso per interessi di famiglia o per ambizione politica personale. Ancora fino a un secolo fa il vescovo di Trento era un principe dell´impero austro-ungarico. La sua autorità più che dalla chiesa finiva con l´essere legittimata dal sovrano. In nome di questa autorità territoriale decine di vescovi, sparsi per l´Europa, avevano proprie milizie, battevano moneta, ed erano autorizzati a imporre tasse. Il loro potere temporale inglobava e nascondeva quello spirituale. Un tale rilievo sociale, politico ed economico crebbe fino alla metà del Cinquecento, quando il Concilio di Trento tentò di ridimensionare questo processo avanzato di secolarizzazione. Già Lutero e i protestanti avevano denunciato una situazione nella quale i vescovi non facevano più i vescovi ma i signori temporali. Costoro spesso non vivevano neppure più nelle diocesi ma alla corte del principe più importante, al quale esprimevano devozione e fiducia e, in cambio della sottomissione, ricevevano la convalida del loro potere. Il Concilio di Trento porrà le basi per eliminare tutto questo. Ma occorrerà aspettare ancora due secoli perché di fatto la situazione si risolva. Saranno gli stati nazionali a eliminare progressivamente questi signorotti locali che ormai non sono più né laici né vescovi, ma un ibrido giuridicamente preoccupante. Si tratta di un passaggio fondamentale per ristabilire una figura di vescovo che avesse una fisionomia soprattutto spirituale, oggi diremmo pastorale.
Chi è dunque il vescovo oggi? Ecco una domanda che richiede una considerazione allarmante. Ancora quarant´anni fa, cioè all´epoca del Concilio Vaticano II, i vescovi erano circa duemila e cinquecento. Oggi nel mondo sono più che raddoppiati. Alla crescita numerica si è accompagnato mediamente un abbassamento della qualità. Può non sorprendere. Lo scadimento intellettuale si registra anche nella società. Ma le conseguenze nella chiesa sono di aver favorito alcune personalità più forti. Da questo punto di vista, la lunga e incontrastata presidenza di Camillo Ruini alla guida della Cei - che ha ridotto la conferenza episcopale a una struttura monolitica - è stata possibile sia per le sue spiccate doti politiche sia per la scarsa personalità dei vescovi che hanno conformisticamente obbedito alle sue scelte. Lamento, a voler essere più chiari, un´assenza di dibattito reale che mi auguro il nuovo presidente della Cei Angelo Bagnasco, sappia promuovere.
C´è un paradosso che a questo punto, vorrei segnalare. Quando fu firmato il nuovo concordato, quello per intenderci del 1984 con Craxi presidente del consiglio, si impose una novità: non era più la segreteria di stato del Vaticano (il loro ministero degli esteri per intenderci) a trattare con lo Stato italiano, ma la conferenza. Si disse che scopo di questa novità era di ridurre il coinvolgimento politico della chiesa. Si è visto che in questi anni è accaduto esattamente l´opposto. Perché? A parte le considerazioni sullo "spirito del tempo" credo che la forte personalità di Ruini abbia coinciso con il rafforzamento economico della Cei. Pochi sanno che l´otto per mille - il modo con cui lo Stato italiano finanzia lautamente la chiesa - è in larga parte gestito dalla conferenza episcopale.
La questione di quale rapporto deve esserci tra potere spirituale e temporale è nuovamente sotto i nostri occhi. La chiesa di questi anni sta ingigantendo i propri compiti proiettandoli in modo arbitrario sulla società. Il rischio è di sopraffare la società italiana e i cattolici che vi fanno parte. Discutibile mi appare la tendenza che sia la Cei a dettare le norme ai parlamentari cattolici. Quando De Gasperi ricevette da Pio XII l´ordine di fare un governo con l´estrema destra egli rifiutò, restando naturalmente un buon cattolico. Aveva chiara la distinzione tra quello che si deve a Cesare e ciò che si deve a Dio e ai suoi rappresentanti.
Si obietta che oggi, più che in passato, i cattolici italiani sono sottoposti a un processo di secolarizzazione molto intenso. È vero. Ma la chiesa può far fronte a questa pressione sia con ordini inappellabili, sia cercando il dialogo. Del resto non è la prima volta che la Chiesa abbia dovuto misurarsi con fenomeni minacciosi che ha poi felicemente superato.
Ritengo che l´unità della chiesa sia un bene prezioso e innegabile. Ma non c´è oggi il rischio di una spaccatura? Il pericolo più forte per la chiesa quasi mai viene dall´esterno, più spesso è frutto di tensioni intestine. Concludo con un pensiero che mi sta a cuore. In ogni grande epoca storica i vescovi hanno avuto dei modelli. Cioè un punto di riferimento esemplare. Nell´età antica fu Gregorio Magno, che poi divenne papa, a svolgere questo ruolo edificante. Nel cinquecento lo stesso compito lo assolverà il vescovo di Milano Carlo Borromeo. Ancora oggi in certe chiese si possono ammirare le sue immagini. La considerazione un po´ triste è che attualmente i vescovi non hanno più un modello da seguire. E neppure la pietà per Padre Pio può aiutarli a guadagnare quello stile che si ispira ai valori cristiani.
(Testo raccolto da Antonio Gnoli)

Repubblica 9.3.07
Dalle prime comunità al concilio vaticano II
Una figura chiave per l’identità cristiana
di Giovanni Filoramo

Nei primi secoli erano dotati di poteri eccezionali nei confronti del loro "gregge". Legittimati dal consenso popolare e del clero
Dopo gli eccessi nell´esercizio del potere temporale, il Concilio di Trento assegnò ai vescovi il compito prioritario della cura delle anime

Per le chiese cristiane, il vescovo (dal greco episkopos, "sorvegliante"), la cui importanza e funzione variano a seconda delle confessioni e della connessa ecclesiologia, è oggi la figura più significativa tra i vari ministeri. Così, mentre per la chiesa cattolica, per le chiese ortodosse e per l´anglicanesimo i vescovi sono "successori" degli apostoli per diritto divino e, di conseguenza, occupano il posto più alto nella gerarchia ecclesiastica, nelle chiese uscite dalla Riforma, per effetto del modo luterano di intendere l´unità della chiesa, l´ufficio episcopale è stato assimilato a quello del predicatore e giustificato non per diritto divino, ma per le necessità umane della comunità. Ricollegandosi al modo in cui, a loro avviso, il Nuovo Testamento presentava i differenti ministeri, i riformatori hanno voluto prendere le distanze dalla figura del vescovo emerso e impostosi nel corso del II secolo, ritenendolo il segnale più evidente dell´emergere di una struttura gerarchica e sacramentale del sacerdozio, ormai irrimediabilmente lontana dal sacerdozio dei fedeli proprio della comunità primitiva.
In realtà, l´"invenzione" della figura del vescovo, con i suoi tratti profondamente originali rispetto ad analoghe figure di autorità presenti sia nel giudaismo rabbinico sia nel mondo romano, ha costituito uno degli elementi-chiave che hanno permesso alle comunità cristiane di mantenere una forte saldezza e coesione e ne hanno facilitato la diffusione e, alla fine, il successo. Questa funzione unitaria del vescovo, che simboleggia l´unità della sua chiesa e, attraverso la partecipazione al collegio episcopale, la mantiene viva, testimoniando visibilmente la successione apostolica attraverso il suo potere di consacrazione e di amministrazione dei sacramenti, ha costituito un potente fattore d´identità per cattolici, ortodossi e anglicani, anche se poi le tre confessioni hanno declinato diversamente questo potere, in particolare come conseguenza del modo diverso di intendere l´ufficio del vescovo di Roma e i suoi rapporti con l´episcopato.
I tratti essenziali di questa figura si sono formati nell´antichità, grosso modo tra il II e il V secolo. Già all´inizio del III secolo questo tipo di episcopato pare ormai attestato nelle principali città dell´impero. Il vescovo, celebrando l´eucaristia, presiede alla vita liturgica e controlla la vita penitenziale; inoltre, consacrando gli altri appartenenti al clero, gestisce il potere sacerdotale. La scelta di un vescovo risultava dall´interagire di elementi carismatici (il "giudizio di Dio", che gli trasmetteva tra l´altro quel dono di discernimento spirituale essenziale per la buona conduzione dei rapporti umani all´interno della comunità) con il "suffragio" o acclamazione popolare e la scelta da parte del clero della città. Ne risulta una figura particolare, dotata di poteri eccezionali nei confronti del proprio gregge, garantiti dalla successione apostolica visibile e dal possesso dello Spirito (lo pneuma hegemonikon o spirito di comando) e legittimati dal consenso popolare e dall´approvazione del clero. Egli diventa il perno intorno a cui ruota la vita della chiesa locale: ne è il sacerdote, che offre il comune sacrificio; il ministro di tutti i sacramenti per tutti i membri della chiesa; con il suo sermo liturgico, il custode della parola e annunciatore di essa. Ma egli è anche idealmente - funzione non secondaria in un mondo che non praticava l´assistenzialismo - il distributore delle elemosine ai poveri, colui che applica la disciplina ecclesiastica, il centro dell´unità della chiesa, il cuore della sua vita complessa nel temporale e nello spirituale, all´interno e all´esterno. Alla fine del III secolo, il monoepiscopato era diventata la forma di governo della chiesa nelle varie parti dell´Impero. Come dimostrano poi, in particolare, le grandi figure di vescovi occidentali e orientali del IV secolo, Ambrogio Atanasio Basilio, nella nuova situazione politico-religiosa che portò il cristianesimo a diventare religione di Stato, la figura del vescovo, oltre ai compiti pastorali che gli provenivano dalla cura della comunità a lui affidata, acquisì funzioni sempre più rilevanti pubbliche e politiche anche all´interno della vita delle grandi città dell´Impero, come dimostra tra l´altro l´istituto dell´audientia episcopalis, in virtù del quale, in casi determinati, i vescovi amministravano la giustizia su mandato dello Stato. Questa accresciuta importanza pubblica si tradusse nell´acquisizione di insegne e onori propri dei gradi superiori della magistratura (porpora, trono con baldacchino, pallio, anello), in linea per altro con la provenienza per lo più aristocratica di molti vescovi del periodo. Il processo di progressiva sacralizzazione dei ministeri, che accompagna la nuova funzione pubblica assunta dalla chiesa, collocò insomma il vescovo, in quanto successore degli apostoli, in cima alla gerarchia ecclesiastica: un posto che egli continuò a occupare fino al trionfo, in epoca medievale, della monarchia pontificia, in cui non a caso una delle più importanti ragioni di conflitto con il potere politico fu dovuta al problema dell´elezione vescovile.
La storia moderna dell´episcopato cattolico è stata segnata dalle decisioni del Concilio di Trento che, non a caso, anche in reazione alle critiche dei riformati, si attribuì tra i suoi compiti prioritari quello di gettare le basi di una riforma in prospettiva pastorale dell´attività del vescovo, legandolo in modo stabile alla vita della propria diocesi (obbligo di residenza) e incaricandolo prioritariamente della cura animarum ossia dell´azione pastorale nei confronti delle popolazioni affidategli. In linea con la concezione di una Chiesa come societas perfecta, il vescovo è stato idealmente visto come un sovrano religioso che esercita in grado sommo i tre poteri (regale, cultuale e profetico), al vertice di una gerarchia sacrale, che si contrappone dualisticamente a un laicato che appare quasi ignorato.
Soltanto col Concilio Vaticano II la Chiesa cattolica ha cercato di superare, pur tra tante contraddizioni (culminate nel permanere di un primato del pontefice rispetto al collegio episcopale assunto nel suo insieme), questa visione sacrale in nome di una nuova ecclesiologia di servizio e di comunione, fondata su basi cristologiche. Il Concilio ha ricollegato al Cristo servo-pastore-sacerdote-maestro la dottrina dell´episcopato, restituendo all´ordinazione episcopale il valore di un dono specifico derivato dalla fonte pneumatologica, non più dunque incentrato, secondo la visione tradizionale, intorno alla celebrazione eucaristica, ma aperto alla missione, in vista della quale egli è ordinato e consacrato. Il vescovo è stato così riconfermato al vertice della gerarchia ministeriale, distinta per "essenza" dal sacerdozio dei fedeli (Lumen Gentium).
La teologia postconciliare non ha fatto che sviluppare la prospettiva del vescovo come espressione del sacerdozio di Cristo - capo della comunità rappresentato dal vescovo, con accenti diversi che variano col variare delle prospettive cristologiche. Inoltre, in linea con l´attenzione per le "chiese locali" promossa dal Concilio, si è sottolineato con vigore, anche dal punto di vista del nuovo Codice di diritto canonico del 1983, il fatto che il vescovo è il soggetto attivo fondamentale del sistema di governo della chiesa locale.
Le Conferenze episcopali nazionali, tra cui, buon ultima, quella italiana, hanno sigillato sul piano concreto della presenza attiva nei vari paesi cattolici, questa rinnovata identità di una figura decisiva nella storia del cattolicesimo.

Repubblica 9.3.07
La nascita del potere secolare vescovile
Quando nel Medioevo erano guerrieri
di Franco Cardini

Le varie Chiese locali si raggruppavano nelle diocesi A capo di ciascuna di queste veniva posto un sovrintendente, un coordinatore: un episkopos

Si parla molto ormai, specie dopo il successo del libro di Dan Brown, della Chiesa primitiva e del suo rapporto sia con il Fondatore, sia con l´Impero romano. Il che è presto detto: ma non è per nulla scontato. Anzitutto: chi è il Fondatore della Chiesa? Gesù di Nazareth? Simone detto Pietro di Cafarnao? Paolo di Tarso? In realtà, della Chiesa primitiva sappiamo abbastanza poco: giusto le scarne righe degli Atti degli Apostoli.
Le cose cominciano a cambiare man mano che ci si addentra nei secoli II e III, quando le testimonianze, anche archeologiche, divengono più dense e più sicure. Ma in realtà la Chiesa emerge ai nostri occhi, e diventa un oggetto di sicura indagine storiografica, solo a partire dal IV secolo, con Costantino che le fornisce piena libertà; e, alla fine di quel secolo, con Teodosio che ne fa religione di Stato.
Per quel tanto che ne sappiamo, non si dovrebbe parlare di Chiesa, bensì di "chiese" al plurale. In greco, la parola ekklesìa significa semplicemente "adunanza", "assemblea". Ogni città, ogni centro in cui nascesse un gruppo di fedeli del nuovo Verbo era automaticamente una Chiesa: i capi dei singoli gruppi erano gli "anziani" (in greco presbyteroi), che amministravano anche la "Santa Cena", ma che è dubbio si potessero propriamente definire sacerdoti.
Il sacerdozio ebraico era finito con la distruzione del Tempio di Gerusalemme; alla Chiesa cristiana sarebbe toccata solo nella sua piena maturità la prerogativa di restaurarlo. Le varie Chiese locali si raggruppavano poi in circoscrizioni, che quando il culto cristiano fu reso giuridicamente lecito andarono sempre più modellandosi su quelle civili: le cosiddette "diocesi". A capo di ciascuna diocesi veniva posto, molto semplicemente un "sovrintendente", un "coordinatore". Tali concetti vengono espressi in greco dalla parola episkopos.
Ecco quindi i vescovi. Tra i quali, in seguito a una ulteriore distinzione gerarchica, sarebbero poi emersi anche gli arcivescovi e i patriarchi.
Con la divisione dell´Impero in due parti, l´orientale e l´occidentale, voluta da Teodosio e attuata dopo la sua morte, anche i destini delle varie Chiese, sempre reciprocamente autonome, si andarono sempre più adattando alla logica politica del tempo. I vescovi della parte orientale si adattarono sempre di più a essere organizzati e sorvegliati dall´imperatore, il quale si serviva della Chiesa come di uno strumento di Stato: d´altra parte, questo permetteva ai religiosi greci e orientali di darsi tranquillamente alla vita religiosa. Il governo imperiale suppliva a tutto il resto. Naturalmente, per le cose che riguardavano strettamente la fede, i vescovi si riunivano abitualmente in speciali congressi detti "sinodi", durante i quali veniva elaborata la dottrina della Chiesa.
Anche in Occidente accadeva più o meno la stessa cosa: ogni chiesa era rigorosamente autonoma rispetto alle altre, e i vescovi si riunivano di tanto in tanto in concilii durante i quali si stabilivano le verità della fede. Il punto era tuttavia che i vescovi della Chiesa occidentale, nella quale il ruolo liturgico e giuridico della lingua greca veniva sempre più soppiantato da quella latina, non disponevano del paracadute costituito dall´autorità imperiale.
Difatti, in Occidente l´Impero era franato. Il risultato fu che, dovendo confrontarsi con le invasioni barbariche e con il destrutturarsi della società del loro tempo, tra V e IX secolo i vescovi dovettero sempre più spesso assumere anche funzioni di governo, incluse le militari.
Cresceva intanto sempre più l´autorità del vescovo dell´unica città d´Occidente che si potesse definire "patriarcale", cioè caratterizzata da una Chiesa fondata da un Apostolo. Si trattava del vescovo di Roma che stava divenendo progressivamente il primus inter pares.
In Oriente le città patriarcali erano molte: soprattutto Antiochia e Alessandria. Ma anche Costantinopoli venne dichiarata tale. Tuttavia il patriarca costantinopolitano non fu mai il vero capo della Chiesa greca. E tale ruolo spettò in pratica sempre all´imperatore.
Quando anche in Occidente venne restaurata un´autorità imperiale, con Carlo Magno e più tardi con Ottone I, essa era d´altronde ben diversa da quella di Costantinopoli. Gli imperatori romano-germanici si servirono molto dei vescovi come del resto degli abati, cioè dei capi dei monasteri, per la loro passione di governo. La differenza tra i vescovi orientali, i greci, e i vescovi occidentali, i latini, stava nel fatto che i primi potevano tranquillamente accudire ai loro doveri religiosi mentre i secondi dovevano invece occuparsi anche di amministrazione, di politica, persino di guerra.
Fu questa una delle differenze tra le due Chiese che in un modo o nell´altro contribuirono allo Scisma del 1054, che nonostante molti tentativi è ancora in atto. Tra i vescovi ortodossi, i quali escono tutti regolarmente dalla carriera monastica e i vescovi cattolici, i quali invece hanno ordinariamente compiuto il loro tirocinio nel clero secolare, la differenza era e resta molto marcata.
La stagione d´oro del potere vescovile in Europa fu quella tra VIII e XI secolo, quando gli imperatori si servirono dei loro uffici come di veri e propri ministri o prefetti. Certamente, la loro cultura e la loro spiritualità ne soffrì molto; al punto che la Chiesa latina fu spesso accusata, al suo stesso interno, di corruzione, e furono necessarie successive riforme. Tuttavia, in quei tempi duri, la funzione vescovile fu uno dei pilastri che permise alla Chiesa latina di governare e gestire l´Europa medievale che nel frattempo si avviava a quel lungo periodo di prosperità che, pur con alcune occasionali crisi avrebbe permesso, a partire dal XVI secolo la conquista del mondo.
La monarchia pontificia ha controllato e represso, a partire dal XII secolo, il potere dei vescovi. Essi hanno reagito: fra il ´300 e il ´400 vi furono addirittura teorie conciliari, le quali sostenevano che non il papa, bensì il concilio, cioè l´assemblea dei vescovi, avrebbe dovuto governare la Chiesa romana. Ma tali istanze hanno storicamente avuto la peggio. Anzi, nel 400 si registrò il divertente fenomeno secondo il quale molti vescovi teorizzatori del primato conciliare, una volta diventati sommi pontefici, passavano serenamente alla teoria del monarchismo pontificio romano.
Questa è la situazione che nella Chiesa cattolica si è mantenuta fino a oggi: in una organizzazione monarchica e gerarchico-piramidale, i vescovi sono essenzialmente dei grandi funzionari. E questo vale anche per quella categoria di "Grandi Elettori Pontifici" che sono i cardinali, una istituzione nata nell´XI secolo per disciplinare l´elezione del vescovo di Roma nel momento in cui egli stava fondando appunto le basi per il suo fermo potere monarchico.

Repubblica 9.3.07
Il sì dell'Agenzia del Farmaco. Ne soffre il 3,5 dei piccoli in età pediatrica
Bambini disattenti e iperattivi via libera al Ritalin anche in Italia
Messe a punto una serie di condizioni per garantirne un uso appropriato


ROMA - Semaforo verde anche in Italia alla vendita del Ritalin dello Strattera, farmaci usati nell´infanzia per il trattamento della sindrome da deficit di attenzione e iperattività. L´Agenzia Italiana del Farmaco che ha approvato l´immissione in commercio dei tanto discussi prodotti, ha tuttavia messo a punto una serie di «condizioni al fine di garantirne un uso appropriato, sicuro e controllato». Per assicurare l´impiego esclusivo di questi farmaci in pazienti affetti da ADHD, sono state individuate procedure che vincolano la prescrizione del farmaco ad una diagnosi differenziale e ad un piano terapeutico definiti da Centri di riferimento di neuropsichiatria infantile individuati dalle Regioni; impongono controlli periodici; richiedono l´inserimento dei dati in un Registro nazionale istituito presso l´Istituto Superiore di Sanità. Tutto questo per mettere l´Italia al riparo dagli «usi impropri verificatisi in altri Paesi»: a tal fine verrà anche elaborato un Rapporto annuale.
Silvio Garattini, direttore dell´Istituto Mario Negri di Milano ha sottolineato come «tutte queste misure siano state prese per evitare che il ragazzo ‘bulletto´ o il bimbo che dà fastidio a scuola ricevano il farmaco-panacea; quelli approvati per la cura dei bambini iperattivi sono farmaci importanti ma che vanno usati con cautela. I paletti messi dall´Aifa mi sembrano buoni e se strada facendo si evidenziassero problemi si potranno correggere». Ma se da un lato Patrizia Stacconi, presidente dell|Associazione Italiana Famiglie ADHD, esprime soddisfazione, dall´altra le senatrici di Rifondazione Comunista, Erminia Emprin e Tiziana Valpina, annunciano una interrogazione al ministro Turco. L´ADHD è un disturbo neurobiologico dovuto all´alterazione di alcuni specifici circuiti cerebrali dei bambini che colpisce il 3,5% circa della popolazione pediatrica e rappresenta uno dei principali problemi medico-sociali dell´infanzia, riconosciuto da tutta la comunità scientifica, compresa l´Organizzazione Mondiale della Sanità. I bambini affetti da ADHD non riescono a controllare le loro risposte all´ambiente, sono disattenti, iperattivi e impulsivi in modo tale da compromettere la loro vita di relazione e scolastica.

il Messaggero 9.3.07
«Se vince Fassino, non ci sarà più la Quercia e noi costruiremo un vero partito socialista con Fausto»
In Parlamento 24 deputati e 12 senatori: verso gruppi autonomi, anche in Europa
«Pd nel Pse», bufera su Schultz

Mussi verso il tandem con Bertinotti
Sinistra ds pronta alla scissione: potrebbe disertare il congresso
di Nino Bertoloni Meli


ROMA Ventilata, sussurrata, paventata, invocata, alla fine la parola ”scissione” si è appalesata dentro la Quercia. Di qui al congresso di fine aprile rischia di diventare la cronaca di una scissione annunciata. Sempre che il tutto non precipiti prima, con le minoranze di Mussi-Salvi-Bandoli che decidono di non partecipare al congresso. Fabio Mussi ha rotto gli indugi. L’anti-Fassino a capo delle minoranze interne coalizzate, l’altra sera al teatro delle Erbe di Milano stracolmo e generoso di applausi a ogni passaggio che sottolineava la separazione piuttosto che il rimanere nei Ds, ha saltato il Rubicone e incalzato dalle domande di Radio popolare alla fine ha scandito: «Mi chiedete del dopo, volete sapere che cosa può accadere, e io vi dico che non c’è più vincolo di partito, la vittoria di Fassino al congresso significa che non ci saranno più i Ds, quindi ognuno sceglierà la sua strada. Vorrei che partecipaste e che andaste numerosi a votare ai congressi di sezione, poi si vedrà». Il ministro della Ricerca parla ormai come uno che si è svincolato da quel ”patto dei quarantenni” che, all’ombra di Achille Occhetto, traghettò il Pci al Pds per poi reggerne le alterne sorti strattonato e poi espunto dal vertice da Massimo D’Alema, ma con un vincolo che permaneva assieme ai vari Fassino, Veltroni, Bassolino, Turco, Petruccioli. Ora non più. Qualcosa sembra essersi definitivamente rotto. «Nell’89 si saltava dal comunismo verso una forma nuova di sinistra, più adeguata ai tempi. Qui invece, con il Pd, si salta fuori dalla sinistra», attacca Mussi in un’intervista-manifesto all’Espresso, che segna un’ulteriore passo verso la separazione. Il capo delle minoranze interne chiude porte e finestre all’ipotesi finora sempre in piedi che l’ex correntone si sarebbe alla fine acconciato a fare la sinistra del Partito democratico. Nossignori, Mussi taglia i ponti: «Non accetto l’idea che la sinistra possa ridursi a fare la corrente di minoranza di un partito di centro». E allora? «La sinistra si ritroverà, a prescindere perfino dalle nostre volontà, qualcosa di nuovo nascerà». Non solo pre-annuncio di addio ai Ds, dunque, ma scommessa che la nascita del Pd aprirà enormi spazi a sinistra che andranno riempiti.
E qui arriva la prospettiva, il ”che fare” in alternativa al Pd: «Mi interessa il cantiere di Bertinotti». La proposta in sostanza è di lavorare a una ”costituente della sinistra” in alternativa alla ”costituente del Pd”. Due costituenti parallele seguiranno i due congressi di Ds e Margherita e si daranno battaglia. Al delle Erbe, presente pure Peppino Caldarola che lavora alla ricomposizione socialista, Mussi si è detto interessato anche allo Sdi di Enrico Boselli. Costituente della sinistra, con o senza i socialisti della diaspora che sia, Mussi appare fin d’ora in pole position per la leadership di quel ”qualcosa” che nascerà alla sinistra del Pd e che vedrà la congiunzione del grosso di Rifondazione con un pezzo importante dei Ds.
Il nodo irrisolto della collocazione internazionale è altra benzina sul fuoco: il capogruppo a Strasburgo Martin Schulz si è detto convinto che il Pd alla fine aderirà al Pse, la Margherita si è inalberata, ma forse a Schulz sono giunte all’orecchio le rassicurazioni che Fassino e D’Alema vanno facendo, del tipo che una volta costruito il Pd si farà passare a maggioranza l’adesione al Pse.
Se separazione sarà, la sinistra diessina potrà contare su 24 deputati, 12 senatori e 6-7 europarlamentari compreso Occhetto che ha già fatto sapere di essere molto interessato alla prospettiva di ricomporre la sinistra. Interessato appare anche Gavino Angius, che ha avuto un altro incontro con Mussi. In campo il ”cantiere” di Bertinotti che, come spiega Caldarola, «deve fare una apertura di credito sul fronte della prospettiva socialista, alla quale è atteso», e che comprende anche una ricomposizione di tutta quella sinistra che rimane fuori dal Pd, Oliviero Diliberto e il suo Pdci compreso (ma Franco Giordano recalcistra).

il manifesto 9.3.07
Ds, c'è qualcosa a sinistra della «Cosa»
di R. Pol.


«Qualcosa di nuovo nascerà». Fabio Mussi, candidato della sinistra Ds alla segreteria e alfiere dei diessini contrari al partito democratico scioglie le ultime prudenze: «Sì, mi interessa. Il cantiere a sinistra di cui parla Bertinotti è una discussione che coinvolge anche noi, certe divisioni hanno fatto il loro tempo».
Sono stati giorni di palesi richiami pubblici dopo i continui contatti informali quelli tra la minoranza della Quercia e l'ex segretario di Rifondazione.
Il ministro dell'Università annuncia sulle pagine dell'Espresso che le fronde «socialiste» della Quercia hanno davvero il piede sulla porta: «Un'impresa comune è sull'orlo di finire e non accetto l'idea - spiega - che la sinistra possa ridursi a fare la corrente di minoranza di un partito di centro. La sinistra cercherà di ritrovarsi a prescindere perfino dalle volontà di ciascuno di noi, qualcosa di nuovo nascerà».
I congressi non vanno benissimo, la mozione Fassino-D'Alema-Veltroni fa il pieno quasi ovunque ma il clima della base, rileva Mussi «non è certamente quello dell'89. Eppure stiamo decidendo un salto più grande. Qui si salta fuori dalla sinistra. L'Italia diventerà l'unico paese europeo senza un grande partito che si richiama al socialismo, dovrebbe essere un evento altamente drammatico. E invece vedo in giro un sentimento di rassegnazione. Siamo partiti da Blair e siamo arrivati al nulla».
E' la stessa linea annunciata da Cesare Salvi sul manifesto di mercoledì, in cui annunciava anche una nuova «attenzione» verso lo Sdi di Enrico Boselli e, almeno in parte, verso il Pdci di Oliviero Diliberto. Partito in cui trasloca direttamente il deputato del correntone Aleandro Longhi dopo che una settantina di dirigenti liguri non hanno rinnovato la tessera contro il Pd.
Resta da capire, in mezzo a tanti movimenti, cosa ne sarà della Sinistra europea. Oggi Fausto Bertinotti ne parlerà a Berlino e a fine mese Rifondazione avrebbe dovuto celebrare la consacrazione del progetto in una conferenza nazionale di organizzazione di quattro giorni a Carrara (29 marzo - 1 aprile). E' un fatto che il progetto bertinottiano finora non abbia calamitato le folle e in molti, dentro il partito, si chiedono cosa ha davvero in serbo il «subcomandante» sul futuro di Rifondazione.

l’Unità 9.3.07
Mussi: non sarò minoranza in un partito di centro
di Giuseppe Vittori


Il leader della minoranza Ds. Fabio Mussi, si augura «decine di migliaia di voti per fermare il treno del Pd». Per ora, però, registra un voto largo per la mozione Fassino. Venisse confermato, lui non farà «la sinistra del partito democratico. Ma che destino è per la sinistra italiana diventare una corrente di una formazione neocentrista come il Pd?». Intervistato dall’Espresso, Mussi spiega che nei congressi «è l’epoca delle passioni tristi», il partito ha meno idealità, «ci siamo trasformati in un'agenzia di promozione del ceto politico locale, bravissimi a eleggere consiglieri regionali, comunali, nel nominare assessori, presidenti di comunità montane, commissioni...».
«Il problema - ha precisato - è che in Italia serve una grande forza di sinistra di espressione socialista. Sarebbe veramente curioso che fosse l'unico paese d'Europa dove non c'è». A Mussi interessa il cantiere della sinistra proposto da Bertinotti: «Oggi tutta la sinistra sta al governo. Se la cosa regge e funziona, certe divisioni possono fare il loro tempo. C’è bisogno di sinistra, di sinistra di governo». Qualcosa di nuovo, insomma, nascerà.

l’Unità 9.3.07
Dico, bufera su Salvi
Lui ribatte: così potremo fare la legge
Alla vigilia della manifestazione è ancora
polemica col governo sulla «bocciatura»
di Maria Zegarelli


PIAZZE E PARTITI Chi invita la piazza di domani a «urlare piano», evitare i «toni gridati e le esasperazioni ideologiche», come dice Franco Monaco della Margherita, perché «nuocerebbero alla causa»; chi in piazza ci sarà malgrado sia ministro - come Alfonso Pecoraro
Scanio e Paolo Ferrero; e chi evita la piazza, pur «essendoci idealmente» - come la ministra Barbara Pollastrini. Infine, c’è chi annuncia la propria presenza in un’altra piazza, quella del Family Day, come i ministri Clemente Mastella e Beppe Fioroni, anche se quell’appuntamento per ora è solo un punto interrogativo.
Vigilia di manifestazione «Diritti ora», ricca di polemiche. «I Dico non passano» ripete il Guardasigilli. «Passano, se solo mi lasciassero lavorare in pace», ribatte il presidente della Commissione Giustizia a Palazzo Madama, Cesare Salvi, che ha smontato «tecnicamente», il ddl firmato dalle due ministre Bindi e Pollastrini. Loro ci sono rimaste piuttosto male, lui ribatte:«Mi dovrebbero ringraziare perché se avessimo adottato il ddl del governo come testo base la legge avrebbe fatto una finaccia. Mastella aveva già annunciato che avrebbe bloccato tutto con la pregiudiziale di costituzionalità. Abbiamo salvato il governo ma anche la speranza di fare una legge sulle unioni civili riaprendo il dibattito in Commissione». In realtà su di lui è piombato un sospetto: che voglia, attraverso il ddl, dimostrare che il partito democratico è una via impraticabile, «un pasticciaccio». A pensarlo già sono in diversi: da Rosy Bindi (che ieri lo ha esplicitamente sostenuto sulle pagine di Europa) a Giorgio Tonini, uno dei saggi che sta lavorando al Manifesto del Partito democratico, al giurista Stefano Ceccanti, Salvi replica: «Ma stiamo scherzando? Il Pd non mi piace affatto, ma questo è un argomento a cui dedico non più di 60 minuti di riflessione al giorno. Le mie critiche al ddl sono critiche tecniche». Sempre dalle colonne del quotidiano Dl oggi Salvi spiega che «quello che apprezzo politicamente del lavoro delle due ministre, e l’ho detto in altra occasione, è l’impegno a trovare un punto di incontro tra cultura laica e cultura cattolica, che è un obiettivo al quale tutte le persone serie devono considerarsi impegnate, sia che ritengano che ciò debba comportare la fusione di un unico partito, sia che, come me, credano che, pur permanendo diritti diversi, l’alleanza tra cattolici democratici e sinistra socialista sia un punto decisivo di tenuta del sistema democratico italiano, prima ancora che del centro sinistra». Argomentazioni che non hanno convinto le due ministre, però. Intanto il capogruppo dell’Ulivo al Senato, Anna Finocchiaro, dà una botta alla botte e una al cerchio: «Ci sono due questioni dalle quali non prescindere: il testo dei Dico è la prima mediazione possibile tra cattolici e laici e nei Dico c'è una novità rispetto a tutte le altre proposte perché c'è un sistema di diritti per i conviventi non concorrenziale nei confronti della famiglia». In sostanza, per la Finocchiaro, «bisogna riflettere se i diritti dei conviventi si devono registrare solo quando c'è amore erotico o anche quando ci sono affinità e assistenza spirituale e materiale». Lei, come Bindi, Pollastrini e Melandri, è tra i nomi illustri che non saranno in piazza domani per il ruolo istituzionale che rivestono. Il coordinatore nazionale della manifestazione, Alessandro Zan, dice: «Vogliamo costruire un’occasione per mettere in contatto il paese reale, attrverso la testimonianze delle coppie di fatto e le istituzioni perché non è una manifestazione “contro” ma è per allargare i diritti in questo paese».

Aprileonline.info 8.3.07
Mussi: "A sinistra nascerà qualcosa di nuovo"
di C.R.


In un'intervista rilasciata all'Espresso, il leader della Sinistra Ds ammette che l'impresa comune (Ds) si avvia alla fine" e apre al cantiere proposto da Bertinotti: "Certe divisioni hanno fatto il loro tempo. Non accetto l'idea che la sinistra possa ridursi a fare la corrente di minoranza di un partito di centro. La sinistra cercherà di ritrovarsi"

"Per ora c'è un voto largo per la mozione Fassino". Lo ammette, in un'intervista a l'Espresso, Fabio Mussi, ministro dell'Università e leader della mozione congressuale "A sinistra per il socialismo europeo", a proposito dei congressi della Quercia in corso.
L'agonia dei democratici di sinistra si avvia alla sua fine: "Un'impresa comune è sull'orlo di finire". Mussi "apre" al cantiere che Fausto Bertinotti vorrebbe avviare sulle ceneri della Quercia: "Certe divisioni hanno fatto il loro tempo. Non accetto l'idea che la sinistra possa ridursi a fare la corrente di minoranza di un partito di centro. La sinistra cercherà di ritrovarsi. A prescindere perfino dalle volontà di ciascuno di noi, qualcosa di nuovo nascerà ''.

Il clima, nella base dei Ds, "Non è certamente quello dell'89", sottolinea ancora Mussi, in questi giorni impegnato in giro per il paese nel dibattito congressuale: "Eppure stiamo decidendo un salto più grande. Nell'89 si saltava dal comunismo verso una forma nuova di sinistra, più adeguata ai tempi. Qui, invece, si salta fuori dalla sinistra". A dominare è una sorta di passiva rassegnazione, spiega ancora il ministro dell'Università, che sottolinea come "l'Italia diventerà l'unico paese europeo senza un grande partito di sinistra che si richiama al socialismo". Un evento altamente drammatico, che viene vissuto "con lo stesso spirito di Gigi Proietti nello spot con Consuelo: 'Se me lo dicevi prima! Ormai...''.
"E' l'epoca delle passioni tristi. Il partito si è indebolito: so che i compagni si infastidiscono quando lo ricordo, ma alle ultime elezioni abbiamo superato di poco il 17 per cento, al netto di Emilia, Toscana, Marche e Umbria in molte zone del paese siamo una forza marginale, sotto il venti per cento in undici regioni. E in questi anni c'è stata una mutazione dei nostri iscritti. Ci siamo trasformati in un'agenzia di promozione del ceto politico locale. Siamo bravissimi a eleggere consiglieri regionali, comunali, nel nominare assessori, presidenti di comunità montane, commissioni...".

Fabio Mussi dichiara all'Espresso di non essere ancora rassegnato alla fine dei Ds e di augurarsi che il processo costitutivo del Pd possa ancora essere fermato e questo malgrado l'accelerazione in corso: si diceva che il Pd sarebbe nato nel 2009, per le elezioni europee, poi si è anticipata la nascita al 2008, ora qualcuno vorrebbe battezzarlo in estate. Fassino afferma che il Pd deve stare nel Partito socialista europeo, ma questo nodo è scomparso dalla sua mozione. D'altro canto, la Margherita ripete che il Pd non potrà aderire al Pse. Risultato: "un partito homeless, alla ricerca di un tetto, una roba che non esiste in Europa".

Non mancano le stoccate al collega di governo Francesco Rutelli. Sono tanti i nodi che dividono il vicepremier dall'essenza stessa di un partito che voglia appartenere all'area socialista. "Sui Dico - spiega Mussi - Rutelli dice che non sono una priorità, per la sinistra invece la libertà delle persone dovrebbe essere una questione centrale. E chi vuole una limitazione di questa libertà pone un problema pesante". E l'elenco prosegue: "Rutelli dichiara che in Francia voterebbe il centrista Bayrou, per i Ds invece la candidata di riferimento è Ségolène Royal. E se si va al ballottaggio Sarkozy-Royal e Bayrou decide di appoggiare Sarkozy, che facciamo? In una situazione politicamente e intellettualmente ordinata questo dibattito dovrebbe durare sette minuti e amici come prima".
Insomma, si domanda il leader della sinistra ds, come può stare in piedi un partito così? "Stiamo spendendo tutte le nostre energie per far diventare Rutelli un po' più socialista e Rutelli le spende per far diventare noi un po' più democristiani: ma perché tutto questo dispendio energetico?".

Cosa succederà se il Pd arrivasse in porto in tempi rapidi? A questa domanda Mussi risponde ricordando le due novità presenti, oggi, nel centrosinistra italiano: "Una è l'Ulivo, un po' acciaccato: nel '96 c'eravamo tutti tranne Rifondazione, avevamo il 44 per cento, ora siamo rimasti alla fusione Ds-Margherita e al 31. L'altra novità, è che per la prima volta tutta la sinistra è al governo, tutta. Non è una cosa da poco: nell'89 la svolta che portò dal Pci al Pds provocò una dolorosa scissione, nel '98 il governo Prodi saltò su un'altra divisione a sinistra, quando Bertinotti uscì dalla maggioranza. Oggi siamo tutti al governo. E un evento destinato a produrre grandi novità''.
E riguardo all'apertura di Bertinotti ad un "cantiere che accolga tutti coloro che si dicono di sinistra e che superi Rifondazione", Mussi risponde di sì: "Mi interessa. Il cantiere di cui parla Bertinotti è una discussione che coinvolge anche noi. Siamo tutti insieme al governo. Se la cosa regge e funziona, Turigliatto a parte, certi steccati, certe divisioni possono fare il loro tempo. C'è bisogno di sinistra, di sinistra di governo". Oggi, nei Ds, si è vicini alla separazione finale, "è una rottura - spiega Mussi - un'impresa comune è sull'orlo di finire e, quando ci penso, ho bisogno di respirare lentamente". "Può darsi - prosegue Mussi - che ci saranno polluzioni di sinistra anche nel Pd. Ma io non accetto l'idea che la sinistra possa ridursi a fare la corrente di minoranza di un partito di centro. La sinistra cercherà di ritrovarsi. A prescindere perfino dalle volontà di ciascuno di noi, qualcosa di nuovo nascerà".

giovedì 8 marzo 2007


l'Unità 11 marzo 1991
Un intervento polemico sul film di Bellocchio "La condanna"
Macché fantasia così si giustifica lo stupro
di Carol Beebe Tarantelli


Nel suo nuovo film, La condanna, Bellocchio mette in scena la fantasia maschile della seduzione violenta. Un uomo e una donna sono chiusi di notte a Villa Farnese. Lui si impossessa di lei con la forza; lei resiste ma, accesa dal desiderio di lui, si abbandona al rapporto. In un secondo momento lo accusa di averla violentata: lui viene processato e (contro ogni canone del realismo) condannato.
Per il tema che tratta, questo film è destinato a suscitare disagio nelle donne. Non perché insceni, approvandolo, uno stupro (la donna acconsente); ma perché questa fantasia sessuale maschile è lo scenario attraverso il quale la nostra cultura “legge” la terribile realtà dello stupro. È immaginato come l’irruzione di un irrefrenabile desiderio sessuale maschile, un desiderio che, in fondo, la vittima, anche se lacerata e sanguinante, riconosce e corrisponde (come si suol dire, se l’è voluta). Questo modo di vedere lo stupro, lo comprende e implicitamente lo giustifica. Mette un filtro di fantasia tra noi e la realtà dello stupro.
Nella realtà, lo stupro (per quanto si riesce a capirlo, dato che gli studi sugli stupratori sono pochi, anche se molto significativi) non corrisponde affatto a questo scenario. Anzi, lo stupro non deriva dall’eccesso di desiderio sessuale, ma dal desiderio di sopraffazione, di distruzione della femminilità della vittima; è un atto di violenza in cui il pene è usato come arma.
Dato, però, che questa fantasia è così fondante della nostra cultura, forse faremo bene a guardarla più da vicino. Ci sono due fantasie sessuali adolescenziali – una maschile e una femminile – che sono variazioni su questo tema e che sono molto diffuse anche nelle espressioni culturali, tanto da essere parte strutturante del nostro immaginario sessuale. Quella maschile – che è quella rappresentata da Bellocchio – suona così: un uomo ha un desiderio sessuale travolgente per una donna. Lei è indifferente. Lui si impone; lei resiste. Ma poi viene trasportata dalla passione di lui, che risveglia una passione travolgente anche in lei. Questo incontro lo fa rinascere. La fantasia femminile è per certi versi simile e, nella sua versione più elaborata, è familiare nelle infinite variazioni sul tema classico del romanzo rosa. Lui è l’eroe scuro, forte, tenebroso, a volte anche violento. Vede una donna da lontano e, fulminato dalla bellezza della sua anima, attraversa distanze immense per inseguirla. La rapisce ma lei lo aiuta a trasformare la sua forza in protettività, la sua violenza in tenerezza. Duro verso il mondo, con lei è vulnerabile, è eternamente sorpreso e grato per la dolcezza con cui tocca le ferite che gli ha procurato la vita.
Fantasie come queste, di un rapporto imposto, ma poi accettato e anche desiderato (che ho chiamato adolescenziali ma che non sono certo confinate a quell’età anagrafica), sono evolutive per l’adolescente, il cui io è ancora fragile. Gli permettono di sperimentare i rapporti tra i sessi all’interno del proprio immaginario, dove plasma onnipotentemente i comportamenti di entrambi i soggetti del rapporto secondo i propri bisogni. La fantasia può diventare anche per l’adulto un rifugio dalle difficoltà di un rapporto reale: nella fantasia l’altro è finalmente quella persona che voglio che sia e non (come nella realtà) un altro i cui desideri e le cui difficoltà gli impediscono di corrispondere sempre al mio desiderio. Le difficoltà non nascono dalla fantasia in sé. Nascono, invece, dalla pretesa di tradurle meccanicamente in realtà. Questo accade ai soggetti troppo fragili per avere un rapporto con un’altra persona, quando, minacciati dalla diversità dell’altro, gli impongono il proprio immaginario. Quando cioè la fantasia esce dalla propria sfera e diventa pretesa o costrizione. In questo caso diventa stupro o, meglio, la giustificazione collettiva dello stupro.
Forse, però, anche queste fantasie vanno guardate più a fondo, perché sono la rievocazione degradata di uno degli scenari mitici fondanti della nostra cultura, ovvero del mito dello stupro divino. Un grande poeta irlandese, Yeats, ha descritto questa scena nella sua poesia Leda e il cigno: «Come potranno respingere, le dite incerte e in terrore / Quella gloria piumata dalle sue cosce che s’aprono?/ E come un corpo, in quella furia bianca, può / Non sentire quel cuore straneo battere?/ Laggiù dove è riverso?». L’effetto di quello stupro viene anche espresso nella poesia: «Così imprigionata / Padroneggiata dal sangue selvaggia dell’aria / Trasse lei conoscenza da quel suo potere, / Prima che il becco indifferente lasciasse la sua preda?». L’esperienza descritta è quella del contatto devastante della coscienza individuale con un potere immenso, che viene da un universo estraneo alla coscienza. Nella versione cristiana diventa la visitazione della forza divina alla donna umana: una forza, però, non violenta, rispettosa dell’individualità della vergine. Che cosa dobbiamo dire di una visione che situa questo potere in un essere umano, un maschio, che prende su di sé il compito di violare un’altra coscienza, anche se solo sul piano della fantasia? Dovremmo dire, credo, che è inflazionato, che ha illusioni adolescenziali di onnipotenza. In questa prospettiva, il film di Bellocchio non aiuta ad approfondire il contesto simbolico della sessualità, ma si pone come una fotografia della fantasia immatura di molti uomini, inconsapevolmente introiettata da molte donne.

l'Unità 14 marzo 1991
Ma il potere sull’inconscio non è uno stupro
di Massimo Fagioli

Per partecipare all’interessante intervento di Carole Beebe Tarantelli, poche proposizioni, come si conviene ad un articolo di giornale.
1) Bellocchio è un artista e, come tale, racconta nell’ambito della bellezza un fatto o un fenomeno osservato. Pertanto non può essere accusato dei contenuti della rappresentazione.
2) Se, come uomo, condivide pensieri e teorie, esso è fatto separato dalla rappresentazione.
3) Si pone la rappresentazione di una realtà maschile nel suo rapporto con una realtà femminile. E le realtà maschili sono due (architetto e pubblico ministero) e le realtà femminili sono tre.
4) L’architetto superbamente si pone a svelare il latente inconscio di una donna, che è addormentata dalla realtà cosciente quotidiana. Il fatto non è delitto: la seduzione è accettata.
5) Inaccettabile, condannabile è che un uomo abbia le chiavi per aprire e chiudere l’inconscio altrui a suo piacimento. Esso è potere sul desiderio che nessuna convivenza sociale può accettare che sia nelle possibilità di un solo uomo. («l’inferiorità è non avere il coraggio del proprio desiderio»).
6) Bellocchio artista ha colto, visto, rappresentato questo potere. Ha sbagliato? È stata un’illusione? È una fantasticheria astratta del regista o è stata vista una verità? Se è una fantasticheria astratta è ugualmente arte della sua rappresentazione? Se è astratta è violenta, è inganno? E se la verità, il fatto che un uomo abbia le chiavi per accedere all’inconscio e modificarlo, è cosa che l’artista non è tenuto a giudicare («non sarà giusto, non sarà morale, ma non c’è stata nessuna violenza carnale come l’intende il codice penale»).
7) Il discorso artistico non si ferma qui. C’è un’immagine femminile, la contadina, che ha lo stesso fascino, la stessa superbia, la stessa certezza di sé, che si rapporta a un uomo, il pubblico ministero, frustrandolo, cercando si condurlo al desiderio.
8) Il «divino» dono della forza e della bellezza naturale, non cercata e non costruita, è nell’immagine femminile che sorge dalla natura come una pianta spontanea.
9) Ma forse, in effetti, il «divino» femminile ha la sua impotenza nel non riuscire a smuovere il pubblico ministero per portarlo al desiderio.
10) L’architetto ha raggiunta la sua certezza di identità con gli anni, è più umano: volgarmente materiale, si pone nel rapporto concreto anche se si tratta di seduzione psichica. Costringere l’altra all’identità, la bellezza, la gioia, la vita. Altro che non è soltanto una donna, ma è un regista, un paziente, l’analisi collettiva.
11) Forse in questa umanità sta la potenza, «violenza». Nel non astenersi, nel non restare narcisisti, paghi della propria intelligenza, arte, bellezza.
12) Forse, un peccato maschilista o infantile (tutti gli artisti sono un po’ infantili e poco razionali) sta in questo ideale di donna che non ha bisogno di terapie per essere.
13) Forse un peccato psicoanalitico sta in questo soggiacere al fascino di un irrazionale bello, una immagine che non parla, è soltanto una immagine femminile.
14) Forse quanto nell’architetto è superbia disumana di avere il potere sull’inconscio, è dovuto a quanto di artista egli ha, che assorbe dall’immagine femminile, da quella libertà naturale di una donna, assorbe il diritto di non sottostare alle leggi. Un artista deve sottostare alle leggi?

Venerdi di Repubblica 15 marzo 1991
PERSONAGGI
Anti-freudiano al cento per cento, lo psichiatra Massimo Fagioli torna al cinema firmando la sceneggiatura dell'ultimo film di Marco Bellocchio "La condanna"
Freud? E’ un imbecille
di Luca Villoresi

«Veramente non so... sarà il caso di non continuare a parlarne? Tanto poi mi dipingete come vi pare a voi. Il plagiatore, lo stupratore...». Ma no, dottore, su, non si faccia pregare. Ma no e ma sì, vorrei e non vorrei, disponibile e ritroso, alla fine, il co-sceneggiatore eccolo qui. Ancor dubbioso: «Davvero nei titoli non mi mettete assieme a Tinto Brass?». Seppure fermamente sicuro di sé: Freud? «Un imbecille che non ha scoperto nulla». Massimo Fagioli? Uno che «in quindici anni avrò esaminato qualcosa come centomila sogni dando interpretazioni corrette non dico nel cento per cento dei casi, ma almeno nel 99 sì. Certo? Certo che ne sono certo. La mia è una teoria scientifica». Sicuro? «Sicuro, altrimenti non continuerei a fare quello che faccio».
Su cosa faccia il dottor Fagioli i pareri, naturalmente, sono controversi. Psichiatra - «Laureato e specializzato, con tutti i titoli a posto. Mica un selvaggio come qualcuno continua a definirmi» - inventore dell'analisi collettiva, guida spirituale di alcune centinaia di fedelissimi pazienti, Massimo Fagioli, era stato al centro di una violenta polemica nel 1986, quando il produttore Leo Pescarolo lo accusò di esercitare una nefasta influenza sul regista de Il diavolo in corpo: «Bellocchio è plagiato. Di questo film montato da Fagioli non so cosa farmene». Adesso torna sulla scena con La condanna. «Ho firmato con Marco la sceneggiatura. E durante le riprese ho espresso giudizi di cui il regista ha tenuto conto. E allora? Finitela di trattare Marco come un povero cretino. Perché se io sono il cattivo lui deve essere per forza l'imbecille».
L'uscita dell'ultimo film dell'autore de I pugni in tasca, oltre a riproporre dubbi e chiacchiere sul sodalizio artistico‑analitico Bellocchio‑Fagioli, ha scatenato però un ulteriore piccolo putiferio. La condanna, cronistoria psicologica e giudiziaria di un amplesso controverso ‑ Lei ci è stata? Le è piaciuto? E con la prepotenza dell'erezione come la mettiamo? La condanniamo, la assolviamo, o la mettiamo in libertà vigilata? ‑ secondo l'accusa sarebbe una vera e propria apologia dello stupro.
Guru, santone della psicoanalisi, selvaggio, con e senza virgolette... adesso anche ideologo della violenza carnale. Tutto falso, diciamo. O esagerato. Come si spiega, però, tanta acrimonia nei suoi confronti? «Diciamo che posso solo fare delle ipotesi. Una per tutte: la cultura dominante non è freudiana? Ebbene, io sono anti‑freudiano al cento per cento. Ho messo in discussione le basi della psicoanalisi ortodossa, la figura del medico sacerdote, con quel suo studio che sembra la capanna dello stregone. Se io ho ragione tanta gente dovrebbe cambiare mestiere. Potrebbe essere un buon movente per certi articoli pieni di insulti».
Potrebbe essere. Lei, però, dottor Fagioli, con questa sua pretesa di poter interpretare tutti i sogni, ignorando per di più la storia individuale del soggetto che li racconta... non peccherà un po' di presunzione? Davvero è convinto di aver trovato le chiavi di lettura dell'inconscio? «Sì. Al contrario di quanto sosteneva Freud, rivendico la possibilità di comprendere i sogni. Altro che libere associazioni. Prenda nota: io interpreto direttamente quello che chiamo negazione e pulsione di annullamento, facendo riferimento alle tappe fondamentali della vita umana: nascita, allattamento e svezzamento, la grande crisi del bambino che scopre che non siamo tutti uguali, la pubertà, la masturbazione. Tutto il resto, dai ricordi infantili ai traumi subiti andando al mare o in montagna, non mi interessa».
Dalla teoria alla pratica. Lei, attualmente, ha almeno seicento pazienti che riceve, divisi in quattro turni settimanali, in un locale di Trastevere: quattro ore di seminario e all'uscita chi vuole lascia un'offerta. Quanto guadagna dottor Fagioli? «Senta io non conosco il reddito degli analizzati, non chiedo niente a nessuno. E non sopporto di essere accomunato a quel signor Verdiglione che non è medico né analista e si prendeva gli appartamenti dei pazienti». I soldi non la interessano. E il potere? Qualcuno suppone che lei eserciti un fascino eccessivamente carismatico sui suoi "fagiolini". «Da me ognuno è libero di venire o non venire. lo non chiedo nemmeno il nome». Però può cacciare un paziente? «Questo certo che sì. Sono un libero professionista».
Saltiamo le polemiche su II diavolo in corpo e la Visione del Sabba, l'altro film in cui Bellocchio si sarebbe fatto abbindolare dai suoi "deliri psicanalitici". Veniamo a quest'ultimo discusso stupro‑non stupro. «Beh, anche qui gli equivoci si sono sprecati. A partire dai paralleli col caso Saracino. Per finire a queste ultime ridicole accuse. Ma che apologia di stupro! Quella famosa scena, invece, provate a guardarla come una geometria: la tangente dell'appoggio, i quattro amplessi circolari, la raffigurazione finale delle coordinate cartesiane con lui in piedi e lei sdraiata. Ecco, vede cos'è una ricerca».
Luca Villoresi
Repubblica 8.3.07
Esce "L’uomo delle contraddizioni" di Luigi Filippo d’Amico
Il cuore di Pirandello
Le figure femminili della sua vita
di Alessandra Rota


Marta Abba sulla spiaggia di Castiglioncello indossava uno scandaloso due pezzi, addirittura leopardato, mentre tutta l´intellighenzia che allora popolava i bagni si interrogava sulla natura del rapporto tra lei, assai giovane, e il sessantenne Luigi Pirandello dal grande cappello bianco. Non è certo un libro di gossip quello che Luigi Filippo d´Amico ha pubblicato per Sellerio (L'uomo delle contraddizioni, Pirandello visto da vicino, pagg. 175, euro 10). Con grande delicatezza lo sceneggiatore, pittore, regista (Bravissimo, San Pasquale Baylonne, L´arbitro, Amore e ginnastica, l´episodio di Gugliemo il dentone nei Complessi...) racconta tante piccole storie private del drammaturgo siciliano, legate indissolubilmente ai suoi capolavori. D´Amico è stato un osservatore privilegiato: fin da bambino la sua famiglia tramite gli zii Alberto Cecchi, Antonio Baldini, Silvio d´Amico era legata ai Pirandello e lui stesso ha sposato una delle due figlie di Lietta. La suocera era una miniera di particolari, un archivio della memoria importante quanto la passione (e la conoscenza) che Luigi Filippo d´Amico ha per l´opera del nonno di sua moglie. Ed è proprio la passione, il suo pulsare quasi sempre doloroso, che lega gli episodi, spesso inediti, riportati da Luigi Filippo d´Amico e che si ritrova in tutti i romanzi, i drammi, le novelle. Sentimenti forti, carnali, "repressi" da una rigida cortina di pudore che hanno avuto il loro unico sfogo nelle creature inventate. E d´Amico, attraversando la parabola letteraria e personale del premio Nobel - i suoi continui disagi economici, il difficile rapporto con la politica, con il cinema, con i capocomici, i soggiorni all´estero, gli insuccessi prima e poi la gloria internazionale - ripropone tante figure femminili vere o di "carta" che hanno segnato la vita di Pirandello a cominciare dalla consorte, Antonietta, malata di mente che comprometterà per sempre il suo rapporto con le donne ("Una volta accompagnai mia moglie a visitare la nonna ricoverata in casa di salute. Indossava un vestito nero, accurato, con merlettini bianchi alle maniche e un cappello... Pronta - dicevano la monache - ogni giorno nell´attesa che Luigi venisse a riprenderla. In terra, infatti, vidi una valigia"). Ecco le allieve del Magistero dove Pirandello insegnava: «tra le scolare, faceva strage... Ci voleva tutto il riserbo, la serietà dell´uomo, il suo senso di responsabilità, perché quella lezione non si trasformasse in una corte d´amore».
Ecco Marta Abba: «Nell´estate del´32 non avevo ancora otto anni e mi innamorai di lei» scrive d´Amico «Fui sedotto da un odore - così diverso da quello di mia madre e delle mie sorelle - che gli olii solari non annullavano del tutto (è l´odore, pensai, delle vere donne)». Quando la conobbe il Maestro aveva già chiuso da anni i suoi rapporti con l´altro sesso; ne fu travolto ma «quasi fosse un padre, in un testamento olografo istituisce la Abba erede per un sesto, oltre ai diritti delle opere scritte da lei».
In Diana e la Tuda Pirandello - sottolinea d´Amico - inserisce uno scoperto richiamo, anche se probabilmente solo vagheggiato, ai suoi rapporti con la Abba e «in una lettera del 1926 indirizzata alla diva, allude ad una "atroce notte" a lei ben nota (erano a Como per una recita); ancora una volta aveva pensato al suicidio, ma: la coscienza dettava l´ordine imperioso di scrivere». Chissà se il drammaturgo aveva considerato "atroce" l´offrirsi di una giovane donna a un vecchio o, al contrario, quell´atroce poteva riferirsi a lui che aveva insidiato Marta. L´attrice comunque sposò nel 1938 un milionario di Cleveland, chiedendo, e ottenendo, poco dopo un redditizio divorzio.

il Riformista 8.3.07
Sinistra. Un vasto orizzonte da Bertinoro al sindacato
Bertinotti guarda a tutti e sogna la grande ricomposizione


Per ora nel corpo del partito se ne parla poco. Lo strappo è troppo evidente. Ma nell’intervista su Liberazione del 26 febbraio Bertinotti ha riconosciuto la necessità, da parte della sinistra, di raggiungere una «massa critica» che oggi non c’è. Che fare allora? «Ricostruire una cultura politica e una cultura politica di sinistra». «Bisogna sganciarsi da quello che è stato fatto prevalentemente fin qui. Cioè l’ingegneria organizzativa dei partiti». Non scherzava.Il 4 marzo è tornato sull’argomento in un’intervista alla Stampa: «Non penso ai comunisti con i comunisti, i socialisti con i socialisti, i verdi con i verdi, i cattolici democratici con i cattolici democratici. Ma a tutti con tutti». Insomma, ha sparigliato, facendo cadere nell’oblio la sua stessa creatura, Sinistra Europea, che - sembra di capire - rimarrebbe solo come una matrioska del Prc. D’altra parte la costruzione di Sinistra Europea ha dato fino a oggi esiti deludenti, limitandosi all’assemblaggio di qualche associazione e di alcune personalità. Eppure l’operazione Bertinotti ha avuto un risultato immediato: far uscire il partito dall’isolamento dopo la mini-crisi di governo e il caso Turigliatto. Bertinotti si propone di verificare se c’è «un destino comune» a sinistra, e invita alla discussione di «tutti con tutti». Già. Ma tutti chi? Non è interessato all’«unità dei comunisti». Il che ridimensiona la sua stretta di mano con Diliberto. Guarda in primo luogo a Mussi e Salvi che, pur dichiarandosi indisponibili a fare la sinistra del Partito democratico, mantengono un prudente (e comprensibile) riserbo sulle prospettive. Guarda poi a Bertinoro. E guarda, infine, ai variegati spezzoni sociali - con particolare attenzione al sindacato - organizzati e no, cattolici e laici, che nell’attuale nomenclatura politica proprio non si ritrovano, e che aspettano (o lavorano per) una costituente della sinistra unita e rinnovata. A questo punti i cerchi dei vari sassi nello stagno cominciano a intrecciarsi: l’area che fa capo a Rifondazione, la Sinistra Ds, la diaspora socialista, l’arcipelago sociale. D’altra parte qualsiasi riforma elettorale, a cominciare dal sistema tedesco proposto da Bertinotti, obbliga le forze minori a darsi una regolata. Non paga più l’apologia del simbolo, né la coppia esistenza-resistenza su cui i piccoli partiti hanno sacrificato qualsiasi propensione egemonica. E inoltre il modo di formazione del Partito democratico evoca sempre più forze in libera uscita.È dura, dopo la scomparsa della falce e martello, l’ostentazione del cilicio della Binetti. È ancor più dura la scelta di Rutelli per Francois Bayrou contro la povera Ségolène. Per non parlare dell’adesione al Pse:«Non se ne parla nemmeno», ha tagliato corto il “bello guaglione”. Insomma, serpeggia nella sinistra italiana l’idea che forse ci sono le condizioni per cominciare a invertire la tendenza: dalla frantumazione alla ricomposizione. Sullo sfondo si intravede un’operazione da 1892. Leghe, società di mutuo soccorso, fasci operai, aggregazioni politiche, intellettuali. Un crogiuolo. E poi il partito. Per ora Bertinotti ha mosso il cavallo. Si vedranno le mosse degli altri. Purché nessuno faccia l’arrocco. Oggi, nell’accelerazione dei processi politici, sarebbe la mossa perdente.

il Riformista 8.3.07
L'Unità in sciopero
«Non fateci diventare un secondo giornale»
di Fabrizio d'Esposito


«Care lettrici e cari lettori domani, 8 marzo-Festa della donna, non troverete l'Unità in edicola. Un giorno in cui volevamo esserci, non ci saremo». Ieri mattina a pagina quattro, incorniciato da un fascione nero a dire il vero più da necrologio che da comunicato sindacale, i cinquantamila e passa lettori del quotidiano fondato da Antonio Gramsci e finanziato dai parlamentari Ds hanno trovato un drammatico testo sul futuro del loro giornale. A firmarlo «le redattrici e i redattori dell'Unità» che, dopo aver chiarito che «questo è un appello che non avremmo voluto scrivere», annunciano la decisione di scioperare e non essere in edicola oggi. Il motivo è lo stesso che da mesi preoccupa i giornalisti dell'Unità e che a poco a poco ha trascinato la redazione a uno scontro duro con la proprietà, rappresentata da Marialina Marcucci, presidente del consiglio di amministrazione della Nie. Ovvero, il misterioso piano di ristrutturazione che in teoria dovrebbe rilanciare il giornale.
In realtà, l'assemblea di redazione teme che il progetto, da tempo annunciato e mai svelato dalla Marcucci, nasconda una mutazione genetica dell'Unità ritenuta letale: «da primo giornale autorevole così come è oggi» a foglio di analisi e di opinioni che integri la lettura dei quotidiani generalisti. Non solo: una svolta del genere sarebbe accompagnata dal taglio di un giorno settimanale di uscita, in questo caso il lunedì, che influirebbe non poco sul prestigio del quotidiano, oltre che sugli stipendi già non particolarmente lauti dei redattori. Sullo sfondo, infine, un atroce retropensiero: il sospetto che il ridimensionamento spiani la strada, in vista del Partito democratico, a un'eventuale fusione coi giovani cuginetti di Europa, il quotidiano della Margherita. Di qui lo scontro sempre più violento con la Nie (che sta per Nuova iniziativa editoriale) culminato con la decisione di scioperare quando l'assemblea di redazione, al termine di una riunione lunga e accesa, ha chiesto invano alla proprietà di pubblicare a pagamento e a tutta pagina il testo dell'appello sottoscritto dai giornalisti. La Marcucci, infatti, ha rifiutato l'inserzione e il documento è uscito ieri con la dicitura comunicato sindacale.
La decisione di scioperare ha però fatto arrabbiare e di molto anche, tanto è vero che il verbo usato è «incazzare», i vertici della Quercia, che in questa battaglia, anche se non lo dicono apertamente, propendono per Marcucci, di cui tra l'altro ieri sarebbe dovuta uscire una lettera di chiarimento bloccata però all'ultimo momento dal cda della Nie. Perché? Sarebbe stato proprio il mistero sui motivi del blocco a far precipitare la situazione verso lo sciopero. Tornando ai ds, la rabbia riguarda innanzitutto il giorno scelto, l'8 marzo, una data in cui grazie alla diffusione militante il numero di copie vendute aumenta vertiginosamente. In pratica, dicono, uno schiaffo simbolico anche agli sforzi del partito che proprio recentemente ha sottoscritto seimila abbonamenti per altrettanti segretari di sezione. Poi c'è la questione dell'appello. Questa, allora, la versione che trapela dal Botteghino: «Quello che è successo è incomprensibile. Non si è mai visto uno sciopero basato solo su voci e nulla di certo. Nella redazione dell'Unità si è innescata una bizzarra dinamica che ha condotto a un'inutile fuga in avanti. In realtà, la stessa Marcucci ha chiarito col cdr che non c'è alcuna volontà di ridimensionare il giornale. Il piano industriale che è allo studio di una società di valutazione prevede un rilancio dell'Unità, non altro. Il resto sono solo equivoci».
E che tutto sia scaturito da «equivoci e fraintendimenti» tra redazione e proprietà lo dice anche il direttore Antonio Padellaro, che dopo i fasti del colombismo ha raddrizzato la linea politica del quotidiano, se non altro indirizzandola verso i lidi del Partito democratico. Ieri Padellaro era da solo in redazione a fare il suo lavoro, anche se oggi il giornale non è uscito: «Sono qua e faccio il mio lavoro, ma sia chiaro che se bisogna scioperare per il contratto nazionale sono il primo a farlo». Detto questo, «lo sciopero è sempre uno strumento doloroso e in quest'occasione io sono molto amareggiato e addolorato perché è la prima volta in sei anni che i colleghi scioperano per una vertenza aziendale, chiamiamola pure così. Questa scelta mi fa molto male e trovo curiosa l'iniziativa di voler pubblicare a pagamento il comunicato. Quale azienda avrebbe accettato un'inserzione contro se stessa? In ogni caso le cose che ho letto nell'appello mi fanno molto piacere, ma credo che le attuali caratteristiche del giornale, cioè autonomia, autorevolezza e ricchezza di notizie, stiano a cuore a tutti, alla proprietà, alla redazione e ai lettori. Perdipiù, questo è un momento che siamo in risalita. Nella settimana che va da lunedì 19 a domenica 25 febbraio abbiamo avuto una media di 55mila copie. Il picco negativo l'abbiamo avuto il lunedì con 48mila copie, quello positivo la domenica, con oltre 68mila». E allora che cosa è successo? Risposta: «Credo che ci siano stati dei fraintendimenti tra redazione e proprietà. A me risulta che le intenzioni della Nie sono quelle di rafforzare il prodotto tenendo sotto controllo i conti. Mi auguro che dopo la giornata dura dello sciopero si possa superare questa situazione. In questo sono cautamente ottimista». Ultimo dubbio che aleggia: le voci su una fusione con Europa, che tra l'altro al Botteghino vengono liquidate con sarcasmo: «Potremmo mai fare un giornale che si chiamerebbe Unitopa?». Conclude Padellaro: «A me piace molto Europa, ma è un giornale giovane. L'Unità invece appartiene alla storia del giornalismo di questo paese. E' una testata che di per sé ha un fascino particolare. Per questo non è possibile fare una fusione che tolga identità a un marchio così forte».

il manifesto 8.3.07
«L'Unità» in sciopero contro la proprietà
L'editore sta decidendo i destini della testata, la redazione chiede lumi, ma le risposte non arrivano, il futuro è incerto. Il quotidiano oggi non esce
di G. Sba.


L'8 marzo 2006 L'Unità scelse il colore rosa per andare in edicola: la banda dei sommari sotto la testata, l'apostrofo e l'accento per un giorno abbandonarono il rosso per accendersi di pink. Oggi invece l'Unità non esce, è il primo sciopero interno dalla resurrezione del 2001 e le pagine preparate per la festa della donna andranno a ammuffire. Una scelta ponderata quella dei redattori che da mesi lavorano nell'incertezza, «Ma non è una vertenza politica né di categoria - Umberto De Giovannangeli del cdr sgombra il campo da possibili illazioni - è esclusivamente professionale, perché vogliamo che questo resti un primo giornale e non si riduca a un foglio d'opinione». Il quotidiano diessino fondato da Antonio Gramsci perde copie, almeno 6-7mila nell'ultimo anno, ora se ne vendono circa 53-54 mila e lo spettro del 2000, quando l'Unità chiuse perché era «Finito il grande sogno» (così titolava l'ultima pagina nel giorno dell'addio), si aggira per la redazione. Stare al governo è più difficile che fare opposizione, ora come allora. A via Benaglia - la sede di via due Macelli è stata abbandonata a natale - si attendono indicazioni su progetti, investimenti e linea editoriale, ma la proprietà (Nuova iniziativa editoriale) sceglie il dribbling e rimanda di giorno in giorno le risposte. Il recente incontro con Marialina Marcucci, azionista e presidente della testata, non ha soddisfatto nessuno.
Per poter comunicare ai lettori i disagi di questi ultimi tempi i redattori volevano addirittura comprare una pagina di pubblicità del loro giornale. Gli editori, però, hanno detto niet. Ma come, si saranno chiesti, è stata pubblicata persino l'inserzione della lista civica «Pomigliano democratica» che se la prendeva con il senatore di Rifondazione Tommaso Sodano proprio mentre Prodi contava i voti di fiducia a palazzo Madama? Sul numero di ieri c'era invece il comunicato sindacale firmato nome e cognome da tutti i giornalisti, dai vicedirettori ai redattori ordinari: «In queste ore la proprietà dell'Unità sta decidendo i destini della testata. Noi non possiamo dirvi, ora, se questo giornale rimarrà in edicola in futuro sette giorni su sette; non sappiamo se allo stallo degli ultimi sei mesi si sostituirà una fase di rilancio», si legge a pagina 4. Non chiedono la luna i pronipoti di Gramsci, ma «un progetto vero». Riduzione della foliazione, chiusure anticipate, con il rischio di perdere le notizie delle sera tardi, assenza in edicola il lunedì - «dai tempi del vecchio Antonio, crisi del 2000 a parte, siamo sempre usciti 7 volte su 7», dicono dal cdr - incertezze che pesano e fanno prosperare le voci di corridoio: l'indiscrezione pubblicata da Libero di una possibile vendita del giornale a Giovanni Consorte, nessuno alla Nie si è preoccupato di smentirla.
Il piano industriale, 500 pagine elaborate da una società esterna di consulenza, la Value Partners, è già nelle mani del consiglio d'amministrazione dal 21 febbraio, racconta Fabio Luppino del cdr, ma dai piani alti continuano a fare scena muta: «Siamo in una situazione di stallo, mancano chiarezza e trasparenza».

il manifesto 8.3.07
Eutanasia, 2 mila medici fanno outing
«Abbiamo aiutato a morire con dignità». E il tema fa irruzione nella campagna elettorale francese
di Anna Maria Merlo


Parigi. Con un appello ai candidati alle presidenziali, 2134 medici e infermieri si sono auto-denunciati per avere «in coscienza aiutato medicalmente dei pazienti a morire con decenza». E chiedono un dibattito sull'eutanasia. A pochi giorni dall'apertura di un processo contro una dottoressa e un'infermiera accusate di aver prescritto e somministrato del potassio in dosi mortali a una malata terminale che ne aveva fatto richiesta, i firmatari dell'appello chiedono la fine delle procedure giudiziarie e la depenalizzazione dell'eutanasia, a certe condizioni, oltre a maggiore assistenza per i malati in fin di vita. La dottoressa e l'infermiera rischiano fino a 30 anni di carcere, accusate di «avvelenamento».
La socialista Ségolène Royal e l'Ump Nicolas Sarkozy hanno promesso entrambi che se saranno eletti apriranno questo dibattito. Invece per i centristi va bene la legge vigente, votata nell'aprile 2005 sull'onda dell'emozione sollevata dal caso Vincent Humbert, un giovane tetraplegico che la madre e un medico avevano aiutato a morire nel 2003. La legge Léonetti del 2005 non legalizza l'eutanasia, ma stabilisce un diritto a «lasciar morire» in pace, condanna l'accanimento terapeutico e legalizza le cure anti-dolore anche se potrebbero abbreviare la vita del paziente terminale. L'Associazione per il diritto a morire con dignità (Admd), che ha più di 40 mila membri, ha interpellato i candidati su questo tema, inviando loro un libro bianco dal titolo «Fin di vita, una nuova legge è indispensabile».
Nel programma dei socialisti c'è un capitolo dedicato al tema, anche se finora Royal ha detto solo pubblicamente di «essere in pieno accordo con il progetto» del Ps. In una lettera all'Admd, Royal scrive: «L'accompagnamento delle persone in fin di vita è un tema che mi sta a cuore e che è importante regolamentare, rispettando strettamente la volontà del malato. La dignità della persona, malata o no, deve essere assicurata in ogni circostanza». Il programma del Ps è più chiaro e promette, in caso di vittoria, di presentare in parlamento un pdl «sull'assistenza medicalizzata per morire con dignità; questa legge permetterà ai medici, nello stretto rispetto della volontà del paziente, di apportare un aiuto attivo alle persone in fase terminale o in uno stato di dipendenza che ritengono incompatibile con la loro dignità».
Sarkozy si è limitato a promettere una discussione. Ma nell'Ump la deputata Henriette Martinez è iscritta all'Admd. «Ho visto il carattere inumano delle legge attuale quando mio padre, dopo aver sospeso le cure, ha impiegato più di una settimana a morire. Perché allora non avere il coraggio di fare un gesto attivo, visto che il risultato è ineluttabile?». Invece i centristi dell'Udf non vogliono cambiare la legge Léonetti: «Ci pare sufficiente per morire con dignità. Quando le cure palliative sono ben dosate, non c'è necessità di ricorrere all'eutanasia». Favorevoli alla depenalizzazione dell'eutanasia sono i Verdi e i trotzkisti della Lcr. Decisamente contrario il Fronte nazionale. Il Pcf è incerto e al suo interno il dibattito è acceso.

Repubblica 8.3.07
Due mesi fa la legge del Pirellone. I dirigenti sanitari: non sappiamo come procedere. Intanto si stanno riempiendo le celle frigorifere
Sepoltura dei feti, caos negli ospedali a Milano
I medici della Mangiagalli: poca chiarezza. La Regione: proteste strumentali
di Laura Asnaghi


MILANO - Succede in Lombardia. Fatta la legge sulla sepoltura dei feti, mancano ancora le norme precise per tumulare i "prodotti del concepimento" . E così quelli che le madri hanno deciso di lasciare agli ospedali restano in attesa di una sepoltura, chiusi in scatolette conservate nelle celle frigorifere delle sale delle anatomie patologiche degli ospedali. A denunciare il problema sono i direttori sanitari: «Nessuno ci ha dato istruzioni e, in più, manca ancora la circolare applicativa del nuovo regolamento».
Alla fine di gennaio, il Pirellone ha varato una norma che consente la sepoltura dei feti sotto le 20 settimane, feti che prima venivano smaltiti come "rifiuti sanitari". Con la nuova norma, che ha sollevato dure proteste da parte delle donne, i feti hanno acquistato la dignità di "parti anatomiche riconoscibili" e quindi equiparati a una mano o a un braccio amputati per ragioni di salute e destinati ai cimiteri per essere tumulati o cremati. Ma se da un lato il Pirellone è stato rapido e veloce nel varare la nuova norma, non è stato altrettanto solerte nel decidere come e quando vanno sepolti i feti. Tanto che da un mese restano "parcheggiati" nelle celle frigorifere. Ma a far esplodere il problema è stato l´incontro tra i direttori sanitari e i responsabili del servizio cimiteriale del Comune di Milano. Un incontro che è servito a quantificare i costi di tumulazione che si aggirano intorno ai 53 euro per feto: 18 vanno alla Asl e 35 al Comune. Non solo. Ma in vista della sepoltura dei feti milanesi (lo scorso anno sono stati 7 mila sui 25 mila lombardi), Stefano Pillitteri, l´assessore ai servizi civici del comune di Milano, ha avanzato la proposta di creare, al cimitero di Lambrate, un "giardino dei ricordi" ad hoc, in cui disperdere le ceneri dei feti. Una iniziativa destinata a sollevare ulteriori polemiche e che oggi, 8 marzo, festa della donna, non passerà certo inosservata.
Di fronte alle contestazioni dei direttori sanitari che chiedono di sapere se i feti vanno messi in piccole cassette o in un contenitore comune, e di capire chi pagherà le spese di sepoltura o di cremazione, la Regione reagisce parlando di "polemica ideologica e strumentale". «La circolare applicativa uscirà entro la fine della settimana - assicura Carlo Lucchina, il direttore generale dell´assessorato regionale alla Sanità - comunque, i direttori sanitari sanno benissimo come vanno trattati i feti. Basta metterli in un contenitore comune, in modo tale da rispettare la privacy della donna, e avviare le pratiche che sono in vigore da anni "sulle parti anatomiche riconoscibili"». E i costi, chi li sostiene? «Rispetto al passato non ci saranno costi aggiuntivi. Chi sostiene l´inverso dice il falso». Sarà, ma intanto i direttori sanitari sono concordi nel dire che la materia è tutt´altro chiara. «Alla Regione chiediamo tre cose - spiega Basilio Tiso, il direttore sanitario della Mangiagalli - vogliamo sapere, per iscritto, come dobbiamo trattare i feti. Vanno messi in piccoli cassette separate o in contenitori comuni? Chi paga le spese per il loro trasporto e la loro sepoltura? E ancora: i feti vanno sepolti o cremati e le loro ceneri disperse? La normativa è nuova e va definita bene, senza lasciare dubbi»

Repubblica 8.3.07
Napoli, il cardinale Sepe scomunica il "calendario della pace" della Regione: troppe omissioni e forzature laiciste
Agenda senza Epifania, Curia contro Bassolino
di Conchita Sannino


NAPOLI - Natale, c´è. L´Immacolata Concezione, manca. Padre Puglisi e Arafat, sì. Quaresima e Foibe no. C´è anche l´assassinio di Anna Politkovskaja, anche il Ramadan, ma non l´Epifania. L´ultimo scontro sul confine tra politica e religione si radica a Napoli, coinvolge due cardinali insieme con esponenti nazionali della destra e pone nel mirino l´»Agenda della Pace 2007» della Regione Campania.
Oltre mille paginette contrassegnate da ricorrenze che volevano rilanciare «obiettivi di pace disattesi dalla Comunità internazionale». Invece hanno scatenato un frammento nuovo di "guerra" tra fede e potere, e provocato la pacata ma netta bocciatura del cardinale di Napoli, Crescenzio Sepe. Il vertice della Curia vesuviana stigmatizza infatti quelle «omissioni della cosiddetta Agenda della pace» come «forzature laiciste che speravamo superate». Il suo intervento segue di poche ore la strigliata dell´arcivescovo emerito di Ravenna, Ersilio Tonini. Abbrivio non brillante, insomma, per uno «strumento di apertura e di dialogo al servizio delle scuole e del territorio», come l´aveva definito l´assessore campano di Rifondazione, Corrado Gabriele, già uomo di punta nella mobilitazione civile e antimafia della giunta di Antonio Bassolino. Gabriele non rinnega alcuna scelta. Anche se ammette «una brutta distrazione: quella del massacro delle Foibe, me ne assumo la responsabilità». Poi obietta: «Perché avremmo dovuto inserire la Vergine Maria e non anche altri grandi santi venerati dai cattolici?». Infine l´impegno di pace: «L´anno prossimo saremo pronti a cogliere le riflessioni che la Chiesa vorrà offrirci, nel solco di un franco e rispettoso dialogo». Infine tende la mano a Sepe, «pastore ed uomo di grande spessore, come il suo impegno sociale per Napoli dimostra».
Gli esponenti della destra, da Maurizio Gasparri all´ex ministro Mario Landolfi, avevano già accusato quell´Agenda, pochi giorni fa, di «ideologismo ottusamente regressista». «Si additano ad esempio personaggi discutibili come Arafat, non Madre Teresa o importanti feste cristiane», denuncia Gasparri. Il cardinale Ersilio Tonini, nelle stesse ore, commenta: «Non ci posso credere: è un´iniziativa di un´incoscienza istituzionale impressionante. Mi sorprende molto che ciò avvenga in Campania, territorio in cui la verità incarnata da Cristo è un sentimento profondo». Ieri, ad accrescere il turbamento dei cattolici è arrivata la disapprovazione del cardinale Sepe. Il quale esprime «profondo dispiacere» per quelle «omissioni». E bolla l´assenza di Epifania, Quaresima, Immacolata Concezione, celebrazioni «che affondano le radici nella millenaria eredità culturale e religiosa del popolo» come «forzature laiciste che pensavamo da tempo superate».
Osservazioni alle quali l´assessore replica in maniera differenziata. Sarcasmo per Gasparri e la destra. «Forse non sanno - stigmatizza Gabriele - che l´Agenda della pace non è il calendario di frate Indovino». Dialogo infine per il cardinale Tonini e per il più vicino Sepe: «Questo nostro contributo alla riflessione ha sempre aggiunto nel corso degli anni riferimenti e annotazioni relative al messaggio cristiano e al suo irrinunciabile valore umano. Non a caso nel giorno di Natale abbiamo scritto: "Nascita di Gesù. Il suo messaggio rivoluzionario fu: ama anche i nemici"».

Nogod.it 7.3.07
Restiamo in Afghanistan per la Madonna
di Giulio C.Vallocchia


Oggi si vota sul rifinanziamento della missione italiana in Afghanistan. Siamo andati lì in accordo con l' ONU, ma a differenza delle altre nazioni che hanno mandato soldati in nome del mantenimento della pace, noi abbiamo mandato laggiù le nostre truppe per diffondere la fede cattolica. Abbiamo scoperto infatti, grazie al Pio Ufficio dell' Esercito, che stiamo costruendo una Chiesa dedicata alla Madonna in un Paese in cui gli islamisti distruggono a cannonate i simboli di qualunque altra religione. Di fatto siamo i nuovi crociati in partibus infidelium al servizio del papa. E quando i talebani, già accecati dall' odio naturale ispirato dal concetto di guerra santa della propria religione, dedicheranno la loro attenzione ai nostri soldati avranno uno stimolo in più per fare a pezzi soldati e Madonna.

7/03/07 - Oggi il papa cambia il direttore dell' orchestra CEI, ma la musica sarà sempre quella della discriminazione verso le persone omosessuali. Il cardinale Bagnasco sostituirà Camillo Ruini a capo della Conferenza Episcopale Italiana, il Governo Ombra del nostro Paese che manovra e guida di fatto tutta la vita politica italiana.

7/03/07 - E mentre i vescovi italiani esercitano un potere assoluto sul nostro governo, qualunque sia la maggioranza in Parlamento, quelli spagnoli "chiedono" e non "impongono". Anche se, a dire il vero, quello che chiedono non è diverso da quello che impongono qui, e cioè la discriminazione delle persone omosessuali. Ma visto che in Spagna c'è al governo un socialista vero, la chiesa spagnola chiede "rispettosamente" di non insegnare la nuova materia di "educazione civica" perché in contrasto con l' incitamento alla discriminazione delle persone omosessuali propagandato dal papa.

Il Foglio 8.3.07
Attacco a Freud
Ha capovolto la psicologia e l’uomo. In alto piedi, genitali, inconscio, in basso testa, coscienza e ragione
di Francesco Agnoli


Accanto alla pseudo-scienza darwinista, la modernità, culturalmente malata di riduzionismo, ha prodotto il pensiero di Freud: fondato sull’idea cioè che l’uomo sia un meccanismo, e come tale interpretabile, anche a livello psichico, come lo è a livello fisico. Effettivamente se Darwin avesse ragione, e con lui materialisti, psicologia e psicoanalisi sarebbero delle scienze “esatte”, capaci di guarire l’uomo dalle sue depressioni, nevrosi, tristezze, esattamente come il chirurgo che, identificato il tumore, lo asporta. Purtroppo, o per fortuna, così non è. Freud parte anche dal materialismo darwiniano per creare la psicoanalisi, cioè l’idea, in soldoni, che la malattia psichica sia semplicemente e pressoché sempre l’effetto di una causa di natura sessuale. La psicologia, che aveva sempre studiato ciò che sta in alto, lo spirituale, diviene “psicologia dal basso”. Freud capovolge l’uomo: in alto i piedi, i genitali, l’inconscio, in basso la testa, la coscienza, la ragione. Si inverte così ogni gerarchia naturale, al fine di negare Dio, l’anima, e, a livello umano, la figura simbolica del Padre. Il viaggio esistenziale non è più una conquista, un percorso, dall’Inferno al Paradiso, ma una discesa verso l’Inferno, il luogo in cui l’uomo si scopre solamente sessualità malata e nevrotica. Da Darwin Freud trae anche la convinzione che l’uomo è solo “una bestia selvaggia alla quale è estraneo il rispetto della propria specie”. Come Marx riconduceva ogni cosa, “scientificamente”, all’economia, struttura di tutto, considerando morale, arte, religione… come semplici sovrastrutture, così Freud prende il sesso, le pulsioni sessuali, egoistiche, aggressive, inconsce, per fondare su di esse la totalità dell’uomo. Oggi per fortuna la psicoanalisi è in crisi: molti ne mettono in luce le deficienze e gli inganni, e più nessuno cerca di spacciarla per una scienza esatta. Eppure, nell’epoca del positivismo, del “male di vivere”, del materialismo darwinista e marxista, molti credettero che il complesso di Edipo, il complesso di Elettra, l’invidia del pene altrui, il complesso di castrazione, ’interpretazione dei sogni, i lapsus, le amnesie e quant’altro fossero nientemeno che scienza, nel senso più alto del termine. Zeno Cosini ha un rapporto negativo col padre: per lo psicoanalista è colpa del suo desiderio infantile di possedere la madre. Umberto Saba, al contrario, ha un pessimo rapporto con la madre: ha un complesso di Edipo rovesciato, in quanto ha introiettato la figura della madre come figura paterna… Un po’ di sesso pruriginoso, un po’ di perversioni, e tutto è spiegato, dal pessimismo di Leopardi, alla noia esistenziale di Marilyn Monroe. L’importante, per il freudismo, simile al fordismo, è nullificare l’uomo, non più re del creato, “luogo” in cui la natura prende coscienza, vertice della creazione, ma impasto di istinti bestiali, pulsioni, desideri inenarrabili, odii, riducibili in fondo, sempre, a qualcosa di inconscio. Libertà, volontà, intelligenza, responsabilità vengono accantonate, escluse, private di dignità scientifica, perché non quantificabili, non misurabili, non riducibili alla pura materialità. “Libertas fundata est in ratione”, scriveva san Tommaso, nel “buio medioevo”: l’uomo di Freud, in cui la ragione perde ogni importanza, ha perso anche la libertà, perché è determinato. Così la psicoanalisi si rivela in fondo nient’altro che un capovolgimento della confessione cattolica: un lettino, per distendersi e rilassarsi, al posto di un inginocchiatoio, per umiliarsi e rialzarsi. Un improbabile esame dell’inconscio al posto del personale e responsabile esame di coscienza. L’uomo post freudiano non deve più fare i conti con la sua coscienza, portatrice di una legge naturale a cui si può o meno obbedire; non tende al dover essere, al bene, al vero, al giusto; al contrario deve solo portare le pulsioni vergognose e inconsce che lo esauriscono a livello conscio, per accettarle, e sacralizzarle. “L’uomo non deve lottare per eliminare i suoi complessi, ma per accordarsi con loro”. Veniamo ai Dico: non sono forse la morte freudiana di ogni senso di responsabilità? Se Freud ha ragione, “un uomo può essererappresentato dai suoi genitali”, che, si sa, sono instabili e capricciosi, come i Dico.

Il Foglio 8.3.07
Bye Bye Dico
Salvi ci spiega che il testo di legge è da rifare, seguendo la Costituzione e ascoltando anche i vescovi


Roma. Interpellato dal Foglio, Cesare Salvi proclama senza versare una lacrima la morte del disegno di legge sui Dico da lui bocciato in commissione Giustizia al Senato: “Una legge sgrammaticata che avrebbe provocato chissà quanti ricorsi sulla registrazione delle coppie tramite raccomandata postale. E avrebbe costretto i giudici a indagare sul reale vincolo affettivo dei conviventi”. Oltretutto per Salvi “il provvedimento non avrebbe mai avuto una maggioranza numerica necessaria per essere approvato”.
Le ministre firmatarie, Barbara Pollastrini e Rosy Bindi, se ne facciano una ragione. Perché il presidente Salvi non ha alcuna intenzione di recuperare quel ddl: “L’ha detto anche Romano Prodi, il governo ha esaurito la propria funzione, ora la parola passa al Parlamento. Che poi è l’unico modo per ottenere ascolto dall’opposizione: anch’io al posto di Gianfranco Fini, pur favorevole ai Dico, avrei risposto di no a un’iniziativa firmata dall’esecutivo”.
In ogni modo le proposte di legge sulla regolarizzazione delle coppie di fatto giacenti in commissione non mancano, sono una decina. Ma vanno dall’idea di sottoporre la pratica alla disciplina dei contratti prevista dal codice civile (Alfredo Biondi di Forza Italia) a quella di assimilare i contratti dei conviventi ai rapporti tra coniugi (Luigi Malabarba di Rifondazione comunista). Su questo punto Salvi si autocostringe a subordinare le ragioni di parte – “sono un socialista libertario, le lascio immaginare in quale direzione mi muoverei” – e si attiene invece al ruolo arbitrale che gli è assegnato dalla Camera alta: “Posto che la mia opinione non rileva, mi aspetto una soluzione parlamentare condivisa per una legge che proceda come tutte le altre”. Cioè senza fretta.
“Avanti con giudizio come per il provvedimento sulle intercettazioni: nella prima stesura gridava vendetta al cospetto di nostro signore, poi è stato responsabilmente approvato con l’avallo di Berlusconi, anche se resta una ciofeca e verrà probabilmente dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale”. Salvi individua un perimetro decisivo nell’articolo 29 della Costituzione. E a modo suo rassicura i cattolici come la Bindi, ma perfino Paola Binetti: “La Carta non dice che non può esserci nessun riconoscimento delle convivenze eppure, come scrivono i costituzionalisti cattolici nel loro documento pubblicato da Avvenire, riconosce uno statuto privilegiato alla famiglia fondata sul matrimonio”.
Conseguenza: “Quand’anche fossi favorevole a un’equiparazione piena, simile a quella vigente in alcuni paesi europei, so che la Consulta direbbe no a ogni forma di similfamiglia”. Il che non invalida la necessità di trovare forme di tutela per le convivenze. Stabilito il metodo, Salvi non rinnega il “giusto tentativo di cercare una soluzione-ponte che tenga conto dei rilievi della chiesa”. Anzi ricorda che “la chiesa ragiona da due millenni su certi temi ed è utile ascoltarla, purché lei sia diposta ad ascoltare noi laici”. Più in generale: “Credo che la ricerca di maggiore libertà sia in sé sempre positiva, ma bisogna tener conto d’una tendenza globale, dell’attuale relativismo che sconfina nel nichilismo e genera risposte religiose di tipo fondamentalista. La cultura laica s’è illusa di poter archiviare tale questione”.
Bella l’idea di Bertinotti, ma con un ma
A questo punto Salvi accetta di scendere dalla presidenza della commissione per ritornare il senatore della sinistra diessina. E si difende, ma con il sorriso, dall’accusa di fare i capricci sui Dico per tenere sotto pressione la maggioranza diessina in vista del congresso primaverile che inaugurerà i lavori del nascituro Partito democratico. Il quotidiano della Margherita, Europa, chiede a Salvi di non fare il cinico. Risposta: “Che sciocchini. Se avessi voluto sfruttare la mia posizione istituzionale, avrei massacrato le leggi giudiziarie dicendo che i girotondini ci urlano: ‘Vergogna! ’. Sai le cose che avrei potuto inventarmi? ”.
E a proposito d’invenzioni, Salvi si dichiara “interessato” alla recentissima offerta bertinottiana di aprire una fase costituente per ragionare sul futuro di una grande sinistra socialista. “Rispetto all’impressionante debolezza del manifesto per il Partito democratico, è un’idea nuova e buona”. Ma non nascerà una Linkspartei italiana. “Preferisco una sinistra alleata con il centro, cioè con il Partito democratico”.

La Stampa 8.3.07
Ma io credo alla scienza

non alla Chiesa
di Piergiorgio Odifreddi


Caro Direttore, spero di non abusare della sua pazienza se, ringraziandola per lo spazio che ha già concesso al dibattito sul mio libro Perché non possiamo essere Cristiani (e meno che mai Cattolici), le chiedo di poter brevemente commentare un paio di punti relativi all’intervista di Mario Baudino (1° marzo), e rispondere ad alcune obiezioni dei lettori (3 marzo) e di padre Bianchi (4 marzo). Due punti hanno generato fraintendimenti nell’intervista. Il primo è l’affermazione che «la resurrezione nei Vangeli non c’è». L’Avvenire del 6 marzo mi accusa addirittura di «falso storico», ed elenca 11 passi dei vangeli sinottici che invece ne parlano. Bella scoperta! Io a Baudino ho detto, e lui ha correttamente riportato, che «i protovangeli, cioè quelli più antichi, non ne parlano affatto».
E per protovangeli non si intendono ovviamente quelli canonici, bensì ad esempio la fonte Q che ha ispirato i sinottici, o la fonte SQ che ha ispirato Giovanni: in nessuno di questi si parla non solo della resurrezione, ma neppure della nascita verginale di Gesù, né egli vi viene mai chiamato il Cristo. Ma neppure in Marco, che è il vangelo più antico dei canonici, si parla di resurrezione: o meglio, se ne parla soltanto nei versetti finali, che come ammette però la stessa edizione Cei «sono un supplemento aggiunto in seguito». Le prime «testimonianze» sul lieto evento si trovano nelle Lettere di Paolo, che per sua ammissione non ha mai incontrato Gesù, e dunque non era un testimone oculare.

Il secondo punto dell’intervista che ha sollevato obiezioni è la mia posizione sullo Stato di Israele, che per forza di cose ha dovuto essere riassunta da Baudino. Preferisco qui citare testualmente il mio libro, nel quale scrivo che «rimane il fatto che l’esistenza stessa di Israele si fonda su una pretesa continuità storica che risale in ultima analisi a una supposta promessa divina»: qualunque cosa si pensi su Israele, non si può negare che sia la commistione fra politica (l’esistenza di uno Stato) e religione (l’assegnazione divina di una terra) ad avvelenare il dibattito sulla Palestina. E ancor più l’avvelena la pretesa di molti, anche a sinistra, di insistere a equiparare antisemitismo e antisionismo: la mia posizione è diversa, e coincide con quella espressa da Chomsky in Terrore infinito (Dedalo, 2002), al quale rimando. In fondo, infatti, il mio libro si interessa di Israele soltanto in maniera strumentale, per il ruolo che il Vecchio Testamento ricopre nella fede cristiana.

Venendo alle lettere dei lettori, il signor Franco Bergamasco obietta alla mia definizione dello stesso Vecchio Testamento come di «un irritante e snervante pasticcio, pieno di sciocchezze e orrori, massacri e contraddizioni», facendomi notare che in esso ci sono anche l’Ecclesiaste, il Cantico dei Cantici e il libro di Giobbe. È un’obiezione singolare, come se in un tribunale il difensore di un assassino chiedesse clemenza alla corte perché il suo assistito, oltre ad aver sgozzato una mezza dozzina di vittime, ha però anche delle belle abitudini, come il portare i fiori alla moglie o fare passeggiate in montagna. Che ci siano belle pagine nell’Antico Testamento, non lo nego neppure io: il fatto è che, oltre a non essere quelle su cui si basa la legge mosaica, e dunque la dottrina cristiana che le ha annesse, sono affiancate da una serie di pagine di ben altro tenore, che uno non si aspetterebbe di trovare, o si aspetterebbe di non trovare, in un libro che si proclama divinamente ispirato. Il signor Claudio Silipo ribatte invece in maniera diversa allo stesso problema, delle «sciocchezze e contraddizioni di cui la Bibbia è piena», citando la Prima Lettera ai Corinti. Cioè, dando appunto ragione a me, visto che in essa Paolo di Tarso dice che la fede cristiana è «una follia per i Gentili», e che essa non si rivolge «ai Greci che cercano la sapienza». Io sono perfettamente d’accordo, ma evidentemente il lettore, e con lui molti altri cristiani, no: problema loro, ma non si può avere allo stesso tempo il calice pieno e la perpetua ubriaca, e cioè abbracciare una fede per i beati poveri di spirito, pretendendo poi allo stesso tempo di non esserlo.

Rimane da rispondere a ciò che l’Avvenire descrive dicendo: «all’insulto ha reagito persino gente mitissima come il priore Enzo Bianchi». E cioè, al suo articolo di domenica scorsa, che inizia la sua critica sostenendo che «sbeffeggiare i cristiani può essere molto redditizio» e che «c’è tutto da guadagnarci». Sarei ipocrita se non dicessi che non mi dispiacerebbe affatto che lui avesse ragione, ma sarei un illuso se ci credessi: semmai è vero il contrario, visto che in Italia sono scrittori come Messori o la Tamaro a vendere milioni di copie, e non certo gli atei militanti, di cui non si conoscono neppure i nomi. A meno che padre Bianchi si riferisca a Dan Brown o Augias, che naturalmente non sbeffeggiano affatto il Cristianesimo in sé, e ne propongono invece versioni meno dogmatiche e più popolari (il che spiega in parte il loro successo).

Padre Bianchi non apprezza il mio stile, ed è un suo diritto: in fondo, anche il proverbio avverte che si deve «scherzare coi fanti ma lasciar stare i santi», per non parlare della Sacra Famiglia. Ma non entra affatto nel merito delle critiche che rivolgo in tutto il libro alle verità di fede: si limita a richiedere una comprensione «delle incongruenze presenti in ogni argomentazione». Dunque, ammette che queste incongruenze ci siano, e mi chiede piuttosto di comprendere «l’evolversi del pensiero umano». Si figuri se non sono d’accordo! Dubito però che lo siano i suoi superiori, che invece ritengono che i testi sacri vadano presi letteralmente: Ratzinger, in particolare, del quale nella conclusione del libro riporto un interessante riassunto autentico dei «diversi dogmi cristologici e mariani» che ogni fedele deve accettare, per potersi dire cattolico, e sui quali a mio avviso dovrebbe concentrarsi la discussione di coloro che, a differenza di me, ritengono che essi possano essere sensati e credibili.

In conclusione padre Bianchi dichiara: «Io continuo a credere che anche i non credenti possano avere una vita interiore». Lo ringrazio, a nome loro, della sua generosità, ma non posso accettare il suo ecumenico invito a «riconoscere la ricchezza che a ciascuno può venire dal dialogo tra identità e convinzioni differenti»: in fondo, sono un logico, e credo che la verità stia da una parte o dall’altra, e che quando in una disputa uno ha ragione, l’altro abbia torto. In particolare, credo che la scienza abbia ragione, anche e soprattutto per il suo metodo, che consiste nel basarsi su esperimenti verificabili e dimostrazioni comprensibili. E che la Chiesa abbia invece torto, anche e soprattutto per il suo metodo, che consiste invece nel basarsi su rivelazioni non verificabili e dogmi non comprensibili. Di questo parla il mio libro e di questo mi piacerebbe discutere, entrando nella precisione dei dettagli ed evitando di rimanere nel vago delle generalità.