Inserirsi per trasformare
Cara “Liberazione”
nella polemica tra Nichi Vendola e Sansonetti sull’importanza della governabilità, mi pare utile ricordare il pensiero di Riccardo Lombardi in occasione dell’esperienza del primo governo di centrosinistra, che fu poi guidato da Amintore Fanfani negli anni 1962-1963. Al XXXIV Congresso del Partito Socialista, Riccardo Lombardi sostenne vivamente la mozione di Nenni favorevole alla nascita di un governo di centrosinistra. Ma non si deve dimenticare che Lombardi era quello che teorizzava la possibilità e la necessità di «conquistare lo Stato dall’interno», sostituendo gradatamente il «criterio assoluto del profitto con quello dell’utilità collettiva». Era peraltro ben consapevole che qualsiasi sforzo in questa direzione avrebbe comportato uno scontro con i poteri forti, fossero quelli di un capitalismo fortemente viziato dalle rendite parassitarie, dell’imperialismo americano o della Chiesa Cattolica, allora come ora sempre troppo pronta ad intervenire nella politica italiana. D’altra parte, solo tre anni più tardi, di fronte all’evidente fallimento di quell’esperienza lo stesso Riccardo Lombardi in una lettera a Francesco De Martino lo invitava ad intervenire, in quanto segretario del Psi, per contrastare l’affermazione fatta da Nenni secondo cui: «l’idea ispiratrice della politica di centrosinistra era garantire la stabilità politica nella democrazia repubblicana».
Quello che “spaventava” Lombardi non era il riferimento alla “stabilità”, ma che questa fosse diventata per Nenni il «momento essenziale, prioritario e decisivo». Riuscirà la sinistra nei prossimi mesi ad uscire dall’angolo in cui è stata messa dal ricatto della caduta del governo Prodi? Forse l’unica strada, sempre citando Lombardi, è la forza che le verrebbe «dall’unità di tutte le forze che si richiamano al socialismo», un socialismo che, conscio della reazione a cui necessariamente andrà incontro (si chiamino Confindustria, Stati Uniti d’America o cristianesimo) si inserisca con le necessarie alleanze nel sistema capitalistico per trasformarlo, per trasformare gradatamente i modi di produzione, per far sì che tutti lavorino meno ma lavorino meglio, per produrre cose di pubblica utilità. Forze politiche di sinistra unite da una visione politica che sappia anche indirizzarsi ad una trasformazione dell’essere umano, ovvero «più capacità per gli operai di leggere Dante o di apprezzare Picasso» «per una società in cui l’uomo diventa diverso e diventa uguale, uguale non perché ha l’automobile altrettanto bella dell’imprenditore, ma perché è capace di studiare e di apprezzare i beni essenziali della vita». Vogliamo ricordare, infine, ai sostenitori del Partito Democratico, la sua totale e ferma contrarietà alla fusione tra il Psi e il Partito Social Democratico? «Noi siamo socialisti» diceva «perché crediamo possibile cambiare il mondo, non semplicemente amministrarlo!».
Sergio Grom via e-mail
Repubblica 9.3.07
Le idee. Il nazismo di Heidegger e i conti col passato
E Celan incontrò Heidegger
La poesia fa i conti col nazismo
di Adriano Sofri
C´è ancora chi pensa si possa confutare il filonazismo del filosofo di "Essere e tempo" Ma la sola idea, stando alle sue dichiarazioni, è inaccettabile
Nel 1949 T.W. Adorno scrisse una frase poi citata all´infinito sul fatto che scrivere poesie dopo Auschwitz era una barbarie
L´heideggerismo è una filosofia della guerra e la guerra travolge e trascina gli individui, li mette in uniforme e li avvia ad un solo destino
Paul, ebreo, era nato in Bucovina nel 1920 e aveva perso il padre e la madre in un campo di concentramento: è il poeta della Shoah
È DIFFICILE fare i conti col passato. Soprattutto col proprio: con il passato altrui ci si sbriga. Prendo le mosse da una succinta notizia nella pagina culturale del Corriere (Pierluigi Panza, «Heidegger difeso dall´accusa di hitlerismo») sul libro curato da François Fédier che confuta il «presunto filonazismo» di Heidegger. Ho fatto un salto sulla sedia: Heidegger non fu filonazista solo perché fu nazista, con fervida compromissione nel 1932-35, e un´adesione rinnovata fino alla fine. Negli stessi giorni Pierluigi Battista ha ripreso il tema del «silenzio» degli intellettuali italiani dopo il fascismo, sulla scia della rivelazione di Günter Grass, fin troppo clamorosa.
Non saprei conciliare una severità verso gli intellettuali convertiti anesteticamente all´antifascismo, e verso Grass, con l´indulgenza per Heidegger. Il silenzio (o peggio) dell´Heidegger del dopoguerra a proposito del suo passato e dello sterminio è stato più penoso della stessa adesione al nazismo. Esce anche da Sellerio una raccolta di saggi (impervii) di Jean Bollack, La Grecia di nessuno, titolo che calca Paul Celan, Niemandsrose, la rosa di nessuno. L´ultimo saggio è dedicato all´episodio più frequentato fra i mille della controversia su Heidegger e il passato: l´incontro fra il filosofo e Celan. (Grass rifece l´episodio ne Il mio secolo). Mi terrò ai bordi, per inadeguatezza e per un pregiudizio contro Heidegger. Una volta un suo visitatore citò con reverenza il commiato del maestro: «E poi, sa, non è ancora detta l´ultima parola». Si trattava nientemeno che del giudizio storico sul Reich. Frase oracolare, che qualunque barbiere potrebbe ridire: «E poi, sa, l´ultima parola non è mai detta». Enigmistica buona per congedare un devoto, col viatico della sapienza oscura.
Al momento di sciogliere l´enigma, nell´intervista del 1966 allo Spiegel, da pubblicare postuma, Heidegger avrebbe detto: «Per me oggi una domanda decisiva è: come può adattarsi un sistema politico - e quale - all´età della tecnica? A questa domanda non so dare risposta. Non sono convinto che sia la democrazia».
Se il profetismo di Heidegger era arduo, la poesia di Celan non lo era meno, di una difficoltà pronta a spezzarsi nella lingua come si era spezzata nella vita, mentre la difficoltà del filosofo restava per così dire tutta d´un pezzo. Celan, ebreo, nato in Bucovina nel 1920, aveva perduto padre e madre in un campo nazista, ed era scampato trovandosi un rifugio di fortuna, poi sopravvivendo ai lavori forzati. È stato il poeta della shoah, e in quella lingua tedesca - lingua madre, lingua della madre assassinata - proprio quando veniva coniata la pretesa che non si potesse far più poesia dopo Auschwitz: e gli fu rinfacciata la stessa "bellezza" della sua poesia più famosa, Todesfuge, fuga di morte («...la morte è un mastro di Germania». Le poesie sono curate in un prezioso Meridiano da Giuseppe Bevilacqua).
Il 24 luglio del 1967 Celan, reduce da un ricovero in casa di cura, tiene una conferenza a Freiburg. Heidegger è fra gli ascoltatori, e Celan, che pure rifiuta di essere fotografato con lui, accetta l´invito a visitarlo all´indomani. L´incontro avviene alla Hütte - la baita - che Heidegger ha trasformato nel monumento al proprio prestigio di pensatore e di tedesco della Foresta Nera, di «uomo che ha una patria ed è radicato in una tradizione». Celan firma il libro dei ricordi: «Nel libro della hütte, lo sguardo sulla stella del pozzo, con, nel cuore, la speranza di una parola a venire. Il 25 luglio 1967, Paul Celan». Sei giorni dopo, nella sua stanza d´albergo, scriverà una poesia: «Arnica, eufrasia, il / sorso dalla fonte con sopra / il dado stellato, // nella / baita, // la riga nel libro / - quali nomi accolse / prima del mio? -, / la riga in quel libro / inscritta, / d´una speranza, oggi, / dentro il cuore, / per la parola / ventura / di un uomo di pensiero, // umidi prati silvestri, non spianati, / orchis e orchis, separati, // più tardi, in viaggio, parole crude / senza veli // chi guida, l´uomo, / che anche lui ascolta, / percorsi a / mezzo, i viottoli / di randelli sulla torbiera gonfia, // umidore, / molto».
L´arnica, l´eufrasia risanatrici c´erano davvero, e c´era la fontana con la stella intagliata in un cubo. C´era il libro delle firme, la speranza della parola a venire. E poi il cammino nel prato, e le orchidee solitarie, il testimone che ascolta, e infine la palude di tronchi-randelli. Ciascuno di questi ingredienti, a cominciare dal nome del luogo e della poesia, Todtnauberg, il monte della morte, evoca altre immagini senza fine.
Celan manderà a Heidegger la prima copia di un´edizione privata della poesia. Heidegger risponderà con una formula elusiva, ma mostrerà con orgoglio la poesia agli amici. Forse senza averla intesa, o l´oscurità dei versi sarà bastata a tranquillizzarlo. La poesia uscirà poi in volume nel 1970. In quell´anno Celan tiene un´ultima lettura pubblica a Friburgo, e rinfaccia ad Heidegger di non ascoltarlo abbastanza attentamente. Un testimone ricorda: «Heidegger si fermò pensieroso presso la porta della sua casa per dirmi, scosso dall´emozione: "Celan è malato- e non esiste cura"». Heidegger non è stato tradito dall´aria della sua montagna: è morto nel 1976, ottantasettenne. Quanto all´incurabile Celan, il suo cadavere è stato ripescato nella Senna di Parigi il 1º maggio del 1970. Così l´incontro alla Hütte - confronto di radicamento e sradicamento, del filosofo affiliato al nazismo e del poeta scampato, nella lingua comune e irriducibilmente opposta - riceve il suggello del contrasto fra il professore di buona salute e il poeta malato di suicidio. Ci sono longevità vantate come un merito e un segno di aristocrazia: grattate quella longevità, e troverete l´impostura. Ci sono molti modi di "essere per la morte". Il confronto con la morte, che Heidegger incarica di riscattare la distrazione della vita ordinaria, può essere, sulla scorta di Ernst Jünger, la sfida cercata col pericolo estremo, con l´azzardo del soldato nella guerra di trincea. Ecco che la longevità appare, piuttosto che l´indizio di un´esistenza condotta al riparo, come la vincita strappata alla morte in battaglia. L´"essere per la morte" dell´ammalato ha un´autenticità tardiva e di rango inferiore, né scelta né cercata, ma miseramente subita.
Immaginarsi dunque l´"essere per la morte" delle vittime designate di un annientamento, per il loro solo essere quello che sono - ebrei, zingari, gente di scarto. Il suicidio del poeta è agli antipodi della morte sfidata dal soldato: cui, una volta superstite, arridono i centotré anni di Jünger. Chi sopravviva a un "essere per la morte" non voluto, inferiore, nemmeno deciso dal destino o dall´arruolamento obbligato, ma deliberato da nemici superiori, da soldati delle tempeste d´acciaio, gettato nel mondo e rigettato dal mondo - quel superstite infatti muore già in vita, muore così spesso suicida, la vita è la sua malattia.
L´accettazione del destino - rassegnata o entusiasta, nel qual caso la si chiama missione - culmina nella circostanza della guerra: cui ci si piega per solidarietà nazionale, o generazionale o cui si aderisce per passione, soldati di una Missione collettiva, patriottica, religiosa, classista. Il nazismo è una filosofia della guerra - l´heideggerismo anche. La guerra travolge e trascina gli individui, la chiamata alle armi taglia loro i capelli allo stesso modo, dà loro un´uniforme, li sottomette al destino collettivo, l´"oceano" rispetto al quale, come in Jung, la psicologia personale è un´increspatura insignificante. Quello che chiamiamo coscienza è la risalita dalla profondità, dalla barbarie e dal trascinamento collettivo, alla civilizzazione e alla libertà individuale. La civiltà è la camera iperbarica di questa risalita.
Essa non può che essere lenta e intermittente, mentre la discesa è precipitosa. Questo doppio movimento, ineguale e iniquo - perché la civiltà è fragile, una pellicola recente, una lastra di ghiaccio sottile sulla quale danza una pattinatrice adolescente, e invece la barbarie è forte e antica - si riproduce nel doppio movimento della comunità verso la distruzione, velocissimo, e chiamavamo fino a poco fa questa velocità progresso, o verso la pausa di riflessione, la moratoria, il fermo biologico, la ritirata, che è lenta. La riparazione culturale ed ecologica è la tartaruga che insegue l´Achille della consumazione e della manipolazione. È una doppia partita, ma truccata. Non si può che perdere, ma dilazionare la fine. Forse, mentre prendiamo tempo, sarà inventato un farmaco nuovo, si troverà una nuova strada.
La volta in cui accennò allo sterminio, nel 1949, Heidegger lo fece di passaggio, per accostare grottescamente la trasformazione dell´agricoltura in industria alimentare meccanizzata alla lavorazione dei cadaveri nelle camere a gas e nei campi.
Insofferente verso la trasfusione di esperienze vissute, di emozioni, di relazioni linguistiche e culturali, dentro i versi di Celan, che li fa sembrare illeggibili fuori da quella trama di informazioni, Hans Georg Gadamer preferisce che la poesia miri a «un mondo nel quale il poeta è di casa proprio come i suoi lettori». Ma per l´appunto Celan non è di casa a questo mondo, e ha tolto il disturbo. Si è arrivati a sostenere che il suicidio di Celan sia stato causato dal tentativo fallito di far riconoscere ad Heidegger la colpa dello sterminio: tesi impudente, che finisce per alzare di qualche centimetro il monumento al filosofo. Il grande e disgraziato poeta, che non la fa finita per la shoah, la morte e la vita, ma perché non è riuscito a strappare ad Heidegger la parola giusta!
Heidegger avrebbe poi accostato Celan a Hölderlin. Ma Celan abita poeticamente la terra, Heidegger no. La svolta di Heidegger verso la poesia, e Hölderlin in particolare, è un falso movimento: un modo per serbare intatta l´oscurità, per rifiutare "poeticamente" la chiarezza. Si è perfino fatto passare il silenzio di Heidegger sulla shoah come una dichiarazione della sua indicibilità! Anche Derrida cede alla sovrainterpretazione dei silenzi, pur dichiarandoli forse imperdonabili: «Io intendo questo terribile, forse imperdonabile silenzio di Heidegger come un´eredità. (...) Ci lascia l´obbligo di pensare ciò che egli stesso non ha pensato». Ma il silenzio di Heidegger va tutto intero sul suo conto.
Nel 1949 T. W. Adorno scrisse quel pensiero citato all´infinito: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie, e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie». È difficile oggi spiegarsi come potesse essere accolto letteralmente, al punto che qualcuno, abbiamo visto, accusò la Todesfuge di Celan di un sacrilegio contro Auschwitz. Confesso una diffidenza per la frase di Adorno, nella quale sento una retorica quasi fatua. Non era un bando alla parola e alla sua inadeguatezza: è in parole che Adorno dichiara prescritta la poesia. Se no, era uno dei molti modi in cui si cercò di significare il troppo di orrore e di iniquità dello sterminio, l´unicità. Ma l´unicità, che ha argomenti forti dalla sua parte, si impoverisce, o addirittura si avvilisce, quando la si voglia stringere in un´argomentazione. Sicché si potrebbe dire che dopo Auschwitz la prosa è diventata, se non inetta - che vorrebbe dire cedere all´"indicibile" e screditare i testimoni - molto più difficile e debole. E, viceversa, che la poesia è stata forte. Celan fu terribilmente ferito dall´accusa grottesca. Nel 1965 scrisse i versi conosciuti solo dopo la sua morte, che evocavano Theodor Wiesengrund Adorno (la traduzione è di Michele Ranchetti e Jutta Lesckien): «Madre, madre / Strappata dall´aria / Strappata dalla terra. / Giù / Su / trascinata. / Ai coltelli ti consegnano scrivendo, / con abile mano sciolta, da nibelunghi della sinistra, con / il pennarello, sui tavoli di teck, anti- / restaurativi, protocollari, precisi, in nome della inumanità da distribuire / di nuovo e giustamente, / da maestro tedesco, / un garbuglio, non / a-bisso/ab-gründig/ ma / a-dorno /ab-wiesen/ / scrivendo, / i reci-divi, / consegnano / te / ai / coltelli».
Adorno stesso avrebbe riconosciuto più tardi che «forse è falso che dopo Auschwitz non si possa più scrivere una poesia». E «dire che dopo Auschwitz non si possano più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un´arte serena». Che vuol parere un´attenuazione, ed è un vero capovolgimento. Adorno si sarebbe chiesto allora se fosse possibile, dopo Auschwitz, vivere: che era un gioco al rincaro.
"Wahr spricht, wer Schatten spricht" - dice il vero, chi parla oscuro: è un verso di Celan. La differenza fra l´oscurità di Heidegger e quella di Celan ha per posta la verità. Si ha l´impressione che la poesia di Celan, piuttosto che dirla, sia la verità.
Una volta Primo Levi rispose a un intervistatore a proposito del decreto di Adorno: «La mia esperienza è stata opposta. Allora mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro... Avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz». Tuttavia Levi, che pure diceva di esser stato salvato dalla poesia, metteva in guardia dallo "scrivere oscuro": «Nel mio scrivere... ho sempre teso a un trapasso dall´oscuro al chiaro».
Levi ha di mira Celan nell´articolo del 1976: «Non si dovrebbe scrivere in modo oscuro... L´effabile è preferibile all´ineffabile, la parola umana al mugolio animale. Non è un caso che i due poeti tedeschi meno decifrabili, Trakl e Celan, siano entrambi morti suicidi, a distanza di due generazioni. Il loro comune destino fa pensare all´oscurità della loro poetica come ad un pre-uccidersi, a un non-voler-essere, ad una fuga dal mondo, a cui la morte voluta è stata coronamento. Per Celan soprattutto... Si percepisce che il suo canto è tragico e nobile, ma confusamente... un linguaggio buio e monco, qual è appunto quello di colui che sta per morire, ed è solo, come tutti lo saremo in punto di morte. Ma poiché noi vivi non siamo soli, non dobbiamo scrivere come se fossimo soli». Noi vivi: ancora dieci anni, e Levi sarà così solo da decidere il suo punto di morte. Prima, il suo corpo a corpo con Celan gli avrà fatto scrivere quella poesia, Il superstite, che grida (invano, come decreteranno fra poco I sommersi e i salvati) la propria incolpevolezza, evoca ancora una volta il suo Ulisse e ripete il nome fatidico del Salmo di Celan, la Rosa di nessuno: «Non ho soppiantato nessuno, / Non ho usurpato il pane di nessuno, / Nessuno è morto in vece mia. Nessuno».
Repubblica 9.3.07
Le radici del nuovo potere temporale
La chiesa di Ratzinger e la politica
di Giuseppe Alberigo
Dal governo territoriale alla spiritualità, come è mutata la loro funzione nei secoli
Cosa accadrà dopo il cambio al vertice della Conferenza episcopale
All´interno della storia della chiesa e in rapporto alla società la funzione, il ruolo e il peso dei vescovi è stato molto diverso. In origine questa figura aveva il compito di curare i rapporti tra le varie comunità ed eleggere i nuovi vescovi; elezione accettata e convalidata, in genere per acclamazione, dal popolo. È una situazione che durerà parecchi secoli, durante i quali assistiamo all´affermazione di un´autorità soprattutto spirituale.
La prima grande novità si verifica nell´età feudale. Moltissimi vescovi diventano veri e propri signori feudali. Nascono figure impensabili prima. Il vescovo-conte o il vescovo-principe esercitano non solo un potere spirituale ma anche e soprattutto una signoria territoriale. Appartengono a una nuova geografia sociale che travalica i compiti tradizionali della chiesa. La conseguenza è che si diventa vescovo meno per vocazione e sempre più spesso per interessi di famiglia o per ambizione politica personale. Ancora fino a un secolo fa il vescovo di Trento era un principe dell´impero austro-ungarico. La sua autorità più che dalla chiesa finiva con l´essere legittimata dal sovrano. In nome di questa autorità territoriale decine di vescovi, sparsi per l´Europa, avevano proprie milizie, battevano moneta, ed erano autorizzati a imporre tasse. Il loro potere temporale inglobava e nascondeva quello spirituale. Un tale rilievo sociale, politico ed economico crebbe fino alla metà del Cinquecento, quando il Concilio di Trento tentò di ridimensionare questo processo avanzato di secolarizzazione. Già Lutero e i protestanti avevano denunciato una situazione nella quale i vescovi non facevano più i vescovi ma i signori temporali. Costoro spesso non vivevano neppure più nelle diocesi ma alla corte del principe più importante, al quale esprimevano devozione e fiducia e, in cambio della sottomissione, ricevevano la convalida del loro potere. Il Concilio di Trento porrà le basi per eliminare tutto questo. Ma occorrerà aspettare ancora due secoli perché di fatto la situazione si risolva. Saranno gli stati nazionali a eliminare progressivamente questi signorotti locali che ormai non sono più né laici né vescovi, ma un ibrido giuridicamente preoccupante. Si tratta di un passaggio fondamentale per ristabilire una figura di vescovo che avesse una fisionomia soprattutto spirituale, oggi diremmo pastorale.
Chi è dunque il vescovo oggi? Ecco una domanda che richiede una considerazione allarmante. Ancora quarant´anni fa, cioè all´epoca del Concilio Vaticano II, i vescovi erano circa duemila e cinquecento. Oggi nel mondo sono più che raddoppiati. Alla crescita numerica si è accompagnato mediamente un abbassamento della qualità. Può non sorprendere. Lo scadimento intellettuale si registra anche nella società. Ma le conseguenze nella chiesa sono di aver favorito alcune personalità più forti. Da questo punto di vista, la lunga e incontrastata presidenza di Camillo Ruini alla guida della Cei - che ha ridotto la conferenza episcopale a una struttura monolitica - è stata possibile sia per le sue spiccate doti politiche sia per la scarsa personalità dei vescovi che hanno conformisticamente obbedito alle sue scelte. Lamento, a voler essere più chiari, un´assenza di dibattito reale che mi auguro il nuovo presidente della Cei Angelo Bagnasco, sappia promuovere.
C´è un paradosso che a questo punto, vorrei segnalare. Quando fu firmato il nuovo concordato, quello per intenderci del 1984 con Craxi presidente del consiglio, si impose una novità: non era più la segreteria di stato del Vaticano (il loro ministero degli esteri per intenderci) a trattare con lo Stato italiano, ma la conferenza. Si disse che scopo di questa novità era di ridurre il coinvolgimento politico della chiesa. Si è visto che in questi anni è accaduto esattamente l´opposto. Perché? A parte le considerazioni sullo "spirito del tempo" credo che la forte personalità di Ruini abbia coinciso con il rafforzamento economico della Cei. Pochi sanno che l´otto per mille - il modo con cui lo Stato italiano finanzia lautamente la chiesa - è in larga parte gestito dalla conferenza episcopale.
La questione di quale rapporto deve esserci tra potere spirituale e temporale è nuovamente sotto i nostri occhi. La chiesa di questi anni sta ingigantendo i propri compiti proiettandoli in modo arbitrario sulla società. Il rischio è di sopraffare la società italiana e i cattolici che vi fanno parte. Discutibile mi appare la tendenza che sia la Cei a dettare le norme ai parlamentari cattolici. Quando De Gasperi ricevette da Pio XII l´ordine di fare un governo con l´estrema destra egli rifiutò, restando naturalmente un buon cattolico. Aveva chiara la distinzione tra quello che si deve a Cesare e ciò che si deve a Dio e ai suoi rappresentanti.
Si obietta che oggi, più che in passato, i cattolici italiani sono sottoposti a un processo di secolarizzazione molto intenso. È vero. Ma la chiesa può far fronte a questa pressione sia con ordini inappellabili, sia cercando il dialogo. Del resto non è la prima volta che la Chiesa abbia dovuto misurarsi con fenomeni minacciosi che ha poi felicemente superato.
Ritengo che l´unità della chiesa sia un bene prezioso e innegabile. Ma non c´è oggi il rischio di una spaccatura? Il pericolo più forte per la chiesa quasi mai viene dall´esterno, più spesso è frutto di tensioni intestine. Concludo con un pensiero che mi sta a cuore. In ogni grande epoca storica i vescovi hanno avuto dei modelli. Cioè un punto di riferimento esemplare. Nell´età antica fu Gregorio Magno, che poi divenne papa, a svolgere questo ruolo edificante. Nel cinquecento lo stesso compito lo assolverà il vescovo di Milano Carlo Borromeo. Ancora oggi in certe chiese si possono ammirare le sue immagini. La considerazione un po´ triste è che attualmente i vescovi non hanno più un modello da seguire. E neppure la pietà per Padre Pio può aiutarli a guadagnare quello stile che si ispira ai valori cristiani.
(Testo raccolto da Antonio Gnoli)
Repubblica 9.3.07
Dalle prime comunità al concilio vaticano II
Una figura chiave per l’identità cristiana
di Giovanni Filoramo
Nei primi secoli erano dotati di poteri eccezionali nei confronti del loro "gregge". Legittimati dal consenso popolare e del clero
Dopo gli eccessi nell´esercizio del potere temporale, il Concilio di Trento assegnò ai vescovi il compito prioritario della cura delle anime
Per le chiese cristiane, il vescovo (dal greco episkopos, "sorvegliante"), la cui importanza e funzione variano a seconda delle confessioni e della connessa ecclesiologia, è oggi la figura più significativa tra i vari ministeri. Così, mentre per la chiesa cattolica, per le chiese ortodosse e per l´anglicanesimo i vescovi sono "successori" degli apostoli per diritto divino e, di conseguenza, occupano il posto più alto nella gerarchia ecclesiastica, nelle chiese uscite dalla Riforma, per effetto del modo luterano di intendere l´unità della chiesa, l´ufficio episcopale è stato assimilato a quello del predicatore e giustificato non per diritto divino, ma per le necessità umane della comunità. Ricollegandosi al modo in cui, a loro avviso, il Nuovo Testamento presentava i differenti ministeri, i riformatori hanno voluto prendere le distanze dalla figura del vescovo emerso e impostosi nel corso del II secolo, ritenendolo il segnale più evidente dell´emergere di una struttura gerarchica e sacramentale del sacerdozio, ormai irrimediabilmente lontana dal sacerdozio dei fedeli proprio della comunità primitiva.
In realtà, l´"invenzione" della figura del vescovo, con i suoi tratti profondamente originali rispetto ad analoghe figure di autorità presenti sia nel giudaismo rabbinico sia nel mondo romano, ha costituito uno degli elementi-chiave che hanno permesso alle comunità cristiane di mantenere una forte saldezza e coesione e ne hanno facilitato la diffusione e, alla fine, il successo. Questa funzione unitaria del vescovo, che simboleggia l´unità della sua chiesa e, attraverso la partecipazione al collegio episcopale, la mantiene viva, testimoniando visibilmente la successione apostolica attraverso il suo potere di consacrazione e di amministrazione dei sacramenti, ha costituito un potente fattore d´identità per cattolici, ortodossi e anglicani, anche se poi le tre confessioni hanno declinato diversamente questo potere, in particolare come conseguenza del modo diverso di intendere l´ufficio del vescovo di Roma e i suoi rapporti con l´episcopato.
I tratti essenziali di questa figura si sono formati nell´antichità, grosso modo tra il II e il V secolo. Già all´inizio del III secolo questo tipo di episcopato pare ormai attestato nelle principali città dell´impero. Il vescovo, celebrando l´eucaristia, presiede alla vita liturgica e controlla la vita penitenziale; inoltre, consacrando gli altri appartenenti al clero, gestisce il potere sacerdotale. La scelta di un vescovo risultava dall´interagire di elementi carismatici (il "giudizio di Dio", che gli trasmetteva tra l´altro quel dono di discernimento spirituale essenziale per la buona conduzione dei rapporti umani all´interno della comunità) con il "suffragio" o acclamazione popolare e la scelta da parte del clero della città. Ne risulta una figura particolare, dotata di poteri eccezionali nei confronti del proprio gregge, garantiti dalla successione apostolica visibile e dal possesso dello Spirito (lo pneuma hegemonikon o spirito di comando) e legittimati dal consenso popolare e dall´approvazione del clero. Egli diventa il perno intorno a cui ruota la vita della chiesa locale: ne è il sacerdote, che offre il comune sacrificio; il ministro di tutti i sacramenti per tutti i membri della chiesa; con il suo sermo liturgico, il custode della parola e annunciatore di essa. Ma egli è anche idealmente - funzione non secondaria in un mondo che non praticava l´assistenzialismo - il distributore delle elemosine ai poveri, colui che applica la disciplina ecclesiastica, il centro dell´unità della chiesa, il cuore della sua vita complessa nel temporale e nello spirituale, all´interno e all´esterno. Alla fine del III secolo, il monoepiscopato era diventata la forma di governo della chiesa nelle varie parti dell´Impero. Come dimostrano poi, in particolare, le grandi figure di vescovi occidentali e orientali del IV secolo, Ambrogio Atanasio Basilio, nella nuova situazione politico-religiosa che portò il cristianesimo a diventare religione di Stato, la figura del vescovo, oltre ai compiti pastorali che gli provenivano dalla cura della comunità a lui affidata, acquisì funzioni sempre più rilevanti pubbliche e politiche anche all´interno della vita delle grandi città dell´Impero, come dimostra tra l´altro l´istituto dell´audientia episcopalis, in virtù del quale, in casi determinati, i vescovi amministravano la giustizia su mandato dello Stato. Questa accresciuta importanza pubblica si tradusse nell´acquisizione di insegne e onori propri dei gradi superiori della magistratura (porpora, trono con baldacchino, pallio, anello), in linea per altro con la provenienza per lo più aristocratica di molti vescovi del periodo. Il processo di progressiva sacralizzazione dei ministeri, che accompagna la nuova funzione pubblica assunta dalla chiesa, collocò insomma il vescovo, in quanto successore degli apostoli, in cima alla gerarchia ecclesiastica: un posto che egli continuò a occupare fino al trionfo, in epoca medievale, della monarchia pontificia, in cui non a caso una delle più importanti ragioni di conflitto con il potere politico fu dovuta al problema dell´elezione vescovile.
La storia moderna dell´episcopato cattolico è stata segnata dalle decisioni del Concilio di Trento che, non a caso, anche in reazione alle critiche dei riformati, si attribuì tra i suoi compiti prioritari quello di gettare le basi di una riforma in prospettiva pastorale dell´attività del vescovo, legandolo in modo stabile alla vita della propria diocesi (obbligo di residenza) e incaricandolo prioritariamente della cura animarum ossia dell´azione pastorale nei confronti delle popolazioni affidategli. In linea con la concezione di una Chiesa come societas perfecta, il vescovo è stato idealmente visto come un sovrano religioso che esercita in grado sommo i tre poteri (regale, cultuale e profetico), al vertice di una gerarchia sacrale, che si contrappone dualisticamente a un laicato che appare quasi ignorato.
Soltanto col Concilio Vaticano II la Chiesa cattolica ha cercato di superare, pur tra tante contraddizioni (culminate nel permanere di un primato del pontefice rispetto al collegio episcopale assunto nel suo insieme), questa visione sacrale in nome di una nuova ecclesiologia di servizio e di comunione, fondata su basi cristologiche. Il Concilio ha ricollegato al Cristo servo-pastore-sacerdote-maestro la dottrina dell´episcopato, restituendo all´ordinazione episcopale il valore di un dono specifico derivato dalla fonte pneumatologica, non più dunque incentrato, secondo la visione tradizionale, intorno alla celebrazione eucaristica, ma aperto alla missione, in vista della quale egli è ordinato e consacrato. Il vescovo è stato così riconfermato al vertice della gerarchia ministeriale, distinta per "essenza" dal sacerdozio dei fedeli (Lumen Gentium).
La teologia postconciliare non ha fatto che sviluppare la prospettiva del vescovo come espressione del sacerdozio di Cristo - capo della comunità rappresentato dal vescovo, con accenti diversi che variano col variare delle prospettive cristologiche. Inoltre, in linea con l´attenzione per le "chiese locali" promossa dal Concilio, si è sottolineato con vigore, anche dal punto di vista del nuovo Codice di diritto canonico del 1983, il fatto che il vescovo è il soggetto attivo fondamentale del sistema di governo della chiesa locale.
Le Conferenze episcopali nazionali, tra cui, buon ultima, quella italiana, hanno sigillato sul piano concreto della presenza attiva nei vari paesi cattolici, questa rinnovata identità di una figura decisiva nella storia del cattolicesimo.
Repubblica 9.3.07
La nascita del potere secolare vescovile
Quando nel Medioevo erano guerrieri
di Franco Cardini
Le varie Chiese locali si raggruppavano nelle diocesi A capo di ciascuna di queste veniva posto un sovrintendente, un coordinatore: un episkopos
Si parla molto ormai, specie dopo il successo del libro di Dan Brown, della Chiesa primitiva e del suo rapporto sia con il Fondatore, sia con l´Impero romano. Il che è presto detto: ma non è per nulla scontato. Anzitutto: chi è il Fondatore della Chiesa? Gesù di Nazareth? Simone detto Pietro di Cafarnao? Paolo di Tarso? In realtà, della Chiesa primitiva sappiamo abbastanza poco: giusto le scarne righe degli Atti degli Apostoli.
Le cose cominciano a cambiare man mano che ci si addentra nei secoli II e III, quando le testimonianze, anche archeologiche, divengono più dense e più sicure. Ma in realtà la Chiesa emerge ai nostri occhi, e diventa un oggetto di sicura indagine storiografica, solo a partire dal IV secolo, con Costantino che le fornisce piena libertà; e, alla fine di quel secolo, con Teodosio che ne fa religione di Stato.
Per quel tanto che ne sappiamo, non si dovrebbe parlare di Chiesa, bensì di "chiese" al plurale. In greco, la parola ekklesìa significa semplicemente "adunanza", "assemblea". Ogni città, ogni centro in cui nascesse un gruppo di fedeli del nuovo Verbo era automaticamente una Chiesa: i capi dei singoli gruppi erano gli "anziani" (in greco presbyteroi), che amministravano anche la "Santa Cena", ma che è dubbio si potessero propriamente definire sacerdoti.
Il sacerdozio ebraico era finito con la distruzione del Tempio di Gerusalemme; alla Chiesa cristiana sarebbe toccata solo nella sua piena maturità la prerogativa di restaurarlo. Le varie Chiese locali si raggruppavano poi in circoscrizioni, che quando il culto cristiano fu reso giuridicamente lecito andarono sempre più modellandosi su quelle civili: le cosiddette "diocesi". A capo di ciascuna diocesi veniva posto, molto semplicemente un "sovrintendente", un "coordinatore". Tali concetti vengono espressi in greco dalla parola episkopos.
Ecco quindi i vescovi. Tra i quali, in seguito a una ulteriore distinzione gerarchica, sarebbero poi emersi anche gli arcivescovi e i patriarchi.
Con la divisione dell´Impero in due parti, l´orientale e l´occidentale, voluta da Teodosio e attuata dopo la sua morte, anche i destini delle varie Chiese, sempre reciprocamente autonome, si andarono sempre più adattando alla logica politica del tempo. I vescovi della parte orientale si adattarono sempre di più a essere organizzati e sorvegliati dall´imperatore, il quale si serviva della Chiesa come di uno strumento di Stato: d´altra parte, questo permetteva ai religiosi greci e orientali di darsi tranquillamente alla vita religiosa. Il governo imperiale suppliva a tutto il resto. Naturalmente, per le cose che riguardavano strettamente la fede, i vescovi si riunivano abitualmente in speciali congressi detti "sinodi", durante i quali veniva elaborata la dottrina della Chiesa.
Anche in Occidente accadeva più o meno la stessa cosa: ogni chiesa era rigorosamente autonoma rispetto alle altre, e i vescovi si riunivano di tanto in tanto in concilii durante i quali si stabilivano le verità della fede. Il punto era tuttavia che i vescovi della Chiesa occidentale, nella quale il ruolo liturgico e giuridico della lingua greca veniva sempre più soppiantato da quella latina, non disponevano del paracadute costituito dall´autorità imperiale.
Difatti, in Occidente l´Impero era franato. Il risultato fu che, dovendo confrontarsi con le invasioni barbariche e con il destrutturarsi della società del loro tempo, tra V e IX secolo i vescovi dovettero sempre più spesso assumere anche funzioni di governo, incluse le militari.
Cresceva intanto sempre più l´autorità del vescovo dell´unica città d´Occidente che si potesse definire "patriarcale", cioè caratterizzata da una Chiesa fondata da un Apostolo. Si trattava del vescovo di Roma che stava divenendo progressivamente il primus inter pares.
In Oriente le città patriarcali erano molte: soprattutto Antiochia e Alessandria. Ma anche Costantinopoli venne dichiarata tale. Tuttavia il patriarca costantinopolitano non fu mai il vero capo della Chiesa greca. E tale ruolo spettò in pratica sempre all´imperatore.
Quando anche in Occidente venne restaurata un´autorità imperiale, con Carlo Magno e più tardi con Ottone I, essa era d´altronde ben diversa da quella di Costantinopoli. Gli imperatori romano-germanici si servirono molto dei vescovi come del resto degli abati, cioè dei capi dei monasteri, per la loro passione di governo. La differenza tra i vescovi orientali, i greci, e i vescovi occidentali, i latini, stava nel fatto che i primi potevano tranquillamente accudire ai loro doveri religiosi mentre i secondi dovevano invece occuparsi anche di amministrazione, di politica, persino di guerra.
Fu questa una delle differenze tra le due Chiese che in un modo o nell´altro contribuirono allo Scisma del 1054, che nonostante molti tentativi è ancora in atto. Tra i vescovi ortodossi, i quali escono tutti regolarmente dalla carriera monastica e i vescovi cattolici, i quali invece hanno ordinariamente compiuto il loro tirocinio nel clero secolare, la differenza era e resta molto marcata.
La stagione d´oro del potere vescovile in Europa fu quella tra VIII e XI secolo, quando gli imperatori si servirono dei loro uffici come di veri e propri ministri o prefetti. Certamente, la loro cultura e la loro spiritualità ne soffrì molto; al punto che la Chiesa latina fu spesso accusata, al suo stesso interno, di corruzione, e furono necessarie successive riforme. Tuttavia, in quei tempi duri, la funzione vescovile fu uno dei pilastri che permise alla Chiesa latina di governare e gestire l´Europa medievale che nel frattempo si avviava a quel lungo periodo di prosperità che, pur con alcune occasionali crisi avrebbe permesso, a partire dal XVI secolo la conquista del mondo.
La monarchia pontificia ha controllato e represso, a partire dal XII secolo, il potere dei vescovi. Essi hanno reagito: fra il ´300 e il ´400 vi furono addirittura teorie conciliari, le quali sostenevano che non il papa, bensì il concilio, cioè l´assemblea dei vescovi, avrebbe dovuto governare la Chiesa romana. Ma tali istanze hanno storicamente avuto la peggio. Anzi, nel 400 si registrò il divertente fenomeno secondo il quale molti vescovi teorizzatori del primato conciliare, una volta diventati sommi pontefici, passavano serenamente alla teoria del monarchismo pontificio romano.
Questa è la situazione che nella Chiesa cattolica si è mantenuta fino a oggi: in una organizzazione monarchica e gerarchico-piramidale, i vescovi sono essenzialmente dei grandi funzionari. E questo vale anche per quella categoria di "Grandi Elettori Pontifici" che sono i cardinali, una istituzione nata nell´XI secolo per disciplinare l´elezione del vescovo di Roma nel momento in cui egli stava fondando appunto le basi per il suo fermo potere monarchico.
Repubblica 9.3.07
Il sì dell'Agenzia del Farmaco. Ne soffre il 3,5 dei piccoli in età pediatrica
Bambini disattenti e iperattivi via libera al Ritalin anche in Italia
Messe a punto una serie di condizioni per garantirne un uso appropriato
ROMA - Semaforo verde anche in Italia alla vendita del Ritalin dello Strattera, farmaci usati nell´infanzia per il trattamento della sindrome da deficit di attenzione e iperattività. L´Agenzia Italiana del Farmaco che ha approvato l´immissione in commercio dei tanto discussi prodotti, ha tuttavia messo a punto una serie di «condizioni al fine di garantirne un uso appropriato, sicuro e controllato». Per assicurare l´impiego esclusivo di questi farmaci in pazienti affetti da ADHD, sono state individuate procedure che vincolano la prescrizione del farmaco ad una diagnosi differenziale e ad un piano terapeutico definiti da Centri di riferimento di neuropsichiatria infantile individuati dalle Regioni; impongono controlli periodici; richiedono l´inserimento dei dati in un Registro nazionale istituito presso l´Istituto Superiore di Sanità. Tutto questo per mettere l´Italia al riparo dagli «usi impropri verificatisi in altri Paesi»: a tal fine verrà anche elaborato un Rapporto annuale.
Silvio Garattini, direttore dell´Istituto Mario Negri di Milano ha sottolineato come «tutte queste misure siano state prese per evitare che il ragazzo ‘bulletto´ o il bimbo che dà fastidio a scuola ricevano il farmaco-panacea; quelli approvati per la cura dei bambini iperattivi sono farmaci importanti ma che vanno usati con cautela. I paletti messi dall´Aifa mi sembrano buoni e se strada facendo si evidenziassero problemi si potranno correggere». Ma se da un lato Patrizia Stacconi, presidente dell|Associazione Italiana Famiglie ADHD, esprime soddisfazione, dall´altra le senatrici di Rifondazione Comunista, Erminia Emprin e Tiziana Valpina, annunciano una interrogazione al ministro Turco. L´ADHD è un disturbo neurobiologico dovuto all´alterazione di alcuni specifici circuiti cerebrali dei bambini che colpisce il 3,5% circa della popolazione pediatrica e rappresenta uno dei principali problemi medico-sociali dell´infanzia, riconosciuto da tutta la comunità scientifica, compresa l´Organizzazione Mondiale della Sanità. I bambini affetti da ADHD non riescono a controllare le loro risposte all´ambiente, sono disattenti, iperattivi e impulsivi in modo tale da compromettere la loro vita di relazione e scolastica.
il Messaggero 9.3.07
«Se vince Fassino, non ci sarà più la Quercia e noi costruiremo un vero partito socialista con Fausto»
In Parlamento 24 deputati e 12 senatori: verso gruppi autonomi, anche in Europa
«Pd nel Pse», bufera su Schultz
Mussi verso il tandem con Bertinotti
Sinistra ds pronta alla scissione: potrebbe disertare il congresso
di Nino Bertoloni Meli
ROMA Ventilata, sussurrata, paventata, invocata, alla fine la parola ”scissione” si è appalesata dentro la Quercia. Di qui al congresso di fine aprile rischia di diventare la cronaca di una scissione annunciata. Sempre che il tutto non precipiti prima, con le minoranze di Mussi-Salvi-Bandoli che decidono di non partecipare al congresso. Fabio Mussi ha rotto gli indugi. L’anti-Fassino a capo delle minoranze interne coalizzate, l’altra sera al teatro delle Erbe di Milano stracolmo e generoso di applausi a ogni passaggio che sottolineava la separazione piuttosto che il rimanere nei Ds, ha saltato il Rubicone e incalzato dalle domande di Radio popolare alla fine ha scandito: «Mi chiedete del dopo, volete sapere che cosa può accadere, e io vi dico che non c’è più vincolo di partito, la vittoria di Fassino al congresso significa che non ci saranno più i Ds, quindi ognuno sceglierà la sua strada. Vorrei che partecipaste e che andaste numerosi a votare ai congressi di sezione, poi si vedrà». Il ministro della Ricerca parla ormai come uno che si è svincolato da quel ”patto dei quarantenni” che, all’ombra di Achille Occhetto, traghettò il Pci al Pds per poi reggerne le alterne sorti strattonato e poi espunto dal vertice da Massimo D’Alema, ma con un vincolo che permaneva assieme ai vari Fassino, Veltroni, Bassolino, Turco, Petruccioli. Ora non più. Qualcosa sembra essersi definitivamente rotto. «Nell’89 si saltava dal comunismo verso una forma nuova di sinistra, più adeguata ai tempi. Qui invece, con il Pd, si salta fuori dalla sinistra», attacca Mussi in un’intervista-manifesto all’Espresso, che segna un’ulteriore passo verso la separazione. Il capo delle minoranze interne chiude porte e finestre all’ipotesi finora sempre in piedi che l’ex correntone si sarebbe alla fine acconciato a fare la sinistra del Partito democratico. Nossignori, Mussi taglia i ponti: «Non accetto l’idea che la sinistra possa ridursi a fare la corrente di minoranza di un partito di centro». E allora? «La sinistra si ritroverà, a prescindere perfino dalle nostre volontà, qualcosa di nuovo nascerà». Non solo pre-annuncio di addio ai Ds, dunque, ma scommessa che la nascita del Pd aprirà enormi spazi a sinistra che andranno riempiti.
E qui arriva la prospettiva, il ”che fare” in alternativa al Pd: «Mi interessa il cantiere di Bertinotti». La proposta in sostanza è di lavorare a una ”costituente della sinistra” in alternativa alla ”costituente del Pd”. Due costituenti parallele seguiranno i due congressi di Ds e Margherita e si daranno battaglia. Al delle Erbe, presente pure Peppino Caldarola che lavora alla ricomposizione socialista, Mussi si è detto interessato anche allo Sdi di Enrico Boselli. Costituente della sinistra, con o senza i socialisti della diaspora che sia, Mussi appare fin d’ora in pole position per la leadership di quel ”qualcosa” che nascerà alla sinistra del Pd e che vedrà la congiunzione del grosso di Rifondazione con un pezzo importante dei Ds.
Il nodo irrisolto della collocazione internazionale è altra benzina sul fuoco: il capogruppo a Strasburgo Martin Schulz si è detto convinto che il Pd alla fine aderirà al Pse, la Margherita si è inalberata, ma forse a Schulz sono giunte all’orecchio le rassicurazioni che Fassino e D’Alema vanno facendo, del tipo che una volta costruito il Pd si farà passare a maggioranza l’adesione al Pse.
Se separazione sarà, la sinistra diessina potrà contare su 24 deputati, 12 senatori e 6-7 europarlamentari compreso Occhetto che ha già fatto sapere di essere molto interessato alla prospettiva di ricomporre la sinistra. Interessato appare anche Gavino Angius, che ha avuto un altro incontro con Mussi. In campo il ”cantiere” di Bertinotti che, come spiega Caldarola, «deve fare una apertura di credito sul fronte della prospettiva socialista, alla quale è atteso», e che comprende anche una ricomposizione di tutta quella sinistra che rimane fuori dal Pd, Oliviero Diliberto e il suo Pdci compreso (ma Franco Giordano recalcistra).
il manifesto 9.3.07
Ds, c'è qualcosa a sinistra della «Cosa»
di R. Pol.
«Qualcosa di nuovo nascerà». Fabio Mussi, candidato della sinistra Ds alla segreteria e alfiere dei diessini contrari al partito democratico scioglie le ultime prudenze: «Sì, mi interessa. Il cantiere a sinistra di cui parla Bertinotti è una discussione che coinvolge anche noi, certe divisioni hanno fatto il loro tempo».
Sono stati giorni di palesi richiami pubblici dopo i continui contatti informali quelli tra la minoranza della Quercia e l'ex segretario di Rifondazione.
Il ministro dell'Università annuncia sulle pagine dell'Espresso che le fronde «socialiste» della Quercia hanno davvero il piede sulla porta: «Un'impresa comune è sull'orlo di finire e non accetto l'idea - spiega - che la sinistra possa ridursi a fare la corrente di minoranza di un partito di centro. La sinistra cercherà di ritrovarsi a prescindere perfino dalle volontà di ciascuno di noi, qualcosa di nuovo nascerà».
I congressi non vanno benissimo, la mozione Fassino-D'Alema-Veltroni fa il pieno quasi ovunque ma il clima della base, rileva Mussi «non è certamente quello dell'89. Eppure stiamo decidendo un salto più grande. Qui si salta fuori dalla sinistra. L'Italia diventerà l'unico paese europeo senza un grande partito che si richiama al socialismo, dovrebbe essere un evento altamente drammatico. E invece vedo in giro un sentimento di rassegnazione. Siamo partiti da Blair e siamo arrivati al nulla».
E' la stessa linea annunciata da Cesare Salvi sul manifesto di mercoledì, in cui annunciava anche una nuova «attenzione» verso lo Sdi di Enrico Boselli e, almeno in parte, verso il Pdci di Oliviero Diliberto. Partito in cui trasloca direttamente il deputato del correntone Aleandro Longhi dopo che una settantina di dirigenti liguri non hanno rinnovato la tessera contro il Pd.
Resta da capire, in mezzo a tanti movimenti, cosa ne sarà della Sinistra europea. Oggi Fausto Bertinotti ne parlerà a Berlino e a fine mese Rifondazione avrebbe dovuto celebrare la consacrazione del progetto in una conferenza nazionale di organizzazione di quattro giorni a Carrara (29 marzo - 1 aprile). E' un fatto che il progetto bertinottiano finora non abbia calamitato le folle e in molti, dentro il partito, si chiedono cosa ha davvero in serbo il «subcomandante» sul futuro di Rifondazione.
l’Unità 9.3.07
Mussi: non sarò minoranza in un partito di centro
di Giuseppe Vittori
Il leader della minoranza Ds. Fabio Mussi, si augura «decine di migliaia di voti per fermare il treno del Pd». Per ora, però, registra un voto largo per la mozione Fassino. Venisse confermato, lui non farà «la sinistra del partito democratico. Ma che destino è per la sinistra italiana diventare una corrente di una formazione neocentrista come il Pd?». Intervistato dall’Espresso, Mussi spiega che nei congressi «è l’epoca delle passioni tristi», il partito ha meno idealità, «ci siamo trasformati in un'agenzia di promozione del ceto politico locale, bravissimi a eleggere consiglieri regionali, comunali, nel nominare assessori, presidenti di comunità montane, commissioni...».
«Il problema - ha precisato - è che in Italia serve una grande forza di sinistra di espressione socialista. Sarebbe veramente curioso che fosse l'unico paese d'Europa dove non c'è». A Mussi interessa il cantiere della sinistra proposto da Bertinotti: «Oggi tutta la sinistra sta al governo. Se la cosa regge e funziona, certe divisioni possono fare il loro tempo. C’è bisogno di sinistra, di sinistra di governo». Qualcosa di nuovo, insomma, nascerà.
l’Unità 9.3.07
Dico, bufera su Salvi
Lui ribatte: così potremo fare la legge
Alla vigilia della manifestazione è ancora
polemica col governo sulla «bocciatura»
di Maria Zegarelli
PIAZZE E PARTITI Chi invita la piazza di domani a «urlare piano», evitare i «toni gridati e le esasperazioni ideologiche», come dice Franco Monaco della Margherita, perché «nuocerebbero alla causa»; chi in piazza ci sarà malgrado sia ministro - come Alfonso Pecoraro
Scanio e Paolo Ferrero; e chi evita la piazza, pur «essendoci idealmente» - come la ministra Barbara Pollastrini. Infine, c’è chi annuncia la propria presenza in un’altra piazza, quella del Family Day, come i ministri Clemente Mastella e Beppe Fioroni, anche se quell’appuntamento per ora è solo un punto interrogativo.
Vigilia di manifestazione «Diritti ora», ricca di polemiche. «I Dico non passano» ripete il Guardasigilli. «Passano, se solo mi lasciassero lavorare in pace», ribatte il presidente della Commissione Giustizia a Palazzo Madama, Cesare Salvi, che ha smontato «tecnicamente», il ddl firmato dalle due ministre Bindi e Pollastrini. Loro ci sono rimaste piuttosto male, lui ribatte:«Mi dovrebbero ringraziare perché se avessimo adottato il ddl del governo come testo base la legge avrebbe fatto una finaccia. Mastella aveva già annunciato che avrebbe bloccato tutto con la pregiudiziale di costituzionalità. Abbiamo salvato il governo ma anche la speranza di fare una legge sulle unioni civili riaprendo il dibattito in Commissione». In realtà su di lui è piombato un sospetto: che voglia, attraverso il ddl, dimostrare che il partito democratico è una via impraticabile, «un pasticciaccio». A pensarlo già sono in diversi: da Rosy Bindi (che ieri lo ha esplicitamente sostenuto sulle pagine di Europa) a Giorgio Tonini, uno dei saggi che sta lavorando al Manifesto del Partito democratico, al giurista Stefano Ceccanti, Salvi replica: «Ma stiamo scherzando? Il Pd non mi piace affatto, ma questo è un argomento a cui dedico non più di 60 minuti di riflessione al giorno. Le mie critiche al ddl sono critiche tecniche». Sempre dalle colonne del quotidiano Dl oggi Salvi spiega che «quello che apprezzo politicamente del lavoro delle due ministre, e l’ho detto in altra occasione, è l’impegno a trovare un punto di incontro tra cultura laica e cultura cattolica, che è un obiettivo al quale tutte le persone serie devono considerarsi impegnate, sia che ritengano che ciò debba comportare la fusione di un unico partito, sia che, come me, credano che, pur permanendo diritti diversi, l’alleanza tra cattolici democratici e sinistra socialista sia un punto decisivo di tenuta del sistema democratico italiano, prima ancora che del centro sinistra». Argomentazioni che non hanno convinto le due ministre, però. Intanto il capogruppo dell’Ulivo al Senato, Anna Finocchiaro, dà una botta alla botte e una al cerchio: «Ci sono due questioni dalle quali non prescindere: il testo dei Dico è la prima mediazione possibile tra cattolici e laici e nei Dico c'è una novità rispetto a tutte le altre proposte perché c'è un sistema di diritti per i conviventi non concorrenziale nei confronti della famiglia». In sostanza, per la Finocchiaro, «bisogna riflettere se i diritti dei conviventi si devono registrare solo quando c'è amore erotico o anche quando ci sono affinità e assistenza spirituale e materiale». Lei, come Bindi, Pollastrini e Melandri, è tra i nomi illustri che non saranno in piazza domani per il ruolo istituzionale che rivestono. Il coordinatore nazionale della manifestazione, Alessandro Zan, dice: «Vogliamo costruire un’occasione per mettere in contatto il paese reale, attrverso la testimonianze delle coppie di fatto e le istituzioni perché non è una manifestazione “contro” ma è per allargare i diritti in questo paese».
Aprileonline.info 8.3.07
Mussi: "A sinistra nascerà qualcosa di nuovo"
di C.R.
In un'intervista rilasciata all'Espresso, il leader della Sinistra Ds ammette che l'impresa comune (Ds) si avvia alla fine" e apre al cantiere proposto da Bertinotti: "Certe divisioni hanno fatto il loro tempo. Non accetto l'idea che la sinistra possa ridursi a fare la corrente di minoranza di un partito di centro. La sinistra cercherà di ritrovarsi"
"Per ora c'è un voto largo per la mozione Fassino". Lo ammette, in un'intervista a l'Espresso, Fabio Mussi, ministro dell'Università e leader della mozione congressuale "A sinistra per il socialismo europeo", a proposito dei congressi della Quercia in corso.
L'agonia dei democratici di sinistra si avvia alla sua fine: "Un'impresa comune è sull'orlo di finire". Mussi "apre" al cantiere che Fausto Bertinotti vorrebbe avviare sulle ceneri della Quercia: "Certe divisioni hanno fatto il loro tempo. Non accetto l'idea che la sinistra possa ridursi a fare la corrente di minoranza di un partito di centro. La sinistra cercherà di ritrovarsi. A prescindere perfino dalle volontà di ciascuno di noi, qualcosa di nuovo nascerà ''.
Il clima, nella base dei Ds, "Non è certamente quello dell'89", sottolinea ancora Mussi, in questi giorni impegnato in giro per il paese nel dibattito congressuale: "Eppure stiamo decidendo un salto più grande. Nell'89 si saltava dal comunismo verso una forma nuova di sinistra, più adeguata ai tempi. Qui, invece, si salta fuori dalla sinistra". A dominare è una sorta di passiva rassegnazione, spiega ancora il ministro dell'Università, che sottolinea come "l'Italia diventerà l'unico paese europeo senza un grande partito di sinistra che si richiama al socialismo". Un evento altamente drammatico, che viene vissuto "con lo stesso spirito di Gigi Proietti nello spot con Consuelo: 'Se me lo dicevi prima! Ormai...''.
"E' l'epoca delle passioni tristi. Il partito si è indebolito: so che i compagni si infastidiscono quando lo ricordo, ma alle ultime elezioni abbiamo superato di poco il 17 per cento, al netto di Emilia, Toscana, Marche e Umbria in molte zone del paese siamo una forza marginale, sotto il venti per cento in undici regioni. E in questi anni c'è stata una mutazione dei nostri iscritti. Ci siamo trasformati in un'agenzia di promozione del ceto politico locale. Siamo bravissimi a eleggere consiglieri regionali, comunali, nel nominare assessori, presidenti di comunità montane, commissioni...".
Fabio Mussi dichiara all'Espresso di non essere ancora rassegnato alla fine dei Ds e di augurarsi che il processo costitutivo del Pd possa ancora essere fermato e questo malgrado l'accelerazione in corso: si diceva che il Pd sarebbe nato nel 2009, per le elezioni europee, poi si è anticipata la nascita al 2008, ora qualcuno vorrebbe battezzarlo in estate. Fassino afferma che il Pd deve stare nel Partito socialista europeo, ma questo nodo è scomparso dalla sua mozione. D'altro canto, la Margherita ripete che il Pd non potrà aderire al Pse. Risultato: "un partito homeless, alla ricerca di un tetto, una roba che non esiste in Europa".
Non mancano le stoccate al collega di governo Francesco Rutelli. Sono tanti i nodi che dividono il vicepremier dall'essenza stessa di un partito che voglia appartenere all'area socialista. "Sui Dico - spiega Mussi - Rutelli dice che non sono una priorità, per la sinistra invece la libertà delle persone dovrebbe essere una questione centrale. E chi vuole una limitazione di questa libertà pone un problema pesante". E l'elenco prosegue: "Rutelli dichiara che in Francia voterebbe il centrista Bayrou, per i Ds invece la candidata di riferimento è Ségolène Royal. E se si va al ballottaggio Sarkozy-Royal e Bayrou decide di appoggiare Sarkozy, che facciamo? In una situazione politicamente e intellettualmente ordinata questo dibattito dovrebbe durare sette minuti e amici come prima".
Insomma, si domanda il leader della sinistra ds, come può stare in piedi un partito così? "Stiamo spendendo tutte le nostre energie per far diventare Rutelli un po' più socialista e Rutelli le spende per far diventare noi un po' più democristiani: ma perché tutto questo dispendio energetico?".
Cosa succederà se il Pd arrivasse in porto in tempi rapidi? A questa domanda Mussi risponde ricordando le due novità presenti, oggi, nel centrosinistra italiano: "Una è l'Ulivo, un po' acciaccato: nel '96 c'eravamo tutti tranne Rifondazione, avevamo il 44 per cento, ora siamo rimasti alla fusione Ds-Margherita e al 31. L'altra novità, è che per la prima volta tutta la sinistra è al governo, tutta. Non è una cosa da poco: nell'89 la svolta che portò dal Pci al Pds provocò una dolorosa scissione, nel '98 il governo Prodi saltò su un'altra divisione a sinistra, quando Bertinotti uscì dalla maggioranza. Oggi siamo tutti al governo. E un evento destinato a produrre grandi novità''.
E riguardo all'apertura di Bertinotti ad un "cantiere che accolga tutti coloro che si dicono di sinistra e che superi Rifondazione", Mussi risponde di sì: "Mi interessa. Il cantiere di cui parla Bertinotti è una discussione che coinvolge anche noi. Siamo tutti insieme al governo. Se la cosa regge e funziona, Turigliatto a parte, certi steccati, certe divisioni possono fare il loro tempo. C'è bisogno di sinistra, di sinistra di governo". Oggi, nei Ds, si è vicini alla separazione finale, "è una rottura - spiega Mussi - un'impresa comune è sull'orlo di finire e, quando ci penso, ho bisogno di respirare lentamente". "Può darsi - prosegue Mussi - che ci saranno polluzioni di sinistra anche nel Pd. Ma io non accetto l'idea che la sinistra possa ridursi a fare la corrente di minoranza di un partito di centro. La sinistra cercherà di ritrovarsi. A prescindere perfino dalle volontà di ciascuno di noi, qualcosa di nuovo nascerà".