sabato 21 febbraio 2015

MorAsta 11.2.15
Verbitsky: non fidatevi di Bergoglio, è un grande attore

qui, si ringrazia Maurizio Fioretti

Corriere 21.2.15
Jobs act
Il plauso del Nuovo centrodestra, che riconosce nel testo una propria vittoria, e di Confindustria, e il gelo del sindacato e della sinistra del Pd
Una scelta che riporta il governo al centro
di Massimo Franco


La soddisfazione del governo è comprensibile. L’approvazione della riforma del lavoro segna la caduta di un tabù culturale, prima ancora che politico. E permette a Matteo Renzi di sottolineare come ad un anno dall’inizio della sua esperienza come premier, un simile risultato fosse pressoché impensabile. Il plauso del Nuovo centrodestra, che riconosce nel testo una propria vittoria, e di Confindustria, e il gelo del sindacato e della sinistra del Pd, trasmettono tuttavia una fotografia bifronte. Il presidente del Consiglio considera il provvedimento la fine degli alibi per le imprese che non vogliono assumere. E già intravede duecentomila nuovi posti di lavoro. Si tratta di una sfida, più che di una certezza. Renzi la lancia, ed è deciso a considerarla vincente, anche perché scommette su una ripresa favorita dal calo del prezzo del petrolio e dagli aiuti della Banca centrale europea. In qualche misura, la evoca e quasi la anticipa, conscio che il giudizio della Commissione Ue sul suo governo dipenderà dalla sua capacità di non fermarsi sulle riforme. Ma sa bene che gli effetti non possono essere immediati. La stessa enfasi con la quale viene data per archiviata la precarietà dovrà sottoporsi alla dura verifica dei prossimi mesi. Politicamente, le decisioni prese ieri sono una manovra di «ricentraggio» del suo governo. Dopo l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale e la rottura del patto del Nazareno con Silvio Berlusconi, a sinistra erano spuntate molte aspettative. Si pensava ad un Renzi pronto a spostare in quella direzione l’asse della maggioranza; e a concedere di più sui temi sociali ai settori del Pd vicini alla Cgil.
Il Consiglio dei ministri, invece, ha ignorato gli orientamenti delle commissioni parlamentari in cui queste componenti avevano detto «no» ai licenziamenti collettivi. Ed ha mantenuto invece l’impostazione voluta dal gruppo di Alleanza popolare (Ncd più Udc) di Angelino Alfano. Il risultato è di puntellare l’alleanza di governo; e di tenere alta la tensione con il Movimento 5 stelle e la sinistra del suo partito, che lo accusa di avere ubbidito alla cosiddetta «troika» FMI-Bce-Commissione Ue. Ma è un prezzo che Renzi paga volentieri, se questo permette di acquistare credito internazionale. D’altronde, il fronte interno sembra fargli meno paura. La frattura dentro FI è profonda, e le ombre processuali che continuano a proiettarsi su Berlusconi lo rendono sempre meno influente.
Questo potrebbe avere conseguenze anche sullo scontro con le opposizioni sulle riforme costituzionali. Sulla scelta di abbandonare l’aula della Camera in segno di protesta contro l’«arroganza» del governo non si vede più la compattezza di qualche giorno fa. Quanto al Jobs act , è vero che in sé è un’incognita, né potrebbe essere altrimenti. Gli scettici ci vedono come minimo una legge confusa e fonte di confusione; e soprattutto un favore alle imprese per licenziare con meno vincoli. Ma molto dipende dalle prospettive economiche. Per funzionare, la riforma ha bisogno di segnali tali da consentire nuova occupazione. Il vero tabù da far crollare sarà questo.

il Fatto 21.2.15
Jobs act
Renzi schiaffeggia le Camere sui licenziamenti collettivi
Niente reintegro in caso di riduzione del personale, anche se il Parlamento l’aveva escluso
Vince Confindustria
Per Renzi è “il giorno atteso da una generazione”
di Salvatore Cannavò


Il premier se ne infischia del parere del Parlamento e conferma il “no” al reintegro anche per le procedure collettive (vince Confindustria). Il ministro Orlando: “Io non l’ho votato”. Furiose Cgil e minoranza Dem. Nel ddl concorrenza si tagliano i risarcimenti per le vittime della strada. Rinviati i tre decreti fiscali: c’era il timore di altre “manine”
Per festeggiare il primo compleanno del suo governo, Matteo Renzi ha smantellato lo Statuto dei lavoratori. Il Consiglio dei ministri, infatti, ha approvato, dopo il passaggio nelle commissioni parlamentari, i due decreti delegati che costituiscono il cuore del Jobs Act, regolando il contratto a tutele crescenti e la nuova Aspi. Varato anche un terzo decreto sul riordino dei contratti precari. “Oggi è il giorno atteso da anni” è stato il tweet con cui Renzi ha annunciato la giornata. Poi, in conferenza stampa, ha dato fiato alle trombe della retorica: “È il giorno atteso da un’intera generazione, quello in cui si smette di far la guerra ai precari e la si fa alla precarietà. Ora parole come mutuo, ferie, diritti entrano nel vocabolario di una generazione”. Infine un tocco alla George W. Bush: “Nessuno sarà lasciato indietro”. “L’unico risultato è la liberalizzazione dei licenziamenti”, scolpisce invece Susanna Camusso della Cgil.
Vince Squinzi: addio art. 18, sì ai demansionamenti
Che il compleanno del governo Renzi si festeggi sulle spalle dello Statuto, oltre alle modifiche all’articolo 18, lo dimostra una nuova norma inserita all’ultimo minuto nel decreto sui nuovi contratti inviato alle Camere: la modifica dell’articolo 13 della legge 300 che regola le “mansioni del lavoratore”. Le imprese potranno, unilateralmente, cambiare le mansioni di un lavoratore in caso di “modifica degli assetti organizzativi” sia per i vecchi che per i nuovi assunti. La legge finora prevede, infatti, di mantenere ferme le mansioni per le quali il lavoratore è stato assunto o che ha acquisito nel corso della carriera, da domani non più. Senza “modifiche alla retribuzione in godimento”, dice il decreto, ma questo andrà poi visto concretamente: alle mansioni, ad esempio, sono spesso agganciate indennità che non concorrono a formare la retribuzione.
Non è finita: irritando anche la Cisl, Renzi ha deciso di schiaffeggiare il Parlamento infischiandosene del parere espresso dalle commissioni in tema di licenziamenti collettivi. Anche per questi, quindi, si applicheranno le nuove regole sulla giusta causa: invece del reintegro l’azienda potrà provvedere al risarcimento dei lavoratori. Un’occasione per monetizzare le crisi aziendali senza dover passare per i tavoli di crisi. Le modifiche entreranno in opera già dal 1 marzo e, almeno in questo caso, la sostanza della riforma si sentirà. Il contratto a tutele crescenti sostituisce, al divieto di licenziamento senza giusta causa, un indennizzo crescente in base all’anzianità di servizio con un tetto a 24 mensilità. Il reintegro nel posto di lavoro rimarrà soltanto per i licenziamenti nulli, discriminatori e, per i disciplinari, solo quando il fatto materiale contestato è insussistente.
Per i disoccupati del futuro molto fumo e pochi soldi
L’altro decreto approvato definitivamente riforma, invece, l’indennità di disoccupazione introducendo la Naspi. Per coloro che perderanno il posto di lavoro e avranno almeno 13 settimane di contributi negli ultimi quattro anni, dal 1 maggio 2015 scatterà un’indennità, parametrica alla retribuzione con durata di 24 mesi (ma nel 2017 scenderà a 18 mesi). Prevista anche una indennità ridotta, l’Asdi, della durata di sei mesi, per coloro che al termine del periodo di Aspi non avranno ancora trovato lavoro. Prevista, infine, anche la Dis-Coll, la disoccupazione per i contratti di collaborazione con almeno tre mesi di contributi versati nel corso dell’ultimo anno. C’è il problema delle risorse. Su questi capitoli il governo ha messo poco meno di 2 miliardi in tutto, meno di quanto siano costati i vecchi ammortizzatori sociali nel 2014: davanti alle commissioni parlamentari ha però ammesso che quella cifra probabilmente non basterà e i soldi andranno trovati con una manovra di finanza pubblica corrispondente a quel che manca. Tradotto: ad oggi non è sicuro che i sussidi siano finanziati per tutti.
I nuovi contratti: dal 2016 via Co.co.co. e Co.co.pro.
Fa parte, invece, del decreto inviato ieri alle Camere per i pareri non vincolanti, il riordino delle tipologie contrattuali e la riorganizzazione dei cosiddetti contratti precari. Riorganizzazione molto parziale senza effetti immediati. Resta il contratto a tempo determinato con durata di 36 mesi comprensiva di cinque proroghe. Con l’obiettivo di ridefinire il lavoro subordinato e il lavoro autonomo (introducendo il concetto di “prestazioni reiterate secondo un orario definito dal committente ed eseguite in base a ordini gerarchici”), vengono sospesi i contratti a progetto, lasciando scadere quelli attualmente in vigore. Il periodo di transizione durerà fino al 1 gennaio 2016 quando i vecchi Co.co.pro. e i Co.co.co. non esisteranno più salvo quelli oggetto di disciplina ad hoc da parte di accordi collettivi. Eliminati, invece, i contratti di associazione in partecipazione e lo job sharing, mentre per lo staff leasing si prospetta una cancellazione delle cause. L'intenzione del governo è di mantenere in vita “le vere” collaborazioni autonome e “le vere” partite Iva. Come controllare la veridicità di questi contratti, però, non è chiaro. Viene riformato, infine, anche l’apprendistato con l’unificazione del primo e terzo livello e l’eliminazione dell’obbligo per le imprese di stabilizzare i nuovi apprendisti: un bel regalo.
Il fisco rinviato: Padoan non c’è, i testi neppure
Sono spariti dall’orizzonte invece i tre decreti in materia fiscale: nuovo catasto; fiscalità internazionale e fatturazione elettronica. La decisione è arrivata giovedì pomeriggio giustificata ufficialmente così: Pier Carlo Padoan non può essere presente al Consiglio dei ministri perché deve presenziare all’Eurogruppo sulla Grecia in programma a Bruxelles. In parte è sicuramente vero, anche se il ministro dell’Economia è incappato in una imbarazzante coincidenza: ieri è arrivata in edicola una sua intervista a l’Espresso in cui annunciava come in arrivo al Consiglio dei ministri i tre decreti fiscali.
Sono cose che capitano quando si teme di fare una figuraccia simile a quella del 24 dicembre, quando una manina s’inventò la sanatoria su frode e evasione fiscale sotto il 3% del fatturato e costrinse Renzi a ritirare il decreto. Lo ammette lo stesso premier: “Le polemiche delle scorse settimane mi hanno confermato che non possiamo permetterci passi falsi”. Il governo s’è preso 15 giorni in più, dice lui, così “c’è il tempo per affinare i testi”: “Noi siamo contro l’evasione, ma pro-business”. In sostanza, però, molte cose ancora non tornano in quei decreti, soprattutto i soldi sul capitolo Iva e la relativa armonizzazione della legislazione sulla fiscalità internazionale.

Repubblica 21.2.15
23 marzo 2002: tre milioni di italiani invadono Roma per fermare (riuscendoci) la riforma del fatidico articolo 18 minacciata dal governo Berlusconi
La rivoluzione figlia della crisi
di Massimo Riva


VENTITRÉ marzo 2002: tre milioni di italiani invadono Roma per fermare (riuscendoci) la riforma del fatidico articolo 18 minacciata dal governo Berlusconi. Venti febbraio 2015: il Consiglio dei ministri presieduto da Matteo Renzi approva i decreti attuativi del cosiddetto Jobs Act.
CHE , fra l’altro, riscrivono e ridimensionano le guarentigie per i licenziamenti. A prima vista, una svolta storica. Ma c’è da chiedersi forse se proprio la storia non avesse già svoltato da tempo e prima che le novità legislative arrivassero a registrarne i cambiamenti. In particolare, quelli intervenuti nella realtà economica del Paese con i suoi inesorabili riflessi sui rapporti di forza tra gli attori politici e sociali in campo.
Molte sono le ragioni che aiutano a spiegare come sia stato possibile realizzare oggi un intervento che appena tredici anni fa risultò del tutto impraticabile. Vale la pena di esaminarne almeno le principali per capire meglio quali profonde trasformazioni siano intervenute nel frattempo dentro il corpo vivo della società italiana. Non che siano mancate in questi mesi le dure reazioni del fronte sindacale contro la riforma delineata dal governo Renzi: la Cgil di Susanna Camusso e ancor più la Fiom di Maurizio Landini hanno protestato e mobilitato a più riprese le piazze. Ma la loro voce stavolta non ha trovato nel resto della società quella stessa cassa di risonanza favorevole a suo tempo ottenuta da Sergio Cofferati. E non certo, almeno nel caso di Landini, per difetto di leadership o di capacità di comunicazione. Oggi neppure un novello Cofferati avrebbe potuto replicare il memorabile successo del 2002.
Intanto va soppesata la differenza fra l’interlocutore politico di allora e quello di adesso. Per Silvio Berlusconi l’intervento sull’articolo 18 non aveva soltanto una valenza di genere economico ma anche, anzi soprattutto, di tipo politico. La modifica legislativa nasceva dall’intenzione, neppure troppo dissimulata, di perseguire attraverso una modifica dei rapporti di forza sui luoghi di lavoro anche l’obiettivo di mettere all’angolo il potere tanto dei sindacati quanto dell’opposizione politica della sinistra. Un voler troppo che lo ha portato, come s’usa dire, a stroppiare.
Matteo Renzi ha avuto l’intelligenza di tenere la questione dei licenziamenti su un terreno sgombro da retro pensieri politici potendo spendere anche la moneta del suo essere segretario del maggior partito della sinistra. Ha polemizzato e anche con durezza con il mondo sindacale ma sempre tenendo la contesa sul versante specifico della questione. In più ha avuto anche l’abilità di sciogliere il nodo dell’articolo 18 all’interno di una riforma complessiva del mercato del lavoro che rottama i tanto sovente falsi contratti di collaborazione, che apre nuove strade agli ammortizzatori sociali e che con le cosiddette “tutele crescenti” schiude la porta a un rilancio delle assunzioni a tempo indeterminato. Tanto da ricevere al riguardo importanti segnali di consenso anche in sedi internazionali. Proprio in questi giorni perfino dall’Ocse che ha accreditato a questo Jobs Act del governo la capacità di far crescere il Pil del 6 per cento nel prossimo decennio. Magari, s’intende.
Ciò che più di tutto ha giocato a favore dell’iniziativa di Renzi e contro le resistenze del sindacato è comunque la profonda differenza della realtà economica di oggi rispetto a quella di tredici anni fa. L’assalto di Berlusconi all’articolo 18 è stato concepito in una fase nella quale il Pil del Paese cresceva a un ritmo dell’1,8 per cento l’anno e il tasso di disoccupazione era sceso dal 10,1 per cento al 9,2 nei dodici mesi precedenti. Una fase, insomma, nella quale le imprese assumevano senza badare all’articolo 18 e dunque la voce del fronte sindacale era conseguentemente forte e ascoltata. Va del resto ricordato che lo stesso Statuto dei lavoratori è una legge del 1970 figlia naturale di quell’autunno caldo che produsse la prima e importante redistribuzione dei redditi e dei diritti fra capitale e lavoro dopo gli anni del cosiddetto miracolo italiano.
Oggi la crescita economica, dopo anni di declino continuo, è ancora abbarbicata a uno stentato zero percentuale mentre la disoccupazione si mantiene più vicina al 13 che al 12 per cento. Non c’è bisogno di essere storici della lotta di classe per dedurne che una simile condizione statistica ridimensiona ruolo e potere delle rappresentanze sindacali. Non soltanto verso gli interlocutori politici e imprenditoriali ma anche all’interno del mondo del lavoro. E perfino su quello che si segnala come l’aspetto più imbarazzante della riforma ovvero quello di una monetizzazione del diritto al reintegro nel posto di lavoro.
La dura realtà economica del presente conduce così a un inevitabile paradosso: i più interessati a un successo dei decreti attuativi del Jobs Act soprattutto in termini occupazionali diventano quei sindacati che ne dissentono apertamente. Perché, allo stato, solo nella riuscita della scommessa renziana potrebbero ritrovare il potere perduto.

il Fatto 21.2.15
Delusione a sinistra
Orlando contrario in Cdm. Dura la minoranza dem
di wa.ma.


A bloccare i licenziamenti collettivi durante il Consiglio dei Ministri di ieri ci ha provato il Guardasigilli, Andrea Orlando. Niente da fare: sui decreti attuativi del Jobs Act, Renzi è andato avanti per la sua strada, ignorando i pareri delle Commissioni parlamentari, che si erano espresse contro.

“NEL TESTO approvato dal Parlamento, il cosiddetto Jobs Act, non si parlava di licenziamenti collettivi. Il governo nei decreti li ha invece inclusi. Le due commissioni parlamentari di Camera e Senato hanno chiesto di toglierli, invece il governo li ha confermati. Non c’è niente da dire: una scelta grave nel metodo, inaccettabile nella sostanza”, ha denunciato Guglielmo Epifani. Fotografando un dato di fatto: Renzi non ha tenuto conto delle obiezioni del Parlamento e ha asfaltato senza pentimenti le richieste della minoranza Pd. Che ieri ha fatto dichiarazioni durissime. Ecco Cesare Damiano, che a Montecitorio si era fatto carico della mediazione: “Il presidente del Consiglio ha dichiarato che il governo non ha modificato la norma sui licenziamenti collettivi nonostante la richiesta contenuta nei pareri convergenti delle commissioni Lavoro di Camera e Senato. Siamo di fronte a una scelta politica sbagliata e non rispettosa del dibattito parlamentare”. Rincara la dose Stefano Fassina, che dice, parafrasando i grandi annunci di eventi storici fatti dal premier: “Straordinaria operazione propagandistica del governo sul lavoro. Il diritto del lavoro torna agli anni ’50. Questo è il giorno atteso da anni... dalla Troika”. E attacca: “I contratti precari rimangono sostanzialmente tutti: la sbandierata rottamazione dei co.co.co è avvenuta da anni, mentre i co.co.pro di fatto restano e si estende l’ambito di applicazione dei vouchers”.
CRITICHE note, che l’ala sinistra del Pd ha fatto al premier da quando si è cominciato a parlare di riforma del lavoro. Alla fine, però, nonostante direzioni Dem infuocate e dichiarazioni di guerra, il Parlamento ha votato (con fiducia) la legge delega: i pareri delle Commissioni infatti non sono vincolanti. In questo caso si è rivelata davvero una delega in bianco, come tutti i decreti attuativi, compresi gli ultimi, quelli di ieri, hanno confermato. Il governo non ha mai pensato di fare marcia indietro. E non ne ha mai fatto mistero. In risposta alla minoranza, è arrivata Deborah Serracchiani, in serata, a ribadire che “ora il mercato del lavoro è più moderno”. Fine dei giochi.

Repubblica 21.2.15
Stefano Fassina
Il deputato della minoranza dem boccia senza appello il decreto delegato
“Molta propaganda è una riforma degna della troika”
“Con questo decreto anche Sacconi a questo punto può entrare nel Pd di Renzi”
intervista di Roberto Mania


ROMA «Con questo decreto il Pd di Renzi diventa il partito degli interessi forti. Dopo essere arrivato sulle posizioni di Ichino ora ha raggiunto Sacconi che, a questo punto, può entrare nel Pd di Renzi». Stefano Fassina, deputato della minoranza del Pd, non votò il Jobs Act, e oggi boccia senza appello il decreto delegato varato dal governo.
Eppure, Renzi annunciò che il secondo decreto sul lavoro sarebbe stato più di sinistra rispetto al precedente. C’è stata la cancellazione dei finti collaboratori, l’estensione di alcune tutele. Non le pare un tentativo di fare un po’ di pulizia nella giungla dei contratti precari?
«È una straordinaria operazione propagandistica. Restano tutte le forme di contratti precari. Con questo decreto il diritto del lavoro italiano torna agli anni Cinquanta. Renzi attua l’agenda della Troika economica con una fedeltà che — sono certo — il professor Monti invidierà».
Il presidente Renzi ha detto di aver rottamato i collaboratori. D’ora in poi ci sarà o il lavoro autonomo o quello subordinato. Non le pare un miglioramento?
«Propaganda. La rottamazione dei co. co. co c’è già stata, rimangono solo nella pubblica amministrazione dove, per il blocco delle assunzioni, non ci sarà alcuna trasformazione».
Sì, ma i collaboratori a progetto ci sono nel settore privato.
«Già, ma con le eccezioni che sono state previste non cambierà nulla. Per esempio resterà tutto come adesso per i professionisti senza partita Iva. Rimangono anche i contratti a tempo determinato senza causalità; restano il lavoro intermittente, il lavoro accessorio e pure l’apprendistato senza requisiti di stabilizzazione. Il carnet di contratti precari non cambia. È una foglia di fico per coprire l’unico vero obiettivo di questo governo sul lavoro: cancellare la possibilità del reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato, cioè cancellare l’articolo 18».
Sempre il premier, però, sostiene che per un’intera generazione di giovani lavoratori ci saranno diritti e tutele.
«Altra operazione di propaganda. Non c’è nulla di più di quanto era già previsto dalla legge Fornero».
C’è la maternità per le partite Iva.
«C’è già. L’ha introdotta Livia Turco per tutte le donne lavoratrici».
Il governo punta sull’estensione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Non è meglio di un contratto di collaborazione o a tempo determinato?
«Il previsto aumento dei contratti a tempo indeterminato ci sarà non grazie alla cancellazione dell’articolo 18 bensì per effetto del taglio dei contributi per tre anni per i neoassunti nel 2015. Una misura che costa tantissimo e che, date le condizioni della nostra finanza pubblica, non sarà ripetibile».
Il governo non ha tenuto conto dei pareri, non vincolanti, delle Commissioni parlamentari. Cosa pensa?
«Che è un fatto molto grave. Il governo non solo ha ignorato il parere del Parlamento ma anche l’ordine del giorno della Direzione del Pd che chiedeva il reintegro per i licenziamenti disciplinari e per quelli collettivi. Si dimostra che chi, come me, scelse di non partecipare al voto sul Jobs Act aveva ragione mentre si illudeva chi pensava che il Parlamento avrebbe potuto modificare i decreti. Ma penso anche che il nostro capogruppo debba fare una valutazione su quel che è accaduto».

il manifesto 21.2.15
Lo schiaffo alla sinistra Pd
Democrack. Smentiti i pontieri dem. «Parlamento ignorato, c’è solo la fine dell’art.18»
Il premier snobba tutti. Fassina: diritti da anni 50, la Troika ringrazia
di Daniela Preziosi

qui

Repubblica 21.2.15
Nel Pd arrivano anche i “renziani ortodossi”
In questa fase si sta ridisegnando la geografia interna dei Dem
Dopo i catto-renziani guidati da Delrio, anche i fedelissimi del premier si sono incontrati per dar vita ad una nuova corrente capitanata da Lotti e Boschi
di Tommaso Ciriaco


ROMA C’è un’altra pattuglia dem pronta a dare vita a una corrente. È quella dei renziani ortodossi, guidata dai fedelissimi del premier. La regia è affidata a Maria Elena Boschi e Luca Lotti, Francesco Bonifazi ed Ernesto Carbone. Il timone, però, è in mano a un gruppetto di giovani deputati ai quali tocca arruolare parlamentari che non siedono all’ombra del giglio magico. Come i “catto-renziani” di Graziano Delrio, anche gli “ortodossi” giocano nel perimetro della maggioranza democratica. La competizione è accesissima, ma nulla in confronto al vero obiettivo di entrambe le fazioni renziane: sfidare le componenti più strutturate del Pd. A partire dai Giovani Turchi, naturalmente, passando per le minoranze di sinistra, ma con un occhio anche ai franceschiniani di Area dem.
Cene e incontri, corteggiamenti e pressioni: molto si muove all’ombra del Nazareno. Nel campo degli ortodossi, come detto, il pallino è in mano a un manipolo di giovani dem stimati da Renzi. Tra loro Marco Donati, Edoardo Fanucci e Marco Di Maio. Tessono la tela assieme ad Alessia Morani, sondano deputati e attendono l’ultimo via libera del cerchio magico per lanciare ufficialmente l’operazione. A inizio settimana hanno riunito a cena alcuni colleghi. Parlamentari distanti dal renzismo, molti under quaranta, ex popolari e parecchi meridionali. Il ristorante prescelto è stato Pomidoro, nel quartiere San Lorennel zo, tappa abituale del cerchio magico del presidente del Consiglio. Come pure il locale Baccano, méta preferita dei fedelissimi del premier. A questo tavolo, da un po’, siede anche il vicecapogruppo Ettore Rosato, a lungo reggente della corrente di Dario Franceschini e vicinissimo al ministro delle Riforme. «Io sono amico di Lotti e Boschi — sorride — ma ceno spessissimo con Guerini». Quando gli impegni di Palazzo Chigi lo consentono, si unisce alla compagnia anche Renzi.
Il premier, a proposito. Conosce le mosse dei suoi. Osserva e lascia crescere le nuove articolazione del renzismo, non frena la competizione interna. Per dire, la corrente che fa capo a Delrio, Matteo Richetti e Angelo Rughetti, accompagnata dalla presenza discreta di Lorenzo Guerini, ha ultimato il suo documento programmatico. Il battesimo è previsto il 17-19 aprile con una convention a Frascati. La direzione è già tracciata: «È indispensabile uno forzo quotidiano di mobilitazione interna — si legge nel testo limato nelle ultime ore — fondato anche sul confronto libero e trasparente delle idee». Non a caso, i “cattorenziani” promettono «occasioni politiche, seminari programmatici e proposte concrete a livello parlamentare e territoriale». Nonostante i contatti, non aderirà al progetto Gianni Dal Moro. E il veltroniano Andrea Martella pre- cisa: «Se è una corrente, non mi interessa. Se invece è un’area di libero confronto e scambio di idee, valuterò».
Le schermaglie interne al mondo renziano non devono fare perdere di vista il quadro complessivo. Per il premier, il bersaglio più importante resta quello di ridimensionare soprattutto le componenti più “aggressive” del Pd. Non a caso, i Giovani turchi osservano con crescente preoccupazione le recenti manovre in casa renziana, così come Area riformista di Roberto Speranza, mentre Area dem di Franceschini è alla ricerca di una collocazione adeguata alla nuova fase. E i bersaniani? «Noi lavoriamo — sorride Nico Stumpo — e intanto continuiamo a vincere le nostre battaglie interne.... «. L’ultimo successo, dopo la Calabria, porterà un esponente non renziano alla guida della segreteria regionale in Abruzzo.

Repubblica 21.2.15
Matteo Richetti
“Un’anticorrente perché non vogliamo una nuova Balena bianca”
Renzi non ha bisogno di supporter ma di pensiero, la nostra parola d’ordine sarà “profondità”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA  «Spero siano presenti da Gennaro Migliore a Andrea Romano nella nostra anticorrente...». Matteo Richetti, renziano non sempre allineato, ha messo in piedi uno “spazio democratico” a cui aderiscono anche Graziano Delrio e il vice segretario dem, Lorenzo Guerini.
Richetti, lei è a capo di una nuova corrente di renziani doc o di renziani critici?
«Innanzitutto non vorrei in nessun modo sentire parlare di correnti. Noi abbiamo l’obiettivo proprio di mandare in soffitta le correnti dem».
Come la chiama, l’anti-corrente?
«La chiameremo spazio democratico, perché vuole essere un’opportunità di confronto per tutti».
Per capire meglio, aperta anche a quei dem che stanno nella minoranza del partito?
«Vogliamo mandare in crisi l’attuale suddivisione del Pd in correnti. Però con un’avvertenza: sarà un sostegno forte a Matteo Renzi al punto che esplicitamente ha tra gli obiettivi quello di coinvolgere in vista della ricandidatura di Renzi a segretario del Pd nel 2017 e a premier 2018».
Il premier-segretario ha quindi bisogno di supporter fedeli tra i parlamentari?
«Penso il contrario: Renzi non ha bisogno di supporter ma di pensiero, e una delle parole d’ordine che vogliamo usare è “profondità”. Al Parlamento non compete solo convertire decreti ma restituire agli italiani una nuova idea di paese».
È una critica alla fretta imposta dal governo alle Camere che hanno dovuto procedere nei lavori in una no-stop?
«Renzi ha l’obbligo di portare fino in fondo il percorso delle riforme e quando l’ostruzionismo è solo un modo per farle saltare, fa bene Matteo a tirare dritto».
Ma riunite cattolici, ex ulivisti mentre non ci saranno ex diessini?
«Assolutamente no. Il Pd è l’incontro tra culture diverse».
Premete per entrare o restare nel cosiddetto “giglio magico”?
«Non è la prossimità a Renzi il problema, ma appoggiare un cambiamento che veda gli italiani non spettatori ma protagonisti, quindi è un’iniziativa a servizio del progetto di Renzi».
Tra i renziani sembra esserci una certa competitività?
«Nessuna competizione con altri pro Renzi. L’obiettivo è coinvolgere anche chi nella fase iniziale guardava a Renzi con un certo scetticismo e che oggi invece vuole dare una mano».
Non teme gli opportunisti?
«No, perché possiamo offrire solo lavoro e confronto, non è una spartizione di posti».
Il Pd rischia di diventare come la Dc, con correnti e correntine?
«Non vedo il rischio, né l’ambizione di tornare alla balena bianca. Siamo un partito del 40% e serve un serbatoio di idee».
L’appuntamento di mercoledì in cosa consiste?
«Nella sala Berlinguer a Montecitorio parleremo di riforme e inviteremo a un seminario sul progetto di governo, spero ci saranno dall’ex vendoliano Migliore all’ex montiano Romano».

il Fatto 21.2.15
I Pm di Venezia
“Mose, il Pd dentro il sistema di spreco di denaro pubblico”
“Mose, anche il Pd nel sistema di sperpero di risorse pubbliche”
Accertata “una diffusa illegalità del vertice del partito”
di Antonio Massari


L’indagine sul Mose è chiusa. Ieri la procura ha depositato gli ultimi atti d’inchiesta, con nove indagati, per i quali è imminente la richiesta di rinvio a giudizio, e due richieste di archiviazione per i parlamentari Pd Davide Zoggia e Michele Mognato. Le accuse – formulate dai pm Stefano Ancilotto, Stefano Buccini e Paola Tonini – variano dalla corruzione al finanziamento illecito dei partiti e in una dozzina di pagine viene descritto il sistema Mose, la più ingegnosa opera pubblica pensata in Italia, che con il suo sistema di paratie dovrebbe proteggere Venezia dall’acqua alta. Non l’ha protetta di certo da un giro di mazzette che, tra tangenti, finanziamenti elettorali e contratti fasulli, è costato di certo 22 milioni di euro ma, in realtà, potrebbe aver toccato il miliardo. A capo del sistema c’era Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova, aveva incaricato Luciano Neri e Federico Sutto di costituire un fondo, incassando denaro contante da alcuni consorziati, tra i quali Piergiorgio Baita per l’impresa Mantovani e Alessandro Mazzi per conto della Grandi lavori Fincosit, per eludere i controlli corrompendo funzionari pubblici. Esemplare il caso di Patrizio Cuccioletta, accusato di aver ricevuto, attraverso il “fondo Neri”, nella sua qualità di presidente del magistrato alle Acque di Venezia, uno stipendio annuale di 400mila euro, bonifici da 500mila euro su un conto in Svizzera, contratti di collaborazione per i suoi parenti, voli con aerei privati, alloggi e pranzi in alberghi di lusso a Venezia e Cortina d’Ampezzo. Allo stesso scopo, un altro presidente dell Magistrato delle Acque, Maria Giovanna Piva, tra il 2001 e il 2008, aveva ricevuto un altro stipendio annuo da 400mila euro più un incarico da collaudatore del Mose per ben 327mila euro. Il sistema Mose funzionava così, si oliava ogni passaggio destinato al controllo, e per la Corte dei Conti, secondo l’accusa, il “fondo Neri” foraggiava il magistrato Vittorio Giuseppone, che nel frattempo era passato dalla sezione di Venezia a quella di Roma, e incassava dai corruttori, con cadenza semestrale, uno stipendio annuo tra i 300 e i 400mila euro dal 2000 al 2008. Ma il Mose era anche una vacca da mungere e, in questo caso, a guadagnare erano i politici. Giancarlo Galan incassava finanziamenti per le sue campagne elettorali e “faceva ristrutturare” la sua “villa Rodella”, a Cinto Euganeo, per un costo che l’accusa indica in 1,1 milioni di euro. A ottobre Galan ha patteggiato una pena di 2 anni e 10 mesi e ha subìto una confisca per 2,6 milioni di euro. Restando nel centrodestra, l’indagine si chiude per l’ex europarlamentare di Forza Italia, Lia Sartori, accusata di aver incassato dal Consorzio Venezia Nuova, fuori bilancio, finanziamenti elettorali che, per se stessa e il partito, ammontano a 200mila euro.
ARCHIVIATE invece le posizioni dei parlamentari veneti del Pd Davide Zoggia e Michele Mognato. Il primo, fedelissimo di Pier Luigi Bersani, compariva anche in un “pizzino” sequestrato dalla Gdf, che lo vedeva destinatario di un finanziamento da 40mila euro per una campagna elettorale e altri 15mila euro come consulente dal Coveco: soldi che lo stesso Zoggia, al Fatto Quotidiano, aveva ammesso d’aver incassato, ma registrandoli regolarmente. E infatti non è per questo che viene indagato, ma per le dichiarazioni dell’ex sindaco del Pd Giorgio Or-soni, che ha già patteggiato la condanna per i soldi, intascati in nero dal Consorzio, durante la sua campagna elettorale. Dichiarazioni che, però, non hanno trovato un sufficiente riscontro probatorio. L’accusa, archiviando la posizione di Zoggia e Mognato, descrive però un “sistema di perniciosa dissipazione di risorse pubbliche a beneficio delle forze politiche”. Tra le forze politiche anche il Pd e i tre pm descrivono un “quadro di diffusa illegalità” nel quale “gli esponenti di vertice dei locali partiti politici erano soliti farsi finanziare le campagne elettorali con contributi illecitamente corrisposti dal Consorzio Venezia Nuova e dalle società aderenti al Consorzio”. Il sistema non funzionava soltanto per il Pd e non soltanto a livello locale: “Il quadro – continuano i pm – è aggravato dalla circostanza che la scelta del presidente del consorzio, di finanziare sistematicamente tutti i partiti, indifferentemente dalla loro collocazione politica – sia che occupassero posizioni di maggioranza che di opposizione, sia a livello locale che nazionale – fosse strategica e finalizzata all’acquisizione e al consolidamento di un consenso politico trasversale”. Ma i pm devono fermarsi a Orsoni, perché è stato “difficile” individuare gli “ulteriori percettori finali delle somme illecitamente corrisposte”. “Una difficoltà – continuano - che comporta l’impossibilità di iniziare un’azione penale”, verso Zoggia e Mognato, per i quali non “sussistono – rispetto a Orsoni – eguali elementi” d’accusa e si rifiutano di applicare il “principio del non poteva non sapere”. Per i due viene quindi richiesta l’archiviazione. Ma resta che il Mose rappresenta “l’affresco allarmante, sintomatico di una sprezzante indifferenza non solo per la legalità, ma anche per la corretta destinazione di beni comuni, dirottati arbitrariamente e interessatamente verso utilizzazioni clientelari e di favore”. Un affresco, concludono i pm, che “è solo in parte vulnerato dalla difficoltà di individuare con precisione (al di là della chiara posizione del sindaco Orsoni) gli ulteriori percettori finali delle somme illecitamente corrisposte”. “NEL TESTO approvato dal Parlamento, il cosiddetto Jobs Act, non si parlava di licenziamenti collettivi. Il governo nei decreti li ha invece inclusi. Le due commissioni parlamentari di Camera e Senato hanno chiesto di toglierli, invece il governo li ha confermati. Non c’è niente da dire: una scelta grave nel metodo, inaccettabile nella sostanza”, ha denunciato Guglielmo Epifani. Fotografando un dato di fatto: Renzi non ha tenuto conto delle obiezioni del Parlamento e ha asfaltato senza pentimenti le richieste della minoranza Pd. Che ieri ha fatto dichiarazioni durissime. Ecco Cesare Damiano, che a Montecitorio si era fatto carico della mediazione: “Il presidente del Consiglio ha dichiarato che il governo non ha modificato la norma sui licenziamenti collettivi nonostante la richiesta contenuta nei pareri convergenti delle commissioni Lavoro di Camera e Senato. Siamo di fronte a una scelta politica sbagliata e non rispettosa del dibattito parlamentare”. Rincara la dose Stefano Fassina, che dice, parafrasando i grandi annunci di eventi storici fatti dal premier: “Straordinaria operazione propagandistica del governo sul lavoro. Il diritto del lavoro torna agli anni ’50. Questo è il giorno atteso da anni... dalla Troika”. E attacca: “I contratti precari rimangono sostanzialmente tutti: la sbandierata rottamazione dei co.co.co è avvenuta da anni, mentre i co.co.pro di fatto restano e si estende l’ambito di applicazione dei vouchers”.
CRITICHE note, che l’ala sinistra del Pd ha fatto al premier da quando si è cominciato a parlare di riforma del lavoro. Alla fine, però, nonostante direzioni Dem infuocate e dichiarazioni di guerra, il Parlamento ha votato (con fiducia) la legge delega: i pareri delle Commissioni infatti non sono vincolanti. In questo caso si è rivelata davvero una delega in bianco, come tutti i decreti attuativi, compresi gli ultimi, quelli di ieri, hanno confermato. Il governo non ha mai pensato di fare marcia indietro. E non ne ha mai fatto mistero. In risposta alla minoranza, è arrivata Deborah Serracchiani, in serata, a ribadire che “ora il mercato del lavoro è più moderno”. Fine dei giochi.

il Fatto 21.2.15
Regali alle assicurazioni: la legge l’ha scritta Ania
Il Ddl concorrenza resuscita norme già presentate da Letta (i renziani le chiamavano marchette)
L’obiettivo è uno solo: tagliare i risarcimenti
di Marco Palombi


Il bello del governo di Matteo Renzi è che non tradisce mai. La sua stella polare, il punto di vista da cui guarda al Paese, sono gli interessi della grande impresa: saranno le aziende più grosse a trainare quel che resta del sistema produttivo fuori dalla crisi. Così la pensano, nel migliore dei casi, a Palazzo Chigi. Certo questa attitudine - non disgiunta da una certa permeabilità dell’amministrazione all’attività delle lobby più importanti - comporta spesso effetti che definiremmo sgradevoli. È il caso di una gran parte dei contenuti del cosiddetto ddl sulla Concorrenza. “Lo chiamerei Italia semplice o Tutela dei consumatori”, s’è commosso Renzi in conferenza stampa: “Abbiamo deciso di sfidare qualche lobby”.
FORSE IL PREMIER si riferisce alla lobby degli assicurati, non certo a quella degli assicuratori, che invece vince al di là di ogni sogno più roseo. Le norme che riguardano la Rc Auto, infatti, sono solo l’ennesima riedizione di una serie di richieste che Ania (la Confindustria delle assicurazioni) avanza ormai da anni, nascosti sotto l’accattivante dicitura “sconti obbligatori”. In sostanza Renzi e il ministro Guidi riesumano i fondi di magazzino del ministero dello Sviluppo che Enrico Letta aveva presentato già nel dl “Destinazione Italia” e fu costretto a ritirare sotto il fuoco di fila dei renziani stessi, all’epoca ostili alle “marchette”. L’obiettivo è uno solo: diminuire i risarcimenti. I governi si prestano a farlo da tre anni con successo, ma le polizze non diminuiscono mai, come sa chiunque paghi una Rc Auto.
La norma più scandalosa è quella sui risarcimenti per i danni gravi alle persone: cose come la perdita di un arto o la morte, che Renzi vuole far pagare alle compagnie anche il 50% in meno rispetto a ora. Un breve riassunto. Il Codice delle assicurazioni entrato in vigore nel 2006 delegava il governo a stilare tabelle nazionali con i valori del risarcimento entro 24 mesi. Quelle per i microdanni (da 1 a 9 punti) arrivarono quasi subito, le altre (fino a 100) finirono disperse: a delega già morta ci provò nel 2011 l’ex Cavaliere e l’anno dopo Monti con un apposito Dpr su tabelle elaborate dal ministero dello Sviluppo.
Il motivo dell’improvviso risveglio? Semplice: proprio nel 2011 la Cassazione aveva stabilito che le tabelle nazionali già esistono e sono quelle - scientificamente impeccabili - del Tribunale di Milano. Solo che alle assicurazioni non piacciono: con quelle si paga troppo e infatti il ministero provvedeva a tagliare i risarcimenti anche del 50%. Ora il ddl Guidi-Renzi ci riprova e provvede a ridare la delega al governo per resuscitare le tabelle compilate dai ministeriali.
Pure i microdanni, comunque, tipo il famoso “colpo di frusta”, finiscono sotto la scure di Renzi: già Monti aveva stabilito che le assicurazioni pagano solo in presenza di un “accertamento clinico strumentale obiettivo”. Peccato che gli esami a volte costino più dell’eventuale risarcimento. Risultato: quel capitolo costava alle compagnie 2,7 miliardi l’anno, ora poco più di uno. La legge di Monti, però, ha un difetto: lascia ancora qualche spazio all’autonoma scelta del medico. Qui arriva il ddl Renzi: senza esami niente soldi.
POI CI SONO le norme che passano sotto la voce “sconti”. Sembrano innocue, ma non lo sono: non a caso tutte richieste dell’Ania. Le compagnie - dice il testo - dovranno applicare “uno sconto significativo” a chi fa montare, ad esempio, la scatola nera sulla sua auto (i costi, però, sembrano tutti a carico del cliente). Incentivato anche il cosiddetto “risarcimento in forma specifica”: si fa riparare la macchina da un carrozziere scelto dall’assicurazione, lasciando però all’azienda la scelta sulle modalità di intervento. Tradotto: tra due soluzioni tecniche, il carrozziere convenzionato sceglierà sempre quella meno costosa. Poi c’è lo sconto se si accetta il divieto di cessione del diritto al risarcimento: quando cioè il carrozziere ripara la macchina e poi è lui a vedersela con la compagnia (anche qui il problema è la qualità tecnica delle riparazioni e la valutazione del costo del lavoro). Qualcuno dice che Ania è stata sconfitta, ma perdere così è un piacere.

il Fatto 21.2.15
Lecca lecca
Fiat traccia il solco e La Stampa...


Sergio Marchionne, che è sempre in anticipo sull’agenda come ogni manager che si rispetti, aveva già fatto il riassunto del governo Renzi qualche giorno fa: “Non lo voglio difendere, non ne ha bisogno, ma ha fatto in 11 mesi quello che non è stato fatto in anni interi. Lasciamolo lavorare, non ostacoliamolo. Non abbiamo scelta”. Il premier ha ricambiato con lessico giovane: “Sono gasatissimo dai progetti di Marchionne”, ha scandito dopo la visita al Centro Stile Fca. È amore e quando c’è l’amore ci sono pure le lettere d’amore. Se uno ha un giornale o due, poi, la faccenda è più facile. Insomma, è Marchionne che traccia il solco, ma è La Stampa che lo difende. E ieri puntuale è arrivato un anno di governo Renzi secondo il giornale di Mario Calabresi, ormai prossimo - si dice - al Corriere della Sera: un sobrio ritratto che ricorda vagamente certe Vite dei Santi d’antan.
APERTURA IN PRIMA (“Un anno con Renzi: la ‘rivoluzione’ dell’uomo nuovo”) con relativo commento: “Comunque vada ha sepolto il mondo di ieri”. Svolgimento: dicono che ha fatto poco, sarà, “però se sfogliamo i giornali di un anno fa ci sembra di vedere un altro mondo”. Asfaltati Bersani, Grillo e pure Berlusconi, messo a posto il Pd, rottamata la vecchia sinistra (quella che voleva “prendere il potere per via giudiziaria”). Ma che avrà ‘sto Renzi? “È l’energia che è nuova”, “un’energia esplosiva”. A pagina 2, però, si entra nel dettaglio: “L’uomo nuovo oltre destra e sinistra”. Una meravigliosa cavalcata renzianissima, non aliena da un certo gusto marziale anche nel linguaggio, tra promesse tutte mantenute e quegli impegni che un anno fa “sembravano chimere come l’abolizione del Senato”. Sotto, per fortuna, il sociologo Franco Ferrarotti ci spiega come fa, questo Renzi, a fare tutto: è “giovane” e poi “sa accendere speranze” e “i giovani con lui sognano di nuovo”. Poi un passaggio critico assai ardito: “Anche se non ha esperienza”.
Poi si passa a pagina 3   e sotto il titolo “Cosa ha fatto il rottamatore” quattro tra le migliori firme del giornale tracciano un loro giudizio su un anno di Renzi. La critica più forte è “in molte cancellerie ancora non lo vedono come uno statista”, ma comunque è molto migliorato rispetto al ragazzaccio di un anno fa: pare abbia persino “imparato a giocare di sponda”. Per il resto applausi e baci su comunicazione (“il marchio da veicolare è chiaramente lui stesso”) e provvedimenti su lavoro e imprese: questo, francamente, per il quotidiano che fa capo a una grande impresa è un giudizio che non ci sentiremmo di definire inaspettato visti Jobs Act (magnificato peraltro nell’ apposita pa  gina 4  ), sgravi Irap tagliati su misura e altre cosette qui e lì. Uno, poi, passa alla questione greca e dice: va bene, è passata, con Renzi per oggi abbiamo finito. Quando però si arriva - ormai rilassati - a pagina 9 , si scopre che non era finita: non è il bilancio di un anno, ma Super Matteo - evidentemente grazie alla sua “energia esplosiva” - giganteggia pure in politica estera: “Libia, Renzi scrive ad Al Sisi e cerca di coinvolgere la Russia”, ci informa La Stampa. Sapete cosa diceva la lettera del premier al presidente egiziano? “L’invito a credere nei negoziati Onu”. Mica è una bufala, eh? “Lo riferiscono fonti informate”. Al Cairo ancora stanno esultando per la fede nella diplomazia ritrovata dallo sfiduciato generale tentato dalla “spallata unilaterale”. Mica solo questo però: “La lettera ha inoltre l’intento di riportare la Russia nella coalizione anti-Isis in Libia”. È una lettera magica, come lo sono le lettere d’amore, anche quelle a mezzo stampa. Ridicolo? Certo, lo dice anche Pessoa: “Tutte le lettere d'amore sono ridicole. Non sarebbero lettere d’amore se non fossero ridicole”.

il Fatto 21.2.15
Reati finanziari, da noi liberi tutti
7.896 detenuti in Germania, 230 in Italia
Solo lo 0,6% dei carcerati italiani sono colletti bianchi: 10 volte meno della media Ue
di Antonella Mascali


L’evasione fiscale e corruzione dilagano in Italia, il governo tratta ancora sul falso in bilancio per una minima soglia di impunità implicita o esplicita, in commissione Giustizia del Senato si va a rilento sul ddl anticorruzione che giace in un cassetto dal 2013, Confindustria piange perché non vuole il minimo inasprimento della legge sul falso in bilancio, la direttrice generale Marcella Panucci ha adombrato presunte fughe delle aziende straniere se non ci saranno soglie di impunità e se ci sarà la procedibilità d’ufficio senza alcuna distinzione, ma i dati italiani ed europei raccontano un’altra storia.
Il nostro Paese rispetto ad altri dell’Unione è il fanalino di coda della lotta all’evasione ed altri reati del genere: anche per questo le società estere non investono più nel nostro Paese.
Gli investimenti stranieri rappresentano lo 0,8% del Pil.
Come ha scritto Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, in Germania i criminali economici e finanziari in carcere sono 7.986, in Italia appena 230. Sono dati contenuti nel rapporto del Consiglio d’Europa del 2014, a cura di Marcelo F. Aebi e Natalia Delgrande dell’Università di Losanna, e si rifanno alla realtà del 2013.
RISPETTO AL TIPO di detenuti che ci sono in Italia, la maggioranza è in carcere per spaccio di droga: il 37,9%. A seguire, il 16,3% per omicidio o tentato omicidio, il 14,7% per rapina, il 5,2% per furti, il 5,1 % per stupri e solo lo 0,6% per reati economici. Cioè ogni 65 detenuti per spaccio c’è un colletto bianco in carcere.
Ben diverse le cifre di altri paesi europei. In Francia, Croazia e Finlandia 1ogni 2 spacciatori. In Olanda e Svezia 1 ogni 4. In Danimarca 1 ogni 6. In Inghilterra 1 ogni 7. In Spagna 1 ogni 9, in Irlanda 1 ogni 23.
Questi e altri dati ancora pongono l’Italia all’ultimo posto in Europa per repressione dei reati economici.
La media europea è del 5,9% della popolazione carceraria rispetto allo 0,6% dell’Italia. Cioè un decimo.

Corriere 21.2.15
Il Pd toglie i vincoli su cave e spiagge
La Toscana alla disfida del paesaggio
Carandini: piano stravolto, cose da hooligan. E scrive a Renzi
L’assessore: così lascio
di Marco Gasperetti


FIRENZE Abbattuto dal fuoco amico. Il piano paesaggistico della Toscana rischia d’essere spazzato via da un super emendamento del Pd, lo stesso partito di maggioranza che lo aveva approvato a luglio in Consiglio regionale. Una manovra che, secondo ambientalisti e paesaggisti, ma anche a parere di Anna Marson (l’assessore all’Urbanistica che quel piano lo ha pensato e firmato), darebbe il via a un’imperdonabile deregulation trasformando i vincoli in semplici suggerimenti. Con il rischio di un assalto a un territorio, quello toscano, da sempre simbolo di rigore, bellezza, ordine ed esempio da seguire.
L’emendamento «affossa piano» ha fatto infuriare il presidente del Fai Andrea Carandini che ha subito scritto al premier: «Renzi ha definito barbarico l’attacco degli hooligan olandesi al cuore di Roma — spiega — ma allora come chiamare queste offese disseminate al territorio che purtroppo dureranno nel tempo? Gli emendamenti del Pd trasformano le direttive del piano toscano in mere indicazioni che possono essere disattese senza problemi. E allora io chiedo a Renzi, come segretario del Pd, di scandalizzarsi anche per questa sorte di condono ante litteram e di fermarlo».
Non c’è solo il Pd ad emendare. Forza Italia di modifiche ne ha presentate 200. «Ma almeno è opposizione — spiega l’assessore Anna Marson, già Idv e professore ordinario di Paesaggio all’Università di Venezia —. Trovo sorprendente che il più grande partito di maggioranza si comporti come quello di opposizione, nella forma e nella sostanza. Evidentemente le elezioni regionali vicine hanno scatenato comportamenti anomali e trasversali e mi sembra di vedere un partito del mattone e della pietra che cerca di affermarsi».
Le correzioni presentate dai «dem» a due settimane dal voto del Consiglio ammorbidiscono sensibilmente le indicazioni rigorose del piano. «La cosa più sorprendente è che a un certo punto si definiscono non vincolanti le criticità scientifiche da noi indicate — continua Marson — e dunque gli enti locali possono continuare ad aprire nuove cave, scavare in zone vergini, operare in crinali di altissimo pregio ambientale». E ancora costruire piscine vicino alla spiaggia, ampliare strutture, spostare a piacimento le aziende che lavorano negli alvei dei fiumi. «E arrivare a una completa deregulation del territorio — denuncia Salvatore Settis, accademico dei Lincei e presidente del consiglio scientifico del Louvre — e adottare una politica che una volta era il cavallo di battaglia del ministro Lupi. Sorprende che il Pd abbia adottato questa visione trasformista. E mi sorprendono moltissimo le oscillazioni del governatore Enrico Rossi». Che però prima su Facebook, citando il giovane Marx, e poi con il suo portavoce, fa sapere che «il piano è buono e che gli emendamenti saranno valutati nel rispetto della sua filosofia, senza stravolgerlo».
Il Pd toscano respinge le accuse e contrattacca con il suo segretario Dario Parrini, renziano della primissima ora: «Vogliamo la tutela ambientale più di tutti e lo sviluppo del territorio, conciliando il rigore nella salvaguardia paesaggistica con l’attenzione ai posti di lavoro e alle esigenze legittime delle imprese». Ma la sensazione è che il partito sia diviso. E che la stessa giunta regionale possa subire gravi ripercussioni. L’assessore Marson non esclude di lasciare l’incarico se il suo piano dovesse essere stravolto. «Prima dirò che cosa penso in Consiglio — dice lei —, poi ci penserà qualcun altro a dimissionarmi».

il Fatto 21.2.15
Furia a Roma
Gli Hooligans nella Terra dei Cachi
Quel che resta del sacco di Roma
di Antonio Padellaro


Giovedì sera, a Roma, il posto più sicuro era lo Stadio Olimpico con migliaia di lanzichenecchi asserragliati nella Curva Nord, sbronzi e placati.
Giovedì sera, a Roma, il posto più sicuro era lo Stadio Olimpico con migliaia di lanzichenecchi che asserragliati nella Curva Nord, sbronzi e placati inneggiavano a chissà quali nuove razzìe mentre sul campo due squadre celebravano svogliatamente le esequie del gioco del calcio.
Da luoghi di boati e sfrenate passioni, ormai completamente devitalizzati dal politicamente corretto e dalle combine, gli stadi somigliano sempre di più a certi cimiteri domenicali frequentati da vedovi devoti che si confortano sottovoce con un fiore in mano. Un mondo a parte governato da un occhiuto ministero della virtù, implacabile nel mettere alla gogna dei mille replay televisivi un calcetto negli stinchi o una parolina fuori posto. Senza contare lo zelo con cui alcuni farabutti matricolati, indecenti macchiette occupate a strapparsi di mano gli ultimi brandelli di un ex glorioso gioco, sanzionano qualunque muggito dalle tribune che possa anche lontanamente evocare la discriminazione razzista: la coda di paglia di chi è razzista dentro. Assicurata dunque la desertificazione degli stadi, il problema è come arrivarci. Per non ripetere quanto già ampiamente letto sulla “Capitale indifesa in balia dei barbari” aggiungeremo sommessamente che, in fondo, i nazisti olandesi danno il loro fattivo contributo alla dissoluzione dell’Urbe ridotta, come confermato ieri dal sindaco Marino, a una Tripoli teverina militarmente spartita dal crimine organizzato.
Le periferie saldamente controllate dalle milizie dello spaccio, i quartieri bene lottizzati dalla prostituzione di ogni sesso e forma mentre all’industria e al commercio sovrintendono mafia, camorra e ’ndrangheta, senza contare le lodevoli attività cooperative della banda della Magliana.
ORA, che le orde del Feyenoord abbiano provocato giganteschi ingorghi nel traffico capitolino, nulla può togliere o aggiungere al quotidiano calvario che vessa da sempre i disgraziati automobilisti. Certo, la fontana della Barcaccia in Piazza di Spagna, capolavoro di Pietro Bernini prima danneggiata dalle lattine Made in Nederland e poi trasformata in orinatoio a cielo aperto è un sovrappiù che genera giustamente generale sdegno. Anche se per Vittorio Sgarbi esiste la questione più ampia di un mondo sempre più invasivo “incapace di distinguere tra archeologia e spazzatura”. In fondo, una certa ferocia bestiale sembra assimilabile alla stessa logica del Califfato che arruola in Europa tagliagole e stupratori, anche se a differenza della brutalità gratuita della Het Legioen venuta da Rotterdam, gli hooligans del deserto sono lautamente retribuiti.
A proposito di quattrini, cosa dire delle autorità olandesi (a cui stiamo storicamente sulle palle a causa soprattutto del nostro esorbitante debito nazionale) che nega qualsiasi risarcimento al Campidoglio sprofondando nella barcaccia del ridicolo le tonitruanti minacce di Renzi & Marino del tipo: “Non finisce qui” e “Chi rompe paga”?
POCO di nuovo, insomma, sotto il sole di Roma, mentre come da copione il sindaco attacca il prefetto e il questore sulla sicurezza che non c’è, prontamente ricambiato. Con la scusa dei barbari, si regolano vecchi conti in sospeso, ma niente paura, tutto finirà come nella Terra dei Cachi di Elio e le Storie Tese, geniale inno patrio: “Il commando non ci sta e allo stadio se ne va, sventolando il bandierone. Italias  ì, Italiano, Italia gnamme, se famo du spaghi”. Ma anche come dice l’anziano sceriffo nel romanzo di Cormac McCarthy Non è un paese per vecchi: “Quando non si dice più grazie e per favore, la fine è vicina”.

il Fatto 21.2.15
Marino finisce nella morsa tra olandesi e poliziotti
Un dirigente della pubblica sicurezza si sfoga: “Il sindaco è un cretino”
Danni permanenti alla Barcaccia. Amsterdam: “Non pagiamo”
di Tommaso Rodano


Dopo la vergogna, la farsa. La scia tragicomica della razzia di Piazza di Spagna è la disputa italo-olandese su chi debba pagare i risarcimenti. Il tenore del dibattito è ben riassunto dalla modesta proposta lanciata in tv da Bruno Vespa, giovedì sera. Il conduttore di Porta a Porta abita proprio in zona Piazza di Spagna. La sua indignazione è particolarmente vibrante: “Qualcuno deve pagare – esordisce Vespa, prima di mettere in fila i candidati –. Uno: il Feyenoord. Due: il governo olandese. Tre, se non lo fa né l’uno né l’altro: ecco cinque multinazionali olandesi. Philips, Unilever, Shell, Heineken, Ing Bank. Quaranta mila euro a testa, un’elemosina per salvare la dignità del loro popolo”.
AL DI LÀ dello spericolato ragionamento del giornalista, era stato lo stesso sindaco Marino, ancora prima di quantificare i danni, a promettere che il peso del risarcimento non sarebbe finito sulle spalle dei romani. Ieri mattina, il sopralluogo alla Barcaccia del Bernini ha confermato “danni permanenti” – come ha dichiarato la responsabile restauri della Soprintendenza – evidenziando altre “110 scalfi-ture e scheggiamenti”, oltre al pezzo di marmo di 10 centimetri che si è staccato dal candelabro centrale della vasca.
La Barcaccia aveva appena beneficiato di un restauro da circa 200 mila euro, donati da privati. Dopo la visita alla piazza ferita, Marino è tornato a promettere che a mettere mano al portafogli sarebbero stati gli olandesi. Ma il contatto telefonico con l’ambasciata non deve essere stato particolarmente promettente, se lo stesso sindaco poco dopo è stato costretto alla marcia indietro: “Non si sentono responsabili dell’esborso economico, ne prendo atto”. Niente soldi, dunque, ma almeno una lettera di solidarietà dal sindaco di Rotterdam, Ahmed Aboutaleb: “Abbiamo accolto con orrore la notizia del comportamento riprovevole di una parte dei tifosi del Feyenoord”.
La questione più delicata per il sindaco di Roma però è altrove, sul fronte dell’ordine pubblico. Dopo aver criticato pesantemente la gestione di giovedì, ieri Marino ha alluso alle dimissioni del prefetto Giuseppe Pecoraro: “Non è una decisione che spetta a me, ma al ministro dell’Interno”. Peccato che Angelino Alfano, fino a tarda serata di ieri, non fosse ancora rintracciabile dopo il viaggio negli Stati Uniti e che l’incontro sia slittato a stamattina.
SI È SENTITA eccome, invece, la replica del questore Nicolò D’Angelo agli strali di Marino. La lunga conferenza stampa si è trasformata in una specie di sfogo: “Sapevamo che c’era il pericolo di un corteo non autorizzato con gravissimi rischi per l’incolumità di tutti, siamo riusciti a evitarlo. Abbiamo scongiurato anche un agguato di 600 tifosi romanisti appostati vicino all’Olimpico. Qualcuno ci ha criticato perché non siamo intervenuti diversamente in Piazza di Spagna, ma è stata una scelta di campo strategica e militare. Abbiamo risparmiato una strage”. Il questore, pubblicamente, ha negato l’esistenza di “uno scontro istituzionale” col sindaco. Ma per saggiare la temperatura dei sentimenti nei confronti del primo cittadino, bastano le parole pronunciate a voce (incautamente) alta da un dirigente della polizia romana, mentre scendeva le scale della Questura: “Questo sindaco è un cretino, un co... ne, una testa di c... o. Dice che apre un fascicolo, ma che c... o apre? ”.

il Fatto 21.2.15
La scalata a Rcs Libri
Edoardo Nesi
“Mondadori al 40% è troppo”
intervista di Silvia Truzzi


Le bordate arrivano da dentro: la decisione di Rcs di vendere la divisione libri ai nemici di Segrate non piace a nessuno. Agli autori, a editor che si limitano a silenzi rabbiosi o preoccupati, ai giornalisti del gruppo che hanno diffuso un comunicato al vetriolo. In cui non mancano le rivendicazioni per le operazioni sbagliate delle passate gestioni e un avviso ai naviganti: “Dipendenti e giornalisti non resteranno a guardare mentre il loro gruppo viene smantellato”. Tra le voci dissonanti c’è anche Edoardo Nesi, scrittore, premio Strega nel 2011 con Storia della mia gente, deputato eletto con Scelta civica, oggi nel gruppo misto. Che da imprenditore si stupisce (non poco): “In Italia non ci sono più imprenditori. Se sono vere le cifre che leggiamo, e il valore di Rcs è di 180 milioni e si prevede di venderla tra i 120 e i 140 milioni. Com’è possibile che non ci sia un imprenditore che non ha voglia di fare un affare come questo? Compri la seconda azienda editoriale italiana... Fosse venduta a peso d’oro, come succedeva negli anni della grande finanza, capirei. Mi sfugge il senso dell’operazione. Non so se i soci di Rcs hanno cercato altri acquirenti... ”
Poi c’è il problema della concentrazione delle quote di mercato che questa Super-Mondadori avrebbe.
Dicono che il tutto è funzionale a un rafforzamento di fronte al mercato globale.
Ora, mi permetto di far notare che il nostro mercato certo non è paragonabile a quello inglese o americano. Non fosse che per la questione linguistica.
I sostenitori dell’acquisizione dicono che comunque sul mercato, oltre ai piccoli, ci sono case editrici come Gems e Feltrinelli.
Sì, ma ricevo in questi giorni telefonate allarmate, da colleghi scrittori, dai librai, dai piccoli editori. È una notizia vissuta con preoccupazione, anche perché sono in tanti a temere di perdere il lavoro. Quando si fondono due società, ci sono dei settori che se duplicati diventano ridondanti.
Si tratta di libri, non di zuppe in scatola.
Nella mia esperienza di scrittore ho avuto solo Bompiani come editore. Non mi è mai importato di chi fosse la proprietà: ho avuto la fortuna di lavorare con un direttore editoriale come Elisabetta Sgarbi che era l’unico riferimento, il segno di un’indipendenza che ha permesso a Bompiani di fare sul catalogo un lavoro culturale. E questo si può fare anche difendendo le scelte e gli autori. Gli scrittori lavorano in assoluta libertà quando sanno che l’editore è un sostegno non ha una funzione d’indirizzo.
Lei è anche deputato: il ministro Franceschini ha manifestato perplessità. Lei che pensa?
La politica deve vigilare, ma attenzione: si tratta di due privati che agiscono in assoluta libertà. L’Antitrust dirà la sua, a me sembra che si crei una posizione dominante sul mercato. Il libro è un bene commerciale con una specificità che non si può in alcun modo trascurare. Una posizione così predominante sul mercato non sarebbe tollerata altrove: perché è vero che i grandi gruppi esistono sia in Europa che negli Stati Uniti, ma non arrivano a quote di mercato così importanti. So che Mondadori ha un’autonomia editoriale rispetto alla proprietà, ma il 40 per cento è troppo.
Il Supereditore poi non ha un nome neutro.
Io non sono mai stato un antiberlusconiano arrabbiato, ma come si fa a ignorare che la Mondadori è di Berlusconi?

Corriere 21.2.15
Mondadori-rcs questo matrimonio non s’ha da fare

Pubblichiamo un appello promosso da alcuni scrittori del marchio Bompiani e sottoscritto da altri autori di case editrici diverse

Mercoledì scorso Mondadori ha sottoposto a Rcs MediaGroup una manifestazione di interesse non vincolante per l’acquisizione dell’intera partecipazione detenuta dalla società in Rcs Libri, pari al 99,99% del capitale. Anche il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini giovedì si è chiesto «come funzionerebbero le cose in un Paese con un’unica azienda che controlla la metà del mercato, con l’altra metà frammentata in piccole e piccolissime case editrici». Noi autori della casa editrice Bompiani (insieme ad alcuni amici che pubblicano presso altri editori, intellettuali e artisti) manifestiamo la nostra preoccupazione per il ventilato acquisto della Rcs Libri (che comprende le case editrici Adelphi, Archinto, Bompiani, Fabbri, Rizzoli, Bur, Lizard, Marsilio, Sonzogno) da parte della Mondadori. Pur rispettando l’attività editoriale della casa acquirente ci rendiamo conto che questa fusione darebbe vita a un colosso editoriale che non avrebbe pari in tutta Europa perché dominerebbe il mercato del libro in Italia per il 40 per cento. Un colosso del genere avrebbe enorme potere contrattuale nei confronti degli autori, dominerebbe le librerie, ucciderebbe a poco a poco le piccole case editrici e (risultato marginale ma non del tutto trascurabile) renderebbe ridicolmente prevedibili quelle competizioni che si chiamano premi letterari. Non è un caso che condividano la nostra preoccupazione autori di altre case: questo paventato evento rappresenterebbe una minaccia anche per loro e, a lungo andare, per la libertà di espressione.
Non ci resta che confidare nell’Antitrust.
Roberto Andò, Nanni Balestrini, Sergio Bambarén, Franco Battiato, Tahar Ben Jelloun, Ginevra Bompiani, Pietrangelo Buttafuoco, Rossana Campo, Furio
Colombo, Mauro Covacich, Michael
Cunningham, Andrea De Carlo, Roberta De Falco, Paolo Di Stefano, Luca
Doninelli, Maurizio Ferraris, Mario
Fortunato, Fausta Garavini, Enrico
Ghezzi, Paolo Giordano, Giulio Giorello, Hanif Kureishi, Raffaele La Capria,
Silvana La Spina, Lia Levi, Dacia Maraini, Mario Martone, Michela Marzano, Laura Morante, Carmen Moravia, Edoardo Nesi, Aldo Nove, Nuccio Ordine, Roberto
Peregalli, Sergio Claudio Perroni, Aurelio Picca, Thomas Piketty, Lidia Ravera,
Antonio Scurati, Amina Sboui, Toni
Servillo, Simona Sparaco, Susanna
Tamaro, Chiara Valerio, Giorgio Van Straten, Sandro Veronesi, Drenka Willen

Corriere 21.2.15
La libertà di espressione. Il negazionismo e «Charlie Hebdo»
risponde Sergio Romano


A proposito dell’approvazione da parte del Senato del disegno di legge che punisce il
reato di negazionismo, la senatrice a vita
Elena Cattaneo ha spiegato la sua decisione di astenersi dal voto dicendo che vietare il negazionismo per legge è sbagliato in quanto non è ammissibile imporre limiti alla ricerca
e allo studio di una teoria. Però la senatrice afferma anche che nessuno storico prenderebbe sul serio certe teorie. Mi aiuti a capire. Lo storico può sconfessarle a suon di verifiche, indagini, testimonianze, studi e proprio per far questo sarebbe comunque tenuto a prenderle sul serio. Se non altro perché soppesare determinate teorie anche negazioniste costa fatica.
Alessandro Prandi

Caro Prandi,
Credo che nella sua osservazione si nasconda un sofisma. Se una teoria è chiaramente infondata dovremmo forse restare indifferenti di fronte alla sua diffusione? In un mondo dove Internet favorisce la circolazione di bugie, calunnie e idee strampalate, una teoria falsa e incontestata potrebbe ingannare un certo numero di persone. È giusto quindi che qualche storico perda un po’ del suo tempo per ribadire a una platea di ignari e creduloni che il genocidio degli ebrei non è, malauguratamente, una favola o un esercizio propagandistico. Possono esservi marginali discussioni, come sempre, sull’esatto numero delle vittime, ma la volontà omicida del regime nazista e le spaventose dimensioni del fenomeno sono innegabili.
La senatrice Cattaneo ha ragione, tuttavia, quando lascia intendere qualche dubbio sull’opportunità di una legge. Per la verità il disegno approvato negli scorsi giorni dal Senato è diverso da altre norme adottate su questa materia da alcuni Stati europei. Per evitare che la legge persegua un reato di opinione (cito da un resoconto del Sole 24 Ore dell’11 febbraio), «il testo prevede, attraverso un intervento sulla legge Reale, una aggravante di pena di tre anni se la propaganda, la pubblica istigazione e il pubblico incitamento a commettere atti di discriminazione razziale si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dallo statuto della Corte penale internazionale». Restano, tuttavia, a mio avviso, almeno tre obiezioni.
In primo luogo credo che il reato di incitazione all’odio razziale non abbia bisogno di essere rafforzato da una bugia (la negazione del genocidio) per essere ancora più grave. In secondo luogo temo che la legge sul negazionismo, come il Giorno della Memoria, avrà l’effetto di creare una sorta di gelosa competizione fra massacri e genocidi, tutti desiderosi di sentenze che li rendano maggiormente visibili agli occhi della pubblica opinione. In terzo luogo l’introduzione di un tabù, in una società che si proclama liberale, è uno strappo che altri, domani, potrebbero allargare.
Esiste una quarta ragione, più delicata. Il massacro di Charlie Hebdo è stato percepito come un intollerabile attentato alla libertà di espressione. Questa minaccia ha avuto l’effetto di mettere a tacere le critiche di tutti coloro, non soltanto musulmani, per cui molte vignette del giornale satirico francese erano un intollerabile insulto alla loro fede. Non era necessario essere credenti o praticanti per pensare che quelle immagini fossero inutilmente volgari e offensive. Ma in quel momento, di fronte alla ferocia degli attentatori, abbiamo finito per pensare che il valore da difendere fosse la libertà di espressione. Oggi, di fronte al negazionismo, pensiamo che la libertà di espressione sia meno importante di altri valori. Come ogni confronto anche questo è imperfetto. Il genocidio ebraico appartiene alla nostra storia recente e ha diritto ad avere nella nostra memoria uno spazio maggiore. Ma anche la libertà di espressione è un bene da difendere e tutelare. Credo che la scelta della senatrice Cattaneo — l’astensione — meriti di essere compresa e apprezzata.

il Fatto 21.2.15
Grecia, pronti gli aiuti
Tsipras capitola, il programma ora lo detta l’Ue
Il governo di Atene costretto a rinunciare alle sue promesse elettorali: almeno altri quattro mesi di austerità
Atene potrà attuare solo le misure che Bruxelles approverà lunedì
di Stefano Feltri


La Grecia è quasi salva, ma il programma con cui Alexis Tsipras ha vinto le elezioni il 25 gennaio non esiste più, saranno gli altri governi europei a decidere quali misure Atene potrà attuare e quali no. La riunione dell'Eurogruppo, il coordinamento dei ministri economici della moneta unica, si chiude con la prima metà di un accordo: la Grecia avrà un’estensione del programma di sostegno che scadeva il 28 febbraio se lunedì sera presenterà a Bruxelles una lista di provvedimenti prioritari da attuare. Se poi si comporta bene, ad aprile la Grecia potrà sottoporsi all'esame che era previsto per fine febbraio e, in caso di esito positivo, avrà i 4 miliardi che aspetta dalle istituzioni europee e i circa 7 del Fondo monetario, nel frattempo rimarranno comunque disponibili i 10,9 miliardi custoditi dal Fondo salva Stati che fanno da garanzia per evitare il collasso definitivo del sistema bancario greco.
“È UN ACCORDO nell'interesse non solo dei greci ma di tutti i cittadini europei”, sostiene il commissario europeo agli Affari economici Pierre Moscovici. Ma nel vertice ha prevalso la linea durissima, oltre alla Germania anche Spagna e Portogallo si sono opposti a ogni apertura, perché avrebbero faticato a spiegare ai propri elettori che i tanti sacrifici fatti in patria erano evitabili.
Il presidente dell'Eurogruppo, l'olandese Jeroen Djsellbloem, spesso si lascia scappare qualcosa di troppo: ieri sera ha detto che sarà importante la “buona fede” di tutti i partner. Come dire che finora qualcuno, cioè i greci e nello specifico il ministro dell'Economia Yanis Varoufakis, sono stati scorretti. Un'accusa pesantissima che non si sentiva da quando si scoprì nel 2009 che la Grecia aveva truccato i conti del deficit. C'è soltanto una concessione: un po' di flessibilità sull'avanzo primario (le entrate al netto delle spese, prima del conto degli interessi sul debito). L'Europa chiedeva il 4,5 per cento del Pil, la Grecia era disposta a fare solo l'1,5, ci si fermerà da qualche parte nel mezzo, restano le stesse richieste ma si terrà conto “delle particolari condizioni economiche”.
Nella notte della vittoria, un mese fa, Tsipras aveva urlato alla folla: “Il memorandum non esiste più”, stracciato il patto con la Troika (Ue-Fmi-Bce) che vigila sulle riforme in cambio dei 240 miliardi ottenuti dalla Grecia. E invece non è vero: Djesselbloem ribadisce che il Master financial assistance financial agreement rimane la base giuridica dell'accordo con la Grecia. Che è come dire che il memorandum rimane? “C'è molto dibattito sui nomi, limitiamoci a usare quelli ufficiali”, chiarisce l’olandese che non vuole perdersi in questioni filologiche, la sostanza è chiara. Il memorandum continuerà a produrre i suoi effetti.
CHE FINE FANNO DUNQUE le promesse di Syriza? Le assunzioni degli statali, gli aiuti alle vittime della recessione, la cancellazione delle tasse sulla prima casa... “Il governo di Atene ci ha assicurato che se le misure annunciate hanno un impatto negativo sulle finanze, verranno prese soltanto in accordo con le istituzioni”, spiega il presidente dell'Eurogruppo. E visto che le coperture finanziarie erano piuttosto incerte (dalla lotta all'evasione alla riforma del sistema tributario) pare impossibile che ottengano il via libera.
Tutto questo fino ad aprile. Poi si continuerà a negoziare: se Tsipras e Varoufakis non sgarrano, potrebbero ottenere un po' più di indulgenza dalle “istituzioni”, come vengono definiti ora i tre componenti della Troika. Ma comunque il programma dell’esecutivo continuerà a essere concordato punto per punto con l'Eurogruppo, cioè con gli altri governi nazionali. E questo significa dare un diritto di veto alla Germania sulle politiche a disposizione di Atene.
VAROUFAKIS parla in conferenza stampa meno sorridente del solito: “Abbiamo combinato logica e ideologia, rispetto per le regole e per la democrazia e abbiamo dimostrato che noi siamo impegnati per negoziare in modo efficace per garantire benefici a noi e ai nostri partner”. La frase chiave: “Da oggi siamo di nuovo co-autori delle nostre riforme”. Meglio di niente, ma il ministro non cita alcun dato concreto che giustifichi il suo sorriso tirato, salvo la promessa di negoziare a giugno un “contratto per la Grecia” con nuove misure per la crescita. Il governo di sinistra di Syriza non avrà dunque margini di manovra molto diversi da quello precedente, di Antonis Samaras. I greci possono soltanto sperare che gli uomini di Tsipras siano più capaci e onesti della classe politica che è stata spazzata via dalle ultime elezioni.
Visto l’ottimismo di Wall Street ieri, lunedì i mercati dovrebbero dare segni di soddisfazione. Gli elettori greci un po’ meno.

La Stampa 21.2.15
“Berlino ha vinto su tutta la linea. Varoufakis ha ceduto”
Daniel Gros (Centre for European Policy Studies): temo nuovi rischi sul loro deficit
intervista di T. Mas.


Per Daniel Gros è chiaro che la Germania ha vinto su tutta la linea, ieri. «Dal punto di vista simbolico, dunque politico, i greci hanno concesso tutto», sostiene l’economista franco-tedesco. Il governo Tsipras aveva detto che non avrebbe mai concesso una «continuazione del programma» che è invece scolpita nell’accordo di ieri. E la flessibilità che dovrebbe concedere ad Atene margini per negoziare cambiamenti nelle riforme, secondo il presidente del think tank brussellese Ceps, «saranno sempre costretti a cedere».
Chi ha vinto e chi ha perso ieri?
«Dal punto di vista simbolico, dunque politico, i greci hanno concesso tutto. Hanno detto per mesi, il ministro Varoufakis in primis, che non avrebbero mai sottoscritto una continuazione del programma. E invece».
Però ora la Troika si chiama “le tre istituzioni”.
«Sì, contenti loro...Sempre di quelle si tratta: Ue, Fmi, Bce. La verità è che il vero negoziato comincia adesso, la parte più difficile deve ancora arrivare».
Appunto. Quindi i greci potrebbero ottenere qualcosa, quando si entrerà nei dettagli.
«Guardi, i greci non hanno più alcuna posizione da ottenere».
In che senso?
«E’ vero, ora si entra nei dettagli, ma sono sicuro che saranno sempre costretti a cedere. Come ieri».
Ieri hanno incassato anche un obiettivo di avanzo primario che, almeno per quest’anno, sarà rivisto in base all’andamento dell’economia.
«Questo è vero. Ma era prevedibile. E resta il problema di fondo: la Grecia sarà incapace di mantenere qualsiasi promessa».
Gli aggiustamenti in questi anni, però, sono stati fatti, altrimenti non avrebbero un surplus di bilancio.
«In questo momento non si sa, si sa solo che hanno di nuovo perso il controllo sugli introiti».
Quindi rischiano di nuovo un deficit fuori controllo?
«Io temo di sì. La gente ha smesso di pagare le tasse. Nei primi mesi di quest’anno gli introiti da imposte sono crollati del venti per cento».
Che conseguenze potrebbe avere questo crollo?
«Che dovranno fare sforzi ancora più grandi di quelli che stanno per concordare da lunedì per restare in carreggiata. E poi da metà anno ricomincerà il solito balletto: diranno che il disavanzo è più alto del previsto, che l’aggiustamento chiesto va rinviato, eccetera».
Ma non è legittimo che un governo che ha fatto una campagna elettorale dichiarando fallita l’austerità e che vuole cambiare registro, una volta vinte le elezioni, almeno provi a mantenere le promesse?
«Si può discutere sull’austerità dell’Italia o della Francia, ma diciamoci la verità. La Grecia, proprio grazie ai soldi della Troika, ha dovuto fare meno aggiustamenti di quelli che le sarebbero toccati senza aiuti».
Lei esclude uno scenario di Grexit?
«Mi pare ormai escluso, sì. Politicamente, i greci si sono impegnati molto chiaramente ieri a non voler uscire dalla moneta unica. Hanno accettato quasi tutte le condizioni imposte dai partner internazionali».
Ma lei cosa avrebbe suggerito, invece?
«Io penso che sarebbe meglio lasciarli in pace».
Come?
«Io avrei concesso alla Grecia un allungamento delle scadenze sul debito di quest’anno, poi li avrei lasciati soli. Tanto hanno un avanzo primario, non hanno bisogno di altri soldi».

Corriere 21.2.15
L’ex ministro che tagliò la Sanità
Chiuse ospedali, introdusse il ticket e soprattutto limitò l’accesso alla Sanità pubblica solo a chi aveva un lavoro o una pensione e versava i contributi. Per gli altri nulla
«Ma Tsipras ha solo perso tempo I nostri debiti sono ancora lì»
intervista di Andrea Nicastro


«Macché successo. Abbiamo solo perso un mese. Gli obblighi per la Grecia come i debiti sono ancora tutti lì, scritti nero su bianco. Nel frattempo però l’economia reale si è fermata. Abbiamo perso entrate fiscali, ritardato contratti, spaventato gli investitori internazionali, affossato la Borsa, fatto fuggire capitali. Proprio un bell’inizio». Adonis Georgiadis è stato ministro e portavoce nel governo di centrodestra che firmò i memorandum con la troika che il nuovo esecutivo di Alexis Tsipras avrebbe voluto cancellare. Non solo. Georgiadis era ministro della Sanità quando l’Europa chiese un taglio delle spese mediche greche tra il 30 e il 60 per cento. Georgiadis chiuse ospedali, introdusse il ticket e soprattutto limitò l’accesso alla Sanità pubblica solo a chi aveva un lavoro o una pensione e versava i contributi. Per gli altri nulla. Eppure è stato uno dei pochi a metterci la faccia, ha avuto sempre la coerenza di sostenere che quei sacrifici erano indispensabili, non solo per il totem della Finanza, ma per smuovere il Paese dalla sua ragnatela di assistenzialismo. Ieri sera, guardando in tv le dichiarazioni dei nuovi protagonisti a Bruxelles, non poteva che pensare «avevo ragione io».
Vede qualche miglioramento per la Grecia da questo accordo?
«Bisognerà studiare bene gli allegati, ma i cambi com’era prevedibile appaiono minuscoli rispetto all’impianto di risparmi e impegni presi in precedenza. D’altra parte è stato lo stesso ministro delle Finanze Yanis Varoufakis a dire che Atene ha fatto i 4/5 della strada».
Nessuna differenza quindi?
«L’accordo è la riproposizione del memorandum. Il vocabolario può essere un po’ diverso ma è il nostro memorandum. Tsipras e i suoi paiono ossessionati dalla semantica. Non gli piace chiamarli “troika” però trattano con il trio di Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale e Commissione Ue. Non gli piace “memorandum” e lo intitolano “accordo”. Che belle conquiste».
Tempo perso?
«Non per il premier Tsipras. Lui aveva la necessità di mettere delle settimane tra la sbornia di promesse elettorali e la firma di un documento in cui accetta di mantenere chiusi i cordoni della borsa. Solo così la memoria della gente sarebbe stata meno fresca».
Qualcuno ha notato un’antipatia personale tra il tedesco Wolfgang Schäuble e il greco Varoufakis, il «comunista con la sciarpetta Burberry». Può aver ostacolato il negoziato?
«Non è uno scontro di personalità. I soldi non guardano se hai o meno la cravatta. E’ una scelta di spregiudicatezza politica per mantenere alto il consenso interno. La stessa dilazione di 4 mesi risponde a questo scopo».
Tsipras vuole che gli elettori dimentichino.
«Ne sono convinto. La drammatizzazione dei negoziati serve a questo. A mostrare ai greci che il governo lotta come un leone e ottiene il massimo. Peccato che lo faccia a spese del Paese. L’economia non ha tempo da perdere, deve riprendere a correre».

Il Sole 21.2.15
I limiti della sovranità
di Carlo Bastasin


La sovranità democratica nazionale non è la vittima del negoziato tra Atene e Bruxelles. La dura alternativa imposta al governo greco – e in futuro potenzialmente ad altri paesi - tra uscire dall’euro o tradire le promesse elettorali, ha solo reso espliciti i limiti della sovranità di un paese ad alto debito.
Un paese la cui retorica elettorale proiettava sull’Europa il ruolo di antagonista anziché di partner. Tuttavia un negoziato tanto acrimonioso, che poco si è occupato di obiettivi condivisi di crescita e molto di rapporti di forza, resta politicamente debole e getta una grave ombra sul futuro rispetto di qualsiasi accordo.
Alexis Tsipras ha vinto le elezioni sulla promessa unilaterale di revisione degli accordi in atto con le istituzioni europee. Nel pieno del duro scontro con i partner, il primo ministro greco ha ribadito che il suo governo terrà fede alle promesse elettorali. Già in queste ore, il Parlamento di Atene sta votando misure che derogano agli impegni presi. Il contrasto con le condizioni poste dai partner, attraverso l’Eurogruppo, è enorme: Atene era chiamata a non revocare le riforme; a concordare ogni nuova misura senza ampliare il deficit; ad assicurare che ripagherà i debiti; a cooperare con la Troika (anche dovesse cambiare nome, Trinità?); e a portare a compimento il programma concordato.
In molti casi durante la crisi, le democrazie nazionali hanno dovuto fare i conti con le compatibilità europee: referendum (in Irlanda e in Grecia), elezioni (in Spagna e in Italia), sentenze delle corti costituzionali (in Germania e in Portogallo) sono stati oggetto di un tiro alla fune con Bruxelles. L’Italia lo sa meglio di altri: nell’ottobre 2011 arrivarono a Roma una ventina di tecnici della Commissione europea e della Bce. Al successivo vertice di Cannes, il governo accettò l’invio degli esperti del Fondo monetario. Anche noi, come oggi i greci, abbiamo taciuto il nome della “Troika”. Ma l’Italia ha poi reagito, bene o male, con le proprie forze e con tre anni di severi sacrifici e graduali riforme. La fine della sovranità è un alibi: nei paesi dell’euro, il 50% del Pil resta intermediato dagli stati; i divari nei livelli di tassazione sono molto ampi. Ci sono i margini fiscali per realizzare politiche nazionali che assecondino le preferenze dei cittadini. Il vero discrimine è tra politiche – nazionali ed europee - favorevoli alla crescita e politiche, in tal senso, inefficienti a fronte di debiti eccessivi.
Tra minacce e inesperienza, la strategia negoziale di Atene aveva dei limiti fondamentali. Nella trattativa Atene ha utilizzato due leve: la prima era il punto di principio di agire in base a un mandato sancito da elezioni democratiche; la seconda, che l’uscita della Grecia dall’unione monetaria avrebbero aperto la strada alla reversibilità dell’euro per altri paesi. Una posizione negoziale basata su questi due cardini era impervia: il 70% dei greci si dichiara contrario a lasciare l’euro. Il mandato democratico non giustificava quindi l’unica opzione che rendeva temibile la posizione negoziale greca. Il potenziale della minaccia inoltre era ridotto dalla stabilità dell’euro-area assicurata dalla Bce e dall’adesione ai programmi di aggiustamento da parte di paesi contrari a deroghe per altri stati. Tagliare un debito su cui Atene paga pochi oneri, infine, avrebbe comportato pochi benefici ai greci, ma elevati e immediati costi politici per gli altri governi.
Ma anche se la maggioranza dei greci preferisse abbandonare l’euro piuttosto che accettare accordi che, comprensibilmente, ritiene ingiusti e squilibrati, si potrebbe parlare di una battaglia per la difesa della democrazia dalla tecnocrazia europea? In fondo la posizione di Atene si fonda sulla promessa elettorale di far pagare cittadini di altri paesi. La sostanza democratica di una simile promessa, effettuata unilateralmente senza consultare gli interlocutori che ne pagherebbero l’onere, è dubbia.
Il negoziato ha messo in luce però il punto nodale di un’unione monetaria in cui alcuni requisiti democratici sono visibili nel quadro nazionale e sfuggenti in quello europeo. L’Eurogruppo è una sede in cui si dovrebbero comporre interessi di governi, tutti legittimati da elezioni democratiche, a cui però non è chiesto individualmente di perseguire l’interesse comune, se non forse quello del minor danno. L’interesse comune poteva essere rappresentato invece dalla Commissione europea, che però non è un interlocutore negoziale. La contraddizione è tale che nel vertice di lunedì un documento attribuito alla Commissione è stato diffuso maliziosamente da Atene come se fosse un pre-accordo, ma è stato subito accantonato dopo la diffusione di un documento molto più severo espresso dall’Eurogruppo.
La vaghezza del documento della Commissione, privo delle condizioni indispensabili per il consenso degli altri governi, ha rafforzato l’intransigenza dell’Eurogruppo e, malauguratamente, ha fatto sembrare inefficace la mediazione comunitaria rispetto a quella basata su rapporti di potere tra governi forti e governi deboli. Il braccio di ferro sotterraneo tra Bruxelles e Berlino ha visto quindi Merkel prevalere, nonostante la maggiore legittimazione europea della nuova Commissione.
La questione della legittimità d’altronde è resa complessa dal fatto che l’accordo è sottoposto ad approvazione di vari Parlamenti, a cominciare da quello finlandese che ha programmato due sedute straordinarie per il 9 e 14 marzo. Inoltre, la richiesta greca di modificare la sostanza degli accordi in atto avrebbe richiesto una nuova base giuridica da sottoporre anche al parlamento tedesco. La strategia di Tsipras avrebbe quindi dovuto tener conto dei diritti di tutti.
Atene ha risposto chiedendo un accordo ponte che desse al nuovo governo l’ampio respiro – 4-6 mesi - per formulare con i tempi della politica un proprio piano di riforme che evidentemente non era stato dettagliato durante la campagna elettorale. Da un lato l’impreparazione di Atene ha svuotato la sostanza del mandato elettorale che vantava. Dall’altro, l’intento unilaterale di cambiare le regole ha riportato in primo piano il tema della sfiducia che proprio la falsificazione dei bilanci greci aveva catapultato al centro della crisi. Come se non bastasse, una trattativa intergovernativa è di per sé poco trasparente. Documenti riservati sono stati fatti circolare da Atene per influenzare la trattativa, mentre le istituzioni europee informavano i media con propri background, e i governi offrivano briefing mirati alle opinioni pubbliche interne. Berlino infine ha polarizzato la trattativa con dichiarazioni unilaterali. Una cacofonia che ha gravitato perfino su zone orarie diverse tra Dublino e Atene.
Il negoziato rappresenta certamente un monito per i partiti euro-critici che aspirano a governare e per i paesi non soggetti a programma che in futuro faticheranno a rispettare l’ortodossia delle riforme. Ma sottolinea soprattutto il vuoto di vera unione politica europea. Questo vuoto offre così tanti alibi all’opportunismo nazionale da rendere del tutto ingannevole la denuncia della fine della sovranità democratica.

Repubblica 21.2.15
Tsipras teme la sua piazza. Il difficile viene adesso
In patria la partita più difficile “Il governo spieghi perché saltano stipendi minimi e tagli a bollette”
di Ettore Livini


ATENE «Il difficile viene adesso. E la partita più complicata sarà quella che giocheremo in casa». L’Eurogruppo si è chiuso da pochi minuti. La delegazione greca si prepara a un breve spuntino prima di continuare a lavorare nella notte per preparare il piano di riforme da presentare lunedì. Ma l’ostacolo più alto per Alexis Tsipras, come spiega la confidenza di uno degli sherpa al tavolo, è quello che ora troverà ad Atene. «Per noi il bicchiere è mezzo pieno», dice il negoziatore ellenico. Ok, c’è da mandare giù il congelamento alle misure umanitarie («ma una parte vorremmo inserirle nell’accordo di lunedì») e l’impegno a non cancellare quelle imposte dalla Troika. «Ma abbiamo quattro mesi di tempo per convincere l’Europa della bontà della nostra linea, rispettando l’impegno con gli elettori», dicono le fonti vicine alle trattative.
Il problema è che in patria, a giudicare dalle prime reazioni, in molti vedono il bicchiere mezzo vuoto. «Aveva promesso l’addio all’austerity e alla Troika. Non mi sembra abbia ottenuto né l’uno né l’altro» dice a caldo Pakis Dendrinou, portiere d’albergo incollato al video a seguire la conferenza stampa finale dell’Eurogruppo, Il suo parere conta poco. Molto più importante è invece il giudizio che darà all’accordo il partito del presidente del Consiglio. In particolare la minoranza di “Piattaforma di sinistra” che controlla il 30% circa del Comitato centrale. Finora l’ala più radicale di Syriza si è allineata alla linea del premier, grazie anche al manuale Cencelli che (sacrificando la componente femminile) le ha riservato un po’ di posizioni chiave al governo.
La luna di miele però rischia di finire presto. «Qualcuno ha già avuto difficoltà ad accettare diverse parti della lettera inviata all’Eurogruppo da Yanis Varoufakis», ammette Vassilis Primikiris, membro del massimo organo del partito. Malumori ha creato pure la scelta di Prokopis Pavlopoulos, uomo di centrodestra, come presidente della Repubblica. E il redde rationem si potrebbe consumare ora sul testo dell’accordo con l’Eurogruppo. «Il mio problema è chiaro — dice dietro anonimato uno dei parlamentari della minoranza — . Come farò a spiegare ai militanti del Pireo che, per firmare questo pezzo di carta, ho dovuto rinviare l’aumento dello stipendio minimo, la luce e la casa a prezzi popolari che avevo promesso prima delle elezioni?». Molti ad Atene pensano a un referendum per validare il nuovo piano. «Vincerebbe il sì — dice Anna Prizelis, che il 25 gennaio ha votato “controvoglia” Tsipras — . Bisogna sapersi accontentare. Che ci fossero dei compromessi da fare si sapeva. Il 75% dei greci però vuole rimanere in ogni caso nell’euro e il governo doveva tener conto anche di questo».
L’alternativa, la rottura con i creditori, sarebbe stata un salto nel buio. Come dimostra la giornata nera regalata ieri dalla “Sindrome-Cipro” al sistema bancario ellenico. Le convulse notizie in arrivo da Bruxelles, qui sotto il Partenone, hanno avuto il sapore di un inquietante déjà vu. La data: quindici marzo 2013. Il luogo: la capitale belga. Identici pure i protagonisti e il copione: un Eurogruppo con Wolfgang Schauble e la Troika infuriati per l’approssimazione del piano di salvataggio presentato da Nicosia. L’epilogo, in Grecia non l’ha di- menticato nessuno: le banche cipriote dell’isola, dopo l’incontro, sono rimaste chiuse per dodici giorni in attesa di una accordo con la Ue. E quando hanno riaperto i battenti, i risparmiatori si sono ritrovati con una brutta sorpresa: tutti i soldi oltre i 100mila euro in deposito trasformati in azioni degli istituti, praticamente carta straccia. E il resto “congelato” per diverse settimane da rigidissimi controlli sui movimenti di capitali: limite ai prelievi di 300 euro al giorno, assegni banditi, plafond per viaggi all’estero bloccati a 3mila euro.
I greci hanno fatto tesoro di quell’esperienza: da fine dicembre sono stati ritirati dagli istituti ellenici 25 miliardi di euro, quasi il 15% dei depositi. Negli ultimi due giorni la sindrome Cipro ha accelerato la fuga di capitali, arrivata secondo Reuters a 1 miliardo al giorno. E la fuga di capitali è stato uno degli elementi che ha giocato contro Tsipras al tavolo dell’Eurogruppo.
Ad Atene, assicura il Governo, non c’è mai stato un rischio di questo genere. «Il nostro sistema creditizio è solido», ha provato a tranquillizzare tutti il governatore della Banca centrale Yannis Stournaras. «Io però non voglio scottarmi le dita — dice Nikos Zografos, in coda con il bancomat in mano davanti alla Piraeus Bank di Kolonaki per ritirare i suoi 500 euro quotidiani («lo faccio da sei giorni») — Mio fratello Vassilisi aveva messo i 200mila euro ereditati da papà in banca a Nicosia e in due settimane ne ha perso la metà». La bomba liquidità, tra l’altro, non è affatto disinnescata: se per qualsiasi motivo nei prossimi l’accordo con Bruxelles traballerà, il governo potrebbe essere costretto a imporre controlli alla circolazione di denaro per evitare il crac delle banche, tenute oggi in vita dal sottilissimo filo d’ossigeno garantito dai prestiti d’emergenza della Bce. La partita per il salvataggio della Grecia, malgrado la schiarita di ieri, è ancora tutta da giocare.

Repubblica 21.2.14
India
Nel villaggio del Rajasthan che sfida la tradizione
“No alle spose bambine lasciateci crescere e studiare”
di Adriano Sofri


A Benisar, nel deserto di Thar, le ragazze parlano ai padri E discutono del loro destino. “Mai più matrimoni infantili, mai più violenze”. Hanno promosso feste dell’orgoglio di essere femmine e anche gli anziani sono fieri di loro. Una cerimonia organizzata dall’Unicef nell’ambito della campagna “Girls, not brides” proprio mentre l’Is ordina che l’età per le nozze è 9 anni

Uno spiraglio di luce nel Paese dell’analfabetismo femminile, delle discriminazioni di genere raddoppiate da quelle di casta, delle morti di parto e di sterilizzazione, della cacciata delle vedove Naturalmente è solo una goccia nel mare del miliardo e duecentomila indiani. Ma è il segnale che i tempi stanno finalmente cambiando. Come cantano le piccole Hanno disegnato cartelloni: uno mostra come avviene l’aborto quando una famiglia rifiuta figlie femmine. Dicono che la cosa più importante è poter continuare la scuola

BENISAR (INDIA)  IL VILLAGGIO si chiama Benisar, è nel deserto di Thar, nel Rajasthan favoloso. Il primo appuntamento è in uno stanzone della scuola. Ci sono una sessantina fra bambine, ragazze e giovani donne, qualcuna col proprio bambino. Non conoscono la bella condizione di Virginia Woolf, “una stanza tutta per sé”, ma se la sono conquistata. La loro bandiera è l’abolizione del matrimonio infantile. Una metà dei matrimoni segue ancora questa triste tradizione, benché una benedetta legge abbia fissato nel 2006 l’età minima per sposarsi a 18 anni per le donne e 21 per gli uomini.
BUONE leggi ci sono, il problema è attuarle: come per il divieto di conoscere in anticipo il sesso dei nascituri. Il divario fra legge e fatti si riduce proprio in villaggi come questo, apparentemente i più immuni ai cambiamenti. Bambine e ragazze parlano a turno, e si vede che ci hanno preso confidenza: avevano cominciato prendendosi uno spazio per lo sport, come i maschi. Poi per discutere del proprio destino. La canzone che cantano è rivolta ai padri. Hanno disegnato cartelloni: uno mostra in 4 quadri successivi come avviene l’aborto delle bambine. Dicono che la cosa più importante è poter continuare anche la scuola secondaria. Che i ragazzi per sembrare sicuri stanno sempre insieme (intanto i ragazzi si affacciano, curiosi e un po’ intimiditi). Che i ragazzi si sentono liberi quando loro non sono libere, e la vera libertà è un’altra. Che i loro genitori si sono abituati a parlarne, e anche il Panchay, il consiglio del villaggio che sta alla base dell’autogoverno, e una delle loro più impegnate è stata appena eletta.
Hanno promosso feste dell’orgoglio di essere femmine, e ora anche gli anziani sono orgogliosi di loro, da quando il villaggio, dichiarato “Liberato dal matrimonio infantile”, si è guadagnato una rinomanza impensata. Dopo l’assemblea separata — le ragazze coi visitatori stranieri e i promotori della campagna, l’Unicef e l’ONG locale Urmul dell’infaticabile gandhiano Arvind Ojha — si va all’aperto, dov’è radunato ad aspettare il resto della comunità: è il Mahashivaratri, la grande festa dedicata a Shiva nel giorno delle sue nozze. Le femmine al centro, i ragazzi dietro e attorno, gli anziani a sinistra, i soli a sedere su delle panche, gli uomini a destra, in piedi, e il palco, dove avviene la premiazione delle ragazze e dei notabili che si sono distinti nella campagna, “Girls, not Brides”. Alla fine, sugli spazi bianchi di grandi striscioni, tutte le autorità del villaggio e i forestieri in qualità di testimoni firmano: qui i matrimoni infantili sono al bando. La cerimonia dura ore, e ha una solennità piena di allegria. Un cambiamento d’epoca si certifi- ca in una piena non violenza: nello stesso tempo in cui il sedicente Stato Islamico a Raqqa e a Mosul decreta con truce violenza che l’età del matrimonio femminile è 9 anni.
Ero arrivato in ritardo rispetto al proposito del giornale, di informare sugli episodi di violenza contro le donne che avevano suscitato una ribellione senza precedenti in India: specialmente lo stupro di banda e le torture mortali a una giovane donna a Delhi, 2012. Ancora due giorni fa ha fatto il giro del mondo lo stupro e l’uccisione di una bambina di 7 anni nel Maharashtra. L’India tornava alla ribalta come il paese dell’aborto selettivo e dell’infanticidio delle bambine, dell’analfabetismo femminile, delle discriminazioni di genere raddoppiate da quelle di casta, delle morti di parto e di sterilizzazione, della cacciata delle vedove. La memoria del rogo vedovile, il suttee del Giro del mondo in 80 giorni, benché la legge indiana punisca anche l’apologia del suttee. Prima di partire, siccome l’agenda era quella, avevo riletto un libro uscito nel 1927, “Mother India”, che aveva avuto un enorme successo, poi anche cinematografico. L’autrice era Katherine Mayo, un’americana di buona famiglia, molto conservatrice “white-anglosaxon” che in capo a sei mesi in India aveva stilato una requisitoria veemente. Mayo apprezzava Gandhi, ma lo dava già per «superato», e si augurava la sopravvivenza dell’impero britannico. Le reazioni indiane furono innumerevoli: per lo più, ebbero la debolezza di rinfacciarle un’esagerazione. Lo stesso Gandhi volle replicare: il libro era scritto «con intelligenza e forza», ma gli sembrava il rapporto di un ispettore delle fogne, e riduceva l’India alle sue fogne. Ho pensato che il libro della Mayo stesse all’India di allora un po’ come “La rabbia e l’orgoglio” di Oriana Fallaci è stato all’Islam contemporaneo, e che anche le reazioni suscitate si somiglino, in quell’incentrarsi sull’eccesso. Il capitolo di Mayo sui matrimoni infantili si intitolava: “Presto per sposarsi, presto per morire”, e riportava agghiaccianti resoconti sanitari. Avrebbe potuto essere questo il succo delle mie corrispondenze, sennonché sono venuti i villaggi nel deserto, le assemblee di ragazze, le riunioni dei Panchay, le discussioni con le persone dell’Unicef e di Urmul, e anche con i governanti locali. Nel prossimo villaggio, Suranjar, prima c’è stata una lunga seduta del Panchay aperta a noi visitatovuole ri. Le donne tenevano banco anche qui, e gli uomini interloquivano senza alcuna suscettibilità. Era successo che la fierezza di essere “Child Marriage Free”, villaggio liberato dal matrimonio infantile — vanto, finora, di alcune decine di villaggi in due anni di campagna — era stata incrinata da un matrimonio deciso di nascosto da due famiglie. Che cosa deve fare allora la comunità? Denunciare per la violazione della legge, o discutere ancora con i responsabili, capire che cosa li muovesse, persuaderli del danno che facevano a tutti e prima ai loro figli? C’è la questione delle doti: le figlie sono anche un peso economico, di cui liberarsi prima possibile. Succedeva anche da noi, e le figlie senza dote finivano monacate a forza, in una prigionia disperata come nelle famiglie tiranniche e nella clausura maritale. Quando la discussione si è fatta più tesa e insieme intima, si è sollevata la questione più delicata («E’ molto difficile…», avevano sospirato le signore indiane dell’Unicef): se gli uomini sono gli attori primi del pregiudizio contro le bambine, che cosa si deve pensare delle madri? Oltre a essere indotte, o costrette — spesso da altre donne, le suocere — a privilegiare grossolanamente i figli maschi, fin dalle razioni di cibo, forse amano meno le figlie? Le donne sono insorte: «Io amo perdutamente le mie due figlie!», ha proclamato la più combattiva. Ma non può darsi che proprio per questo una madre sia indotta a staccare da sé la propria bambina, che fra poco le sarà strappata e data in balia di ignoti e forse malevoli? Che si comportino un po’ come chi abbia avuto in una provvisoria adozione una bambina, e sappia di doverla restituire ad altri, e speri di rendere meno dura la mutilazione deludendo la sua domanda di amore? Hanno negato tutte, recisamente.
Dopo, anche qui tutta la comunità si è radunata per la cerimonia, e lo spettacolo di marionette. In un villaggio indiano del deserto i bambini guardano le marionette facendo tutte le facce. Allora: una figlia, appena adolescente, chiede alla madre di uscire con un’amica. Vai, le dice la madre, ma per carità, torna prima che rientri tuo padre. Lui rientra, non la trova, e strepita perché gli manca la serva che il padrone si aspetta quando torna. Scena seconda: il padre e un mezzano con cui combinare il matrimonio della bambina. Terza: il padre prepara sacco e bastone, perché sono passati due anni e partire a far visita alla figlia. La madre gli dice di no, che la bambina è morta di parto. Il padre si dispera, fine. Lo spettacolo era anche comico, si è molto riso e ci si è molto arrabbiati. Ora le ragazze, e anche qualche ragazzo, vanno al microfono. «Poteva capirlo prima, che la presenza di una bambina illumina la casa!». “È morta perché era troppo piccola, e forse aveva l’anemia!». Una bambinetta di 7 anni non in programma arriva fino al musicante che passa il microfono, un pezzo d’uomo, lo tira per la manica perché vuole recitare una breve poesia. Samuel Mawunganidze, che è a capo dell’Unicef per il Rajasthan, è dello Zimbabwe e ne ha viste tante, è commosso: quando le bambine piccole vanno a prendersi il microfono di propria iniziativa, dice, vuol dire che i tempi, they are a’changing… Finalmente, quando si è già fatta sera, tutta la comunità pronuncia il giuramento solenne che mette per sempre al bando il Matrimonio infantile.
Naturalmente, un centinaio di villaggi nel Rajasthan e altrove è davvero, per restare in loco, una goccia nel deserto del miliardo e duecentomila indiani. Questo è un pensiero. L’altro è che stanno succedendo in India chissà quante altre cose così belle, e soprattutto che se succede in un villaggio del deserto, dopo novant’anni in cui le cose sono così poco cambiate dai tempi dell’invettiva della signora Mayo, vuol dire che può succedere dovunque. Anche nelle fogne.

La Stampa 21.2.15
Riad: dimmi che sogno fai e ti dirò chi non sei
In Arabia Saudita si moltiplicano le trasmissioni tv in cui s’interpreta la produzione onirica
di Francesca Paci

qui segnalazione di Francesco Maiorano

La Stampa 21.2.15
Obamacare nuovo fiasco
S’inceppano le adesioni
di Francesco Semprini


Un’altra tegola rischia di cadere sulla testa del presidente Obama a causa della riforma sanitaria. Circa 800 mila contribuenti del Fisco Usa hanno ricevuto documenti errati da allegare alla propria denuncia dei redditi, in particolare per quanto riguarda la copertura medica con Obamacare. A comunicarlo è il dipartimento per la Salute, secondo cui sono stati compiuti errori nel calcolo dei sussidi, totali o parziali, relativi al pagamento della copertura. Le vittime di tali errori sono residenti nei 37 Stati che utilizzano il sito HealthCare.gov per iscriversi alla copertura assistenziale prevista dall’Affordable Care Act, ovvero dalla riforma sanitaria presentata nel 2009 ed entrata in vigore nel 2014.
Il picco si è registrato in California con 100 mila casi. Gran parte degli 800 mila contribuenti che hanno ricevuto informazioni errate non hanno ancora presentato la dichiarazione dei redditi, pertanto dovranno semplicemente sostituire la nuova documentazione. Circa 50 mila persone però hanno già presentato la denuncia dei redditi e saranno costretti a farne una nuova con le informazioni corrette, ma col rischio di un aggravio di costi.
L’entità dei sussidi che il governo versa agli iscritti all’Obamacare è stimata in base al prezzo di riferimento delle polizze in ogni Stato. L’errore è nato proprio da una stima sbagliata di questo parametro. Il dipartimento della Salute ha aperto un’indagine per individuare le responsabilità ed evitare nuove falle nell’Obamacare, che rischierebbero di inasprire le critiche nei confronti di una riforma che Obama considera la principale vittoria di politica interna del primo mandato.

Repubblica 21.2.15
 L’anniversario.
Ucciso ad Harlem era “l’antagonista” del reverendo King Ma cinquant’anni dopo la questione razziale resta ancora all’ordine del giorno negli Stati Uniti
La lezione sprecata di Malcom X il leader che sognava la rivolta dei neri
di Federico Rampini


NEW YORK «SE SUCCEDE un reato in quartiere nero arrivano 20 auto della polizia. Il dispiegamento di forze crea risentimento. I neri si sentono in uno Stato di polizia». Chi parla non è un ragazzo afroamericano in una delle recenti proteste dopo le uccisioni di Michael Brown a Ferguson e di Eric Garner a New York (neri, disarmati, uccisi da agenti bianchi). Quelle sono parole pronunciate da Malcom X, il grande leader afroamericano assassinato 50 anni fa. Una figura controversa, di cui oggi l’America riscopre una sorprendente attualità: sia la sua visione dei diritti umani calpestati nei quartieri neri, sia la sua dissociazione dall’Islam più fanatico e violento. Nell’America di Barack Obama, quella di Malcom X è stata a lungo una storia tabù: il primo presidente afroamericano ha potuto costruire il suo successo elettorale solo prendendo le distanze da qualsiasi forma di radicalismo. Guai a identificarsi con lo stereotipo del “nero arrabbiato”, che coagula diffidenza e ostracismo tra gli elettori bianchi, anche democratici. Tra “l’antagonista” Malcom e il profeta della non violenza Martin Luther King, Obama ha sempre scelto il secondo come riferimento storico, etico e politico.
Malcom X però fu una personalità molto più complessa di quanto si crede, aperto al compromesso con l’ala moderata del movimento per i diritti civili. A riscoprire la sua vera storia sta dando un contributo “Selma”, uno dei film candidati all’Oscar. Il Washington Post gli dedica un ampio reportage storico. “Selma” ricostruisce una vicenda dove il protagonista è l’altro grande leader afroamericano degli anni Sessanta, il reverendo King. Nel marzo del 1965 da Selma a Montgomery, in Alabama, si svolsero delle marce per i diritti civili, dapprima represse con violenza dalla polizia locale. Furono un capitolo chiave nella battaglia pacifista di King, che spinse il presidente Lyndon Johnson a far passare il Voting Rights Act: fino a quel momento negli Stati del Sud i neri di fatto non riuscivano ad esercitare i loro diritti di voto.
In “Selma” fa una breve apparizione anche Malcom X. Pochi minuti, quanto basta a sfatare tra il pubblico di massa una leggenda negativa che gli era rimasta incollata addosso. Il film descrive, in modo storicamente accurato, la visita di Malcom X a Selma nei giorni in cui King è in carcere. Malcom incontra la moglie del pastore, Coretta King. Lei è tesa, diffidente, ricorda che in passato Malcom ha definito suo marito “uno zio Tom” cioè un nero collaborazionista e subalterno ai bianchi. Il Malcom che Coretta si trova di fronte quel giorno, usa un linguaggio molto diverso, per nulla ostile: «Signora King, la prego di dire a suo marito che volevo visitarlo in carcere ma non ci riuscirò ora. Non sono venuto a Selma per rendere più difficile la sua missione. Penso solo che i bianchi devono capire che esiste un’alternativa, e allora forse saranno più disponibili ad ascoltare suo marito». L’alternativa a cui allude, è una forma di lotta più dura, che risponda colpo su colpo alle aggressioni della polizia. In quel breve dialogo Malcom allude a una divisione dei ruoli: lui e King hanno lo stesso obiettivo, le differenze sono solo di ordine tattico, e possono aiutarsi a vicenda.
La storia di quell’avvicinamento tra Mal- com e l’ala non violenta, ha un epilogo tragico poco tempo dopo. E’ il 21 febbraio 1965, quando Malcom X sale sul palcoscenico dell’Audubon Ballroom, storico teatro nel quartiere di Harlem a New York. Non fa in tempo a prendere la parola, e viene crivellato di colpi. Muore poco prima di compiere i 40 anni; oggi sarebbe sulla soglia dei 90. Molti gli avevano sconsigliato di entrare in quella sala. Da tempo Malcom X, pur sorvegliatissimo dall’Fbi, era oggetto di minacce di morte. Ce l’avevano con lui proprio per quella sua apertura a King, l’ala dura del movimento non gli perdonava il suo dialogo con i non violenti. Di più: la sua condanna a morte, probabilmente Malcom X l’aveva siglata uscendo dalla Nation of Islam, organizzazione radicale musulmana. Le indagini sull’assassinio di Malcom X sono inquinate da ogni sorta di interferenze, all’epoca vengono arrestati tre uomini, di cui due saranno rimessi in libertà negli anni Ottanta e non hanno mai smesso di proclamarsi innocenti. Uno storico afroamericano, Manning Marable, ha dedicato la sua vita a delucidare i misteri di quella esecuzione di 50 anni fa. Probabilmente furono cinque i sicari, tutti legati alla Nation of Islam e a personaggi come Elijah Muhammad, Louis Farrakhan. La chiave della tragedia è proprio il rapporto con la religione musulmana. Malcom Little, come si chiamava alla nascita, si converte all’Islam mentre è in prigione, nei primi anni Cinquanta, e sconta diverse condanne per rapina. Dal 1952 in poi diventa uno dei leader più influenti della Nation of Islam e contribuisce a farne un’organizzazione di massa con oltre mezzo milione di seguaci. Poi un lungo viaggio in Africa e in Medio Oriente, incluso il pellegrinaggio dello Hajj alla Mecca, lo spinge a un ripensamento. Si converte all’Islam sunnita, ne abbraccia la versione maggioritaria e moderata. Fino a sconfessare quello che lui stesso definisce «il razzismo nero-musulmano». Pur continuando a legittimare «l’autodifesa dei neri» in caso di aggressione da parte delle forze di polizia.

La Stampa 21.2.15
Parigi
Da Degas a Picasso, bellezze al bagno (di casa)
Al Musée Marmottan una singolare mostra sfodera quadri e fotografie
che illustrano l’evoluzione del concetto di intimità
di Francesco Poli


Quando Edgar Degas faceva posare in studio le sue modelle per ritrarle in varie posizioni, mentre entravano, si lavavano o uscivano da una vasca, pretendeva che si muovessero e si comportassero come quando erano sole nell’intimità della loro abitazione, e cioè come se non ci fosse di fronte a loro il pittore che le scrutava fin nei minimi particolari. Un atteggiamento da voyeur un po’ perverso (su cui anche Picasso aveva ironizzato nella sua ultima serie di incisioni) che però aveva una finalità artistica molto precisa: quella di riuscire a cogliere la bellezza essenziale dell’intimità quotidiana di una donna qualunque non idealizzata - non una ninfa, una nobildonna o un’odalisca- mentre prende cura dell’igiene del suo corpo, sola con se stessa. Queste figure affascinanti e sensuali sono tra gli emblemi della conquista moderna della libera dignità individuale che passa anche attraverso il diritto alla privacy per tutti. I catini e le modeste bagnarole in metallo ci sembrano cose più che obsolete, ma sono stati ancora per molto tempo gli strumenti più diffusi per lavarsi, prima che le sale da bagno (oltre che i gabinetti privati) si diffondessero in larga scala. E sono relativamente moderni perché l’acqua per lavarsi in casa era cosa rara nei secoli passati, e i criteri della pulizia corporale e i rituali della toilette erano molti diversi. Alcuni magnifici quadri di Degas insieme ad altri (come un vibrante ed etereo nudo sognante che fluttua allungato in una vasca di Bonnard, una donna nuda che si pettina allo specchio di Manet, e un misterioso nudo di schiena sempre allo specchio di Eugène Lomont) sono i pezzi portanti della sezione dedicata alla «Toilette in tutti le sue forme moderne», all’interno del percorso storicamente articolato della mostra «La toilette. Naissance de l’intime».
L’esposizione, di cui è curatore anche lo storico Georges Vigarello, autore del ben noto saggio Il pulito e lo sporco. L’igiene a partire dal Medio Evo, è un interessante ricognizione di questo tema intrigante all’incrocio fra storia sociale dei costumi e storia iconografica dell’arte. Attraverso un centinaio di opere antiche e moderne (incisioni, arazzi, dipinti, sculture e fotografie) vengono visualizzata l’evoluzione dei riti della pulizia, i comportamenti e gli spazi dedicati a queste pratiche. Si inizia all’alba del Rinascimento francese con un sontuoso arazzo (del 1500 circa) proveniente dal Museo di Cluny, un episodio della vita signorile che ci mostra una nobildonna nuda immersa in una vasca in mezzo a un giardino con attorno varie dame e paggi che offrono gioielli, fiori e che suonano strumenti. La scena è irreale nella sua perfezione: è un inno alla bellezza femminile, con valenze simboliche legate alla purezza e all’augurio di fertilità. In un dipinto della scuola di Fontainbleau vediamo invece due gentildonne nell’acqua, ma con delle camicie, rituale che rimanda alla purificazione dopo il parto. E dunque il bagno non serve qui per lavarsi, è un elemento allegorico, oppure come in altre scene tipo quella di Susanna al bagno con i vecchi guardoni che la spiano (di Tintoretto) è un pretesto per illustrare maliziosamente, con un soggetto biblico, la virtú del pudore. Nel XVII secolo il bagno sparisce dalle rappresentazioni, anche perché la paura dell’acqua era dominante (che si credeva portatrice di «veleni» tra cui la peste), e le scene dipinte ci mostrano donne sedute davanti a specchi intente alla «toilette sèche», con delle telette bianche, con profumi e cosmetici. È il caso di La Vue (femme à sa toilette) di Abraham Bosse, e della giovane dama che si specchia di Nicolas Régnier, che è una allegoria della vanità. Di ben altro livello, nella sua incantevole semplicità, è il capolavoro di Georges de La Tour: la visione di un’umile donna seminuda, in camicia da notte, che alla luce tremolante di una candela, cerca di levarsi una pulce. Molto meno poetici sono invece certi dipinti piuttosto libertini del XVIII secolo come la Jeune femme à sa toilette di François Eisen, e il quartetto di ovali di François Boucher. I dipinti di Boucher, in due coppie, mostrano prima due signore elegantemente vestite una di faccia e l’altra di schiena, e poi le stesse in posizione analoga ma con le gonne alzate prima e dopo aver espletato i propri bisogni. Questi quadri venivano appesi dai signori nei loro «fumoir», quelli licenziosi nascosti da qualcosa (come sarà anche il caso del famoso Origine du monde, commissionato a Courbet da un diplomatico turco).
La parte finale del percorso espositivo, dedicata alla contemporaneità, presenta vari dipinti e sculture di autori come Kupka, Léger, Picasso, Gonzalez, Jacquet (che si sbizzarriscono sul tema della donna alla toilette) e molte fotografie da quelle di Erwin Blumenfeld a quelle di Bettina Rheims. La mostra è tutta dedicata alle donne. Molti uscendo si sono chiesti: e gli uomini?