sabato 14 settembre 2013

Repubblica 14.9.13
Perché non possiamo non ringraziare Francesco
di Umberto Veronesi


IL DIBATTITO suscitato dalla lettera di papa Bergoglio a Scalfari dimostra che il rapporto fra credenti e non credenti è ben lontano da essere una questione dotta per pochi intellettuali. Non esiste donna o uomo a cui non venga posta, da altri o dalla propria coscienza, la domanda: «E tu in che cosa credi?». Io rispondo: «Credo non in Dio, ma nell’uomo ». E dopo aver letto attentamente la sua lettera, immagino che il Papa risponderebbe: «Credo in Dio e nell’uomo».
È quindi l’amore per l’uomo il punto di incontro fra Chiesa e laicità, ed è accanto all’uomo quel «tratto di strada insieme» che il Papa invita i laici a fare.
Sono dunque i diritti umani il terreno su cui si fonda la possibile intesa. Il diritto alla pace è il primo della lista. È di pochi giorni fa l’appello al digiuno per la pace in Siria, a cui hanno aderito credenti, insieme a laici (io per primo) e credenti di altre religioni. Se allora sul piano etico non c’è incompatibilità — tanto che, scrive il Papa, «il peccato, anche per chi non crede, c’è quando si va contro la propria coscienza » — io penso che lo scontro non sia tanto fra fede ed assenza di fede, ma piuttosto tra religioni e società. In molti casi, nei Paesi progrediti, le religioni sembrano rimaste indietro di migliaia di anni rispetto alle società. La religione cristiana si basa sulla Bibbia e i suoi Dieci Comandamenti, che la Chiesa cattolica considera ancora attuali. Ma come li considera la nostra società?
Tutti siamo d’accordo che non bisogna ammazzare, o rubare, o trattare male il padre o la madre. Ma esistono problemi aperti soprattutto rispetto alla vita sessuale: i rapporti prematrimoniali, l’istituto matrimoniale stesso, la formazione delle famiglie, i rapporti omosessuali, il diritto alla procreazione. Rimane inoltre irrisolto il grande dilemma della disponibilità della vita: il laico crede nella responsabilità della vita, mentre il credente nella sua sacralità. Dunque il laico ritiene di poter disporre della propria esistenza fino alla sua fine, mentre il credente pensa che la sua vita sia dono e proprietà di Dio e solo Dio può decidere che farne. Da qui gli scontri dolorosi su temi come i matrimoni gay, le unioni civili, la fecondazione assistita, la contraccezione e l’aborto, il testamento biologico e l’eutanasia. Trovare anche su questi temi un punto di incontro è davvero impossibile? Il pensiero razionale è diametralmente opposto alla fede? Io credo di no e voglio partire da un’affermazione che papa Ratzinger ha fatto nel discorso di Ratisbona: «Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio». Sono parole che aprono alla speranza e che possono portare a un piano di incontro concreto fra credenti e non credenti, proprio nella ragione, nel Logos.
Parole che papa Francesco conferma scrivendo a Scalfari che anche chi crede si pone domande, è alla ricerca, perché anche per lui «la verità non è assoluta, ma si rivela attraverso un cammino e una vita».
Il messaggio che possiamo trarre dalla lettera del Papa aRepubblica è forse che non c’è bisogno di conciliare integralmente tutte le posizioni su Dio, alla ricerca di un accordo oggi (e forse sempre) impossibile, ma si può procedere insieme nel nome dell’uomo. Benedetto Croce scrissePerché non possiamo non dirci cristiani.
Partendo da qui, da molto tempo esploro la possibilità di rendere vera l’affermazione: perché possiamo non dirci cristiani, e fondare una morale laica basata sui principi della natura umana che hanno come riferimento non necessariamente Dio, ma sicuramente l’uomo. A parte la fede nella trascendenza, non c’è nulla, negli insegnamenti del cristianesimo che non sia già presente nella coscienza umana e nell’attitudine ad amare piuttosto che odiare. In questo ci aiutano le più recenti ricerche scientifiche: la violenza non dipende né da istinti di natura che condividiamo con gli animali, né da come è fatto il nostro cervello, né da un ipotetico vantaggio evoluzionistico a favore dei più forti. La natura non seleziona i più forti, ma i più adatti. Ed è più adatto chi costruisce rapporti costruttivi con il prossimo, chi alleva la prole in pace e benessere e assicura così la sopravvivenza della specie. La violenza è piuttosto una reazione a situazioni avverse. Quindi se l’uomo è biologicamente buono, per comportarsi in modo morale, deve semplicemente seguire la propria coscienza. Può esistere allora un’etica laica, che non si vuole sostituire al cristianesimo o ai precetti morali di altre religioni, ma vuole semplicemente aiutare l’uomo a fare buon uso della propria natura e della propria ragione.

Repubblica 14.9.13
Quell’incontro che sfida il dilemma della modernità
di Joaquìn Navarro-Valls


LA LETTERA che il Papa ha inviato giorni or sono a questo giornale rientra sicuramente tra gli atti più eloquenti per capire lo stile semplice e immediato che Francesco ha voluto dare al suo pontificato. Non un atteggiamento di maniera, sforzato. Non un disdegno dall’autorità che si accompagna con un’abdicazione del ruolo pastorale. No. Si tratta di una vera e vissuta “autenticità”. Alcune domande sono state giustamente sollevate e legittimamenterivolte al Papa.
Ebbene il Papa ha voluto rispondere in modo altrettanto schietto e genuino. Tutto qua. Evidentemente, l’occasione ha dato corso a una risposta colloquiale, nel senso che Francesco non aveva alcuna pretesa di ergersi a strumento solenne di dottrina. Eppure, a rileggere bene gli argomenti e le singole parole, si comprende che i contenuti espressi sono qualcosa di più di una replica. È la consegna di alcuni suggerimenti seri, validi e concreti alle inquietudini di tutti noi.
Molte precisazioni, d’altronde, compaiono preziosamente tra le righe. Dal significato della recente Enciclica Lumen fidei,voluta e scritta da Benedetto XVI ma integrata e completata da Francesco, alla fedeltà alla grande lezione del Vaticano II, per finire al valore che assume oggi il parlare una lingua non forbita, comprensibile dai saggi e dai meno saggi.
Nonostante tutto questo sia stato offerto con grande simpatia e solidità dal Papa, il vero motivo dominante, probabilmente quello che veramente l’ha spinto infine a inviare la missiva, è stata la portata della prima domanda. Pressappoco era la seguente: com’è possibile conciliare i valori assoluti della fede con il relativismo della vita di oggi?
Il Papa ha deciso di prendere il toro per le corna. Ha voluto cioè affrontare uno tra i dilemmi più critici e spettacolari della modernità, partendo dal significato verace e genuino che ha il credere per ogni semplice persona. Via gli orpelli culturali, via le maschere di apparenza, per andare subito al nucleo essenziale che muove tantissime persone di oggi a sentirsi ancora attratte, interiormente ed esistenzialmente, dal Cristianesimo.
La fede nasce, questo ha detto Francesco, dall’incontro personale con Gesù. Un desiderio che suscita stupore, amore e voglia di unirsi da vicino con una persona come noi che nascondetuttavia, nelle scelte che fa, nelle azioni che compie, nei miracoli e nel sacrificio che vive, una trascendenza spirituale completa, divina.
La fede, dunque, non nasce dal conformismo e non si attua mediante una valida elaborazione ideologica e moralista. Con la stessa forza con cui ci s’innamora continuamente tra esseri umani, ci s’innamora pienamente e totalmente di Dio. Questo è il senso autentico che ha la parola “luce” nel cuore del credente. La fede nell’amore produce nuovo amore, ottimismo e felicità in se stessi e negli altri.
Logicamente l’incontro a tu per tu con Gesù non avviene per strada e a caso. La casa di Dio è la Chiesa. Il Papa, proprio in questo modo, spiega il valore che assume la Scrittura, in particolare i Vangeli, e il Magistero nel segnalare dove e com’è possibile innamorarsi di Dio.
La lettera giunge così finalmente al grande tema dell’“assoluto”. Francesco, nella sua prima Enciclica, ha spiegato che la causa della confusione contemporanea, anche tra i credenti, è derivata da un abbandono del desiderio del sacro che nei secoli recenti è andato imponendosi come ovvio, scontato. Quella fede che prima era luce è stata vista come oscurità. Quell’amore che era sentito come potenza liberatrice è divenuto, agli occhi del nostro tempo, un fardello oppressivo e improponibile. Tanto che, alla fine, oggi si tende a rifiutare la fede, vedendola come un vincolo assoluto superiore alla debolezza della nostra condizione normale.
In quest’ottica essere senza Dio sembra restare liberi, mentre stare con Dio somiglia a un chiudersi nel buio di una prigione incondizionata.
A Repubblica Francesco ha voluto proprio svelare il grande inganno che si cela dietro quest’affascinante suggestione illuminista. Come possiamo essere realmente vittime dell’assoluto quando ci apriamo con amore alla provocazione che la vita di Gesù suscita in noi? Non è, invece, che quando sciogliamo questo legame chiudiamo veramente le porte della nostra vita alla felicità, lasciandoci persuadere unicamente dalla validità delle nostre opinioni e delle nostre sole idee?
Ebbene la fede è esattamente una cosa del genere: per un cristiano è l’apertura di una relazione non prevedibile con Qualcuno che non siamo noi stessi a dominare. E ciò, prosegue Francesco, è esattamente l’unica possibile liberazione che esiste dai nostri assolutismi psicologici ed egoistici, dai miti illusori che da solo ciascuno è costretto a crearsi per sopravvivere e cancellare l’angoscia e l’infelicità.
Non è in modo diverso che Benedetto XVI parlava di una dittatura del relativismo, evocando una specie di enorme paradosso. In realtà, il relativismo non esiste fin quando l’esistenza personale resta disponibile ad ascoltare e a guardare quello che fa Dio. Viceversa, se non esiste più alcuna fiducia che separi dai criteri che ciascuno si fa da sé è chiaro che le certezze, le persuasioni devono diventare assolute e quindi distruttive.
Per questo Dio non chiama l’uomo a credere a una serie di precetti. L’uomo segue delle regole semmai per amare e identificarsi pienamente con Dio. Cioè esattamente l’inverso di quello che viene detto di solito.
In definitiva, è giusto pensare al coraggio di questa lettera di Francesco come a una disponibilità che testimonia, per l’appunto, la saldezza e la apertura che la fede produce nel singolo credente, fosse anche il Papa in persona. La scelta di dialogare con tutti, specialmente con la gente comune, è l’opposto esatto, infatti, dell’assolutismo che impera nel nostro presente. Probabilmente per questo i comportamenti di papa Francesco scandalizzano il presente. Perché una messa in gioco così forte può farla solo chi non ha idoli da difendere, ma un amore assoluto da testimoniare. D’altra parte, è lo stesso scandalo che suscitava un suggestivo personaggio che viveva in Palestina duemila anni fa e il cui nome, guarda un po’, era Gesù di Nazareth.

Repubblica 14.9.13
Il fascino pericoloso del postsecolarismo
In Italia siamo in presenza di una religione predominante. Non esiste nella cultura etica quel pluralismo che fa da contenimento
Il rischio è quello di un maggioritarismo potenziato da un credo religioso
Parla Nadia Urbinati, autrice con Marco Marzano di un saggio su Stato e Chiesa
di Simonetta Fiori


«Papa Francesco rappresenta la realizzazione compiuta del postsecolarismo di Habermas», dice Nadia Urbinati, al telefono dalla Columbia University dove ha la cattedra di Teoria politica. «Ma proprio per questo occorre ancor più distinguere tra diritto e morale, Stato e religione, ristabilendo quelle paratie che sono necessarie in democrazia». All’indomani della lettera «scandalosamente affascinante» scritta dal pontefice a Eugenio Scalfari, e a pochi giorni dall’appello alla pace che ha raccolto in piazza San Pietro cattolici, musulmani, atei e perfino anticlericali, esce dal Mulino uno stimolante saggio di Nadia Urbinati e Marco Marzano dal titolo provocatorio: Missione impossibile. La riconquista cattolica della sfera pubblica.Ma è davvero una missione impossibile? La rivoluzione introdotta da papa Francesco, anche il suo nuovo stile di dialogo, non costringe a rovesciare i termini della questione? «Il suo stile e il suo linguaggio certo scompaginano il progetto culturale inseguito per sedici anni dal cardinal Ruini: è su questo schema che abbiamo costruito molti dei no-stri ragionamenti. Ma restano in piedi tutti i rischi della democrazia postsecolare».
Professoressa Urbinati, che cosa è il postsecolarismo?
«Designa il superamento del secolarismo, ossia dell’esclusione della religione dalla sfera pubblica. Secondo Jürgen Habermas, che ne è il principale teorico, la religione — avendo accettato le regole del gioco democratico — non deve essere più tenuta in un recinto, ma al contrario deve essere accolta nel dibattito pubblico perché porta un prezioso nutrimento morale. E qui interviene l’argomento di un importante teologo tedesco, Böckenförde, secondo il quale la democrazia ha bisogno di religione proprio perché è un metodo di decisione, privo della sostanza etica che lo può tenere in vita. Questo è l’aspetto più preoccupante. Secondo la teoria postsecolare, la democrazia diventa un guscio vuoto, mentre sappiamo che le regole democratiche sono dense di principi morali».
Lei e Marzano denunciate gli “effetti perversi” del postsecolarismo, soprattutto in una cultura monoreligiosa come quella italiana.
«Una delle pecche più gravi di questa teoria è la sua astrattezza, che non tiene conto dei contesti storici e sociali specifici. In Italia siamo in presenza di una religione nettamente predominante. Non esiste nella società e nella cultura etica quel pluralismo che fa da contenimento naturale. Il rischio per la nostra democrazia è quello di un maggioritarismo potenziato da un credo religioso. E le leggi possono diventare laiche al rovescio: non perché distanti da tutte le fedi religiose, ma perché vicine alla fede della maggioranza».
Marco Marzano insiste sullo scarso fondamento in Italia della teoria postsecolare, essendo profondo il divorzio tra fede dichiarata e pratica di vita. Una divaricazione denunciata pochi giorni fa dall’arcivescovo di Milano.
«Sì, è in gioco non solo la riconquista della società liberale, ma della stessa Chiesa dei cristiani. Marzano mostra in modo molto dettagliato anche lo scollamento tra la religione rappresentata dalle gerarchie e la religione vissuta dai credenti. La Chiesa del potere e la Chiesa della fede».
Questo schema però viene rovesciato da papa Francesco, che introduce una rottura netta rispetto ai simboli e alle pratiche di potere della precedente curia romana, anche nei suoi rapporti con la politica italiana. E si propone come cerniera tra Chiesa istituzionale e Chiesa missionaria.
«Se mi si consente il termine, è un papa grillino. Egli salta tutto il corpo intermedio per arrivare direttamente all’incontro con i fedeli: basti pensare alla frequenza delle sue telefonate o al suo quotidiano uso del twitter. Questo è un dato interessante perché riflette un fenomeno diffuso in tutte le istituzioni generatrici di autorità, religiose o politiche che siano: i cittadini non si sentono più rappresentati da questi corpi intermedi, sia che si chiamino prelati o rappresentanti politici, clero o partiti. Papa Francesco avverte questo divorzio, e riesce a colmarlo con straordinaria abilità».
Per le sue idee e per le sue azioni Francesco appare come l’incarnazione esemplare del postsecolarismo di Habermas: non introduce mai nella sfera pubblica uno stile dogmatico o una prevaricazione sullo Stato. Ma così operando non rischia di demolire le vostre critiche a quella teoria?
«Non credo. Semmai il contrario. Grazie alla sua efficace predicazione, che arriva dalla grande tradizione gesuita, con la rievangelizzazione l’infiltrazione religiosa rischia di diventare ancora più dilagante e capillare. E questo rende ancor più necessario preservare le staccionate per distinguere le varie sfere, quella civile e quella religiosa per esempio».
Nel libro non mancano critiche al «postsecolarismo all’italiana», da Giuliano Amato a Giancarlo Bosetti e Alessandro Ferrara.
«Habermas riflette nelle sue idee la democrazia dell’Europa protestante e degli Stati Uniti, ossia realtà caratterizzate da pluralismo effettivo, mentre questi studiosi provengono da una tradizione che è imbevuta in modo egemonico di una sola religione. Quando si parla del rapporto tra Stato e fede religiosa, la teoria dovrebbe prestare più attenzione al contesto».
IL LIBRO Missione impossibile di Marco Marzano e Nadia Urbinati, l Mulino pagg. 144 euro 14

Repubblica 14.9.13
Bersani accetta il patto con Cuperlo “Non lasciamogli tutto il partito”
Oggi incontro a Milano. La ricerca di uno sponsor ex Dc
di Goffredo De Marchis


ROMA — Anche Pier Luigi Bersani salta su un carro. Secondo i sondaggi è quello perdente, ma ora che l’ex segretario ha scelto il suo candidato alla segreteria gli equilibri possono (in parte) cambiare. Alla festa democratica di Milano, stasera, Bersani avrà un primo contatto diretto con Gianni Cuperlo. A quattr’occhi parleranno del futuro del Pd. Ma il terreno è stato già preparato in questi giorni. I bersaniani hanno incontrato lo sfidante principale di Matteo Renzi siglando un accordo di massima per le primarie. «Il nostro vero candidato era Epifani. Ma non esisteva più lo spazio per una corsa davvero competitiva di Guglielmo. La decisione di Franceschini di appoggiare il sindaco di Firenze ha cambiato le carte in tavola». A questo punto alla componente dell’ex leader di Largo del Nazareno conviene restringere il campo a pochi candidati, avere cioè un solo concorrente in grado di dare fastidio a Renzi.
Con buona pace della rottura tra D’Alema, primo sponsor di Cuperlo, e Bersani. La “ragion di Stato” prima o poi li rimetterà allo stesso tavolo per un chiarimento.
Si salda così un’asse che si muove nell’area degli ex Ds, sul territorio ancora maggioritaria. E si crea, innanzitutto, una forza di maggioranza nell’assemblea nazionale di venerdì e sabato prossimi (dalemiani, bersaniani, giovani turchi), in grado di orientare le votazioni sulle famigerate regole. Il primo punto condiviso da Cuperlo e da Bersani è tenere i congressi locali prima del voto sul segretario nazionale. «Un partito davvero federale, che rispetta l’autonomia dei territori — spiega il deputato Alfredo D’Attorre, capofila dei bersaniani — deve evitare di creare filiere nazionali che condizionino le scelte della periferia». È un paletto che il sindaco di Firenze difficilmente riuscirà a dribblare. Non si può aspettare ad avere una guida politica nei tanti comuni che vanno al voto la prossima primavera, tanto più che molti sindaci uscenti non potranno essere ricandidati e occorre scegliere nuovi profili. Questi sono gli argomenti forti dell’area anti-Renzi. Naturalmente è anche un modo per non consegnare tutto il Pd allo stra-favorito: mantenere un controllo sui segretari locali significa avere un ruolo determinante nella formazione delle liste elettorali. L’altro impegno è quello di promuovere una lista unica a sostegno di Cuperlo. «Una mossa concreta contro le correnti — dice D’Attorre —. Noi facciamo le cose sul serio, altri solo a parole». Un chiaro riferimento alla rottamazione delle componenti proclamata da Renzi. Che oggi ha qualche difficoltà in più a gestire la sua immagine di cavaliere solitario e anti-nomenklatura vista la quantità di endorsement incassati. In quel campo, i renziani della seconda ora potrebbero volere liste multiple per far sentire il peso della loro corrente.
Ma una possibile debolezza del patto tra Cuperlo e Bersani è l’eredità comunista. Il candidato è stato l’ultimo segretario della Federazione giovanile del Pci, D’Alema è considerato da sempre il migliore epigono di quella cultura e Bersani è figlio dell’Emilia “rossa”. Si rischia la rappresentazione di un circolo chiuso. Per questo, nelle “trattative” delle ultime ore, si è molto dibattuto sull’“allargamento” dell’area affinchè vada un po’ oltre l’immagine diessina. Subito dopo l’assemblea nazionale, è in preparazione un appuntamento pubblico che vedrà in prima fila Cuperlo e Franco Marini, figura tutt’altra che secondaria nel mondo degli ex popolari e della cultura cattolica. «Era il loro candidato alla presidenza della Repubblica appena quattro mesi fa», ricordano i bersaniani. All’ex presidente del Senato è affidato il compito di seminare dubbi e ripensamenti nella componente di Franceschini, in parte spiazzata dalla decisione del ministro. E di attirare l’appoggio di movimenti, territori e personalità di orientamento cattolico. Resta poi il rebus legato a Rosy Bindi. Lei cerca un candidato alternativo e il rapporto con Cuperlo sconta la grande distanza di contenutisui diritti civili. Una partita che si delinea con i protagonisti (c’è Pippo Civati sempre in corsa) e con le alleanze interne, rende a questo punto più semplice arrivare a una data del congresso entro l’anno. Senza dubbio un punto a favore di Renzi. L’ipotesi di un rinvio è scongiurata. I pronunciamenti di Franceschini e di Bersani dimostrano che non c’è spazio per posticipare il congresso al prossimo anno. Lo ha capito da tempo anche Enrico Letta, come dimostra la mossa del ministro dei Rapporti con il Parlamento. Ora si attendono le scelte dei lettiani.

l’Unità 14.9.13
Le parole della democrazia
di Michele Ciliberto


Esiste, come è noto, quella che si potrebbe chiamare una superstizione delle parole. Delio Cantimori, uno dei maggiori storici italiani, parlava addirittura di un «bonapartismo» delle parole, per indicare l’uso eccessivo e improprio di termini che hanno senso solo se sono usati nel loro ambito di riferimento.
In questo caso intendo però alludere alla moda, oggi diffusissima, di usare alcune parole come una sorta di totem, quasi «figure» religiose rispetto alle quali l’unico atteggiamento possibile è quello dell’accettazione incondizionata e della condivisione reverente. È una sorta di monolinguismo autoritario, accentuato e propagandato dai media, su cui varrebbe la pena di fare una riflessione perché ha a che fare con la democrazia, come sempre accade quando si tratta di questioni di parole, di linguaggio.
Fino a poco tempo fa la parola-totem era «necessità», quando si parlava della situazione italiana e del governo di «larghe intese». In Italia non erano possibili altre strade: questo e solo questo richiedeva la crisi, questo e solo questo richiedeva l’Europa. Aprire il campo ad altre opzioni sarebbe stato solo segno di irresponsabilità e mancanza di senso della realtà.
Mai dire, poi, che Berlusconi si era deciso a sostenere questo tipo di governo perché aveva perso le elezioni e, soprattutto, per questioni puramente personali, non essendo mai stato animato da alcun interesse per il bene pubblico che non coincidesse con i suoi affari privati: un «fatto», non una «opinione», testimoniato da tanti anni di governo, e dalle innumerevoli leggi ad personam da lui varate a suo esclusivo vantaggio. Certo, Berlusconi era Berlusconi, chi poteva negarlo? Ci sarebbe stato perciò qualche prevedibile scarto, qualche sorpresa, ma era un rischio calcolato, che bisognava correre: le cose si sarebbero aggiustate. È un primo paradosso su cui vorrei richiamare l’attenzione: in una curiosa sarabanda, in Italia più si è accentuata la crisi, più si è affermata una sorta di provvidenzialismo icasticamente rappresentato dalle parole-totem più diffuse: «necessità», «responsabilità», «unità»...
Le cose sono andate diversamente, come vediamo anche in questi giorni: Berlusconi non è riuscito, come contava, a evitare la condanna e sta facendo ballare il Paese e il governo per trovare una via di fuga, mostrando a tutti, anche ai più esperti, quali erano i suoi obiettivi concreti quando è nato il gabinetto Letta. E per riuscire a salvare se stesso e il patrimonio ha iniziato una vera e propria azione di guerriglia, delle cui conseguenze dovrà assumersi la responsabilità se arriverà fino al punto di far cadere il governo.
In questa situazione si è verificata una vera e propria conversione linguistica: alla parola-totem «necessità» si è affiancata, fino a sopraffarla, la parola-totem «stabilità». Dovunque in tv come sui giornali più autorevoli e più convinti della propria missione pedagogica risuona come una sorta di refrain la stessa musica inserita nella medesima costellazione linguistica: l’Italia ha bisogno di stabilità; senza stabilità il Paese va a fondo...
«Stabilità» è una parola neutra: cosa significa oggi, concretamente, fare l’apologia della «stabilità»? Che rapporto effettivo può esserci fra una crisi sociale come quella che attraversiamo e la stabilità? Nessuno, penso, se ci si mette dal punto di vista di quelle che una volta si chiamavano le «classi subalterne». Ma posto pure che fossimo in una situazione ordinaria e di relativo equilibrio sociale, dove è mai scritto che la «stabilità», la quiete, è indice di una condizione positiva per uno Stato, una società? Certo, per le ideologie di carattere conservatore la «stabilità» è il principale pilastro di riferimento. Nei primi decenni del Seicento, per fare un esempio, parole come «mutamento» erano una bestemmia ed erano espulse dal vocabolario politico; mentre il lemma e il concetto di «stabilità» campeggiava in varie forme nei trattati sulla Ragion di Stato. Ma questo si capisce: la «stabilità» è l’obiettivo primario quando si tratta di ideologie conservatrici.
Come stanno invece le cose per una prospettiva e un pensiero democratico, anche in una condizione di emergenza come quella che stiamo vivendo? Vorrei partire da una affermazione fatta da un grande Papa a proposito di una nobile parola. Pace, spiegò una volta Papa Montini, non significa quiete, staticità, stagnazione: ha senso se implica movimento, trasformazione, dinamicità. È una posizione che coincide con i momenti più alti del pensiero laico e democratico: la «stabilità» e la «quiete» generano stagnazione, corruzione e infine decadenza. Gli Stati, come le chiese, non si sviluppano e progrediscono attraverso la «stabilità»: hanno bisogno di trasformazione, di mutamenti; il contrario di quello che pensano i teorici della Ragion di Stato tornati oggi di moda.
Certo, nel pieno della tempesta la «stabilità» può essere un obiettivo da conseguire e il governo Letta sta svolgendo un lavoro assai serio, specie a livello internazionale, che va difeso e sostenuto. Ma qui sto ponendo un altro problema, di ordine strategico: per una cultura politica democratica la stabilità deve restare un mezzo, non può essere trasformata in un fine come rischia di accadere in questo periodo in Italia, in nome della Realpolitik.
C’è qualcosa, oggi, che turba e inquieta e su cui occorre riflettere: si stanno imponendo ideologie che privilegiano l’esistente, il presente, inteso come spazio uniforme e unilineare, senza alternative che non siano quelle dettate da parole-totem come «necessità» e «stabilità» alle quali si rischia di sacrificare molte cose importanti, compreso il rispetto delle norme e delle regole che sono l’anima della democrazia. Si diffondono sensi comuni che tendono a escludere il «mutamento» dall’orizzonte delle possibilità, proprio mentre la società italiana, nel profondo, ribolle e chiede in modi inequivocabili mutamenti radicali e trasformazioni. Con la conseguenza di approfondire ulteriormente il divario, già assai ampio, tra mondo delle istituzioni e della politica e i cerchi sempre più complessi e sofferenti della vita sociale, con il rischio di potenziare i movimenti che si escludono volutamente dalla ordinaria vita parlamentare. Simmetricamente, si diffonde un lessico che toglie spazio alla dimensione del mutamento, della trasformazione, della libertà individuale e collettiva.
Uno dei pochi che oggi, rispetto a tutto questo, ha scelto di muoversi in controtendenza con nettezza e intransigenza è il nuovo Papa che sta mostrando a tutti i livelli compresa la politica internazionale come si possa avere un differente punto di vista sulla realtà e ottenere risultati concreti. E lo fa utilizzando un nuovo lessico imperniato sulla critica dell’esistente e sull’apertura alla speranza, rigettando i totem della «necessità» e della «stabilità».
È un fatto importante e positivo, che dà alla Chiesa cattolica una nuova voce. Ma il pensiero laico e democratico, e il partito che si è dato questo nome, non dovrebbero anche loro dire una parola su questa ideologia della «stabilità», cercando di ricostituire un nesso tanto essenziale quanto precario fra democrazia e linguaggio? Sarebbe bene ricordarsene ogni tanto: quella degli uomini, almeno fino ad ora, è stata una storia materiale di mutamenti e di trasformazioni da cui sono nate, faticosamente, le nostre libertà. E di questa «storia delle libertà» il linguaggio è stato e resta, oltre che un indice importante, uno strumento decisivo.

il Fatto 14.9.13
Giunta e Camere non sono giudici
di Bruno Tinti


Pare che la manfrina paragiuridica di B&C si sia conclusa come meritava: ritiriamo tutto, stavamo solo cercando un’ennesima fuga dal processo, in questo caso dalle sue legali conseguenze. Ma se i nostri esperti pro veritate non vi hanno convinto, pazienza; proviamo con il ricatto puro e semplice. Il delinquente resta tra padri della patria; oppure facciamo cadere il governo. Della serie: muoia Sansone (oddio, Sansone ...) etc; e della legge Severino, costituzionale o no che sia, ce ne freghiamo. A questo punto c'è poco da dire se non che, in effetti, che Sansone e i filistei spariscano sarebbe una fortuna per tutta la Repubblica. Non fosse che per questo, la legge sulla decadenza andrebbe subito applicata.
Per arrivare a questa raffinata argomentazione giuridica hanno detto di tutto.
LA GIUNTA e dopo di lei il Parlamento, debbono essere considerati autorità giudiziaria. Equivalgono a un tribunale e di un Tribunale hanno tutti i poteri. Quindi possono proporre ricorso alla Corte costituzionale per la retroattività della disposizione che impone la decadenza per i politici condannati con sentenza definitiva anche per reati commessi anteriormente all'entrata in vigore della legge. Solo che di incostituzionale qui c'è solo l'attribuzione a Giunta e Parlamento di poteri giurisdizionali: un quarto grado di giudizio esperibile solo per i politici contrasta con l'art. 3 della Costituzione. Perché mai B. e i suoi colleghi dovrebbero beneficiare di una possibilità processuale (magari un’assoluzione dopo tre condanne) di cui nessun altro cittadino potrebbe usufruire? E poi anche perché, quando la Costituzione ha voluto attribuire a un organo politico i poteri dell'autorità giudiziaria, lo ha fatto esplicitamente: così per le commissioni di inchiesta parlamentari (art. 82 Costituzione).
A tutto concedere, potrebbe sostenersi che Giunta e Parlamento svolgono, in occasioni come queste, un ruolo politico: che vuol dire verificare che la condanna non sia dovuta a persecuzione per motivi politici, tesi in linea con l'istituto dall'autorizzazione a procedere, per decenni prevista dall'art. 68 della Costituzione. Ma, appunto, l'istituto in questione è stato abrogato, segno evidente che questo privilegio tale è stato considerato: vantaggio indebito riservato a una ristretta categoria di cittadini. Allora la lettura dell'art. 66 della Costituzione va fatta alla luce di un criterio interpretativo unitario: nessun giudizio politico sulle sentenze dei giudici è costituzionalmente possibile; residuano le autorizzazioni in materia di perquisizioni, arresti, intercettazioni che sono però relative a provvedimenti tipici della fase delle indagini, propri dei pm e adottati in un contesto in cui l'accertamento della colpevolezza ancora non è avvenuto. Sicché la tesi che attribuisce a Giunta e Parlamento un semplice ruolo notarile (presa d'atto della sentenza e deliberazione delle conseguenze legali di essa) è, all'evidenza, l'unica fondata.
E POI, TANTO per cambiare, sono in contraddizione con se stessi. “Rivendichiamo il ruolo di controllo politico del Parlamento! ”. Va bene. Ma allora non potete sollevare eccezione di incostituzionalità perché questo lo può fare solo l’autorità giudiziaria. Se il vostro è un controllo politico delle sentenze, va da sé che non siete giudici. “Allora proponiamo ricorso alla Cedu”. Prima di tutto lo può fare solo B. (che infatti lo ha presentato). Ma poi, di nuovo, bisogna che si mettano d'accordo con se stessi. Se fosse fondata la tesi secondo la quale Giunta e Parlamento possono presentare ricorso alla Corte costituzionale in quanto titolari, in questo caso, di poteri giurisdizionali, ne deriverebbe implicitamente che l'iter giudiziario di B. non è concluso. Ma, come è noto, il ricorso alla Cedu è possibile solo quando tutti i gradi di giudizio sono esauriti.
Tutta fuffa, come si vede. In realtà, in qualsiasi altro Paese del mondo civile, nessuno penserebbe che una legge che prevede la decadenza da cariche politiche per i condannati sia necessaria. Nel mondo civile il politico condannato (veramente anche solo indagato; e anche quello beccato in comportamenti immorali, anche se non penalmente rilevanti) se ne va spontaneamente, umiliato e confuso; e se non lo fa lui, è il suo partito che lo caccia. Nel nostro straordinario Paese, non solo B. non se ne va spontaneamente; non solo le brave persone (qualcuna ce ne sarà, che diavolo!) che militano nel Pdl non chiedono formalmente di cacciarlo; non solo perfino alcuni uomini di “sinistra” (Cristo si rivolterebbe nella tomba, visto che era “socialista” - La Giustizia 5/1888, Camillo Prampolini) sostengono che B., a differenza di tutti gli altri cittadini, ha diritto a un quarto grado di giudizio; ma soprattutto questa gente discute seriamente del fatto che una legge funzionale a espellere i delinquenti dal Parlamento, approvata otto mesi orsono dal Parlamento tutto (in particolare da loro), in realtà è incostituzionale e liberticida. Della serie, sì è giusto buttare fuori i delinquenti dal Parlamento: ma solo quelli nuovi; i delinquenti di più vecchia data ce li teniamo, oramai ci siamo abituati.

La Stampa 14.9.13
La Giunta per le elezioni
La nomina del nuovo relatore mette in imbarazzo il Pd
Fioroni: «Uno dei nostri? sarebbe una follia». Nessuno vuol passare per il «grande inquisitore»
di Francesca Schianchi


In un corridoio di Montecitorio, l’ex ministro Beppe Fioroni scuote la testa. «Sarebbe una follia anche solo che il Pd pensasse di farlo», ripete. L’argomento è l’ormai celeberrima Giunta per le elezioni del Senato, impegnata a discutere su Berlusconi. E quello che all’esperto deputato democratico sembra «una follia» è l’ipotesi che il prossimo, probabile relatore della questione possa essere un uomo del Pd. Succede infatti che la Giunta, mercoledì, procederà al voto sulla relazione del Pdl Augello: prevedibile è la bocciatura della proposta; a quel punto, toccherà al presidente Stefano indicare un nuovo relatore tra la maggioranza che avrà votato contro e che, presumibilmente, sarà composta da Pd, M5S e Scelta civica. Chi, quindi?
Una scelta che, vista la delicatezza della questione, non è neutra per i democratici. Conviene fare incarnare a uno di loro quello che chiederà la decadenza di Berlusconi e, nella narrazione del centrodestra, diventerebbe immediatamente il grande inquisitore? «Una follia», dice Fioroni, meglio affidare il ruolo a qualcuno di un altro partito. Il capogruppo in Giunta Giuseppe Cucca si appella alla procedura ricordando che «si tratta di una prerogativa del presidente scegliere il nuovo relatore e individuare la figura più opportuna». Che, ricorda il lettiano Francesco Sanna, dovrà saper spiegare chiaramente la situazione. «Perché dovrà sostenere la seduta pubblica, con i membri della Giunta schierati ma che non parleranno, il senatore Berlusconi che, se vuole con i suoi legali, potrà difendersi, e tv di tutto il mondo puntate addosso. Il nuovo relatore dovrà essere qualcuno capace di spiegare con chiarezza la posizione al Paese intero», sottolinea Sanna. Magari, dice più di uno, sarebbe meglio evitare che venisse scelto uno dei membri democratici della Giunta tra quelli che hanno spesso rilasciato dichiarazioni e interviste. «Sono certo che chiunque dei componenti della Giunta del Pd ricoprirebbe il ruolo con scrupolo e sulla base delle carte, perché non si tratta di una scelta politica – assicura il veltroniano Walter Verini –, ma forse per evitare di fornire alibi e scuse per strumentalizzare la questione, sarebbe meglio scegliere qualcuno che non si è troppo esposto con dichiarazioni nei giorni scorsi». Il capogruppo Cucca spiega che «noi non ci siamo neppure posti il problema, perché sarebbe un’ingerenza nelle prerogative del presidente». Ma forse una valutazione nei giorni prossimi andrà fatta.

il Fatto 14.9.13
M5S: foto, minacce e “oscuri informatori”
I parlamentari smentiscono la nascita di nuovi gruppi
Pizzarotti: “Non farò il sottosegretario”
Ma è tutti contro tutti
di Paola Zanca


Minacce, fotografie, sms, “oscuri e segreti informatori”. L’aria intorno al Movimento Cinque Stelle è piuttosto tesa. Le notizie sul progetto – ancora in divenire e in balìa degli eventi – di un nuovo gruppo al Senato e del suo corrispettivo alla Camera scatenano un coro di smentite. Prendono le distanze i tre friulani eletti in Parlamento: il senatore Lorenzo Battista e i deputati Aris Prodani (“Mai, dalla mia bocca, è uscita un’ipotesi del genere. Sono stato eletto con il M5S. E con il M5S terminerò il mio mandato”) e Walter Rizzetto (“Vado avanti dritto per la mia strada. Il contraddittorio non è dissidenza come del resto il solo dialogo non è tradimento” ). Si tirano fuori Alessio Tacconi, Ivan Catalano, Gessica Rostellato e Paola Pinna (“Fantasie”), mentre Francesco Campanella manda a dire alla “fonte di quelle voci” che “può rosicare fino allo spasimo”: lui non se ne va. Ormai è guerra tra bande. E lo dimostra l’ultima puntata della crisi di nervi a Cinque Stelle. Si tratta di una foto, scattata con un cellulare l’altro ieri nell’aula del Senato. Ritrae tre dei senatori “indiziati” (lo stesso Campanella, Battista e Fabrizio Bocchino) intenti a leggere qualcosa sul computer. La paranoia interna ha raggiunto livelli tali che la considera la prova madre della “cospirazione”: pochi minuti dopo quello scatto, Battista pubblicherà su Facebook un post condiviso dal fuoriuscito Zaccagnini e dai colleghi Luis Orellana, Monica Casaletto, Alessio Tacconi, Fabrizio Bocchino in cui, tra le altre cose, si chiedeva: “Mesi fa ebbi modo di chiedere se il M5S si sarebbe fatto trovare pronto quando B. avrebbe staccato la spina al governo. Siamo pronti? ”.
Federico Pizzarotti pare di no. Ieri ha risposto agli “oscuri informatori” che lo “avrebbero avvisato della certa caduta dell’attuale governo”, secondo i quali “il primo ottobre mi dimetterei da sindaco pronto per essere chiamato a un incarico da sottosegretario in un ipotetico Letta bis, oppure che mi candiderei a futuro premier”. “Tranquillizzo i detrattori – dice Pizzarotti – sono stato eletto sindaco di Parma e non c’è altro a cui penso”.
È un clima che scatena gli istinti più bassi e retrivi della Rete, tanto che molti degli eletti denunciano inaccettabili minacce ricevute sui profili Facebook e Twitter. Hanno chiesto a Beppe Grillo in persona di abbassare i toni, perchè l’aria è pesante. Lui ha risposto ieri aprendo sul blog la tanto attesa sezione dedicata all’attività dei parlamentari e rendendo pubblico il discusso intervento di Gianroberto Casaleggio a Cernobbio. Il guru agli imprenditori ha parlato dell’avvento della democrazia diretta: “Si diffonderà in futuro grazie all’aumento dell’informazione libera dovuto a Internet”. Poi ha ricordato la prima apparizione di Nixon e Kennedy in tv: “Allora si disse: ‘mostratemi un politico che non capisce la televisione e vi mostrerò un perdente’, oggi vale la stessa cosa: ‘mostratemi un politico che non capisce Internet e vi mostrerò un perdente’”.

La Stampa 14.9.13
Cinque Stelle
Video-lezione di Casaleggio “Il Parlamento risponda al web”
di Andrea Carugati


Esangue e pallido come un gallese di campagna, accompagnato dal suono magneticamente soporifero di una chitarra classica, Gianroberto Casaleggio, profetica guida del Movimento 5 Stelle, presenta sul blog di Grillo - in un video in cui le sue immagini da fotoromanzo si alternano alle slide che accompagnano i ragionamenti - il controverso discorso tenuto a Cernobbio l’8 settembre davanti alla platea più potente del Paese. La supposta Casta che detesta e blandisce.
Nelle foto Casaleggio appare come un uomo con un fascino disordinato, che dà l’impressione di avere una gamma di emozioni che ballano tra la malinconia e la scontrosità. Ma soprattutto una lezione da impartire. Spiega agli astanti la rivoluzione internet. E gli effetti che produrrà l’accesso globale dei cittadini all’informazione. Le prospettive di un mondo che sta per passare da un triciclo a una Kawasaki. «La democrazia diretta si diffonderà grazie all’aumento dell’informazione libera. Internet non è solo un super-media destinato a assorbire tutti gli altri, è lo strumento che sta trasformando la società». Benvenuti su un pianeta in cui tutti sanno tutto, in cui i media classici non esistono più, in cui i politici esistono solo se soddisfano le esigenze dei cittadini. Chi non è all’altezza viene rispedito a casa dai suoi elettori con l’utilizzo del recall. «Se il recall fosse presente nel nostro Parlamento, il Parlamento sarebbe molto diverso». Forse. O forse il recall lo utilizzerebbero anche le organizzazioni criminali. Chissà.
In attesa di raggiungere l’obiettivo - apparentemente non vicinissimo - di avere una classe di elettori informati, il Guru dovrebbe trovare un modo per tenere informati i propri parlamentari, che da mesi lavorano su una proposta di legge elettorale. Peccato che Grillo e Casaleggio abbiano deciso di chiedere alla Rete quale sistema gradirebbe. E per agevolare la coscienza dei propri cittadini si affideranno a una serie di costituzionalisti (neutrali?) che terranno lezioni sui vari modelli possibili. A quel punto interverrà la scelta popolare. E il lavoro dei loro portavoce-parlamentari? Preistorica carta straccia.

l’Unità 14.9.13
Calano gli aborti aumentano gli obiettori
Relazione al Parlamento sui dati 2011-12: -5% d’interruzioni volontarie di gravidanza. Dimezzate in 30 anni
Complessivamente, si praticano 105mila Ivg l’anno: uno dei dati più bassi dei Paesi occidentali
Il 70% dei ginecologi non applica la 194
di Pino Stoppon


Calano gli aborti. È stata trasmessa ieri al Parlamento la relazione annuale sull’attuazione della legge 194/78, sulla tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), che presenta i dati preliminari relativi al 2012 e quelli definitivi del 2011. Nella relazione ancora una volta viene confermato il trend degli anni precedenti: una diminuzione delle interruzioni volontarie di gravidanza secondo tutti gli indicatori. I dati preliminari indicano che nel 2012 sono state effettuate 105.968 Ivg, con un calo del 4,9% rispetto al dato definitivo del 2011 (111.415 casi) e un decremento del 54.9% rispetto al 1982, anno in cui si è registrato il più alto ricorso all’Ivg: allora furono 234.801 casi. Il tasso di abortività (numero delle Ivg per 1000 donne in età feconda tra 15-49 anni), l’indicatore più accurato per una corretta valutazione della tendenza al ricorso all’Igv, nel 2012 è risultato pari a 7,8 per 1.000, con un decrementi simili al dato generale.
«Per la prima volta ha commentato il ministro della Salute Beatrice Lorenzin è stato avviato un monitoraggio articolato sul territorio relativamente ad alcuni aspetti dell’applicazione della 194, quelli più specificamente legati all’obiezione di coscienza, che arriva fino ad ogni singola struttura e ad ogni singolo consultorio. I dati della relazione indicano che relativamente all’obiezione di coscienza e all’accesso ai servizi la legge ha avuto complessivamente una applicazione efficace. Stiamo lavorando per verificare, insieme alle Regioni, la presenza di eventuali criticità locali per giungere al più presto al loro superamento».
Dal 1983 il tasso di abortività è diminuito in tutti i gruppi di età, più marcatamente in quelli centrali. Tra le minorenni, nel 2011 è risultato pari a 4,5 per 1000 (stesso valore del 2010), con livelli più elevati nell’Italia settentrionale e centrale. Come negli anni precedenti, si conferma il minore ricorso all’aborto tra le giovani in Italia rispetto a quanto registrato negli altri Paesi dell’Europa Occidentale, così come minore è la percentuale di aborti ripetuti e di quelli dopo novanta giorni di gravidanza. Rimane elevato il ricorso all’Ivg da parte delle donne straniere, a carico delle quali si registra un terzo delle Ivg totali in Italia: un contributo che è andato crescendo negli anni e che si sta stabilizzando.
Nella relazione si osserva anche come l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza abbia riguardato elevate percentuali di ginecologi fin dall’inizio dell’applicazione della Legge 194, con un aumento percentuale del 17,3% in trenta anni, a fronte come si è visto di un dimezzamento delle Ivg nello stesso periodo. In particolare, una stima della variazione negli anni degli interventi di Ivg a carico dei ginecologi non obiettori mostra che dal 1983 al 2011 gli aborti eseguiti mediamente ogni anno da ciascun non obiettore si sono dimezzati, passando da un valore di 145,6 Ivg nel 1983 (pari a 3,3 ivg a settimana, ipotizzando 44 settimane lavorative annuali, valore utilizzato come standard nei progetti di ricerca europei) a 73,9 ivg nel 2011 (pari a 1,7 aborti a settimana, sempre in 44 settimane lavorative in un anno).
I numeri complessivi del personale non obiettore appaiono congrui al numero complessivo degli interventi d’interruzione di gravidanza.
Eventuali difficoltà nell’accesso a questi «percorsi» sembrano quindi dovuti ad una distribuzione inadeguata del personale fra le strutture sanitarie all’interno di ciascuna regione. In collaborazione con le Regioni, il Ministero delle Salute ha avviato un monitoraggio a livello di singole strutture ospedaliere e consultori per verifica-
re meglio le criticità e vigilare, attraverso le Regioni, affinché vi sia una piena applicazione della Legge su tutto il territorio nazionale, in particolare garantendo l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza dei singoli operatori sanitari che ne facciano richiesta e, al tempo stesso, il pieno accesso ai percorsi di Ivg, come previsto dalla Legge, per le donne che scelgano di farvi ricorso.

La Stampa 14.9.13
L’annuale relazione al Parlamento
Aborti in calo, ma non tra le minorenni
I medici obiettori di coscienza cresciuti del 17% in 30 anni
Il ministro: la via farmacologica assente in molte regioni
di Flavia Amabile


La legge 194 sull’interruzione di gravidanza è applicata efficacemente. La ministra della Salute Beatrice Lorenzin presenta la relazione annuale da trasmettere in Parlamento e si dice soddisfatta. Eppure, ad analizzare bene il documento, si scopre che c’è l’usuale ritardo di mesi e mesi rispetto alla scadenza prevista per la presentazione, ci sono le interruzioni che non calano fra le minorenni e le donne immigrate, ci sono gli obiettori di coscienza che lievitano (sono aumentati del 17% in 30 anni, scrive la relazione) e ci sono intere regioni dove l’aborto farmacologico non è possibile.
Il vero dato positivo è il calo costante delle interruzioni di gravidanza. Nel 2012 sono stati effettuati 105.968 aborti con un calo del 5% rispetto all’anno precedente quando le interruzioni di gravidanza erano state 111.415. Dal 1982, anno in cui si hanno i primi dati sull’applicazione della legge, si è avuta in totale una diminuzione del 54,9% degli interventi (allora si era a quota 235 mila interruzioni).
A questo trend fanno eccezione le minorenni e le donne immigrate. Il tasso di abortività delle minori, è stato nel 2011 il 4,5 per 1000, lo stesso valore del 2010. Per le immigrate il ministero non ha ancora fornito dati definitivi ma informa che si tratta di tassi «elevati e costanti», e gli aborti che le riguardano sono un terzo del totale.
Fra le italiane, invece, il numero di aborti per mille donne, dai 15 ai 49 anni è calato in un anno dal 2011 al 2012 dell’1,8%, siamo a 7,8 per mille. Si conferma la tendenza tutta italiana di fare meno ricorso alle interruzioni di gravidanza rispetto al resto dei Paesi industrializzati, tendenza confermata anche fra le minorenni rispetto alle coetanee europee.
Secondo il ministero non esiste un’emergenza obiettori»: il numero di Ivg praticate ogni anno dai ginecologi non obiettori si sono dimezzate, passando da 146 all’anno nel 1983 a 74 nel 2011. Secondo la relazione «i numeri complessivi del personale non obiettore appaiono congrui al numero complessivo degli interventi di Ivg» Se poi ci sono difficoltà sono dovute «ad una distribuzione inadeguata del personale fra le strutture sanitarie all’interno di ciascuna regione». La realtà è che sette ginecologi su 10 sono obiettori e che in 30 anni sono cresciuti del 17% anche se ora la loro percentuale rispetto al totale sta stabilizzandosi. La ministra Lorenzin ha avviato a giugno, per la prima volta, un monitoraggio insieme alle regioni per capire che cosa accade «fino ad ogni singola struttura e ad ogni singolo consultorio».. Per Eugenia Roccella, deputata del Pdl la relazione mostra che «ciascun non obiettore ha a proprio carico 1,7 interruzioni a settimana. Il loro carico di lavoro è molto basso».

l’Unità 14.9.13
Rafforzare i centri di salute mentale
di Nerina Dirindin

Senatrice Pd

L’OMICIDIO DELLA DOTTORESSA PAOLA LABRIOLA DI BARI È L’ENNESIMA MORTE SUL LAVORO, DI FRONTE ALLA QUALE NON PUÒ CHE ESSERCI RISPETTO E MEDITATA PARTECIPAZIONE. Per chi si occupa di politiche sanitarie, l’omicidio è anche l’occasione per riflettere ancora una volta sulle azioni necessarie per qualificare l’attività svolta dai servizi di salute mentale, promuovere servizi inclusivi ed integrati e migliorare le condizioni di lavoro degli operatori.
Una premessa è necessaria: a uccidere la dottoressa Labriola è stato un giovane uomo, non la malattia mentale. La relazione tra violenza e malattia mentale, luogo comune molto diffuso, non è dimostrata dalle evidenze scientifiche. Anche nei casi in cui comportamenti violenti e disturbo mentale sono associati, le ricerche non documentano un rapporto di causa effetto; anzi i dati mostrano che il tasso di reati gravi commesso da persone con disturbo mentale non è superiore a quello dei cosiddetti «normali». Non si può quindi rispondere a questi episodi invocando solo il ricorso a misure di sicurezza. In Italia i manicomi sono chiusi da ben 35 anni e, malgrado le più nere previsioni, non abbiamo assistito ad una crescita generalizzata della criminalità legata alla malattia mentale, né ad un aumento drammatico degli internati negli ospedali psichiatrici giudiziari. La riduzione dei livelli di violenza si ottiene con la cultura dell’accoglienza, facendo in modo che le persone siano seguite da una adeguata rete di servizi; non si ottiene con un aumento del numero di telecamere, guardie giurate e campanelli d’allarme applicati a servizi scadenti e sottofinanziati. Per fare in modo che gli operatori e anche i pazienti siano al sicuro, le persone devono essere inserite in un sistema territoriale di servizi efficiente. Quando i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura funzionano bene, a porte aperte e senza contenzione fisica, gli episodi di aggressività dei ricoverati sono significativamente inferiori a quelli registrati dove le porte sono chiuse e si pratica la contenzione meccanica.
È alla luce di questi dati e dell’analisi delle buone prassi che bisogna domandarsi cosa possiamo fare perché tragedie come quella di Bari non accadano più.
Come scritto nella legge 180 e nei progetti obiettivo di salute mentale, servono servizi di salute mentali «forti», dotati di adeguate risorse umane, radicati nel territorio ed integrati con gli altri servizi socio-sanitari: Centri di Salute Mentale aperti sette giorni alla settimana, almeno 12 ore al giorno, capaci di accogliere la persona nella sua globalità di bisogni e farsi carico del suo contesto sociofamiliare, sostenerla negli ambienti naturali di vita avviando progetti individualizzati e attivando i budget di salute. Ad oggi, nella quasi totalità delle Regioni, i Csm sono invece solo ambulatori specialistici che forniscono risposte frammentate e parcellizzate, dove gli operatori lavorano da soli, spesso demotivati, quando non in pericolo. Paola Labriola era sola a fare accoglienza: non mancava la guardia giurata come alcuni hanno detto, ma mancava l’equipe,  mancava una rete di servizi di supporto. E continuare a far mancare quella rete, non migliora la sicurezza di nessuno, ma rende tutti noi corresponsabili di questi episodi drammatici.
E la morte della dottoressa Labriola non è, purtroppo, che la più recente di una lunga lista di morti, su differenti fronti, frutto della difficoltà a realizzare un reale rinnovamento nei servizi di salute mentale. Ricordiamo Giuseppe Casu, morto a Cagliari dopo aver trascorso 144 ore legato al letto, oppure Franco Mastrogiovanni, morto a Vallo della Lucania nelle stesse tragiche condizioni, dopo 84 ore. E l’ultimo tragico episodio, che risale solo al 12 agosto, a Civitavecchia, dove un uomo ha cercato di liberarsi dai lacci che lo costringevano usando un accendino, finendo per bruciare vivo.
La politica di riordino dell’organizzazione dei servizi della salute mentale preannunciata in Puglia meriterebbe qualche approfondimento. L’accorpamento dei servizi territoriali porterà sì ad un aumento di personale, ma a fronte di una triplicazione del bacino d’utenza per ogni Csm, aumentando la distanza degli operatori dalla comunità, dalla quotidianità della vita delle persone. Preoccupa che la Puglia spenda due terzi delle risorse per la salute mentale per ricoveri in istituti, strutture e comunità sedicenti terapeutiche e che i dieci Servizi psichiatrici ospedalieri di diagnosi e cura, sempre affollati, operino con le porte chiuse e facciano ricorso alla contenzione. Si torni invece ad investire sui servizi territoriali, mantenendoli vicini ai pazienti e alle loro famiglie; riqualifichiamo la spesa, sosteniamo e ri-motiviamo gli operatori, riconoscendo loro professionalità e dedizione. Evitiamo di attribuire troppo facilmente le responsabilità degli episodi drammatici ai pazienti e asteniamoci dal strumentalizzare le morti.

il Fatto 14.9.13
Usa
50 anni a un prete pedofilio

Shawn Ratig, il prete scoperto ad aver scattato centinaia di foto “intime” o pornografiche di bambini della sua parrocchia a Kansas City, è stato condannato a 50 anni di carcere. Il giudice ha deciso una pena di 10 anni per ognuno dei 5 bambini violati nella loro intimità.

Repubblica 14.9.13
Nuova Delhi, condannati a morte gli stupratori della studentessa Folla in festa davanti al tribunale
I genitori: “Giustizia è fatta”. I media: sentenza storica
Ma non sarà il boia a salvare le donne
di Shoma Chaudhury


LA VIOLENZA subita da una sola ragazza, il 16 dicembre del 2012, ha avuto l’effetto mirabolante di risvegliare la coscienza di un Paese intero. Ha spinto un miliardo e duecento milioni di cittadini di una nazione zeppa di contraddizioni a guardarsi dentro come mai forse avevano fatto prima.
L’ondata di rabbia generata dallo stupro di gruppo New Delhi è stata benvenuta e catartica. Oggi nei salotti scintillanti della classe media urbana, così come nelle catapecchie di villaggi e baraccopoli, lo stupro ha smesso di essere tabù. Sedute attorno a un tavolo, intere famiglie hanno iniziato a discutere di quanto strisciante fosse la misoginia nel Paese, se le donne avessero paura di denunciare gli stupri che subivano perché non sarebbero state viste come vittime, ma come colpevoli. Fino a ieri questa concezione patriarcale così crudele permeava non solo la struttura familiare, ma anche le istituzioni statali. Tanto che persino le forze dell’ordine non si prendevano più di tanto il disturbo a indagare le denunce di stupro che ricevevano da chi aveva il coraggio di farsi guardare dagli agenti come una sgualdrina per quello che aveva subito.
Il processo di introspezione che è seguito alle imponenti proteste di piazza di dicembre e gennaio ha messo a nudo tutto questo. Lo stupro di una studentessadi ventitré anni hamostrato all’India le sue debolezze, ma alla fine le ha infuso anche forza. Ha mostrato quanto lo stupro in India fosse giustificato culturalmente, quanto fosse usato come rozzo strumento di controllo sulle donne, esercitato anche dalle caste alte verso quelle più basse. Ma dopo quell’evento l’India ha iniziato a percorrere un processo difficile, ma essenziale, di coraggio e maturità. Ha iniziato a sanare quell’enorme contraddizione tra un Paese in preda a una spumeggiante emancipazione economica, ma ancora attraversato da una cultura profondamente tradizionalista, dove il rispetto dei costumi può diventare pretestuosamente l’àncora a cui aggrapparsi nella disorientante fase di globalizzazione.
Eppure questo processo di introspezione ha avuto anche effetti terrificanti. Sull’onda emotiva delle proteste lo Stato si è arrogato il diritto di togliere la vita a quattro uomini colpevoli di uno stupro. Può uno Stato che fregia di chiamarsi la più grande democrazia al mondo arrogarsi questo diritto? La pena di morte è una condanna estremamente sproporzionata anche di fronte al più orribile dei reati. Non c’è alcun dubbio che gli autori dello stupro delloscorso dicembre, che hanno martoriato il corpo di quella povera ragazza al punto da farla morire per le lesioni interne che le avevano provocato, andavano puniti con estrema durezza. Ma la sentenza emessa dal tribunale di Nuova Delhi non servirà da deterrente verso potenziali stupratori. Non aiuterà a salvare altre donne dall’infamia della violenza carnale. Al contrario, la legge che quest’anno, sull’onda emotiva dell’indignazione sollevata dallo stupro di Delhi, ha esteso la pena di morte anche ai colpevoli di violenze non farà che causare la morte di altre donne. Perché ora chi commetterà questo crimine preferirà uccidere la sua vittima per cancellare la prova vivente di quel gesto.
(Testo raccolto da Valeria Fraschetti)

Repubblica 14.9.13
Stefano Rodotà affronta al Festival di filosofia il rapporto tra leggi e passioni
Diritto d’amore
Perché i sentimenti sfuggono alle regole
di Stefano Rodotà


Nel 1943, nella Roma occupata dai tedeschi, uno dei maggiori giuristi del tempo, Filippo Vassalli, distoglie per un momento lo sguardo dal “tramonto sanguigno della nostra civiltà” e si dedica a un piccolo e raffinato libro nel cui titolo, inattesa, compare la parola “amore”. Inattesa, perché rompe la sequenza dei riferimenti a categorie giuridiche che vogliono ridurre il rapporto amoroso a un potere proprietario sul corpo del coniuge. E perché impone l’attenzione per quella che può apparire come una relazione impossibile – quella tra amore e diritto.
Nel definire la vita, Michel de Montaigne ne aveva parlato come di “un movimento ineguale, irregolare, multiforme”. Qualcosa, dunque, che per la sua intima natura si presenta irriducibile alle esigenze di un diritto che parla invece di eguaglianza, regolarità, uniformità, dunque di astrazioni che non tollerano l’imprevedibile, il volubile, la sorpresa. Lo stesso può dirsi dell’amore, che consegna alla vita il massimo di soggettività, la immerge nelle passioni, nell’intimo di motivi che la regola giuridica non può e non vuole cogliere, perché intende parlare il linguaggio della ragione e non dei sentimenti. Ancora una volta le ragioni del cuore che la ragione non può comprendere?
Forse il tentativo più intenso di sfuggire a questa logica conflittuale può essere cercato in un poema di W. H. Auden, Law Like Love, dove un tratto comune è ritrovato nel fatto che, quando il diritto viene considerato dal punto di vista della singola persona, diviene anch’esso legato ad una vita che lo rende indefinibile in termini astratti, appunto come l’amore. Un paradosso poetico o una indicazione di cui profittare?
Nell’esperienza storica, il diritto ha variamente definito un perimetro chiuso, l’unico all’interno del quale l’amore può essere considerato giuridicamente legittimo – il rapporto coniugale. In questo perimetro viene poi operata una seconda riduzione, riportando il rapporto tra i coniugi a uno schema patrimoniale, che vede il coniuge proprietario del corpo dell’altro coniuge o creditore di prestazioni sessuali.
Viene così costruito uno spazio giuridico recintato, governato dalla ragion pubblica e dall’autorità maschile, nel quale l’amore è sostituito dalla gerarchia, con il marito “capo della famiglia”. Si perdeva così il senso delle parole di Paolo nella prima Lettera ai Corinzi: «la moglie non ha potere sul suo corpo, ma il marito. Allo stesso modo non è il marito ad avere potere sul proprio corpo, ma la moglie». In questo reciproco possesso era fondata l’eguaglianza tra i coniugi, che morale religiosa e regola giuridica poi tenacemente contrasteranno, in un contesto fatto di diffidenze, se non di ostilità, di limiti imposti dal buon costume e dall’ordine pubblico, con barriere invalicabili per un diritto riconducibile all’amore.
Sul testo più rappresentativo della modernità giuridica, il codice civile francese del 1804, non soffia lo spirito di Olympe de Gouges e della sua Dichiarazione dei diritti delle donne e delle cittadine che, in nome del “sesso superiore per bellezza e coraggio”, si apre proclamando che “la donna nasce libera e rimane eguale all’uomo per quanto riguarda i diritti”. Al contrario, in quel codice il diritto di famiglia è impregnato delle “turcherie” di Napoleone che, all’epoca della campagna d’Egitto, era stato colpito dal modo in cui il diritto islamico regolava i rapporti tra donna e uomo. E il linguaggio del suo codice non potrebbe essere più eloquente: «ilmarito ha il dovere di proteggere la moglie, la moglie di obbedire al marito». Un modello che si diffonderà oltre i confini francesi, troverà accoglienza nella legislazione italiana, con una minuzia di prescrizioni che allargherà ancora di più il fossato tra amore e diritto.
Obbedienza e subordinazione, logica autoritaria e patrimonialistica, senza spazio per gli affetti. Certo, le donne non perdono il potere domestico, “il potere delle chiavi”, a condizione di rimanere nel triangolo che la tradizione tedesca indica con le tre K di “Kinder, Kuche, Kirche” (bambini, cucina, chiesa). E rimane il potere di influire sulla sfera pubblica grazie a quella che, sempre Olympe de Gouges, ha chiamato «l’administration nocturne des femmes ».
Oltre questi confini il diritto fa comparire l’amore con i segni della stigmatizzazione sociale e della sanzione penale. Reato l’adulterio; “figli della colpa” quelli nati fuori del matrimonio; repressione della sessualità femminile; negazione dell’identità omosessuale; irrilevanza delle unioni di fatto. Ci imbattiamo così in un “amore fuori legge”..
Sono queste le ripide mura da scalare per costruire una cittadinanza giuridica per l’amore. Per ciò il diritto deve ritirarsi progressivamente da molti degli spazi che aveva occupato. E quindi: libertà attraverso il divorzio al posto del matrimonio indissolubile; eliminazione dell’adulterio come reato; riconoscimento della libertà sessuale attraverso il legittimo ricorso alle tecniche anticoncezionali e alla interruzione della gravidanza; e, soprattutto, riforma del diritto di famiglia, che nel 1975 sostituisce il modello gerarchico con quello paritario, fondato sugli affetti, e riconosce i diritti dei figli nati fuori del matrimonio. Al posto della norma costrittiva troviamo la volontà delle persone, libere di costruire la loro vita e l’insieme delle relazioni, non più chiuse nel perimetro obbligato del matrimonio. Scompaiono l’impropria identificazione tra peccato e reato e il peso di una morale di cui il diritto si faceva custode, in una visione pubblicistica che vincolava le persone non alla realizzazione dei sentimenti, ma alla stabilità sociale e alla continuazione della specie.
A fondamento di questo rinnovato modo di guardare alle persone troviamo il riconoscimento dell’eguaglianza, la logica dei diritti fondamentali, la scoperta del corpo. Qui è visibile l’influenza dal pensiero femminista, ineliminabile presenza critica. La centralità del corpo ridisegna il tema dall’identità,propizia la rilevanza costituzionale del riferimento alle “tendenze sessuali”. L’amore non è sciolto da tutti i vincoli, non è “il libero amore” associato ai momenti rivoluzionari. Ma l’aver liberato la vita affettiva da una serie di obblighi coatti, l’aver attribuito un ruolo centrale alla volontà delle persone, l’aver messo al centro dell’attenzione i dati di realtà e non solo le categorie giuridiche, sono i fondamenti di un diverso rapporto tra amore e diritti.
Non siamo approdati ad una situazione pacificata. Forse la questione che meglio esprime tensioni e opportunità è quella del matrimonio tra persone dello stesso sesso, ormai centrale nel dibattito pubblico e nella legislazione di un numero crescente di paesi, con una Italia che arranca, prigioniera ancora di quella che Martha Nussbaum ha definito “la politica del disgusto”. Ma dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea viene una indicazione ineludibile: matrimonio e altre forme di convivenza sono messe sullo stesso piano, e scompare il riferimento alla diversità di sesso.
Resi sempre meno costrittivi i vincoli giuridici, e accresciuta la possibilità per le persone di utilizzare modelli diversi nei quali riversare il loro desiderio d’amare, possiamo dire che siamo di fronte ad un amore “a bassa istituzionalizzazione”. Questo non fa certo scomparire un riferirsi all’amore come travestimento del narcisismo, addirittura come giustificazione della pretesa violenta di mantenere il possesso del corpo del partner. Ed è pure vero, come sottolinea Silvia Vegetti Finzi, che «in un mondo incerto manca all’amore una cornice sociale che lo confermi e lo stabilizzi». Sociale, appunto, sì che sarebbe un vano e pericoloso rifugiarsi nel passato esigere di nuovo un diritto che si impadronisca della vita delle persone.

Repubblica 14.9.13
L’intellettuale americano è morto a 73 anni
Addio a Berman, marxista e moderno
di Federico Rampini


Marshall Berman (1940-2013) Tra i suoi saggi L’esperienza della modernità

NEW YORK Nelle più diffuse traduzioni italiane, la frase è fin troppo esplicitata: «Tutto ciò che era stabilito e rispondente alla situazione sociale svanisce», oppure «si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi». Nella versione originale delManifesto comunista di Karl Marx e Friederich Engels l’immagine è più astratta, misteriosa. Citata da sola richiama un trattato di fisica. «Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria». Significa che il potere rivoluzionario del capitalismo non risparmia nulla: ha travolto società feudali scaraventandole nella modernizzazione, e prima o poi la sua furia distruttiva dissolverà la stessa borghesia. È quella frase che Marshall Berman scelse come titolo del suo libro più bello e più fortunato, pubblicato in Italia dal Mulino. Fu una fatica durata dieci anni, cominciò a scrivere nel 1971 e finì nel 1981. Ne valeva la pena: fu all’origine di un revival d’interesse americano per il marxismo, capace di sopravvivere alla caduta del Muro di Berlino. Trent’anni prima della grande crisi del 2008 o di Occupy Wall Street, Berman aveva riscoperto una lettura marxista del suo tempo, rifiutandosi di abbandonare quei testi alla critica dei roditori. Edmondo Berselli in
Adulti con riservalo ricordò come «una specie di elefante barbuto, nello stesso tempo goffo ed agile, divertentissimo da osservare mentre in un bar veneziano mangiava la pizza con le mani impiastricciandosi le dita, se la ficcava in bocca sporcandosi la barba»...
È morto come lo ricordava Berselli: stroncato da un infarto l’11 settembre, a settantatre anni, mentre mangiava in uno dei suoi “diner” preferiti, il Metro dell’Upper West Side. Newyorchese fino al midollo, nato nel South Bronx, laureato alla Columbia, docente al City College, Berman negli ultimi anni si era dedicato proprio alla storia della sua città, curando un’opera collettiva sulla Grande Mela “dal blackout a Bloomberg”. Teorico della modernità, la studiava nei grandi fenomeni sociali così come nella vita personale. Pubblico e privato facevano tutt’uno per lui, questo contribuiva al fascino dei suoi scritti: «Essere moderno, vuol dire sperimentare la propria vita personale e sociale come un vortice, trovarsi in una perpetua disintegrazione e trasformazione, fra turbamento e angoscia, ambiguità e contraddizione ». Cioè, appunto, essere parte di un universo in cui tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria. Berman era capace di scrivere con la stessa prosa seducente sul Faust di Goethe, su Dostoevskij, o sull’architettura di Manhattan. Al centro del suo pensiero c’è la potenza creatrice e devastante della modernità. Non lo convinceva il pensiero “leggero” dei post-moderni. Anche in questo incrociava la sua filosofia con la sua esperienza di vita, segnata da tragedie come il suicidio della prima moglie. Da Dissent aThe Nation allaNew York Review of Books, la sua firma è stata su tutte le riviste più radicali e impegnate, dove l’intellighenzia newyorchese non rinuncia a esercitare la critica del presente. Era convinto, con Marx, che non basti interpretare la storia, occorre cambiarla.

l’Unità 14.9.13
Da oggi è in libreria «Sole nero»
Julia Kristeva. Sms ai lettori italiani
Un viaggio affascinante nella depressione e nella melanconia
Anticipiamo l’introduzione al nuovo libro della semiologa francese sull’attualità
di questo «sole nero»
Certi problemi non sono «solubili». Ma ciascuno può aprire la cicatrice delle sue pene e metterle in discussione
L’unica arma che abbiamo per combatterlo è la cultura
di Julia Kristeva


Sole nero. Depressione e melanconia di Julia Kristeva traduz. Alessandro Serra pagine 215 euro 27,50 Donzelli
Due tesi sostengono questo libro: la prima è che la «melanconia» degli antichi, abbia assunto ai giorni nostri il volto di una malattia riconoscibile: la depressione. La seconda è che quest’ultima, proprio perché sperimenta l’inconsistenza del senso delle cose, sia capace di cambiare il pensiero e le forme artistiche.

CHI È
Da «Genio femminile» a «Storie d’amore»
Julia Kristeva insegna Linguistica e Semiologia all’Università di Parigi. Esponente di spicco della corrente strutturalista francese, ha concentrato i suoi interessi attorno ai temi della psicoanalisi. Di Kristeva, Donzelli
ha pubblicato, oltre alla trilogia sul «Genio femminile» («Colette», 2004; «Hannah Arendt», 2005; «Melanie Klein», 2006, ripubblicati in cofanetto nel 2010), «Bisogno di credere» (2006), «Teresa mon amour» (2008), «La testa senza il corpo» (2009), «Il loro sguardo buca le nostre ombre», con Jean Vanier (2011), «Storie d’amore» (2012).
E da oggi è in libreria «Sole nero».

VENTISEI ANNI DOPO LA PRIMA EDIZIONE FRANCESE DI SOLEIL NOIR. DÉPRESSION ET MÉLANCOLIE (GALLIMARD,PARIS1987),il mio amico e editore Carmine Donzelli mi chiede se ho qualcosa da aggiungere. Io lo ringrazio, e senza deprimermi mi interrogo.
Per la verità, non avevo mai chiuso questo libro. I miei pazienti di oggi hanno una bella voglia di essere iperconnessi dai vari smart-phone e skype: il web non impedisce il suicidio; può capitare al contrario che lo incoraggi. La logica della loro depressione segue le stesse figure alle prese con un «passato che non passa», con una «lingua morta», o con una «Cosa sepolta viva». I disturbi bipolari sono più che mai alla moda, e la bellezza resta immancabilmente l’altra faccia del depresso. Il matrimonio per tutti e le famiglie ricomposte stanno diventando la norma, ma l’amore incorpora sempre il dolore, e la psicoanalisi rimane il solo spazio che la modernità riserva alla sofferenza per ottenere quella forma lucida del perdono che è l’interpretazione. Le conferenze che ho tenuto in Europa, in America o in Asia, le traduzioni in numerose lingue, mi persuadono dell’attualità persistente di questo «sole nero», e io continuo ad affinare la spiegazione che ne propongo a coloro che ne sono scottati. Cosa posso aggiungere ancora, e per di più all’indirizzo del lettore italiano, della lettrice italiana?
Non è dunque senza «paura e tremore» che affido oggi al mare questa bottiglia.
Essendo cambiato, rispetto a un quarto di secolo fa, il ritmo della comunicazione, provo ad arrischiare, in questa introduzione, una contrazione, una sorta di sms al tempo stesso denso e serrato, che la lettura del libro permetterà spero di distendere e sviluppare.
Sì, la depressione e la malinconia sono più che mai le compagne della globalizzazione. Il Prozac, l’Anafranil o il Seroxat hanno invaso l’armadietto dei medicinali di ogni famiglia, e gli antidepressivi sono in grado di regolare efficacemente il flusso nervoso. Tuttavia, con o senza di essi, la vita e la morte della parola si giocano nella caverna sensoriale dei traumi infantili, ed è il transfert sul terapeuta dell’odio indicibile e dell’eccitazione innominabile che fa rinascere il suicida o la suicida: dentro nuovi legami, per realtà da reinventare.
Sì, la sindrome depressiva non è più soltanto un malessere personale. Le nazioni stesse oggi sono depresse, sotto lo choc della crisi endemica e dell’inevitabile austerità. L’Europa stessa è minacciata in prima persona da un malinconico pensionamento, con relativa perdita di identità, di valori e di fierezza. Avevo scritto Contre la dépression nationale (Textuel, Paris 1998), analizzando la Francia tentata già allora dal Fronte nazionale e gettata nel panico dall’ondata degli immigrati. Nation Without Nationalism, suona così la traduzione inglese di un mio lavoro precedente (Columbia University Press, New York 1993). Siamo ancora, e più che mai, a quello stesso punto: perché l’identità è il nostro anti-depressivo sociopolitico, ma perché non si traduca in una fonte di regressioni identitarie, di fronte allo stallo economico politico dell’Europa che ci lascia impotenti, non abbiamo che una sola arma: la cultura. Riguardiamo il Cristo morto di Holbein, rileggiamo El Desdichado di Gérard de Nerval, il carnevale dei Demoni in Dostoevskij, la Malattia della morte secondo Duras... E parliamone: esiste una cultura europea. Cos’è? Ieri, oggi, domani? No, io non sono né depressa né depressiva. Certi lettori me lo chiedono, e approfitto dell’occasione per rispondere. Ho visto la tempesta passarmi vicinissima, e l’ho vista sconfitta dalla persistenza del pensiero, che mia madre (cui ho reso omaggio nel mio La testa senza il corpo, Donzelli, Roma 2010) considerava come il mezzo migliore per spostarsi: da un luogo, da sé, da tutto... Più tardi ho voluto fare compagnia alla sofferenza dei malati all’Hôpital de la Salpetrière a Parigi, ma anche immergermi nelle «idee», di cui Marcel Proust scrive che sono «i succedanei dei dolori». Non sono lontana dal pensare, con Aristotele e Heidegger, che la malinconia è coestensiva all’inquietudine dell’uomo nell’Essere.
E poi ho esplorato il genio femminile. E ho aggiunto l’erotismo della reliance materna (cfr. il mio Pulsions du temps, Fayard, Paris 2013); e oggi penso, con Colette, che «rinascere non è mai superiore alle nostre forze». Può darsi che sia più facile a dirsi che a farsi, se siete una donna che ha analizzato le sue ferite e i suoi limiti, i suoi bisogni di credere e i suoi desideri di sapere. E preferisco di gran lunga l’éclosion della natura, degli altri e di sé, piuttosto che compiangersi nel mal-être alla faccia della «tribù malinconica dei filosofi», di cui rideva Hannah Arendt.
«La malinconia non è francese», mi avevano detto all’epoca dei critici che pensavano a Rabelais, a Sade, alla Rivoluzione, e nascondevano le loro lacrime, degne al massimo di brume tedesche o nordiche. È italiana, la malinconia? Sì o no? Amo il blu di Giotto, la Santa Teresa di Bernini, le estasi del Tiepolo, la voce di Cecilia Bartoli... Il mondo intero viene da voi a fare il turista per dimenticare la propria miseria e per divertirsi; e la barocca Venezia non fu essa stessa eretta come culto della malinconia? L’Italia dunque come negazione delle realtà dolorose? O piuttosto come scrigno globalizzato della depressione nazionale, inmancanza di alternativa, in assenza di avvenire? Oppure chissà in anticipo sul désêtre mondiale, e pronta ad analizzare, a rivoltarsi, a rinascere?
Mi piacerebbe che quelli che leggeranno questo libro potessero ritrovarvisi. Non propongo soluzioni. Per la prima volta nella storia, dopo tante guerre, tanti crimini, tante speranze più o meno rivoluzionarie o paradisiache, stiamo capendo che i problemi essenziali non sono «solubili». Ma che ciascuno, ciascuna, può aprire la cicatrice o la piaga delle sue pene, per metterle in questione e cominciare a spiegarle. Il mio augurio è che voi possiate farlo, leggendo queste traversate di «soli neri» che io ho cercato di accompagnare nelle pagine che seguono. E che possiate chiudere questo libro, avendo conquistato qualche lampo, per innescare delle nuove possibilità da dischiudere.

Repubblica 14.9.13
Una svolta per la storica sala romana gestita da attori e tecnici da oltre due anni. Diventa una società e produce il suo primo spettacolo scritto da Paravidino
Teatro Valle Non più occupato, diventa fondazione
di Anna Bandettini


ROMA In soli due anni e mezzo la sua storia è già stata percorsa da esaltazioni, critiche, entusiasmi, antipatie, illazioni e fantasie; da chi avrebbe fatto meglio, diverso, più intelligente e da chi lo considera un “luogo magico”, chi “uno spazio sprecato con tutte le compagnie che ci sono a spasso”, chi un “atto illegale”, chi “un’avventura pionieristica”... Nel panorama teatrale italiano pochi eventi hanno suscitato schieramenti stizzosi o entusiasti, tassi di incomprensione e sperticata adesione come il Teatro Valle Occupato di Roma, insolita esperienza di ribellione da quando, nel giugno 2011, per fermare un progetto, di fatto già pronto, di privatizzazione, la più antica sala teatrale chiusa della capitale, palcoscenico storico della prosa italiana (qui nel 1921 Pirandello esordì tra i fischi con I sei personaggi)venne occupato da artisti e tecnici — in buona parte precari — e restituita alla città diventando da subito un simbolo del difficile rinnovamento culturale nel paese, con riconoscimenti in Italia e all’estero.
Ora, piaccia o no, tra alti (tanti: qui hanno voluto esserci Peter Brook, Judith Malina, Luca Ronconi, Peter Stein...) e bassi, inevitabili turbolenze e ricambi interni, sempre sospinto tra quelli che lo vedono come “uno scandalo, una illegalità” e quelli che lo considerano un modello “di sperimentazione di nuove possibilità di produzione e partecipazione culturale“ come recita il premio della Principessa Margriet (ultimo prestigioso riconoscimento internazionale in ordine di tempo appena arrivato dall’Olanda, che verrà consegnato il prossimo marzo), il Valle Occupato annuncia un doppio importante traguardo: mercoledì verranno ufficialmente presentate la nascita della “Fondazione Teatro Valle Bene Comune”, alla presenza di Stefano Rodotà, che vi ha contribuito,e la prima produzione artistica, Il macello di Giobbe a cura di Fausto Paravidino, attesa per marzo 2014, autentica scommessa, prima produzione “partecipata”, frutto di saperi comuni tra cento e più artisti e tecnici.
Entrambe le notizie aprono un nuovo orizzonte nella storia del Valle e non solo. «La Fondazione rappresenta l’uscita dall’illegalità: smettiamo di essere occupanti — ammettono Laura, Daniele, Camilla, Valeria alcuni degli artisti impegnati a tempo pieno — Quando siamo entrati al Valle due anni e mezzo fa nessuno di noi sapeva cosa sarebbe accaduto. La protesta, però, è diventata prospettiva. Non solo grido, ma occasione per riflettere sul teatro e sulla possibilità di una “terza via” di gestione delle imprese culturali, oltre a quella di fare teatro per i soldi col ristorante e il merchandising o di farlo con la politica che poi decide chi deve essere il direttore. Noi stiamo provando una gestione pensata a partire dai beni comuni e dal principio di svincolare il peso di ogni socio dal suo rapporto economico. I seimila soci del comitato avranno pari peso. Il Comune di Roma? E’ vero, finora si è fatto carico delle bollette, ma a fronte di 90mila euro circa spesi per le utenze ha risparmiato il milione e 300 mila euro dei costi precedenti. Ci auguriamo che Ministero, Comune e tutte le istituzioni pubbliche vogliano riconoscere questa esperienza. Siamo aperti ad ogni forma di confronto. Un segnale? Qualche sera fa per lo spettacolo di Concita De Gregorio Manchi solo tuil ministro della Cultura Massimo Bray era tra gli spettatori del Valle. La Fondazione, intanto, conta su un capitale sociale patrimoniale di 140mila euro più altri 100 in opere d’arte offerte dai sostenitori». Per la gestione, è in preparazione un bilancio preventivo con «paghe regolari e uguali per quelliche lavorano e, speriamo un domani, anche per chi frequenterà i corsi di formazione» confidando anche nella collaborazione con istituzioni e fondi europei.
Quindicimila per ora gli euro stanziati perIl macello di Giobbe,altri ne verranno dal crowdfunding in modo da arrivare a 100mila euro per quella che si annuncia come una inversione di logica rispetto al consueto modo di scrivere e produrre teatro: il testo è di Fausto Paravidino, 37enne attore e drammaturgo (Exitè il suo ultimo applaudito lavoro), ma è il risultato di uno studio collettivo con altri autori. E anche il lavoro dei tecnici, degli scenografi è il frutto di laboratori e pratiche di confronto. In questi giorni una ventina di musicisti, sotto la guida di Enrico Melozzi, sta realizzando le musiche. «Per parlare di oggi siamo tornati all’antico — spiega Paravidino — a Shakespeare, ai grandi classici, alla Bibbia. Il nostro Giobbe è un padre perfetto, uno come Lear, come Napolitano, insostituibile e come tale suscita frustrazione in chi dovrebbe diventarne il successore ». Questo Giobbe “teatrale” è un onesto macellaio («quando si parla di finanza, viene naturale l’ambientazione in una macelleria ») stritolato dalla crisi economica. Prova a salvarlo il figlio, un liberista che vede la finanza come filantropia, e si arricchisce sul default del padre con «un’operazione simile a quella che ha distrutto la Grecia e sta distruggendo l’Italia», chiosa Paravidino. L’intreccio famigliare diventa un piccolo palcoscenico del mondo, fiabesco e realistico insieme: si parla di capitalismo rapace e amore, solitudine e vendetta. «Ci si chiede dov’è il bene — sottolinea l’autore — La risposta? Nella Bibbia, se non sei animato dalla fede, trovi una non risposta; se sei un credente, una risposta misteriosa. Lo spettacolo si limita ad articolare la domanda. Ma già vedere le proprie sfighe in palcoscenico, ti infondesperanza».

l’Unità 14.9.13
Referendum
I radicali consegnano 66mila firme per la legalizzazione dell’eutanasia


I promotori della legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia (associazione Luca Coscioni/Radicali, Exit Italia, Uaar, Amici di Eleonora onlus e Associazione Radicali Certi diritti), sono arrivati davanti alla Camera dei deputati per depositare 66.200 firme raccolte in tutto il paese. Le firme sono state portate a Montecitorio da alcuni attivisti, partiti in fila indiana, ciascuno con uno scatolone, dalla sede del Partito radicale che si trova in via di Torre Argentina. A guidare la «processione» è stata Mina Welby, che è anche la prima firmataria della proposta di legge, seguita da alcune figure di spicco dei radicali dell’associazione Luca Coscioni, come Marco Cappato, tesoriere dell’associazione e Filomena Gallo. «Questo è soltanto il primo passo, importantissimo al quale dovrà però seguire una vera e propria mobilitazione affinché questa proposta di legge non marcisca nei cassetti del parlamento», ha detto Cappato rivolgendosi in piazza di Montecitorio agli attivisti. «È tempo che come in altri paesi dell’Unione europea e negli Stati americani dove c’è stato un referendum, anche nel parlamento italiano si possa discutere se è meglio continuare con l’accanimento dello Stato nei confronti dei malati oppure se si vuole lasciare a ciascuno la libertà di decidere». «Sono molto commossa in questo momento ha affermato dal canto suo Mina Welby -, noi non vogliamo la morte di qualcuno ma soltanto una morte dignitosa. Vorrei non sentire più parlare di cittadini italiani obbligati ad andare all’estero per morire come vogliono». Sulla piazza gli attivisti hanno esposto alcuni striscioni a favore dell’eutanasia e campeggiano anche dei grandi palloni sui quali si legge «Eutanasia legale. Per vivere liberi fino alla fine». La stessa scritta è apposta anche sugli scatoloni contenenti le firme.

venerdì 13 settembre 2013

Repubblica 13.9.13
Il papa, i non credenti e la risposta di Agostino
di Vito Mancuso

QUAL è la differenza essenziale tra credenti e non-credenti? Il cardinal Martini, ricordato da Cacciari quale precorritore dello stile dialogico espresso dalla straordinaria lettera di Papa Francesco a Scalfari, amava ripetere la frase di Bobbio: “La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa”.
Il che significa che ciò che più unisce gli esseri umani è il metodo, la modalità di disporsi di fronte alla vita e alle sue manifestazioni. Tale modalità può avvenire o con una certezza che sa a priori tutto e quindi non ha bisogno di pensare (è il dogmatismo, che si ritrova sia tra i credenti sia tra gli atei), oppure con un’apertura della mente e del cuore che vuole sempre custodire la peculiarità della situazione e quindi ha bisogno di pensare (è la laicità, che si ritrova sia tra gli atei sia tra i credenti). Gli articoli di Scalfari e soprattutto la risposta di papa Francesco esemplare per apertura, coraggio e profondità, sono stati una lezione di laicità, una specie di “discorso sul metodo” su come incamminarsi veramente senza riserve mentali lungo i sentieri del dialogo alla ricerca del bene comune e della verità sempre più grande, cosa di cui l’Italia, e in particolare la Chiesa italiana hanno un enorme bisogno.
Rimane però che, per quanto si possa essere accomunati dalla volontà di dialogo e dallo stile rispettoso nel praticarlo, la differenza tra credenti e non-credenti non viene per questo cancellata, né deve esserlo. Un piatto irenismo conduce solo alla celebre “notte in cui tutte le vacche sono nere”, per citare l’espressione di Hegel che gli costò l’amicizia di Schelling, conduce cioè all’estinzione del pensiero, il quale per vivere ha bisogno delle differenze, delle distinzioni, talora anche dei contrasti. È quindi particolarmente importante rispondere alla domanda sulla vera differenza tra credenti e non credenti, capire cioè quale sia la posta in gioco nella distinzione tra fede e ateismo. Pur consapevole che sono molti e diversi i modi di viverli, penso tuttavia che la loro differenza essenziale emerga dalle battute conclusive della replica di Scalfari al Papa: “Quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l’origine animale della nostra specie. Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista”.
“Scimmia pensante… bestia da cui proveniamo”: queste espressioni segnalano a mio avviso in modo chiaro la differenza decisiva tra fede e non-fede. Per Scalfari noi proveniamo da una “bestia” e quindi siamo sostanzialmente natura animale, per quanto dotata di pensiero; per i credenti, anche per quelli che come me accettano serenamente il dato scientifico dell’evoluzione, la nostra origine passa sì attraverso l’evolversi delle specie animali ma proviene da un Pensiero, e va verso un Pensiero, che è Bene, Armonia,Amore. La differenza peculiare quindi non è tanto l’accettare o meno la divinità di Gesù, quanto piuttosto, più in profondità, la potenzialità divina dell’uomo. La confessione della divinità di Gesù è certo importante, ma non è la questione decisiva, prova ne sia che nei primi tempi del cristianesimo vi furono cristiani che guardavano a Gesù come a un semplice uomo in seguito “adottato” da Dio per la sua particolare santità, una prospettiva giudaico-cristiana che sempre ha percorso il cristianesimo e che anche ai nostri giorni è rappresentata tra biblisti, teologi e semplici fedeli, e di cui è possibile rintracciare qualche esempio persino nel Nuovo Testamento (si veda Romani 1,4). Peraltro il dialogo con l’ebraismo, così elogiato da papa Francesco, passa proprio da questo nodo, dalla possibilità cioè di pensare l’umanità di Gesù quale luogo della rivelazione divina senza ledere con ciò l’unicità e la trascendenzadi Dio. Naturalmente tanto meno la differenza essenziale tra credenti e non-credenti passa dall’accettare la Chiesa, efficacemente descritta dal Papa come “comunità di fede”: nessun dubbio che la Chiesa sia importante, ma quanti uomini di Chiesa del passato e del presente si potrebbero elencare che non hanno molto a che fare con la fede in Dio, e quanti uomini estranei alla Chiesa che invece hanno molto a che fare con Dio. Il punto decisivo quindi non sono né Cristo né la Chiesa, ma è la natura dell’uomo: se orientata ontologicamente al bene oppure no, se creata a immagine del Sommo Bene oppure no, se proveniente dalla luce oppure no, ma solo dal fondo oscuro di una natura informe e ambigua, chiamata da Scalfari “bestia”.
Un passo di sant’Agostino aiuta bene a comprendere la posta in gioco nella fede in Dio. Dopo aver dichiarato di amare Dio, egli si chiede: “Quid autem amo, cum te amo?”, “Ma che cosa amo quando amo te?” (Confessioni X,6,8). Si tratta di una domanda quantomai necessaria, perché Dio nessuno lo ha mai visto e quindi nessuno può amarlo del consueto amore umano che, come tutto ciò che è umano, procede dall’esperienza dei sensi. Nel rispondere Agostino pone dapprima una serie di negazioni per evitare ogni identificazione dell’amore per Dio con una realtà sensibile, e tra esse neppure nomina la Chiesa e la Bibbia, che appaiono così avere il loro giusto senso solo se prima si sa che cosa si ama quando si ama Dio, mentre in caso contrario diventano idolatria, idolatria della lettera (la Bibbia) o idolatria del sociale (la Chiesa), il pericolo protestante e il pericolo cattolico. Poi Agostino espone il suo pensiero dicendo che il vero oggetto dell’amore per Dio è “la luce dell’uomo interiore che è in me, là dove splende alla mia anima ciò che non è costretto dallo spazio, e risuona ciò che non è incalzato dal tempo”. Dicendo di amare Dio, si ama la luce dell’uomo interiore che è in noi, quella dimensione che ci pone al di là dello spazio e del tempo, e che così ci permette di compiere e insieme di superare noi stessi, perché ci assegna un punto di prospettiva da cui ci possiamo vedere come dall’alto, e così distaccarci e liberarci dalle oscurità dell’ego, da quella bestia di cui parla Scalfari che certamente fa parte della condizione umana ma che, nella prospettiva di fede, non è né l’origine da cui veniamo né il fine verso cui andiamo.
Occorrerebbe chiedersi in conclusione quale pensiero sull’uomo sia più necessario al nostro tempo alle prese come mai prima d’ora con la questione antropologica. Ovviamente da credente io ritengo che la posizione della fede in Dio, che lega l’origine dell’uomo alla luce del Bene, sia complessivamente più capace di orientare la coscienza verso la giustizia e la solidarietà fattiva. Se infatti, come scrive papa Francesco, la qualità morale di un essere umano “sta nell’obbedire alla propria coscienza”, un conto sarà ritenere che tale coscienza è orientata da sempre al bene perché da esso proviene, un altro conto sarà rintracciare nella coscienza una diversa origine da cui scaturiscono diversi orientamenti. Se non veniamo da un’origine che in sé è bene e giustizia, se il bene e la giustizia cioè non sono da sempre la nostra più vera dimora, perché mai il bene e la giustizia dovrebbero costituire per la nostra condotta morale un imperativo categorico? In ogni caso sarà nell’assumere tale questione con spirito laico, ascoltando le ragioni altrui e argomentando le proprie, che può prendere corpo quell’invito a “fare un tratto di strada insieme” rivolto a Scalfari da papa Francesco nello spirito del più autentico umanesimo cristiano, e accolto con favore da Scalfari nello spirito del più autentico umanesimo laico.

il Venerdì di Repubblica 13.9.13
Torino Spiritualità
Stasera l’incontro tra Anima e Psiche

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il Venerdì di Repubblica 13.9.13
Invitato ad aprire il convegno degli analisti junghiani in Brasile
Leonardo Boff, il teorico della “teologia della liberazione”
“Con Francesco torno a casa”
di Luigi Zoja

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il Fatto 13.9.13
NEL REGNO DI NAPOLITANO AMATO VA ALLA CONSULTA
IL QUIRINALE PORTA IL SUO FEDELISSIMO EX PREMIER NELLA CORTE COSTITUZIONALE CHE DOVRÀ PRONUNCIARSI SUL PORCELLUM E FORSE SULLA LEGGE SEVERINO
di Antonella Mascali


Le larghe intese di volontà quirinalizia entrano alla Corte costituzionale con la nomina di Giuliano Amato decisa dal presidente Giorgio Napolitano. Sostituisce Franco Gallo, nominato 9 anni fa, presidente negli ultimi 8 mesi.
Amato, che è stato un papabile primo ministro della maggioranza Pd-Pdl, arriva in un momento delicato: la Corte costituzionale potrebbe dover dirimere due questioni cruciali, che hanno a che fare con la tenuta del governo: la legge elettorale, nota come Porcellum, e la legge Severino che prevede la decadenza di Silvio Berlusconi da senatore nonché la sua incandidabilità, essendo stato condannato a oltre due anni di pena (4 anni più interdizione dai pubblici uffici per frode fiscale).
GIÀ IL 19 SETTEMBRE, il giorno dopo il suo giuramento, Amato parteciperà all’elezione del presidente della Corte costituzionale. Sabato, infatti, saluterà il professor Franco Gallo, nominato dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Il neo giudice Amato, come vuole la prassi più che consolidata della Corte, non può aspirare alla poltrona più alta. Di solito, il presidente si sceglie tra i giudici con più anzianità. In questo caso c’è una parità dei due vice presidenti, eletti giudici costituzionali dal Parlamento. Su indicazione del centrodestra Luigi Mazzella, avvocato generale dello Stato. Su indicazione del centrosinistra, Gaetano Silvestri, professore di diritto costituzionale. Era giugno 2005, ai tempi in cui una maggioranza Pd-Pdl appariva impensabile.
Ancora incerto chi dei due la spunterà. Si profila una spaccatura all’interno della Corte. Secondo le nomine formali, ci sono tre giudici vicini al centrodestra: Mazzella, Paolo Maria Napolitano e Giuseppe Frigo. Vicini al centrosinistra, invece, ce ne sono due: Silvestri e Sergio Mattarella. Ma Amato, per la sua storia politica, viene collocato come uomo di centrosinistra. E non è il solo giudice.
Proprio per ragioni di equilibrio , o di equilibrismo (a seconda dei punti di vista) sta riprendendo quota la candidatura di Mazzella, finora data quasi per persa. Ma per una parte dei giudici resta un’ipotesi indigesta. Luigi Mazzella è il giudice che ha ospitato, nella sua bella casa romana, Silvio Berlusconi, Gianni Letta e Angelino Alfano nel maggio del 2009, 5 mesi prima che la Consulta votasse sul cosiddetto lodo Alfano, l’ibernazione dei processi per le più alte cariche dello Stato in carica, cioè per Berlusconi. Oltre a Mazzella c’era un altro giudice costituzionale, Paolo Maria Napolitano. Entrambi non hanno ritenuto di doversi dimettere, anzi hanno rivendicato la serata con l’ex presidente del Consiglio, parte in causa di un ricorso su cui si sarebbero dovuti pronunciare.
D’ALTRONDE MAZZELLA è un grande amante dei banchetti conviviali. L’estate scorsa ne ha organizzati diversi, anche con esponenti del centrodestra. E non ha nascosto il suo sogno di diventare presidente della Corte costituzionale.
Sia lui che Silvestri concluderanno il loro mandato il 28 gennaio 2014.
C’è anche un altro nome che sta circolando: è quello di Giuseppe Tesauro, esperto di diritto comunitario e internazionale, nominato dal presidente Ciampi nel novembre 2005. Ma proprio il professore è il relatore sulla legge elettorale su cui la Consulta terrà l’udienza pubblica il 3 dicembre, a meno che il Parlamento non si pronunci prima.
A metà maggio, infatti, la Cassazione ha inviato alla Consulta gli atti sul Porcellum. Alla Suprema Corte si erano rivolti gli avvocati Aldo e Giuseppe Bozzi e l’avvocato Claudio Tani, convinti della lesione del diritto del cittadino a scegliere i propri rappresentanti in Parlamento.
IL 12 APRILE, durante quello che doveva essere il saluto al presidente della Repubblica uscente (non si immaginava che Napolitano sarebbe stato rieletto) il presidente Gallo ha criticato il Parlamento per non aver riformato il Porcellum che “ha profili di incostituzionalità”. “La Consulta”, ha ricordato, “ha invano sollecitato il legislatore a riconsiderare gli aspetti problematici della legge, con particolare riguardo all’attribuzione di un premio di maggioranza senza che sia raggiunta una soglia minima di voti e/o seggi”. Se la politica non sarà in grado di approvare una riforma elettorale e se la Consulta boccerà il Porcellum, allora tornerebbe a vivere la legge, così com’era prima di esser ritoccata e di determinare un Parlamento di nominati dalle segreterie dei partiti.
Il Pdl vorrebbe, invece, che la Corte costituzionale fosse investita della legge Severino. Il partito di Berlusconi sostiene che la norma sulla decadenza e sulla incandidabilità non vale per il Cavaliere perché altrimenti sarebbe applicata retroattivamente. La maggioranza dei giuristi pensa, invece, che il problema non sussista perché è una norma che ha a che fare con i requisiti. In ogni caso, alla Consulta dovrebbe rivolgersi la Giunta del Senato. Ma, a quanto pare, non potrebbe: secondo la dottrina maggioritaria non è un organo giurisdizionale.

il Fatto 13.9.13
L’ennesima poltrona per il signore della Casta
HA GIÀ UN COSPICUO VITALIZIO DA PARLAMENTARE, UNA PENSIONE COLOSSALE E ORA AVRÀ UN SUPER STIPENDIO. CON TANTO DI AUMENTO
di Giorgio Meletti


   L’uomo giusto al posto giusto. La decisione del presidente Giorgio Napolitano di nominare il 75enne Giuliano Amato giudice costituzionale al posto dell'uscente 76enne Franco Gallo, non risponde solo alla logica di prudente ringiovanimento delle istituzioni, e non va ridotta alla pur gettonatissima interpretazione del risarcimento dovuto a un vecchio sodale del presidente che in primavera ha trovato i veti Pd a sbarrargli la strada prima verso il Quirinale e poi verso Palazzo Chigi.

   L'approdo di Amato alla Corte costituzionale (15 membri così scelti: 5 dal Quirinale, 5 dal Parlamento e 5 dalla magistratura), proprio nel momento in cui Silvio Berlusconi chiede alla Suprema corte di esentarlo dagli effetti della legge Severino, sancisce in modo esplicito quell'antico rapporto di complicità tra il potere politico e la Corte di cui la carriera di Amato è simbolo. Una galoppata infinita tra Prima, Seconda e Terza Repubblica l'ha portato a essere braccio destro di Bettino Craxi a Palazzo Chigi (1983-1987), presidente del Consiglio (1992), presidente dell'Antitrust (1994-1997), ministro delle Riforme (1998), del Tesoro (1999), dell'Interno (2006-2008) e presidente dell'Enciclopedia Treccani, della Fondazione ItalianiEuropei e del circolo tennis di Orbetello (per limitarsi agli incarichi più significativi). Ma i momenti chiave della carriera del “dottor sottile” sono scanditi da sottilissime questioni costituzionali.

   LA PRIMA se la ricorda bene anche Napolitano. Quando Amato scrisse i testi dei due cosiddetti “decreti Berlusconi” che restituivano l'agibilità dell'etere alle tv Fininvest oscurate dai pretori, fu l'allora capo dei deputati comunisti a tuonare contro un provvedimento “indubbiamente incostituzionale”, ma nel voto dell'aula sulla costituzionalità, i 60 franchi tiratori della maggioranza diagnosticati dal combattivo Napolitano furono compensati dal soccorso dei missini, che dieci anni dopo sarebbero stati sdoganati da B.: “I missini hanno salvato il decreto, in una logica di lotta distruttiva nei confronti del servizio pubblico”, tuonò Napolitano. Poi le loro strade tornarono parallele come sempre. Un giorno L’Espresso chiese a vari politici di dare un consiglio a Craxi premier: “Si guardi dai comunisti” disse Amato; “Si guardi dai democristiani”, disse Napolitano. Adesso tutti e due si guardano dal Pd, sintesi delle loro fobie di 30 anni fa.

   NEL 1992 AMATO diventò premier e Napolitano presidente della Camera. Naturalmente era all'ordine del giorno l'urgente riforma della Costituzione e già i due, 21 anni fa, vagheggiavano scorciatoie. Amato disse in Parlamento, a proposito dell'immancabile Bicamerale: “I presidenti delle due Camere stanno valutando la possibilità di costituire la nuova commissione con un atto bicamerale non legislativo. Questo semplificherebbe molto le procedure di costituzione, consentendo anche un notevole risparmio sui tempi”. Una procedura “eccellente”, recensiva Amato. Sottigliezze.

   Il capolavoro costituzionale venne pochi giorni dopo, con il famigerato prelievo dello 0,6 per cento dalle giacenze dei conti correnti bancari. C'era da salvare la lira, messa in ginocchio dalla decisione di Amato di mettere in liquidazione l'Efim con i suoi 13 mila miliardi di debiti. E ai poveracci che hanno così pochi soldi da non poterli investire in titoli fu praticato l'asporto di 5.250 miliardi di lire. Un'operazione clamorosamente contraria agli articoli 3, 47 e 53 della Costituzione (uguaglianza, tutela del risparmio, progressività delle imposte). Tre anni dopo la Corte costituzionale, visto che lo Stato non aveva soldi per restituire il maltolto, opinò che lo scippo di Amato “incide sui depositi con un’aliquota invero di contenuta entità, tale da non potersi ragionevolmente considerare ablativa del patrimonio del soggetto”. Invece la medesima Corte ha ritenuto fortemente ablativa la mossa di Giulio Tremonti che nel 2010 tagliò le pensioni sopra i 90 mila euro, tra cui quella di Amato, e gli stipendi dei magistrati, a cui sono agganciati quelli dei giudici costituzionali . E così, opinando che “le decurtazioni dello stipendio, incidendo sullo status economico del giudice, creerebbero una sorta di dipendenza del potere giudiziario dal potere legislativo ed esecutivo” (gli aumenti invece no?), i giudici costituzionali ripristinarono il quantum con tanto di arretrati anche per se stessi. Alla faccia degli esodati e delle altre vittime delle leggi retroattive.

   C'È DA DIRE che Amato sembra Gastone Paperone: dove si siede piovono soldi. Per essere stato quattro anni all'Antitrust è riuscito a farsi dare, a 59 anni, una pensione di 22 mila euro lordi al mese, che si aggiungono ai 9 mila del vitalizio parlamentare. Adesso arriva lo stipendio da giudice costituzionale (appena aumentato dai giudici costituzionali), che è pari a quello del magistrato più pagato (il primo presidente della Cassazione) maggiorato del 50 per cento. Fanno 427 mila euro annui, pari a 13 mensilità da 32 mila. Così Gastone ha raddoppiato lo stipendio, e tutti pensano che a 63 mila euro al mese anche loro avrebbero un forte senso delle istituzioni.

Corriere 13.9.13
Le ragioni della scelta del Colle
di Marzio Breda


Certo, è suo amico da una vita, almeno da quando negli anni Settanta l’allora dirigente del Pci seguì da vicino il progetto per un’«alternativa socialista» in cui era al lavoro la nidiata di Antonio Giolitti: gente come Federico Coen, Giorgio Ruffolo e, appunto, lui. E certo, ne ha apprezzato la competenza economica con cui si mosse da ministro e la risolutezza dimostrata nelle stagioni di Palazzo Chigi, con il massiccio intervento da 93 mila miliardi per scongiurare una grave crisi finanziaria e avviare il risanamento dei conti pubblici, nel 1992. Ma è soprattutto allo studioso di Diritto pubblico che Giorgio Napolitano ha pensato, scegliendo Giuliano Amato come nuovo membro della Corte costituzionale. Un giurista il cui sterminato curriculum comprende incarichi di prestigio nel campo della politica e delle istituzioni — in Italia e fuori d’Italia — e non per nulla il suo nome è corso nei mesi scorsi sia per un ritorno a Palazzo Chigi sia per un approdo allo stesso Quirinale, mentre non sarebbe parsa inverosimile anche una sua nomina come senatore a vita. Frequentazioni e stima personali a parte, per una riserva della Repubblica di quel rango e di quell’esperienza non poteva valere la logica del bilancino o un calcolo delle convenienze, quando si è trattato di decidere per il posto che stava per rendersi vacante alla Consulta in un momento particolarmente delicato. Dal punto di vista del capo dello Stato, il nome del «dottor Sottile» si è imposto per forza propria. È prevalso sugli altri candidati — e non erano pochi — al di là delle preoccupazioni per le critiche e per le polemiche che avrebbero potuto sortirne e che anzi, nel marasma di questi giorni dominati da smanie rottamatrici e furori anticasta, erano date per scontate. Critiche e polemiche di basso profilo, secondo il Colle. Insomma, altro che «passo falso» o addirittura «vergognoso», come qualche famiglia politica ha subito recriminato, alimentando pure l’eterna rincorsa di sospetti giocata sul caso della decadenza di Silvio Berlusconi.

Repubblica 13.9.13
Lo scrutinio segreto sul Cavaliere nell’assemblea di palazzo Madama terrorizza il Pd
In Scelta Civica c’è chi tratta
Il Pdl a caccia di 43 franchi tiratori veleni e sospetti tra Democratici e 5Stelle
di tommaso Ciriaco


ROMA — Denis Verdini, fidato “contabile” di Arcore, ha stupito anche un inguaribile ottimista come Silvio Berlusconi: «Presidente, in Aula c’è il voto segreto. Non avranno i numeri per farti decadere, ce la possiamo fare». Previsione a dir poco azzardata, sulla carta, perché per ribaltare un’espulsione che appare certa dovrebbe convincere decine di senatori. Quarantatre, per la precisione.
Numeri alla mano, infatti, la somma dei parlamentari di Pdl (91), Lega (16) e Gal (10) si ferma a quota 117. La maggioranza è 161. Ma visto che il Presidente non vota, per salvare il leader del Pdl servono 160 schede a favore di Berlusconi. Vetta impervia, certo, eppure ad Arcore puntano a fare proseliti nel campo avverso. Nel partito del “non voto” e fra i peones incupiti dal rischio delle urne, ma anche fra gli inquieti di Scelta civica e in un Pd ancora sotto choc per i 101 che affossarono Romani Prodi.
Il veleno scorre copioso, tra gli scranni di Palazzo Madama. E i grillini hanno gioco facile a gettare ombre sul partito delle largheintese. Sentite il capogruppo Nicola Morra: «Noi chiederemo il voto palese, vedremo se il Pd ci sosterrà. Altri, e non il M5S, hanno il problema della doppia verità. Per noi Berlusconi era già ineleggibile, ma non per il Pd. Almeno ci mettano la faccia».
Parole dure e un pizzico di propaganda, forse. Eppure nel Pd il terrore di urne infauste è reale e cresce ora dopo ora. Due giorni fa, a Montecitorio, il ministro Graziano Delrio sussurrava: «Non dobbiamo dare a Berlusconi iltempo di organizzarsi...». Se Berlusconi decidesse di non dimettersi, sfidando l’Aula, tutti guarderebbero a eventuali franchi tiratori dem: «Occhi aperti - avverte Pippo Civati - ma non voglioneanche immaginare che tornino i 101. Sarebbe la fine del Pd. Non reggeremmo».
L’incubo peggiore, però, è un altro. Prevede un blitz dei cinquestelle nel segreto dell’urna e un clamoroso sostegno dei grillini al Cavaliere. Ugo Sposetti non si nasconde: «I dalemiani pronti a sostenere Berlusconi? A parte che io sono migliorista, ma comunque chi lo dice è un mascalzone. Il Pd non ha alcun interesse a fare una cosa del genere». Piuttosto, domanda l’ex tesoriere dei Ds, «chivuole destabilizzare la politica italiana e il governo?». La risposta non si fa attendere: «Il M5S. Ecco, secondo me sono pronti a salvare il leader del Pdl. È lo stesso schema di vent’anni fa, quando Lega e MSI salvarono Craxi».
Mentre il Partito democratico è alle prese con il pallottoliere, dalle parti di Arcore si alimenta una fiammella che sembrava già spenta. Il sottosegretario Michaela Biancofiore è tra quelli pronti a scommettere sulla “conversione” in Aula: «Pd e Giunta sono fuori legge e vogliono decidere prima di eventuali ricorsi? Vogliono bruciare Berlusconi come Giordano Bruno? Bene, penso che fra i democratici ci siano persone intellettualmente oneste pronte a votare in Aula contro la decadenza».
E poi c’è Scelta civica. Può contare su venti, preziosissimi voti. Nulla è ancora deciso, ma a molti non è sfuggito l’attivismo di Pier Ferdinando Casini. Il leader dell’Udc coltiva il confronto con i mille ambasciatori di via dell’Umiltà. Come lui, anche il ministro Mario Mauro. Di certo, i due possono contare su sette o otto senatori e continuano a predicare il verbo della stabilità di governo.

l’Unità 13.9.12
Modificare la Costituzione senza tradirla
di Cesare Pinelli


Il tema delle riforme costituzionali ha diviso il campo di quanti nel 2006 si opposero alla legge costituzionale approvata dal centrodestra e poi rigettata in sede di referendum. Sono convinto che di questa divisione non vi sia bisogno, e sono perciò sollevato nel vedere che gli interventi sull’Unità di Stefano Rodotà e di Massimo Luciani ridimensionano la materia del contendere.
L’avversione al progetto avviato dal governo riguarda anzitutto la deroga all’art. 138, prevista al fine di rivedere le norme sulla struttura del Parlamento, sulla forma di governo e sull’impianto autonomistico. Alcuni costituzionalisti ritengono in perfetta buona fede inammissibile qualunque deroga all’art. 138, in quanto norma sulla produzione normativa. L’argomento fu già adoperato nella polemica contro il procedimento previsto dalla legge costituzionale del 1997, che diede vita al progetto di riforma della commissione bicamerale, e che anche allora modificava le modalità di esame e di approvazione parlamentare del testo di revisione costituzionale. La differenza è che il progetto in discussione prevede una serie di leggi costituzionali per ciascuna parte della Costituzione coinvolta dalle riforme, per evitare il rischio plebiscitario di un unico referendum (che costringerebbe gli elettori a un prendere o lasciare); inoltre i titolari della richiesta di referendum possono proporla anche se la legge fosse approvata in seconda deliberazione con una maggioranza dei due terzi.
Chi ritiene inammissibile qualunque deroga, esclude che tali misure compensino le alterazioni apportate alla fase parlamentare di approvazione della legge costituzionale. Altri non sono d’accordo, e la discussione scientifica continuerà come è giusto che sia. Ma il fatto è che la tesi dell’inammissibilità della deroga è stata gettata come benzina sul fuoco di una polemica ben diversa. Se dalla «deroga» si passa allo «stravolgimento», dunque a una rottura della Costituzione, in un ambiente avvelenato da strumentalizzazioni i più lesti alla propaganda salgono sui tetti di Montecitorio o scrivono sul palmo della mano il numero 138 ignorando di cosa si tratti. Ma davvero i pacati studiosi contrari alla deroga credono che il procedimento da loro criticato, e che per le ragioni dette garantisce il corpo elettorale più dello stesso art. 138, determini una rottura del nostro ordinamento?
Per molti, l’obiezione procedurale si salda però a una di ordine sostanziale. La Costituzione richiede attenzioni ben diverse dalla ricerca ossessiva della stabilità, che si fa strada nel vuoto di politica costituzionale del nostro discorso pubblico. Quel vuoto è tuttavia anche frutto di culture politiche che negli ultimi trenta anni non sono riuscite a superare il divorzio fra progresso sociale e modernizzazione verificatosi nelle democrazie occidentali, e da noi aggravato per l’incapacità di legare la tradizione e i princìpi costituzionali alla innovazione e alla progettualità politica.
È vero che, divorziando dal progresso, la modernità è rimasta nelle rappresentazioni pubbliche come sinonimo di efficienza, rapidità delle decisioni, stabilità di governo. Eppure la stabilità non è fine a se stessa né sinonimo di durata in carica del governo. È soprattutto strumento per far valere la responsabilità per le scelte politiche compiute di fronte all’elettorato, componente ineludibile del principio democratico. Nonostante gli equivoci (dal modello Westminster al sindaco d’Italia), è innegabile che l’assenza di stabilità abbia seriamente compromesso la tenuta del principio di responsabilità politica, e che da decenni la ricerca dei rimedi coinvolga il disegno della forma di governo.
L’area dei rimedi va oggi dall’attuazione dell’odg Perassi alla Costituente, che intendeva correggere le possibili varianti assemblearistiche del parlamentarismo con congegni di razionalizzazione dell’esecutivo, alla introduzione di un sistema semipresidenziale nella versione della V Repubblica francese.
Allo stato non si tratta di accettare a scatola chiusa una proposta, ma che ognuna di quelle in campo sia conforme ai princìpi democratici. In questo senso, dire che «il semipresidenzialismo non è un tabù» significa solo «accettiamo di sederci al tavolo con quelli che propongono una forma di governo adottata in un Paese democratico da oltre mezzo secolo».
La scelta dipenderà da altri criteri: dal rendimento di ciascun assetto istituzionale considerato, da quale si ritenga più utile a noi, da se e come i singoli congegni di ciascuno si innestino nel nostro sistema. Non proprio una passeggiata; casomai, un lavoro paziente e ingrato. Non vedo allora contraddizione, ma piena continuità, fra la difesa della Costituzione quale si espresse nel referendum del 2006 e la ricerca delle modifiche utili a migliorarne il rendimento in termini democratici.

l’Unità 13.9.12
Guai a trasformare il congresso in un’opa ostile
di Vincenzo Visco


PREOCCUPA LA SOSTANZIALE ASSENZA DI DIBATTITO POLITICO SULLE QUESTIONI DI MERITO IN VISTA DEL CONGRESSO DEL PD. Quello che si è visto finora è sostanzialmente un moto plebiscitario basato sulla insoddisfazione e la sfiducia nei confronti del gruppo dirigente storico, e sulla volontà (speranza?) di «vincere», senza neppure considerare che una modifica della legge elettorale in senso proporzionale potrebbe costringere il Pd ad alleanze di grande coalizione per i prossimi decenni.
Eppure gli argomenti su cui fare chiarezza non mancano. Ne indicherò alcuni. Per esempio la natura, la collocazione e le prospettive del partito. Il Pd è nato dalla confluenza di forze accomunate da una visione della società molto simile: quella socialista e quella cristiano-sociale. La differenza principale tra le due visioni, lo statalismo della prima e la fiducia nei corpi intermedi della seconda si è risolta nel riconoscimento condiviso del principio di sussidiarietà. Si tratta quindi di fondamenti culturali sicuramente antiliberisti, e anzi, in origine, antiliberali, La convergenza nel Pd di una terza componente, quella laica liberale di sinistra, si può collocare agevolmente in un contesto ispirato alla giustizia (sociale) e alla libertà (democrazia). Questo è (dovrebbe essere) quindi il Pd. Tuttavia una discussione seria su questi problemi non è mai stata fatta: nel partito esiste una componente liberista molto combattiva e convinta. Fino a pochi anni fa a Strasburgo gli eletti della Margherita partecipavano al gruppo liberale per sottolineare la loro alterità rispetto ai socialisti. Ora Matteo Renzi ha proposto l’ingresso del Pd nel Pse; è una decisione importante, per molti potrebbe apparire scontata, ma altri potrebbero non essere d’accordo. Sarebbe bene discuterne.
Se il Pd trova le sue radici culturali nel pensiero socialista e nella dottrina sociale della Chiesa, ne discende che il partito dovrebbe essere contro ogni forma di individualismo (egoismo) o accentuato leaderismo, a favore di soluzioni condivise, discusse collettivamente e adottate a maggioranza, e attuate però con la massima disciplina. Il funzionamento concreto del Pd, la feroce lotta tra le correnti, l’elezione del Presidente della Repubblica e le proposte ed evoluzioni recenti non sembrano andare in questa direzione. Si tratta di problemi da chiarire. E ancora, immaginiamo un partito degli eletti e degli amministratori come ceto sostanzialmente autoreferenziale (la «Casta» di Rizzo e Stella) o un partito attraverso il quale i cittadini possano organizzarsi per partecipare democraticamente alla vita politica del Paese (come dice la Costituzione)? Al tempo stesso la partecipazione effettiva degli iscritti alla discussione politica dovrebbe essere garantita e le loro opinioni valorizzate, anche mettendo in rete i circoli, utilizzando le nuove tecnologie, ecc.
Più volte negli ultimi anni esponenti del Pd sono stati coinvolti in episodi inaccettabili dal punto di vista della moralità pubblica. Su questo nessuno parla, eppure si tratta di un problema centrale che ha a che vedere non solo con i valori e la cultura degli iscritti, ma anche con i criteri di selezione e promozione dei gruppi dirigenti, con i sistemi elettorali (le preferenze sono l’anticamera della corruzione) e col finanziamento della politica (mille euro da tante persone non condizionano, un milione di euro ricevuti da una sola persona condizionano inevitabilmente in modo decisivo).
E ancora, qual è la posizione del Pd sulle riforme istituzionali? Infatti, nonostante i documenti ufficiali, non pochi nel gruppo dirigente sarebbero d’accordo su un sistema presidenziale.
Vi sono poi le questioni economiche. A me sembra che la ragione principale per cui Bersani ha vinto le ultime primarie ha a che vedere con il fatto che Renzi proponeva una linea di politica economica basata sulla cosiddetta «agenda Monti», più le proposte di Pietro Ichino sul mercato del lavoro, posizioni che dopo la grande crisi iniziata nel 2007 apparivano (ed erano) discutibili, se non del tutto superate, come modello di riferimento. Bersani invece sembrava più ancorato alle tradizionali proposte della sinistra europea, pur prospettando innovazioni significative. Oggi Renzi pone al centro delle sue proposte il lavoro, l’occupazione e il rilancio dell’economia con una qualche discontinuità rispetto al passato. Si può essere d’accordo. Ma lo siamo veramente tutti? In sintesi, siamo sulle posizioni di Stiglitz, Krugman, Roubini e Fitoussi, o su quelle di Alesina e Giavazzi?
Infine vi sono i problemi specifici del Paese che sono molto gravi e seri. L’Italia va radicalmente riformata, ricostruita, e non si tratta di modificare la Costituzione in direzione di modelli maggiormente decisionisti, salvo il bicameralismo perfetto e (forse) alcuni poteri del presidente del Consiglio. Si tratta piuttosto di cambiare l’assetto istituzionale e il funzionamento delle pubbliche amministrazioni e delle imprese recuperando principi di giustizia, eguaglianza, funzionalità ed efficienza. Le idee in proposito sono scarse, la consapevolezza anche, le resistenze degli interessi costituiti enormi, il dibattito, finora, del tutto assente.
Non so se il Congresso riuscirà a concentrarsi su queste e altre questioni di merito che pure potrebbero essere sollevate (e non sono poche). Ma se ciò non avverrà esso rischia di apparire o tradursi in una sorta di opa ostile sul partito da parte di un pezzo del gruppo dirigente finora minoritario, con rischi seri per le prospettive future.

il Fatto 13.9.13
Iscritti Dem dimezzati in Toscana
di Wanda Marra


Iscritti al Partito democratico in Toscana: meno il 50 per cento. Rispetto ai 55mila del 2012, quest’anno i tesserati sono dimezzati, circa 27mila. Ad ammetterlo sono i vertici regionali, che non per niente stanno organizzando iniziative speciali per cercare di rimediare. Al netto delle chiacchiere pre-congressuali e delle giravolte collettive intorno alle larghe intese, il dato è eloquente. Mentre ai vertici del Nazareno si fanno e si disfano alleanze e strategie, la cosiddetta base evidentemente non ne può più. Con buona pace di Matteo Renzi (peraltro Sindaco del capoluogo toscano, fatto non secondario rispetto a questo dato) che si prepara ad espugnare un fortino sempre più sguarnito e indebolito.
IERI È STATA un’altra giornata di ammuina collettiva. Caratterizzata da una parte dall’incontro al vertice tra il segretario Epifani e l’aspirante tale Renzi. Dall’altra da un’alzata di scudi contro il sindaco di Firenze, accusato di aver attaccato Letta mercoledì sera a “Porta a Porta” (frase incriminata: “Letta pensa solo alla sua seggiola”). L’incontro tra i due (ieri mattina al Nazareno) era in programma da giorni, e in teoria doveva arrivare a un accordo sul congresso. In realtà quest’accordo non s’è trovato (non c’è ancora una data, né si è arrivati a un compromesso sui segretari regionali, che i renziani vorrebbero eleggere con il leader nazionale o al massimo dopo, in modo da poterne incassare il più possibile). Ma il colloquio tra i due è durato un’ora e mezza. Oggetto principale di discussione: il governo. Il premier stesso - raccontano fonti renziane - avrebbe chiamato tutti per lamentarsi delle ultime dichiarazioni del sindaco di Firenze. Tant’è vero che i lettiani ieri faticavano a tenere a freno la lingua: “Renzi è così, problema suo”, tra le dichiarazioni più tenere. Il capo del Governo sta facendo di tutto per mantenere slegata la questione decadenza di Berlusconi dalla tenuta del-l’esecutivo. Ieri è stato reso noto il suo incontro alla Casa Bianca con Obama, in programma il 16 ottobre. E lui stesso ha ripetuto: “Sono determinato ad impedire che il paese si faccia male”. In questo contesto, il fuoco amico va stoppato. E così ieri Epifani ha richiamato Renzi al sostegno sul governo. Lui però ha rilanciato le sue posizioni: sulla decadenza di Berlusconi il Pd de-v’essere netto; e l’esecutivo non può essere immobile, né andare a ricasco del Pdl. Poi, certo, Renzi ci tiene a dire che non sarà lui a far saltare il tavolo. Mentre i due hanno cercato di tenere il più possibile coperti i contenuti dell’incontro, a parlare - e rintuzzare - ci hanno pensato gli altri. Dario Franceschini: “Letta sta facendo un lavoro straordinario con autentico spirito di servizio, anche perché sa, come tutti noi, che finché durerà avremo quotidianamente più critiche che applausi e soprattutto sa che alla fine avremo sul petto più cicatrici che medaglie”. Area Dem in realtà freme anche perché i renziani vanno ribadendo che non ci saranno troppi posti per loro nel listone unico che presenteranno alle primarie. Gianni Cuperlo: “Giudizio ingeneroso su Letta”. Francesco Boccia (che è assurto al ruolo di “pontiere” tra i due): “Il governo non può cadere per colpa nostra”. La replica arriva per bocca del fedelissimo Dario Nardella: “Attacchi fuori luogo, Renzi sosterrà Letta”. Ma chi lo conosce bene sa che in fondo al “giovane” Matteo questa polemica non va troppo male: dopo essere stato accusato negli ultimi giorni di essere il “riciclatore” per eccellenza, pronto a caricarsi sul suo carro i vecchi potenti, tornare a giocare il ruolo dell’altro Pd è un punto a suo favore.

Repubblica 13.9.13
Lite Epifani-Renzi, niente intesa sul congresso
Rischio conta all’assemblea nazionale
Giù il tesseramento, in molte regioni meno 50%
di G. C.


ROMA — «Una conclusione unitaria sulle regole del congresso è nell’interesse di tutti, dobbiamo trovare questo accordo». Epifani pesa le parole dopo l’incontro con Renzi. Ma l’accordo non c’è. E nell’Assemblea nazionale del Pd del 20 settembre quella che dovrebbe decidere data e modi per l’elezione del nuovo segretario democratico si potrebbe andare alla conta. Un’ora e mezza di colloquio tra il sindaco fiorentino e il leader non sono serviti a dissipare le nuvole che sia addensano sia sul congresso che sul governo.
«Abbiamo parlato di regole sì, e non solo...», dice Epifani a incontro appena terminato. Quel “non solo” riguarda le ultime uscite del “rottamatore” su Letta. Il segretario gli ha rimproverato gli attacchi al governo. Ribadisce in tv, alTg3:«Renzi mi ha confermato che non creerà problemi al governo in una fase così difficile per il paese. Del resto sarebbe un gravissimo errore mettere in difficoltà un esecutivo che sta affrontando le condizioni dei nostri cittadini, non possiamo chiedere al centrodestra un atto di responsabilità enon farlo innanzitutto noi...». È l’altolà al sindaco.
Parla Epifani di un’intesa sulla data, che in realtà non c’è. Oggi si riunisce il “comitatone” per il congresso per tentare un compromesso. Renzi è disponibile alla fine dell’automatismo tra segretario del partito e premiership (come del resto fece Bersani per permettergli di sfidarlo alle primarie del 2012), ma non vuole allungamenti dei tempi. Chiede restino le regole di sempre. I congressi locali perciò vanno fatti dopo le primarie nazionali. È l’opposto della proposta di Epifani. Ed è difficile che suquesto il sindaco ceda, perché ritiene sia uno dei tanti trabocchetti disseminati lungo la strada della sua candidatura. Teme di diventare il segretario di un Pd che non controlla, che nei territori esprime altre maggioranze. I Democratici del resto sono in acque agitatissime, con un crollo dei tesseramenti. In Toscana è stato registrato un meno 50%; non è la sola regione.
Epifani avrebbe insistito per un congresso con tempi più lunghi, che coinvolga i circoli, che apra un dibattito approfondito. Però anche Gianni Cuperlo, lo sfidante di Renzi e candidato della sinistra, è per non prendere tempo. D’Alema, che appoggia Cuperlo, attacca: «Renzi sicuramente anche sull'onda di un enorme trascinamento mediatico è il candidato che appare come il vincitore annunciato. Ma a me non interessano i vincitori, mi interessano i principi ... e le idee, le proposte di Cuperlo sono indubbiamente superiori». Mentre il “rottamatore”, aggiunge, si candida a segretario parlando d’altro, come se stesse facendo una campagna per governare il paese: «Non ci sono però elezioni, e al governo del paese c’è un membro del nostro partito». Insiste anche sulla divisione tra la leadership del partito e la premiership: «Una regola che non ha più senso».
I renziani a loro volta contrattaccano. «D’Alema ha questa idea, quasi fosse la separazione delle carriere dei giudici», ironizza Paolo Gentiloni. Dario Nardella invita ad avere «calma e serenità: gli attacchi a Renzi, dopo la sua intervista a“Porta a porta”sono una polemica inesistente».

il Fatto 13.9.13
Renzi: Vedi Firenze e poi la compri
Ancora una festa a pagamento
di Tomaso Montanari


Cristina Acidini colpisce ancora. Dopo aver redatto un tariffario dei monumenti fiorentini che ha suscitato costernazione in tutto il mondo, la Soprintendente (molto) Speciale del Polo Museale Fiorentino ha organizzato un party per seicento ospiti del fondo di investimento Azimut nel Cortile dell’Ammannati, a Palazzo Pitti.
Tutto normale, comunica sbarazzino il sito della Soprintendenza: “I musei del Polo fiorentino non sono solo luoghi dove si conserva la cultura e la bellezza. Sono anche spazi dove è possibile organizzare cene di gala, eventi, congressi, visite straordinarie. Luoghi che possono fare da suggestiva cornice a manifestazioni di alto livello qualitativo”. Un bel giro di quattrini, in altre parole. La cui gestione è affidata direttamente al responsabile della segreteria della Acidini, Marco Fossi (che regge anche il non meno strategico Ufficio Mostre, oltre a essere segretario pure del Consiglio di amministrazione del Polo).
Peccato che domenica scorsa i 50 pulmini dei convitati abbiano sostato per ore sulle rampe di Palazzo Pitti, dove i comuni mortali non possono arrivare nemmeno in taxi. La cosa non è piaciuta per nulla ai cittadini dell’Oltrarno, che già qualche mese fa si erano visti sbattere fuori dalla stessa piazza dai buttafuori in nero che la recintarono per proteggere la festa nuziale di un miliardario indiano cui la giunta di Matteo Renzi e il Polo Museale avevano affittato i luoghi simbolo della città.
MA ORA SI È DAVVERO passato il segno, e il Corriere Fiorentino ha raccolto l’irrituale censura di Alessandra Marino, la soprintendente architettonica che ha giurisdizione sulla piazza: “Noi non abbiamo rilasciato alcuna autorizzazione che consentisse la sosta a quei pulmini. L’evento con tutti quegli invitati è stato organizzato dal Polo museale, a cui è stato espressamente vietato che le auto sostassero sulle rampe della piazza”.
E non è solo un problema di regole, è anche questione di trasparenza. Ricalcando fedelmente le orme del pasticcio dell’affitto di Ponte Vecchio a Montezemolo architettato da Renzi, anche in questo caso non si riesce a sapere quanto il Polo abbia guadagnato da questa disastrosa performance. E, in assenza della Acidini, un portavoce del Polo ha dichiarato: “Non possiamo comunicarlo senza l’autorizzazione di Azimut”. Un vero capolavoro: Firenze è ormai così in mano a chi la paga, che i fiorentini non possono nemmeno sapere quanto frutta il meretricio dei loro beni comuni.
Cristina Acidini ha ereditato dal suo mentore e predecessore Antonio Paolucci (il direttore dei Musei Vaticani recentemente autoproiettatosi ai vertici del Monte dei Paschi di Siena) un vasto sistema di potere, che ha coniugato con un modo molto originale di valorizzare il patrimonio artistico che dovrebbe custodire. Nel maggio del 2010 finì sul Corriere della Sera per aver festeggiato il proprio 59esimo compleanno con una festa privata dentro uno dei musei pubblici che dirige, Casa Martelli.
NEL 2012 È STATA invece citata dalla Procura della Corte dei Conti, che le contesta un danno erariale di ben 600.000 euro per l’acquisto (da lei proposto) del famigerato Cristo ligneo implausibilmente attribuito a Michelangelo. Ma nonostante la pesantissima accusa di aver abdicato “alla propria posizione di garanzia circa la correttezza dell’acquisto e il corretto impiego delle risorse del bilancio ministeriale”, i vari ministri per i Beni culturali si sono finora ben guardati dal rimuoverla.
Proseguendo la politica di Paolucci (che si autodefiniva il “movimentatore massimo”, in quanto capo del “sistema dei musei fiorentini: la più vasta riserva, in Europa, di opere d’arte mobili”), la Acidini è diventata la più grande organizzatrice di mostre propagandistiche all’estero: dal Giappone alla Cina al Brasile, non c’è paese al mondo che non abbia avuto la sua edizione della solita, eterna mostra sul Rinascimento che mette a rischio opere delicatissime dei musei di Firenze.
Proprio in questi giorni, quando il ministro Bray ha sospeso l'invio in Israele di un delicatissimo affresco staccato di Botticelli lungo cinque metri (che secondo i restauratori ha subito danni da movimentazione, forse proprio durante la trasferta dell’anno scorso a Pechino), la Acidini si è affrettata a dichiarare a Repubblica che “non è vero che l’opera non partirà. È stato deciso solo di rimandare la spedizione a quando saranno più chiari gli sviluppi della situazione mediorientale”. Parole davvero curiose in bocca a chi è pagato per assicurare la tutela del patrimonio, e non le relazioni internazionali. Tra catering di arte a domicilio (“spediamo in tutto il mondo” p otrebbe ormai essere il motto del Polo Museale) e cocktail party privati in piazze, ponti e musei pubblici, la premiata ditta Renzi-Acidini sta trasformando Firenze in una grande location di super-lusso: una camera a ore, con vista.
E per certificare questa decadenza (culturale, morale, sociale) non c'è bisogno di nessuna giunta. Basta passare per Piazza Pitti, in una sera di fine estate.

il Fatto 13.9.13
Tariffario dei tesori: il menu è questo
Non solo Ponte Vecchio: da 5 a 150mila euro, i prezzi


Galleria Palatina, Ponte Vecchio, perfino gli Uffizi: i gioielli di Firenze sono disponibili in affitto, con tanto di tariffario deciso dalla soprintendenza e dalla giunta cittadina. Per chi avesse voglia di un pic-nic in un parco davvero speciale, può avere tutto per sé la Grotta del Buontalenti nel giardino dei Boboli: prezzo 5 mila euro. Troppo spartano? Con 15 mila euro il Comune mette a disposizione il Cortile dell'Ammannati di Palazzo Pitti. Capolavori del Rinascimento affittasi, questo potrebbe essere il titolo delle polemiche che hanno investito Matteo Renzi e la sua amministrazione nel luglio scorso. A rendere nota la vicenda è stata Ornella De Zordo, consigliera comunale della lista civica Perunaltracitta . La denuncia non si ferma tra le mura di Palazzo Vecchio, ma arriva dritta fino a Palazzo Madama, dove il senatore del M5s Maurizio Romani rilancia le accuse. Si scatena un mezzo putiferio, con il sindaco fiorentino che minaccia querele e sfida Romani a rinunciare all'immunità . Il senatore contrattacca, accusando Renzi di avere affittato il Ponte Vecchio alla Ferrari per fare un favore all’amico Montezemolo. “Non è vero, ci hanno pagato 120 mila euro che serviranno a pagare le vacanze dei bambini disabili, dati i tagli di alcuni enti che avrebbero dovuto occuparsene”. L’ente che volle tenere i piccoli in città rimane misterioso, ma le liti intorno a quel tariffario che sembra una rotta turistica sono continuate. Il listino è interessante: noleggiare gli Uffizi costa 5 mila euro in caso di aperitivo, 10 mila per una cena. Prezzi più popolari per il Salone di Pietro da Cortona di Palazzo Barberini: la miseria di 7 mila euro. Con 10 mila, invece, si può prendere in affitto la Galleria Palatina di Palazzo Pitti. Il catering, ovviamente, si paga a parte. C’è pure un’offerta dedicata agli eventi commerciali. Allestire uno showroom tra i capolavori di Palazzo Medici Riccardi costa 150 mila euro. Forse è un po’ caro, ma rispetto alle solite fiere campionarie fa tutta un’altra figura.

il Venerdì di Repubblica 13.9.13
Il popolo della sinistra è diventato democristiano
E nessuno lo ha avvertito
Di Diego Bianchi “Zoro”

qui

il Fatto 13.9.13
I dissidenti si fanno il gruppo. 10 cinquestelle verso l’addio
Dialogo con sel al senato, con quelli del misto a Montecitorio
di Paola Zanca


Dodici di loro non saranno in Aula per cinque giorni, puniti per aver protestato sul tetto della Camera contro la riforma dell'articolo 138. Ma altrettanti potrebbero scegliere di non sedersi più sui banchi dei Cinque Stelle per sempre. Addio al sogno tradito del Movimento, il momento è arrivato.
Una dozzina, bastano questi. Metà di loro, deputati, potrebbe unirsi agli ex colleghi che già stanno nel gruppo Misto e dare vita a una componente politica autonoma. Bastano dieci persone: Adriano Zaccagnini, uscito dal gruppo a fine giugno in dissenso con i metodi “aziendalisti” del M5S, guida la fronda che potrebbe accogliere malpancisti della prima ora come Tommaso Currò, Paola Pinna, Walter Rizzetto, Aris Prodani, Alessio Tacconi e new entry della “dissidenza” come Gessica Rostellato e Ivan Catalano. Ma, per muoversi, aspettano un segnale da palazzo Madama. A Montecitorio sanno bene di contare pressoché nulla, ma credono anche che solo un ping pong con il Senato può dare il coraggio di alzare la testa dopo tanti mesi di insofferenza. I colleghi più anziani (e più determinanti per le sorti della maggioranza) hanno bisogno di un sostegno: “È come se fossimo amici della stessa comitiva – ragiona un deputato – Siamo usciti insieme tutti questi mesi, poi loro se ne vanno, ti guardano e ti dicono: 'Tu che fai, resti?'”.
PER QUESTO, per non lasciarli soli, hanno cominciato a ragionare sull'escamotage della “componente politica”. Ma anche al Senato, serve una via di fuga. I dieci nomi necessari a formare un gruppo autonomo, al momento non ci sono. Così, da questa estate, è cominciato un dialogo con alcuni senatori di Sel, in particolare con la toscana Alessia Petraglia: gli eletti a palazzo Madama del partito di Nichi Vendola sono 7, l'esperimento di fusione con i dissidenti grillini potrebbe portarli a formare un gruppo autonomo (con tutto l'armamentario del caso: soldi, personale, uffici). Si dà già per scontata l'adesione di Adele Gambaro, espulsa dai Cinque Stelle per aver criticato Grillo, che domani sarà ospite di un convegno della rivista Left a Roma (presente anche Zaccagnini) e che proprio ieri ha parlato delle sorti del governo: “Io penso e ho notizie che non cadrà, ma se cade vedremo... Io mi auguro che non cada, perché sta facendo bene”. Se non è una dichiarazione di intenti, ci assomiglia parecchio. A darle coraggio potrebbero arrivare i rinforzi di tre dissidenti storici del gruppo: Lorenzo Battista (ieri di nuovo ipercritico con Grillo e Casaleggio), Francesco Campanella e Fabrizio Bocchino. Per ora il patto – rispettato – tra i malpancisti è quello di sostenersi in Rete, condividendo gli status Facebook dei più coraggiosi.
Per ora, chi si piazza sul podio degli audaci, sono i 12 deputati che la settimana scorsa sono saliti sul tetto di Montecitorio. Ieri, l’ufficio di Presidenza della Camera li ha puniti con 5 giorni di sospensione dal-l’Aula. Una sanzione esemplare, ma meno grave del previsto. I questori avevano addirittura fatto i conti e immaginato per i parlamentari avventurosi una richiesta danni di 3800 euro. Commenta il vicepresidente grillino della Camera Luigi Di Maio: “Puoi frodare il fisco, essere indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, essere un pregiudicato a vario titolo, essere un ex piduista e stare comodamente seduto in Parlamento ma, per favore: non salire sul tetto! ”. La Boldrini e gli altri componenti dell’ufficio di Presidenza non hanno gradito l’atteggiamento della pattuglia Cinque Stelle che ieri è stata convocata per il “processo”. I 12 hanno chiesto che il resoconto della seduta fosse reso pubblico attraverso uno streaming e una diretta Twitter. La Presidenza ha risposto di no, il vice Fabrizio Adornato ha lasciato intendere che non si fidava della buona fede dei deputati M5S. Loro, stizziti, hanno appoggiato i cellulari sui banchi. Poi sono usciti: “Ci trattano come a scuola, questa è una dittatura”.

Corriere 13.9.13
I dissidenti 5 Stelle in contatto con Sel per formare insieme gruppi autonomi
di Alessandro Trocino


ROMA — Sono passati i tempi delle accuse tra Beppe Grillo e Nichi Vendola. Quando il leader dei 5 Stelle lo accusava di fare affari con Emma Marcegaglia e Don Verzè e il leader di Sel deprecava «gli urlatori dell’antipolitica». Da tempo, nelle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama le battaglie comuni, a cominciare da quella contro Silvio Berlusconi, hanno avvicinato M5S e Sel. Ora però si avvicina una prospettiva che potrebbe far risorgere gli antichi rancori tra i leader. Perché si fa sempre più concreta un’ipotesi, alla quale stanno lavorando senatori di Sel e colleghi a 5 Stelle con la valigia in mano: creare un gruppo autonomo a Palazzo Madama. Anche alla Camera le manovre dei «dissidenti» sono sempre più stringenti: a fronte di 6-7 deputati irrequieti, ne starebbe arrivando almeno uno a dar man forte ai colleghi fuoriusciti, Adriano Zaccagnini, Vincenza Labriola e Alessandro Furnari. Decisione che farebbe raggiungere il numero magico di 4 (la soglia è 10, ma anche i socialisti hanno ottenuto la deroga) che consentirebbe la nascita di una componente autonoma degli ex 5 Stelle alla Camera (in questo caso senza l’aiuto di Sel).
Ai piani alti del Movimento sono sicuri: «Ci sono almeno 4 senatori che hanno già deciso di uscire dal gruppo». E fanno anche i nomi: Francesco Campanella, Fabrizio Bocchino, Lorenzo Battista e Alessandra Bencini (ancora incerta). Altri aggiungono nel gruppo anche Mario Giarrusso, ma il vulcanico avvocato non sembra della partita. Parallelamente, i senatori di Sel stanno facendo i conti. Sono 7, compreso la presidente del gruppo Loredana De Petris. La soglia per formare un gruppo autonomo al Senato è di 10: basta quindi aggiungere almeno uno dei 5 Stelle attualmente nel Misto, Adele Gambaro, e un paio dei prossimi ad abbandonare il gruppo (che, come si è visto, sono 3-4), per arrivare al risultato. Colloqui e contatti si moltiplicano ancora in queste ore. Che l’operazione si compia immediatamente è improbabile. «Aspettiamo il casus belli , un segnale», dice uno dei possibili transfughi. Molti degli irrequieti sono disposti ad uscire solo in vista di un’operazione politica concreta. Cioè solo in caso di caduta del governo. In quel caso, il gruppetto ribelle potrebbe nascere per dare il sostegno all’esecutivo in cambio di un programma che abbia al suo interno almeno 2-3 punti già inclusi nella piattaforma elettorale dei 5 Stelle. E potrebbe più agevolmente respingere le prevedibili critiche di chi è pronto ad accusarli di volere passare al «nemico» per soldi.
Se al Senato le trattative sono ben avviate con alcuni esponenti di Sel, alla Camera i contatti sono continui. Le operazioni sono collegate e tra gli irrequieti si fanno i nomi di Alessio Tacconi, Paola Pinna, Walter Rizzetto, Ivan Catalano, Gessica Rostellato e Marta Grande. Ma anche di Tancredi Turco, che ieri al Secolo XIX ha detto: «Proponiamo l’alleanza con il Pd».
Intanto, l’ufficio di presidenza della Camera ha irrogato una sanzione di 5 giorni di sospensione a 12 deputati M5S: erano gli autori della protesta, venerdì scorso, contro la modifica dell’articolo 138 della Costituzione. I contestatori avevano passato una notte sui tetti, srotolando uno striscione.

l’Unità 13.9.12
Femminicidi, il decreto da solo non basta
di Antonella Anselmo

Se non ora quando Libere

TANTE SONO LE VERSIONI DELLA STAMPA SUL DIBATTITO PARLAMENTARE DEL DECRETO GOVERNATIVO DI CONTRASTO ALLA VIOLENZA NEI CONFRONTI DELLE DONNE. Secondo alcune, nel corso delle audizioni, il movimento «Se non ora quando» avrebbe espresso una posizione unitaria di critica dura e globale al decreto. Per un movimento composito, plurale come «Snoq» che ambisce, dalla sua nascita, a dare voce alle donne italiane, al di là di storici e datati steccati, sarebbe un ben strano risultato esprimere un rifiuto totale di un provvedimento, che pur con i suoi limiti, ha raccolto apprezzamenti da una larga opinione pubblica, testimoniati dai numerosi articoli comparsi sui grandi organi di informazione e su settimanali a larghissima diffusione. E in effetti non è così. Il movimento ha manifestato orientamenti diversi. Una parte di esso ha colto, come ho sottolineato nel corso della mia audizione a nome di «Se non ora quando Libere», nel decreto un importante segnale politico di accelerazione nel processo di adeguamento ai principi della Convenzione di Istanbul recentemente ratificata dall’Italia.
Il fenomeno dei femminicidi e della violenza essendo strutturale, assurge a fatto politico perché investe i diritti e le libertà delle donne nelle relazioni con gli uomini. Non riconoscere questo dato da parte dello Stato sarebbe un grave inadempimento degli obblighi internazionali. Dunque un intervento governativo non era procrastinabile. Si può e si deve viceversa discutere del merito, prescindendo da dogmi, ideologismi, interessi di parte e contingenza politica.
Il dl 93 è un passo avanti, per quanto incompleto e migliorabile in sede di conversione. Ad esso però dovrebbe seguire un Codice di settore (che riordini e dia forma coerente alla abbondante e disordinata legislazione in materia) e completi il percorso normativo fino alla piena attuazione della Convenzione di Istanbul.
Personalmente, come donna, sento che vada sostenuta ogni misura pensata per la sicurezza, protezione e il sostegno delle vittime di violenza di genere e tali sono appunto alcune misure contenute nel decreto: il gratuito patrocinio indipendentemente dal reddito, l’accelerazione dei processi, la testimonianza protetta, l’estensione dell’allontanamento e di altre misure di protezione a reati della stessa indole, le garanzie processuali di comunicazione alla persona offesa di revoca o modifica di alcune misure di protezione. Sulla base della fondamentale indagine Istat del 2006 emerge che il volto più brutale della violenza è dentro le mura di casa. Ora, il dl ha completato un percorso rendendo un po’ più omogenea la reazione repressiva dello Stato per i reati di violenza sessuale, stalking e di maltrattamenti nelle relazioni familiari. Sono invece da verificare alcuni delicati meccanismi processuali.
Diversa la valutazione sul Piano nazionale straordinario. Il Consiglio d’Europa impone con la Convenzione di Istanbul un approccio integrale e strutturale delle azioni di contrasto. E così il decreto governativo prescrive un piano straordinario che anticipa da subito una politica su più livelli di intervento, omogenea su tutto il territorio nazionale: prevenzione, educazione, assistenza, welfare pubblico, monitoraggio, formazione degli operatori, sostegno ai centri antiviolenza.
Tuttavia la norma non assicura adeguate risorse economiche. E questo è un limite invalidante. In chiave propositiva, «SnoqLibere» ha dunque avanzato la proposta che per legge sia prescritta la regolare rilevazione dall’Istat dei dati disaggregati e che la contribuzione, fatto salvo il pareggio di bilancio, avvenga attraverso la partecipazione anche finanziaria delle varie amministrazioni interessate. Solo così il Piano straordinario avrà speranza di essere concretamente attuato.

il Fatto 13.9.13
Boldrini cambia idea e torna al macchinone

NIENTE LANCIA, preferisce la Bmw. Secondo l’Espresso, il presidente della camera Laura Boldrini ha cambiato idea sulla vettura istituzionale da usare. Appena eletta allo scranno più alto di Montecitorio, nel pieno della polemica sulle auto blu, la Boldrini aveva annunciato di voler rinunciare alla berlina tedesca blindata cui avrebbe avuto diritto (scelta peraltro già compiuta da Gianfranco Fini). Ora però sembra avere cambiato idea e si muove per il centro di Roma a bordo della lussuosa auto che aveva promesso di lasciare in garage. La Lancia Delta usata in questi mesi dalla Boldrini era quella in dotazione al direttore generale di Montecitorio.

Corriere 13.9.13
Se un padre può uccidere sua figlia in nome di una religione distorta
di Michele Farina


Halima è stata uccisa dal padre con due colpi di kalashnikov davanti agli abitanti del villaggio, gli uomini da una parte e le donne dall’altra, trecento persone riunite tra le colline remote e brulle della provincia di Badghis, distretto di Ab Kamari, ovest dell’Afghanistan.
Il nome Baghdis vuol dire «la casa dei venti» e migliaia di italiani conoscono quel nome e quelle zone, molti ci sono passati, diversi hanno combattuto, qualcuno è morto. La strada che da Herat porta su a Bala Murghab, dove il nostro contingente ha lavorato fino a un anno fa, non attraversa il villaggio di Kookchaheel. Nessuno dei nostri Lince forse è mai transitato lungo la pista che si vede nel video diffuso dal quotidiano El Mundo a distanza di quasi 5 mesi da questo orrore: il megafono appoggiato a terra al centro della scena, l’imam Abdul Ghafur vestito di bianco che spiega la condanna a morte della giovane Halima colpevole di adulterio, «perché consegnarla al governo vorrebbe dire liberarla», perché il governo «è corrotto» (ed è vero), perché Halima merita di essere uccisa e le prove sono in cielo: «Voi stessi — dice l’imam alla folla — capite bene perché non piove». La siccità è colpa di quella ragazza di 18-20 anni il cui profilo sfuocato appare nel video in mezzo alla distesa secca, in ginocchio aspettando la morte. Il suo volto è coperto dal burqa, il padre deve esserle vicino. Si vedono gli sbuffi di fumo bianco dei proiettili, il megafono e la gente che grida «Allah Akbar», forse il padre che torna indietro alzando le mani in segno di trionfo e poi in mezzo alla folla degli uomini, tra le rade motorette che costituiscono l’unico mezzo visibile di locomozione, per un secondo si intuisce qualcuno disteso a terra che piange. Chi ha ripreso le immagini con il telefonino, quel 22 aprile 2013, ha raccontato che il ragazzo in lacrime era il fratello di Halima.
Ora l’imam Abdul Ghafur è rinchiuso in una cella di Qala-e-now, villaggio-capoluogo di una delle province più arretrate dell’Afghanistan, capitale dei pistacchi e dei tappeti, a una cinquantina di chilometri dal luogo dell’esecuzione del 22 aprile. Lì il contingente spagnolo (nel settore della missione Isaf a guida italiana) ha la sua base principale. Lì la giornalista del Mundo Monica Bernabé ha raccolto la testimonianza dell’influente leader religioso che aizzava la folla al megafono, arrestato dalla polizia soltanto a fine luglio: «Certo c’ero anch’io quando l’hanno uccisa, però c’era anche molta altra gente. Io non ho fatto nulla: se il governo non controlla la popolazione, come faccio a farlo io?».
Non ha molta importanza cosa abbia fatto Halima. Su di lei si raccontano diverse storie: che il marito era violento, che l’avesse ripudiata andando a vivere in Iran lasciandola con un figlio a casa dei suoceri che abusavano di lei. Si dice che lei avesse lasciato quella casa per scappare con un cugino. Forse lui l’ha riportata indietro, forse è fuggito in moto abbandonandola senza darle scelta, forse è stato il padre ad andare a prenderla in un villaggio vicino. Non ha importanza. L’orrore è che Halima ha avuto tutti contro. L’imam che l’ha condannata e il padre che l’ha uccisa. La famiglia e gli anziani del villaggio che diverse volte negli anni passati si saranno seduti a parlamentare con occidentali di pattuglia: qualcuno tra gli anziani avrebbe voluto lapidarla, ma la lapidazione avrebbe forse comportato anche la presenza del cugino con cui era fuggita e che guardacaso l’ha fatta franca. Non sono le grida «Allah è grande» e il megafono e il fumo degli spari a colpire di più: è la folla che guarda, tra le colline brulle, nella provincia dei pistacchi e degli italiani.

Corriere 13.9.13
Russia e America, le due nazioni «speciali»
La sacralità di Mosca. La missione degli Usa
Da Dostoevskij a Reagan, entrambe credono nel proprio destino manifesto
di Paolo Valentino


Probabilmente non dispiacerà, a Vladimir Putin, sapere che prima di lui soltanto un altro capo del Cremlino se l’era presa con «l’eccezionalismo americano». Di più, Iosif Stalin fu il primo in assoluto a usare il termine specifico. Successe nel 1929, quando Jay Lovestone, segretario generale del Partito comunista americano, venne cacciato dai ranghi dell’organizzazione su ordine di Mosca, non tanto per essersi schierato con Bukharin nella lotta per il potere sovietico, quanto per aver sostenuto che la forza, il radicamento e la mobilità sociale del capitalismo yankee rendevano inattuale la rivoluzione comunista negli Stati Uniti. «Occorre mettere fine a questa eresia dell’eccezionalismo americano», tuonò Stalin, cambiando per sempre il vocabolario del primo nemico.
Certo il concetto della «prima nuova nazione», qualitativamente diversa da tutte le altre, è antico. Ancora in navigazione verso il Massachusetts, nel 1630, John Winthrop, primo governatore della colonia, aveva teorizzato «the city on the hill», la città sulla collina, faro di luce per il resto del mondo, immagine poi ripresa nella brillante retorica di Ronald Reagan. A dare una descrizione compiuta della posizione «eccezionale» degli americani, era stato poi Alexis de Toqueville. Un americano, per lui, era un individualista, dedito al commercio, convinto di essere eguale a tutti gli altri membri di una società completamente libera.
Non ci volle molto però, perché l’eccezionalismo delle origini incontrasse nei primi decenni dell’Ottocento la dottrina jacksoniana del «destino manifesto», acquistando zelo missionario e militare. L’America aveva ricevuto da Dio la missione di espandersi attraverso il Continente e civilizzarlo. «Regeneration through violence», l’avrebbe definita in un libro fondamentale Richard Slotkin.
Fermiamoci un attimo. E ripensiamo al monito di Putin. Era solo americano il mito della nazione speciale già nel corso del Diciannovesimo secolo? Ascoltiamo cosa fa dire Fëdor Dostoevskij ai suoi personaggi Satov e Stavrogin, in uno dei più celebri dialoghi de «I Demoni».
«Sapete… qual è ora in tutta la terra l’unico popolo “portatore di Dio”, quello che verrà a rinnovare e salvare il mondo del nuovo dio ed è il solo cui siano state date le chiavi della vita e della nuova parola? Sapete qual è questo popolo, e qual è il suo nome?». «Dal modo che tenete devo necessariamente concludere e, credo, al più presto possibile, che è il popolo russo».
Ma già alcuni anni prima, Gogol aveva chiuso la prima parte dello straordinario «Le Anime morte» paragonando la Russia a «un’ardita, insorpassabile trojka» che vola via «tutta infusa dell’afflato di Dio»: «Russia dove mai voli tu? Rispondi. Non risponde. Stupendo lo squillo si spande dalle sonagliere; rimbomba e si muta in vento l’aria squarciata; vola indietro tutto quanto è sulla terra, e schivandola si fanno in disparte e le danno la strada gli altri popoli e le altre nazioni».
L’ambizione della Terza Roma e l’«idea russa» come idea cristiana, di cui aveva parlato il filosofo Soloviev, completano il quadro: di pulsioni eccezionaliste sono piene l’anima e la vicenda della Russia. Quella zarista. Come quella sovietica, vedi la madre del socialismo, la dottrina Breznev e tutto il resto.
E tuttavia, con abilità urticante, il nuovo zar post comunista, pur pronto a invadere un Paese sovrano come la Georgia senza autorizzazioni o basi legali di sorta, tocca un nervo scoperto dell’America di oggi, lacerata tra la vocazione alla crociata morale, la missione di imporre al mondo i suoi valori distillata dall’eterna riflessione sull’eccezionalismo e la voglia di ripiegare su se stessa, prendendo atto delle proprie fragilità, delle proprie insicurezze, dei propri limiti.
Nel 2009, Barack Obama disse di «credere nell’eccezionalismo americano» ma di sospettare che «anche gli inglesi credano in quello britannico e i greci in quello greco». La frase lo espose all’attacco del suo avversario Mitt Romney, che in campagna elettorale accusò il presidente di «non avere gli stessi nostri sentimenti verso l’eccezionalismo americano». Fu facile per Obama ricordare che la sua stessa biografia ne fosse la testimonianza. E poi correggere il tiro, spiegando di non vedere contraddizioni «tra credere nel ruolo dell’America di guidare il mondo verso la pace e la prosperità e pensare che ciò dipenda dalla nostra capacità di creare alleanze, perché non possiamo risolvere i problemi da soli».
Non ha grandi titoli, Vladimir Putin per bollare come pericolosa la rivendicazione dell’eccezionalità americana. Ma come osserva Roger Cohen, «quanto eccezionale puoi essere, se ogni grande problema che hai di fronte, dal terrorismo al nucleare, richiede un’azione comune?».

Repubblica 13.9.13
Verdi e gauche all’assalto di Hollande “Ormai è il presidente dei padroni”
Critiche per la finanziaria e l’ambiente. E il governo vacilla
di Giampiero Martinotti


Liberation
“Il presidente dei padroni” titolava in prima pagina martedì il giornale di sinistra, che ieri è tornato ad attaccare in copertina il capo dell’Eliseo, contrario a tassare le auto diesel: “Hollande l’inquinatore”

PARIGI — Presidente dei padroni, scarsamente ecologista e magari guerrafondaio: se il disamore tra i francesi e François Hollande è ormai di vecchia data, quello con una parte della sinistra è cronaca di questi giorni. Contestato a destra e all’estrema sinistra per la gestione della crisi siriana, adesso anche la sua politica interna suscita le ire di una parte della gauche. A interpretarle sono le prime pagine di
Libération, che accusa il presidente di aver abbandonato il suo programma di sinistra per una politica classicamente social- liberale e di aver tradito gli ideali dell’ecologia. E sono proprio i Verdi in prima linea nella battaglia politica: di fronte al rifiuto del governo di tassare le auto diesel, gli ecologisti minacciano di lasciare governo e maggioranza. L’autunno si annuncia infido e il 2014 pericoloso: le elezioni comunali di marzo e le europee di fine maggio rischiano di trasformarsi in una disfatta per i socialisti e in un trionfo per Marine Le Pen. A contrastare la tendenza servirà a ben poco il dirigismo economico dimostrato ieri con la presentazione di 34 progetti industrialiper il futuro, commentata dalla stampa con molto scetticismo.
Il candidato che accusava la finanza di essere il suo grande nemico, che arringava le folle contro i ricchi e annunciava divoler ricreare «il sogno francese » ha lasciato il posto a un presidente pragmatico. E come tanti suoi predecessori, Hollande ha cambiato linea senza spiegarsi: la sua impopolarità, confermata dagli ultimi sondaggi, nasce anche da questa sua incapacità a far capire la coerenza della strategia. Durante i primi mesi all’Eliseo, Hollande si è reso conto che il vero problema dell’economia francese è la competività delle imprese. Una diagnosi che in genere non piace a sinistra, perché implica una soluzione obbligata, cioè un aumento della produttività e una riduzione del costo del lavoro. E da qualche mese le sue misure vanno tutte nella stessa direzione: controllo del deficit pubblico, sgravi alle aziende, riduzione dell’imposta sulle società, rifiuto di imporre un tetto agli stipendi dei manager del settore privato. La Finanziaria 2014, che sarà varata il 25 settembre, codificherà la svolta: gli sconti alle imprese saranno pagati dalle famiglie.
Sul fronte ecologico, il clima rischia di farsi ancor più incandescente: per i Verdi, la tassa sul diesel, che ogni anno provoca la morte di migliaia di persone, è un impegno imprescindibile. Ma il governo tentenna: non vuole penalizzare i costruttori transalpini e nemmeno le classi popolari (il diesel rappresenta il 60% del parco automobilistico). Poco incline alle scelte drastiche e portato invece a mediare fra le varie correnti della gauche (social-liberali, ecologisti, keynesiani, massimalisti), Hollande ha finito per scontentare tutti.

Corriere 13.9.13
Libertà individuale e pluralismo
di Massimo Teodori


Il ministro dell'Istruzione Vincent Peillon, nel diffondere nelle scuole francesi la «Carta della laicità», ha proclamato che «l'essenza stessa della laicità è accompagnare gli studenti nel loro divenire di cittadini senza ferire alcuna coscienza», e che «la laicità della scuola non ostacola la libertà, ma la condiziona nella sua realizzazione». Il documento, espressione della migliore tradizione francese codificata nel primo articolo della Costituzione del 1958 («La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale»), indica l'opportunità di adottare un orientamento nazionale unificante nelle scuole di una società pluralista, in cui la presenza di islamici è contornata anche da gruppi islamisti che tendono a sovrapporre le proprie visioni integraliste alla libertà di tutti garantita dallo Stato neutrale. Nei Paesi europei, Italia in primis, in cui cresce la reazione anti-islamica in nome dell'identità nazionale, si dovrebbe guardare alla «Carta della laicità» francese come ad un buon esempio di conciliazione tra la tradizione occidentale della separazione tra l'appartenenza religiosa e la cittadinanza e tra Stato e Chiesa, e le esigenze della convivenza rispettosa delle diversità garantite dallo Stato laico.
Confesso perciò che non sono riuscito a leggere nella «Carta» francese le «gravi ferite dei principi liberali» indicate sul Corriere del 10 settembre da Giovanni Belardelli («Quella carta francese della laicità che ferisce i principi liberali»): «documento poco laico e poco liberale», «rischio di discriminazione», «concezione attivamente antireligiosa della laicità», «religione incompatibile con la libertà umana», e «rischio autoritario». Queste espressioni attribuiscono alla «Carta» formulazioni e interpretazioni del tutto estranee alla lettera ed allo spirito del testo ufficiale che ha raccolto il consenso della stragrande maggioranza dei francesi. Basta infatti leggere i suoi concetti chiave per rendersi conto che si tratta della riproposizione ad uso di professori e studenti dei principi enunciati nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948 e nella Convenzione europea dei diritti umani del 1950, fatti propri da tutti i Paesi dell'Occidente liberale ed avversati solo dagli integralisti d'ogni specie. Nella «Carta», all'articolo 2, si sostiene che «la Repubblica laica organizza la separazione delle religioni dallo Stato» (vedi Bill of Rights americano); al 3 si afferma che la laicità «garantisce la libertà di coscienza», al 4 che concilia «la libertà di ciascuno con l'eguaglianza e la fraternità di tutti», al 6 che «protegge da tutti i proselitismi e da tutte le pressioni», all'8 che tutela «la libertà di espressione», al 9 che tutela «l'eguaglianza tra uomini e donne», e al 10 che «trasmette il senso e il valore della città», cioè la centralità della cittadinanza. È vero che all'articolo 11 si vieta di «manifestare ostentatamente i simboli dell'appartenenza religiosa» come era stato già scritto nella legge del 2004, ma la chiave di lettura sta in quell'ostentatamente che nella società pluralista tende a proteggere la sensibilità individuale dalle provocazioni che possono aver luogo nelle convivenze istituzionali come la scuola.
In molti settori della nostra società trasformata radicalmente dalla secolarizzazione e dalle pluralità etniche, si invoca spesso la necessità per i cittadini del recupero di valori comuni intorno a cui stringersi al di là delle diversità religiose e culturali. Negli Stati Uniti, il Paese al massimo diversificato e unitario, i nuovi cittadini giurano sulla Costituzione che, insieme alla bandiera, rappresenta il riferimento fisso della nazione. In Francia anche con la «Carta della laicità» il governo tenta di fornire un indirizzo costituzionale che aiuti a formare il cittadino in nome dei diritti e delle libertà condivise rispettose delle coscienze individuali. Non mi pare che tutto ciò possa essere scambiato per «rischio autoritario».

l’Unità 13.9.12
Il Festival della filosofia
Dov’è finito l’amore?
Ora che ne abbiamo più bisogno stanno per strapparcelo... in nome della libertà
di Manuel Cruz


Anticipiamo la lectio magistralis che Manuel Cruz terrà stasera a Sassuolo: solo il giorno in cui riusciremo
a combattere la dipendenza affettiva spiega saremo davvero liberi e avremo raggiunto l’equilibrio di chi non conosce il dolore. Ecco come siamo arrivati fin qui

PER LUNGO TEMPO, IL RICORSO ALL’AMORE HA FUNZIONATO COME UN ARTEFATTO IDEOLOGICO PERFETTAMENTE OLIATO. Da un lato, è chiaro che l’amore offre all’individuo la possibilità di un’esperienza straordinaria, di un’intensità inusitata. Grazie alla passione amorosa, gli innamorati hanno sempre creduto di accedere a dimensioni sconosciute di sé, di conoscere strati del proprio essere che restavano nascosti al proprio sguardo e da quelle scoperte hanno ricavato la forza per fronteggiare la realtà con un’energia e un coraggio impensabili in circostanze normali. Chi ama è disposto a far saltare in aria qualunque convenzione, norma o abitudine, per quanto radicata nella tradizione e nelle usanze più diverse.
Ma, da un altro lato, questo flusso di vita in apparenza irrefrenabile ha finito invariabilmente e quasi senza eccezione per scorrere entro un inequivocabile alveo istituzionale. Nella sua esagerazione, il «vissero felici e contenti» sottolinea senza mezzi termini il segno dell’operazione ideologica: far credere agli individui di essere illimitatamente liberi (in alcuni casi, addirittura pervicaci sfidanti dell’ordine esistente) per finire nel migliore dei casi col sottometterli ai disegni prestabiliti. Nessun dubbio sull’efficacia dell’operazione: con un candore degno di miglior causa, nel corso della storia gli innamorati hanno insistito nell’idea che quell’esperienza vecchia quasi quanto la stessa umanità avrebbe acquisito con essi una dimensione nuova, inedita, e che là dove a lungo c’era stata strumentalizzazione per il dominio e il controllo, adesso sempre attraverso di loro, così candidamente fondativi, così ingenuamente inaugurali ci sarebbe stata l’opportunità di edificare, su nuove basi, una realtà radicalmente altra. In questo modo essi hanno dato compimento, senza saperlo, alla diagnosi che Spinoza ha lasciato scritta nella sua Etica: «gli uomini si ingannano nel ritenersi liberi, opinione che consiste solo in questo, che essi sono consapevoli delle loro azioni ma sono ignari delle cause da cui sono determinati».
La cosa ha funzionato senza grandi problemi finché una robusta struttura sociale ed istituzionale ha fornito all’operazione un’efficace copertura. Senza dubbio, nella coppia sposata c’era molta meno felicità di quanto si facesse credere, ma, per converso, al di fuori di essa rimanevano soltanto solitudine e tristezza (invecchiare senza essere riuscito a sposarsi era quasi il paradigma del fallimento personale). Del resto, il dispositivo funzionava così bene da consentire anche qualche ritocco per adeguarlo alle nuove circostanze. Si ricorderà che, contro chi, da miopi posizioni conservatrici, considerava il divorzio come l’inizio della fine dell’istituto matrimoniale, già Bertrand Russell osservava che nessuno crede nel matrimonio più di chi divorzia, proprio perché con il suo atteggiamento prova di avere tanta fiducia nell’istituto da essere disposto a contrarre un nuovo matrimonio tutte le volte che sia necessario e pensa anzi di essere l’unico responsabile, avendo sbagliato fino a quel momento la scelta del coniuge.
Ma ecco che la postmodernità e la società dei consumi di cui costituisce l’altra faccia della medaglia nella sfera dell’immaginario ha fatto saltare in aria questo schema. Le forme istituzionali ereditate, anche quelle già flessibilizzate, da un certo momento in poi sono diventate un ostacolo al flusso di presunte esistenze liquide che dovevano adeguarsi senza resistenza alle permanenti mutazioni del reale, adottandone le forme cangianti. Le relazioni amorose hanno virato verso una crescente volatilità e, a titolo esemplificativo, l’espressione l’amore della mia vita ha ceduto il passo ? forse come annuncio della sua definitiva scomparsa? all’espressione l’amore di questo momento della mia vita, momento, tra l’altro, sempre più fugace.
Alcuni dei danni collaterali che tale trasformazione ha causato negli individui si possono riconoscere senza difficoltà alla superficie del linguaggio. Chiunque può constatare che continuano ad essere a tono affermazioni come «va bene, ciò che succede è che io, sotto sotto, sono un po’ romantico» (dove «romantico» si può anche sostituire con «sdolcinato», se si preferisce). Tali affermazioni conservano una certa aria di famiglia insieme ad altre come: «io per queste cose e non c’è bisogno di specificare quali, perché so già a cosa state pensando sono molto classico». Tutte danno ad intendere, se cerchiamo l’inequivocabile complicità dell’interlocutore, che, anche se con tutta probabilità il modello precedente (romantico, sdolcinato o classico) è entrato in una crisi irreversibile, non siamo stati capaci di trovare alcuna alternativa abbastanza soddisfacente e lamentiamo più le difficoltà per concretizzarlo che il modello in sé in gran parte perduto, nostro malgrado. In altre parole, pare che, in fondo, ciò che ancora tante persone pensano potrebbe essere così formulato: «non posso credere, poiché è irreale, a sogni come quello della dolce metà ma, se esistesse davvero, certo continuerei a preferirlo ad ogni altra alternativa!».
Quant’è lontana la diagnosi di Habermas di qualche decennio fa, secondo la quale le utopie erano emigrate dal mondo del lavoro al mondo della vita! Pii desideri, ora lo vediamo, che si sono rivelati del tutto illusori. Ciò che si è veramente prodotto, per riprendere il titolo del famoso romanzo di Michel Houllebecq, è un’estensione del dominio della lotta. Il capitalismo attuale coinvolge l’intera vita e la massimizzazione dei consumi riguarda anche le emozioni e i sentimenti, che sono diventati un’altra merce, in quanto tale suscettibile di obsolescenza e caducità (oltre che di banalità), così come le relazioni personali sono divenute occasione di transazione e di dominio.
I tempi attuali non sono quindi i migliori per l’esperienza amorosa, a meno che non sia proprio l’ultimo riparo che ci resta quando la durezza del mondo esterno pare in procinto di arrivare al parossismo. O se preferite un’altra formulazione dello stesso crudele paradosso: siamo sul punto di rimanere senza amore proprio nel momento in cui ne abbiamo più bisogno. E stanno per strapparcelo con il medesimo argomento con cui ci strappano tutto: in nome della libertà. Come accade in altre sfere dell’esistenza umana in particolare in quella economica, come la presente crisi sta mostrando con lacerante evidenza -, quando l’ordine capitalistico ci promette libertà, mentre in realtà ci sta gettando nell’abbandono più assoluto.
So che è parlare dall’ultima trincea, ma diffidate di tutte le proposte che, nelle vesti dell’auto-aiuto, si ostinano a introdurre linguaggi e categorie di risonanza clinica per curare l’esperienza amorosa. Così, mirano così in modo inequivocabile alla liquidazione definitiva di ciò che per il nuovo ordine sembra essersi convertito in un’ingombrante, perché disfunzionale, questione (l’amore, certo). Sospettate di chi, sempre per il vostro bene, cerca di convincervi che dovete combattere la dipendenza affettiva, come se fosse pensabile un amore che non la include. Il giorno in cui riusciste a sconfiggerla del tutto godreste di una perfetta libertà senza rischio, sperimentereste la stessa serena atarassia di un anestetizzato, avreste raggiunto l’impeccabile equilibrio di chi non conosce il dolore per la mancanza dell’essere amato né la felicità senza limiti davanti alla sua mera presenza. Arrivati a questo punto, non trovo argomento migliore che formulare una domanda: vi interessa uno scenario del genere?
Traduzione dallo spagnolo di Nacho Duque García e Michela Zago
Consorzio per il festivalfilosofia 2013

Il Festival di filosofia
Da Bauman a Wulf oltre 200 appuntamenti

Da oggi a domenica 15 settembre a Modena, Carpi e Sassuolo quasi 200 appuntamenti fra lezioni magistrali, mostre, concerti, spettacoli e cene filosofiche. Il tema di quest’anno sarà l’amore. Tra i protagonisti Enzo Bianchi, Massimo Cacciari, Roberta de Monticelli, Roberto Esposito, Umberto Galimberti, Massimo Gramellini, Michela Marzano, Salvatore Natoli, Vincenzo Paglia, Giovanni Reale, Stefano Rodotà, Chiara Saraceno, Silvia Vegetti Finzi, Remo Bodei, Luc Ferry, Michel Maffesoli, Anne Dufourmantelle, Marc Augé, Christoph Wulf; Zygmunt Bauman, Aleksandra Kania, Eva Illouz, Manuel Cruz, Stavros Katsanevas. Ingresso libero.

Repubblica 13.9.13
Quel che conta nell’eredità è la trasmissione del desiderio
di Massimo Recalcati


Un sintomo sociale dell’attuale difficoltà che caratterizza il rapporto tra le generazioni è l’assottigliarsi dell’eredità materiale: sempre meno i figli ereditano ricchezze accumulate dai propri genitori o dai propri nonni. La crisi economica oltre a rendere più fosco il futuro dei nostri figli sembra che li abbia spogliati anche del loro passato rendendoli più poveri, meno garantiti dalla possibilità di contare su chi li ha preceduti. Tuttavia la psicoanalisi insegna che l’eredità che più conta non è fatta tanto di beni, di geni, di rendite o di patrimoni. Essa concerne le parole, i gesti, gli atti e la memoria di chi ci ha preceduti. Riguarda il modo in cui quello che abbiamo ricevuto viene interiorizzato e trasformato dal soggetto. Nell’ereditare non si tratta dunque di un movimento semplicemente acquisitivo, passivo, come quello di ricevere una donazione. I nostri figli ereditano ciò che hanno respirato nelle loro famiglie e nel mondo e che hanno fatto proprio. La più autentica eredità consiste di come abbiamo fatto tesoro delle testimonianze che abbiamo potuto riconoscere dai nostri avi. Da questo punto di vista ogni figlio deve accogliere che il suo destino di erede è quello di essere anche orfano – come l’etimologia greca, mostra: erede viene dal latino heres che ha la stessa radice di cheros, che significa
deserto, spoglio, mancante e che rinvia a sua voltaal termine orphanos.
Cosa illustra questa convergenza dell’erede con l’orfano? Diverse cose, tra le quali il fatto che il giusto erede non si limita a ricevere ciò che gli avi gli anno lasciato, ma deve compiere, come direbbe Freud attraverso Goethe, un movimento di riconquista della sua stessa eredità: “ciò che hai ereditato dai padri riconquistalo se lo vuoi possedere”. In questo senso l’eredità autentica implica un movimento attivo del soggetto più che una acquisizione passiva. Ma cosa si eredita se non si eredita un Regno, se non si è figli di Re? Quello che conta nell’eredità è la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra. È il modo con il quale i nostri padri hanno saputo vivere su questa terra provando a dare un senso alla loro esistenza; è il modo con il quale i nostri padri hanno dato testimonianza del loro desiderio, ovvero che si può vivere con slancio, con soddisfazione, dando senso alla nostra presenzanel mondo. Ne troviamo un esempio formidabile in un film dedicato interamente al rapporto tra le generazioni e al tema dell’eredità come èGran Torinodi Clint Eastwood. I legittimi eredi restano a bocca asciutta di fronte al giovane Tao che viene riconosciuto, al di là della stirpe e del sangue, cioè al di là di un diritto stabilito, come giusto erede. A dimostrazione che l’eredità più che una acquisizione o, peggio, una clonazione è un movimento di “riconquista”, è un fare originalmente nostro ciò che è stato fatto di noi dagli altri. Tao, diversamente dai figli biologici, è il giusto erede perché ha accolto la testimonianza di Walt, ha accolto la Legge della sua parola, come quando gli intima di non rubare la Gran Torino, o come quando, più teneramente, lo inizia all’incanto dell’incontro amoroso. Tao accoglie la Legge del padre – non si può vivere rubando, non si può vivere dissipando la propria vita – non grazie ad una eredità di sangue ma da una eredità simbolica, riconoscendo il valore della parola del padre “adottivo”. Solo attraverso questo riconoscimento può decidere di essere nel mondo in modo diverso dalla banda omicida dei suoi cugini.
In questo senso il giusto erede è colui che può ricevere qualcosa dai suo padri proprio perché non si limita a riprodurlo passivamente. Non è questo il destino di ogni figlio? Lo statuto orfano di ogni figlio non significa anche questo? Non significa che siamo obbligati ad inventare la nostra eredità? In un processo positivo di filiazione non è forse sempre in gioco l’eredità come eresia, come una deviazione creativa del solco tracciato da chi ci ha preceduto?

La Stampa 13.9.13
Festival Filosofia
Non si è mai soli come due innamorati
La coppia può sentirsi fuori dal mondo o ciascuno può sentirsi un’entità a parte
Quando si ama il sentimento della fusione appartiene al singolo, ognuno lo vive per sé
Nella passione l’altro è l’uomo o la donna che trasforma il mondo con la sua presenza
di Marc Augé


I fidanzatini del disegnatore francese Peynet sono un’icona per gli innamorati Un immagine da Gli innamorati sono soli al mondo, il film di Louis Decoin, uscito nel 1947 e interpretato da Louis Jouvet. Il titolo è diventato in Francia una sorta di modo di dire. Nel film Jouvet è un celebre compositore conteso da due donne, la diciottenne Renée Devillers e la trentenne René che è sua moglie. La diciottenne è innamorata, crede che anche lui lo sia, ma lui alla fine le preferisce la moglie. «Oh, vorrei tanto che anche tu ricordassi / i giorni felici del nostro amore / Com’era più bella la vita / E com’era più bruciante il sole» questi versi da le foglie morte di Jacques Prévert ( trad. di Maurizio Cucchi, Guanda 2004) esprimono bene, secondo Augé, un tipo di «solitudine degli innamorati». Prévert (nella foto) è stato il poeta dell’amore nella stagione dell’esistenzialismo francese Una scena dal Don Giovanni di Moliére. Il protagonista in realtà non è un seduttore, è un amante di sensazioni; è possibile immaginare che egli abbia avuto un’esperienza di solitudine a due con la moglie Elvira e che – giunto ad un certo punto della sua vita – abbia preferito alle illusioni effimere della «solitudine a due» la solitudine radicale delle emozioni istantanee e delle conquiste facili
«Gli innamorati sono soli al mondo»: il detto è divenuto p rove rb i a l e. Ha dato il titolo ad un film di Louis Decoin, uscito nel 1947; l’attore principale era Louis Jouvet. Ricordo di avere canticchiato, all’età di dodici o tredici anni, il valzer che faceva da colonna sonora, risentendo forse senza sapere perché - del suo fascino ambiguo (a dire il vero non gioioso, ma nemmeno triste). L’evocazione della solitudine a due per le strade di Parigi è un tema trito e ritrito delle canzoni d’amore. Ma in che cosa consistono esattamente la «solitudine» di cui esse parlano e l’«amore» che ne è la causa?
Malgrado la sua apparente banalità, la frase da cui siamo partiti si presta a due interpretazioni differenti. La prima è la più immediata: la solitudine a due degli innamorati prigionieri della loro passione e ciechi verso tutto il resto. Tale interpretazione basta a spiegare quella sorta di malinconia che quella frase porta con sé e che i ritornelli delle canzoni popolari esprimono a modo loro: ognuno sa o dovrebbe sapere che la passione è passeggera e che, nella sua forma esplosiva ed esclusiva, è destinata a morire. Ad ulteriore sostegno di questa interpretazione si può d’altro canto aggiungere la considerazione del fatto che la solitudine degli innamorati è rafforzata dall’indifferenza, dall’incomprensione o dalla gelosia degli altri, di coloro che non hanno mai conosciuto l’amore o che l’hanno scampata bella.
È tuttavia possibile fornire una seconda interpretazione, più letterale, di quel detto che forse esprime il vero significato della prima. Se gli innamorati sono soli al mondo, lo sono ciascuno per proprio conto: due solitudini vengono a coincidere; è questa unione che chiamiamo amore, sia che si manifesti come «colpo di fulmine» improvviso sia che si manifesti come un movimento progressivo ma irreversibile, movimento che Stendhal chiamava «cristallizzazione». Per quanto fusionale possa essere o sembrare, è pur sempre un’unione di due individualità, il sentimento stesso della fusione appartiene al singolo, ognuno lo vive per sé. I temi dell’anima gemella e delle metà complementari nel Simposio di Platone esprimono un desiderio: l’apparente unione di due solitudini alimenta per qualche tempo la nascita di un’illusione. I due innamorati sono soli al mondo, ma il mondo comincia con l’altro. La «doppia solitudine» è il vero significato della «solitudine a due». Le parole, le parole pronunciate spontaneamente o riprese più sottilmente dai poeti, lo affermano e lo confessano con ingenuità. Cercano di esprimere la voglia di vivere intensamente che si prova quando sentiamo sorgere intorno a noi un mondo che improvvisamente acquista più forza ed evidenza: «Oh, vorrei tanto che anche tu ricordassi / i giorni felici del nostro amore / Com’era più bella la vita / E com’era più bruciante il sole» (Jacques Prévert, Le foglie morte, trad. di Maurizio Cucchi, Guanda 2004).
L’altro, nella fusione della passione amorosa, è l’uomo o la donna che trasforma il mondo con la sua presenza. Ma ognuno vive il suo sogno con le proprie sensazioni e i propri colori e vi trasporta la propria immagine dell’altro. In tal senso, la «relazione amorosa» non è propriamente una relazione; una relazione tra due individui, per quanto possa essere forte, non si lascia compromettere dalla tentazione della «fusione». La fusione non è solo la simpatia o l’empatia, è il divenire padroni dell’altro a livello immaginario e, in tal senso, la negazione di esso, una forma di cannibalismo vorace e pulsionale. Per questo motivo, rompere lo stato di sudditanza reciproca a cui in definitiva corrisponde l’unione di due solitudini può essere molto pericoloso: nel momento in cui si profila la possibilità di un amore autentico e illuminato, grazie al riconoscimento dell’altro in quanto altro, l’egoismo della passione impedisce spesso di costruire una relazione. La disillusione, la delusione e la disaffezione possono però fornire anche l’occasione per giungere a una scoperta, la prova dell’esistenza dell’altro, e per rendere possibile un nuovo inizio: una sfida, una promessa, o al contrario, una minaccia di morte, la fine dell’avventura e della storia d’amore.
La consapevolezza di questa forma esacerbata di solitudine è il tratto caratteristico di un personaggio come Don Giovanni: in questo caso, non è opportuno parlare di infedeltà in quanto egli non prende nemmeno in considerazione la possibilità di una relazione. Il «fascino delle inclinazioni nascenti», al quale dice e sa di essere così sensibile, riguarda soltanto lui. Il Don Giovanni di Molière non è un seduttore, è un amante di sensazioni; è possibile immaginare che egli abbia avuto un’esperienza di solitudine a due con la moglie Elvira e che – giunto ad un certo punto della sua vita – abbia preferito alle illusioni effimere della «solitudine a due» la solitudine radicale delle emozioni istantanee, delle conquiste facili e delle menzogne immediate. Don Giovanni è un personaggio tragico che, al di là delle peripezie della sua vita amorosa, sembra incarnare in anticipo sui tempi la forma di solitudine tipica della modernità ed oggi molto attuale.

l’Unità 13.9.12
Il pensiero delle donne che cambia il mondo
Hannah e le altre Il bel libro di Fusini esplora le riflessioni filosofiche
di Arendt, di Weil e Bespaloff su percorsi nella Storia alternativi al sistema violento del maschile
di Valeria Viganò


IN QUESTO LIBRO SI PARLA DI DONNE. DONNE IMPORTANTI, PENSATRICI CHE HANNO IMPRESSO IL LORO SIGILLO A UN INTERO SECOLO, RISCOPERTE A POSTERIORI NELLA LORO UNICA GENIALITÀ. Non che Hannah Arendt mancasse di qualche fama in vita, ma certamente nei decenni il suo pensiero ha acquisito uno spazio più ampio e fondamentale nella storia della filosofia. Non che Simone Weil mancasse di una originalità prepotente e assoluta nelle sue scelte esistenziali, ma oggi la sua pratica di condivisione sociale portata all’estremo e le sue scelte teoriche controverse e attualissime sono costantemente recuperate e studiate come materia preziosa. La terza donna che abita il bel libro di Nadia Fusini, Hannah e le altre, è meno nota, anzi quasi sconosciuta, Rachel Bespaloff, appartata e autodidatta. Hanno in comune un tempo, gli anni della seconda guerra mondiale, la fuga dalle persecuzioni, la perdita e la volontà di emanciparsi, liberarsi dal vincolo che precludeva il sapere alle donne, e anche se i loro destini diversi si incrociano appena, convergono nella medesima speculazione filosofica sulla prevaricazione, la violenza, l’orrore della guerra e dell’ingiustizia. La loro attenzione non può esimersi dall’affondare nei meccanismi che generano l’oppressione e il male, perché lo subiscono e lo pagano personalmente. Non demordono mai, una cocciutaggine bisognosa di indagare e capire le porta a stare fuori dagli schemi, perché dagli schemi lo sono già come scrittrici, come donne. La lotta attraverso il pensiero e la pratica contro il potere che manifesta le sue lordure più atroci è ciò che le sostiene. Ma l’unica che sopravvivrà allo scontro reale sarà Hannah, la meno outsider, la più inserita in ambito accademico. Le altre, Simone Weil e Rachel Bespaloff, umanamente ne usciranno tragicamente sconfitte. La prima muore giovane, provata da una febbrile vita di stenti e domande, dopo essere emigrata e poi rientrata coraggiosamente per portare a termine il suo compito. La seconda, emigrata e mai più rientrata in patria, affida al suicidio la sua disperazione profonda.
Fusini è una donna che parla di donne che parlano il mondo. Il libro è pervaso nei contenuti e nella narrazione da un’inconfondibile punto di vista femminile, sono occhi femminei quelli che osservano e quelli che sono osservati e davvero costituiscono un solco di diversità ineludibile nella riflessione filosofica. Perché colgono della Storia i nodi essenziali, indicano sentieri inusuali e tentano con pervicacia di minare il sistema violento e sanguinario che il maschile porta come unico esempio di confronto con la realtà umana. Fusini, nelle prime pagine di Hannah e le altre, mette anche specularmente la sua voce in campo, e lo fa con il preciso scopo di ridarci la pregnanza di queste pensatrici e riflettere sulla barbarie del presente che sguazza nel sangue delle donne. Il nostro presente che discende da un secolo di guerre e stermini, dovrebbe aver incamerato, per avversione, la repulsione per il male inflitto arbitrariamente da una parte dell’umanità sull’altra che le è diversa e imprimere così il suo dominio. Oggi la necessità aberrante di imporre il dominio è perpetrata da un genere sull’altro. La lezione non è stata imparata. Perché il bisogno di dominare ancora non è stato dismesso dagli uomini, loro continuano a uccidere e comandare, e a usare l’odio come difesa di quel comando. Alle donne non appartiene questa tipo di follia, se non introiettata raramente come sparuto adeguamento a un modello culturale dominante.
Hannah e le altre ci dice questo, e fa leva sul pensare e sull’agire delle tre filosofe, che è stato laterale e originale in quanto femminile, ma ha focalizzato meglio di chiunque altro il cuore di tenebra delle relazioni umane e politiche. Davvero qui la parola outsider che Fusini usa per definire Hannah, Simon e Rachel ha una valenza pregnante e polivalente. Si potrebbe tradurre con reiette, non conformi, estranee, controcorrente. Certamente un’altra corrente etica le percorre, un’altra passione che non dimentica ma ingloba la vita.

Hannah e le altre, Nadia Fusini pagine 168 euro 18 Einaudi

Repubblica 13.9.13
Dieci anni fa moriva la regista e fotografa tedesca. Un libro la racconta: dalle celebrazioni del nazismo al pentimento
La ninfa del Fuhrer
Leni Riefenstal, il talento e le colpe
di Irene Bignardi


La ninfa egeria del Führer o un’artista persa nella sua ambizione al punto da non vedere quello che stava succedendo attorno a lei? Un talento epico che per esprimersi ha avuto bisogno di pretesti importanti come il congresso di Norimberga e le Olimpiadi - o, complice la sua ambizione e il suo talento, una oggettiva fiancheggiatrice del potere nazista?
A dieci anni dalla scomparsa di Leni Riefenstahl, morta nel settembre del 2003 a 101 anni, l’audace, algida attrice di tanti film di montagna, la regista diLa bella maledetta, diIl trionfo della volontà, diOlympia, la fotografa eccellente dei nuba e del mondo sottomarino, è ancora un personaggio scomodo, ammirato da molti (da Pauline Kael alle femministe americane degli anni Settanta, da Warhol a Coppola), ma sempre sotto accusa e sotto processo, molto più di quanto non sia mai accaduto ad altri artisti - uno per tutti: Herbert von Karajan – compromessi con il regime nazista e abilmente sopravvissuti alla loro vicinanza con il medesimo.
Su di lei, Leni, che pure è uscita scagionata da una lunga serie di processi per “denazificazione”, che è stata assolta dagli americani come dai francesi, («Leni Riefenstahl non è mai stata membro del Partito Nazista o di alcuna sua sottodivisione », recitava il testo del verdetto, e tra lei e i gerarchi del partito non c’è stato alcun rapporto «che non sia nato da normali relazioni commerciali finalizzate all’esecuzione dei progetti artistici a lei assegnati»), che è stata ridotta in povertà dai costi di queste azioni legali, ha vissuto tre anni tra prigioni e istituti psichiatrici, ha dovuto inventarsi un nuovo mestiere portato avanti con il talento e la capacità di invenzione che (almeno questo) nessuno le nega, su Leni Riefenstahl si addensa sempre e nonostante tutto l’etichetta pesante e cupa di una astuta fiancheggiatrice, di una donna che esercita il suo talento e la sua ambizione senza scrupoli.
Non è questa l’impressione che ho avuto, ormai vent’anni fa, quando l’ho intervistata per queste pagine in occasione del suo novantesimo compleanno, e ho assistito a un’esplosione di lacrime a commentare il suo dichiarato e sofferto senso di colpa per la propria cecità, per il proprio egocentrismo, per quell’ambizione che le ha impedito di vedere qualsiasi cosa al di fuori di ciò su cui puntava la sua cinepresa e la sua voglia di autorealizzazione. Grande attrice? Non lo è mai stata. Difficile pensare a una simulazione. Ma, spiegava, «era difficile capire le cose allora. O almeno era difficile per me. Ero spesso in cima a una montagna o con l’occhio incollato a una cinepresa. I giornali che leggevo dicevano ben poco», e lei si occupava solo delle sue invenzioni tecniche, a cui ho piegato persino l’apparato della propaganda nazista, e delle meraviglie del montaggio dei chilometri di pellicola girati.
Questa Leni è anche quella che racconta, in perfetta puntualità con l’anniversario della sua scomparsa, un libro metà romanzo metà rievocazione storica, Riefenstahl, di Lilian Auzas (Elliot, pagg. 189, euro 18,50, traduzione un po’ strana di Monica Capuani: si può definire “scalcinata” la Germania del dopoguerra?).
Auzas, che ha trent’anni e si avvicina alla storia con lo stupore dei giovanissimi, ha conosciuto Leni Riefenstahl attraverso la comune passione per l’arte africana, poi come studioso degli artisti attivi sotto i regimi totalitari. E ha debuttato con questo romanzo in terza persona sì, ma soggettiva, ricalcato sulle vicende che Leni Riefenstahl ha raccontato nella sua autobiografia del 1987, Memoiren (in Italia tradotto con il titoloStretta nel tempo, Bompiani).
L’effetto della terza persona in soggettiva – a cui si alternano dei momenti “critico/storici” dell’autore - è spiazzante e a tratti un po’ cheap. Soprattutto, sottolinea ed enfatizza quel che di volgarotto, di ovvio, di facile c’è in questa storia vera di ambizione e di potere, di bravura e di sessualità così libera da essere imbarazzante – almeno se te la senti raccontare con un linguaggio da “sfumature”. Si veda la descrizione dell’avventuroso incontro sessuale di Leni con tale Glenn Morris, sedotto e abbandonato in uno spogliatoio per soli uomini fortunatamente deserto. O, dal lato letterario, ecco le suggestioni che avrebbero spinto Leni Riefenstahl a tentare una nuova vita in Africa, dove avrebbe realizzato le sue bellissime foto sui nuba: «La scrittura franca di Ernest Hemingway si confondeva con i pochi stereotipi che galoppavano nella sua testa: misteriosa Africa».
Nonostante l’enfasi letteraria e la prosa avventurosa, escono da queste pagine un pezzo di storia e un ritratto “per tutti” di questa donna caparbiamente creativa, di questa artista capace di reinventarsi continuamente, di questa cineasta testardamente votata a una egocentrica realizzazione di se stessa e, come scrive con un brillante ossimoro Auzan, dei suoi «orribili capolavori».
Leni, pentita o no, diceva che il suo passato diIl trionfo della volontà e di Olympia era «una tale ombra sulla mia vita che la morte sarà per me una liberazione ». È morta con questa verità, o con questa menzogna, sulle labbra. Ma anche un libro facile come quello di Auzan ci conferma che merita di essere conosciuta e studiata di più e al di là delle etichette che le si sono incollate addosso.

il Venerdì di Repubblica 13.9.13
La mente è informazione che “sente” il mondo e se stessa, due scienziati lo dimostrano
Tradotti in cifre i segreti della coscienza
di Elena Dusi

qui