sabato 4 luglio 2015

MISCELLANEA DI SABATO 4 LUGLIO
ARTICOLI DA REPUBBLICA, IL SOLE, IL MANIFESTO

Il Sole 4.7.15
Tsipras: «No ai ricatti europei»
Dal Consiglio di Stato via libera al referendum
Sondaggi in parità
di Vittorio Da Rold


ATENE Alexis Tsipras, accolto da un boato di ovazioni, mi passa accanto a pochi centimetri, circondato da una testuggine umana del servizio d’ordine che si fa strada tra i 30mila sostenitori in un clima da stadio in Piazza Syntagma, ad Atene, per il discorso conclusivo della breve campagna elettorale per il referendum di domenica. Dietro di lui c’è il ministro delle Finanze, Yanis Varoufakis, il capo negoziatore, Euclid Tsakalotos, e Zoe Konstantopoulou, presidente del Parlamento, che mi stringe la mano con forza scambiandomi per un sostenitore. «Basta con i ricatti della troika e dei tecnocrati che hanno provocato 1,5 milioni di disoccupati in Grecia. Qui, dove è nata la democrazia, lanciamo un messaggio di speranza mentre tutto il mondo ci guarda. Vogliamo restare in Europa con dignità», afferma il premier greco davanti a una folla straripante ed entusiasta ribadendo la sua linea della richiesta di un voto favorevole al governo per tornare al tavolo dei negoziati più forte. «Domenica lanceremo un messaggio di dignità e nessuno ha il diritto di dividerci dall’Europa a cui apparteniamo», conclude in un breve discorso tra cori ritmati che ripetono «no» senza tregua.
A 500 metri, nel vecchio stadio olimpico, c’era il raduno del “sì”, più silenzioso, moderato, solo 17mila supporter e senza un leader riconosciuto che potesse catalizzare l’entusiasmo dei presenti a causa delle divisioni interne del movimento. La guida morale della galassia del “sì” è in mano a due nomi di politici indipendenti e poco compromessi con la politica precedente spesso troppo screditata da anni di austerità e, precedentemente, di clientelismo e conti truccati: Georgios Kammini, sindaco di Atene e Yiannis Boutaris, 72 anni, il sindaco molto apprezzato di Salonicco, la seconda città del Paese. I suoi sostenitori lo chiamano l’anti-Tsipras, l’uomo che dovrebbe tenere il vessillo dei sostenitori del “sì”, insieme a Kammini, nel referendum di domenica prossima. Paulina Lampsa, consigliere dell’ex premier George Papandreou, dice che la «strategia è quella di mettere in secondo piano i partiti tradizionali e mettere in prima fila la società civile». I due sindaci avevano parlato giovedì e ieri non c’erano in piazza. Un errore di comunicazione che potrebbe costare caro al movimento, che ieri è apparso acefalo.
Ma dove va la Grecia? In un sondaggio personale fatto nei due raduni i giovani sono sembrati pronti a dire “no” al referendum, mentre gli anziani sono apparsi realmente terrorizzati, e pronti al “sì” forse anche a causa della campagna allarmante delle tv private che da giorni bombardano sugli effetti catastrofici di una vittoria del “no”. Un segnale inquietante per l’Europa vedere che i giovani gli voltano le spalle.
«Noi giovani non abbiamo paura perché non abbiamo nulla da perdere dopo cinque anni di austerità», dice Yanis, studente 28 anni . «L’Unione europea vuole solo far cadere questo governo ma non vogliono affatto far uscire la Grecia dall’euro. Quindi ci conviene dire no è trattare nuove e migliori condizioni per avere i crediti», racconta Vassilis, 30 anni, idraulico, sostenitore del “no”. «L’Europa vuole soffocarci, ci ricatta perché chi ha i soldi vuole decidere della nostra vita. Ma questa non è l’Europa che io sognavo», dice Kyriakos, 65 anni, autotrasportatore con i capelli raccolti a codino.
«Voto sì contro il governo comunista e perché voglio restare in Europa», ribatte sul fronte opposto Constantinou. «Sono per il sì perché sono contro il governo e perché abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi», aggiunge Ioannis che sventola una bandiera del “sì”, che vendono poco lontano al prezzo di 8 euro l’una più fischietto da corteo a un euro. Nel pomeriggio il Consiglio di Stato greco ha respinto il ricorso presentato contro il referendum voluto da Atene, spianando la strada al voto, che dunque si terrà domenica come programmato.
“«Stiamo mobilitando attori, calciatori, presidenti di squadre sportive per far capire che è una battaglia nazionale non partitica», dice Sofia Voultepsi, ex ministro del governo Samaras al telefono da Cefalonia dove è andata per un tour elettorale. «Soprattutto agli agricoltori ricordiamo che un “no” vorrebbe dire perdere i fondi europei, che abbiamo calcolato sono stati pari a 110 miliardi di euro dal 1981 (data dell’ingresso del paese nell’Unione) al 2020, data della fine dei sette anni di bilancio», conclude Voultepsi.
Con il “sì” e il “no” praticamente alla pari in tutti i sondaggi, la breve campagna per il referendum che deve accettare o respingere gli accordi con i creditori internazionali della Grecia si è conclusa ieri sera con due manifestazioni parallele e contemporanee e qualche scontro, contenuto, tra incappucciati e polizia. Ora i greci devono decidere quale piazza far vincere.

Repubblica 4.7.15
Quelli del NO. “Basta ricatti e ultimatum,messaggio di dignità”
Tsipras in piazza: “Non dovete farvi terrorizzare,nessuno può mandarci via dall’Europa”. Scontri circoscritti tra gli anarchici e la polizia
di Matteo Pucciarelli


ATENE. Sul lato sinistro del palco posto proprio davanti alla sede del Parlamento, c’è uno striscione con il verso di una vecchia poesia greca: «Piccolo popolo che combatte senza spade né pallottole per il pane di tutte le genti». Non ci sono indici né vincoli da rispettare in piazza Syntagma, si parla solo al cuore (e alla pancia) di una nazione che non sa bene fin dove far arrivare il proprio orgoglio. E Tsipras punta su quello, per convincere i propri connazionali spaccati a metà.
Lo fa mandando un messaggio trasversale: «Qualsiasi sarà il risultato del referendum, la Grecia ha vinto. Ha dato una prova di democrazia. E nessuno può permettersi di mandarci via dall’Europa». Tutti i sondaggi parlano di un testa a testa, gli scostamenti sono di un punto o al massimo due, per qualcuno (come Bloomberg) è avanti il “no” e per qualcun’altro è avanti il “sì”. C’è una fetta consistente di indecisi che non sa bene di chi avere più timore, se dell’autodeterminazione — con annesso paventato strapiombo — o se di nuovi dolorosi sacrifici, ma con il terreno sotto i piedi. Il referendum si farà: l’ultimo dubbio lo ha cancellato il consiglio di Stato respingendo il ricorso sulla presunta incostituzionalità della consultazione Di certo le immagini dell’imponente manifestazione per il “no” che anticipa il voto di domani sono una dimostrazione di forza. Perché nonostante tutto il consenso del premier greco resta alto. Tsipras arriva con le canoniche due ore di ritardo a serata inoltrata tra gli applausi, parla undici minuti e fa un discorso tutto centrato sul proprio paese: «Il mondo in questo momento sta guardando questa piazza — dice — così popolo greco oggi non protestiamo, questa è una festa della democrazia. La democrazia è gioia e libertà e dobbiamo festeggiarla. Lunedì saremo vincitori comunque vada, la Grecia ha mandato un messaggio di dignità all’Europa». Nessun riferimento diretto al “sì” o al “no”, nessuna menzione di eventuali dismissioni: «Le pagine migliori della nostra storia sono quelle di quando ci siamo trovati di fronte a degli ultimatum. Non fatevi terrorizzare. Non ci divideremo, cammineremo uniti comunque vada ». E poi, «con calma, con cuore e decisione scegliete per una Europa solidale. Nessuno può nascondere che la ragione è dalla nostra parte. Che questo paese è la culla della democrazia. Respiriamo aria di libertà, la Grecia ha vinto, la democrazia ha vinto, con dignità e contro la paura, dopo cinque anni di distruzione».
In piazza c’è anche una bandiera dell’Europa e il primo a parlare è un tedesco, un rappresentante della Linke tedesca. Sono i compagni di banco di Syriza a Bruxelles; poi è il turno degli spagnoli di Podemos. «Il futuro è vostro e non della troika — grida l’eurodeputato Miguel Urbán — non se lo aspettavano ma si sono trovati di fronte un popolo di valore ». Sul palco c’è anche lo Sinn Fein irlandese. È la piccola internazionale radicale che si aggira per l’Europa, tutto pur di rompere la sensazione di isolamento e per dimostrare che in ballo c’è la richiesta di cambiamento delle politiche europee e non il ritorno alle piccole patrie.
Il grande e storico oxi greco è quello del 28 ottobre 1940, festa nazionale, quando Ioannis Metaxas — che pure era un dittatore — negò l’ingresso delle truppe di Benito Mussolini. Oggi non ci sono carri armati al confine, ma come recita uno striscione dei tifosi dell’Aek Atene srotolato poco prima del discorso di Tsipras «questa Europa è come il nazismo: nessun passo indietro».
Una manifestazione di orgoglio nazionale quindi, ma anche di tensione. Per almeno mezz’ora l’aria si fa incandescente. Infatti alle sei e mezzo da via Ermou, a un passo dal ministero delle Finanze, arriva un corteo di un centinaio di anarchici con le bandiere rosse e i caschi integrali in mano. Le bandiere sono più che altro una scusa per avere dei bastoni in mano. Costeggiano Syntagma e in teoria si dirigono verso lo stadio Panathineo, dove si tiene in contemporanea la manifestazione del “sì”. Sanno benissimo che le forze dell’ordine dovranno fermarli.
È quello che avviene: la polizia spara i lacrimogeni, arrivano anche gli agenti in motocicletta, qualcuno di loro viene disarcionato dai manifestanti e picchiato con le mazze; di risposta un ragazzo viene trascinato via con la forza per essere arrestato, sono momenti di caos. Gli agenti indietreggiano e, come da prassi da quando Syriza è al governo, si allontanano. Ma è la prima volta in sei mesi, raccontano, che c’è stato un contrattacco dei militari.
Scontri che inevitabilmente si trasformeranno in uno spot per l’altra Grecia, che da giorni evoca il caos se mai dovesse vincere il “no”.

Il Sole 4.7.15
Perché il «no» potrebbe non essere irreparabile
di Paul Krugman


Bene, adesso non è più un’ipotesi: le banche greche sono chiuse e sono stati imposti controlli di capitale. Da qui alla Grexit il passo non è lungo: il che significa che l’analisi costi-benefici è molto più favorevole a un’uscita dall’euro di quanto non sia mai stata.
È chiaro, però, che alcune decisioni dovranno aspettare il risultato del referendum di domenica, che dirà se la Grecia accetta o meno le condizioni dei suoi creditori.
Io voterei «no», per due ragioni. La prima è che anche se la prospettiva di un’uscita dall’euro spaventa chiunque (me incluso), la troika in questo momento sta chiedendo di fatto che le politiche applicate negli ultimi cinque anni proseguano a tempo indefinito. Dov’è la speranza in questo scenario? Forse, soltanto forse, la disponibilità della Grecia a lasciare l’Eurozona ispirerà un ripensamento (ma è improbabile). In ogni caso, la svalutazione non potrebbe creare molto più caos di quello che già c’è, e aprirebbe la strada a una ripresa, com’è successo in molte altre epoche e Paesi. La Grecia non è così diversa.
La seconda ragione per cui voterei «no» è che una vittoria del «sì» sarebbe profondamente inquietante. È evidente che la troika ha fatto al primo ministro Alexis Tsipras un «don Vito Corleone al contrario», cioè un’offerta che il premier greco non poteva accettare, e possiamo presumere che lo abbia fatto con cognizione di causa. In altre parole, l’ultimatum in pratica è stata una mossa per sostituire il Governo greco. E per chiunque creda negli ideali europei, anche se non apprezza Syriza, è qualcosa che non può non lasciare turbati.
Traduzione di Fabio Galimberti

Il Sole 4.7.15
Il rischio Grecia che pesa sulla politica
Occhi puntati sull’esito del referendum, ma la soluzione è la ristrutturazione del debito proposta dall’Fmi
di Walter Riolfi


Gli ultimi due o tre giorni sui mercati sono trascorsi relativamente quieti. Si direbbe che è la calma prima della tempesta, poiché la pur violenta reazione di lunedì non può certo essere assimilata a una bufera. In realtà, i mercati (in curiosa compagnia della Merkel e degli altri leader d’Eurozona) s’attendono una vittoria del sì al referendum greco: che potrebbe anche arrivare, se non altro perché un popolo, fiaccato da sette giorni di code davanti ai bancomat, finirebbe per scegliere il male minore e cedere al ricatto di Bruxelles. Borse e titoli di Stato gioirebbero in questa condizione e sarebbe particolarmente felice pure il cancelliere tedesco: perché Tsipras piaceva molto di più quando tuonava dai banchi dell’opposizione e l’eloquio di Varoufakis suonava più simpatico quando gli strali alla Troika venivano lanciati dalla cattedra dell’università di Austin, più che dal ministero di Piazza Syntagma.
Se vincesse il no, ci vorrà altra pazienza: le borse scenderebbero un altro poco e i rendimenti dei Btp salirebbero di 20-30 centesimi, forse anche all’1,8%, dove per un attimo erano svettati nella mattinata di lunedì. Tanto ci si metterà comunque attorno a un tavolo, con la Troika a proporre un’altra parvenza di soluzione ponte e con i mercati che nel frattempo si trascineranno nella cosiddetta volatilità.
L’uscita dalla Grecia dall’euro è l’ultimo degli scenari possibili e non perché il Paese, in queste condizioni, possa evitare il fallimento, ma perché le pressioni politiche dall’America sono talmente forti che l’extrema ratio verrà quasi certamente scongiurata.
Un segno di queste pressioni, ed è la cosa più sensata che si sia sentita in queste settimane, è arrivato dal Fondo Monetario: la Grecia non ce la farà mai a restituire il denaro preso a prestito (e nemmeno gli interessi) e qualsiasi piano di salvataggio non potrà prescindere da un taglio di almeno il 30% del suo debito. Insomma, occorre prendere atto che Atene è di fatto fallita e, siccome i creditori non possono sequestrare i beni di uno Stato, come si fa per un’azienda in bancarotta, bisogna trovare un’altra soluzione. Ai mercati, troppo abituati a guardare vicino, basterebbe una soluzione ponte. Alla Merkel e ai leader europei pure: ma solo per prendere un po’ di tempo e per non dare ulteriore spazio ai tanti simpatizzanti di Tsipras che, per convinzione od opportunismo, abbondano tra le sinistre e soprattutto le destre di tanti Paesi europei. Anche per tacitare un’opinione pubblica che pare maggioritaria in Francia e Germania e che non ne vuol più sapere di dare soldi ai greci: curiosamente proprio quella dei due Paesi che con il denaro dell’intera Eurozona hanno salvato l’esposizione delle loro banche verso la Grecia 4 anni or sono.
A giudicare dal risalto dato ieri da parecchie televisioni e da certa stampa generalista a uno studio di Standard & Poor’s sulle conseguenze della Grexit (una perdita di 11 miliardi per l’Italia), si direbbe che il sentimento euroscettico stia montando anche da noi. In realtà l’analisi di S&P, oltre a non tener conto del vero ammontare delle nuove emissioni del Tesoro, ha anche sovrastimato il possibile rialzo dei rendimenti: perché il Btp a 10 anni, al 4,2%, equivalente a uno spread del 3,6% sul Bund (secondo il modello teorico usato dall’agenzia), lo si vide solo fino all’agosto 2012, prima che fosse annunciata l’operazione Omt, che fece precipitare lo spread da 440 a 250 punti in pochi mesi. E, a quel tempo, l’Italia era in recessione e non beneficiava della benevolenza che gli investitori riversano ora sull’intera Eurozona.
Certo, il pericolo di un contagio esiste. Ma più che sui mercati, misurabile dallo spread e dagli indici di borsa, è il contagio politico che preoccupa e si traduce in una generale disaffezione verso l’Europa e verso l’euro, alimentata e cavalcata da destra e da sinistra. Ormai persino dai sedicenti moderati. E, ad occhio, si direbbe che in Italia sia largamente preponderante. La retorica contro l’«austerità», o la presunta troppa austerità, mal s’addice a quanti vorrebbero aumentare la spesa pubblica in un Paese il cui debito è al 130% del pil (si veda l’articolo di L. Ricolfi sul Sole 24Ore di ieri).

Repubblica 4.7.15
Nel popolo greco un capitale simbolico
di Adriano Prosperi


DICEVA Machiavelli che “assaltare una città disunita, per occuparla mediante la sua disunione, è partito contrario”, cioè può produrre il risultato opposto: quello di unire e rendere compatto il popolo diviso. Forse il referendum greco potrebbe dimostrare la verità di questa osservazione. Vedremo, tra pochi giorni e ore. Ma la domanda avrebbero potuto e forse dovuto porsela gli statisti tedeschi e i loro ossequenti alleati europei e magari velare meglio l’aggressione nei confronti del regime greco. Mai come in questo caso la regola della non ingerenza negli affari interni degli stati membri è stata così trasgredita. Tutti i capi di governo si sono schierati in maniera massiccia per il sì e contro Tsipras fin dal primo giorno. I media si sono uniformati. Assistiamo a episodi perfino grotteschi, come quello dell’inviato Rai che intervista cinque greci e vedi caso, scopre che tutt’e cinque sono decisi a votare sì. La disinformazione si unisce alle tante falsificazioni dei fatti: ad esempio, non è vero che la scelta sarà fra la dracma e l’euro, come ha sveltamente sintetizzato il premier Renzi.
Ma il nostro dovere, di tutti noi cittadini degli stati dell’unione europea, non è chiederci che cosa faranno gli elettori greci: la domanda è che cosa faranno le autorità che ci governano — la Germania di frau Merkel, il Fondo monetario internazionale — se e quando saranno riuscite a raggiungere il loro intento, cioè a delegittimare Syriza e il premier Tsipras. Perché una cosa è evidente: la natura politica e non economica o finanziaria dello scontro. Fin dall’inizio il governo espresso dalle elezioni greche ha dovuto fare i conti con un’ostilità fortissima. La stampa tedesca è stata perfino capace di superare il limite degli insulti personali nel descrivere l’abbigliamento del ministro Varoufakis. Dobbiamo all’attenzione non imparziale del Wall Street Journal se dalle zone nascoste della battaglia è emerso il documento delle proposte greche e delle correzioni con pennarello rosso di Bruxelles: un documento impressionante, una nuova versione della favola del lupo e dell’agnello. Non imparziale l’editore, certo: tutti sanno quanto siano grandi i problemi che gli conquassi europei e la crescita della superpotenza tedesca stanno creando alle esigenze strategiche e finanziarie di quella americana. Ma intanto quelle che ci toccano sono le conseguenze di una eventuale umiliazione referendaria per il governo greco: se ci sarà, non per questo i vincitori avranno risolto il problema fondamentale, quello di una costruzione sbagliata in grave e generale crisi. L’errore grave, tremendo, come dovrebbe riconoscere oggi qualche responsabile che invece ancora cinguetta sui giornali, è stato quello di una unione monetaria a cui non ha corrisposto un’unione politica. L’Europa non è uno stato federale. Come ricordava l’altro ieri Paul Krugman spiegando perché è stato un errore tremendo, in un vero stato federale come gli Stati Uniti quando in Florida scoppia una bolla immobiliare è Washington che protegge automaticamente gli anziani contro ogni rischio per le loro cure mediche e i loro depositi bancari. In questa Europa anziani e malati e tutte le altre categorie dell’umanità debole sono vittime di misure di austerità imposte da una burocrazia politico-finanziaria tecnicamente irresponsabile all’insegna di un liberismo di facciata, con l’ossessione del fantasma dei diritti umani e politici, quelli dei lavoratori e dei migranti in primo luogo. E oggi le misure che si vorrebbero imporre alla Grecia garantiscono che il crollo diverrà spaventoso e che non sarà solo la popolazione greca a pagarne il conto. Una vittoria di Pirro, se ci sarà: non solo perché i costi finanziari sono stati altissimi, di centinaia di volte superiori agli spiccioli necessari alla Grecia per andare avanti pagando il suo debito in scadenza. Ma perché vincere una battaglia aggraverà il problema di come convincere, lascerà aperta e più incerta la guerra per la costruzione di una vera Europa. Resterà il fatto dell’aver umiliato e spezzato il morale di un popolo che porta nel suo nome l’immenso capitale simbolico di avere inventato la democrazia e l’Europa. Diceva il grande storico del mondo antico, Arnaldo Momigliano, che se non fosse stato per la Grecia delle Termopili, per Maratona e Salamina (vi combatté un soldato che si chiamava So-crate), non ci sarebbe stata nessuna Europa: saremmo tutti sudditi di qualche deposta asiatico.

Repubblica 4.7.15
Il fronte del No attraversa l’Europa
di Stefano Folli


AL DI là della tensione nelle vie di Atene, della paura e dell’incertezza dei sondaggi, molti analisti ritengono che domenica sera prevarrà il “sì”.
SI BASANO su quell’85 per cento di greci contrari al ritorno alla dracma. E se pure Tsipras nega, ovviamente, che l’affermazione del “no” equivarrà all’uscita dall’euro, è logico che lo spauracchio della dracma prenderebbe forma più con il “no” che con il “sì”.
In realtà il trionfo di Syriza sarebbe un’onda d’urto destinata a investire gli assetti politici nei maggiori paesi d’Europa. La Francia di Marine Le Pen, ad esempio. La Gran Bretagna di Nigel Farage. La Spagna di Podemos. Tutti i nemici, non solo dell’Europa tedesca di Angela Merkel, ma dell’Unione in quanto tale. E infatti i cosiddetti “populisti” sono spesso prima di tutto nazionalisti che hanno trovato una bandiera da sventolare. Poi ci sono le componenti di estrema sinistra che hanno trovato nella Grecia di Tsipras, dopo anni di frustrazioni, una nuova causa ideologica: contro il capitale finanziario, le banche e la globalizzazione. Se in Grecia sarà “no”, il quadro verrà sconvolto da nord a sud. E nessuno sa con precisione cosa aspettarsi a Parigi, Madrid, Londra, nella stessa Berlino dove il movimento anti-euro è ben attrezzato. E naturalmente c’è anche Roma.
Il fronte che si puó definire “populista” in Italia è frammentato, ma anche diverso dal resto d’Europa. Il fenomeno dei Cinque Stelle non esiste altrove (lo spagnolo Podemos è tutt’altra cosa). La sua stessa evoluzione è singolare: nel 2013 la grande fiammata con il 25 per cento raccolto dall’istrione Grillo, poi una lunga eclissi provocata dall’impatto con le istituzioni e ora un’apparente e costante risalita testimoniata dai sondaggi e resa più sorprendente dal relativo silenzio del leader storico. Quanto alla Lega di Salvini, è oggi il partito più vicino al Fronte Nazionale francese. La trasformazione è completa: dal secessionismo al nazionalismo, sia pure radicato solo nel settentrione. Del resto, la connessione fra Salvini e la Le Pen è evidente e costituisce l’embrione di un partito sovranazionale di destra che tende a mettere in comune le posizioni almeno su due temi cruciali: immigrazione e moneta unica. Si spiega così anche la parziale svolta del capo leghista che ora non chiede più l’uscita unilaterale dell’Italia dall’euro. Sembra una linea concordata con la Francia, volta a favorire la crescita complessiva dei due schieramenti al di qua e al di là delle Alpi. L’auspicio, s’intende, è che la Grecia voti “no”. Ma non ci si schiera con gli estremisti di sinistra Tsipras e Varoufakis, preferendo dissodare il terreno per l’affermazione successiva, in un’Europa sottosopra, del fronte nazional- populista.
Sotto questo aspetto, Salvini non ha interesse ad andare ad Atene a sostenere il referendum. Si limita ad assistere agli eventi. Se il “no” vincerà, la Grecia potrebbe scivolare un passo alla volta nella sfera d’influenza russa. Il che non dispiacerà di certo ai vertici di Lega e Front National francese, accomunati dalla stessa simpatia verso Putin e dai medesimi legami politici. In altre parole, in Italia e in Francia c’è chi attende il responso del referendum nella convinzione che metterà in moto un processo dagli esiti non scontati. Un processo che parte a sinistra, fra gli applausi di Vendola, neo-comunisti, verdi e “grillini”, ma potrebbe rapidamente innescare una serie di contraccolpi a destra, in Italia e altrove, tutti in chiave nazionalista.
Ecco perché non c’é bisogno di inneggiare alla fuoriuscita dall’euro. Quello che interessa a Salvini, Marine Le Pen, Farage, ma anche a una parte di Forza Italia e alla componente, piccola ma non trascurabile, guidata da Giorgia Meloni, è un radicale mutamento dei rapporti politici nell’Unione. Questo è il vero negoziato a cui ci si prepara nei prossimi due anni. Le illusioni ideologiche di Tsipras, peraltro sostenuto da Alba Dorata, servono solo ad aprir la strada.

Repubblica 4.7.15
Gli equilibri
Interessa un radicale mutamento dei rapporti politici nell’Unione
La biforcazione antropologica tra il centronord e il sud del continente inizia nel Settecento. E produce effetti ancora oggi
Quello strappo tra le due Europe nato per troppo amore verso l’antica Grecia
Quando le potenze del Settentrione diventano moderne, finiscono col rappresentare questo “salto” per contrasto col mondo mediterraneo
L’errore di artisti e filosofi, da Hölderlin a Nietzsche, è stato di relegare la cultura ellenica in un passato spesso di maniera Scindendo il mito dal pensiero razionale
di Marino Niola


L’Europa è figlia della Grecia. Poi ne è diventata madre. E adesso rischia di diventare la sua crudele matrigna. Che l’Ellade sia il momento aurorale dell’Occidente moderno e delle sue parole chiave non ci sono dubbi. Su questa genealogia sono stati versati fiumi del migliore inchiostro. Le idee dell’essere e dell’avere del vecchio continente sono state fabbricate nell’officina egea. Ma è tra gli ultimi anni del Settecento e i primi dell’Ottocento che la Grecia, e con lei il Meridione europeo, sono stati ripensati e in un certo senso reinventati dallo sguardo del Nord, quello germanico prima di ogni altro. È allora che si determina la biforcazione antropologica tra le due Europe, che da quel momento smettono di essere una. E cominciano specchiarsi, ciascuna nella differenza dell’altra. Nel senso che le potenze del Settentrione, Germania, Inghilterra e Francia, ovvero gli attuali pilastri dell’Unione, diventano moderne. E, soprattutto cominciano a rappresentare la loro modernità per contrasto con il mondo euromediterraneo, consegnato per sempre alla sua irredimibile antichità. Non a caso è allora che nasce la scienza della mitologia greca. E a inventarla non sono i legittimi abitatori delle contrade del mito, ma filologi, filosofi, storici e archeologi tedeschi. Come Wilamowitz e Winckelmann. La cui devozione estetica per l’Ellade è indiscutibile. Ma è altrettanto indiscutibile che idealizzandola di fatto l’hanno reinventata.
L’amico Marcel Detienne, il più grande grecista vivente, diceva poco tempo fa che in realtà la Grecia che noi conosciamo, quella che abbiamo studiato a scuola, è stata letteralmente creata da questi studiosi. Perché la mitologia antica diventasse un archetipo, un antecedente logico e archeologico, destinato a lasciare il posto alla razionalità moderna. Che i miti non li vive ma li spiega. Ed è un grande errore, aggiungeva Detienne, perché pensiero mitologico e filosofia, cioè poesia e pensiero razionale non succedono l’uno all’altro sulla scena della storia. Ma nascono insieme. È per questo che la filosofia di Platone, anche quella politica, parla sempre attraverso il mito.
Nella cultura nord-europea, a dominanza protestante, il Sud del continente e il mondo classico in generale diventano così la metafora culturale di un passato che non passa. Che non riuscirebbe a trasformarsi in presente, perché incapace di sincronizzarsi sul cambio di marcia della storia. E perciò resta fissato per sempre, come il fotogramma nobile di uno sviluppo mancato. Di una condizione submoderna. Che è alla radice della nostra nozione di sottosviluppo. «Questa è la patria delle divinità della mitologia greca. Terra degli dèi e degli eroi», diceva Tocqueville, uno dei padri del liberalismo, sottintendendo così che non è la terra degli uomini di oggi.
E in quegli stessi anni, le scoperte archeologiche compiute per lo più da tedeschi, inglesi e francesi, fanno affiorare un passato glorioso di cui i popoli mediterranei appaiono gli indegni continuatori. Portatori sani dell’antico, una sorta di archeologia vivente. E spesso i grandi archeologi come Schliemann, che nel 1871 scopre le rovine di Troia e nel 1874 quelle di Micene, la città di Agamennone, parlano con accenti liricamente solenni delle rovine di pietra. E con disprezzo di coloro che abitano senza merito quelle terre. Parlandone, come fa qualche volta anche Voltaire, come di selvaggi di casa nostra. Con un cortocircuito tra antichi e primitivi. Tra popoli lontani nella geografia e popoli lontani nella cronologia. È quella che Giacomo Leopardi chiamava una meridionalità nel tempo, un Sud della storia. E così la Grecia emigra verso eredi che si ritengono più degni del lascito. L’altare di Pergamo va a Berlino, il frontone del Partenone a Londra e la Nike di Samotracia a Parigi.
E perfino coloro che hanno amato alla follia l’altra Europa, come Goethe, Madame de Staël, Hölderlin, fino a Nietzsche e a D.H. Lawrence, l’hanno di fatto minorizzata sul piano sociale e antropologico, arretrando il suo presente in una antichità spesso di maniera. Più mitologica che storica. Più neoclassica che classica. Contrapponendo, per esempio, la fredda ragione calcolante del Nord, così ben rappresentata oggi a Bruxelles, al calore antico ma improduttivo del Mezzogiorno. «Risorgi Omero! Se nel Nord di porta in porta, ti scacciarono freddi, qui troveresti un popolo ancora greco, e greco il firmamento». Questo idillio di August Von Platen fa il paio con Goethe il quale arriva a dire che «più di ogni altro popolo i Greci hanno sognato il sogno della vita nella maniera migliore ». E non è da meno Henry James, che parla di quella «interminabile luna di miele paganeggiante » da cui i popoli del Mare Nostrum non riuscirebbero a ridestarsi. Il problema resta sempre quello di un risveglio mancato. Di un asincrono dello sviluppo che riproduce la faglia tra popoli che fanno la storia e popoli portatori inerti della tradizione. Fissati nel fermo immagine di una non-storia prigioniera del passato. Una faglia antica che pesa sul futuro dell’Europa.

Repubblica 4.7.15
Senato, i no di Renzi ai dissidenti dem
“Chiedono di modificare punti richiesti dalla stessa minoranza,voglio vedere se fanno cadere il governo”
I senatori di Verdini già pronti “al 100 %”a votare in maniera compatta con il governo
Il premier Matteo Renzi non è disposto a fare concessioni sui poteri del Senato
Ma spunta una disponibilità: “Discutiamo nel merito senza pregiudizi”
Gli oppositori: “Noi determinanti”
di Tommaso Ciriaco


ROMA . Preparata da venticinque senatori dem, la trappola perfetta è già nascosta tra i banchi di Palazzo Madama. E rischia di mettere fuori gioco il governo. «Discutiamo nel merito, senza pregiudizi. Ma il bello ricorda in provato Matteo Renzi - è che chiedono di modificare la riforma costituzionale proprio nei punti che erano stati voluti da altri esponenti della minoranza... ». Un paradosso, per il premier. Pronto a concedere solo l’elettività del Senato, e solo a patto di non resettare l’iter del ddl Boschi. «Altro tempo non ne perdo. Piuttosto me la gioco in Aula». E in Aula i verdiniani sono già pronti a votare compattamente con il governo. «Al 100%», assicura l’azzurro Ignazio Abrignani.
Il futuro della legislatura si gioca proprio su questa riforma. Per una volta, i numeri della minoranza fanno davvero paura. «Noi siamo determinanti - premette Doris Lo Moro - Io da capogruppo in commissione sono leale, ma ho firmato il documento perché non sono abituata a nascondermi». Oltre ai venticinque che hanno sottoscritto il testo, altri tre o quattro (da Casson e Mineo, fino a Bubbico) potrebbero accodarsi. Per fare cosa? «Dopo l’Italicum - ricorda Miguel Gotor - bisogna pensare ai contrappesi. Da qui la necessità di aumentare le competenze del Senato e tornare all’elettività». Per riuscirci, bisognerebbe riaprire la discussione sull’articolo due: «È stato già modificato, quindi il presidente Grasso può farlo», assicura il senatore. Un incubo, per il governo.
Di rimettere tutto in discussione Renzi proprio non vuol sentirne parlare. «Ho sempre avuto ragione io, finora - ha confidato - Voglio vedere se qualcuno vuole davvero far cadere il governo, in una fase internazionale così delicata». Altro discorso è prevedere l’elezione dei senatori, contestualmente al voto per i consiglieri regionali. Dal punto di vista tecnico è possibile, vanno ripetendo da tempo Maria Elena Boschi e Gaetano Quagliariello. Proprio la ministra avrebbe sondato informalmente i tecnici del Quirinale per acquisire pareri sul nodo più delicato del ddl. Nel frattempo, l’area “Sinistra è cambiamento” di Maurizio Martina, ormai sempre più distante dai bersaniani, prova a blindare la maggioranza. «La strada migliore - ammette il ministro - è sottoporre agli elettori la scelta dei senatori con liste collegate alle Regionali». Troppo poco, troppo vago per l’ala dura della minoranza. «Se parliamo di elettività, deve essere effettiva - rilancia il senatore Federico Fornaro - Evitiamo i pasticci».
Smontare la riforma e allungare i tempi dell’approvazione impedirebbe a Renzi di presentarsi alle amministrative del 2016 (Milano, Napoli, Torino) portando in dote anche il referendum sulla Costituzione. Un costo politico alto, forse troppo. Che non scalfisce però le certezze della sinistra dem: «Non possiamo andare veloci per votare con le amministrative - attacca Fornaro - e poi ritrovarci con una riforma che fa schifo...».
La verità è che il premier non intende cedere al gruppo dei venticinque. Anche a costo di far ballare la maggioranza. I primi scricchiolii già si avvertono. La presidente della commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro, per dire, non ha ancora nominato il relatore, né ha deciso di assumere personalmente l’incarico. E l’ufficio di presidenza di mercoledì, chiamato a fissare il calendario, promette scintille. «Esistono due linee - spiega Gotor - Quella della Boschi, che pensa di andare avanti come un treno e punta a 165 voti, compresi Verdini e Bondi. E quella di Renzi, più cauto. Lui al limite preferirebbe far rinascere il Nazareno». Due scenari, un’unica certezza: il Pd rischia la frantumazione.

Il Sole 4.7.15
Nel mirino dell’Antimafia di Napoli la metanizzazione del Casertano
In carcere Roberto Casari, ex presidente Cpl
Patto coop Concordia-casalesi: 6 arresti
Indagato anche l’ex senatore Ds Lorenzo Diana per concorso esterno e abuso d’ufficio
di Simone Di Meo


Napoli C’era un accordo tra politica, imprenditoria collusa e camorra per fare soldi sulla metanizzazione nel Casertano. Un patto criminale basato su mazzette, favori incrociati e violenza. La Procura antimafia di Napoli (pm Sirignano e Maresca) torna a occuparsi della Cpl Concordia, dopo l'inchiesta del 30 marzo scorso su presunte mazzette a Ischia, e lo fa arrestando sei imprenditori e manager e indagando uno dei simboli dell'antimafia italiana, l'ex senatore Ds Lorenzo Diana. Raggiunto da un divieto di dimora e accusato di concorso esterno e abuso d'ufficio («Non so se sto sognando o se sono su Scherzi a parte», ha solo commentato). Gli inquirenti lo hanno definito «facilitatore» del «compromesso».
In carcere sono finiti Roberto Casari, ex presidente della Cpl Concordia, già ai domiciliari per la vicenda degli appalti dell'isola verde; gli imprenditori casertani Antonio Piccolo e Claudio Schiavone, e Giuseppe Cinquanta, responsabile commerciale Cpl per Lazio, Campania e Sardegna dal 1997 al 2005. Ai domiciliari Giulio Lancia, responsabile di cantiere e capo commessa della Cpl Concorda Bacino Campania dal 2000 al 2003, e Pasquale Matano in qualità di responsabile di esercizio della Cpl distribuzione.
I pm hanno scoperto che l'azienda concessionaria dei lavori, la Consorzio Eurogas, venne estromessa dal clan dei Casalesi e costretta a cedere la concessione a titolo gratuito in favore della Cpl Concordia. La quale, a sua volta, ricambiò garantendo lavori a imprenditori vicini alla cosca e assumendo anche uno dei figli di Diana.
«Io e Zagaria (altro capoclan, ndr) dovemmo fare un passo indietro dal momento che furono il sindaco di San Cipriano Angelo Reccia e il senatore Lorenzo Diana che individuarono Pietro Pirozzi come subappaltatore della Concordia. Dunque, io personalmente e Zagaria trovammo un'intesa con Reccia e col senatore Diana», ha raccontato ai magistrati il pentito Antonio Iovine. Il cui autista, all'epoca della latitanza del boss, sarebbe stato assunto dalla coop modenese proprio grazie alla “raccomandazione” del parlamentare diessino, oggi presidente (immediatamente revocato dal sindaco Luigi de Magistris) del Centro agroalimentare di Napoli.
Il ruolo del politico nella vicenda si sarebbe spinto anche - spiegano i pm - a ottenere dai Comuni interessati («all'epoca sottoposti a commissariamento per infiltrazioni mafiose») le delibere di approvazione della concessione e dei progetti della Cpl «nei tempi previsti per accedere ai finanziamenti pubblici» (oltre 23 milioni di euro) pur essendo consapevole della presenza dei Casalesi nei cantieri. Casalesi che, in ogni caso, incassavano anche una tangente «già inserita dalla Cpl nel prezzo dei lavori» (10mila lire sulle 75mila previste per metro lineare da contratto) oltre a vari benefit, come una fornitura di gas da 47mila euro ai familiari del boss Michele Zagaria.
Nel mirino degli inquirenti sono finite delle consulenze professionali, per circa 10mila euro, affidate dal Centro agroalimentare di Napoli all'avvocato casertano Manolo Iengo, nei cui confronti è stato firmato dal gip un altro divieto di dimora. Tutto questo, sottolinea il procuratore aggiunto di Napoli Giuseppe Borrelli, in cambio «di un favore ricevuto da Diana». Iengo, in particolare, nella sua qualità di sostituto procuratore federale della Figc (federazione italiana gioco calcio), avrebbe fatto rilasciare da una squadra di serie D, la Nerostellati Frattese di Frattamaggiore (Napoli), al figlio di Diana, la falsa attestazione in cui si affermava che questi aveva svolto attività di collaboratore tecnico organizzativo nell'ambito della società sportiva. Questo sarebbe servito al figlio dell'ex parlamentare per ottenere l'ammissione ad un corso per dirigenti sportivi organizzato dalla Figc e propedeutico all'iscrizione ad un master della Fifa.

Repubblica 4.7.15
Gli affari della coop con i Casalesi indagato ex pd Diana
Napoli, arrestati in sei per legami con la camorra torna in carcere l’ex presidente della Concordia Casari
Il racconto dell’ex boss Iovine: “Accordo attorno a un tavolo, senza violenza”
Sotto accusa Lorenzo Diana, 64 anni, ex senatore del Pd, si era costruito una fama di politico anti camorra
Oggi è presidente del Caan, il Centro agroalimentare di Napoli
di Dario Del Porto


NAPOLI . Era «un grande affare», quello della metanizzazione in sette comuni della provincia di Caserta. «Non ci fu necessità né di violenza né di minacce, l’intesa fu raggiunta attorno a un tavolo », spiega l’ex boss dei Casalesi Antonio Iovine detto il Ninno, da 14 mesi collaboratore di giustizia. Si misero d’accordo, sostiene Iovine, una grande azienda come la coop Cpl Concordia, e il clan di Gomorra. Il ruolo di «facilitatore », secondo la procura, fu svolto invece da Lorenzo Diana, ex parlamentare del Pd. L’uomo che, accusa il giudice Federica Colucci, «forte dell’immagine antimafia » di cui ha sempre goduto, avrebbe svolto un’azione «fondamentale presso la prefettura e i vari commissari prefettizi che reggevano i comuni commissariati » quando, nei primi anni 2000, partì l’opera ed era necessario sbloccare i progetti.
Diana è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa nell’inchiesta che ha portato in cella con la stessa accusa lo storico ex presidente della Concordia, Roberto Casari, e l’ex responsabile commerciale della società Pino Cinquanta. Nei confronti di Diana non vi è stata richiesta di arresto. L’ex deputato è stato raggiunto da un divieto di dimora in Campania e da una misura interdittiva nell’ambito di una diversa indagine, dove non figurano coinvolgimenti dei clan, nella quale è accusato di abuso di ufficio in concorso l’avvocato e sostituto procuratore della Federcalcio Manolo Iengo per un certificato, ritenuto falso, che doveva consentire al figlio di Diana di partecipare a un corso da dirigente sportivo.
Nell’inchiesta del pool amticamorra sono invece finiti in cella anche gli imprenditori Antonio Piccolo, considerato «l’emissario » del padrino Michele Zagaria e al tempo stesso referente di Concordia non solo nel Casertano ma anche in altre regioni, da ultimo persino in Sardegna, e Claudio Schiavone. Ai domiciliari per concorso esterno ci sono l’ex responsabile di esercizio di Cpl Pasquale Matano e l’ex responsabile di cantiere Giulio Lancia. L’inchiesta dei carabinieri del Noe, avviata dal pm Antonello Ardituro (oggi al Csm) è condotta dai pm Cesare Sirignano, Francesco Curcio, Catello Maresca e Maurizio Giordano con il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. Casari (difeso dagli avvocati Luigi Sena, Luigi Chiappero e Massimo Vellano) è stato arrestato in Trentino, dove era agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte tangenti condotta dai pm Henry John Woodcock, Celeste Carrano e Giuseppina Loreto e poi trasferita a Modena per competenza. In un’interrogatorio del 26 settembre, Iovine aveva rilanciato le accuse sul patto tra camorra e Concordia. Nella ricostruzione della Procura, l’azienda concessionaria, Consorzio Eurogas, fu estromessa con le minacce. La concessione passò alla Cpl Concordia a titolo gratuito. Attorno al tavolo presero posto la coop e Piccolo per conto del clan. Nel Casertano, oltre ai subappalti conferiti ad imprese di camorra, la Concordia avrebbe versato una tangente «già inserita - rimarca la Procura - dalla Cpl nel prezzo dei lavori (10 mila lire sulle 75 mila previste per metro lineare) ma anche una grossa fetta dei contributi pubblici, 23 milioni di euro al netto dell’Iva». «Nel corso degli ultimi mesi abbiamo adottato numerose discontibuità rispetto al passato, ci costituiremo parte civile», fa sapere Cpl.

Repubblica 4.7.15
Diana
“Io, paladino dell’antimafia hanno voluto incastrarmi”
Mi hanno minacciato, hanno tentato di uccidermi. La mia storia testimonia l’attività di contrasto
intervista di Roberto Fucillo


NAPOLI. «Divieto di dimora? Per incarichi conferiti a un avvocato nel pieno rispetto delle leggi e dei regolamenti del Caan, come dimostrerò ai magistrati?» Ecco la sorpresa di Lorenzo Diana, difeso dall’avvocato Francesco Picca.
C’è anche un avviso di garanzia per la metanizzazione nel casertano.
«Sono state accostate due vicende diverse. La storia di mio figlio riguarda il certificato di una società sportiva che avrebbe usato per partecipare a un Master. Mio figlio, laureato alla Bocconi, specializzato alla London School e oggi manager in Lufthansa ».
Insomma non ne aveva bisogno. «Però dalla sua vicenda vengono i provvedimenti contro di me. Ma si penserà che ho il divieto di dimora perché sono colluso coi clan».
Parliamo della metanizzazione.
«Inizia con una delibera del Comune di Casal di Principe, sotto commissariamento. E’ il settembre del ‘97 . C’era un’altra società, la Eurogas, ma era ferma da dieci anni. E prosperava la “Aversana gas” della famiglia Cosentino, che vendeva le bombole di gas. Con l’arrivo di Cpl, il fatturato della “Aversana” calò da 15 a 2 milioni».
Si ipotizza che a San Cipriano lei si interessò anche di un subappalto.
«Peccato che la ditta era del segretario locale di Forza Italia. Ma poi, se avessi favorito qualche accordo per poi osteggiarlo, mi avrebbero ucciso. I camorristi mi hanno sempre minacciato, hanno anche tentato di uccidermi. Ma la mia storia testimonia la mia costante attività di contrasto. Non accetterò che questa ultradecennale storia venga delegittimata e mortificata. Ho già chiesto da mesi di essere ascoltato dalla Procura di Napoli per chiarire la mia estraneità alla vicenda».

Repubblica 4.7.15
Le sfide dell’Ue e la miopia sui migranti
di Laura Boldrini e Claude Bartolone

Laura Boldrini è Presidente della Camera dei Deputati Claude Bartolone è Presidente dell’Assemblea Nazionale francese

È insensato continuare a chiudere gli occhi sul fatto che l’Europa, incapace di consolidare la propria integrazione politica e di proiettarsi nel futuro, rinuncia a se stessa. Due crisi di queste settimane dimostrano con chiarezza che non siamo sulla strada giusta.
Vi è in primo luogo la vicenda euro-greca, giunta ormai al suo drammatico parossismo con il referendum. Come si è potuto arrivare a questo punto? Come spiegare che non siamo riusciti a trovare un terreno d’intesa con le autorità di un’area economica che incide solo per il 2 per cento del Pil dell’Unione? Al tempo stesso, è giocoforza constatare che le politiche messe in atto negli anni scorsi dalla “troika” — Commissione europea, Banca Centrale europea, Fondo Monetario internazionale — sono fallite. Guardando ai risultati, si potrebbe anzi affermare che siano state attuate a svantaggio della Grecia: il Pil greco, che nel 2008 era solo 7 punti percentuali sotto la media Ue, nel 2013 è crollato a meno 28. Come si fa, in questo contesto, a chiamare “aiuti” degli interventi dagli effetti così devastanti sulla vita dei greci? Il medico ha sbagliato terapia, ma si accanisce sul paziente, e poco importa se il suo assistito rischia la vita! Non è solo un modo di dire: il numero di bambini abbandonati negli orfanotrofi greci è triplicato in pochi anni, un terzo della popolazione non ha copertura sanitaria e il potere di acquisto è diminuito del 40 per cento. Non è ammissibile che la consapevolezza di queste cifre non influisca sulle politiche economiche dell’Ue. E questi dati rendono altrettanto inammissibili le dichiarazioni di certi responsabili europei, che fingono di stupirsi che gran parte della popolazione greca respinga il regime che le viene imposto.
C’è poi la sfida dell’immigrazione, che ha ormai preso posto nel dibattito continentale come un tema ineludibile, che cristallizza le tensioni e lascia campo libero a ogni sorta di fantasmi. Anche in questa materia, se si analizzano oggettivamente i numeri, c’è da rimanere sconcertati. L’Unione europea viene descritta come assediata per aver ricevuto l’anno scorso, nei suoi 28 Paesi, 626mila domande d’asilo. Un continente che, nonostante la crisi, rappresenta l’economia più ricca del mondo, sarebbe messo in ginocchio — secondo campagne politiche di cui non serve svelare i secondi fini — dall’un per cento, o poco più, di quei circa 60 milioni di persone che sono costrette all’esilio da guerre e persecuzioni. Questo popolo senza terra e senza nome, il cui numero è pari a quello degli abitanti dell’Italia e di poco inferiore a quelli della Francia, l’Europa la lambisce appena, e invece si riversa in modo massiccio sui Paesi più vicini alle aree di crisi. Sono il Libano, la Giordania e la Turchia, che ospitano milioni di rifugiati siriani, a poter parlare legittimamente di emergenza. Possono farlo l’Iran e il Pakistan, che accolgono milioni di afghani. Ma come possiamo, noi qui, gridare all’invasione? Il dramma sono i migranti a conoscerlo, non certo noi. Che le migrazioni rappresentino una sfida per i nostri paesi è indiscutibile; ma abbiamo anche tutti i mezzi per affrontarla. Invece di assumerci serenamente le nostre responsabilità, rimaniamo inerti, afflitti e imbarazzati davanti alle immagini che ci arrivano da Ventimiglia: poche centinaia di persone sono diventate — incredibilmente — materia di tensione tra Italia e Francia, mentre basterebbe che ogni Stato dell’Unione accettasse di fare la sua parte.
Vedendoci lacerare, ripiegarci su noi stessi e rimanere fermi, che cosa penserebbero di noi Spinelli, Schuman e Adenauer? Come reagirebbero, scoprendo che su quegli scogli di confine si è incagliata, schiantata l’idea che loro seppero concepire in anni d’autentica tragedia, e far crescere tra le macerie del dopoguerra? Ricordiamoci che l’Europa esiste anche attraverso i principi che essa fa vivere: perché è il continente dei diritti, del rispetto della dignità umana, della solidarietà verso chi è in difficoltà. Questo ci ha resi grandi nel mondo, questo è un punto di riferimento per tutti coloro che abbiano a cuore libertà e giustizia sociale.
Dimenticare questa storia, non sentirne l’orgoglio, non è soltanto un tradimento. È anche una clamorosa dimostrazione di miopia e autolesionismo. Perché in un mondo globalizzato le questioni irrisolte — che si tratti dell’economia greca o dei conflitti dai quali fuggono i rifugiati — hanno e continueranno ad avere su di noi ripercussioni dirette, che ci piaccia o no. Sta a noi decidere se vogliamo affrontare queste sfide governandole con lucidità, lavorando sulle soluzioni, e dunque investire su un’Unione più solidale, al proprio interno e verso l’esterno, un’Unione politica, pienamente politica. Oppure se intendiamo seguitare ad agitarci senza andare avanti. Il che significa cedere di fronte ai tanti populismi che sulla crisi economica e la retorica xenofoba stanno costruendo le proprie fortune, e accettare che sulle rovine dell’ideale europeo volteggino soddisfatti i costruttori di muri. Siccome siamo degli ottimisti irriducibili, crediamo che sia possibile imboccare con decisione la prima strada. Speriamo che le due prove cui è sottoposta oggi la nostra Unione spingeranno ciascuno degli Stati membri a cogliere la misura dell’emergenza europea.

Il Sole 4.7.15
Immigrazione
Al via la missione navale italiana
Costo di 26 milioni per i primi tre mesi. Si attende la risoluzione Onu
Approvato in Cdm il decreto legge sulla partecipazione all’operazione militare anti-scafisti
di Marco Ludovico


Un costo di 26 milioni, sufficiente a coprire le spese di tre mesi. Oltre mille uomini impiegati, due unità navali e quattro aeree. Scatta così la partecipazione italiana all’operazione militare anti-scafisti dell’Unione europea nel Mediterraneo centromeridionale. La missione, denominata Eunavfor Med, è stata stabilita dal Consiglio dell’UE con la decisione PESC/2015/778 adottata il 18 maggio 2015. Ieri il Consiglio dei ministri, presieduto da Matteo Renzi, ha varato il decreto legge ad hoc.
Il periodo di riferimento del provvedimento è dal 27 giugno al 30 settembre e l’operazione europea ha lo scopo principale di smantellare il traffico di esseri umani nel Mediterreaneo, testimoniato dal flusso incessante di sbarchi, dalla Libia soprattutto, nel canale di Sicilia verso le coste italiane e greche. Il decreto legge dà innanzitutto copertura finanziaria – i 26 milioni sono stati presi dal capitolo delle missioni all’estero – all’impegno italiano sancito fin da maggio: l’operazione sarà a guida italiana con base a Roma, il comando è affidato all’ammiraglio di divisione Enrico Credendino che già nel 2012 era stato a capo della missione Ue Atalanta. Il testo del decreto legge messo a punto dai tecnici del ministero della Difesa, guidato da Roberta Pinotti, prevede un’articolazione dell’impegno italiano in tre fasi. La prima, già in corso, è destinata all’individuazione e al monitoraggio delle reti di migrazione attraverso la raccolta di informazioni e il pattugliamento in alto mare. Ma le novità principali del decreto legge del governo riguardano la copertura normativa ai militari inviati (seconda e terza fase).
Secondo le indicazioni del provvedimento inviato a palazzo Chigi per l’esame del Consiglio potranno essere effettuati - alle condizioni previste dal diritto internazionale - fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico e la tratta di esseri umani in alto mare. Si tratta di attività che devono svolgersi anche in conformità alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o, se si entra nelle acque territoriali e interne dello Stato costiero interessato, con il consenso dello stesso Stato. Non solo: il testo presentato dal governo italiano prefigura - sempre nel rispetto delle risoluzioni Onu o con l’ok dello Stato costiero interessato - l’ipotesi che «potranno essere adottate tutte le misure necessarie nei confronti delle imbarcazioni e dei mezzi sospettati di essere usati per il traffico e la tratta di esseri umani anche eliminandoli o rendendoli inutilizzabili» come si legge in una nota esplicativa al provvedimento. In altre parole si sancisce per la prima volta la possibilità che i barconi utilizzati dagli scafisti siano affondati o quantomeno resi inutilizzabili dopo aver svolto tutte le operazioni di salvataggio e soccorso. Una disposizione esplicita, già proposta in passato più volte dalla Difesa, aveva incontrato, però, l’opposizione del ministero dell’Ambiente. In realtà nella pratica è già avvenuto, non di rado e anche di recente, che una serie di barconi in condizioni più o meno precari sono stati affondati nel canale di Sicilia dalle nostre unità dopo aver tratto in salvo i migranti.

Il Sole 4.7.15
Se l’Europa della Difesa si gioca la faccia
di Gianandrea Gaiani


Dopo tanto clamore, ha preso il via in sordina l’operazione Eunavfor Med messa a punto dalla Ue su richiesta di Roma per contrastare i trafficanti di esseri umani che gestiscono i flussi migratori illegali dalla Libia verso l’Italia.
Un avvio molto lento e a basso profilo dopo che il 22 giugno Bruxelles ha approvato una spesa di 11,82 milioni di euro per i primi due mesi di attività di una flotta composta da 5 navi d’altura, 2 sottomarini, una ventina di velivoli e un migliaio di marinai offerto da 14 contributori europei buona parte dei quali forniranno contributi simbolici o in tempi lunghi. Il primo limite dell’operazione europea è legato proprio alla tempistica. La fase iniziale di amalgama delle forze e di raccolta e condivisione delle informazioni d’intelligence sembra già destinata a protrarsi fino a inizio agosto quando, se Bruxelles l’autorizzerà, inizierà la fase di contrasto dei trafficanti in mare in cui si potranno fermare, requisire o affondare i barconi. Più i tempi si allungano più vantaggi avranno i trafficanti che contano sull’estate e il bel tempo per intensificare gli imbarchi.
Da alcuni giorni ha lasciato il porto di Taranto la portaerei Cavour, ammiraglia della flotta europea composta per ora solo da altre due navi, una fregata e un rifornitore tedeschi. Attesa anche la nave ausiliaria britannica Enterprise, unità disarmata da 3 mila tonnellate che ha sostituito la nave da assalto anfibio Bulwark, un colosso da 21 mila tonnellate con cui la Royal Navy puntava a ottenere il comando operativo (force commander) della flotta europea guidata dal quartier generale di Centocelle dall’ammiraglio Enrico Credendino.
La decisione di Roma di mettere sul piatto la portaerei Cavour da 27 mila tonnellate è stata determinata dalla volontà di assicurare all’Italia anche il force commander dell’operazione, ruolo affidato al contrammiraglio Andrea Gueglio. Un passo importante perché è chiaro che l’Italia è la più esposta ai flussi migratori e quella che più ha da perdere da un flop di Eunavfor Med.
Previsto l’arrivo anche di una fregata francese (il vicecomandante dell’operazione è l’ammiraglio Hervé Bléjean) mentre la Marina italiana dovrebbe assicurare anche un sottomarino da impiegare probabilmente in missioni furtive a ridosso delle coste libiche. Dispute coi britannici a parte, l’impiego della portaerei Cavour, anche se priva di cacciabombardieri Harrier, appare forse eccessivo per un’operazione che non ha caratteristiche belliche e che dovrà attendere autorizzazioni dall’Onu e da un ancora ipotetico governo di unità nazionale libico per poter colpire i terroristi nelle acque e sul territorio della nostra ex colonia.
Condizioni che potrebbero anche non verificarsi tenuto conto che lo stesso Segretario generale Ban ki-moon si è detto contrario a operazioni militari che esulino dal soccorso ai migranti e che entrambi i governi libici rivali hanno detto che attaccheranno la flotta europea se dovesse violare le acque territoriali.
Il ischio è quindi che il potente gruppo navale della Ue venga inviato in mare con le mani legate. impossibilitato a perseguire i suoi obiettivi peraltro neppure molto ambiziosi. Il mandato prevede infatti che Eunavfor Med “interrompa il modello di business” dei trafficanti di esseri umani e “contribuisca a ridurre ulteriori morti in mare”.
Difficile comprendere cosa significhi in termini militari “interrompere un modello di business” e con quali strumenti lo si possa fare, specie senza il contrasto diretto ai trafficanti. Il secondo obiettivo può esser invece conseguito anche unendo la flotta europea a quelle italiana (operazione Mare Sicuro) e di Frontex (operazione Triton) nel soccorrer in mare gli immigrati per poi sbarcarli in Italia.
Pure le navi di Eunavfor Med soccorreranno infatti i migranti anche se, precisano da Bruxelles, non è questo il “focus” dell'operazione. Resta però evidente che per avere successo, anche in termini di percezione, la flotta europea dovrà riuscire a fermare i flussi migratori, meglio se sgominando le gang che ne gestiscono i traffici. Nel Canale di Sicilia l'Europa della difesa si gioca la faccia: perdere la “guerra” ai trafficanti sarebbe una disfatta. Una Lepanto al contrario contrassegnata dall'immagine di portaerei e cacciatorpediniere con la bandiera blu stellata sconfitti dai barconi di criminali connessi col terrorismo islamico.

Il Sole 4.7.15
Istruzione
inviata la richiesta al Mef
Scuola, al via le prime 36.685 assunzioni A settembre altre 11mila
di Claudio Tucci


Roma La locomotiva delle assunzioni dei docenti precari si mette in moto. E viaggia su un doppio binario: mentre alla Camera è in dirittura d’arrivo l’approvazione finale del Ddl Renzi-Giannini 8sarà in aula il 7 luglio, ndr), con il piano complessivo di 102.734 stabilizzazioni, il ministero dell’Istruzione gioca d’anticipo e invia a Economia e Funzione pubblica la richiesta per immettere in ruolo, subito, i primi 36.685 insegnanti. Si tratta, per la precisione, di 21.938 nuovi professori che copriranno il turn-over con decorrenza 1° settembre 2015, e 14.747 docenti di sostegno (si completa così l’attuazione del piano Carrozza 2013 di potenziamento dell’organico per i ragazzi con disabilità).
Il Miur indica anche la ripartizione per grado di scuola: i 21.938 posti per coprire il turn-over saranno distribuiti, a livello nazionale, così: 7.028 alla scuola media, 6.588 alle superiori, 5.084 alla primaria e i restanti 3.238 andranno all’infanzia. La fetta più consistente dei 14.747 posti sul sostegno arriverà sempre alla medie (5.405), a seguire primaria (4.830), superiori (3.206) e infanzia (1.306).
In realtà, a seguito delle procedure di mobilità, appena concluse, per l’anno scolastico 2015/2016, risultano 29.622 posti comuni, vacanti e disponibili. Ma al termine degli spostamenti sono emersi pure 6.240 esuberi provinciali (quasi tutti, 5.905, alle superiori per effetto della riforma Gelmini che ha rivisto alcune classi di concorso), facendo scendere le disponibilità a 23.382 posti (21.938 verranno coperti da turn-over, se arriverà l’ok da Mef e Funzione pubblica).
Il maxi-piano assunzionale previsto dal Ddl «Buona Scuola» si dovrebbe completare nel corso del prossimo anno scolastico: entro settembre il Miur punta a stabilizzare altri circa 11mila posti (già vacanti e disponibili). Per questi, a differenza delle prime 36.685 immissioni in ruolo che rientrano nelle facoltà assunzionali del Miur a legislazione vigente, serve però prima l’approvazione del Ddl (martedì inizierà il rush finale in Aula a Montecitorio).
Discorso ancora differente, per gli ultimi 55mila posti del maxi-piano di stabilizzazioni che serviranno a far decollare l’organico dell’autonomia (quel surplus di 7-8 insegnanti aggiuntivi in ciascuna scuola da utilizzare per potenziare la didattica e i servizi agli studenti). La loro assunzione scatterà nel corso del prossimo anno scolastico (con il meccanismo della nomina giuridica), ma sempre dopo l’approvazione del Ddl, che fissa la cornice normativa (ed economica) per la loro assunzione “straordinaria”.

Repubblica 4.7.15
Gabrielli avverte Marino “Nelle carte di Mafia Capitale tutto il degrado della città”
Dopo il sondaggio di Repubblica, in campo Orfini: Renzi con il sindaco ma serve nuova fase. Cantone: per la metro dubbi su 700 milioni di costi
di Gio. Vi.


ROMA «Nelle carte c’è tanta di quella roba che basterebbe e avanzerebbe per evidenziare il degrado di molti costumi». Non si sbilancia il prefetto Franco Gabrielli: sa bene che dalla sua relazione sullo scioglimento del Campidoglio dipende la sorte dalla giunta Marino. «Uno spartiacque », l’ha di nuovo definita ieri Matteo Orfini.
Forse anche per questo Gabrielli non intende «anticipare nulla», rivelare il contenuto delle 900 pagine firmate dalla Commissione d’accesso che costituiscono l’ossatura del parere da consegnare, «la prossima settimana », al ministro Alfano. «Tutte cose già note», assicura il prefetto. Addirittura «commosso di non vedere ancora qualche pagina pubblicata sui giornali».
Un’attesa che, dopo l’avviso di sfratto recapitato dal premier al sindaco Marino, si è fatta spasmodica. Con l’inquilino del Campidoglio deciso a non arretrare di un passo: «Se questa città sta cambiando lo sta facendo perché ci siamo noi e dobbiamo dirlo e sentirne l’orgoglio», rivendica fra gli applausi degli eletti dem riuniti in aula Giulio Cesare. Un’autentica chiamata alle armi: «Trovo curioso che in tanti raccontino la città dopo che noi abbiamo scoperchiato le pentole ». Pure Orfini ne è convinto: «Attendiamo la relazione di Gabrielli, ma noi siamo tranquilli per quanto abbiamo fatto», scandisce. «Se si stabilirà che Roma non va sciolta, se vinceremo questa battaglia, inizierà un’altra fase che non ci deve portare né a negare i problemi che ci sono, ma nemmeno a scaricarli solo sull’amministrazione ». Netto, il commissario pd, nell’affermare che «Renzi sostiene Marino, lui ha dato un giusto stimolo che va raccolto. Ha riconosciuto che Marino è una persona perbene ma serve un salto di qualità». Perché «oggi il Pd avrà consenso se l’avrò amministrazione Marino».
Di rimpasto, dunque, se ne parlerà semmai dopo. Quando sarà più chiaro se e quanto il Comune di Roma è compromesso con gli affari dei clan. Solo allora si potrà ragionare su quella “giunta dei migliori” che dovrà passare per l’azzeramento della squadra attuale. Un’ipotesi che traspare anche dalle parole della presidente dell’Antimafia Rosy Bindi: «La situazione è seria, ma il sindaco non c’entra con Mafia Capitale. Ora però occorre una reazione di sistema. Non voglio che il Campidoglio venga spento del tutto. Servirebbe una legge speciale per Roma. Non uno scioglimento, ma un affiancamento della buona politica».
Necessaria pure per scongiurare quel che è successo finora con la metro C: costi saliti di 700 milioni, 45 varianti, molte decise senza «adeguate indagini preventive »; 65 milioni riconosciuti dopo un arbitrato con i costruttori per attività «già ricomprese» nell’affido iniziale. Motivazioni che hanno spinto l’Anticorruzione guidata da Cantone a inviare tutti gli atti ispettivi alla Corte dei conti.

Repubblica 4.7.15
Alla vigilia del Giubileo l’Atac è tecnicamente fallita
Ha 12 mila dipendenti, ma incassa la metà di Milano
Il cda evita di votare il bilancio, altrimenti avrebbe dovuto portare i libri in tribunale
L’Atac è al collasso, nella foto il traffico caotico nella Capitale
Un miliardo in 5 anni il rosso dei trasporti a un passo dal crac
di Giovanna Vitale


ROMA . C’è una piccola Grecia nel cuore del Campidoglio. In grado di travolgere, sotto il peso del suo disastro finanziario, il governo della capitale d’Italia. Alla vigilia del Giubileo straordinario che, dall’8 dicembre in poi, attirerà nella città eterna 25 milioni di pellegrini, l’Atac è infatti tecnicamente fallita. Costretta, qualora la giunta Marino non intervenga con una poderosa iniezione di beni e di soldi cash, a portare i libri in tribunale. Schiacciata da una perdita di esercizio che negli ultimi cinque anni ha superato il miliardo di euro.
A certificare lo stato d’insolvenza della società che gestisce i bus e le metropolitane di Roma, è il verbale del consiglio di amministrazione che il 30 giugno avrebbe dovuto licenziare il progetto di bilancio 2014 e ha invece deciso di rinviare, su proposta dell’ad Danilo Broggi, per evitare di dichiarare il default. Una forzatura talmente plateale da indurre uno dei componenti il collegio sindacale, Daniela Saitta, a rimarcare «il mancato rispetto dei termini di legge e statutari previsti per l’approvazione» del documento contabile, «constatando, nel contempo, l’oggettiva incertezza che pervade il tema essenziale della continuità aziendale». Tradotto: probabilmente neppure l’auspicata ricapitalizzazione da parte dell’azionista unico basterà a salvare Atac e a impedire che 3 milioni di cittadini restino appiedati.
Un crac annunciato. Dal 2008 l’azienda del trasporto pubblico è in rosso costante. Ostaggio di costi fissi insostenibili, specie per il personale, imbarcato a frotte nell’era di Parentopoli: ben 11.811 gli stipendi da pagare, quasi mille in più di Alitalia, per lavorare su 330 linee di superficie (a Milano sono 100) e tre metropolitane (che coprono un numero di chilometri inferiori persino a Bilbao) e infine incassare la metà dei biglietti della meneghina Atm. Mentre, per mancanza di risorse, le manutenzioni restano al palo: quasi un autobus su due, ogni giorno, non esce dai depositi perché guasto. Col risultato di lunghe attese alle fermate e corse soppresse, che fanno perdere tempo ai cittadini e denaro ad Atac.
La foto di una disfatta. Tanto più in una città dove, a fronte di appena 100 chilometri di corsie preferenziali ( l’1,8% dell’intera rete viaria comunale, meno della metà di Milano) circolano più automobili in rapporto agli abitanti rispetto a qualunque altro centro urbano al mondo: oltre 70 veicoli ogni cento residenti, il 50% in più di Parigi, addirittura il doppio di Berlino.
Inevitabile allora che pure il bilancio 2014 chiudesse in perdita: 141 milioni. Che, sommati ai 58 già accumulati in questo primo semestre e ai 219 milioni del 2013, hanno praticamente azzerato il patrimonio aziendale, configurando «le condizioni di cui all’art. 2484 comma 4 del Codice civile», ovvero lo scioglimento della società per riduzione del capitale al di sotto del limite legale. Allarme messo nero su bianco dai vertici Atac già il 22 giugno, nella drammatica nota inviata in Campidoglio per sollecitare il varo del nuovo contratto di servizio (approvato solo ieri in consiglio comunale) e chiedere di «operare, con la massima urgenza, un versamento in conto aumento di capitale sociale di almeno 20-25 milioni, ad integrazione della ricapitalizzazione mediante conferimento di beni in natura», ossia i nuovi treni senza conducente in servizio sulla linea C. Cifra poi lievitata, nella successiva nota datata 24 giugno, a 40 milioni. Soldi che però, al momento, nel bilancio capitolino non ci sono.
Sul piede di guerra le opposizioni: «Atac è sull’orlo del fallimento », tuonano i parlamentari Ncd Augello e Piso. «La giunta Marino, responsabile di questo disastro, agisca prima che sia troppo tardi».

Il Sole 4.7.15
La relazione valuta che i costi dell’opera sono cresciuti di 700 milioni
Metrò C, Cantone trasmette i rilievi alla Corte dei conti
di Alessandro Arona


Rilievi archeologici insufficienti prima di mettere in gara l’opera, maxi contenzioso tra ente pubblico e imprese nonostante il sistema del “general contractor”, eccessivo riconoscimento alle imprese di costi aggiuntivi.
L’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone censura sia il Comune di Roma (in particolare le amministrazioni guidate da Veltroni e Alemanno) sia le imprese, sia il governo (all’epoca il Berlusconi II) per l’appalto e i lavori per la linea C della metropolitana di Roma. La deliberazione n. 51/2015 , pubblicata ieri, esamina in dettaglio le cause che hanno comportato un aumento dei costi dell’opera da 3.047 a 3.739 milioni di euro, e l’importo del contratto con le imprese da 2.364 a 2.899 milioni, sostenendo che molti di questi aumenti si potevano evitare, o sono stati riconosciuti illegittimamente alle imprese o senza attenta verifica delle richieste di variante. E di conseguenza manda la sua delibera alla procura della Corte dei conti di Roma.
Tuttavia i rilievi dell’Anac si riferiscono a “fatti storici”: varianti approvate, oneri riconosciuti dal Cipe, lodi arbitrali passati in giudicato. Tant’è che il commento a caldo di Metro C spa (Astaldi, Vianini Lavori, Ansaldo Sts, Cmb, Ccc) è molto cauto: «Prendiamo atto positivamente dell’istruttoria Anac - commenta l’amministratore delegato Fabio Giannelli - perché conferma la nostra correttezza nella gestione del contratto: i rilievi sugli aspetti archeologici si riferiscono infatti a progetti messi in gara dall’amministrazione».
Il primo errore - secondo Cantone, che ha firmato la delibera - è stato infatti quello di mettere in gara l’opera con «pressoché totale assenza di indagini e studi archeologici preventivi», nonostante il tracciato attraversi aree con la maggiore densità di reperti al mondo (l’area di San Giovanni, il Colosseo, i Fori Imperiali). I soggetti finanziatori (Stato, Comune e Regione, ndr) - spiega Cantone - «hanno ritenuto che l’unica soluzione perseguibile per il completamento dell’indagine potesse essere quella di effettuare le indagini nell’ambito della realizzazione dell’opera», mentre è stata scartata l’ipotesi alternativa di affidare con appalto distinto le indagini archeologiche. Questo è stato un errore secondo l’Anac, che delibera di «ritenere l’operato della Stazione appaltante non coerente con i principi di trasparenza e di efficienza per aver messo a gara un progetto di tale rilevanza in carenza di adeguate indagini preventive, per una parte molto estesa del tracciato, senza tener in debito conto i pareri espressi dalla Soprintendenza archeologica».
Il progetto a base d’asta era fra l’altro solo preliminare per molte tratte, come accadeva spesso all’epoca del ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi, per “fare presto” e affidare progettazione e lavori “chiavi in mano” alle imprese. Tuttavia nell’appalto Roma Metropolitane (Comune) ha mantenuto in capo a sè, non trasferendolo alle imprese il rischio derivante da modifiche al progetto dovute ai rilievi archeologici, fattore che è stato infatti determinante nelle richieste di aumento di costo, soprattutto per i maggiori tempi a cui ha costretto i cantieri.
L’opera è andata in gara il 15 febbraio 2005, per un costo totale di 3.047 milioni e un valore a base d’asta di 2.510 milioni, con valore contrattuale poi fissato a 2.364. Il costo totale è poi lievitato agli attuali 3.739 milioni, valore che è però secondo l’Anac sottostimato, perché deve essere ancora fatta la progettazione per il tratto Venezia-Clodio (si stimano un costo totale effettivo di almeno 4,5 miliardi). Tant’è che l’Anac richiama «i soggetti coinvolti ad assumere ponderate decisioni circa il prosieguo dell’opera». L’opera è per ora finanziata fino al Colosseo, e il decreto Sblocca Italia 2014 ha messo altri 155 milioni per la Colosseo-Venezia, che però ne costa circa 450. Da piazza Venezia a piazzale Clodio la progettazione è ancora da sviluppare (dovrebbe costare almeno un altro miliardo di euro).
L’Anac ricorda che il general contractor ha iscritto riserve (richieste di maggiori oneri) per 1.394 milioni di euro, e le varianti approvate sono state 45 per 315 milioni, a cui è seguito il riconoscimento Cipe di ulteriori 230 milioni per oneri dovuti all’allungamento dei tempi. L’Anac bacchetta tuttavia i soggetti preposti alle verifiche di tali richieste (direttore lavori, Rup), ritenendo che «non sembra sia stata fatta» «un’attenta valutazione su ammissibilità, fondatezza e quantificazione economica».
L’accordo del 9 settembre 2013 tra il general contractor e Roma Metropolitane ha inoltre riconosciuto oneri extra per la funzione del general contractor, che le imprese calcolano in 90 milioni di euro, cosa che secondo l’Anac non doveva essere fatta perché anche se è vero che la legge che riconosce tali oneri (Dlgs 17 agosto 2005 n. 89) è successiva al bando di gara, è però precedente all’offerta, e dunque «potevano ritenersi già ricomprese tra le attività oggetto di affidamento». Tuttavia l’Anac ammette che il lodo arbitrale che riconosce questi 90 milioni è ormai passato in giudicato. Questo le imprese lo sanno bene, e se l’amministrazione Marino continuerà a non voler pagare questi 90 milioni - Cantone o no - sono pronte a far causa al tribunale civile.

Repubblica 4.7.15
Flashmob e letture in piazza
Nei libri all’Indice per il gender anche i capolavori dell’infanzia
Scrittori e genitori si ribellano alle liste di proscrizione del sindaco di Venezia, che comprendono testi su adozione e bullismo
E la Giunta ora sembra poterci ripensare
di Maria Novella De Luca


I LIBRI proibiti adesso sono chiusi in scatoloni sigillati e pronti per essere nascosti chissà dove. Così come aveva ordinato il nuovo sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, non appena insediato. La censura ha colpito con solerzia. Via dalle scuole della laguna tutti i libri che parlano di “gender, o di genitore 1 e genitore 2” diceva frettolosamente la breve circolare inviata ai dirigenti scolastici. Strana definizione per albi illustrati destinati ai bambini dei nidi e delle materne, liberamente in vendita in tutte le librerie italiane, e dove i protagonisti sono oche, orsi, topi, principesse, elefanti, gatti, famiglie, madri e padri. Ma il risultato, grottesco, e già finito sui giornali stranieri, è che sotto la scure del presunto “gender” sono finiti ben 49 titoli delle migliori case editrici per ragazzi.
Capolavori per l’infanzia come “Piccolo blu e piccolo giallo” di Leo Lionni, scrittore e illustratore celebre e amatissimo, dove due colori tanto diversi sono così profondamente amici, da mescolarsi per creare il verde...Difficile comprendere il messaggio eversivo di questo abbraccio cromatico. Tanto che contro la “lista di proscrizione”, dove si narra anche di (pericolose) ninne nanne per far addormentare i bebè, si sono mobilitati autori, editori, cittadini, librai, bibliotecari, con letture in piazza, flash mob, e campagne via Facebook dal titolo “Liberiamo i libri”. Durissima l’Associazione Italiana Scrittori per l’Infanzia, che parla di “prassi autoritaria che ha visto luce soltanto nei periodi più bui della storia delle dittature”. Sottolineando come nella caccia al libro pericoloso ordinata dal nuovo sindaco di centrodestra, siano rimasti intrappolati volumi di ogni tipo, e assi poco “gender”. Dai lupi intelligenti di Mario Ramos ai figli dell’adozione di Amaltea, e altri cult della letteratura da zero a sei anni, da “Orecchie di farfalla” al “Pentolino di Antonino” di Isabel Carrer, delicata storia di un bambino disabile.
«Mi ha chiamato da New York Annie, la nipote di Leo Lionni, per chiedermi sbalordita come mai fossero stati censurati in Italia i libri del nonno», racconta Francesca Archinto, direttrice editoriale di “BabaLibri”, che ha diversi titoli “all’indice” nella lista veneziana. «È incredibile che la politica cerchi di controllare la cultura, in quegli albi illustrati c’è la vita reale, i bambini non possono ignorare che esistono diversi tipi di famiglie, e nelle scuole c’è il bullismo, e il razzismo esiste », incalza Francesca Archinto. «Che senso ha censurare una storia come “Il segreto di Lu”, dove si parla di soprusi a scuola? Francamente penso che il sindaco di Venezia non conosca i libri per bambini, e soprattutto la lista di titoli che ha messo al bando». Difficile ad esempio rintracciare il fantasma del “gender” nel “I papà bis”, storia di una famiglia ricomposta dopo un divorzio. Come accade in Italia a 174 coppie ogni mille matrimoni.
Però è vero, in questa lista di libri si parla molto di “famiglie” al plurale, raccontando, ad esempio nel famoso “Piccolo uovo” edito da Stampatello e disegnato da Altan, di tutte le forme di genitorialità attuali, comprese quelle “omo” e arcobaleno. Ideatrice del progetto “Leggere senza stereotipi”, è Camilla Seibezzi, già delegata ai Diritti Civili del Comune di Venezia. «Ma quei titoli furono scelti da una équipe di pedagogisti e psicologi e consegnati alle scuole dopo un corso di formazione per gli insegnanti. Dunque con estrema cautela». Sommerso dalle critiche Brugnaro ha adesso annunciato che sui libri proibiti verrà fatta un’analisi ulteriore, e forse alcuni saranno “liberati”. Replica Camilla Seibezzi: «Se accettiamo che anche solo uno dei 49 libri di favole venga censurato la battaglia è giá persa e la democrazia è venuta meno, perché la scuola pubblica ha il dovere di rappresentare e tutelare tutti i bambini e non una sola parte».

Il Sole 4.7.15
Mentre la spartizione della Siria è ormai una realtà
Un Occidente ambiguo o assente di fronte all’Isis
di Alberto Negri


Ma chi fa la guerra al Califfato? Ed è davvero intenzione dell’Occidente contrastare il fenomeno più barbarico apparso sulle coste del Mediterraneo nell’ultimo mezzo secolo? C’è da dubitarne. Il confine turco-siriano, dove la Nato ha piazzato i suoi missili Patriot, sta diventando il vero nodo del Medio Oriente, con l’Europa clamorosamente silenziosa e assente nonostante gli attentati multipli degli affiliati dell’Isis della scorsa settimana.
Un giorno, non troppo lontano, bisognerà decidere se muovere guerra al Califfato o continuare a fingere. Centinaia di aerei americani e occidentali, italiani compresi, sorvolano il Levante e il Mediterraneo senza risultati apprezzabili: tre quarti delle incursioni su Siria e Iraq terminano senza aver individuato o colpito il bersaglio mentre in Libia si parla di affondare gli scafisti ma non di distruggere le basi dell’Isis.
Sarà forse perché alleati come la Turchia e soprattutto le monarchie del Golfo sono i principali sponsor dei jihadisti, che adesso, in una coalizione senza l’Isis, si sono lanciati nell’offensiva di Aleppo. La coalizione è composta da 13 gruppi estremisti tra i quali figura anche il Fronte al Nusra, il ramo di al-Qaeda in Siria. Sarebbero questi qaedisti gli esponenti dell’opposizione moderata evocata in fumose conferenze internazionali? L’Isis non sembra che arretri: dalla Siria arrivano immagini della distruzione di statue di Palmira mentre a Mosul il Califfato ha insediato un sindaco francese, Abderrhaman al-Faransi, segnalando che anche per i foreign fighters ci sono prospettive di carriera.
Con la Turchia sempre più propensa a intervenire, nonostante le smentite del primo ministro Ahmet Davutoglu, gli Stati Uniti hanno rilasciato una dichiarazione politica sul futuro della Siria che è un capolavoro di ambiguità. Washington vuole che la Siria resti «unita e democratica», ha detto l’ambasciatore Usa ad Ankara John Bass a proposito dei timori espressi dalla Turchia sulla creazione di uno stato curdo. Ma dove sia la Siria “democratica” lo sa soltanto l’ineffabile Bass, quanto poi all’unità dovrebbe essere informato che il territorio è in mano per un terzo al regime di Assad e per due terzi al Califfato e ad altre milizie. La spartizione dell’ex Siria è già in atto da tempo.
La posizione americana è imbarazzante perché non riesce a esercitare nessuna leva sulla Turchia, da 60 anni membro della Nato. È incombente l’ipotesi di un piano turco per penetrare il territorio siriano, con l’obiettivo di insediare una “buffer zone” lunga 100 chilometri e larga tra i 10 e i 15. Una zona cuscinetto che permetterebbe, secondo Ankara, non solo di isolare la Turchia dai pericoli legati all’avanzata del Califfato ma anche di contrastare il flusso di rifugiati siriani, quasi 2 milioni. Questi piani sono diventati più concreti quando le forze curde dell’Ypg, braccio militare del partito curdo siriano Pyd, hanno sconfitto l’Isis e preso il controllo di Tel Abyad. L’esito della battaglia, sul quale ha pesato il sostegno aereo americano, ha scatenato il presidente Tayyep Erdogan che ha accusato i curdi di «pulizia etnica» nei confronti di arabi e turcomanni e definito i combattenti curdi «terroristi» in quanto affiliati ai separatisti del Pkk.
Dopo avere sentenziato che «mai e poi mai avrebbe permesso la creazione di uno Stato curdo», Erdogan ha fatto muovere le truppe al confine con l’idea di occupare un’area che va da Kobane a Jarablus, per chiudere il corridoio che unisce le aree a maggioranza curda di Iraq e Siria. Questi piani si scontrano però con la riluttanza dei militari turchi, poco propensi a infilare gli stivali nel pantano siriano. Più che i tank ad Ankara in questo momento manca una saldatura tra politica, esercito e diplomazia capace di mettere il Paese al riparo dalle incognite di un’operazione militare del genere, considerando che oltre agli Stati Uniti sono in gioco interessi (e armi) di Iran e Russia. Ma l’ambiguità americana e l’evanescenza dell’Europa sono tali che tutto è possibile.

Repubblica 4.7.15
L’Avana.Il mondo degli affari si prepara a conquistare uno dei pochi mercati non ancora raggiunti dalla globalizzazione. Anche l’Italia va in “missione”
“Tutti a Cuba”: l’assalto del business
E l’isola impazzisce per il wi-fi libero
di Federico Rampini


La prossima settimana arriverà una nostra delegazione: erano previsti 100 imprenditori ma ce ne saranno almeno 150 Il turismo vive una fase di boom mai vista prima: migliaia di persone vogliono vedere il Paese prima che tutto cambi

L’AVANA E’ l’effetto-Obama che si comincia a sentire? Il governo cubano annuncia l’apertura di 35 nuovi punti wi-fi, le connessioni pubbliche a Internet salirebbero rapidamente a 150. E’ un’apertura importante in un Paese dove l’accesso alla Rete finora è stato un privilegio élitario: ne gode solo il 5% della popolazione, per lo più i nuovi ricchi e i membri della nomenclatura. L’ampliamento degli accessi online si aggiunge ad altri cenni di liberalizzazione politica già registrati dopo il 17 dicembre, quando Barack Obama annunciò per la prima volta il nuovo corso americano: sarebbe sceso del 5% il numero dei detenuti politici (l’anno scorso c’erano stati 9.000 arresti, di breve durata, tra dissidenti).
Dopo lo storico annuncio del presidente americano sulla riapertura dei rapporti diplomatici e la nomina dei rispettivi ambasciatori, la “caduta dell’ultimo Muro” della guerra fredda crea eccitazione. E’ più evidente nel comportamento degli stranieri: dai semplici turisti ai potenziali investitori. “Tutti a Cuba”, è lo slogan del momento. Gli americani — a cui formalmente è ancora vietato viaggiare su quest’isola — affollano i pochi voli di Air Canada via Toronto (carissimi e con mostruosi ritardi) pur di visitare L’Avana “prima che sia troppo tardi”. Cioè prima che la modernità, la globalizzazione, il business, stravolgano l’ultimo museo di un mondo che fu: questa stupefacente reliquia degli anni Cinquanta che è L’Avana, con le Cadillac decapottabili dei tempi di Humphrey Bogart, i bar retrò dove Ernest Hemingway e Ava Gardner sorseggiavano daiquiri e mojito, i fantasmi dei grandi musicisti come Ibrahim Ferrer del Social Club Buena Vista, le facciate decrepite dei palazzi coloniali spagnoli seicenteschi, o del primo Novecento la meravigliosa architettura liberty che ammuffisce sotto l’umidità tropicale. L’eccitazione crea il tutto esaurito negli alberghi anche in bassa stagione: a luglio qui fa già troppo caldo e umido, gli albergatori non avevano mai visto un tale flusso di turisti; vanno a ruba le case private, gli affitta- stanze.
Si muovono anche gli imprenditori italiani, per non farsi soffiare da altri “l’ultimo paese comunista ad aprirsi al Capitale” (forse). Il nostro ambasciatore Carmine Robustelli è alle prese con un problema inedito: troppi imprenditori in visita. La prossima settimana arriva qui una delegazione del sistema Italia guidata dal viceministro dell’economia Carlo Calenda e dal sottosegretario Mario Giro. Si erano iscritti di getto 100 partecipanti, ora siamo già a 150 tra imprenditori, manager, rappresentanti di banche e associazioni di categoria. Bisogna sistemarli in una città dove gli hotel cinque stelle sono pochi e già strapieni. La Sace, che assicura le nostre aziende esportatrici, stima che «l’export italiano può raggiungere i 220 milioni di euro entro il 2019». Una previsione alla quale la Sace aggiunge una condizione non scontata: «se viene realizzato il piano di riforme». E’ questa seconda frase, la chiave per capire lo scetticismo di molti cubani. Loro ricordano altre false partenze: in particolare i primi anni Novanta, quando la caduta del Muro di Berlino, la fine dell’Urss e quindi degli aiuti sovietici a Cuba, fu seguito da un primo annuncio di riforme economiche, una presunta transizione al mercato che non si è realizzata. Più di recente, sempre sotto la pressione dell’emergenza economica, quando pure il Venezuela in crisi ha lesinato i suoi aiuti, qualcosa si è mosso: soprattutto nel turismo, un settore dove comandano i militari, che paradossalmente sono l’ala più moderna del regime castrista. In questi giorni è all’Avana il top management del colosso italiano Msc, uno dei big mondiali delle crociere. Sfruttando l’handicap dei suoi concorrenti americani come Carnival e Royal Caribbean — l’embargo commerciale Usa è tuttora in vigore, Obama non può toglierlo senza l’assenso del Congresso — l’italiana Msc sarà la prima a offrire crociere con partenza dall’Avana, già a dicembre. E’ un successo prezioso, in un business turistico dove finora i più veloci sono stati gli spagnoli, con le loro grandi catene alberghiere come Melià.
Che tipo di economia avrà Cuba tra cinque, dieci o vent’anni, è una domanda a cui nessuno sa rispondere. Neppure il presidente Raul Castro, che a 83 anni può sperare di gestire solo i primi passi del nuovo corso. A quasi 60 anni dalla rivoluzione comunista del 1959, e dopo 54 anni di embargo americano, non ci sono modelli del passato a cui fare riferimento. Ai tempi pre-rivoluzionari sotto il dittatore Batista Cuba era diventata il bordello d’America, coi suoi casinò e la prostituzione in mano ai boss mafiosi Al Capone, Lucky Luciano, Sam Giancana. Il socialismo ha fatto pulizia, anche se oggi qualcuno teme che i rimasugli mafiosi tra i cubani- americani di Miami possano spingere i loro tentacoli sull’isola, riprendersi un business come quello della prostituzione che ha già ripreso a fiorire da anni, in maniera “artigianale”, con il turismo sessuale.
Il socialismo castrista ha imposto un’economia di guerra con tutte le sue distorsioni: i razionamenti e le tessere del cibo, il doppio regime valutario coi pesos che comprano poco, e gli ambitissimi Cuc ( Cuban currency units ) riservati a chi ha transazioni con gli stranieri. Il disastro dell’agricoltura — quest’isola fertile e rigogliosa è costretta a importare l’80% del fabbisogno alimentare — riduce anche le ricadute benefiche del turismo, perché i grandi alberghi e villaggi turistici devono comprare all’estero carne e pesce surgelato. E’ quello che i cubani con amarezza chiamano «il nostro embargo interno»: l’economia privata rimane minuscola, dà lavoro a mezzo milione di persone su 11 milioni di abitanti. Sono pochissimi i mestieri abilitati al profitto privato: ristoranti, taxi, meccanici, piccole cooperative edili. Tutto il resto è in mano a uno Stato invasivo, una nomenclatura intermedia che finora ha bloccato i timidi tentativi di rinnovamento annunciati dalla «famiglia reale»(così vengono chiamati Fidel, Raul Castro e parenti).
«Almeno, non siamo il Brasile» mi dice fiera una celebre ballerina, sposata a un imprenditore. Allude alla pochissima delinquenza: successo innegabile del socialismo, che fa di Cuba un’oasi di sicurezza nei Caraibi e tutta l’America latina. La distingue anche il “socialismo medico”, sanità d’avanguardia che esporta dottori per ridurre i 26 miliardi di dollari di debito pubblico (di cui 8 miliardi in default). Ci sono 30.000 medici cubani in Venezuela, 12.000 tra Brasile e altri paesi sudamericani, 12.000 in Africa: la principale fonte di valuta pregiata. Su questo fiore all’occhiello, c’è chi spera di poter innestare un nuovo business globale, trasformando Cuba in una piattaforma di ricerca biomedica per le multinazionali di Big Pharma. I più arditi tra i riformatori del regime guardano al modello di Israele, l’idea di trasformare un’intera nazione in una start-up.
Basta uscire dall’Avana, addentrarsi nella campagna povera e arcaica, per intuire lo scarto immenso tra questi slogan e la realtà.
(2 — fine)

Il Sole 4.7.15
La via cubana per l’Italia
Licia Mattioli: «220 progetti di investimento per 8,7 miliardi di $»
di Nicoletta Picchio


Il turismo, ma non solo: c’è un’ampia gamma dell’industria italiana al nastro di partenza per Cuba. Meccanica agricola e trasformazione alimentare, infrastrutture, costruzioni e restauro. E poi ancora ambiente ed energie rinnovabili, più il biomedicale. Il sistema Italia, cioè governo, Confindustria, banche, istituzioni dedicate all’internazionalizzazione, a partire dall’Ice Agenzia, per la prima volta si muove verso l’isola caraibica, a due giorni dall’annuncio ufficiale del presidente degli Stati Uniti della riapertura delle rispettive ambasciate.
«Si stanno delineando importanti opportunità e noi italiani questa volta ci stiamo muovendo tempestivamente per cogliere le aperture del governo cubano e la loro volontà di aprire le porte agli investimenti stranieri», dice Licia Mattioli, presidente del Comitato tecnico per l’internazionalizzazione di Confindustria. «Il disgelo delle relazioni diplomatiche tra Usa e Cuba ha impresso un’accelerazione nel percorso di integrazione cubana nell’economia globale. Creando un maggiore interesse anche dell’Europa, e dell’Italia, nei confronti di Cuba come destinazione di futuri investimenti», continua la Mattioli, che dal 6 all’8 luglio sarà a L’Avana per la missione imprenditoriale promossa dai ministeri dello Sviluppo economico e degli Affari esteri, rappresentati rispettivamente dal vice ministro Carlo Calenda e dal sottosegretario Mario Giro, organizzata da Confindustria, Ice Agenzia, Abi, Alleanza delle coop, Unioncamere. Oltre alla Mattioli ci saranno il presidente dell’Ice Agenzia, Riccardo Monti, e il vice presidente di Abi, Guido Rosa. In totale saranno 140 i partecipanti, con 71 imprese, 9 associazioni imprenditoriali, 5 gruppi bancari.
«Già l’anno scorso, con la legge sugli investimenti stranieri, il governo cubano aveva dimostrato di puntare sui capitali stranieri come volano di crescita. Sono stati individuati 220 progetti di investimento per circa 8,7 miliardi di dollari e sono stati anche definiti una serie di incentivi fiscali per le società internazionali che vogliono creare attività a Cuba», spiega ancora la Mattioli, aggiungendo che con la cancellazione dalle liste dei paesi che sostengono il terrorismo Cuba potrà ricevere i finanziamenti della Banca mondiale e del Fondo monetario. Una fonte di risorse importante, che potrà dare una spinta allo sviluppo dell’isola. Le principali analisi internazionali stimano già un sensibile aumento della crescita cubana, +4,4 nel 2015, accompagnata da una rapida accelerazione degli investimenti esteri (oltre 1 miliardo di dollari).
La missione italiana a Cuba avrà sia un versante di contatti politici, nel Forum istituzionale di martedì mattina, e poi una serie di approfondimenti settoriali. Mercoledì 8 è prevista una visita alla zona economica speciale e al porto di Mariel, con annesso centro logistico, un’area appena fuori L’Avana di oltre 400 kmq, realizzata con capitali brasiliani, che grazie ad incentivi fiscali e doganali, ha l’obiettivo di attrarre investimenti esteri sia nel settore petrolifero che in quello dell’industria manifatturiera.
Il turismo è, nel paese, uno dei settori dove ci possono essere maggiori spazi: già nel primo trimestre del 2015, dice la Mattioli, c’è stato un aumento del 12,5 per cento. Nel 2014 la cifra assoluta è stata di circa 2,7 milioni di turisti, di cui 600mila americani. Dei circa 7 milioni di turisti che visitano i caraibi, circa il 10% sono provenienti dagli Usa. Se ne deduce, secondo la presidente del Comitato confindustriale, che anche a Cuba una buona fetta delle presenze potrà arrivare dagli Stati Uniti, persone quindi abituate a comprare il made in Italy e che possono sostenere l’acquisto di beni di consumo italiani nell’isola, dando una spinta al nostro export.
Per i macchinari agricoli, altro settore della missione, lo spazio è consistente: ci sono 6,3 milioni di ettari di terreni, dice la Mattioli, di cui solo 2,6 coltivati. Per l’energia, il governo punta sulle rinnovabili, per diminuire la dipendenza dal combustibile fossile, che oggi è al 95 per cento. Infrastrutture e costruzioni sono in primo piano, come anche il restauro dei palazzi antichi, che sono numerosi e vanno rimessi a posto. Nel biomedicale l’intenzione del governo è aumentare la produzione di farmaci da destinare all’America Latina e all’Africa: «ci sono già 16 grandi imprese con 21mila dipendenti, ma il loro obiettivo è crescere ancora».
Secondo i dati del 2014, tra i paesi fornitori l’Italia è al sesto posto, con una quota del 5,1%, prima la Cina con il 17,9% e seconda la Spagna, con il 15,6 per cento. Tra i paesi clienti l’Italia è al diciottesimo posto, con l’1,4. I settori su cui si concentrano gli Ide sono il turismo, con il 42% del totale, energia e miniere sono al secondo posto con il 13%, al terzo c’è l’industria manifatturiera con il 10 per cento. L’export italiano l’anno scorso è stato di 230 milioni di euro, l’import di 21 milioni di euro. Le imprese italiane a Cuba risultano 14 nel 2013, con un totale di 430 dipendenti e più di 14 milioni di euro di fatturato. A livello europeo l’Italia si posizione al secondo posto per numero di pmi con filiali a Cuba.

Il Sole 4.7.15
La crisi degli altri
Cina, settimana nera con l’incubo «bolla»
Nuovo tracollo ieri alla Borsa di Shanghai: -5,77%
In cinque giorni ha ceduto oltre il 12%
di Rita Fatiguso


Altra settimana nera per le borse cinesi. Ieri la chiusura a Shanghai è stata negativa: -5,77%. Un andamento schizofrenico dopo le ottime performance dell’altro giorno che riguarda un po’ tutte le piazze, anche Shenzhen: -5,30% Negativa anche quella di Hong kong: -0,83%.
Quindi un venerdì nero anche per effetto della presunta indagine sulle manipolazioni del mercato da parte dell’autorità di vigilanza.
Difatti le notizie di fonte Csrc (China Securities Regulatory Commission) dicono che è stata costituita una squadra ad hoc per indagare su questi fenomeni distorsivi dell'andamento delle quotazioni.
Prime vittime eccellenti, ma la cosa era del tutto preventivabile, le Ipo in coda, oggetto di feroci manovre speculative. Un vero peccato dato che molte erano le aspettative in favore di queste nuove matricole di Borsa.
Il rischio che questi andamenti anomali si convertano in un default del sistema è uno spettro che torna a spaventare la finanza cinese.
La Banca centrale è dovuta intervenire per assicurare oltre 250 miliardi di yuan di liquidità. L’indice CSI300 di Shanghai e Shenzhen è calato del 5,4 per cento per chiudere a 3,885.92, mentre lo Shanghai Composite Index è andato sotto del 5,8 per cento a 3,686.92 punti. Il benchmark di Shanghai è sceso sotto 4.000 punti per la prima volta da aprile. Una sorta di soglia psicologica.
La possibile caduta dei mercati azionari cinesi è diventata una preoccupazione importante per gli investitori globali, che temono un tracollo che potrebbe destabilizzare la seconda più grande economia del mondo in un momento in cui la crescita sta già rallentando.
Le azioni cinesi avevano più che raddoppiato tra il novembre e la metà di giugno: il rally era alimentato in gran parte da investitori ben provvisti di denaro preso in prestito per scommettere sulle azioni. Con simili dati di crescita la Cina rimane una fonte di incertezza per le prospettive globali. Sul mercato dei futures sono stati sospesi 19 operatori per vendite allo scoperto in un mese, voci confermate dalla Financial Futures Exchange (CFFEX).
Gran parte della vendita delle azioni cinesi è stata guidata da «richieste di margini», il che accade quando una società di intermediazione che ha esteso di credito agli investitori per comprare azioni esige più contanti o garanzie collaterali, perché i prezzi sono crollati. Se queste richieste di margini continueranno, questo potrebbe anche influire su altri mercati in quanto gli investitori hanno bisogno di fare cassa.
Alcuni fondi hanno chiuso le loro posizioni per inviare fondi in Cina, al fine di soddisfare i loro pagamenti di margini su indici azionari.
Pechino sta lottando per tutta la settimana per trovare una formula politica che possa ripristinare la fiducia nei mercati azionari. Finora le ha provate tutte, dall’allentamento della politica monetaria, all’incoraggiare i fondi pensione di investire in azioni e alla riduzione dei costi di transazione tutte misure che non sono riuscite ad arginare il crollo.
La CSRC ha perfino ammorbidito le regole sull'utilizzo di denaro preso in prestito per speculare sui mercati azionari, lasciando i broker impostare il proprio livello di tolleranza per le chiamate di margine e permettendo il rollover dei contratti di prestito su margine. Bisognerà vedere, lunedì, alla ripresa se si sarà trattato di semplici scosse di assestamento oppure no.

Il Sole 4.7.15
«Noi, colosso cinese che guarda alle Pmi»
L’Italia può diventare Paese d’elezione
In molti Paesi europei manca il capitale, che da noi abbonda
intervista di Rita Fatiguso


Wang Hongzhang è approdato a Milano per tenere a battesimo la nuova filiale di China construction bank al termine di un lungo giro che l’ha portato a visitare le capitali di mezza Europa. Il banchiere ha voluto concedere questa intervista in esclusiva al Sole 24 Ore, il giornale delle imprese italiane, in pratica proprio quelle alle quali China construction guarda con maggiore attenzione.

Wang Hongzhang è approdato a Milano per tenere a battesimo la nuova filiale di China construction bank al termine di un lungo giro che l’ha portato a visitare le capitali di mezza Europa. Ultima tappa, prima dell’Italia, è stata Parigi. Ma è in Italia, per sua stessa ammissione, che China construction bank, seconda banca cinese per capitalizzazione di borsa, potrà esprimere al meglio i suoi obiettivi. Il banchiere ha voluto concedere questa intervista in esclusiva al Sole 24 Ore, il giornale delle imprese italiane, in pratica proprio quelle alle quali China construction guarda con maggiore attenzione. Segnale non secondario, la sede della banca sarà nel “Diamantino” di Porta Nuova, l’area ristrutturata dalla Hines di Manfredi Catella, una Milano che guarda, deliberatamente, al futuro.
Mr. Wang Hongzhang, lei da tre anni è il chairman di China Construction Bank, un gigante che vanta oltre 14mila filiali e circa 300mila dipendenti, e che è tra le quattro più grandi banche cinesi accanto a Agricultural Bank of China, Industrial and Commercial Bank of China e Bank of China. In cosa si caratterizza CCB rispetto alle altre banche cinesi concorrenti?
La nostra banca ha sostanzialmente la stessa struttura delle altre grandi banche cinesi. Ha però dalla sua un focus molto deciso sulle opere infrastrutturali e sugli interventi in favore delle medie e piccole imprese. Inoltre, ci contraddistinguiamo per la grande managerialità del nostro personale, un elemento che ci caratterizza in maniera decisa anche rispetto al panorama cinese. Una delle cose che abbiamo dovuto considerare è stata la qualità del servizio che in banca è un elemento essenziale. Abbiamo imparato molto dal caso BoFa.
Infatti, CCB ha cominciato anni fa ad attuare la strategia Go Global, prima è stata quotata alla Borsa di Hong Kong nel novembre del 2005, raccogliendo ben 9,23 miliardi di dollari. Poi circa sei anni fa è entrata in una porzione consistente del capitale di Bank of America attraverso il ramo di BoFA di Hong Kong e Macao. Come valuta dunque questa operazione realizzata sul fronte americano?
Il Go global rappresenta solo una parte di questa nostra marcata specializzazione sui mercati stranieri. Per quanto riguarda l’operazione su BoFa che risale a qualche anno fa le considerazioni che oggi possiamo fare sono davvero ottime. Avevamo acquisito attraverso la filiale di Hong Kong e Macao come lei ben ricorda decine e decine di sportelli. Questo ci ha permesso di affinare le nostre competenze nel private banking che ancora oggi rappresentano il nostro fiore all’occhiello. Lo scambio formativo con gli Usa – decine anche di nostri addetti sono andati in America per stage sul campo - ci ha permesso di fare passi in avanti nel modello di gestione bancaria. In definitiva, anche se BoFa sarà nel business solo fino al 2016, China construction bank ha comunque acquisito valore aggiunto. Il che la rende capace di affrontare meglio le sfide dell’internazionalizzazione. Per China construction bank andare all’estero è sempre stato un fatto naturale. Ricordo che siamo l’unica banca autorizzata al clearing in Amercia Latina, un’area completamente nuova per la Cina.
Adesso la sua banca ha deciso di muovere le pedine anche in Europa. Ci può spiegare come pensate di posizionarvi nei diversi Paesi europei? Ci saranno delle differenze tra Italia e Spagna o Francia, ad esempio?
In questo momento si è aperta una nuova era nell’economia cinese. In Europa nonostante le difficoltà e la crisi abbiamo notato dei segnali positivi. La stessa Italia, ieri ero a Roma a parlare con il consigliere economico del premier Matteo Renzi, mi spiegavano che un passaggio c’è da meno zero a più zero per la crescita economica. Ciò che manca in molti Paesi europei è il capitale che, invece, in Cina in questo momento abbonda. Anche in questo caso il nostro modello di banca si presta a operazioni positive per entrambe le parti. Da un lato le nuove acquisizioni da parte della Cina alla quale mancano talvolta competenze tecniche. mentre dall’altro lato alle pmi italiane manca il capitale necessario per crescere. I rapporti con l’Italia in ogni caso migliorano, la bilancia commerciale ha raggiunto un volume di ben 47 miliardi di dollari. Le prospettive di miglioramento esistono. Vorrei ricordare che noi di China construction bank abbiamo avuto un ruolo importante nel deal tra China chemical e Pirelli, questo vuol dire che siamo pronti a fare altrettanto con altre aziende di interesse per la Cina. Se siamo stati effettivi in questa operazione vuol dire che possiamo fare altrettanto in simili casi, anche con realtà più piccole. Questa è la nostra vera mission. Utile sia per l’Italia sia per la Cina, entrambe caratterizzate da realtà di medio calibro dal punto di vista aziendale.
L’Italia nel 2014 ha registrato un vero boom di operazioni di merger & acquisition con realtà cinesi. A quale tipo di strategia pensate? Le aziende cinesi sono incentivate dal Governo di Pechino a fare sempre di più e meglio fuori dalla Cina. Una banca come CCB cosa può fare per facilitare questo incontro?
L’Italia può essere davvero il Paese di elezione per la nostra attività. Intanto devo dire che abbiamo sottoposto l’Italia a un’attenta indagine preliminare. Le cose che abbiamo valutato sono tre, come facciamo di solito in casi come questo, quando dobbiamo decidere se aprire o no una nuova filiale in un nuovo Paese. Il sistema nel complesso, poi l’attrattività del Paese per gli investimenti, infine se la struttura combacia con la nostra cultura di intervento e con i nostri interessi. Abbiamo anche notato che il sistema di controllo bancario italiano è molto sviluppato, questo è sicuramente un valore aggiunto dal nostro punto di vista. L’Italia sta procedendo nella riforma del sistema bancario e anche questo è molto importante nella valutazione dell’intero Paese.
La Nuova Via della Seta arriverà anche in Italia, che ruolo potrà avere CCB in questa strategia di investimenti che tanto sta a cuore al presidente Xi Jinping?
La Nuova Via della Seta rappresenta un importante strategia del Governo cinese. Tra Oriente e Occidente non è mai mancato il legame storico e culturale che ora si sta rafforzando con una ben maggiore ampiezza. L’Italia è fondamentale nell’importanza dello sviluppo umanistico. Ricordiamo che la strategia «One belt one road» prevede almeno 60 tappe per attività collegate alla New Silk Road e trasporto e comunicazione sono i punti di forza della nostra banca. Noi siamo pronti. Esiste una notevole serie di attività che noi stiamo seguendo attentamente circa 10 delle nostre filiali si trovano lungo la Via della Seta. Il problema in tutti questi casi è sempre il grande fabbisogno di capitale.
Secondo lei sono possibili alleanze tra CCB e istituti bancari italiani o europei per comuni operazioni?
Il sistema bancario italiano è solido. Direi che la questione è importante, la collaborazione è fattibile, ma a patto di costruire una solida piattaforma che funzioni da velocizzatore degli interventi stessi. Si potrà lavorare anche su questo fronte.
Lei personalmente ha una lunga e importante carriera in People’s Bank of China e prima ancora in Icbc, una grande banca commerciale, la prima della Cina. Cosa le hanno insegnato queste esperienze passate? Come ha vissuto la richiesta del Governo centrale di dimezzare il suo stipendio?
Vero, la mia carriera è stata tutta all’interno del sistema bancario, una cosa di cui sono particolarmente orgoglioso e alla quale mi sono dedicato in tutti questi anni. Certo, il mio entusiasmo non è venuto meno e non è rapportabile al mio stipendio. Quando prendevo meno di quanto prendo adesso, la passione per il mio lavoro non era inferiore a quella attuale. L’esigenza di ridimensionare gli stipendi dei manager pubblici raccordandoli a quelli degli altri dipendenti è un obiettivo che va oltre la lotta alla corruzione, vuol semplicemente attribuire il giusto valore al lavoro anche di responsabilità. Ma come dicevo, per me non è cambiato nulla.