mercoledì 18 luglio 2012

l’Unità 18.7.12
Nel mirino 1° maggio e 25 aprile Anpi e sindacati: «Non si toccano»
L’ira dell’Anpi: «Di nuovo qualcuno vuole infilare le date fondanti della Repubblica tra le festività da accorpare». Molto critica anche la Cgil
di Massimo Franchi

Ci avevano già provato Tremonti e Berlusconi. Ora torna all’attacco l’ineffabile sottosegretario all’Economia Polillo, spalleggiato da una parte del governo. L’idea è quella di accorpamento le festività, comprese 25 aprile e 1° maggio, con l’obiettivo di far crescere il Prodotto interno lordo, in profondo rosso da anni. Dopo il parere richiesto a quattro ministeri dal sottosegretario alla presidenza Catricalà, se ne discuterà nel Consiglio dei ministri di venerdì. Se ci sarà il “via libera” il provvedimento poi potrebbe arrivare addirittura come emendamento alla Spending review e diventare legge prima della pausa estiva.
Come detto il tema era già stato affrontato dal governo Berlsuconi, che aveva dovuto fare marcia indietro dopo le proteste bipartisan, limitandosi alla facoltà di spostamento per le feste patronali «rilevanti e non accorpabili alla domenica», salvo quelle frutto di intese con il Vaticano, come i patroni di Roma San Pietro e Paolo, il 29 giugno.
Ci riprova ora il governo Monti riprendendo il sasso lanciato nello stagno alcune settimane fa dal sottosegretario Polillo che aveva sottolineato come ridurre il numero di giorni non lavorati di una settimana avrebbe portato all’aumento del Pil di un punto percentuale. Polillo in serata ha illustrato meglio il suo pensiero: «Lavorare nove mesi all’anno a un Paese come il nostro non basta più. La concorrenza internazionale ci sottopone a uno stress che va fronteggiato diversamente: anch'io avrei preferito che si potesse continuare come prima, ma non si può. L’unico modo sottolinea il sottosegretario per rimettere in moto il sistema è questo. Anche la Germania lo fece nel 2001, poi ha restituito con gli interessi i sacrifici chiesti ai cittadini». Peccato che in Germania i giorni festivi siano stabiliti dai 16 Lander e che l’unica festività presente nella Costituzione e valida per tutti a livello federale è il 3 ottobre, Giorno dell'Unità tedesca. Ci sono poi altre 8 festività (compresi Natale, Capodanno e Pasqua) riconosciute da tutti i Lander, ma alcune regioni hanno più “feste”: il primato è della ricca Baviera, con ben 13 giorni festivi, dimostrazione che il numero di “giorni liberi” dal lavoro non penalizza la produttività. Polillo poi annuncia che «la possibilità di un'intesa, aggiunge Polillo, «dipenderà da noi, in parte, e in parte dagli accordi sindacali. Sul tavolo, c’è un massimo di 12 giorni di festività che potrebbero essere ridotti o tagliati (dunque comprese anche Primo maggio e Liberazione, ndr). Alcune aziende, penso all’Alenia, si sono portate avanti con accordi molto innovativi che conclude permettono il pieno utilizzo degli impianti, sette giorni su sette. Ma ripeto: l'importante è che si arrivi a discuterne».
UN CORO DI NO
Forti le reazioni, soprattutto a sinistra. Per il segretario del Pd Pier Luigi Bersani «voglio credere che il governo rifletta, è molto opinabile che il problema della produttività si risolva così. Ma poi continua Bersani alcune festività sono il senso stesso del nostro Paese, che è già demoralizzato: sarà meglio non togliere altri simboli». Molto critica anche la Cgil. «Se questo è il modello che Polillo e il governo vuole affermare, saremmo di fronte ad un modello autoritario ed imposto alle parti, che segnerebbe un’ulteriore regressione democratica commenta il segretario confederale della Cgil Elena Lattuada . I calendari di ferie ed utilizzo delle festività mette ancora in rilievo Lattuada sono prerogative delle parti sociali nei contratti nazionali e ancor di più nella contrattazione aziendale, anche perché così si risponde alle reali esigenze delle imprese e dei mercati».
Dura anche l’Associazione dei partigiani: «Il 25 aprile, il primo maggio e il 2 giugno non si toccano. Sono i valori su cui si fonda la Repubblica. Non ci si dica che non ci sono altri strumenti per incrementare la produttività e far crescere il Pil. Non abbiamo ovviamente obiezioni di fronte ai sacrifici che possono essere chiesti ai cittadini in una fase difficile per il Paese, ma che si debba rinunciare alla storia, a quelli che sono i fondamenti comuni del nostro vivere civile, ci sembra davvero troppo. Ci sono festività che nascono da consuetudini o semplici abitudini, che forse possono consentire qualche operazione. Altre, come quelle citate, rappresentano il nostro passato migliore, i valori su cui si fonda la nostra Repubblica: sono, in una parola, la nostra storia. E non vanno toccate». Anche dal versante imprese arriva un “No” secco: «tagliare le festività significa mettere in ginocchio il settore turistico», attacca Confesercenti.

l’Unità 18.7.12
Piero Grasso: «Pm in buona fede, ma l’intercettazione va esclusa»
Il Procuratore nazionale antimafia: «La questione è in buone mani, deciderà la Consulta. Tra verità e istituzioni, viene sempre prima la verità»
di Claudia Fusani

È’ una trama spietata quella che intreccia il ventennale dell’uccisione di Paolo Borsellino e il conflitto di attribuzione tra Quirinale e procura di Palermo per una storia di intercettazioni che hanno a che fare con l’inchiesta sulla trattativa tra Stato e Cosa Nostra. Che di quella stagione di stragi di vent’anni fa è stata protagonista.
È un intreccio infernale i cui fili vanno tenuti separati e distinti. Per evitare strumentalizzazioni. Il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso li prende uno ad uno. E li spiega. Ha appena concluso un’audizione in Commissione giustizia alla Camera. E accetta di rispondere alle domande. Il conflitto sollevato dal Quirinale, prima di tutto.
«Il Capo dello Stato precisa il procuratore nazionale non può essere e non potrà mai essere intercettato. La procura di Palermo lo ha ascoltato in modo occasionale», un bersaglio indiretto a colloquio con uno diretto, l’ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino che invece è indagato per falsa testimonianza nell’inchiesta palermitana sulla trattativa. Ma se Costituzione e procedure sono chiare nel dire che il Capo dello Stato non può essere intercettato (esclusi i casi previsti all’articolo 90 della Carta), è vero che non lo sono altrettanto nel dire cosa fare se il Presidente è un bersaglio indiretto. «E’ previsto il caso dei parlamentari per cui va incardinata l’udienza stralcio in cui decidere cosa fare con le intercettazioni. Ma non il Capo dello Stato. In questo senso spiega Grasso si può dire che c’è un vuoto nella legge. In questo senso è giusto che un giudice terzo, la Consulta, decida come bisogna comportarsi».
Il procuratore è uomo che sa camminare in equilibrio su fili molto sottili. Condivide la scelta del Quirinale che farà chiarezza una volta per tutte. Ma non per questo bacchetta i colleghi palermitani: «Hanno agito in buona fede, secondo come ritenevano fosse giusto applicare la legge. Ora la questione è in buone mani. Deciderà la Consulta».
Sarà coperta, una volta per tutte, quel «vuoto nella legge». Anche se, ad ascoltarlo bene, una soluzione il procuratore nazionale l’aveva già trovata quando guidava la procura di Palermo. «Avevo fatto una circolare per cui le intercettazioni indirette di parlamentari venivano valutate prima di essere allegate agli atti» ricorda. Come dire che quello che veniva pescato occasionalmente e valutato «irrilevante» veniva subito distrutto, neppure trascritto. E non se ne parlava più. Certo, ancora una volta si parlava di parlamentari. Non era mai successo di pescare occasionalmente il Capo dello Stato.
In questa faccenda, che va avanti da quasi un mese, ci sono alcune intercettazioni tra Mancino e Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Quirinale, in cui l’ex numero 2 del Csm chiede di far intervenire Grasso e di far valere i suoi poteri di coordinamento. Pressioni, quindi, sullo stesso Grasso. Il quale per la prima volta risponde sul punto. «Dal Quirinale spiega sono stato chiamato a dare contezza della mia funzione istituzionale di coordinamento, non ho subito alcuna pressione. E neanche i magistrati di Palermo hanno subito pressione». Poi, un invito: «In un'indagine chi cerca la verità non può farlo sotto pressione, ma è importante anche la collaborazione degli altri: per vicende così datate nel tempo serve qualcuno che ricostruisca quello che è successo tanti anni fa, servono le dichiarazioni spontanee di chi sa». Un monito a chi in questa inchiesta sulla trattativa ha ricordato troppo tardi. E troppo poco. E continua ancora a ricordare a tappe.
Ci si interroga, poi, da più parti sulla reale competenza della procura di Palermo ad indagare sulla trattativa tra Stato e Cosa Nostra. Grasso chiarisce il punto una volta per tutte. «Siamo davanti a una duplice competenza» dice, dipende quale filo viene tirato, di quale trattativa si sta parlando (Grasso precisa sempre: «Ma cos’è la trattativa?»). «Se ha a che fare con l’associazione mafiosa in genere, allora è competente Palermo. Se invece la trattativa sviluppa dalle stragi in cui sono stati uccisi Falcone e Borsellino, allora la competenza è di Caltanissetta (titolare delle indagini sui magistrati del distretto di Palermo, ndr).
Al procuratore non sfugge che la verità sulla strage di via D’Amelio passa anche dall’inchiesta sulla trattativa tra Stato e Cosa Nostra. «Ma a noi ripete servono prove, non bastano le illazioni». Viene da chiedersi, poi, in questa chiacchierata, se vengano prima le istituzioni e la loro tutela o la verità. «La verità, sempre e prima di tutto, sono un magistrato» è la risposta secca di Grasso. Ma le democrazie e i sistemi giuridici danno anche altre valutazioni, «tanto che esiste il segreto di Stato che riconosce in certi casi il primato delle istituzioni». Ma in questa vicenda specifica, sottolinea il procuratore, «non si pone un problema di verità perchè la stessa procura ha giudicato irrilevanti le intercettazioni con il Presidente della Repubblica».

l’Unità 18.7.12
Francesco Paolo Casavola: «L’iniziativa di Napolitano è a difesa della Costituzione»
Il presidente emerito della Consulta:
«Un atto straordinario per evitare che ai successori si trasmettano prerogative indebolite»
«I magistrati di Palermo hanno agito senza considerare la questione nel suo complesso»
di Marcella Ciarnelli

«Quella del presidente della Repubblica è stata una iniziativa opportuna. Con essa ha compiuto la difesa del bene supremo che è la Costituzione». Sul ricorso del Capo dello Stato alla Consulta sul conflitto di attribuzione per le decisioni prese dalla Procura di Palermo sulle intercettazioni pur indirette di telefonate dello stesso Napolitano, non ha dubbi Francesco Paolo Casavola, presidente emerito della Corte Costituzionale ma innanzitutto, ed è lui stesso a volerlo puntualizzare, «storico del diritto romano che, ne sono convinto, è l’asse più lungo della civilizzazione occidentale, ancor più del cristianesimo».
Professore come valuta l’iniziativa presa dal presidente Napolitano?
«Straordinaria certamente poiché gli altri due precedenti di ricorso alla Consulta, su questioni di bilancio e inerenti alla concessione della grazia, non sono riconducibili alla materia in questione. Ma è straordinaria essenzialmente per la motivazione che nel decreto si legge. Il presidente ha parlato in modo esplicito di un suo “dovere” nel sollevare il conflitto di attribuzione per evitare che ai suoi successori si trasmetta una prerogativa indebolita affermata dalla Costituzione e che verrebbe inficiata da una iniziativa giudiziaria ancora embrionale».
Lei parla della citazione delle parole di Einaudi?
«Quelle parole sono la spiegazione di come da parte del presidente non ci sia stata un’iniziativa personale, non si è trattato di un’azione riferita a ragioni contingenti, ma come invece all’origine di essa ci sia una questione di trasmissione integrale ai successori delle prerogative, di opportuna difesa della Costituzione da mettere al riparo da derive che pure sono state, anche in questi ultimi tempi, ipotizzate». Come li ha vissuti questi tentativi estemporanei, lei che ha sostenuto che dietro e dentro ogni Costituzione c’è sempre, e più di ogni altra cosa, la storia e la cultura di un popolo?
«Un organo nuovo, nuove regole non si scrivono in questo modo. Non si teorizza una Costituente se non davanti a situazioni straordinarie, a una rottura del sistema, a una crisi grave. Finora sono stati tre i tentativi per studiare e proporre modifiche ma nessuno ha avuto esito. Il ricorso all’ipotesi di una salvifica Costituente mi sembra segni più la debolezza, l’incapacità di decidere di chi dovrebbe proporre e sostenere le riforme».
Se il presidente ha dovuto difendere le sue prerogative allora i magistrati hanno sbagliato?
«Non hanno sbagliato ma hanno agito secondo la logica secondo cui ognuno nel prendere una decisione è guidato dalla propria prospettiva più a ragionare per quel che è il proprio compito che nel complesso. I magistrati di Palermo hanno pensato che in una intercettazione telefonica, anche casuale, ci siano due parti. Una per così dire “guasta”, che non può essere usata per le note limitazioni. Ma poi c’è l’altra che può essere conservata per essere presentata ad altri soggetti e utilizzata nel processo. Questa non è una visione condivisibile. Neanche una mela può essere divisa in questo modo. O è mangiabile o non lo è. E non va dimenticato mai il significato anche simbolico che ha una di quelle metà».
Secondo lei quelle intercettazioni vanno distrutte?
«La distruzione è indispensabile se si vuole conservare integra la non responsabilità del Capo dello Stato». Eppure c’è chi sostiene che nessuna legge prevede la distruzione...
«Ognuno è portato a ragionare per quello che è il proprio compito. Fare il proprio dovere non è facoltà illimitata, fare di più del proprio dovere può essere pericoloso».
Ma una parte della politica sta cavalcando questa situazione riproponendo la questione delle intercettazioni...
«La politica volentieri sceglie di dare uno spettacolo gladiatorio, si aizzano i poteri degli uni contro gli altri, si imboccano percorsi che vanno in rotta di collisione. È allora stato giusto portare il conflitto davanti al giudice più alto, la Corte Costituzionale».
La questione intercettazioni resta aperta, torna ciclicamente di attualità, ed è stata evocata anche in queste ore facendo una gran confusione tra limiti e possibilità, tra chi può essere intercettato e chi no. Come la vede?
«A quelli che chiedono una legge vorrei dire che l’errore è stato mettere tanta carne al fuoco. Per questo i risultati sono stati quelli che finora si sono visti. A proposito dell’uso del telefono vorrei consigliare di non abusarne. Mi ricordo un film di Totò in cui lui faceva il maggiordomo. In una scena squilla il telefono, uno di quelli che una volta era attaccato al muro nel corridoio delle abitazioni. Totò va a rispondere e subito si rende conto che non è una telefonata amichevole per il suo datore di lavoro. Prima dice all’interlocutore “ha sbagliato numero”, poi taglia corto “noi il telefono non lo abbiamo proprio”».
Quindi?
«Certe volte è meglio non telefonare. Questione di buon gusto».

l’Unità 18.7.12
Va chiarito come si applicano quelle norme «eccezionali»
di Giovanni Pellegrino

L’iniziativa del Quirinale pone alla Corte Costituzionale un problema più complesso di quanto sia apparso a molti commentatori, pronti secondo costume nazionale a schierarsi aprioristicamente a difesa gli uni dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, gli altri della insindacabilità del Capo dello Stato, ovviamente tutti «senza se e senza ma». La Consulta è infatti chiamata a definire gli ambiti di applicabilità di due norme (non di rango, ma di rilievo costituzionale) emanate dal legislatore ordinario a distanza di anni l’una dall’altra, recanti la più antica (legge n. 219/89) «nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall’articolo 90 della Costituzione», la più recente (legge n. 140/03) «disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato».
È infatti avvenuto che a Eugenio Scalfari che per primo ha addebitato loro una violazione dell’articolo 7 della legge più antica, i pm palermitani hanno opposto che il testo della norma conteneva soltanto il divieto di intercettazioni dirette del Capo dello Stato, non escludendo quindi la legittimità di intercettazioni indirette o occasionali. Della norma i pm hanno quindi prospettato la necessità di una stretta interpretazione, legittimata dal suo testo letterale e dal suo carattere eccezionale di limite al potere di indagine in via generale proprio della magistratura inquirente. Senonché gli stessi pm palermitani sono apparsi preoccupati della conseguenza, cui conduceva la limitazione del divieto alle sole intercettazioni dirette del Capo dello Stato; e cioè quello di considerarlo quanto alle intercettazioni indirette o occasionali alla stregua di «un cittadino come tutti gli altri», come l’on. Di Pietro vorrebbe che fosse, mentre la Costituzione repubblicana esclude che sia. Mossi da questa comprensibile preoccupazione i pm hanno prospettato che alle registrazioni dei colloqui Mancino-Napolitano, di cui hanno più volte dichiarato la irrilevanza nelle indagini appena concluse, fosse applicabile l’articolo 6 della legge n. 140/03; e ciò almeno quanto alla loro conservazione e alla loro eventuale distruzione su decisione del gip assunta sentite le parti e in camera di consiglio.
Si tratta però di una disposizione emanata in attuazione dell’articolo 68 della Costituzione, che attiene al regime di immunità relativa attribuita ai singoli parlamentari; non quale forma di tutela personale, ma a presidio della funzionalità delle assemblee, come ha precisato la Corte Costituzionale nella sentenza n. 390/06, che i consueti laudatores dei pm si sono affrettati a richiamare, avallati dallo stesso pm Ingroia, quando ha prospettato che la registrazione dei colloqui Mancino-Napolitano avrebbe potuto essere liberamente utilizzata nei confronti del primo, se avesse contenuto, come invece non è avvenuto, elementi corroboranti la falsità della testimonianza, per cui la Procura palermitana procede nei suoi confronti.
A ciò si aggiunga che la legge n. 140/03, dopo che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 49/04 ha dichiarato illegittimo il suo primo articolo (il cosiddetto lodo Schifani), non contiene più nel testo attualmente vigente alcuna norma, che riguardi il Presidente della Repubblica, ma soltanto disposizioni nella quasi totalità riferibili ai membri del Parlamento e in piccola parte e solo indirettamente ai componenti del governo. Non vi è dubbio quindi che, prospettandone una riferibilitàal Capo dello Stato, i pm dell’art. 6 della legge n. 140/03 propongono un’applicabilità in via di analogia secondo il criterio contenuto nel secondo comma dell’art. 12 delle disposizioni della legge in generale, per cui «se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione si ha a riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe».
È quindi questo il compito, cui il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale chiama la Corte Costituzionale: decidere cioè innanzitutto se rientri o meno nei compiti della magistratura ordinaria (pm e gip) valutare la rilevanza ai fini del procedimento in corso delle registrazioni di conversazioni del Capo dello Stato indirettamente o occasionalmente intercettate nel corso di indagini penali riguardanti terzi e nella negativa disporne la distruzione, sentite le parti in camera di consiglio. Con la conseguenza che se la Consulta ritenesse che ciò non rientra nelle attribuzioni della magistratura, la lacuna dell’ordinamento non potrebbe che essere colmata attraverso una interpretazione dell’articolo 7 della legge n.219 del 1989, che al di là della lettera della legge estenda il divieto anche alle intercettazioni indirette o occasionali del
Capo dello Stato per dare consistenza ed effettività alla garanzia prevista per lo stesso dall’art. 90 della Costituzione. Con la conseguenza ulteriore che una volta che una intercettazione indiretta o occasionale di conversazioni del Capo dello Stato con terzi è comunque avvenuta, della stessa il pm è tenuto senza indugio a procedere alla distruzione.
Il problema ha quindi una sua delicatezza, ma non è arbitrario pronosticare che nel risolverlo la Consulta tenga conto che di norme eccezionali, quali indubbiamente sono quelle contenute sia nell’articolo 7 della L. 219/89 sia nell’articolo 6 della legge n. 140/03, è vietata una applicazione analogica, mentre è consentita una interpretazione estensiva, soprattutto quando questa è corroborata dai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, in cui l’art. 90 della Costituzione indubbiamente rientra. La decisione del Capo dello Stato è stata quindi opportuna (anche se è agevole presumere sofferta), perché quando un potere non si attiene a un criterio di autolimite, è pur necessario che un regolamento intervenga da parte del giudice neutrale dei poteri; che è appunto il ruolo attribuito dall’ordinamento alla Corte Costituzionale.


il Fatto 18.7.12
Chi indebolisce le istituzioni
di Paolo Flores d’Arcais

Domani si commemorano a Palermo i venti anni dall’eccidio di via D’Amelio, la strage in cui vengono trucidati Paolo Borsellino e gli uomini e donne della sua scorta. La strage con cui la mafia si libera di un uomo delle istituzioni, di un servitore integerrimo dello Stato che perciò si oppone a ogni trattativa tra Stato e mafia, trattativa che avvilisce lo Stato davanti a un anti-Stato che si farà ancora più tracotante.
Con che coscienza, domani, si potrà dire nei discorsi ufficiali che lo Stato vuole continuare nell’impegno contro la mafia con l’intransigenza che fu di Falcone e Borsellino? Con che coscienza si potrà domani riaffermare che lo Stato vuole davvero tutta la verità su quella trattativa ormai accertata, ed evidentemente indecente, se altissimi funzionari coinvolti continuano a negarla, e in ogni accenno di telegiornale viene pudicamente derubricata a “presunta”?
Qui vogliamo prescindere da ogni polemica sulla decisione del Quirinale di aprire un conflitto contro la Procura di Palermo presso la Corte costituzionale. Illustri giuristi hanno già spiegato perché sia improponibile, e altri che non vogliono rinunciare alla logica e al diritto lo faranno nei prossimi giorni. Ma assumiamo come ipotetica del terzo tipo che la mossa di Napolitano sia giuridicamente difendibile, che cosa indebolirebbe di più la credibilità dell’istituzione più alta, la trasparenza su quanto è intercorso tra Mancino e il Presidente o la pervicace volontà che tutto resti piombato nel segreto? Lo domandiamo a Michele Ainis, Carlo Galli, Stefano Folli e Ugo Di Siervo, che sui quattro più diffusi quotidiani del paese (Corriere della Sera, Repubblica, Sole 24 Ore, Stampa) affermavano ieri all’unisono che il problema cruciale è impedire che il Colle sia indebolito come “punto di equilibrio del sistema”.
Benissimo. Ma è un fatto che Mancino ha parlato almeno otto volte col consigliere giuridico di Napolitano, il quale nelle registrazioni afferma costantemente di essersi consultato col Presidente nell’attivarsi secondo i desiderata del Mancino stesso. D’Ambrosio millantava e il Presidente era all’oscuro di tutto? O, messo al corrente, ha dato disposizioni che a un molesto Mancino venisse cortesemente messa giù la cornetta? E proprio questo magari si evincerebbe dalle due telefonate dirette tra Mancino e Napolitano? Non sarebbe meglio, proprio per non indebolire il Colle, una parola chiara del Presidente che ribadisca come, esattamente nella sua funzione di “punto di equilibrio del sistema”, ogni suo discorso con Mancino era ineccepibile, a prova di divulgazione?


Corriere 18.7.12
Il leader democratico: «Imu pesante serve la patrimoniale»
Bersani rilancia: «Il Pd propone le unioni gay. Punto»
di Tommaso Labate

ROMA — L’uno-due gli serve per provare a lasciarsi alle spalle le polemiche degli ultimi giorni. E infatti, in calce alla frase, aggiunge la parola «punto». «Abbiamo deciso che il Pd propone le unioni gay. Punto», scandisce a uso e consumo dei volontari della Festa democratica di Roma. E i matrimoni tra omosessuali? «Chi chiede di più si ricordi che questo è un Paese che non è stato neanche in grado di approvare una legge contro l’omofobia». Quanto alle primarie, «mi sono anche stufato di ripetere le stesse cose». Sottotesto, si faranno. Entro l’anno. Ma il Pier Luigi Bersani che parla alla Festa democratica di Roma è un uomo preoccupato. Come aveva confessato nel pomeriggio a Pier Ferdinando Casini, incrociandolo in un corridoio di Montecitorio. «L’Italia sta rischiando grosso e in giro si parla della Minetti e dell’aquilone di Berlusconi». E poi, a proposito della spending review: «Il Governo deve capire che ridurre gli sprechi è sacrosanto. Ma tagliare con l’accetta no. Ho sentito alcuni nostri sindaci. Non riescono a reggere più». I messaggi che arrivano dal palco vanno tutti in questa direzione. «L’Imu è pesante», sottolinea, «serve un’imposta personale sui grandi patrimoni». E, messaggio a Palazzo Chigi, «quello che non s’è fatto bisognerà fare». Risolvere la questione degli esodati, per esempio, «perché non si può lasciare la gente per strada». Ed evitare i tagli «all’università, alla ricerca e agli enti virtuosi». La fedeltà al governo dei Professori non è in discussione. Bersani lo spiega con nettezza mettendo sull’altro piatto della bilancia il ritorno in campo del Cavaliere. «Il pompiere», e cioè Monti, «può sbagliare una mossa». Ma «l’incendio l’ha appiccato un altro», e quindi Berlusconi. Gli spread li chiama «quelli lì». E quando ascolta la domanda sull’effettiva consistenza del successo europeo del tridente Monti-Hollande-Rajoy, risponde con nettezza: «Io l’avevo detto che non finiva lì. L’avevo detto subito dopo il Consiglio europeo. Ci sarà questo scudo anti-spread? Ma quando arriva?». E la campagna elettorale? Bersani continua nella strategia mediatica di sfidare Berlusconi e Grillo come se fossero due facce della stessa medaglia. Il primo «sta studiando il nuovo nome del formaggino, quello migliore per venderlo: sarà forse "Viva la mamma" o qualcosa del genere...». Il secondo è uno che governerebbe «da tabernacolo», lontano dalla gente. Segue citazione del pantheon del Pd. Da Ciampi a Prodi, da Amato a Padoa-Schioppa. «Noi siamo quelli lì», primo. «Nel 2006 abbiamo promesso l’Unione e siamo finiti in disunione», secondo. Ora invece «si sceglierà il candidato premier e quello, se vince le elezioni, fa il governo». È un messaggio in codice per chi pensa che il segretario del Pd cederà sulla legge elettorale. La risposta, sottotesto, è no. Un «no» esteso anche alle preferenze. E il candidato premier è colui che «vincerà le primarie di coalizione. Se fossero di partito sarebbe un congresso, no?»

La Stampa 18.1.12
Riccardi: meglio ridurre le ferie le ricorrenze religiose sono nei Patti
Il ministro: “So che se ne parla ma l’idea mi lascia perplesso”
di Raffaello Masci

Andrea Riccardi, storico e ministro per la cooperazione, quella di tagliare le feste è un’idea, una proposta formalizzata, una boutade. Che cos’è?
«So che se ne parla e so che già la questione era stata sollevata dal precedente governo. E le devo dire che la cosa mi lascia un po’ perplesso. È vero che si deve lavorare di più, ed è vero che si deve aumentare la produttività, ma qui il problema è che manca la domanda di lavoro. Dobbiamo pensare soprattutto a come fare per rimetterla in moto».
Non dover pagare la festa patronale è, però, un risparmio.
«Può darsi che lo sia, ma me lo devono dimostrare conti alla mano. Alle feste patronali sono associate di frequente fiere, manifestazioni, iniziative di vario genere che mettono in moto l’industria turistica e mille altre iniziative economiche. Pensiamoci bene: per mettere una pezza rischiamo di produrre uno strappo ulteriore e forse peggiore».
Ecco il ministro cattolico che fa quadrato intorno ai santi, potrebbe obiettare qualcuno.
«Ho per caso fatto riferimenti di natura religiosa? Per favore! Stiamo facendo un ragionamento sull’opportunità complessiva, economica e sociale, di un ipotetico provvedimento che io peraltro non ho ancora visto. Mi preoccupa molto anche l’impatto sociale che una simile misura potrebbe produrre...».
Cioè?
«Penso alla tenuta sociale del paese, rispetto alla quale queste feste, con il loro potere evocativo, con il senso di comunità e di appartenenza che alimentano, possono contribuire».
Ieri si sono scatenate molte polemiche specie sull’ipotesi di abolire o accorpare alcune festività civili, come il 1° maggio, o il 25 aprile «Abbiamo appena concluso i festeggiamenti per i 150 anni dell’unità d’Italia, durante i quali è stata forte la pedagogia civile sull’essere italiani, sulla nostra identità. In questo quadro toccare date simboliche come il 25 aprile mi sembra stridente e lesivo dell’identità che si voleva preservare. Per non parlare del primo maggio, la cui abolizione (o accorpamento che sia), avrebbe in questa congiuntura anche una valenza depressiva, secondo me: non c’è il lavoro in questo paese, al punto che noi ne aboliamo perfino la festa. Segnale pessimo! » Lei, signor ministro, ne sta facendo una questione meramente sentimentale?
«Per nulla. Ne faccio una questione di tenuta del tessuto sociale. E ne faccio anche una questione antropologica: le feste hanno un fortissimo potere di coesione e di questo l’Italia di oggi, proprio per i marosi in cui navighiamo, ne ha un grandissimo bisogno».
Parliamo delle festività religiose, professore: è possibile intervenire?
«Ce ne sono alcune, le più importanti, che sono sancite dai patti lateranensi. Tutto si può rivedere, ovviamente, ma iniziare una trattativa con la santa sede su una materia di questo genere, mi pare francamente un gioco che non vale la candela».
Ma spostare alla domenica successiva la festa del santo patrono sarebbe diverso, o no?
«Le feste patronali dipendono dall’autorità civile, in effetti. Ma, a parte le considerazioni economiche che dicevamo prima, ci sono questioni di opportunità. Chi glielo va a dire a San Gennaro che deve fare il miracolo la domenica successiva? E ci vogliamo mettere Sant’Agata che è la festa di più grande richiamo per Catania, o sant’Ambrogio a Milano e via discorrendo?».
Di questo passo però, signor ministro, non si fa niente.
«Mi chiedo, allora, perché non incidere sulle ferie? Per la crescita ci vuole altro, ne converrà. L’Italia ha bisogno di lavoro, di rimettere in moto l’economia, di fermare la speculazione internazionale, di recuperare credito all’estero. Non credo che tutto questo possa trovare soluzione solo abolendo un santo dal calendario».


l’Unità 18.7.12
La sinistra pensi al governo. Con serietà
di Carlo Sini

LA CULTURA DELLA SINISTRA PUÒ FRUTTUOSAMENTE CONTENERE DUE ANIME E ANCHE PIÙ. UN PROGETTO POLITICO finalizzato all’azione di governo no. Non c’è dubbio che la situazione mondiale è in grande trasformazione e che necessitano studi e riflessioni approfondite, capaci di superare i limiti teorici e pratici del neoliberismo: per gli intellettuali della sinistra si apre un grande campo di lavoro, senza limiti preconcetti; un lavoro che i partiti dell’area di sinistra dovrebbero patrocinare e sostenere. Alla lunga esso dovrebbe dotare la politica di nuove visioni e proposte.
Altro è però il discorso che ha come traguardo le elezioni del 2013: un traguardo eccezionalmente problematico, per non dire drammatico, per il nostro Paese; una occasione che, come sinistra, non possiamo assolutamente rischiare di perdere, perché il ritorno della destra, e di questa destra, sarebbe una sciagura per tutti, anche per coloro che non possono o non vogliono rendersene conto. Con un intervento a mio avviso mirabile per lucidità e concretezza Vincenzo Visco ha già detto in proposito tutto l’essenziale su questo giornale il 14 luglio scorso («La vera sfida è governare la crisi»). Vorrei ricordare anche l’intervento di alcuni giorni prima di Eugenio Mazzarella, che sottolineava, con esempi efficaci e originali, l’importanza del compromesso nella politica attiva.
Come elettore desidererei che si arrivasse all’appuntamento del 2013 con un programma preciso, essenziale e circostanziato, sul quale fossero chiamate a pronunciarsi le forze politiche che intendono realizzarlo. Vorrei che questo impegno venisse messo preventivamente al riparo da colpi di mano, fughe in avanti astrattamente radicali, bastoni tra le ruote da destra e da sinistra, improvvisi scrupoli «morali» e relativi, molto ipocriti e furbeschi, non possumus. Le cose da fare, almeno all’inizio, saranno poche (perché urgenti), difficili, sicuramente dolorose e, sempre come elettore, mi aspetto che i politici che desidero votare abbiano il coraggio e l’onestà di parlare chiaro a tutti noi, distinguendosi in modo evidente dai Pinocchi, Pulcinella e Masanielli di turno, checerto non mancheranno.
Il programma non potrà ignorare che le nostre scelte operative necessitano dell’accordo con la comunità europea e più in generale con l’economia reale della parte del mondo cui apparteniamo. Ulteriori condizionamenti verranno sicuramente dal fronte interno, cioè dal dialogo con la Confindustria e con altri gruppi di potere non precisamente di sinistra e non necessariamente illuminati o mossi davvero dal bene comune. Entro un quadro generale di lealtà laicista, di preoccupazione per le fasce sociali più deboli, di sforzo inventivo in grado di appoggiare una ripresa tanto auspicata quanto ardua da delineare davvero, sarà necessario mettere in campo collaborazioni il più possibile ampie e duttili, che è condizione perché siano efficaci e rapide. Sarà necessario insistere costantemente sulla differenza tra credo privato, che ognuno ha il diritto di coltivare e perseguire liberamente, e azione pubblica, che deve invece garantire uguale libertà per tutti e difesa da prepotenze ideologiche e materiali intollerabili. Sarà necessario denunciare in modo efficace alla pubblica opinione ogni eventuale comportamento volto a disattendere gli impegni presi. Bisognerà coltivare la capacità di parlare ai cittadini in modo chiaro, sincero e unitario relativamente alle decisioni prese, evitando, non il confronto anche aspro delle opinioni (che è sempre preventivamente prezioso), ma il ricorso ad astuzie mediatiche, uscite tattiche, colpi di coda, sgambetti alle spalle: la gente è stanca di questi coloriti teatrini e oggi ha cose ben più serie delle quali preoccuparsi.
Una coalizione di governo assume un impegno con i cittadini. L’impegno è davvero tale se stabilisce in modo chiaro le cose che intende fare e perché; quindi se cerca, con la necessaria duttilità e ingegnosità, i mezzi per realizzarle: sembra così semplice! Sappiamo che non lo è affatto, ma sappiamo anche che dobbiamo provarci, perché questa volta non abbiamo alternative. Poi, certo, anche la grande discussione sui massimi principi e sui grandi problemi del mondo è aperta, ma le due cose hanno tempi e logiche molto differenti, sebbene sia lecito sperare che in un qualche punto del futuro almeno in parte possano incontrarsi

La Stampa 18.7.12
In visita a una clinica per malati terminali il capo dell’Eliseo promette novità nelle «cure palliative»
Hollande apre il dossier eutanasia
Il Presidente crea una commissione per la riforma. Critiche dalla destra
Attualmente in Francia è possibile la sospensione di cure inutili, ma non l’assistenza a morire
di Alberto Mattioli

Sull’eutanasia François Hollande si aspetta il no della destra
Bisogna forse introdurla, ma certamente non bisogna nominarla. A riaprire la discussione sull’eutanasia è stato il Presidente della Repubblica, François Hollande, ma guardandosi bene dal chiamarla con il suo nome. A soggetto delicato, trattamento delicatissimo.
Ieri Hollande è andato a visitare una clinica specializzata in cure palliative per malati terminali a Rueil-Malmaison, vicino a Parigi. Nella prima parte del suo discorso (molto toccante, per inciso: i ghostwriter dei politici francesi sono mediamente molto bravi), il Président ha insistito sulla necessità di sviluppare e «diversificare» le cure palliative, difendendole anche dal punto di vista del rapporto costi-benefici: «Può sembrare paradossale, investire sugli ultimi momenti della vita. E tuttavia se si permette a delle persone di vivere meglio, se si evitano un certo numero di ricoveri più costosi o di inutili interventi, noi avremo fatto in realtà della prevenzione».
Poi è arrivata la novità, politica ed etica insieme. Oggetto: la legge Leonetti del 2005, scritta dal medico, deputato di destra e sindaco di Antibes che ha introdotto l’eutanasia passiva. In sintesi, oggi in Francia si possono interrompere cure senza speranza, ma un gesto che provoca direttamente la morte resta un reato. «Bisogna, si può andare più lontano si è chiesto Hollande nei casi eccezionali in cui l’astensione terapeutica non basta a dare sollievo ai pazienti alle prese con un dolore irreversibile? E che chiede un atto medico consapevole al termine di una decisione condivisa e meditata?».
Il dibattito è aperto e il Presidente raccomanda che sia «nobile e degno». L’arcivescovo di Parigi e presidente dei vescovi francesi, André VingtTrois, ha subito risposto con sottile ironia che quella di Hollande è «una buona domanda. Ma non è perché si fa una domanda che si risponde positivamente». La destra si è già schierata contro la riforma della legge Leonetti. Ma è chiaro che il governo vuol procedere con molta cautela. Le parole d’ordine della nouvelle vague socialista sono «concertazione» e «commissione» in tutti i campi, figuriamoci in quelli più delicati. E infatti Hollande ha già nominato la commissione che dovrà concertare e che sarà presieduta da Didier Sicard, medico ed ex presidente del Comitato consultivo nazionale d’etica.
Del resto, anche in campagna elettorale Hollande aveva rifiutato di usare la parola «eutanasia», benché, secondo un sondaggio, il 91% dei francesi sia favorevole anche a quella attiva. Al punto 21 del suo programma, c’era la proposta che «ogni persona maggiorenne in fase avanzata o terminale di una malattia incurabile che provochi una sofferenza fisica o psichica insopportabile possa domandare, in condizioni precise e strette, di beneficiare di un’assistenza medica per concludere la sua vita nella dignità». Come si vede, anche prima di diventarlo, il Presidente sull’eutanasia proponeva di fare senza dire (ma forse, dati i tempi della politica francese e i suoi interminabili dibattiti, finirà tutto con un dire senza fare). E a un giornalista che gli chiedeva se dire «eutanasia» fosse tabù, ha risposto: «Non è la parola che ho usato». Appunto.


l’Unità 18.7.12
Il razzismo di sistema
Una strategia sociale dietro l’attacco costante ai migranti
Due saggi, uno firmato da Clelia Bartoli e l’altro da Burgio e Gabrielli, analizzano la xenofobia in Italia. Ne viene fuori il ritratto di un Paese miope che discrimina per costrutto
di Flore Murard-Yovanovitch

CREDIAMO DI SAPERE «IN FONDO» CHE COSA SIA IL RAZZISMO, RITENUTO TROPPO SPESSO UN RESIDUO DEL PASSATO. Ma siamo sicuri di conoscere come funzioni oggi? Negli ultimi decenni si è profondamente mimetizzato, producendo forme nuove, massicciamente introiettate. Un neorazzismo culturalista, che senza fare direttamente uso della «razza» come concetto biologico, ormai risaputa per essere scientificamente infondata e globalmente condannata, «razzizza» alcuni gruppi sociali, in Italia: migranti e rom.
A rilanciare la necessaria riflessione, due libri usciti di recente, Razzisti per legge. L’Italia che discrimina (Edizioni Laterza) di Clelia Bartoli, e Il razzismo di Alberto Burgio e Gianluca Gabrielli (nuova collana Fondamenti di Ediesse). L’Italia attuale è affetta da razzismo? Entrambi rispondono affermativamente. Il primo, basandosi su un’accurata analisi della produzione di norme, leggi e politiche discriminatorie, che negano diversi diritti agli stranieri; per dimostrare che nel Bel Paese si è avviato un razzismo «istituzionale» di sistema che coinvolge istituzioni, media e pubblica opinione e genera una discriminazione cronica con effetti duraturi.
Il secondo libro, fondandosi su un’analisi storica, dall’antisemitismo, passando per il colonialismo, e la propoganda nazista (con due casi studi su Stati Uniti e Sud Africa), indaga il nesso strutturale tra razzismo e modernità; non «effetto collaterale», ma «istituzione-chiave della modernità europea, uno dei capitoli fondamentali della sua biografia intellettuale e morale». Un dispositivo logico che, pur nella diversità dei contesti storici, ha una sua configurazione unitaria.
Il razzismo non è, infatti, una questione di «melanina», ma di legge (Bartoli), di costruzione simbolica. Definendo ufficialmente «categorie» di persone, il diritto costruisce la «razza», determina chi sia «bianco» o «nero». Come insegnavano le analisi del Black Power, il pregiudizio struttura la propria conferma nella realtà della marginalizzazione: diventa «vero». Per Burgio-Gabrielli, invece, il razzismo è l’invenzione di pseudo nessi psico-fisici, con connotazioni di giudizi negativi, che fabbrica la differenza.
Non è quindi necessario a questo nuovo razzismo di usare il discreditato concetto di «razza» biologica, supplita da altre categorie e terminologie: l’uso semantico del «noi» e «loro», per distinguere autoctoni e migranti; la nazionalità, percepita quasi come «dato» biologico dal quale è impossibile sbarazzarsi. Come allertava già il sociologo francese Pierre-André Taguieff, il neorazzismo odierno ha operato una pericolosa «svolta culturalista», che essenzializza le differenze culturali (tradizioni, religioni, lingue...) e genera un velenoso lessico razzista sotto mentite spoglie.
Caso esemplare in Italia, l’«extracomunitario», il cosiddetto «clandestino», prodotto da una politica migratoria unicamente «emergenziale» e securitaria, imbastita a colpi di decreti e circolari. Come analizza lucidamente la Bartoli, la clandestinità diventata «reato», status di eccezione sinonimo di pericolosità e di criminalità, radicalizza la «differenza» quasi fosse «per natura». I clandestini, una sorta di «neo-razza».
In generale, è in corso nella società italiana un processo di criminalizzazione dei migranti, ma anche di «rom», «zingari» e «devianti»; malgrado biografie e origini diverse, vengono imprigionati in gabbie identitarie rigide e perimetrate, inferiorizzanti. Da marxisti «doc», Burgio e Gabrielli rileggono il razzismo in chiave di etnicizzazione del conflitto sociale e di esclusione delle classi subalterne. Bartoli, in chiave di norme discriminatorie e xenofobia crescentemente istituzionalizzata, a opera, cioè dello Stato.
Pure molto diversi nei loro intenti, i due saggi rifiutano entrambi l'assunto assai divulgato e piuttosto ambiguo stando al quale il razzismo sarebbe un residuo del passato; smantellano anche l’altra vulgata dominante che esso scaturirebbe dalla «paura del diverso», dall’angoscia dell’altro. Il razzismo è invece costruzione pianificata e normativa dell’alterità, una delle strategie sociali più razionali nella competizione per le risorse materiali e per l’affermazione di una certa classe a scapito di un’altra. Questi due libri di utilità pubblica, che hanno il pregio di tesi esposte con estrema chiarezza, dovrebbero diventare manuali per le scuole. Nel panorama editoriale italiano, ci si aspetta ancora però un’analisi approfondita della psicopatologia di massa alla radice di quest’ideologia. Nell’ora in cui riappaiono svastiche e vecchi «deliri» in un’Europa fortezza, non è mai stato così urgente pensare alla cura.

l’Unità 18.7.12
Un bambino alla forca
Sud Sudan: in cella spera di ottenere la grazia
Il racconto delle torture subite. Ora due funzionari che si occupano di minori lottano per salvargli la vita
Alphonse Kenyi è stato condannato a morte l’anno scorso quando aveva 14 anni
«El País» lo ha intervistato in un carcere fatiscente
di José Miguel Calatayud


«NON HO MAI DETTO DAVANTI AL GIUDICE DI AVER UCCISO QUALCUNO». ALPHONSE KENYI HA 15 ANNI ED È RINCHIUSO NELL’ULTIMA ALA DELLA PRIGIONE DI JUBA, RISERVATA AI CONDANNATI A MORTE. È stato arrestato nell’ottobre del 2009 e condannato per omicidio quando aveva soltanto 14 anni. Lo accusarono di essere membro di un gruppo chiamato niggers che vagava per la città uccidendo le persone.
La sua storia è il rovescio della medaglia di un processo d’indipendenza che dovrebbe dare speranze per il futuro. Dopo una guerra durata 22 anni contro il nord, Juba è oggi la capitale più giovane al mondo ed è una città ottimista proiettata verso il futuro. Questo sentimento di speranza raggiunge la prigione centrale fino al corridoio della morte dove i condannati sperano che il nuovo stato conceda loro la grazia. Alphonse è il più giovane fra i prigionieri, è il sesto di sette fratelli ed è l’unico ad essere andato a scuola anche se soltanto per due anni. I genitori, entrambi disoccupati, non potevano pagare l’istruzione ai loro figli. Si trasferirono nella capitale per poter curare il padre malato e Alphonse come tanti altri bambini raccoglieva bottiglie di plastica per la strada per poi rivenderle.
CONFESSIONE ESTORTA
Ma questa libertà è durata soltanto un anno e nell’ottobre del 2009 Alphonse è stato arrestato con l’accusa di omicidio plurimo. «C’erano stati degli spari e dei morti in un sobborgo di Juba così la polizia ha iniziato a cercare e arrestare qualsiasi persona che avesse un’uniforme o una pistola. Vennero a casa mia e videro l’uniforme di mia madre, mi presero e mi portarono al commissariato» racconta Alphonse. Juba, la capitale del Sud Sudan è una città in fermento. Quasi totalmente distrutta dalla guerra che terminò nel 2005, oggi è un cantiere a cielo aperto. Torri di cristallo che ospitano hotel e banche si innalzano accanto a edifici semi distrutti. La prigione è proprio in centro e le condizioni igieniche all’interno sono pessime. L’ufficiale responsabile dei minori Fabian Serit ci racconta di Alphonse: «Un gruppo chiamato niggers si aggirava per la città uccidendo le persone, la polizia ne arrestò alcuni obbligandoli sotto tortura a svelare i nomi dei loro seguaci e così venne fuori quello di Alphonse. Ma lui è innocente e poi è un bambino. Così lo portammo dal medico che confermò l’età la sua età: 14 anni».
Nel gennaio del 2010 il Sudan modificò le leggi aumentando l’età minima dei condannati a morte da 15 a 18 anni. Il metodo di esecuzione adottato dal carcere è la forca. «Ti misurano e ti pesano per regolare la forca. Se non viene regolata nel modo giusto ti può staccare la testa e se questo accade gli addetti alla regolazione vengono a loro volta incarcerati...» continua Fabian.
PICCOLI PRIGIONIERI
Ci sono 50 condannati a morte tra cui Alphonse, e oltre a lui nel carcere ci sono altri 46 bambini che condividono le celle con altri mille prigionieri adulti. E ci sono anche 5 bambine nell’edificio adiacente assieme alle donne. La maggioranza dei detenuti sono ex guerriglieri che hanno combattuto nella guerra civile e tra i crimini più comuni sono il furto, l’adulterio, la violenza sessuale e l’omicidio.
In caso di condanna per omicidio, la pena dipende dalla decisione dei familiari della vittima. I familiari possono chiedere all’assassino una certa somma di denaro come risarcimento, il cosiddetto blood money. La legge stabilisce che si possono chiedere al massimo 30.000 libre (circa 8250 euro) ed è questa la cifra richiesta in quasi tutti i casi. Ma se i familiari della vittima vogliono che l’assassino venga giustiziato allora così sarà fatto, sono loro che decidono e non c’è nulla da fare anche se il condannato è un minore.
«Mi hanno umiliato, picchiato volevano che confessassi cose che non avevo fatto. Mi hanno rinchiuso in una cella con altri detenuti adulti. Mi hanno portato in tribunale dicendo che ero un assassino e il commissario disse che tutti noi avevamo confessato e per questo ci condannarono a morte. Ma io non avevo mai detto di aver ucciso qualcuno. Al commissariato, la polizia usava coltelli e aghi per estorcere una confessione ma io non ammisi mai nulla. Mi infilavano l’ago sotto l’unghia facendomi un male terribile e poi mi staccavano l’unghia con un coltello». Alphonse alza gli occhi e mi mostra le dita martoriate che portano ancora le cicatrici di quelle torture.
James Warnyang, un altro funzionario responsabile dei minori ci racconta «lui ormai non crede più che lo libereranno, è sicuro che verrà giustiziato». James e Fabian stanno lavorando duramente per dimostrare che si tratta di un bambino e che non deve essere ucciso. Hanno preparato un fascicolo dettagliato su questo caso che è già stato approvato dal direttore del carcere e successivamente da un tribunale di prima istanza, ora si attende la risoluzione della Corte Suprema.
Ho visto Alphonse per l’ultima volta parecchi mesi fa. Poi ho cercato di parlato al telefono alcune volte con Fabian, ma sempre con grandi difficoltà. Alphonse è ancora in quella prigione, ma nessuno conosce probabilmente lui per primo – i dettagli della sua sorte e i tempi della sua condanna a morte. Non smetterò di cercarlo, naturalmente. Voglio raccontare la sua storia, fino in fondo.

Corriere 18.7.12
Nerone e i tentativi di uccidere la madre
di Eva Cantarella


Sarebbe quasi comica, se non fosse tragica, la storia dei tentativi di Nerone di uccidere sua madre Agrippina. Donna ambiziosa e senza scrupoli, Agrippina aveva sposato l’imperatore Claudio (che tra l’altro era suo zio), vedovo certamente non inconsolabile di Messalina. E riuscì a esercitare su questi una tale influenza da indurlo a designare come erede il figlio da lei avuto dal primo marito: Nerone, appunto. Quando, nel 54 d.C., questi prese il potere, l’ingombrantissima madre tentò, in pratica, di sostituirsi a lui nel governo. Ma con il tempo (nonostante gli sforzi di Agrippina che, si dice, arrivò a fare apertamente avances incestuose al figlio), il rapporto tra i due si incrinò al punto che Nerone decise di ucciderla. Impresa che si rivelò assai più ardua del previsto. Il primo tentativo, miseramente fallito, consistette nell’ordine di affondare la nave su cui Agrippina viaggiava. Ma questa, racconta Tacito, riuscì incredibilmente a raggiungere la riva a nuoto, e i marinai, complici di Nerone, uccisero a colpi di remi e sassate una schiava che nella speranza di essere tratta in salvo gridava di essere Agrippina. Ma il destino di questa era ormai segnato, e qualche tempo più tardi si compì per mano dei sicari del figlio, che la raggiunsero nella sua villa. Senza ormai speranze, Agrippina offrì coraggiosamente il petto ai pugnali.

Corriere 18.7.12
Pedagogia Esce per l’editrice La Scuola di Brescia un’intervista al filosofo a cura di Sara Bignotti Severino, educare alla verità
Ripensiamo il destino dell’uomo per opporci al nichilismo
di Armando Torno


Esce oggi presso La Scuola Editrice di Brescia un libro-intervista a Emanuele Severino dal titolo Educare al pensiero (pagine 162, e 9). Curato da Sara Bignotti, responsabile editoriale della Morcelliana, il volume è diviso in tre parti e affronta i temi della pedagogia e dell’educazione tradizionali, ma trasformati radicalmente alla luce delle categorie filosofiche care a Severino.
Il pensatore, dopo una perplessità lunga un anno, ha accettato l’invito. Ci ha confidato in proposito: «Dal punto di vista glottologico la parola "educare" (da cui "educazione") è molto lontana dalla parola "pedagogia". Tuttavia "educare" proviene dal latino e-ducere, "trar fuori, condurre fuori"; e anche in tedesco la parola Er-ziehung ("educazione") alla lettera significa "trar fuori". Da che cosa? Da uno stato di carenza, di povertà, di pochezza, insomma di mancanza. Ora, la parola "pedagogia" è costruita sulla parola greca páis ("fanciullo"). Ma páis è, dal punto di vista linguistico, strettamente imparentato alla voce paus, sulla quale si costruiscono parole come pauros ("povero"), pausis ("pausa"), a cui il latino risponde con parole come paucus (poco), pauper (povero). Ma questa povertà e pochezza è, appunto, quella condizione iniziale da cui l’e-ducere, a cui facevo riferimento prima, trae fuori».
Tutta questa riflessione linguistica a cosa mira? Severino risponde: «La forma fondamentale dell’e-ducere, nella civiltà occidentale, è il "trar fuori da sé" il mondo, da parte di Dio. Dio fa uscire il mondo dalla sua originaria nullità (nella formula teologica: ex nihilo sui, cioè "dal nulla del mondo"). Tutta l’azione educativa e pedagogica dell’Occidente ripropone nel rapporto tra docente e discente questa fondamentale impostazione metafisico-teologica e concepisce l’educare come un trar fuori l’umano dalla povertà e pochezza dell’iniziale condizione quasi animale in cui si trova l’educando (il pais)». A questo punto — il lettore se ne sarà accorto — siamo al centro della filosofia di Severino, laddove si avverte che lo sforzo educativo riflette l’azione creatrice di Dio.
Ma questo implica la nota conclusione di Severino, per la quale l’estrema «Follia» è credere che una qualsiasi cosa, anche la più irrilevante, provenga dal nulla e vi ritorni. Il filosofo aggiunge, illustrando l’itinerario percorso nel libro: «Appunto per questo l’intervista Educare al pensiero è, come abbiamo prima rilevato, la trasformazione radicale del senso che è stato sempre dato alla pedagogia e all’educazione. Il "pensiero" al quale si tratta di educare, infatti, è proprio la negazione del valore dell’educazione in quanto Follia dell’e-ducere le cose e l’umanità dal niente e da quel niente che è la povertà della condizione iniziale dell’essere umano».
A questo punto chiediamo a Severino come si concilia tutto questo con il titolo della seconda parte dell’intervista Educare alla tecnica. Il compimento del nichilismo. La sua risposta non si fa attendere: «Aspettavo questa domanda, del tutto pertinente. La tecnica è diventata, sul Pianeta, la forma suprema dell’e-ducere le cose dal nulla (produzione, trasformazione, invenzione, manipolazione) con le corrispettive forme di distruzione. Analogamente Dio, alla fine dei tempi, dopo averlo fatto essere, annienta il creato. Non è possibile per ora saltar fuori dalla dominazione della tecnica (che ha sì sostituito quella di Dio, ma nemmeno essa ha l’ultima parola). All’interno di questo dominio l’educazione non può essere che il condurre l’uomo a favorire la crescente potenza della tecnica. È vero, è l’educare all’Errore estremo, alla Follia estrema, al nichilismo, ma è necessario che l’errore e la Follia e il nichilismo si facciano innanzi in tutta la loro concretezza proprio per essere oltrepassati dal non-errore, dalla non-Follia e dal non-nichilismo, ossia da ciò che chiamo "Destino della verità". Senza l’apparire dell’errore e degli erranti, la verità è impossibile. Tra l’altro questa educazione all’errore è la Grande Politica, che le politiche mondiali di destra e di sinistra non sono ancora capaci di realizzare».
Severino, dopo Educare al pensiero per La Scuola, pubblicherà in autunno presso Rizzoli un saggio sul futuro del capitalismo e, alla fine dell’anno, da Adelphi, una nuova indagine sul senso del nulla. Ma questa, direbbe Kipling, è un’altra storia. Della quale vi racconteremo a suo tempo.

Corriere 18.7.12
Sinistra e diritti
I pronipoti di Turati e don Sturzo uniti (e divisi) sotto lo stesso tetto
di Paolo Franchi


In una bellissima intervista al Popolo, sul finire del 1924, Filippo Turati argomenta come e perché l’intesa tra i socialisti riformisti e i popolari (oggi diremmo: il centro-sinistra) sia, sotto il profilo democratico, una scelta non solo opportuna, ma persino obbligata. Nell’immediato sbaglia; sul lungo periodo, probabilmente, molto meno. Ma è per un altro motivo che quel testo conserva ancora oggi una sua particolarissima attualità.
Alla domanda finale su come potrebbero mai fare socialisti e cattolici a trovare un accordo su temi come il divorzio o le scuole religiose, Turati prima risponde ridimensionando la portata del conflitto. Poi taglia corto: dovremo pur lasciare ai nostri nipoti qualcosa su cui litigare.
In effetti, sui temi che oggi pudicamente definiamo «eticamente sensibili», i nipoti e i pronipoti di Turati (e di Sturzo) litigano da un pezzo: gli esempi più classici sono il divorzio e la legalizzazione dell’aborto. C’è molta gente, in giro, convinta che siano stati introdotti dai referendum. Non è così, ovviamente. È vero che quei referendum (soprattutto il primo) hanno cambiato la faccia politica e civile del Paese. Ma si trattava di referendum abrogativi (segnati in entrambi i casi da clamorose sconfitte di chi li aveva promossi) di leggi varate dal Parlamento, e approvate da maggioranze diverse da quelle che sostenevano il governo senza che ciò comportasse la crisi del governo medesimo, a guida, inutile dirlo, democristiana: per il banalissimo motivo che non facevano parte del suo programma. Forse sarebbe bene ricordarlo anche a chi sostiene che la prudenza, chiamiamola così, del Pd in materia di diritti sia soprattutto un prezzo da pagare per raggiungere l’accordo con Casini e l’Udc. Nella riunione di sabato scorso del parlamentino del Partito democratico, dove la presidenza ha rifiutato di mettere ai voti un documento di minoranza sui diritti civili e il riconoscimento delle coppie gay, è successo invece qualcosa di nuovo e di inquietante. Qualcosa di più preoccupante ancora, forse, di quell’«allergia al dissenso» che, come ha scritto giustamente Pierluigi Battista (Corriere, 16 luglio), affligge, seppure in forme diverse, un po’ tutti i (cosiddetti) partiti della (cosiddetta) Seconda Repubblica. Qualcosa che riguarda da vicino la natura stessa del Partito democratico. Sotto il cui tetto, ecco la novità, i succitati nipoti e pronipoti di Turati (e di Sturzo) non possono litigare. Attenzione alla questione cattolica (ma Antonio Gramsci preferiva parlare di «quistione vaticana») ce n’era anche, Dio sa quanta, nel vecchio Pci dell’articolo 7 e del compromesso storico e, seppure in misura assai minore, nel vecchio Psi, il cui ultimo leader, Bettino Craxi, detestò il gesuitismo ma firmò pure il nuovo Concordato. In nessuno dei due principali partiti della sinistra, però, i cattolici, che pure vi erano largamente presenti, rappresentavano una componente costitutiva e organizzata, implicitamente deputata a montare la guardia a principi e valori considerati non negoziabili. Nel Pd, fin dal suo atto di nascita, le cose stanno invece proprio così. E non è solo per via di una (ipotetica) prepotenza di Rosy Bindi che questo stato di fatto non può essere messo in discussione. Persino mettendo ai voti un documento integrativo sui principi, moderato nei toni e ragionevole nei contenuti, si rischia di innescare tensioni e scontri potenzialmente ingovernabili. Il confronto, nel caso lo scontro, e infine la conta sui valori fondamentali (e la concezione che un partito esprime della laicità e dei diritti sicuramente è tale) diventano un lusso stravagante che, soprattutto in tempi di magra, non è lecito concedersi. Perché, per dirla con Pier Luigi Bersani, «le nostre beghe» debbono passare in secondo piano.
Meglio non chiedersi, e non chiedere, come mai nessun partito socialista o socialdemocratico europeo versi nella stessa condizione: magari si verrebbe accusati di tardo zapaterismo. Ma chiedersi, e chiedere, quale futuro possano avere i nostri partiti, se il più grande tra loro sui valori e sui principi è quasi per definizione obbligato a muoversi sottotraccia, questa sì ci pare una domanda che meriterebbe risposte convincenti. Nell’interesse della democrazia italiana. E anche nell’interesse del Pd.

Repubblica 18.7.12
Come superare il mondo di Narciso
Due saggi analizzano le difficoltà degli adulti di oggi
di Massimo Recalcati


L’idolo della crescita e dell’espansione senza misura di cui si è nutrito l’Occidente ha rivelato il suo limite: l’uomo come “misura di tutte le cose” ha alimentato l’illusione narcisistica di una libertà senza debiti che si è beffardamente ribaltata – in questa grande crisi finanziaria – nella realtà di un debito smisurato. Due libri di resistenza, duri e forti, scritti da due teste non omologate, fuori serie, ci introducono alla necessità di pensare l’uomo in modi diversi. Si tratta di Contro gli idoli postmoderni (Lindau) di Pierangelo Sequeri e Come fare. Per una resistenza filosoficadi Rocco Ronchi (Feltrinelli). La loro lettura del disagio della nostra Civiltà utilizza lenti teoriche diversissime. Sequeri – teologo di fama internazionale – sa riprendere e attualizzare la parola biblica facendola dialogare con quella della filosofia contemporanea più alta con una originalità unica. La sua prospettiva è quella di un sostenitore convinto della necessità di un ritorno alla radici umanistiche del cristianesimo in un’epoca che sembra ridurre a carta straccia ogni riferimento alla dimensione etica e insostituibile della responsabilità singolare. Ronchi è invece uno studioso di Bataille e Blanchot, di Sartre e Bergson, di Lacan e Deleuze, da tempo impegnato a ricordarci che la filosofia non può mancare l’appuntamento con l’assoluto in un’epoca dove questo compito – pensare l’assoluto – sembra suscitare solo la pacca sulla spalla di una critica ironica che ha preso congedo da ogni pretesa di dire la Verità ultima.
Sequeri è un teologo e pensa a Dio, ma cristianamente si rivolge innanzitutto all’uomo: l’anima dell’Occidente ha bisogno di rifondare un altro umanismo, non antropocentrico, non narcisistico. Ronchi è un filosofo che critica spietatamente la retorica umanistica che celebra l’Uomo come centro del mondo e si rivolge ad un Assoluto materialistico come espressione della potenza infinita della vita al di là dell’uomo. Ma non si deve confondere la prospettiva di Ronchi con una riedizione nostalgica dell’assoluto della vecchia metafisica. La sua scommessa è quella di glorificare il tempo non come scadimento, esaurimento dell’essere, ma come manifestazione assoluta dell’essere. Rovesciamento di Emanuele Severino: il nichilismo non è attribuire essere al divenire, ma pensare il divenire come esaurimento dell’essere, laddove il divenire è invece la sua manifestazione assoluta e non la sua falsa apparenza.
Ronchi cerca l’assoluto nel mondo, nella sua forza impersonale, nella sua potenza vitale. Se Sequeri mette al centro dell’assoluto l’uomo, Ronchi scarta l’uomo per mettere al centro l’inumanità impersonale dell’assoluto. Se il primo insiste a pensare il mondo come donazione, come indebitamento dell’uomo a un’offerta e a una Grazia che lo trascendono, il secondo parte dal presupposto che «l’uomo non è l’unità di misura del mondo», che «il mondo non è per l’uomo e l’uomo non è per il mondo». Eppure queste due voci così diverse finiscono per porre la stessa domanda: cosa resta in un tempo dove tutte le grandi narrazioni del mondo – come ripete l’adagio postmoderno – sono evaporate? Come si può trarre soddisfazione dalla vita, senza cadere nel circo iperedonista, senza perdersi, senza inseguire l’idolo narcisistico dell’espansione senza misura e della frenesia della “mobilitazione totale”? Cosa resta oggi se nei luoghi in cui si gioca la partita dell’umano, Narciso ha preso il posto del Prometeo di Marx e del Dioniso di Nietzsche?
Per Sequeri resta il dono della testimonianza, la responsabilità degli adulti nel rendere generativo il processo di filiazione. Per Ronchi «restano i post, vale a dire coloro che si definiscono reattivamente sulla base di una impotenza a essere comunisti, fascisti, padri, ecc. Restano gli esausti», ovvero coloro che possono farla finita con la retorica della riduzione del mondo a risorsa da sfruttare infinitamente. Quello che resta non è l’io del narcisismo, l’io del cogito, l’io come autoaffermazione di sé, ma piuttosto l’infinito della vita dalla cui potenza noi ci difendiamo attaccandoci, in una illusione di padronanza, al nostro piccolo Io. Il mondo della vita non è terra di conquista e l’antropocentrismo non può essere l’ultima parola dell’Occidente.
Ecco il punto dove le acque di questi due libri convergono: esiste una soddisfazione che non si riduca alla soddisfazione sterile e mortifera di Narciso? Si può godere in modo diverso rispetto al godimento sterile di Narciso e di Caino? Esiste una alternativa al falso divenire dell’iperedonismo e la sua ideologia del benessere, del corpo obbligatoriamente in forma, della celebrazione narcisistica della libertà? Non c’è libertà se non nell’assunzione della solitudine del nostro godimento, sostiene Ronchi, ma non c’è libertà se non come esperienza della donazione al di là dell’Io, impegno nella trasmissione di una eredità, di una filiazione generativa. È questo l’appello che Sequeri rivolge con voce alta e chiara a noi adulti: «Che vogliamo fare? Credenti o non credenti, quanto siamo, è ora di onorare l’impegno senza svicolare in dialoghi troppo socratici: o siamo contro l’idolo che mangia i bambini, o siamo fiancheggiatori della sua devozione intoccabile… Andate, liberateli, fateli lavorare. Battetevi con le unghie e coi denti perché abbiano la migliore formazione possibile... sperano di trovare qualcuno che non cerchi pateticamente di imitare la loro insicurezza».

Repubblica 18.7.12
Quel che resta del desiderio
Un saggio di Michela Marzano sul tema del rapporto con il corpo
di Anais Ginori


In poco meno di mezzo secolo, la pornografia ha perso gran parte della sua carica sovversiva, conquistando l’immaginario di massa, non solo maschile, banalizzandosi persino. L’industria audiovisiva di porno, che a lungo è stata un’avanguardia, una controcultura, è entrata a pieno titolo nel consumo mainstream, con una diffusione e una facilità di fruizione mai sperimentata prima. Il concetto di trasgressione è stato così continuamente ridefinito, i produttori hanno via via ripiegato su sottogeneri pornografici sempre più specializzati, di nicchia. Sul valore liberatorio e libertario di queste pellicole si dibatte almeno da quando, era il 1972, venne prodottoGola Profonda. In La fine del desiderio la filosofa Michela Marzano cerca però di far uscire la polemica dalla logica di “genere” sviluppata dalle femministe americane a partire dagli anni Settanta, le quali sono state poi contestate da altre voci all’interno del movimento. Accanto a chi ha denunciato la reificazione del corpo femminile e gli stilemi della dominazione maschile, c’è chi ha difeso uno spazio di libertà e una presunta funzione emancipatrice. Senza entrare direttamente nel merito, Marzano sposta la discussione sulla decostruzione della soggettività, indagando quelle sottili sfumature che differenziano l’erotismo dalla pornografia. Attraverso una vasta bibliografia, l’analisi comparata di film e romanzi, la filosofa pubblica un saggio in forma di pamphlet preceduto in Italia da polemiche e dibattiti ancor prima di essere tradotto. L’edizione originale francese risale al 2003 ma La fine del desiderio, nella versione aggiornata degli Oscar Mondadori, non ha perso nulla in pertinenza e attualità, quasi fosse una lettura a consuntivo di un periodo politico da taluni definito “pornocrazia”. Marzano applica infatti la definizione di pornografico (dal latino “scritto sulle prostitute”) al di là dell’aspetto cinematografico, estendendolo alle “condotte”. Il confine estetico, ma non solo, tra quel che è o non è osceno è sempre incerto. Soggettivo, appunto. Come sosteneva Alain Robbe-Grillet: «La pornografia è l’erotismo degli altri». Sarebbe sbagliato ridurre tutto a una questione di gusto, moralismo, comune senso del pudore. Non si tratta, avverte Marzano, solo di rappresentare più o meno esplicitamente l’atto sessuale. La pornografia diventa tale attraverso la negazione dell’altro, del suo desiderio. È la “destituzione del soggetto” che rende le persone non più uniche e insostituibili ma personaggi intercambiabili. L’accostamento di corpi che diventano automi, presentati come un “assemblaggio di pezzi”, trascura gli aspetti più oscuri, reconditi, trascendenti del sesso. L’oggetto dell’erotismo, invece, è il corpo erogeno. «Il corpo nel suo insieme, in cui si concretizza il desiderio». È la possibilità, spiega la filosofa, di “toccare ed essere toccati”, sia dal punto fisico che psicologico. La cancellazione del desiderio altrui si ripercuote anche su quello proprio, con comportamenti stereotipati. La sfida del saggio è sfuggire, come avvertiva Michel Foucault, da una storia della sessualità basata solo sulla repressione. Senza mai limitarsi a una denuncia tout court, Marzano ci invita a interrogarci su come, mettendo in scena gli aspetti più nascosti e rimossi della vita umana, la pornografia svuota di contenuto di mistero, stupore, che da sempre accompagna la sessualità. «È la frattura ontologica che ci caratterizza in quanto esseri umani – ricorda la filosofa – a spingerci a desiderare».

La Stampa 18.7.12
Alessandro (non troppo) Magno più barbaro dei barbari
Dalla Scozia un professore (di origine iraniana) rovescia il mito del condottiero civilizzatore: in Persia si macchiò di malvagità gratuite
di Vittorio Sabadin


Oggi come allora, le scuse per cominciare una guerra sono sempre le stesse.
Persepoli era l’agglomerato urbano più grande e più bello del mondo Il Macedone lo prese nel 330 a.C. dopo una notte di eccessi alcolici culminata con un corteo in onore di Dioniso con generali e cortigiane
Distrusse i templi e i simboli dello zoroastrismo e perseguitò i magi sacerdoti della religione iranica

Persepoli era l’agglomerato urbano più grande e più bello del mondo quando Alessandro Magno arrivò davanti alle sue mura nel 330 avanti Cristo. Non ci fu bisogno di combattere per conquistarlo: un anno prima il re persiano Dario era stato sconfitto a Gaugamela e nessuno cercava più di opporsi all’esercito macedone. Alessandro si fermò davanti alla grande Porta delle Nazioni fatta erigere da Serse, ammirò le 72 colonne che reggevano l’Apadana realizzata da Dario il Grande e l’infinita sequenza di finissimi bassorilievi che la adornavano. In Grecia non c’erano costruzioni che potessero essere paragonate allo splendore di quei palazzi reali, alla imponente scalinata del Tripylon che aveva al suo culmine tre porte, una delle quali segreta, che si apriva sull’harem.
Alessandro arrivò alla Sala del Trono e immaginò il deferente omaggio delle nazioni sottomesse a Dario, così come era raffigurato nei bassorilievi della processione di Capodanno: gli abitanti di Susa e poi gli Armeni, i Lidi e i Sodghiani, gli Indiani e i Babilonesi, i Parti e i Bactriani ogni 21 marzo portavano ricchi doni al Re dei Re. Furono necessari 20.000 muli e 5.000 cammelli per svuotare la camera del tesoro dal suo contenuto.
Tre mesi dopo un incendio, ordinato o causato da Alessandro, distrusse la più maestosa città che l’uomo avesse costruito: crollarono i muri, le statue, le colonne; si fusero le lamine d’oro che ancora ricoprivano le statue e il trono, e di Persepoli restarono solo le rovine che ancora resistono a 50 chilometri dalla città di Shiraz, in Iran. Per i libri di storia occidentali, figli della cultura ellenistica, l’incendio fu la giusta vendetta per le ferite che Serse aveva inferto al mondo: l’incendio di Efeso, i santuari devastati ad Atene, le distruzioni a Babilonia. Finalmente, un conquistatore che agiva in nome della superiorità della cultura greca aveva fatto giustizia.
Ma il professor Ali Ansari, direttore dell’Istituto di Studi Iraniani all’Università di St Andrews in Scozia, ritiene che sia giunto il momento di raccontare un’altra storia, quella vista dalla parte dei persiani sconfitti. «Se andate a visitare le rovine di Persepoli ha scritto in un saggio che ha causato qualche polemica le guide vi spiegheranno che la città fu fondata nel 500 avanti Cristo da Dario il Grande, che fu ampliata e abbellita da suo figlio Serse e distrutta da quell’uomo, quel barbaro, Alessandro Magno».
Secondo il prof. Ansari guarda caso, di origine iraniana la cultura occidentale ha infuso l’idea che i persiani esistessero per essere conquistati da Alessandro, il portatore della civiltà. Ma la civiltà che lui annientò non era inferiore a quella nel nome della quale agiva. «Alessandro si comportò come i barbari che invasero Roma, che venivano ad ammirare quello che conquistavano, al punto che volle assumere lo stesso titolo di Re dei Re dei sovrani che aveva sconfitto».
Visto con occhi persiani, Alessandro è tutt’altro che «Magno». Bruciò Persepoli al termine di una notte di eccessi, cominciata come tante con una cena assieme ai suoi generali, continuata con la recitazione di poesie e di brani di Euripide, e terminata nell’ebbrezza, in compagnia di cortigiane e suonatori. A un certo punto, lo stesso Alessandro propose di formare una processione in onore di Dioniso, il dio dell’estasi, e tutti lo seguirono barcollanti portando una fiaccola. Dopo pochi minuti, la Sala delle Udienze e quella del Trono erano avvolte dalle fiamme.
Ma nelle malvagità gratuite che gli vengono imputate non c’è solo questa. I persiani lo condannano anche per la sistematica distruzione dei simboli dello zoroastrismo, l’attacco ai templi e la persecuzione dei sacerdoti della religione, i magi. «L’influenza della cultura e della lingua greche sostiene il prof. Ansari con qualche evidente riferimento a situazioni contemporanee ha contribuito a diffondere in Occidente la convinzione che l’invasione di Alessandro sia stata la prima di molte crociate destinate a portare la cultura e la civiltà nel barbaro Est. In realtà l’impero persiano andava conquistato non perché avesse bisogno di essere civilizzato, ma perché era il più grande impero che il mondo avesse visto fino a quel momento e si estendeva dall’Asia Centrale alla Libia. La Persia era un enorme, ricco bottino».
Nell’ Anabasi di Alessandro lo storico greco Lucio Flavio Arriano cita un discorso del condottiero macedone diretto a Dario che sembra senza tempo: i vostri antenati invasero la Macedonia, ora voglio vendicarmi, ma sia chiaro che siete voi che avete dato inizio alle ostilità. Avete aiutato i nemici di mio padre e inviato denaro ai greci per turbare la pace che io avevo costruito. Avete corrotto i miei amici e alleati e tu, Dario, hai preso e detieni il potere illegalmente.

martedì 17 luglio 2012

il Fatto 17.7.12
Sondaggio TgLa7: salgono democratici e M5S, il Pdl non cresce


In crescita Pd e Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, mentre l’effetto-Berlusconi sul Pdl, al momento, non si fa sentire. Sono i tre partiti che raccolgono il più alto numero percentuale di preferenze secondo il sondaggio sulle intenzioni di voto alla Camera, elaborato da Emg e diffuso ieri sera nel corso del TgLa7 diretto da Enrico Mentana. Dalle rilevazioni emerge che i democratici oggi arriverebbero al 26,5% (+0,5% rispetto alla scorsa settimana), con il Pdl al 20,1% (+0,1%) e i grillini al 16,8% (+1,1%). A sinistra l’Italia dei Valori sarebbe al 7,6% (invariato) e Sinistra e libertà al 5,3% (-0,5%), al centro l’Udc raccoglierebbe il 7,3% dei voti (+0,1%) e Fli il 2,1% (invariato), mentre la Lega Nord raggiungerebbe il 5,2% (-0,4%), con un’astensione del 35,7%, gli indecisi al 16,6% e le schede bianche all’1,7%. Secondo il sondaggio la fiducia nel presidente del Consiglio Mario Monti è in calo di due punti, al 43%.

La Stampa 17.7.12
Mafia, scontro tra i poteri
Napolitano “A Palermo violate le mie prerogative”
Il Colle ricorre alla Consulta: “Le intercettazioni con Mancino dovevano essere distruttte”
di Carlo Bertini


ROMA Le intercettazioni telefoniche che coinvolgono «anche indirettamente» il presidente della Repubblica, sono «assolutamente vietate» in quanto comportano una «lesione delle prerogative costituzionali» del Capo dello Stato e non possono restare in atti processuali. Il Quirinale decide di sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale per le decisioni che la procura di Palermo ha assunto riguardo intercettazioni di conversazioni telefoniche del Capo dello Stato. Un secco altolà che arriva dopo la lunga sequenza di polemiche scaturite dalle intercettazioni che riguardano il Colle nell’inchiesta sulla presunta trattativa Statomafia. Oltre alle conversazioni tra il consigliere per gli affari giuridici Loris D’Ambrosio e l’ex ministro degli Interni, Nicola Mancino, ce ne sarebbero altre due tra lo stesso Mancino e Napolitano, rivelate dal Fatto Quotidiano giorni fa, non ancora note nei contenuti e per le quali la Procura non ha disposto la distruzione. Il duro stop del Colle ai giudici palermitani giunge dopo la serie di attacchi mediatici che hanno «alimentato una campagna di insinuazione e di sospetti nei confronti del presidente della Repubblica e dei suoi collaboratori costruita sul nulla», come ebbe a dire lo stesso Napolitano lo scorso 21 giugno.
Di qui la decisione di sollevare il conflitto, «ritenendo dovere del Presidente della Repubblica, secondo l’insegnamento di Luigi Einaudi, evitare che si pongano precedenti grazie ai quali accada che egli non trasmetta al suo successore le facoltà che la Costituzione gli attribuisce immuni da qualsiasi incrinatura». In sostanza il capo dello Stato tiene a sottolineare che trattasi non di questione personale, bensì istituzionale e il decreto presidenziale ripercorre così la vicenda: «La procura di Palermo, dopo aver preso cognizione delle conversazioni, le ha preliminarmente valutate sotto il profilo della rilevanza e intende ora mantenerle agli atti del procedimento perché esse siano dapprima sottoposte ai difensori delle parti e successivamente, nel contraddittorio tra le parti stesse, sottoposte all’esame del giudice ai fini della loro acquisizione ove non manifestamente irrilevanti». E invece, come fa notare il decreto del Quirinale, «a norma dell’articolo 90 della Costituzione e dell’articolo 7 della legge 210 del 1989, salvi i casi di alto tradimento o attentato alla Costituzione, le intercettazioni di conversazioni cui partecipa il Presidente della Repubblica, ancorché indirette od occasionali, sono da considerarsi assolutamente vitate e non possono essere quindi in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte e di esse il pm deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione».
Nel giro di poche ore si consuma uno scontro istituzionale, con il ministro della Giustizia Severino che definisce l’atto del Colle «il mezzo più corretto per risolvere problemi interpretativi» e la procura di Palermo che, dopo un rapido consulto, sostiene di aver «rispettato tutte le norme a tutela del Presidente della Repubblica»; e si infiamma la politica, con il Pd e il Pdl in difesa del gesto di Napolitano e l’Idv subito all’attacco. «Ha ragione il Presidente quando sostiene che non devono esserci interferenze tra i vari organi costituzionali dello Stato», premette Di Pietro,
«ma noi ci schieriamo senza se e senza ma al fianco di quei magistrati palermitani che stanno facendo ogni sforzo possibile per accertare la verità sulla pagina buia rappresentata dalla trattativa tra Stato e mafia». No, l’iniziativa del Quirinale «è più che opportuna», reagisce Enrico Letta, mentre «di analfabetismo costituzionale» dell’ex pm parla uno dei suoi uomini, Marco Meloni, a conferma che le distanze tra il Pd e l’ex pm si vanno allargando. Quello di Napolitano «è un atto opportuno», reagisce il Pdl Lupi. E all’argomento del pm Ingroia secondo cui «se l’intercettazione non è rilevante per la persona che è sottoposta all’immunità, ma lo è per un indagato qualsiasi, può esser utilizzata», risponde duro Cicchitto. Chiedendo un’azione disciplinare per questo «gravissimo comportamento» di un magistrato che «ormai agisce senza freni».
Ma i tempi di un ricorso già sollevato in altri casi da Ciampi e Cossiga per differenti motivazioni, potrebbero non esser brevi e la decisione della Consulta rischia di arrivare a mandato di Napolitano già terminato.

Corriere 17.7.12
Le istituzioni e le persone
di Michele Ainis


Un conflitto di attribuzioni non è una guerra nucleare. Serve a delimitare il perimetro dei poteri dello Stato, a restituire chiarezza sulle loro competenze. E la democrazia non deve aver paura dei conflitti: meglio portarli allo scoperto, che nascondere la polvere sotto i tappeti. Sono semmai le dittature a governare distribuendo sedativi. Eppure c'è un che d'eccezionale nel contenzioso aperto da Napolitano contro la Procura di Palermo. Perché esiste un solo precedente, quello innescato da Ciampi nel 2005 circa il potere di grazia. Perché stavolta il capo dello Stato — a differenza del suo predecessore — rischia d'incassare il verdetto della Consulta mentre è ancora in carica, sicché sta mettendo in gioco tutto il suo prestigio. Perché infine il conflitto investe il ruolo stesso della presidenza della Repubblica, la sua posizione costituzionale.
Domanda: ma è possibile intercettare il presidente? La risposta è iscritta nella legge n. 219 del 1989: sì, ma a tre condizioni. Quando nei suoi confronti il Parlamento apra l'impeachment per alto tradimento o per attentato alla Costituzione; quando in seguito a tale procedura la Consulta ne disponga la sospensione dall'ufficio; quando intervenga un'autorizzazione espressa dal Comitato parlamentare per i giudizi d'accusa. Quindi non è vero che il presidente sia «inviolabile», come il re durante lo Statuto albertino. Però nessuna misura giudiziaria può disporsi finché lui rimane in carica, e senza che lo decida il Parlamento.
Dinanzi a questo quadro normativo la Procura di Palermo ha scavato a sua volta una triplice trincea. Primo: nessuna intercettazione diretta sull'utenza di Napolitano, semmai un ascolto casuale mentre veniva intercettato l'ex ministro Mancino. Secondo: le conversazioni telefoniche del presidente sono comunque penalmente irrilevanti. Terzo: i nastri registrati non sono mai stati distrutti perché possono servire nei confronti di Mancino, e perché in ogni caso la loro distruzione passa attraverso l'udienza stralcio regolata dal codice di rito.
Deciderà, com'è giusto, la Consulta. Ma usando il coltello della logica, è difficile accettare che sia un giudice a esprimersi sulla rilevanza stessa dell'intercettazione. Perché delle due l'una: o quest'ultima rivela che il presidente ha commesso gli unici due reati dei quali è responsabile, per esempio vendendo segreti di Stato a una potenza straniera; e allora la Procura di Palermo avrebbe dovuto sporgere denuncia ai presidenti delle Camere, cui spetta ogni valutazione. Oppure no, ma allora i nastri vanno subito distrutti, senza farli ascoltare alle parti processuali. Come avviene, peraltro, per ogni cittadino, se intercettato mentre parla con il proprio difensore (articoli 103 e 271 del codice di procedura penale). E come stabilì il Senato nel marzo 1997, quando Scalfaro venne a sua volta intercettato. In quell'occasione anche Leopoldo Elia, costituzionalista insigne, dichiarò illegittime le intercettazioni telefoniche del capo dello Stato, sia dirette che indirette. Perché ne va dell'istituzione, non della persona. Le persone passano, le istituzioni restano.

Corriere 17.7.12
Valerio Onida, professore di Diritto costituzionale presso l'Università di Milano, è stato presidente della Corte Costituzionale
«Un'iniziativa corretta Si può ascoltare il Quirinale solo per alto tradimento»
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — Valerio Onida, professore di Diritto costituzionale presso l'Università di Milano, è stato presidente della Corte Costituzionale e attualmente presiede la Scuola superiore della magistratura. Quindi si trova in una posizione privilegiata per dare un giudizio sull'iniziativa del Quirinale di sollevare conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale nei confronti della Procura di Palermo.
Cosa ne pensa?
«Quella del Quirinale è un'iniziativa volta a fare chiarezza. E l'unica autorità che può chiarire è la Consulta: è solo la Corte a poter dire qual è la via corretta da seguire, in base alla legge, nel rapporto tra i due poteri. Il presidente Napolitano, nel decreto con cui viene sollevato il conflitto, non mostra alcun interesse diretto, ma sostiene che se lui tacesse si potrebbe precostituire un precedente suscettibile in futuro di incidere sulle prerogative del capo dello Stato».
Quali prerogative?
«La legge 219 dell'89 esplicitamente prevede che il presidente della Repubblica non possa essere sottoposto a intercettazione se non dopo essere stato sospeso dalle funzioni nel procedimento d'accusa previsto dall'articolo 90 della Costituzione, cioè per alto tradimento o attentato alla Costituzione».
Anche nelle indagini di Palermo siamo al solito problema delle cosiddette intercettazioni indirette...
«Il divieto previsto dalla legge per il capo dello Stato è assoluto. In ogni caso sarà la Corte a stabilire se tale divieto comporta anche la totale inutilizzabilità e l'obbligo di distruzione immediata delle conversazioni intercettate occasionalmente su altre utenze».
Non vede il pericolo che questo conflitto possa estendere le sue conseguenze ad altre cariche, ad esempio, il presidente del Consiglio?
«No, non credo proprio, perché la disciplina per i componenti del governo è completamente diversa da quella per il capo dello Stato. Per loro, se indagati per reati ministeriali, non c'è divieto di intercettazione, ma una procedura autorizzativa della Camera di appartenenza o del Senato, se non parlamentare».
Ci sono precedenti nei quali il Quirinale ha sollevato un conflitto?
«Questa è la terza volta. Il primo caso è del 1981. Anche se allora il Quirinale agì insieme agli altri organi costituzionali contro la Corte dei Conti che voleva estendere la sua giurisdizione anche ai bilanci dei vertici dello Stato. Il secondo conflitto fu sollevato dall'allora presidente Ciampi. La Corte, allora, affermò che in materia di concessione della grazia, il ministro della Giustizia non può denegare la sua controfirma all'atto di clemenza presidenziale».

Repubblica 17.7.12
La verità e le regole
di Carlo Galli


IL CONFLITTO fra i poteri dello Stato sollevato dalla Presidenza della Repubblica contro la Procura di Palermo, e portato davanti alla Corte costituzionale, ha indubbiamente gravissime implicazioni e altissime potenzialità di crisi istituzionale. Che vanno chiarite al più presto e, se possibile, raffreddate.
Osservato che non erano né irrilevanti né infondate le perplessità sollevate a suo tempo da Eugenio Scalfari sulla vicenda delle intercettazioni indirette al capo dello Stato, e che non del tutto chiare erano state le risposte dei magistrati di Palermo, si devono primariamente operare distinzioni. La prima delle quali è tra la persona di Napolitano e la materia processuale nel cui ambito le intercettazioni sono avvenute – che è la complessa indagine sulla trattativa Stato-mafia del 1992-1993. La verità pubblica e ufficiale su quella trattativa – se c’è stata, per ordine di chi, in quali termini – deve essere accertata attraverso la via giudiziaria: è, questo, un dovere istituzionale della magistratura, dalla quale l’opinione pubblica democratica si attende comportamenti ineccepibili e radicali, che facciano luce piena su un passaggio oscuro, e cruciale, della storia della repubblica. La verità è interesse di tutti gli onesti; anzi, è loro diritto.
Ma nessuno può pensare che quella verità stia nelle risposte di Napolitano a Mancino, che gli telefonava. Nel merito, le parole di Napolitano non possono dire nulla di rilevante su quella vicenda. E chi chiede che vengano stralciate e distrutte non sta coprendo reati, o ombre, o opacità. Sta invece chiedendo che vengano rispettate le prerogative del capo dello Stato, che in circostanze come queste non può essere intercettato neppure occasionalmente e incidentalmente. Come appunto sostiene Napolitano, preoccupato non per sé ma per la carica istituzionale che ricopre, che vuole consegnare al successore priva di ogni lesione nei poteri e nei diritti costituzionalmente sanciti.
Poiché la questione sotto il profilo giuridico è se la magistratura sia stata corretta o abbia ecceduto nei suoi poteri, se quelle intercettazioni occasionali debbano essere distrutte subito o solo dopo una valutazione del gip, se siano irrilevanti soltanto per le risposte di Napolitano o nella loro interezza (cioè anche nelle parti di Mancino), e poiché si tratta di una questione difficile, è giusto lasciare alla Corte costituzionale il compito di decidere. Ma – seconda distinzione – la sostanza politica della vicenda non è qui. È, invece, nei sospetti che si vogliono avanzare sul Presidente, per indebolirne l’immagine e il ruolo politico; per travolgere, con un allarmismo qualunquistico, quel che resta della legittimità repubblicana, e per confezionare un’immagine di Paese allo sbando. Sarebbe, questa, l’ultima autolesionistica risposta delle élite ciniche e riluttanti (il cinismo ha infatti molte facce, anche quella dell’oltranzistico giustizialismo) al dovere del momento: che è di salvare l’Italia nella dignità, non di farla affondare in una universale vergogna.
Una terza distinzione è poi quella fra illecito e inopportuno. Mancino, chiamato a testimoniare in tribunale sul suo operato di allora ministro dell’Interno, e quindi comprensibilmente infastidito, non ha commesso un illecito a cercare contatti col Quirinale, e a chiedere consigli. Certo, si è trattato di comportamenti inopportuni e imbarazzanti; non censurabili, ma espressione di abitudini tipiche più dei potenti che dei comuni cittadini. In modo speculare, di fronte alla ricerca di quei contatti, non si può non vedere che da parte di qualche collaboratore del Presidente ci siano stati comportamenti altrettanto impropri e imprudenti.
Per ultima, la distinzione fra le prerogative del capo dello Stato e il normale diritto-dovere di cronaca. Inviolabili tanto le une quanto l’altro; e neppure confliggenti. Infatti, una democrazia costituzionale vive di regole, se queste sono sostanza etica e non superficiali formalismi giuridici: la violazione di uno status – quello del presidente della Repubblica –, quando è solennemente sancito dalla Carta, non è un atto di libertà, ma uno sgarro istituzionale e un gesto oggettivamente sfascista; allo stesso modo, utilizzare pretestuosamente la vicenda delle intercettazioni del Quirinale come metro per valutare altre intercettazioni, e per varare una legislazione proibizionistica – o comunque lesiva della libertà d’informazione e del diritto dei cittadini di essere informati – è un proposito liberticida che, mettendo il bavaglio ai mezzi di comunicazione, nasconderebbe agli italiani notizie sostanziali e determinanti sulla loro condizione civile e politica, sullo stato della loro democrazia. Entrambi i diritti – quello del capo dello Stato e quello degli italiani – vanno conservati intatti, per conservare insieme a essi la sostanza della democrazia, cioè i diritti di tutti.
Mai come in questo caso la distinzione – cioè, secondo l’etimologia, la critica – è esercizio virtuoso, di giudizio, di prudenza e di verità. Come è invece esercizio vizioso quello di tutti coloro che fanno di ogni erba un fascio e, sotto il pretesto dell’interesse alla verità, la seppelliscono così in una notte in cui tutte le vacche sono nere.

l’Unità 17.7.12
Francesco Messineo, procuratore della Repubblica di Palermo
«Rispettiamo l’iniziativa ma l’inchiesta non è toccata»
di Massimo Solani


La prima reazione, dopo la notizia del conflitto di attribuzioni sollevato dal Quirinale, è stata la decisione di convocare un incontro in Procura con il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e i sostituti Lia Sava, Nino Di Matteo, e Palermo Guido. «Un modo per discutere insieme ai magistrati assegnatari del procedimento», spiega il procuratore della Repubblica di Palermo, Francesco Messineo. È troppo presto per fare valutazioni tecniche, ma di una cosa il procuratore è convinto: l’iniziativa del Quirinale «non collide minimamente con l’indagine che invece può continuare».
Dottor Messineo, ve lo aspettavate o vi ha colto di sorpresa?
«Diciamo che non è un problema di sorpresa, piuttosto direi che non avevamo avuto nessuna indicazione in tal senso. L’Avvocatura generale ci aveva chiesto delle notizie ma senza fare riferimento all’iniziativa, e noi le avevamo fornite. Quella del conflitto di attribuzione è una delle possibilità previste dall’ordinamento. Abbiamo preso atto dell’iniziativa del Capo dello Stato».
Secondo il decreto le intercettazioni del Presidente della Repubblica, «ancorché indirette od occasionali, sono da considerarsi assolutamente vietate e non possono quindi essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione». Una valutazione che voi non condividete?
«Noi non abbiamo trascritto alcuna intercettazione e sull’utilizzabilità di quelle telefonate noi siamo assolutamente d’accordo con il Quirinale. Il dissenso fra le nostre valutazioni e quelle della presidenza della Repubblica riguarda due punti: il primo è quello della valutabilità come utili o non utili, rilevanti o meno ai fini dell’inchiesta. E noi le abbiamo valutate come non rilevanti. Mi pare che nel decreto si contesti questa posizione e si dica cioè che non deve essere fatta alcuna valutazione: è un punto di vista legittimo e argomentabile. Il secondo punto di divergenza riguarda invece la modalità di distruzione, che secondo noi dovrebbe seguire una procedura garantita davanti al gip mentre il Quirinale ipotizzerebbe una procedura che non preveda l’intervento delle parti o altro. Credo che i punti di dissenso siano sostanzialmente questi due, e saranno oggetto dell’esame della Corte Costituzionale».
Ma il passaggio davanti al gip non potrebbe aumentare i rischi di una fuga di notizie su colloqui destinati alla distruzione e giudicati da voi stessi irrilevanti ai fini dell’inchiesta?
«Se c’è senso di responsabilità e correttezza da parte di tutti direi di no. Del resto la fuga di notizie è sempre dietro l’angolo, indipendentemente dal tipo di procedura seguita. Ma io tendo a ritenere che questo pericolo possa essere escluso».
Su quali argomentazioni sosterrete la correttezza delle vostre scelte davanti alla Corte Costituzionale?
«È un po’ presto per parlare di valutazioni o di atteggiamento processuale, prima aspettiamo di essere ufficialmente informati della vicenda, poi ne faremo oggetto di riflessione».
Per il ministro della Giustizia Severino quello scelto dal Quirinale è «il mezzo più corretto». È d’accordo anche lei? «Per carità, certo. Non so se effettivamente sia il più adatto o meno, di sicuro è un mezzo previsto dall’ordinamento e del tutto corretto quindi non c’è nulla da osservare rispetto al suo utilizzo. Sarà la Corte Costituzionale a stabilire qual è la procedura da seguire e i limiti dei poteri del pubblico ministero in casi di questo genere. Noi siamo perfettamente aperti a recepire le indicazioni che ci verranno date e non abbiamo alcuna tesi preconcetta».
Intorno alla vicenda delle telefonate del Quirinale in queste settimane si sono utilizzati i termini di “attacco”, “tensione” e “scontro”. È questo il contesto che anche voi avete respirato?
«Per mia natura sono molto lontano da queste logiche: io credo che il diritto sia una disciplina argomentabile e che gli argomenti giuridici debbano essere dibattuti con la massima serenità. Poi si può avere ragione o meno, ma questo non determina uno scontro. Almeno per il mio modo di vedere la questione».
Lo schieramento politico si è diviso fra chi parla di un tentativo di minare l’indagine sulla trattativa e chi invece giudica la vostra azione un attacco nei confronti della presidenza della Repubblica.
«È legittimo che la politica esprima delle valutazioni difformi e diverse, ma sono valutazioni che appartengono alla politica soltanto. Io per mia natura non vedo mai macchinazioni o altro: abbiamo preso atto di questa iniziativa e la seguiremo in tutte le sue parti per poi fare le nostre valutazioni giuridiche, ma non ho alcuna sensazione in tale direzione».
Quindi non ritiene, come invece ha azzardato qualcuno, che sia in atto un tentativo di colpire una inchiesta così delicata e importante?
«No, lo escludo assolutamente. Anche perché l’indagine è ormai alle ultime battute e il materiale probatorio è per la massima parte acquisito, per cui non siamo in una fase in cui l’indagine possa subire un freno o un blocco. Ma di sicuro questa iniziativa del Quirinale non collide minimamente con l’indagine che invece può continuare».

il Fatto 17.7.12
Il decreto della Presidenza della Repubblica


Premesso che (...) sono state captate conversazioni del Presidente della Repubblica nel corso di intercettazioni telefoniche effettuate su utenza di altra persona; Preso atto che il Procuratore della Repubblica di Palermo, in risposta a richiesta di notizie formulata il 27 giugno 2012 dall’Avvocato Generale dello Stato, ha riferito che, “questa procura, avendo già valutato come irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica in atti diretta al Capo dello Stato non ne prevede alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l’osservanza delle formalità di legge”; Preso atto altresì che (...) il procuratore della Repubblica ha ulteriormente affermato (...) che “in tali casi alla successiva distruzione della conversazione legittimamente ascoltata e registrata si procede esclusivamente previa valutazione della irrilevanza della conversazione stessa ai fini del procedimento e con la autorizzazione del gip, sentite le parti”; Considerato che la procura di Palermo, dopo aver preso cognizione delle conversazioni, le ha preliminarmente valutate sotto il profilo della rilevanza e intende ora mantenerle agli atti del procedimento perché esse siano dapprima sottoposte ai difensori delle parti ai fini del loro ascolto e successivamente, nel contraddittorio tra le parti stesse, sottoposte all’esame del giudice ai fini della loro acquisizione ove non manifestamente irrilevanti; Ritenuto che, a norma dell’articolo 90 Cost. e dell’art. 7 legge 5 giugno 1989, n. 219, salvi i casi di alto tradimento o attentato alla Costituzione (...) le intercettazioni di conversazioni cui partecipa il Presidente della Repubblica, ancorché indirette od occasionali, sono da considerarsi assolutamente vietate e non possono quindi essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione; Osservato che comportano lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione, l’avvenuta valutazione sulla rilevanza delle intercettazioni ai fini della loro eventuale utilizzazione (investigativa o processuale), la permanenza delle intercettazioni agli atti del procedimento e l'intento di attivare una procedura camerale che – anche a ragione della instaurazione di un contraddittorio sul punto – aggrava gli effetti lesivi delle precedenti condotte; Rilevato che “È dovere del Presidente della Repubblica di evitare si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce” (Luigi Einaudi) (...) Decreta la rappresentanza del Presidente della Repubblica nel giudizio per conflitto di attribuzione.

il Fatto 17.7.12
Conflitto Napolitano
Il Capo dello Stato all’attacco della Procura siciliana

Chiede alla Consulta di distruggere le sue intercettazioni
di Eduardo Di Blasi


Anche per Giorgio Napolitano è arrivato il momento del “non ci sto”. Con decreto della Presidenza della Repubblica, ieri, il Capo dello Stato ha infatti dato incarico all’Avvocatura dello Stato di sollevare conflitto di attribuzione nei confronti della Procura di Palermo. Motivo: le intercettazioni non ancora trascritte che sono allegate al processo sulla trattativa Stato-mafia e che vedono registrata la voce di Giorgio Napolitano mentre parla al telefono con l’ex presidente del Senato Nicola Mancino. Per il Quirinale quelle intercettazioni devono essere distrutte immediatamente, senza attendere di essere portate al vaglio delle difese degli imputati e del giudice.
In quel passaggio, infatti, rischierebbero di essere catalogate come “non manifestamente irrilevanti” e finire quindi agli atti dell’inchiesta palermitana sui rapporti che intercorsero a cavallo degli anni delle stragi tra lo Stato e la mafia. Non solo. Anche se quei file audio fossero ritenuti “manifestamente irrilevanti”, il loro ascolto ne disvelerebbe il contenuto che finirebbe con ogni probabilità sulle pagine dei giornali. Il Colle non vede dunque che una strada: distruggerle immediatamente.
LO SCRIVE nero su bianco, citando l’articolo 90 della Costituzione (quello per cui il Presidente della Repubblica non è responsabile per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni e può essere processato solo per l’alto tradimento o l’attentato alla Costituzione) e la legge 219 del 5 giugno 1989 che norma i reati ministeriali e quelli riguardanti la messa in stato di accusa del Capo dello Stato. Per intercettare il Presidente della Repubblica, è scritto nel comma citato dal Colle, si dovrebbe attendere “che la Corte costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica” (e ciò avviene solo dopo che lo stesso sia posto in stato di accusa). E poco importa – questa è la postilla presidenziale – che il Presidente sia intercettato direttamente o indirettamente, come è nel caso delle conversazioni con Mancino.
“Le intercettazioni di conversazioni cui partecipa il Presidente della Repubblica – è scritto nel documento in cui il Quirinale mette nelle mani dell’Avvocatura la questione – ancorché indirette od occasionali, sono invece da considerarsi assolutamente vietate e non possono quindi essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione”. La trafila di legge, infatti, comporterebbe “lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione, l’avvenuta valutazione sulla rilevanza delle intercettazioni ai fini della loro eventuale utilizzazione (investigativa o processuale), la permanenza delle intercettazioni agli atti del procedimento e l’intento di attivare una procedura camerale che – anche a ragione della instaurazione di un contraddittorio sul punto – aggrava gli effetti lesivi delle precedenti condotte”. La richiesta è suggellata dalla citazione di Luigi Einaudi: “È dovere del Presidente della Repubblica di evitare si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”.
LA POLITICA tutta plaude all’atto della Presidenza della Repubblica. L’unica voce contraria è quella del leader Idv Antonio Di Pietro: “Ci auguriamo che nessuno, qualunque carica rivesta, interferisca con l’Autorità giudiziaria nell’accertamento della verità”. Tra chi, come il Pdl, ne trova ragione per rispolverare leggi bavaglio e rinnovare anche la giustezza del conflitto di attribuzione che l’allora premier Silvio Berlusconi sollevò nei confronti della Procura di Milano sul caso Ruby (ma il Capo dello Stato rivendica poteri suoi propri, quelli scritti nell’articolo 90 della Costituzione, di cui il presidente del Consiglio non dispone) e chi come l’Udc Casini parla di “atto di responsabilità che solo gli analfabeti possono fraintendere”, registriamo la posizione del ministro della Giustizia Paola Severino: “Il Capo dello Stato ha usato il mezzo più corretto”. Ora, dunque, è tutto in mano all’avvocatura. Per mettere a punto il complesso ricorso si stima che si arriverà a settembre.

il Fatto 17.7.12
Intervista a Gerardo D’Ambrosio
“Il Presidente non è al di sopra delle leggi”
di M. L.


La Procura di Palermo ha rispettato la legge e io al loro posto avrei fatto esattamente lo stesso. Parola di Gerardo D’Ambrosio, 71 anni, senatore della Repubblica nel gruppo Pd. Fu proprio l’allora Procuratore aggiunto di Milano il protagonista del caso invocato come precedente dalle due parti in causa. A favore della distruzione delle telefonate dai giuristi di complemento del Colle. A favore della liceità dell’intercettazione indiretta del Capo dello Stato, dal Procuratore aggiunto Antonio Ingroia. E il verdetto di D’Ambrosio è netto: “Da ex magistrato dico che non esiste una norma che permetta di fare quello che chiede il Quirinale. Non solo. Da politico io sarei contrario a introdurla”.
Senatore D’Ambrosio, lei è stato eletto con i Ds, lo stesso gruppo dal quale proviene il Capo dello Stato ma si occupò del caso nel quale fu intercettata nel 1993 la telefonata tra il presidente Scalfaro e il banchiere Carlo Piantanida. Secondo alcuni politici e giuristi vicini al presidente quel precedente avrebbe imposto la distruzione delle telefonate nel caso Mancino-Napolitano.
Noi depositammo la telefonata perché non esiste una norma che permetta di distruggere le telefonate senza nemmeno sentire le parti. Questa norma non c’era allora e non c’è nemmeno adesso.
Eppure il Quirinale ieri ha emanato un decreto per sostenere che le telefonate del Capo dello Stato, secondo la Costituzione che ne prevede l’immunità, devono essere distrutte tutte, anche quelle intercettate sul telefono di un altro soggetto che parla con il presidente.
Se l’orientamento è questo dovrebbero fare una legge per stabilire che le conversazioni del presidente della repubblica non sono intercettabili né utilizzabili mai, anche se indirette.
Lei oggi è un politico. Come vedrebbe una legge che introducesse il divieto di intercettazione anche indiretta delle conversazioni del Capo dello Stato?
Voterei contro. Secondo me sarebbe eccessivo. L’immunità del presidente riguarda solo la sua non punibilità. La sua immunità da intercettazioni indirette mi sembrerebbe troppo.
Anche allora però il ministro Flick diede ragione all’ex presidente Cossiga e ad altri che fecero interrogazioni contro la sua Procura di Milano sostenendo si trattasse di un illecito.
Quell’interpretazione si basava sul fatto che il presidente della repubblica non è punibile. Ma non c’entra nulla. Il problema è che qualsiasi intercettazione telefonica, anche quella con il Capo dello Stato, può essere usata anche dalla difesa per difendere l’imputato e quindi si possono distruggere solo davanti al gip, nel contraddittorio tra difesa e accusa.
Cosa avrebbe fatto al posto del Procuratore capo Francesco Messineo? Avrebbe distrutto tutto come chiede il Colle?
Anche io non farei nulla del genere senza un cambiamento delle norme.
Secondo Eugenio Scalfari bisognerebbe addirittura interrompere la registrazione appena compare la voce del Capo dello Stato
La regola è un’altra e non si vede perché non debba essere applicata a un’intercettazione indiretta del Capo dello Stato. La legge è uguale per tutti.
Perché allora il Presidente si ostina in questa interpretazione?
Evidentemente ha tenuto conto dell’affermazione del ministro Giovanni Maria Flick, ma quella è un’interpretazione di un politico, autorevole quanto si vuole, che non è vincolante sotto il profilo giuridico per il magistrato. m.l.

il Fatto 17.7.12
Palermo non ci sta: “Regole rispettate”
I procuratori Ingroia e Messineo: ci accusano di aver violato la legge, non era mai successo
di Marco Lillo


Proprio mentre Salvatore e Rita Borsellino, nel consiglio comunale di Palermo, presentavano assieme al sindaco Leoluca Orlando le celebrazioni del ventennale della strage di via D’Amelio, con un tempismo infelice il Presidente della Repubblica decideva di portare sul banco degli imputati i magistrati che stanno indagando sui moventi della strage e la trattativa Stato-mafia. A quei magistrati Giorgio Napolitano contesta davanti alla Corte Costituzionale un comportamento gravissimo: l’invasione di campo ai danni del Capo dello Stato nel-l’inchiesta sulla trattativa.
MAI IL QUIRINALE era sembrato più lontano da Palermo di ieri. Mentre la famiglia Borsellino presentava un programma di commemorazioni che è tutto un abbraccio ai magistrati “da onorare e proteggere mentre sono vivi”, il Quirinale rendeva pubblico un decreto pieno di “premesso che” nel quale si contesta formalmente un comportamento “vietato” dalla legge: avere osato ascoltare la voce del Capo dello Stato mentre parlava con il suo amico intercettato, Nicola Mancino. Il decreto della Presidenza della Repubblica nel quale si cita addirittura Luigi Einaudi come ispiratore di un atto formale che potrebbe avere conseguenze disciplinari e persino penali contro quei magistrati che si sono impegnati per anni nella ricerca della verità sugli anni più bui della Repubblica, è stata accolta come una fucilata alla schiena, un fuoco amico inatteso e ancora più pericoloso perché non arriva dalle retrovie, ma dall’alto. Dal Colle più alto.
Dopo un iniziale sbandamento, e una serie di riunioni concitate con i suoi sostituti, il Procuratore capo Francesco Messineo ha incontrato ieri la stampa per gettare acqua sul fuoco: “Prendiamo atto della posizione della Presidenza della Repubblica”, ha detto il procuratore, “ma a mio parere tutte le norme che sono poste a tutela del presidente della Repubblica sono state rispettate dalla Procura di Palermo”. Messineo è stretto tra l’incudine del Quirinale e il martello della rivelazione di segreti d’indagine. Messineo non può ammettere l’esistenza delle intercettazioni telefoniche Mancino-Napolitano che invece spavaldamente il Quirinale afferma all’indicativo nel suo comunicato. Gli audio delle telefonate tra il presidente e il preoccupatissimo ex ministro dell’Interno non sono infatti ancora stati depositati e sono segreti perché non fanno parte dell’inchiesta chiusa, quella che riguarda Mancino, Mannino, Dell’Utri e gli altri. Bensì sono contenuti nel fascicolo dell’indagine “madre”, di cui quella appena chiusa è un ampio stralcio.
PER QUESTA RAGIONE Messineo, alla richiesta del Quirinale di notizie sull’esistenza di quelle conversazioni, non ha potuto fare altro che rispondere “ove esistessero sarebbero irrilevanti”. Non poteva scrivere di più perché avrebbe commesso una violazione del segreto, su istigazione del presidente della Repubblica e del Csm, un assurdo politico prima ancora che giuridico. Ecco perché ieri Messineo con i cronisti era costretto ai salti mortali: “Ove esistessero queste intercettazioni sarebbero occasionali e pertanto non sono state preordinate nei confronti della personalità coperta da immunità. Solo in quest’ultimo caso sarebbero certamente illegali”. Messineo si dice sereno e quasi curioso di vedere come si risolverà il dibattito dottrinale. La questione è molto delicata. In Procura, appena spariscono i taccuini, la delusione e la rabbia si taglia col coltello: il capo dello Stato li accusa di aver violato la legge. E’ la prima volta nella storia della Procura di Palermo.
Quando Messineo comincia a spiegare che si tratta di una materia spinosa, quasi senza precedenti, il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, presente nella stanza e silenzioso fino a quel momento, fa notare che “un precedente c’è: nel 1997 uscì sui giornali un’intercettazione dell’allora presidente Oscar Luigi Scalfaro che, come in questo caso, era stata intercettata su un’altra utenza. E allora fu trascritta e depositata”.
Ed è proprio questo il pomo della discordia: il caso Scalfaro. Anche se non lo cita espressamente, è chiaro che il Quirinale invoca il medesimo precedente ma per sostenere la tesi inversa: l’illegittimità dell’intercettazione telefonica Mancino-Napolitano. L’allora capo dello Stato nel novembre del 1993 fu intercettato dalla Procura di Milano, allora diretta da Francesco Saverio Borrelli, mentre parlava con l’allora presidente della Banca Popolare di Novara, Carlo Piantanida, intercettato dalla Guardia di Finanza. Quattro anni dopo, quando la trascrizione fu pubblicata da Il Giornale dei Berlusconi, scoppiò un putiferio politico. L’ex presidente Francesco Cossiga, spalleggiato da alcuni esponenti del centrosinistra come Cesare Salvi, sostenne che il presidente non può mai essere intercettato nemmeno in via indiretta e il ministro della Giustizia di allora, Giovanni Maria Flick, poi nominato nel 2000 da Ciampi giudice costituzionale e dal 2008 al 2009 promosso presidente della Corte, disse in Parlamento: “I magistrati non hanno violato alcuna norma, anche se la procedura seguita non appare in linea con i principi della Costituzione a tutela del Presidente della Repubblica”. Flick, con oratoria un po’ cerchiobottista, da un lato non ravvisò nella condotta dei magistrati “aspetti di macroscopica inosservanza delle disposizioni di legge o di loro abnorme interpretazione”. Dall’altro sottolineò però che esiste nel nostro ordinamento un “assoluto divieto di intercettazione telefonica” nei confronti del presidente della Repubblica a tutela delle sue prerogative. Tuttavia aggiunse Flick, oggi presidente del San Raffaele questo principio “è frutto di un’interpretazione sistematica e non trova riferimenti letterali nella normativa codicistica”. Dopo quella polemica politica però nessuno in Parlamento fece nulla per cambiare la legge ed è con quelle norme che la Procura di Palermo ha ritenuto di potere intercettare le telefonate di Mancino in cui si sente la voce di Napolitano.
A taccuini chiusi, in Procura si fa notare che “non esiste alcuna norma che preveda la procedura di distruzione invocata dal decreto del presidente, cioé su richiesta del pm e con l’accordo del gip, ma senza sentire le parti”.
Lo dimostra il fatto che il Presidente – fanno notare fonti vicine alla Procura non segue l’interpretazione estrema di Eugenio Scalfari. Secondo il fondatore di Repubblica, appena udita la voce del Presidente, la polizia giudiziaria avrebbe dovuto addirittura interrompere la registrazione. Per Napolitano invece l’audio poteva essere registrato, ma non trascritto e andava immediatamente distrutto con decreto del gip. Anche se la legge non lo prevede: purché nessuno lo ascolti prima.

il Fatto 17.7.12
Divisi alla meta, il Pd delle “beghe”
I matrimoni gay sono solo l’ultima delle spaccature interne
di Wanda Marra


Trentotto voti rappresentano il 30 per cento circa dei votanti di sabato all'Assemblea del Pd. E non il 95% come dice la Bindi”. Il lunedì dopo la lite plateale sui matrimoni gay (ma anche sulle primarie) all’Assemblea delle tessere restituite e dello scontro frontale tra Rosy Bindi e la componente Marino-Concia la battaglia si sposta sui numeri: “I presenti erano circa 370 di cui almeno 150 invitati, ma senza diritto di voto. E neppure dei 120 aventi diritto di voto tutti hanno votato”. I 38 “perdenti”, quelli che hanno detto no al documento ufficiale sulle unioni omosessuali, hanno già chiesto una direzione ad hoc. L’ennesima “bega” interna del Partito democratico, per dirla con Bersani che sabato dal palco ha redarguito i delegati “il paese non ne può più”. Per una volta, ieri, il segretarioavràringraziatoGrillo: lasua uscita contro la Bindi è stata così forte, da costringere tutto il partito a schierarsi con lei.
Effettivamente, da quando ha visto la nascita non c’è tregua dentro il Pd. Condannato a litigare su tutto, a logorare ogni leader, a spaccare il capello in quattro nella migliore delle ipotesi, a contrapporsi frontalmente nella peggiore. Tra lotte di posiziona-mento tra correnti e battaglie di merito. Da quando è in carica Monti non c’è stato tema sul quale i Democratici sono andati diritti verso la stessa meta.
Il governo Monti doveva essere un’esperienza per traghettare l’Italia fuori dalla crisi. Almeno per Bersani e per l’ala sinistra del partito, capeggiata da Stefano Fassina e Matteo Orfini. Per altri, Enrico Letta in primis (ma pure per la minoranza interna, Veltroni, Gentiloni e via dicendo), era il governo ideale, un’esperienza riproducibile anche dopo il voto. Contraddizione che non si è risolta, ma è andata peggiorando. D’Alema sabato ha parlato di stare con Monti oltre Monti: una posizione simile a quella dei 15 che hanno firmato la lettera al Corriere chiedendo di portare l’agenda del Prof. anche dopo il 2013. “Metafisica” secondo il segretario.
Sull’economia in senso stretto si sono consumate le liti peggiori. Fassina, nella vita responsabile economico del partito, non si è fatto mancare occasione per criticare la linea di rigore della Bce. Per spiegare le sue posizioni opposte a quelle dell’esecutivo in cui è in maggioranza ha anche scritto un saggio (Il lavoro prima di tutto). Posizioni simili a quelle espresse da Orfini nel libro appena uscito, Con le nostre parole. I due denunciano il perverso meccanismo innescato in modo doloso dal mondo della finanza. Ma mentre Fassina sparava a zero contro la Bce, Letta insisteva sulla necessità di seguirne le ricette. A novembre, i liberal del partito, si sono spinti a chiedere al segretario la testa del responsabile economico democratico. Per restare in Italia, da una parte c’è la linea Cgil, con la sua difesa del lavoro garantito e dell’articolo 18, capeggiata ancora una volta da Fassina e Orfini, ma pure da Damiano e da Enrico Rossi, pronta a scendere in piazza contro l’esecutivo all’occorrenza, dall’altra la linea Fornero, Pietro Ichino in testa, che di diventare ministro del Lavoro ci aveva creduto. Se la linea Cgil si è schierata contro l’articolo 18 senza se e senza ma, Ichino ha portato avanti una linea opposta, con la sua “flexsecurity” e i contratti a tempo indeterminato per tutti, ma nessuno inamovibile. Sulle sue posizioni, anche Letta e i lettiani. Ichino e Fassina hanno litigato anche la settimana scorsa sulla concertazione.
I temi etici sono un vecchio problema: sul matrimonio gay il Pd si è spaccato sabato. Ma da sempre si va da un’area cattolica, capeggiata da Fioroni, contraria alla fecondazione assistita, al testamento biologico, al riconoscimento delle unioni di fatto anche per gli eterosessuali, all’area laica che di queste questioni fa una bandiera.
E poi ci sono le questioni più “politiche ” in senso stretto. La proposta del Pd sulla legge elettorale ufficialmente è il maggioritario a doppio turno. Sulle preferenze però il partito è diviso. Da chi è fermamente contrario come Franceschini a chi invece le vuole comeFioroni, passandoperipossibilisti alla Letta. Fino a che non si decide sul sistema elettorale, non si scioglie il nodo primarie. Tutti le chiedono, nessuno le vuole. Tranne Bersani, al quale servono per blindare la sua leadership, che però non riesce a in-dirle. Renzi le chiede a gran voce, ma a questo punto le teme più di quanto non le voglia. In tema di alleanze, le carte si mescolano ancora: Bersani vuole un asse che vada dall’Udc a Sel, Fassina, Or-fini e Andrea Orlando sognano una coalizione spostata verso sinistra, con Sel e Idv, tutta l’area montiana l’Idv lo vede come fumo negli occhi e Sel lo sopporta male. Per alcuni, su tutto meglio le larghe intese. Infine Grillo: subito dopo le amministrative, i vertici si erano mostrati quanto meno curiosi. Poi è arrivato Letta con il suo “meglio votare Pdl”.

il Fatto 17.7.12
Diritti, le sfide perse dal Pd
di Marco Politi


Sono bastati pochi minuti per trascinare il “Partito che ancora non c’è”, il Pd, in una guerra civile con effetti disorientanti e dilaceranti anche sull’opinione pubblica. (Con un’inutile postilla di volgarità berlusconiana made in Grillo). Colpa del vecchio vizio Pci di immaginare una “sintesi” prevalente sul confronto negli organi assembleari, colpa dell’antico vizio democristiano di pensare alle leggi eticamente sensibili sotto la costante preoccupazione di non dispiacere alla gerarchia ecclesiastica.
Non è questo il partito che voleva l’opinione progressista, quando si profilò l’unione delle forze di tradizione socialista con i cattolici democratici e i liberaldemocratici riformisti. Quello che tanti si aspettavano (e si aspettano – ed è perciò che il Pd non compie quel balzo in avanti nei sondaggi possibile dopo il fallimento del berlusconismo) è un partito laico e progressista. Dove sui diritti civili si decide alla luce del sole, lasciando che le opzioni presenti nell’opinione pubblica si esprimano e vengano pesate in piena libertà. Ha ragione Rosy Bindi a ritenere che la sua mozione rappresenti un notevole passo in avanti rispetto al pasticcio dei Dico. Ma è il punto di partenza a essere basso: l’aver ceduto a suo tempo al ricatto di Rutelli e di Paola Binetti, che impedirono all’Ulivo di battersi con convinzione per l’affermazione di una legge sulle unioni civili, battendo in ritirata dinanzi all’offensiva del cardinale Ruini.
È comprensibile che vi siano nel Pd, come nel Paese, quanti ritengono che culturalmente e storicamente il concetto del “matrimonio” si sia forgiato nella visione di un nucleo familiare formato da genitori e figli. Ma proprio per questo bisogna lasciare che le diverse proposte si confrontino nel voto assembleare. Paola Concia, nell’esigerlo, ha dietro di sé tutta l’opinione democratica. Non a caso, sabato scorso, un vecchio lupo di assemblee, come l’ex segretario della Cisl Franco Marini, mormorava irritato durante la bagarre in casa Pd che era infantile non mettere al voto le diverse mozioni.
La Costituzione, sia detto per inciso, non c’entra niente. Tutte le costituzioni dell’Ottocento (quelle americane risalgono addirittura al Settecento) sono state scritte nel solco del matrimonio tradizionale, ma questo non blocca l’evoluzione del sentire comune. Semmai la Costituzione impegna giustamente a favorire con ogni mezzo la cellula sociale costituita intorno alle giovani generazioni.
Ma soprattutto, il Pd deve uscire dal guado e rendersi conto fino in fondo che la società italiana ha maturato in questi anni una serie di convincimenti non ideologici, ma molto precisi, sul nascere, il vivere insieme, il fine vita, che sono sideralmente lontani dai diktat vaticani. Non aver colto al balzo le integrazioni della mozione di Ignazio Marino sulla chiara equiparazione di trattamento giuridico delle coppie etero e omosessuali, sulla necessità di rielaborare la legge sulla fecondazione artificiale e sul pieno diritto del paziente di decidere lui – e solo lui – l’interruzione dei trattamenti di nutrizione e idratazione artificiali, è stato un grave errore.
Laici e cattolici hanno un enorme campo di collaborazione dinanzi a sé. Da una seria politica per gli immigrati alla salvaguardia del lavoro e dei suoi diritti, alla visione di un’economia globalizzata dal volto umano, alla tutela della famiglia fino alla non commerciabilità degli embrioni e del corpo umano.
Sulle questioni dei diritti e sui temi della vita e della morte e delle relazioni personali gli italiani e gli stessi cattolici del quotidiano, gelosi della loro libertà di coscienza, chiedono chiarezza. Quel “Sì, sì (o) no, no” che risuona nelle pagine del Vangelo.

il Fatto 17.7.12
Intervista a Ignazio Marino
“È un partito poco democratico”
di Caterina Perniconi


Ho detto ai delegati vicino a me: ‘state calmi, si sta alzando, vedrete che ora si vota’ e invece non ha detto nulla. Sono rimasto deluso, Bersani doveva farci votare”. Ignazio Marino è uno degli estensori del documento integrativo sui diritti civili che sabato la presidenza dell’assemblea del Partito democratico ha impedito di votare.
Lei al posto di Bersani che avrebbe fatto?
Avrei preso in mano la situazione e avrei detto: ‘votiamo! ’
E perché non è successo?
Forse non se l’aspettava.
O perché c’è un deficit di democrazia nel Pd?
Di sicuro da quando faccio parte dell’assemblea non è mai stato votato un ordine del giorno che ho presentato. Mi sembra un partito poco democratico.
Che cosa temono?
La paura è che i delegati possano radicalizzare le opinioni del partito. Però queste persone sono state elette con le primarie, rispecchiano il vero Pd.
Ma se come dice la Bindi i
contrari erano 38 su 1000...
Ma quali mille? Il diritto di voto tra i presenti lo avevano in pochi. E poi basta cercare su Google la formula matematica per calcolare quante persone stanno in un metro quadro ed è chiaro che in quella sala non erano mille.
Quanti erano?
Questo avrebbe dovuto dircelo una presidente corretta dell’assemblea. Alla Camera la Bindi conta 5 numeri quando presiede l’aula: presenti, vo-tanti, favorevoli, contrari e astenuti. In questo caso abbiamo saputo solo i contrari.
Ma se i numeri sono questi, perché non votare l’altro documento?
Perché se votavamo entrambi, entrambi passavano all’unanimità.
Anche con il voto di Fioroni?
Al massimo due o tre contrari, non di più.
E così avremmo avuto un Pd favorevole ai matrimoni gay.
Quella parola non c’è da nessuna parte. Da un lato c’è un dotto ed elegante documento, da l’altro un’integrazione con parole più chiare del primo.
Quindi alla fine è stato un boomerang per il partito.
Con una diversa conduzione dell’assemblea i giornali non avrebbero avuto nulla di cui parlare.
Ci riproverete?
Al più presto.
Bersani che ne pensa?
Se sottoponessimo al segretario le singole frasi del documento, dalla parità tra etero e gay, al diritto delle persone di scegliere il trattamento sanitario, direbbe sempre che è giusto. Quindi dov’è il problema?
Già, dov’è?
É che c’è qualcuno, che non è Bersani, che ha voluto una gestione approssimativa dell’assemblea per non tracciare nessun perimetro chiaro.
La soluzione?
Referendum tra gli iscritti sui temi sensibili. Sono pronto ad accettare la sconfitta, se ci fosse.
É vero che Fini ha fatto di più del Pd?
Fini ha posizioni nette e le ha sempre espresse.
Si sente un estremista nel suo partito?
Per carità, mi sento un moderato. In America sarei quasi considerato un conservatore, Mitt Romney chiede adozioni per madri single e coppie gay, nel solo interesse dei bambini.

Repubblica 17.7.12
I diritti civili, tema centrale
di Rosy Bindi


Caro direttore, per il Pd i diritti civili non sono affatto un frutto proibito, come pensa Adriano Sofri. Al contrario, sono un tema centrale della nostra identità culturale e politica. E mi sembra doveroso, anche se per punti schematici, ristabilire la realtà dei fatti sul nostro dibattito interno.
1) Il Comitato diritti, istituito dall’Assemblea nazionale, aveva un mandato circoscritto e chiaro. Il nostro compito non era quello di surrogare la discussione nelle sedi di partito ma fornire un meditato contributo di cultura politica.
2) Abbiamo lavorato per un anno e mezzo sapendo di dover elaborare un documento di principi. Non dovevamo fare un elenco di proposte di legge o stilare il manifesto della prossima campagna elettorale.
3) Il documento conclusivo è stato licenziato con un consenso generale e alcuni distinguo su questo o quel punto, ma con l’accordo che vi fossero le condizioni per consegnarlo al segretario. Non tutti hanno partecipato con la stessa dedizione, ma tutti coloro che hanno suggerito modifiche hanno trovato ascolto. Per tutti si è trattato di un “lavoro serio”, di un oggettivo “passo avanti” che aveva registrato “larghe convergenze”.
4) D’intesa con il segretario, l’odg dell’Assemblea prevedeva l’approvazione del nostro documento, come per tutti i documenti sul progetto del Pd.
5) Alla vigilia dell’Assemblea, alcuni membri del Comitato hanno scritto un testo concepito come integrativo che tuttavia è stato interpretato, anche da Sofri, come alternativo nel merito e nel metodo. Vi figuravano questioni che non erano state discusse (modifica della Legge 40) o non rientravano nel nostro mandato (rappresentanza sindacale). Si riformulavano affermazioni ampiamente motivate (unitarietà dei diritti sociali, civili e politici).
6) Non è vero che si sarebbe convenuto (e comunque non sarebbe stato corretto) di mettere sullo stesso piano i due documenti, l’uno lungamente discusso e licenziato da tutti, l’altro stilato poche ore prima senza che i membri del Comitato avessero avuto modo di conoscerlo e di discuterlo. E neanche i sette firmatari hanno mai avanzato la richiesta.
7) Sofri chiama “cavilli” quelle che io chiamo regole e che funzionano in tutte le assemblee deliberative. Per le regole non c’è un momento giusto e uno sbagliato. Altrimenti non sarebbero regole. Noi le abbiamo rispettate. Abbiamo votato il documento, tenendo conto del contributo nel quale si registravano i distinguo, e rinviando alla Direzione e ai Gruppi parlamentari gli impegni programmatici e le iniziative legislative. E non sono stati votati gli ordini del giorno che contraddicevano ciò che 700 persone avevano appena approvato, con 38 voti contrari.
8) I temi affrontati non sono riconducibili alla questione cattolica e trascendono la discriminante laici-cattolici. Ma chi fa politica e come il Pd si candida a governare l’Italia anche per superare un insostenibile bipolarismo etico, ha il dovere di interpellare tutte le coscienze. Tanto più quando si propone una larga alleanza tra progressisti e moderati per ricostruire il Paese, dopo un lungo degrado materiale e morale. Non è politicismo, non è spirito compromissorio, ma cultura di governo e senso dello Stato inteso, alla stregua dei Costituenti, come casa comune. L’opposto degli ideologismi e del giacobinismo.
Presidente dell’Assemblea nazionale del Pd

Gentile, continuerò volentieri la discussione con lei. Intanto avevo interpellato una mezza dozzina di componenti del Comitato da lei presieduto. Non mi pare che, come lei pensa, il testo proposto accanto al documento del Comitato fosse “antagonistico”. E mi pare che fosse appropriato a quello che si proponeva, che era anche di impedire che l’assemblea finisse a rotoli.
(a. s.)

l’Unità 17.7.12
Il leader Pd accelera sulla «carta d’intenti» e chiama Vendola
Il governatore: «Nel programma pieni diritti»
Casini: «Unioni civili? Si vota secondo coscienza»
di Simone Collini


ROMA Bersani accelera sulla definizione della «carta d’intenti». Il testo definitivo, quello che dovrà essere sottoscritto da chi intende far parte della coalizione progressista e partecipare alle primarie per la premiership, sarà pronto in autunno. Ma la prossima settimana il leader Pd presenterà la sua proposta, che nell’impianto rispecchierà i punti programmatici e valoriali anticipati all’Assemblea nazionale di sabato: «lavoro al centro», equità, redistribuzione, conflitto di interessi, riequilibrio del carico fiscale, beni comuni, sviluppo sostenibile, orizzonte europeo, parità di genere, diritti civili e di cittadinanza. L’intenzione di Bersani è di discutere poi questa proposta nel corso dell’estate, al fine di arrivare ad ottobre con un testo condiviso, non solo con le altre forze politiche e con rappresentanti di liste civiche sparse su tutto il territorio nazionale, ma anche con associazioni, movimenti, parti sociali.
Il primo incontro in agenda è per i prossimi giorni, con Vendola. Il leader di Sel sta seguendo con attenzione non solo il confronto interno al Pd ma anche il tentativo di allacciare con l’Udc. «Non ho diffidenza quando persone che hanno storie politiche diverse dalla mia si incrociano con la mia, voglio però sapere qual è la bussola che abbiamo e quale l’orizzonte», dice il governatore pugliese facendo capire che non porrà veti pregiudiziali a un’alleanza con i moderati. Vendola però vuole aprire subito il cantiere programmatico. «Bersani ha fatto un passo in avanti indicando la prospettiva di un nuovo centrosinistra, le primarie per selezionare il candidato premier e la necessità di una nuova strategia politica, economica e sociale», dice riferendosi all’Assemblea Pd il leader di Sel. Che però è critico sia col no alle nozze per le coppie gay che con il sì del Pd alla riforma del lavoro: «Quello che voglio dire a Bersani è che nel programma di governo non possiamo mettere mezzi diritti. Si deve ripristinare l’articolo 18 e dire sì al matrimonio per le coppie gay».
Le nozze tra coppie omosessuali difficilmente però passeranno. Perché tra gli stessi Democratici il fronte contrario è ampio e perché Bersani è convinto che un punto di incontro con l’Udc sia possibile soltanto sulla base del documento messo a punto dal Comitato diritti del Pd. Casini è favorevole al riconoscimento di precisi diritti per le coppie conviventi, senza preclusioni di genere, ma ha anche fatto sapere che per lui un tema del genere rientra tra quelli «eticamente sensibili». Su cui, sottolinea fin d’ora il leader centrista, «non si creeranno alleanze politiche» e quindi i parlamentari dovranno essere liberi di votare «secondo coscienza».

l’Unità 17.7.12
È ora di un progetto comune della sinistra italiana
Dobbiamo essere europeisti e federalisti. Vanno unite esperienze diverse
di Felice Besostri

Portavoce del Gruppo di Volpedo

A GENOVA 120 ANNI FA, TRA IL 14 E IL 15 AGOSTO, FU FONDATO IL PARTITO DEI LAVORATORI ITALIANI, IN SEGUITO PSI. LA FORMAZIONE DEL PARTITO DELLA CLASSE OPERAIA in Italia avvenne in ritardo rispetto ad altri Paesi europei ma prima della nascita di quelli britannico e francese: la sua fondazione è merito di politici come Filippo Turati e Anna Kuliscioff e intellettuali come Antonio Labriola, ma anche dello sviluppo di circoli socialisti, società operaie, cooperative e associazioni di mutuo soccorso presenti in tutto il Paese.
I rappresentanti di 300 di essi convennero nella Sala Sivori e diedero vita a un nuovo soggetto politico, pagando il prezzo della separazione dagli anarchici.
Il primo obiettivo, quindi, è una ricomposizione dei suoi filoni ideali (nel senso indicato da Edgar Morin nel suo saggio «Ma Gauche»), che si riallacci a quel momento fondativo.
Lo stato attuale della sinistra italiana, nei suoi vari filoni storici e ideali, è preoccupante e una prospettiva di conquista di una maggioranza parlamentare con suoi esponenti e programmi appare lontana.
Da questa particolarità tutta italiana vorrebbero partire le nostre riflessioni su questo anniversario. Non siamo storici, né rappresentanti di istituzioni, quindi non spetta a noi rievocare quel fatto o commemorarlo con lo sguardo rivolto all’indietro ma, nel pieno di una crisi economica, sociale e politica grave e con esiti e durata non prevedibili, pensare a un futuro nel quale non si allunghino soltanto le ombre del presente, ma le luci di una speranza in un mondo diverso.
In un certo senso vorremmo ricominciare da capo e provare a mettere in comune esperienze e ispirazioni ideali, per quanto diverse per elaborare insieme progetti e programmi. Non vogliamo dare vita ad un ennesimo partito, ma lanciare un messaggio a tutti i soggetti politici della sinistra esistenti affinché si rinnovino nei gruppi dirigenti e nei metodi di funzionamento, affinché tornino ad essere ra-
dicati nella società e non casta isolata dal popolo. Nella ricomposizione della sinistra dobbiamo avere valori condivisi. Libertà e socialismo sono inscindibili. Ne discende che la democrazia è il solo metodo accettabile per la conquista e la gestione del potere. Tuttavia, non c’è socialismo senza una critica del sistema economico e sociale esistente, cioè senza un’idea che un mondo migliore sia possibile con uomini e donne più liberi e uguali, onorati e rispettati nella loro dignità e con diritto alla loro parte di felicità. La democrazia non si riduce a elezioni con regolare periodicità: la democrazia è incompleta senza partecipazione popolare di cittadini informati e con le stesse possibilità di influire sulle decisioni finali, senza privilegi o discriminazioni per nessuno per ragioni di razza, di lingua, di credo religioso, di relazioni personali e di condizione economica e sociale.
Nello Stato nazionale la democrazia e la protezione sociale hanno raggiunto le conquiste più avanzate, la necessaria integrazione sovranazionale non può essere pretesto per arretramenti, per queste ragioni la sinistra deve essere europeista e federalista: proprio per salvaguardare queste conquiste storiche, cui il movimento dei lavoratori ha dato un decisivo contributo e che sono parte dell’identità europea, come le forme di economia mista e un ruolo dello Stato nell’economia e dei poteri pubblici democraticamente legittimati nel suo controllo.
La dimensione europea richiede una sinistra che faccia parte di partiti politici europei sovranazionali con una effettiva affinità politica, ideale, valoriale, progettuale e programmatica. In questo contesto è il campo del socialismo europeo, come la maggior forza progressista esistente, quello cui partecipare a pieno titolo e comunque cui guardare prioritariamente.
Dobbiamo essere una sinistra che contribuisca a mettere in relazione tra loro tutte le forze di sinistra e ambientaliste, che condividano un progetto di Europa soggetto di pace e cooperazione in un mondo multipolare con un grado di sviluppo equilibrato e sostenibile.

l’Unità 17.7.12
Roma, Zingaretti è in campo «Pronto a sfidare Alemanno»
Nel cuore di Trastevere ieri sera l’evento per festeggiare i quattro anni alla guida della Provincia
«Concluso questo mandato sono a disposizione per aiutare la città a voltare pagina»
di Mariagrazia Gerina


In un angolo Alfredo Reichlin ed Ettore Scola discutono del futuro della città eterna. «Speriamo che questa stagione sia finita», si augura il regista, intonando il de profundis sulla Roma di Alemanno.«Non sono mai stato pessimista», si schermisce Riechlin, «le energie per cambiare ci sono, manca la testa». Ecco, Zingaretti, per esempio, andrebbe benissimo, assicurano i due anziani testimonial. Mentre attorno è tutto un via vai, di donne con i passeggini, giovani, anziani. La «festa popolare» di Nicola Zingaretti, futuro candidato sindaco della capitale, può cominciare. A dire il vero, nel cuore di Trastevere, a piazza San Cosimato, restituita ai bambini e alle mamme, con parco giochi e il mercato sullo sfondo, si festeggiano i quattro anni di governo della Provincia di Roma, prossima a cedere il passo alla nuova area metropolitana. «Ne abbiamo combinate di tutti i colori», recita la brochure (stampata con i soldi della fondazione «Spazio alle Idee», s'intende, e non con quelli pubblici della Provincia) che ripercorre le cose realizzate fin qui. Il wi-fi gratuito, i pannelli solari sulle scuole, i parchi-gioco, la raccolta differenziata “porta a porta”, che quattro anni fa era un esperimento per pochi (25mila persone) e ora ha raggiunto quasi un milione di abitanti, il centro per l’impiego, nel cuore del quar-
tiere Testaccio, aperto anche la sera per fronteggiare la crisi e il mercato del lavoro, i centri antiviolenza, le attività nelle scuole. Ma anche l’attenzione ai conti, lo sforzo di salvaguardare gli investimenti e pagare i fornitori non oltre i 60 giorni.
Cose fatte dalla postazione di Palazzo Valentini, ma anche idee su come cambiare la città, una volta riconquistato il Campidoglio. Perché quella ormai per Zingaretti, sempre assai prudente nell’uscire allo scoperto, è una sfida aperta. «Concluso questo mandato, sono a disposizione con la mia candidatura per aiutare Roma a voltare pagina, è tempo di ricostruire un progetto, una comunità, un patto per Roma a partire dalla società civile», ripete davanti a una piazza piena di futuri sostenitori, i comitati di quartiere che ha incontrato in questi mesi, i giovani imprenditori che hanno dato vita a «Vocazione Roma». Pezzi di una città, insofferente e non rassegnata al degrado della capitale – passa anche l'assessore De Palo, della giunta Alemanno, e il montezemoliano Giuseppe Cornetto che già da tempo si è raccolta attorno al futuro candidato sindaco. Un percorso iniziato, a dirla tutta, più o meno il giorno della sconfitta di Rutelli nel 2008, forse anche prima. «Se il centrosinsitra avesse candidato Zingaretti...», era il refrain all’indomani del voto. Di certo, da allora, mentre il Campidoglio andava assomigliando sempre più al ring di un Pdl rissoso e assetato di posti, Palazzo Valentini per molti è diventato una specie di rifugio.
In tutti questi anni, Zingaretti è stato una sorta di antagonista naturale di Alemanno. L’uno invocava l’esercito, per coprire il flop della sua «Roma sicura», l’altro spiegava che far vivere la città era l’antidoto migliore. L’uno faceva di tutto per privatizzare Acea, l’altro difendeva l’acqua «bene comune». L’uno continuava a collezionare indagati di ogni rango tra i suoi collaboratori, l’altro apriva le porte a Libera di don Ciotti. Uno gridava contro i rom, l’altro continuava a lavorare per l’integrazione, i nuovi diritti, contro l’omofobia.
Le cose fatte in questi anni sono state infondo anche il laboratorio di un’altra idea di città, che si vedrà nei prossimi mesi, se vedrà davvero la luce. E se reggerà al giudizio degli elettori. Messi a dura prova da questi anni di amministrazione Alemanno. Ma anche spaventati dalla crisi. Disamorati della politica.
Non a caso, Zingaretti pensa anche a una lista civica che possa traghettare anche i più scettici o estranei alla politica dentro la campagna elettorale. È anche a loro che Zingaretti si rivolge quando dice che vuole aiutare la città a voltare pagina. Non solo con Alemanno e i disastri della sua amministrazione. Ma anche con il passato. Perché riproporre il «modello Roma» come se nulla fosse accaduto, davvero non si può.

il Fatto 17.7.12
Zingaretti sfida il degrado
Il presidente della Provincia ufficializza la sua candidatura contro Alemanno
di Carlo Tecce


Roma Nicola Zingaretti viene dalla Provincia. E la mostra, la racconta e la fa sentire in piazza San Cosimato, quartiere Trastevere, uno slargo tra i vicoli, prima di annunciare la candidatura al Comune di Roma: "È tempo di cambiare, di avere speranza, di condividere un progetto. Voglio fare un programma con milioni di cittadini". Gianni Alemanno è lontano, ultimo incontro di un percorso che inizia con le primarie del Partito democratico: di coalizione o forse no, di centrosinistra o forse no. Il sindaco che Zingaretti vuole spodestare è un colore, nero ovviamente, che Johnny Palomba indossa sul palco. Il nero è il buio, dicono i sostenitori di Zingaretti: ''La città eterna che si spegne e non vuole conoscere l'altro". È quella città, spiega Il regista Ettore Scola, che dimentica la cultura: "Non se magna, non è bona". Questa è la Roma che offre Zingaretti: "Ne abbiamo combinate di tutti i colori. E lo faremo ancora".
QUANDO il presidente s'avvicina al microfono, e il cielo lentamente si fa scuro, non buio, la piazza si stringe con le sue facce ben curate, abbastanza giovani, molto festose. Zingaretti celebra l'amministrazione provinciale, se stesso, ma senza arroganza, e così sublima la metafora del gruppo. Che fa squadra: "Grazie ai lavoratori". Parla di cose serie, la raccolta differenziata, il pagamento del pubblico ai privati, le strade e le opere.
Chi s'aspettava di trovare una macchina elettorale, si sbagliava. Zingaretti frena il suo spirito politico.
Gli scappa soltanto una rivendicazione: "Abbiamo cacciato le destre in tanti paesi". Lui viene dalla Provincia, e la vuole unire al Campidoglio: "Non è vero che siamo destinati al declino. L'abbiamo fatto vedere". Ha un tono pacato, pochi acuti, tanti appunti. Poi alza la voce, come se Alemanno si fosse materializzato davanti, assieme ai romani che non ne possono più, e così scuote la piazza che vuole ascoltare quello che già conosce: "Basta con l'illegalità, le spartizioni di potere, il senso di abbandono. Bisogna andare per le strade. È tempo, allora, di ricominciare, di costruire, di sperare". Ormai Zingaretti ha allentato la camicia, deposto i fogli e anche l'emozione, adesso Alemanno è il suo interlocutore, anche se non viene nemmeno nominato: "Rispettare il prossimo è un diritto e un dovere, a prescindere dal colore della pelle o dell'orientamento sessuale. Dovete pretendere trasporti pubblici funzionanti, ma non dovete parcheggiare in seconda fila".
ZINGARETTI è carico, accerchia il nemico invisibile, l'avversario elettorale, e lo infilza con i peccati che più lo condannano: "Non metteremo i più fedeli nei posti pubblici per servire il principe, sceglieremo i migliori". La piazza non fa in tempo a ricordare quanti amichetti il sindaco ha sistemato, che Zingaretti accende il braciere per l'applauso più convinto: "L'acqua è un bene pubblico. Privatizzare l'Acea è una follia". Per intero, però, lo dice all'ultimo secondo: "Per questi motivi e per voi cittadini, io mi candiderò a sindaco di Roma. Non c'è dubbio. E faremo le primarie". E la signora in abito blu non si trattiene: "Le vinceremo". Zingaretti non ci pensa. Ma già si vede contro Alemanno. “E’ necessario selezionare una nuova classe dirigente per Roma con nuovi metodi. Non vogliamo più i fedeli nei posti di potere per servire il principe, ma i migliori al posto giusto perché così inizia la rivoluzione democratica”, disegna con le parole la città che vuole. Sempre con un occhio a quello che sta accadendo sul piano nazionale. “Non cederò mai all’antipolitica perché sono consapevole che la politica serve ai più deboli contro i più forti. L'antipolitica nasce spesso perchè la politica mostra il suo lato peggiore”, se ne dice certo. “Basta alla politica delle oligarchie alle spartizioni interne, perchè così la città muore. Tutti dobbiamo essere protagonisti e partecipare a un nuova costruzione della città”. Infine l’Acea e la proposta di privatizzare l’acqua. Idea, dice, che “è pura follia perché l'acqua è un bene comune”. La campagna elettorale può cominciare.

Repubblica 17.7.12
A settembre via alla nuova sanatoria un mese per regolarizzare i clandestini
Il datore di lavoro dovrà pagare un contributo di mille euro
di Vladimiro Polchi


ROMA — Lavora per voi una colf irregolare? Occupate in nero un muratore clandestino? La data è fissata. Comincia il conto alla rovescia. Il primo settembre scatta il “ravvedimento operoso” per chi dà lavoro a immigrati senza documenti. È la regolarizzazione 2012: per un mese i datori di lavoro “opachi” potranno uscire dall’illegalità e migliaia di invisibili potranno quindi lavorare alla luce del sole. Una rivoluzione per il pianeta immigrazione, popolato in Italia da mezzo milione di irregolari.
La sanatoria è contenuta nella norma transitoria approvata il 6 luglio scorso con la “legge Rosarno”: il decreto legislativo che introduce pene più severe per chi impiega stranieri irregolari e un permesso di soggiorno per l’immigrato che denuncia uno sfruttamento grave. La norma transitoria prevede invece il “ravvedimento operoso”: i datori di lavoro che occupano alle proprie dipendenze extracomunitari irregolari potranno dichiarare la sussistenza del rapporto di lavoro allo Sportello unico per l’immigrazione. Tradotto: potranno regolarizzarli. Per operai, muratori, colf e badanti un’occasione di uscire dal “nero”: è dalla sanatoria del 2009 (per altro limitata a colf e badanti) che non si apriva una tale finestra. Allora le domande arrivarono a quota 295.112. In un incontro della scorsa settimana, i tecnici dei ministeri dell’Interno, del Lavoro e della Cooperazione hanno cominciato a stabilire i dettagli della procedura di emersione. Secondo le prime indiscrezioni, la regolarizzazione si aprirà a fine estate. Per l’esattezza le domande dei datori di lavoro dovranno essere presentate, con modalità informatiche, dall’1 al 30 settembre 2012. Si dovrà auto-certificare la presenza del migrante irregolare sul territorio italiano prima del 31 dicembre 2011. Questo è il punto più delicato e sul quale si sta ancora discutendo: bisogna infatti evitare che la notizia della regolarizzazione scateni ingiustificati arrivi di nuovi irregolari. Il datore di lavoro dovrà pagare un contributo forfettario di 1.000 euro, «previa regolarizzazione delle somme dovute a titolo retributivo, contributivo o fiscale». Ma non tutti rientreranno nella sanatoria. Gli esclusi? I datori di lavoro che risultino condannati negli ultimi 5 anni con sentenza anche non definitiva per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, così come i lavoratori colpiti da provvedimenti di espulsione, condannati o segnalati, anche in base ad accordi o convenzioni internazionali, ai fini della non ammissione nel territorio dello Stato italiano.

Corriere 17.7.12
il Caso Minetti o dei Capri Espiatori
di Gian Antonio Stella


Riuscirà il sacrificio della capretta espiatoria da parte del capro espiatorio a raddrizzare le sorti del Super Capro Espiatorio? Il gioco intorno alle responsabilità a scalare di Nicole Minetti, Angelino Alfano e Silvio Berlusconi è tutto dentro la tradizione. Ma certo, per quanto la politica non sia «un gioco di signorine», ha qualcosa di indecente. Più indecente, se possibile, delle notti di bunga bunga. Il ricorso alla vittima sacrificale citato nel Levitico («Aronne poserà le mani sul capo del capro vivo, confesserà su di esso tutte le iniquità degli Israeliti, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati...») è stato usato mille volte come via d'uscita. Lo scrisse anche Indro Montanelli: «Quello di buttar tutto addosso a un capro espiatorio è un metodo di risolvere i problemi molto italiano».
Qualcuno ha vissuto l'evento con dignitoso fatalismo, come il tesoriere dc Severino Citaristi, uomo perbene coinvolto nel meccanismo perverso dei finanziamenti illegali: «No, guardi, la colpa è solo mia, gli altri non mi hanno scaricato addosso nulla. Sono io che ho trasgredito la legge». Altri hanno strillato rifiutando, a ragione o a torto, di prendersi tutte le colpe di errori o reati, casomai, collettivi.
Si pensi ai lamenti di Giovanni Leone, Achille Occhetto o Bettino Craxi che disegnava ad Hammamet vasi grondanti sangue tricolore e giù giù di decine di comprimari. Da Maurizio Gasparri quando fu depennato come ministro («Sono stato un capro espiatorio. Mi sento come Isacco, che fu scelto. Ma poi intervenne Dio in persona per salvarlo») a Sandro Bondi («Non merito la mozione di sfiducia individuale. Sono un ministro sotto accusa per il crollo di un tetto in cemento armato costruito negli anni 50 ma nessuno si ricorda dei "no" che ho detto per fermare scempi e abusi»), da Alfonso Papa a Luigi Lusi che si auto-commisera sempre così: «Un capro espiatorio».
Poche volte come negli ultimi tempi, forse a causa della crescente personalizzazione della politica, c'è stato un abuso della scelta di scaricare tutto su chi più era o pareva indifendibile. Basti ricordare il caso della Lega. Dove per salvare il più possibile Umberto Bossi sono stati scaricati via via Renzo «Trota» obbligato a dimettersi dal Consiglio regionale, Rosi Mauro spinta a dimettersi da vicepresidente del Senato e poi espulsa, Francesco Belsito prima benedetto dal Senatur come «un buon amministratore che ha scelto bene come investire i soldi» poi maledetto come un appestato infiltrato nel Carroccio dalla 'ndrangheta.
Il punto è che come c'è sempre più puro che ti epura, anche nel comparto dello scaricabarile esiste la categoria della vittima sacrificale a cascata. Un esempio? La scelta, mesi fa, di scaricare Marco Milanese, il collaboratore assai chiacchierato di Tremonti, al posto dell'allora ministro dell'Economia, a sua volta individuato dal Cavaliere e dai suoi fedelissimi come l'uomo da additare come il principale colpevole della mancata realizzazione del grande sogno berlusconiano. Una citazione per tutte, la lettera di Bondi al Foglio: «Tremonti ha minato alla radice, fin dal primo momento, la capacità del governo di affrontare la crisi secondo una visione d'insieme...».
Ricordate l'aria che tirava nell'autunno scorso? Da Fabrizio Cicchitto ad Altero Matteoli, da Margherita Boniver a Saverio Romano fino a Luca Barbareschi la destra intera era in trincea nel rifiutare che tutte le responsabilità e tutte le colpe e tutti i peccati della crisi fossero rovesciati sull'ex San Silvio da Arcore. Un'immagine che Giuliano Ferrara fotografò così: «Berlusconi è in carica ma è l'ombra di se stesso. Nei suoi occhi e nel suo sorriso immortale si legge ormai la malinconia del capro espiatorio».
È perciò paradossale che a distanza di pochi mesi, dopo aver denunciato perfino in aula alla Camera il suo rifiuto di assumere quel ruolo così fastidioso, il Cavaliere abbia poi scelto di scaricare a sua volta il tracollo del partito sul capro espiatorio Angelino Alfano. E ancora più surreale che questi abbia individuato in Nicole Minetti, che fu imposta nel listino di Roberto Formigoni, la sub-capra espiatoria da sacrificare di colpo, «entro due giorni», per dare una rinfrescata all'immagine e rilanciare il Pdl o quel che ne sarà l'erede.
È probabile che i sondaggi abbiano individuato nella disinibita deputata regionale lombarda, celeberrima per quei messaggini hot («più troie siamo più bene ci vorrà...») una zavorra fastidiosa per il decollo del nuovo aquilone berlusconiano. Lo stesso Cavaliere però, ricorda un diluvio di messaggi online, nella famosa telefonata all'«Infedele» di Gad Lerner, urlò: «La signora Nicole Minetti è una splendida persona intelligente, preparata, seria. Si è laureata con il massimo dei voti, 110 e lode, si è pagata gli studi lavorando, è di madrelingua inglese e svolge un importante e apprezzato lavoro con tutti gli ospiti internazionali della regione». Insomma, una giovine statista dal luminoso avvenir.
Delle due l'una: o era tutto falso (comprese le definizioni sulle «cene eleganti») o era tutto vero. E allora nell'uno come nell'altro caso scegliere oggi la Minetti come vittima sacrificale, per quanto l'insopportabile signorina se le sia tirate tutte, sembra una piccineria non proprio da gentiluomini...

La Stampa 17.7.12
L’opposizione: «Sono gli scontri più intensi in sedici mesi di insurrezione»
Gli insorti nel cuore di Damasco
Colonne di blindati in centro, decine di morti. Mosca: non molliamo Assad
di Giordano Stabile


Si combatte a Damasco, «come mai prima in sedici mesi di insurrezione». Le voci degli attivisti nella capitale siriana parlano di «colonne di blindati» che stanno cercando di entrare nel quartiere di al Midan, bastione sunnita adiacente al centro, da dove gli insorti minacciano i centri del potere di Bashar al Assad. La tv di Stato ha parlato di «terroristi che vogliono la battaglia finale a Damasco», ammettendo implicitamente la gravità della situazione. Testimoni occidentali riferiscono di «colonne di fumo, esplosioni, crepitii di mitragliatrici».
Piani di evacuazione
Un’accelerazione della guerra civile che ha spinto l’Unione europea a disporre piani di evacuazione «per 25 mila occidentali» in Siria, ma anche nel vicino Libano, che potrebbe essere investito dal deflagrare del conflitto. E mentre gli Stati Uniti annunciano il dispiegamento di una seconda portaerei nel Mediterraneo orientale, sul fronte diplomatico arriva una nuova chiusura da parte della Russia.
La battaglia nella capitale
Gruppi di insorti si sono insediati nei quartieri periferici, poveri e sunniti, fin da gennaio, quando ci fu un primo rastrellamento da parte delle forze di sicurezza. Questa volta però i combattimenti infuriano in tutta la parte meridionale della metropoli, cinque milioni di abitanti. Scontri sono segnalati a Tadhamon, Jobar e Kfar Sousa. Ma è battaglia nel quartiere di al Midan a cambiare la cifra degli eventi: «È la prima volta che vengono dispiegati reparti dell’esercito così vicino al centro spiega Rami Abdel Rahman, direttore dell’Osservatorio dei diritti umani in Siria, vicino all’opposizione -. Non ci sono mai stati scontri di tale intensità in 16 mesi». Un attivista sul posto, rimasto anonimo, parla «di due colonne di blindati che cercano di convergere verso il centro del quartiere. Tutta la parte sud della città è in stato di assedio». Gli insorti hanno bloccato di nuovo la strada verso l’aeroporto, ha riferito un altro attivista, Mustafa Osso. Abitanti del distretto di Nahir Aisheh «hanno bruciato copertoni e lanciato pietre sull’autostrada per Amman», per rallentare l’arrivo dei rinforzi: «Ci sono decine di morti e feriti, serve sangue».
Portaerei nel Mediterraneo
Lo «stato di guerra generalizzato» decretato ieri dalla Croce rossa ha investito la capitale, tanto che una riunione a Bruxelles del Consiglio degli affari esteri Ue, dedicata a una nuova tornata di sanzioni al regime, è stata dirottata sul tema di un’eventuale evacuazione degli occidentali in Siria. Serviranno, nel caso, mezzi imponenti, e anche in quest’ottica, oltre che militare, va vista la decisione di Washington di accelerare il dispiegamento della portaerei Uss John Stennis nel Mediterraneo orientale, a fianco della Eisenhower.
Il niet della Russia
La caduta del regime è vista sempre più in chiave militare. Soprattutto dopo la presa di posizione di ieri da parte del ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov: «L’Occidente ci ricatta ha detto -: minaccia di non estendere la missione degli osservatori (che scade venerdì) per farci accettare nuove sanzioni». E ha aggiunto che non è «realistico» aspettarsi che la Russia persuada Assad ad andarsene: «Non lascerà, una buona parte della popolazione è con lui».

La Stampa 17.7.12
“Il regime è spacciato senza le armi iraniane”
L’analista Levitt: non hanno nemmeno proiettili
di Maurizio Molinari


Al Tesoro con Bush
Ex capo del reparto intelligence al ministero del Tesoro Usa, Levitt ha progettato sanzioni contro diversi Paesi

Senza le forniture di armi dell’Iran il regime di Bashar Assad sarebbe obbligato a contare perfino i proiettili sparati dai suoi soldati: a descrivere il network dei traffici di armi fra Siria e Iran è Matthew Levitt, ex titolare dell’intelligence al ministero del Tesoro americano, dove è stato il regista di molte sanzioni contro gli Stati complici di organizzazioni terroristiche, ed oggi direttore del programma di Controterrorismo al Washington Institute.
Quanto contano i rifornimenti di armi iraniane per la Siria?
«Sono indispensabili».
Ma anche Mosca invia armi a Damasco, quale è la differenza?
«C’è n’è una di fondo. Le spedizioni di armi russe sono qualitativamente importanti ma occasionali mentre Teheran è un arsenale illimitato e a fornitura continua per il regime di Assad. Gli iraniani spediscono di tutto, in continuazione. Ogni tipo di arma, strumentazione di intelligence o munizione che l’esercito di Assad chiede, viene consegnata in tempi stretti. Si tratta di una retrovia indispensabile per il regime senza la quale Assad avrebbe problemi anche con il numero di pallottole s p a rat e dai suoi soldati contro le forze ribelli».
Un dossier dell’intelligence saudita indica negli aerei dell’Iran Air il vettore che viene più spesso adoperato per trasferire le armi. Cosa ne pensa?
«L’Iran da tempo ricorre all’aviazione civile per coprire il traffico di armi. Ricordo che anni fa, all’indomani di un violento terremoto nel Sud dell’Iran, gli aerei civili giunti dalla Siria con gli aiuti umanitari ripartirono con le stive piene di armi. É una strategia consolidata, che coinvolge anche altre linee aeree e le compagnie di trasporto marittimo, le cui navi vengono usate come gli aerei Iran Air, al fine di evitare controlli e ispezioni».
Perché le attuali sanzioni internazionali contro Iran e Siria non riescono a bloccare questo tipo di traffici?
«Dovrebbero riuscire a ostacolare i movimenti di aerei e navi commerciali, iraniane e siriane. C’è sempre qualcosa in più che può essere fatto per rendere più efficace un regime di sanzioni, va tuttavia detto che quelle già esistenti stanno avendo effetto nel rendere assai più difficili i movimenti di materiali proibiti tanto per Teheran che per Damasco».
Fra le accuse nei confronti dell’Iran c’è quella di usare scali tedeschi per triangolazioni aeree tese a far arrivare le armi alla Siria. Cosa ne pensa?
«Il ricorso all’aviazione commerciale per effettuare traffici illeciti è da molto tempo una scelta strategica dell’Iran. Molte nazioni ne sono al corrente. L’interrogativo riguarda i rimedi che possono essere adottati».

Corriere 17.7.12
La morte atroce di Attilio Regolo
di Eva Cantarella


Fu veramente atroce la fine riservata ad Attilio Regolo dai cartaginesi, durante la prima guerra punica: una morte che nulla aveva dell'atto di guerra, o di una «normale» esecuzione capitale. Il generale romano fu vittima di un atto di rappresaglia criminale di inaudita, perfida ferocia. Nel 249 a.C., nel corso della guerra, Attilio, che era stato fatto prigioniero dai nemici, venne da questi inviato a Roma per convincere i romani, in cambio della sua libertà, a rilasciare i loro compatrioti prigionieri e a concludere un trattato di pace alle condizioni da loro dettate. Ma Regolo teneva più alla gloria di Roma che alla sua vita, ed esortò fermamente il Senato a resistere a ogni pressione. Dopodiché, per non venir meno al giuramento di tornare a Cartagine fatto al momento del rilascio tornò in terra nemica, dove trovò una morte che certamente si aspettava, ma di cui altrettanto certamente non poteva immaginare la crudeltà. I cartaginesi dapprima lo rinchiusero per un lungo periodo in un locale dove non penetrava il minimo filo di luce, e quindi, improvvisamente, lo liberarono e lo condussero in un luogo esposto in pieno giorno alla luce accecante del sole: non prima, peraltro, di aver provveduto a cucire le sue palpebre sia verso l'alto sia verso il basso. E lì lo abbandonarono fino a quando morì...

Corriere 17.7.12
Così Mozart sposò la sorella sbagliata
Voleva Aloysia si ritrovò con Konstanze cadendo nella rete della loro madre
di Armando Torno


Wolfgang Amadeus Mozart sposò Konstanze Weber il 4 agosto 1782. Peccato che la sua intenzione fosse in un primo tempo diversa, giacché il sommo musicista — quello che Alfred Einstein definì «un ospite involontario di questa Terra» — intendeva convolare a giuste nozze con la di lei sorella, Aloysia Weber. Le sue avances non si concretizzarono, pur ricambiate da sorrisi e sospiri, per mancanza di denaro. Ma vediamo come andarono le cose in questo amore fallito.
Verso la fine del 1777 Mozart è in viaggio con la madre per Parigi. Fa sosta a Mannheim. Qui conosce la famiglia Weber, con quattro figlie. Aloysia, la seconda di esse, aveva doti canore e sapeva suonare il pianoforte. Wolfgang Amadeus ha modo di apprezzarla; anzi, per la graziosa signorina scrive addirittura delle arie. Nel gennaio 1778 si registra una prima lettera in cui il musicista parla di lei a papà Leopold: «Ha una bella voce pura... ha appena sedici anni»; la mamma di Mozart non tarda ad accorgersi dell'infatuamento del figlio e, a sua volta, comunica la «cotta» al marito. Il quale prende subito la penna e redarguisce l'innamorato Wolfgang, ricordandogli — siamo al 12 febbraio 1778 — alcune cosucce, tra le quali vale la pena ricordarne un paio: «Dipende solo dalla tua saggezza se resterai un comune musicista che tutto il mondo dimenticherà oppure se diventerai un celebre maestro di cappella del quale i posteri continueranno a leggere nei libri; se vuoi morire su un sacco di paglia, prigioniero di una femmina e in una stanza piena di bambini miserabili, oppure con gioia, onore e fama, dopo una vita trascorsa cristianamente, avendo assicurato il benessere alla tua famiglia e acquisito il rispetto di tutti...» (traduzione di Marco Murara, Zecchin editore).
Wolfgang Amadeus cerca di calmare papà, aggiungendo altre notizie sulle qualità dell'ugola di Aloysia, ma poi è costretto a partire per Parigi, spinto dalla mamma oltre che dagli ordini del padre. Lei, civettuola, gli regala due polsini di merletto — fatti con le sue manine! — per ricordo. Il musicista giunge nella capitale francese: la madre qui muore, rifiuta un incarico di organista a Versailles, quindi riprende dopo alcuni mesi la via del ritorno. Aloysia ora è a Monaco. È stata scritturata. E Mozart si reca appunto a Monaco per chiedere la mano della «Weberin», portandole in regalo un'aria di rara bellezza, Popoli di Tessaglia (KV 316). Ma ci vuole ben altro. Lei sta aiutando la famiglia e risponde «no!». Poco dopo la morte di suo padre diventa moglie di Joseph Lange. Il quale, attore e pittore, ottenne il consenso in cambio del mantenimento di tutta la famiglia Weber.
Mozart ci rimane male e in alcune lettere si pente del suo sentimento: «Sono stato un pazzo, ma cosa non si fa quando si è innamorati...» (16 maggio 1781); tuttavia non lo rinnega. Sino a quando — siamo tra il 1781 e 1782 — Wolfgang Amadeus viene accalappiato dalla intraprendente vedova Weber, spesata dal genero, affittacamere a tempo perso. Tutti erano a Vienna. Il musicista ha bisogno di una stanza e cade nelle reti della ingegnosa signora, Maria Caecilia al secolo, che lo riaccoglie con abilissimi sorrisi. Il motivo è semplice: lo ghermisce per maritare un'altra figlia, Konstanze. Wolfgang Amadeus come si comporta? Sarà per l'attaccamento ai Weber, sarà perché nell'una vedeva l'altra, sarà perché questa signorina ci sapeva fare, sarà per altro, si trova incastrato. La mamma non lo molla più e, con l'aiuto del subdolo Thorwart, riesce a fargli firmare un contratto di matrimonio.
Wolfgang Amadeus e l'allegra Konstanze furono quindi marito e moglie. Con il passare del tempo il musicista si troverà con una dose generosa di corna, decisamente superiore a quella che avrebbe potuto ricambiare. Aloysia non uscirà completamente dalla vita del geniale cognato. Laura Nicora, della Scuola di paleografia e filologia musicale di Cremona, ci ha mostrato un lungo elenco di interpretazioni della cantante che non divenne la signora Mozart. Tra queste ricordiamo che sarà la prima Donna Anna nel Don Giovanni di Vienna, il 7 maggio 1788. Ma il loro amore era ormai un ricordo.

Corriere 17.7.12
Vendetta fascista: testa per dente
Le rappresaglie degli italiani in Jugoslavia ricordano le Fosse Ardeatine
di Corrado Stajano


Alla Seconda guerra mondiale nei Balcani sono dedicati molti libri. Tra di essi: Frederick W. Deakin, La montagna più alta. L'epopea dell'esercito partigiano jugoslavo (Einaudi); Giorgio Rochat, Le guerre italiane (Einaudi); Angelo Del Boca, Italiani, brava gente? (Neri Pozza); Guido Crainz, Il dolore e l'esilio (Donzelli); Marisa Madieri, Verde Acqua (Einaudi); Franco Vegliani, La frontiera (Ceschina); Fulvio Tomizza, La miglior vita (Rizzoli); Enzo Bettiza, Esilio; (Mondadori) Claudio Magris, Alla cieca (Garzanti); Giacomo Scotti, Goli Otok (Lint).
Come doveva essere l'italiano fascista? Un vero maschio, d'acciaio. Mussolini, a Gorizia, il 31 luglio 1942, detta la linea: «Non temo le parole, sono convinto che al "terrore" dei partigiani si deve rispondere con il ferro e con il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta (...) è cominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto».
I suoi generali sono concordi. Mario Roatta, comandante della II armata in Jugoslavia, futuro criminale di guerra sfuggito a ogni sanzione, è il modello dell'italiano nuovo. Nella sua circolare 3C ordina ai suoi sottoposti di uccidere gli ostaggi, di incendiare i villaggi, di deportare gli abitanti infedeli: «Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente, bensì in quella testa per dente». Il generale di corpo d'armata Mario Robotti fa parte di quel cerchio magico di guerrieri dal volto umano: «Si ammazza troppo poco!», scrive in un documento. Il generale d'armata Alessandro Pirzio Biroli, governatore del Montenegro, è anche lui di quella feroce partita: lamenta l'eccessiva mitezza verso i rivoltosi «selvaggi» e conclude così un suo proclama: «La favola del "bono italiano" deve cessare!»
Si intitola proprio Bono Taliano la tragica cronaca di Giacomo Scotti (Odradek editore, pagine 253, 20), giornalista per decenni del quotidiano «La voce del popolo» di Fiume, autore conosciuto di un altro libro importante per la storia delle vicende successive alla Seconda guerra mondiale, Goli Otok, l'atroce Isola Calva, nel Quarnero, dove Tito confinava i dissidenti rimasti fedeli all'Unione Sovietica dopo la rottura con Mosca. (Claudio Magris ne ha narrato l'orrore di sangue e di violenza nel suo memorabile Alla cieca).
Il libro di Scotti, pubblicato nel 1977, rivede la luce oggi con una corposa appendice dell'autore, che completa l'opera con la ricca documentazione trovata negli archivi, soprattutto dell'ex Jugoslavia. Bono Taliano racconta le vicende del nostro regio esercito, da quando nell'aprile 1941 invase la Jugoslavia all'armistizio del settembre 1943, ma racconta anche la guerra partigiana fino al 1945 e spiega le ambizioni di Tito sulla Venezia Giulia.
Quel che accadde nell'ex Jugoslavia durante la Seconda guerra mondiale può fare da spaventevole simbolo della violenza e della degenerazione di un conflitto che viola anche le norme più elementari del diritto internazionale.
Le guerre nei Balcani sono sempre un inferno, ma la barbarie, in quegli anni, fece in assoluto da padrona. La violenza fu alimentata da etnie diverse e da nazionalismi esasperati. Gli italiani e i tedeschi contro i partigiani di Tito che, operaio metallurgico, seppe diventare un grande stratega e un sottile politico. E poi: gli ustascia, il partito croato di estrema destra fondato da Ante Pavelic nel 1929, e i cetnici contro i titini; i serbi monarchici contro i bosniaci musulmani; gli albanesi del Kosovo contro serbi e montenegrini. La guerra nei Balcani fu insieme guerra d'aggressione, guerra di liberazione nazionale, guerra civile, guerra ideologica, guerra di religione.
Nell'esercito italiano le inquietudini e i contrasti cominciarono presto. Le camicie nere seguirono i precetti di Mussolini e degli alti gradi, i soldati dell'esercito e gli ufficiali inferiori non nascosero invece il loro disaccordo sulle fucilazioni, le stragi, gli incendi dei villaggi, le deportazioni di massa. Le diserzioni furono sempre più numerose anche prima dell'armistizio: gli italiani che passarono dalla parte dei partigiani divennero la costante preoccupazione dei comandi.
Giacomo Scotti è un po' troppo benevolo nei confronti delle brigate titine, che non furono angeli di umanità. Ma colpiscono certi minuti documenti come le lettere dei soldati italiani bloccate dall'occhiuta censura e finite negli archivi. Il fascismo non è la patria, i giovani mandati alla ventura cominciano a capirlo e rifiutano la guerra. Scrive un capitano a una signora di Genova il 14 luglio 1942: «Mi sento un boia. A furia di vedere barbarie incattivisco, non ho pietà nemmeno io stesso, comincio a restare impassibile dinanzi alla rovina».
Ci sono quelli che non posseggono neppure un barlume di umanità. Nel giugno 1943, il generale Pirzio Biroli fa fucilare 180 ostaggi per vendicare la morte in combattimento di 9 ufficiali del 383° reggimento fanteria: 20 a 1, una rappresaglia assai più feroce di quella nazista alle Fosse Ardeatine.
L'autore racconta con minuzia di fonti. Documenta le operazioni militari nazifasciste fallite, la Weiss, la Schwarz, descrive le innumerevoli stragi, le deportazioni, le fucilazioni: basta un sospetto. Il suo libro può essere molto utile per il lavoro degli storici.
Gli italiani non hanno ubbidito certo tutti alla volontà di Mussolini e dei generali. Il 12 marzo 1943 — un esempio — il vescovo di Trieste Antonio Santin scrive al sottosegretario agli Interni di Mussolini, Buffarini Guidi, una lettera accorata e indignata: «Uomini e donne vengono seviziati nel modo più bestiale (...). Per l'onore dell'umanità e per il buon nome dell'Italia, per il rispetto della legge e dell'autorità questi fatti devono cessare».

Repubblica 17.7.12
La vita nascosta del più feroce carnefice di Hitler
La caccia a Laszlo Csizsik Csatary è finita dopo 67 anni a Budapest
È accusato della morte di 15mila ebrei
La storia di una vita passata a nascondersi
di Andrea Tarquini


È VISSUTO come un fuggiasco per sessantasette anni, dalla fine della seconda guerra mondiale all’altro ieri. Si è nascosto alla sua coscienza e alla giustizia del mondo per due terzi della sua vita. Braccato da Efraim Zuroff, direttore del Centro Simon Wiesenthal per la caccia ai criminali nazisti, odiato e ricordato dalle sue vittime e dai loro discendenti sparsi nel mondo, per ben oltre mezzo secolo è riuscito a farla franca. Solo l’altro giorno, messi sulla buona pista da Zuroff, gli investigative reporter del Sun hanno bussato alla sua porta, la porta d’un bell’appartamento in un elegante palazzo di Buda, la zona più chic della capitale magiara, sulla riva ovest del Danubio. Lui ha aperto sorpreso e tranquillo. Lo spazio d’un attimo, ha capito che la vita da fuggiasco stava finendo: col campanello della porta s’annunciava la Nemesi, la resa dei conti finale con il mondo. Questa è la storia di Laszlo Csizsik Csatary, 97 anni ben portati, ex alto ufficiale della Magyar Kiralyi Rendorség, la polizia ungherese sotto Horthy. Ha sulla coscienza almeno quindicimila ebrei catturati a Kosice, la città dove lui comandava gli agenti, e spediti ad Auschwitz. Ma nega tutto: «Sono innocente, quelle accuse sono false», ha detto subito agli inviati. Devi saper rimuovere, se vuoi vivere da fuggiasco attraverso le epoche del mondo. Devi tenerti dentro l’orgoglio tutto tuo per gesta che tu e il tuo governo ritenevano eroiche, devi saper fingere d’essere un signor nessuno, un vecchietto dalla memoria ormai debole in un mondo dove la Memoria dell’orrore è ancora viva, anzi minaccia di sopravviverti. Devi saper diventare un tranquillo signore di Buda, senza nemmeno uniformi e ricordi appesi al muro, braccato da decenni e arrivato infine al viale del Tramonto della vita cui le sue vittime, e le vittime dell’Olocausto, non poterono mai giungere. Con le liste nere in tasca, bussavano all’improvviso a casa degli ebrei. Arrivavano armati, fieri e spavaldi con le loro uniformi verdeoliva o grigio blu, e il pennacchio o lo scudo nazionale sui rigidi cappelli. Parlavano ungherese, non tedesco. Militari, gendarmi e poliziotti magiari furono i servitori fedeli dell’ammiraglio Horthy, il dittatore alleato di Hitler che adesso il potere sta riabilitando, e del suo effimero erede ultrà Szalasi. Divennero gli esecutori zelanti dell’Olocausto. Degli oltre sei milioni di ebrei assassinati per ordine del Reich millenario, almeno 564mila li ebbero loro sulla coscienza. Il fuggiasco Csatary era uno dei preferiti dai vertici della dittatura. E così ancora una volta, nella Budapest dove il premier-autocrate Viktor Orbàn definisce il comunismo unica macchia nera del passato nazionale, riemergono col Fuggiasco le colpe rimosse d’Europa. «Era il più sadico di tutti. D’una crudeltà bestiale, impazziva di gioia a frustare in pubblico le donne ebree», hanno narrato gli ultimi superstiti a Zuroff e agli altri investigatori del Centro Wiesenthal. «Rubava tutto, soprattutto quadri, soprammobili pregiati, ogni oggetto d’arte, ogni gioiello o preziosità, si arricchì togliendo tutto ai miei avi cui rubò la vita, prendetelo a ogni costo», hanno detto alcuni discedenti. Kosice, oggi seconda città slovacca, fu annessa nel 1938 dall’Ungheria di Horthy quando Hitler occupò Vienna e Praga. Dieci anni dopo un tribunale cecoslovacco condannò Csatary a morte. Ma in contumacia. Il delitto perfetto forse non esiste, il Fuggiasco quasi perfetto sì: con quell’istinto di sopravvivenza a se stessi, alle vittime, ai misfatti che trasforma molti criminali, quel giovane capo della polizia aveva fatto perdere le sue tracce. La Memoria corre lontano indietro nel tempo inseguendo le tracce del Fuggiasco, nella splendida capitale sul Danubio. Eserci- to, polizia e Csendorség (Gendarmeria) servivano entusiasti e convinti il dittatore Miklòs Horthy. Antisemita e anticomunista da sempre, era al potere dal 1919. Odiava la capitale cosmopolita, che chiamava “Judapest”, la città degli ostili ebrei. Fu lui, nel 1920, a varare le prime leggi razziali: limiti durissimi all’accesso all’università per gli ebrei. In lui, nella pura nazione magiara, nella riscossa dalla “Vergogna del Trianon” (il trattato di pace con cui dopo la prima guerra mondiale l’Ungheria, ex parte dell’Impero asburgico, aveva perduto i territori abitati in maggioranza da slovacchi, romeni, serbi), Csatary credette fin dall’inizio. Crebbe in quel clima, e per vocazione e con rabbia scelse la carriera nella polizia. Anche quando, nella primavera del 1944, le sorti della guerra apparivano già segnate, tanti ufficiali come Csatary si sentivano ancora i crociati della causa giusta. A Kosice, dove lui appunto comandava la polizia, l’ordine arrivò dall’alto, dalla Budapest occupata dalla Wehrmacht ma con Horthy ancora al potere: rastrellate la città, arrestateli tutti. Csatary e i suoi passarono subito all’azione: la gloria della purezza etnica magiara non ammetteva dubbi. Nel campo di raccolta, lui era il Terrore. Frustava a sangue donne e bambini, picchiava i vecchi indifesi, li spaventava con la roulette russa. Poi li fece caricare tutti sui treni per Auschwitz. Nessuna pietà, gli ebrei sono solo “idegen vér” (sangue straniero, alieno) pensavano il Fuggiasco e i suoi sbirri. Dei 725mila ebrei ungheresi, 564.500 non sopravvissero alla Shoah. Per 67 anni, chi sa se tranquillo o in preda a improbabili rimorsi, il Fuggiasco ha vissuto con quei ricordi, cercando di celarli a se stesso, al prossimo, a chi lo inseguiva. Solo nella primavera del 1945, dopo mesi di battaglia, Budapest cadde presa dai russi. Tre anni dopo, a Kosice tornata cecoslovacca, il comandante della polizia reale magiara Csatary fu condannato a morte. Ma in contumacia. Riuscì a fuggire, a scampare alla giustizia e agli alleati vincitori. Come, non lo sa o non lo dice nessuno. Forse grazie alla rete dell’Odessa, l’organizzazione segreta nazista che portò in salvo oltre Oceano tanti gerarchi massacratori e tanti loro sottoposti. Forse con falsi documenti procurati con tante complicità. Da Fuggiasco come si deve, il camerata Csatary seppe ricominciare da zero. Con l’astuzia metodica, e probabilmente anche con l’esperienza di ex ufficiale della polizia in fatto di documenti, certificati e timbri, si creò una nuova, falsa identità. Si spacciò per anonimo, tranquillo ungherese vittima della guerra, deciso a non restare nella patria comunistizzata. Le autorità canadesi gli credettero. E in Canada, da mercante d’arte, divenne ricco, sempre più ricco. Per decenni, nel mondo diviso e poi nel dopo-guerra fredda, il Centro Wiesenthal gli dette la caccia invano. Invano superstiti e loro familiari chiedevano giustizia, invano Zuroff aveva posto una taglia di 25mila dollari sulla sua testa. Solo nel 1997, il Fuggiasco fu scoperto dal Centro Wiesenthal. Il governo di Ottawa gli tolse la cittadinanza, ordinò il suo arresto immediato. Poveri giudici canadesi, non avevano fatto i conti con l’astuzia dell’ex poliziotto di Horthy che era riuscito ancora a fuggire. Protetto forse da complicità oscure, certo dal suo talento di latitante eterno della Storia. E da almeno 17 anni, era tornato a Budapest. Non si sa se sotto una terza identità, o recuperando quella originaria. Un anno fa, Zuroff, scovatolo, aveva pregato la magistratura magiara di agire. Ottenne solo l’annuncio che un’inchiesta era stata aperta, ma senza risultati. Un informatore, intascati i 25mila dollari della taglia, ha fornito l’indirizzo, ma nessun poliziotto è andato ad arrestare l’ex collega, il fuggiasco-figliol prodigo tornato in patria. Alla sua porta hanno bussato solo quei reporter britannici. Adesso opposizione ungherese e governo francese chiedono arresto e processo per Csatary, perché «i crimini nazisti non possono essere prescritti». Ma chi sa se Orbàn e la magistratura da lui epurata (via le “toghe rosse”) fermeranno o no la lunga corsa del Fuggiasco.

Repubblica 17.7.12
Efraim Zuroff guida la squadra che ha localizzato il criminale di guerra
La gioia del cacciatore di nazisti “Ma la vera vittoria sarà processarlo”
di Alberto Stabile


GERUSALEMME «Stiamo seguendo le tracce di oltre 1300 criminali nazisti, o presunti tali. Se anche soltanto l’uno per cento di questa gente finisse sotto processo per noi si tratterebbe di un successo enorme ». Efraim Zuroff, il cacciatore di nazisti, non nasconde la sua soddisfazione, dopo che la sua ultima “preda”, il responsabile delle deportazioni dal ghetto di Kosice, l’ufficiale delle SS Lazslo Csatary, è stato individuato e fotografato a Budapest. Ma quella di Zuroff è una soddisfazione a metà perché non si può dire che il processo contro Csatary sia proprio dietro
l’angolo.
Zuroff, ci può raccontare come siete riusciti ad identificare Lazlo Csatary?
«Sapevamo che era vivo e che si nascondeva da qualche parte. Ma non sapevamo dove. Forse lui stesso ci ha involontariamente aiutati usando sempre il suo nome vero. Una volta individuato, non poteva che essere lui. Il nostro informatore ci ha indicato dove potevamo trovarlo. L’informatore voleva semplicemente intascare la taglia che avevamo messo su di lui, rimanendo nell’anonimato».
Di che somma stiamo parlando?
«Di 25 mila dollari, da pagarsi a condanna avvenuta. Sapevo chi fosse Csatary, il suo nome mi era noto da quando gli era stata revocata la cittadinanza canadese nel 1997. Abbiamo capito immediatamente che erano informazioni serie, e abbiamo iniziato a raccogliere tutti i dati disponibili sulle sue attività nel corso della guerra...».
Sembra di capire che la procura ungherese non vi abbia offerto una grande collaborazione.
«Mi sono incontrato con un rappresentante della Procura fino ad una settimana fa, ma nessuno ha la più pallida idea di come si svilupperanno le cose su quel fronte. Mi ero già rivolto alla procura di Budapest lo scorso settembre, c’è stata un’indagine ma...».
Non è successo nulla?
«Non si può dire che non sia successo nulla, ma ci sono mille modi per non mettere sotto processo dei criminali nazisti. Ogni procuratore le dirà che sarà fatto di tutto per arrivare a processarli, ma la distanza fra le dichiarazioni “politiche” e la prassi è molto grande. E’ stata la stessa cosa con Kafiro (un collaborazionista ungherese che si era rifugiato in Australia): ci hanno messo quattro anni e mezzo ad iniziare il processo, erano convinti che morisse prima, solo che Kafiro, 92 anni, questa volta non ha collaborato... ».
Come e dove viveva Csatary? Era una persona benestante?
«E’ senz’altro una persona benestante, un pensionato, padre di tre figli che però, a quanto ci risulta, non vivono in Ungheria. Abita a Buda, nell’11° quartiere, ha soldi e vive bene. Dopo la guerra si era rifugiato in Canada. E’ tornato in Ungheria dopo che gli avevano revocato la cittadinanza canadese, ma nessuno lo sapeva, tranne gli ungheresi, che però non hanno fatto nulla».
Nemmeno i canadesi sapevano?
«No, perché dopo la revoca della cittadinanza, Csatary non ha aspettato la sentenza di espulsione, che è un procedimento separato, ma se n’è andato volontariamente, si è dileguato. L’ironia sta nel fatto che nei 10 casi di ex ufficiali nazisti naturalizzati canadesi, a cui è stata revocata la cittadinanza negli anni 1994-97, solo due, fra cui Csatary, hanno deciso di andarsene volontariamente. Dei rimanenti otto, nessuno è stato espulso dal Canada. Da questo punto di vista, si è trattato di un fallimento totale».
Csatary abita ancora nella casa dove è stato rintracciato o si è nascosto da qualche altra parte?
«Prima di tutto la casa in cui è stato fotografato è già un nascondiglio. Non è la casa dove aveva abitato. Vi si è rifugiato dopo che la procura di Budapest ha iniziato le indagini. Quando hanno cominciato a girare le voci sulla sua presenza lì, ha preferito scomparire per un certo periodo».
Lei ha parlato l’ultima volta con “Repubblica” nel gennaio del 2008. Che cosa è cambiato da allora, avete individuato altri criminali di guerra?
«Sì, abbiamo pubblicato una lista nel nostro sito. Non si tratta di grossi nomi, ma di persone per le quali esiste, secondo noi, una buona probabilità che possano essere incriminati. Nell’aprile del 2011 erano in corso oltre 1300 indagini contro criminali nazisti, ma non ci saranno certamente altrettanti processi. Ogni Paese ha una storia diversa, un diverso modo di affrontare questo problema. In Italia, ad esempio, ci sono stati molti processi
in absentia.
E non si trattava di deportazioni e uccisioni di ebrei, bensì di stragi commesse contro altri civili italiani, come quella di Marzabotto o di Sant’Anna».
L’Operazione Ultima Chance, che lei ha lanciato, ha avuto i risultati che speravate?
«E’ difficile dirlo. Abbiamo ricevuto oltre 630 nominativi di sospettati, ma solo nove di essi possono essere definiti “casi concreti”. Nessuno di loro, tuttavia, è stato messo sotto processo
fino ad ora».

Repubblica 17.7.12
Finanza di dio
Dagli oboli alle banche: i segreti del Vaticano
Un libro di Benny Lai ricostruisce una storia con tanti retroscena a partire dai Patti Lateranensi per arrivare agli scandali di questi giorni
di Orazio La Rocca


Benny Lai, 87 anni, giornalista professionista dal 1946, vaticanista dal 1951 col primo tesserino della Sala Stampa della Santa Sede firmato dall’allora Sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI, è uno dei più attenti osservatori del mondo vaticano. Grande firma de Il Giornale di Indro Montanelli, amico di vescovi e cardinali, alcuni dei quali ascesi anche al Soglio di Pietro, 16 libri all’attivo, l’ultimo dei quali appena arrivato in libreria per i tipi della Rubettino editore, Finanze vaticane. Da Pio XI a Benedetto XVI. Come decano dei vaticanisti italiani, sorpreso per quanto succede Oltretevere? Il cameriere papale accusato di aver trafugato documenti riservati; lo Ior nella bufera con l’improvvisa cacciata del presidente; corvi, sospetti... «Sono sorpreso, non lo nego. Anche se in passato la situazione in Vaticano non è mai stata sempre tranquilla, tra tradimenti, scandali finanziari, ma anche tra scontri personali, ripicche e vendette. Il Vaticano, come tutte le istituzioni terrene, è sempre stato abitato da grandi personaggi, ma anche da figure a dir poco discutibili. Sulla carta uomini di Dio, ma che hanno avuto col potere, a partire dal denaro un rapporto incestuoso, pericoloso per la Chiesa, un rapporto per niente evangelico, privo del laico insegnamento di Cristo di “dare a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”. Questa volta, però, le tensioni sono veramente esplose in maniera assai violenta e imprevedibile, a causa di possibili lotte in Segreteria di Stato e in Curia dove non è difficile vedere lo zampino di personaggi come il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone e il suo predecessore, Angelo Sodano. Non so se Paolo Gabriele, il cameriere papale arrestato, farà nomi. Dietro di lui però hanno agito e forse agiscono ancora personaggi di peso nella Curia». Il suo libro pare quasi profetico alla luce della bufera caduta sulla Santa Sede e sul Papa. «Un libro storico, scritto sulla base di documenti anche inediti, come fu appunto la trattativa che portò alla stipula dei Patti Lateranensi tra il Vaticano e Benito Mussolini; o gli scandali di ieri e di oggi che hanno visto coinvolti personaggi dell’alta finanza vaticana. Ma sorprendentemente attuale, perché, partendo da Pio XI, arrivo a raccontare vicende dell’attuale pontificato, passando attraverso i pontificati di Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI». Un istant-book storico spinto dalle polemiche esplose in Vaticano e dintorni? «No. Iniziai a scrivere questo volume molto prima delle recenti polemiche. Se, poi, tra i contenuti del libro si toccano nervi scoperti a causa di polemiche sullo Ior, di trafugamenti di documenti e fughe di notizie, è solo coincidenza. Ma una coincidenza che oserei definire profetica ». Il suo libro inizia con la ricostruzione storica delle vicende che, nel Ventennio fascista, portarono ai Patti Lateranensi. C’è qualche aspetto inedito? «È sempre azzardato parlare di ricostruzioni inedite quando si raccontano vicende storiche. Ma sono certo che nessuno finora ha dato il giusto peso alla lunga trattativa che ci fu tra regime fascista e Santa Sede per arrivare alla stipula dei Patti. Si sa che le firme dei Patti furono siglate da Mussolini e dal cardinale Segretario di Stato Pietro Gasparri. Quasi nessuno sa che in realtà chi portò avanti la trattativa fu Pio XI, che si confrontò direttamente col Cavaliere per patteggiare l’accordo. Una trattativa, dunque, svolta esclusivamente su questioni finanziarie, con Mussolini intento a ridurre quanto più possibile i costi della Conciliazione e con papa Ratti deciso ad ottenere un’indennità di due miliardi di lire da versare nelle casse vaticane in alcune rate». E come finì il lungo braccio di ferro Pio XI-Mussolini? «Pio XI sosteneva che la somma richiesta, con relativi interessi, fosse quella che lo Stato italiano si era unilateralmente impegnato a pagare dopo l’occupazione di Roma con la legge delle Guarentigie del 1871. A testimoniare l’attenzione di Pio XI verso le questioni economiche vi sono le annotazione dell’avvocato concistoriale Francesco Pacelli, fratello maggiore del futuro Pio XII, che registra tutto nei Diari dal 1926 al 1929, l’anno della firma che arrivò quando le parti si accordarono sulla base di un miliardo e 750 milioni di lire, pagati parte in contanti e parte in titoli al portatore. Una svolta per le esigue finanze vaticane che, dalla Breccia di Porta Pia, si erano rette solo con gli aiuti dell’Obolo di San Pietro alimentato dalle offerte dei fedeli». Cosa successe con i pontefici successivi? «Pio XII il 27 giugno 1942 fondò l’Istituto per le Opere di Religione, l’attuale banca, assorbendo la vecchia Amministrazione per le Opere di Religione eretta da Leone XIII nel 1887, l’organismo che aveva incamerato il mega risarcimento pattizio. Papa Pacelli, inoltre, volle dare allo Ior una impostazione internazionale, permettendo alla banca di avventurarsi in operazioni finanziarie e, nello stesso tempo, di distribuire anche aiuti alle popolazioni colpite dalla guerra, ebrei compresi». E Giovanni Paolo II e Benedetto XVI? «Papa Wojtyla ha avuto il merito di aprire il mondo alla Chiesa, ma senza interessarsi della gestione del Vaticano e, apparentemente, di problemi finanziari. E non a caso sotto di lui c’è stato il caso Marcinkus, il vescovo presidente dello Ior coinvolto nel crack del vecchio Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Benedetto XVI, pur con stile diverso, si comporta allo stesso modo, dedicandosi prevalentemente alla teologia. Sulle finanze vigila il suo segretario di Stato Bertone, non ben visto dall’ala diplomatica vaticana. Ma – particolare poco noto – Ratzinger non si serve dello Ior per incamerare i diritti d’autore dei suoi libri – che incassano cifre pazzesche –, ma della Fondazione ad hoc da lui voluta con sede in Germania. Una scelta singolare che forse fa capire tante cose, anche il perché la tanto attesa trasparenza dei conti dello Ior, chiesta anche dallo stesso Ratzinger, sia ancora di là da venire».

l’Unità 17.7.12
W la verità imperfetta
Elogio del lavoro di ricerca che porta alle scoperte
Lo studioso, nella sua relazione alla Milanesiana, guarda con spirito critico a coloro che vogliono vantare approdi assoluti. Il parallelo con i lavori dei grandi artigiani
di Remo Bodei


UN GRUPPO DI GENITORI VENNE UNA VOLTA A CHIEDERE ALLO PSICHIATRA BRUNO BETTELHEIM SE FOSSE GIUSTO RACCONTARE AI BAMBINI FIABE RACCAPRICCIANTI E ANGOSCIOSE. QUESTO PERSONAGGIO che aveva conosciuto i campi di concentramento e che morirà suicida come Primo Levi rispose con apprezzabile modestia di non averci mai pensato. Li invitò a tornare fra cinque anni per la risposta, che fu loro effettivamente data attraverso il volume Il mondo incantato: sì, bisogna raccontare tali fiabe orrorose e perturbanti, perché mobilitano il pensiero simbolico e aiutano a elaborare i terrori, i conflitti, le sofferenze e i problemi dinanzi ai quali i bambini di oggi si troveranno inevitabilmente domani.
L’atteggiamento di Bettelheim è esemplare perché indica quale debba essere l’etica del lavoro nel campo della ricerca scientifica e filosofica: raccogliere e discernere le informazioni, vagliarle con rigore critico, formulare e mettere alla prova le ipotesi, trovare soluzioni che alla fine modificano il punto di partenza. Ogni forma di indagine prende spunto dalla percezione di anomalie e di dissonanze cognitive («qualcosa non torna») per creare nuovi modelli di spiegazione di un fenomeno. A risultato raggiunto, sembra che il percorso trovato per prove ed errori sia l’unico giusto, che sia sempre esistito, che sia «sempre stato lì» e che si trattava solo di vederlo e di arrivarci.
Pur venati da tormenti e dubbi, simili imprese danno la soddisfazione e la gioia del lavoro arduo, ma ben fatto. In questo la condotta dello scienziato o del filosofo è simile a quella dell’artigiano, caratterizzata dal tendere al controllo dei materiali, dal desiderio di svolgere coscienziosamente il proprio compito e dall’ossessione della qualità. Tra gli artigiani si raggiungono talvolta livelli di eccellenza che annullano i confini con l’arte, come nel caso delle saliere di Benvenuto Cellini o dei violini di Antonio Stradivari. In Einstein, in Edison oppure in Platone o in Spinoza la maestria consiste nel sovvertire le teorie e le idee dominanti.
Non sempre queste indagini sono state indolori e prive di ostacoli. Il cristianesimo antico, ad esempio, ha condannato qualsiasi ricerca che oltrepassasse i limiti posti dalla rivelazione. L’ammonizione di San Paolo, «Noli altum sapere, sed time» si lega alla sua tesi, in apparenza paradossale contenuta nell’Epistola ai Romani (13,1), scritta sotto Nerone che ogni autorità viene da Dio e deve essere, di conseguenza, obbedita, ciò che sottintende il divieto di indagarla da vicino. A sua volta, Sant’Agostino combatte aspramente la curiosità come «concupiscenza degli occhi», che distrae dalla conoscenza di se stessi e di Dio. Si venne così a formare un insieme di proibizioni che vietavano la conoscenza di tre misteri o arcana: i misteri della natura, i misteri di Dio, i misteri del potere.
Ebbene, l’etica del filosofo fin dalla Grecia classica, ma soprattutto, fin dagli esordi della modernità è consistita proprio nell’indagare razionalmente questi misteri, nello spiegare, nei limiti del possibile, soprattutto la natura, la storia umana e il potere. Non è importante chi (Dio o uomo) afferma qualcosa, ma se quello che dice è pubblicamente argomentabile e giustificabile. La verità non scende più dall’alto una volta per sempre, diventa una ricerca continua che deve rimanere «insatura» o, è il caso di dire, imperfetta, non compiuta. Non si raggiungono mai risultati definitivi, ma non per questo tutto è vano o insignificante.
I lavori che implicano una qualche forma di creatività godono di uno speciale privilegio che esige una compensazione etica: tendere al meglio nell’interesse di altri. Non per tutti, lo sappiamo, il lavoro è un piacere e non a tutti tocca nella vita poterlo sceglierlo (e, oggi, averne uno).
Spesso è il caso a determinare la professione. Adam Smith, filosofo e padre della scienza economica moderna, ha osservato che le difformità tra i talenti naturali degli uomini sono dapprima minime ed è la divisione del lavoro che le accentua, per cui da bambino un filosofo non differisce da un facchino ed è solo la società che li indirizza verso occupazioni divergenti.
Chi ha ricevuto dalla lotteria naturale e sociale l’opportunità di un lavoro che lo soddisfa non dovrebbe dimenticare l’enorme spreco d’intelligenza e di vita nelle nostre società, l’esistenza di energie latenti che vengono imprigionate dalla prevedibile ripetitività e torpore mentale diffusi dai lavori ripetitivi o degradanti. Il compito difficile che ci attende, nella scuola, nell’università, nell’industria e nelle istituzioni, ma, per ciascuno, individualmente nel proprio settore di competenza, è quello di risvegliare tali energie latenti, di coniugare la fantasia con la concretezza e il senso del possibile con i vincoli della realtà.

Repubblica 17.7.12
Dove termina un paese, una spiaggia o la vita?

Di sicuro non tutte le divisioni che facciamo sono davvero “naturali”
Il confine
Dagli atlanti alle cellule, come separiamo la realtà
di Achille Varzi


Che cos’aveva di così speciale quel solco d’aratro da costare addirittura la vita al fratello che osò varcarlo? Che cos’aveva di magico la matita con cui Jefferson disegnò i confini dai quali nacquero gli Stati del Nordovest? Com’è possibile che alle potenze coloniali sia stato sufficiente tracciare delle linee su una mappa per spartirsi a tavolino le “terre pagane”? Solco dopo solco, linea dopo linea, i confini hanno invaso le nostre vite e riempito i nostri atlanti. A loro abbiamo asservito le nostre azioni e affidato la nostra storia, le nostre radici, diciamo pure la nostra identità. Da loro dipende il nostro senso di appartenenza a un luogo e per loro abbiamo imparato ad avere rispetto e a pretenderlo dagli altri. Diceva Lord Curzon che i confini sono la lama di rasoio sulla quale giace sospeso il nostro destino di pace e di guerra, ed è davvero così, oggi come sempre: dai conflitti nel Kashmir ai contrasti in Asia Centrale sino alle guerriglie di quartiere, ai litigi tra vicini, ai diverbi sui gol fantasma e sugli arrivi al fotofinish. Da dove viene tutto il potere di queste linee così sottili? La risposta, ovviamente, è che viene da noi. Ai tempi di Romolo si poteva anche pensare che scaturisse dalla loro presunta sacralità. L’aratro traduceva in solco il volere inesorabile delle divinità. Oggi abbiamo imparato a dire che si tratta di consono accordi, stipulazioni, e non è un caso che oltre alla matita Jefferson e i colonialisti avessero usato anche il righello. È comunque rischioso prendersene gioco, ma tant’è: almeno sappiamo che il potere dei confini è artificiale. Risiede interamente nell’autorità di chi li traccia e nel consenso di chi li accetta. Permane, tuttavia, l’idea che non sempre sia così. In fondo basta aprire l’atlante per vedere la differenza: da un lato la Lombardia, gli Stati del Nordovest, i territori disegnati dalla nostra mano; dall’altro la Sardegna, l’Irlanda, i territori disegnati dalla Natura. E se è vero che nel primo caso si tratta di confini del tutto artificiali, i confini naturali del secondo tipo sembrerebbero riflettere discontinuità fisiche e in qualche modo oggettive (fiumi, litorali, catene montuose) del tutto indipendenti dai nostri fiat stipulativi. Sui confini artificiali si può discutere, e quando non bastano carta e penna si possono anche combattere guerre sanguinose prima di giungere a un accordo. Su quelli naturali no: si possono venerare o si può decidere di non attribuire loro alcun valore, ma lì e non si può chiedere ai cartografi di ometterli dalle loro mappe. Lucien Febvre faceva bene a enfatizzare l’importanza di questa differenza sul piano strettamente geopolitico: con tutto il rispetto per la Lombardia, i confini della Sardegna e dell’Irlanda sono un’altra cosa, e gli Alberti da Giussano non avranno mai gli argomenti di un Simon Mossa o un Arthur Griffith. Ma la distinzione tra artificiale e naturale ha portata ben più ampia. Perché non si tratta solo di atlanti e mappamondi: i confini svolgono un ruolo cruciale a qualsiasi livello di rappresentazione della realtà. Pensiamo a un confine ogni volta che pensiamo a qualcosa come a un’entità divisa da ciò che la circonda. C’è un confine, una superficie che separa l’interno di questa mela dal suo esterno. C’è un confine che delimita il mio corpo. C’è un confine attorno a ogni sasso, ogni fiore, ogni fiocco di neve. In questi casi viene spontaneo parlare di confini naturali. In altri casi si tratta invece di demarcazioni artificiali, come quella che separa le due metà della mela, o la mia testa dal resto del corpo. Anche gli eventi e i processi che ci vedono partecipi hanno dei confini, a partire dai loro limiti temporali. E se in alcuni casi si tratta chiaramente di convenzioni (è l’arbitro che decide quando inizia la partita e quando finisce), in altri sembrerebbe invece che questi limiti godano di esistenza autonoma (non spetta a noi decidere se è nata una persona, o se una persona è ancora in vita). Insomma, i confini sono lo strumento mediante il quale strutturiamo il molteplice. Sono le linee che definiscono tutte le mappe che facciamo del mondo: quelle sociali come quelle che emergono attraverso le trame della nostra vita individuale. E questa ubiquità della nozione di confine va di pari passo con la distinzione tra naturale e artificiale. Ma, appunto, è una distinzione fondata? Per tornare alla geografia, è vero che sull’atlante Sardegna e Irlanda esibiscono un confine tutto loro. Ma è vero altresì che se andiamo a vedere dappresso le cose cambiano. Quella che sembrava una linea netta si rivela un susseguirsi di scogli, moli, banchine, calate, pontili, cementi incrostati, alvenzioni, ghe imputridite. Possiamo anche identificare il confine dell’isola con la battigia, ma quella linea è tutt’altro che stabile ed è solo filtrandola attraverso stipulazioni approssimative che il litorale emerge nella sua apparente unitarietà. Idem per tutti quei confini che a prima vista sembrerebbero disegnati dalla mano della Natura, a partire dalla tanto decantata barriera alpina. Sarà anche il confine più sublime che il Creatore potesse donarci, come diceva Mazzini. Ma resta il fatto che ancora di recente Italia e Svizzera hanno ritenuto di doversi accordare sull’esatta collocazione del confine di stato in considerazione dei mutamenti climatici cui sono soggette le linee di cresta dei ghiacciai e della graduale erosione cui sono soggette le linee di cresta rocciose. Tutto questo dovrebbe farci riflettere, perché non c’è retorica peggiore di quella che spaccia l’artificiale per naturale. Ma soprattutto dobbiamo riflettere quando dalla geografia passiamo al resto. Perché anche col resto è solo questione di scala. Basta scendere un po’ ed ecco che persino gli oggetti più compatti ci appaiono come sciami di particelle in frenetica attività. Basta cambiare scala e il confine della mela – se di confine si può ancora parlare – sopravvive soltanto grazie alla nostra azione unificatrice. Stesso discorso per i presunti confini naturali di certi eventi. Citavo prima la nascita e la morte di un organismo come ovvi candidati, ma i dibattiti sull’aborto e sull’eutanasia dimostrano che le cose non sono così semplici. Spesso si tratta davvero di decidere se una persona è ancora in vita, così come si tratta di decidere quando una persona comincia propriamente a esistere. Come si fa a negare che i criteri che ci guidano in queste decisioni siano espressione delle nostre credenze, delle nostre teorie, delle nostre convinzioni? Eccoci così al dilemma di fondo. Nel Fedro Platone faceva dire a Socrate che bisogna smembrare l’essere come un buon macellaio, seguendone le “nervature naturali”, ed è comprensibile che tanto le scienze quanto il senso comune abbiano preso questa ricetta molto sul serio. Se il mondo non imponesse alcun vincolo, se potessimo “smembrarlo” lungo le venature artificiali che meglio ci aggradano, allora la nostra conoscenza della realtà si ridurrebbe a mera conoscenza delle mappe che noi stessi abbiamo disegnato e c’è il rischio di non riuscire più a distinguere fatti e interpretazioni. D’altro canto, abbiamo appena visto che l’esistenza di vere e proprie venature naturali è un postulato metafisico che oggi più che mai appare dubbio e pregiudiziale. Quindi? Accontentiamoci di due considerazioni. Innanzitutto, va da sé che limitarsi a sostituire le venature di Platone con il righello di Jefferson sarebbe un disastro, dentro e fuori metafora. Purtroppo a volte è successo proprio così: l’idea di classificare le persone in base al colore della pelle o alle loro preferenze sessuali non è migliore di quella che portò a tracciare i confini africani tagliando arbitrariamente a metà popoli e villaggi. Ciò non toglie che proprio qui, nel loro carattere arbitrario, risieda il vero potenziale delle soluzioni convenzionali. Dal fatto che siano arbitrarie non segue che siano tutte egualmente ragionevoli. Segue che è in nostro arbitrio adottare quelle che ci sembrano giuste e modificarle quando invece risultano sbagliate, non già perché vanno “contro natura” ma perché non tengono conto di esigenze e punti di vista legittimi. In secondo luogo, quand’anche si volesse insistere sullo statuto naturale e oggettivo di certi confini, cerchiamo almeno di non barare. Se un confine è artificiale, a nulla varrà issare cartelli, transenne, fili spinati, sbarramenti di ogni sorta. Tutte queste cose sono molto concrete, e più concrete sono, più fanno paura. Ma non sono sufficienti a trasformare un confine artificiale in una frontiera naturale e non cambieranno mai lo statuto in ultima analisi convenzionale dell’entità delimitata. La Grande Muraglia cinese dura da secoli, ma il muro di Berlino ha resistito solo trent’anni e il nuovo muro d’Israele non è nemmeno stato riconosciuto dall’Onu. Anche i ragazzi di Tijuana hanno fatto così con la triplice barriera che gli Usa hanno eretto per separarli da San Diego: per loro è solo una grossa rete per giocare a pallavolo con gli amici californiani.

Repubblica 17.7.12
“Star bene con Socrate” benvenuti nel paese più filosofico d’Italia
A Corigliano il primo sportello comunale del pensiero
di Antonella Gaeta


DALLO scorso settembre a oggi sono oltre cinquecento (su seimila) gli abitanti di Corigliano d’Otranto, a sud di Lecce, che si sono sottoposti a una consulenza filosofica singola, collettiva o hanno partecipato a un laboratorio permanente del pensiero, seminari tematici rivolti a tutta la popolazione. Ecco perché oggi, prima di entrare in questo paese barocco, occorre sapere che si sta per varcare la soglia di un’antichissima disciplina, la filosofia, e che da un anno, Corigliano è diventato il paese più filosofico d’Italia. Qui in piena Grecìa salentina, un insieme di paesi ellenofoni, si parla di Socrate e della sua maieutica tutta la mattinata con Graziella Lupo, filosofa comunale. È lei che insieme al sindaco Ada Fiore (insegnante di Filosofia a sua volta) ha compiuto una sorta di riforma del pensiero, culminata a fine maggio scorso con la nascita del primo sportello filosofico istituzionalizzato in Italia ovvero nato con una delibera comunale. «Volevamo far sperimentare a tutti un metodo alternativo per affrontare disagi della vita di ogni giorno ma anche creare, attraverso la filosofia, senso di responsabilità e partecipazione. Uno sportello del genere ha particolarmente senso in tempo di crisi», spiega il sindaco. La consulenza filosofica che si pratica a Corigliano è nata in Germania 30 anni fa con Gerd Achenbach che ha recuperato il ruolo pubblico e pratico della filosofia nell’antica Grecia e il concetto di “pensare bene per vivere bene”. La filosofa comunale riceve il venerdì su prenotazione e il suo ufficio è accanto a quello del sindaco. È uno sportello aperto, nel senso che possono usarlo anche dai paesi vicini e in teoria da tutta l’Italia. La consulente non costa nulla al Comune, mentre per l’utente il costo per ora è pari a 15 euro. Ci si rivolge allo sportello per esporre i propri problemi e, da quel momento, si segue una pratica dialogica di tipo socratico, fatta di domande e risposte. Graziella Lupo parla di clienti, non di pazienti: «Non offriamo un servizio psicologico o di counselor perché non lavoriamo sull’autobiogra-fia o sulle emozioni, ma sulle idee». L’istituzione dello sportello ha creato dei malumori nell’Ordine degli psicologi che, in una lettera al sindaco firmata dal presidente pugliese, Giuseppe Luigi Palma, ha definito la professione di consulente filosofico un esercizio abusivo di quella di psicologo. I consulenti filosofici infatti non hanno un albo; la disciplina in Italia ha una figura di riferimento in Neri Pollastri, tra i primi consulenti a tenere uno sportello filosofico, pratica che oggi è diffusa a più livelli, dalle circoscrizioni alle associazioni. A partire da maggio scorso già una ventina di clienti seguono un percorso che Graziella Lupo fa durare al massimo dieci sedute. «È una questione di etica, oltre le dieci sedute si finisce per indurli a rimanere in un inutile limbo», chiarisce. A lei si rivolgono utenti trasversali. Ci sono camerieri, rappresentanti, librai, un ottico, una ricercatrice, un manager. Hanno mediamente dai 25 ai 40 anni, e gli uomini sono la maggioranza. Molteplici i problemi affrontati: vanno dalla noia alla precarietà, alla difficoltà di gestire i rapporti con i figli, dalle relazioni coniugali a quelle virtuali. La filosofa comunale tiene a ribadirlo: «Lo sportello è un momento di un processo filosofico che coinvolge tutto il paese e che ha dello straordinario». Nel centralissimo bar Castello, il proprietario, Angelo Anchora, mostra una cartolina verde con la sua domanda preferita «Perché sei nato? ». Con altri commercianti ha aderito alla campagna di diffusione delle dieci domande filosofiche e ha preso parte ai laboratori permanenti del pensiero tenuti qui da Oscar Brenifier, Serge Latouche e Michela Marzano. E, alla fine, ha trovato la sua risposta: «Non ero nato per lavorare ma per il piacere del vivere», racconta. A questi approdi sono arrivati in tanti e Corigliano d’Otranto oggi si è trasformato in uno sportello filosofico diffuso. Nel paese più filosofico d’Italia il sindaco Ada Fiore ha inaugurato tre settimane fa nel centro storico “Sophia nel paese della meraviglia”, un parco dedicato alla filosofia con alberi parlanti, sedie libro, sagome sensoriali, un cruciverba del pensiero. Sei giorni di apertura e già mille visitatori, a lasciarsi indicare dai filosofi i sensi possibili della vita.

Repubblica 17.7.12
Il Festival della Mente a Sarzana
Cultura e conoscenza da Augé a Zagrebelsky


DAL 31 agosto al 2 settembre torna a Sarzana il Festival della Mente, diretto da Giulia Cogoli, quest’anno alla sua nona edizione. In programma tre giorni di conferenze, spettacoli e laboratori sparsi in più luoghi del centro storico della cittadine ligure, con ospiti italiani e stranieri. “Il diritto alla cultura, la responsabilità del sapere”, è il titolo dell’intervento di Gustavo Zagrebelsky. Sarà invece Marc Augé a difendere “La priorità della conoscenza”. Tra i molti altri appuntamenti, quelli di Erri De Luca, Ascanio Celestini e Luca Ronconi. Ci sono poi gli spettacoli: dal nuovo lavoro di Marco Paolini a Paolo Rumiz protagonista, con il compositore Alfredo Lacosegliaz, di un reading musicale. Tra i laboratori, dedicati anche alla cucina e al mare, ce ne sarà uno di disegno curato da Tullio Pericoli.