sabato 20 aprile 2019

Corriere 19.4.19
Grecia e Polonia chiedono (di nuovo) i danni di guerra alla Germania
Il parlamento di Atene ha formalizzato la richiesta, un messaggio del governo di Varsavia chiede di seguirne l’esempio. Il «conto» è di 1.000 miliardi. Berlino dice no e si richiama a due trattati (l’ultimo del 1990)
di Claudio Del Frate

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Corriere 20.4.19
Il neurologo
Gay da curare?
Antiscientifico
Il nostro sesso è nel cervello
di Rosario Sorrentino


«Gli omosessuali vanno curati, sono malati». Ma per cortesia! Chissà che avrà pensato il povero Oscar Wilde, all’indomani delle tanto urlate enuncia-zioni sulle cause dell’omo-sessualità, al Family Day, tra cui quella di un tor-mentato, esasperato e irri-solto complesso di Edipo. Mettiamoci l’anima in pa-ce una volta per tutte, l’o-mosessualità non è una scelta o uno stile di vita, tantomeno una malattia mentale o una deviazione sessuale da «curare» con mirati ritiri spirituali da parte di farneticanti asso-ciazioni o comunità con annesso gruppo di pre-ghiera pronte a promet-tere, attraverso percorsi terapeutici, la «guarigio-ne», che per loro consiste nell’acquisizione dello sta-tus più rassicurante, quel-lo dell’eterosessuale. Se ancora oggi si sente il bi-sogno di ribadire un con-cetto sin troppo ovvio, è perché si assiste ad un ri-gurgito rabbioso da parte di una cultura retriva, fatta di non conoscenza, che vuole riproporre una cac-cia alle streghe in chiave postmoderna. Ora, che qualcuno punti sulla di-sinformazione e vagheggi teorie strampalate o cure da strapazzo per catturare qualche consenso in più, o per un personale calcolo politico, non mi sorpren-de. Trovo tuttavia curioso che il movimento Anti-scientifico da una parte arrivi a negare l’obbligato-rietà dell’utilizzo di alcuni vaccini, per contrastare malattie serie e convali-date dalla comunità scien-tifica, e poi si affanni in vere battaglie ideologiche, con una «scienza fai da te», arruolando malattie che non esistono, come l’omosessualità. Non si può essere pro o contro la scienza a giorni alterni. Agli inizi degli anni Novanta l’Oms e l’Icd, due tra le più accreditate agenzie scientifiche a livello mondiale, hanno definitivamente depennato l’omosessualità dall’elenco delle malattie definendola una «variante naturale del comportamento umano», includendola insieme alla eterosessualità e bisessualità tra gli orientamenti sessuali. Noi non siamo in grado di decidere, scegliere liberamente e a piacimento il nostro orientamento sessuale, non ci è concesso, perché è qualcosa che avviene nel cervello nel periodo prenatale e riguarda alcune tra le più delicate fasi, rivoluzioni biologiche ed ormonali che si verificano in questo organo. Nessuno di noi viene mai interpellato prima al riguardo; la natura, che ci piaccia o no, ha la sua logica, segue il suo corso e non è né di destra, né di sinistra.

il manifesto 20.4.19
Bocciato il ricorso. Lucano non può tornare a Riace
La Comune di Riace. La Cassazione aveva annullato il divieto di dimora. Ma il Riesame ha dato ragione ai pm
di Adriana Pollice


Mimmo Lucano deve restare in esilio, fuori dai confini di Riace. Così ha deciso ieri il tribunale della Libertà di Reggio Calabria, rigettando il ricorso del sindaco sospeso. La pronuncia riguarda il procedimento relativo all’operazione Xenia, in base alla quale è stato rinviato a giudizio con 26 persone per la gestione dei migranti e per l’affido della raccolta rifiuti del comune della Locride.
È LA SECONDA VOLTA che il tribunale ha dato torto a Lucano. Il 27 febbraio la Cassazione si era espressa a favore del sindaco annullando con rinvio il divieto di dimora. Secondo gli ermellini, mancavano gli indizi di comportamenti fraudolenti nel caso del servizio rifiuti: le delibere e gli atti di affidamento alle due cooperative L’Aquilone ed Ecoriace sarebbero stati adottati con «collegialità» e con i «prescritti pareri di regolarità tecnica e contabile da parte dei rispettivi responsabili del servizio interessato». Ancora, la Cassazione ha sottolineato che «l’affidamento diretto di appalti in favore delle cooperative sociali finalizzate all’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate» è consentito a condizione che gli importi siano «inferiori alla soglia comunitaria».
Sul fronte migranti, invece, gli ermellini avevano rilevato elementi di «gravità indiziaria» ma avevano anche valutato che Lucano si sarebbe dato da fare per favorire la permanenza in Italia della sua compagna, tenendo quindi in considerazione la relazione affettiva. E sui «presunti matrimoni di comodo», che sarebbero stati favoriti dal sindaco tra immigrati e concittadini, nel dispositivo si legge: «Poggia sulle incerte basi di un quadro di riferimento fattuale non solo sfornito di significativi e precisi elementi di riscontro ma, addirittura, escluso da qualsiasi contestazione formalmente elevata in sede cautelare». Ieri però il Tribunale della Libertà ha di nuovo accolto la tesi dei pm. Il processo inizierà l’11 giugno a Locri. Lucano dovrà difendersi dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e abuso d’ufficio. La procura in origine aveva contestato anche i reati di associazione per delinquere, truffa, falso, concorso in corruzione e malversazione, capi rigettati dal gip.
LA SCORSA SETTIMANA la procura di Locri ha emesso un secondo avviso di conclusione delle indagini nei confronti del sindaco sospeso: gli vengono contestati i reati di truffa e falso ideologico. Nel mirino l’utilizzo dei fondi per l’accoglienza dei migranti. A Lucano si contesta di avere indotto in errore il Viminale e la prefettura di Reggio Calabria con «una falsa attestazione in cui veniva dichiarato che le strutture di accoglienza erano rispondenti e conformi alle normative vigenti in materia di idoneità abitativa, impiantistica e condizioni igienico-sanitarie». Alla notizia della nuova inchiesta, è stato amaro il commento di Lucano: «C’è un accanimento contro Riace, contro di me e contro l’esperienza di integrazione di cui il comune e io siamo stati protagonisti. Ho sempre agito nel rispetto della legge, sulla base delle richieste che mi venivano dalla prefettura».

La Stampa 20.4.19
Crisi economica e nazionalismo
Stalin batte il record di popolarità
di Giuseppe Agliastro


Il sanguinario Stalin è sempre più popolare nella Russia di Putin. Un recente sondaggio del centro demoscopico Levada rivela che il 70% dei russi giudica positivamente il ruolo svolto dal dittatore sovietico nella storia della Russia. Si tratta di un nuovo record che fa impallidire tutti i risultati precedenti e che secondo gli esperti ha due cause principali: il patriottismo acritico seminato negli anni dal Cremlino e l’abbassamento degli standard di vita che provoca una nostalgia irrazionale per il passato.
Nel 2016, i russi che apprezzavano Stalin erano il 54% del totale, il 32% degli intervistati diceva però di avere un’opinione negativa del satrapo rosso responsabile della morte di milioni di innocenti. Adesso a «bocciare» Stalin è appena il 19% dei russi. Ma l’elemento forse più preoccupante è che il 46% dei 1.600 individui interrogati dal centro Levada ritiene che le repressioni dello stalinismo siano «totalmente» o «in qualche modo» giustificate dai successi raggiunti all’epoca dall’Urss. Solo il 45% del campione sostiene invece che i progressi tecnici e la vittoria nella Seconda guerra mondiale non bastino a far dimenticare gulag ed esecuzioni sommarie. Un bel passo indietro rispetto al 60% del 2008.
Le cause principali
Ma come è stato possibile arrivare a questo punto? Una grossa fetta di responsabilità ricade sulle spalle di Vladimir Putin, che in questi anni ha mostrato un atteggiamento ambivalente nei confronti di Stalin. Da un lato il leader del Cremlino prende le distanze dall’artefice del Grande Terrore, ma dall’altro lo esalta come il fautore della vittoria contro le truppe naziste nella Seconda guerra mondiale e come colui che trasformò l’Urss in una grande potenza.
In Russia, tv e testi scolastici diffondono una versione idealizzata della storia nazionale. Si concentrano sui successi di Mosca, soprattutto su quelli militari, e sfiorano appena i crimini del regime sovietico. Lo scopo è quello di diffondere il patriottismo e compattare i russi attorno al loro leader, Vladimir Putin. Per centrare l’obiettivo sono stati mobilitati persino bambini e adolescenti: sono già mezzo milione i ragazzini tra gli 8 e i 17 anni che indossano il basco rosso della Yunarmiya, un gruppo paramilitare creato tre anni fa per diffondere tra i più giovani il culto della patria e delle sue forze armate. Non è quindi un caso se - come sottolinea l’analista del Centro Levada Karina Pipia - non solo i più anziani ma persino gli under 25 hanno un’idea «irrazionale e romantica» del passato sovietico e della figura di Stalin.
C’è però anche qualcos’altro dietro l’impennata della popolarità di colui che il poeta Mandelštam chiamava con disprezzo «il Montanaro del Cremlino». «Stalin è visto come un personaggio che garantiva giustizia sociale», spiega Pipia, secondo cui i risultati del sondaggio sono in parte dovuti al malcontento per la situazione economica non fiorente e per l’impopolare riforma che ha innalzato l’età in cui si può andare in pensione. La pensa così anche il sociologo Leonty Byzov. «Stalin - afferma - comincia a essere percepito come un simbolo di giustizia e un’alternativa all’attuale governo, ritenuto ingiusto, crudele e insensibile». La riforma delle pensioni ha ridotto il consenso attorno a Putin, che resta comunque molto alto. A fare da parafulmine per le iniziative impopolari c’è sempre il governo del fedele premier Dmitry Medvedev. I russi in compenso hanno in grande considerazione un criminale come Stalin. Nell’ultimo film di Hellboy, il demone protagonista apostrofa la strega Baba Yaga: «Mi ricordo - le dice - come hai cercato di evocare il fantasma di Stalin». Ma in Russia hanno sostituito Stalin con Hitler. A ognuno il suo dittatore.

La Stampa 20.4.19
Marijuana, valutiamo i rischi prima di legalizzarla
di Antonio Maria Costa


La marijuana è una sostanza psicoattiva ottenuta dalle infiorescenze essiccate della pianta di canapa. Essendo un prodotto psicotropo (capace di creare dipendenza), il mercato è regolato da accordi internazionali (convenzioni Onu) che ne limitano produzione, commercio e uso. L’obiettivo di proteggere la salute controllando l’offerta, causa danni collaterali: traffici e violenza, in un mercato in mano alla criminalità. Oltre Atlantico (Canada, Uruguay, alcuni stati Usa) si realizza l’ipotesi alternativa: la marijuana libera.
Le tre fasi
Il processo segue tre fasi. Prima si presenta la droga come farmaco. Poi entrano nel mercato investitori privati, attratti da lauti profitti. Infine si promuove la marijuana ricreativa: il vero obiettivo. Prima di introdurre in Europa la legalizzazione, valutiamo costi e benefici. Cominciamo dal lato positivo.
La marijuana terapeutica. L’arbusto contiene oltre 200 sostanze: tra esse il cannabidiolo (Cbd), che è efficace contro l’epilessia (la sindrome di Dravet) e come anti-dolorifico per sofferenze croniche. Nei malati afflitti da sclerosi multipla il cannabidiolo riduce i sintomi spastici. L’agenzia Usa dei farmaci già sancisce diversi altri trattamenti a base di Cbd: tra essi Epidiolex ritenuto efficace contro nausea e vomito causati da chemo. In breve, la marijuana medica è fondamentale se segue le procedure ordinarie di approvazione dei farmaci, disponibili su ricetta. Lo spinello al supermercato è altra cosa.
Terapeutica e ricreativa
La marijuana ricreativa. Ogni pianta contiene elementi con proprietà naturali contrastanti. La vite produce splendide bevande, ma l’alcool uccide 3 milioni di persone l’anno. L’oppio produce un analgesico essenziale (morfina), ma anche un narcotico (eroina) che uccide cinquecentomila persone l’anno. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Onu, 2016), la National Academy of Medicine (Usa, 2017) e il King’s College (Londra, 2019) hanno valutato l’uso ludico della marijuana, appunto lo spinello. Tutti gli studi confermano il danno causato dal suo principio attivo, il tetra-idro-cannabinolo (Thc).
Nelle 24 ore dall’uso, il Thc altera le capacità cognitive: apprendimento, memoria e attenzione (particolarmente serio, quest’ultimo, alla guida dell’auto). L’uso persistente negli anni nuoce alle attività quotidiane: studio, lavoro e relazioni sociali. Non solo il soggetto ha una marcia in meno. Il rischio maggiore (5 volte la norma) è di sviluppare disturbi bipolari, tendenza al suicidio, ansia sociale. Il susseguirsi di episodi psicotici può portare alla distruzione della mente: schizofrenia.
Quindi la marijuana è un arbusto equilibrato che contiene sostanze antagoniste, Thc e Cbd. Allo stato naturale, le proporzioni equivalgono (2-4% per ciascuna). Ma la brama di profitto spinge gli operatori nel settore ad aumentare i principi attivi fino a 10 volte la norma. La manipolazione è fatta alterando geneticamente la pianta, secondo le preferenze espresse dal mercato. Per esempio, la versione con alto livello di Cbd (e basso Thc) ha effetto benefico sul fisico: analgesia e rilassamento, che sono alla base dell’opzione medica. Chi invece fuma canne per diletto, predilige varietà con livelli alti di Thc – per l’effetto narcotizzante, finanche psichedelico. Le conseguenze possono essere devastanti. Una trentina d’anni fa, una canna al 3%=un martini. Poi si è elevato il livello di Thc: canna al 12%=triplo martini. Sul mercato ora si trova marijuana con THC al 30%. L’estratto di droga usato nei vaporizzatori contiene 90% di Thc. Una bomba, resa ancora più distruttiva dal consiglio al consumatore: «Inala profondamente e trattieni il fumo nei polmoni».
La ricerca sui fumatori
Maria di Forti, docente di psichiatria al King’s College, ha esaminato migliaia di fumatori di cannabis contro altrettanti soggetti normali, con caratteristiche demografiche analoghe. Il rapporto (marzo 2019) non lascia dubbi: «Il rischio di schizofrenia aumenta con frequenza d’uso e concentramento del principio attivo, Thc». Anche sul terreno il danno e’ sempre più visibile. Secondo l’Agency for Health Care and Quality (Usa), nell’ultimo anno oltre 90 mila persone sono state ricoverate per schizofrenia e danno psichico causato da cannabis – tre volte il numero di 10 anni prima. Le richieste di ospedalizzazione sono aumentate del 40%.
Eppure non tutti sono convinti. Accademici e medici confermano i danni causati dalla marijuana mentre il cittadino vota, in referendum e in parlamento, a favore di legalizzazione. Cosa causa questa divergenza?
La marijuana capitalista
In America la marijuana medica all’inizio crea un mercato specializzato: piccoli produttori, con pochi ettari e un giro d’affari di milioni. La legalizzazione a scopo ricreativo trasforma l’economia della droga: crea un potenziale giro d’affari di 100 miliardi di dollari all’anno negli Usa, e altrettanti nel resto del mondo. Un nuovo eldorado, scrivono gli analisti di Wall Street. Nel 2018 entra in gioco il grande capitale: le maggiori aziende farmaceutiche (Novartis-Sandoz), alimentari (Constellation Brands, a breve Coca Cola), tabacco (Philip Morris e Marlboro). Multinazionali che rimediano al declino della vendita di tradizionali sostanze dannose (sigarette, alcol) con un’altra sostanza tossica (canna).
Il capitalismo della droga elogia i benefici della marijuana terapeutica, e sopprime ogni informazione sul danno causato dallo spinello. Soprattutto si vanta di sottrarre alla mafia il lucroso mercato della droga, assoggettandolo a norme, tasse e imposte. La realtà è diversa. Le entrate al fisco, per esempio in California, sono inferiori alle aspettative: 1% delle entrate erariali. Né sparisce il mercato illegale. Le autorità sono infatti prigioniere di un noto dilemma. Se tengono alto il prezzo della canna (esempio: in spacci di stato), il consumatore ricorre al mercato nero in strada. Se il prezzo al pubblico è basso (esempio: in vendita libere), consumo e danno alla salute aumentano. Quindi la violenza mafiosa non diminuisce, oppure la tossicodipendenza cresce.
Le alternative
Legalizzare o meno? Benefici e danni sono incontestabili. Se l’opinione pubblica non accetta più i divieti fisici (tipico argomento libertario: lo Stato non ha diritto di impormi lo stile di vita), esistono alternative alla legalizzazione, al fine di continuare a proteggere salute e sicurezza. Per esempio, da decenni l’umanità contiene il danno causato dal tabagismo, con bando al fumo in pubblico, multe, risarcimenti, tasse e prezzi alti. L’opinione pubblica si mobilita contro il fumo, il consumo dimezza (pur se ancora causa 6 milioni di morti l’anno). Non è facile sviluppare un simile anticorpo socio-culturale contro i miliardi mobilitati dalla lobby pro-droga che banalizza il rischio, nega le conseguenze sulla salute, e intasca beneficio individuale con danno collettivo. Ma possiamo impegnarci in campagne di sensibilizzazione e prevenzione, specie tra i giovani, sulla pericolosità della droga in generale e del cannabis in particolare.
A questo riguardo, è interessante il raffronto tra Svezia e Italia, dove i sistemi scolastici inducono livelli opposti di consapevolezza tra gli studenti: 3 giovani su 4 in Svezia giudicano la canna pericolosa, 1 su 4 in Italia. I consumi riflettono la conseguenza: nelle scuole la canna è fumata in Italia tre volte più che in Svezia.
Scuola, carceri e banche
Tre brevi consigli. Iniziamo dalla scuola per proteggere la salute delle generazioni future. Depenalizziamo il possesso di marijuana in modo da inviare i tossicodipendenti ai servizi sanitari, piuttosto che in carcere. Soprattutto, e terzo, puniamo banche e banchieri che riciclano narco-miliardi a danno della salute pubblica.

La Stampa 20.4.19
Cose da Kafka
Israele, la battaglia per i manoscritti supera la fantasia del “Processo”
di Meir Ouziel


Se oggi Franz Kafka fosse vivo non crederebbe alla vicenda kafkiana di cui lui stesso è causa. Recentemente alcuni rappresentanti della Biblioteca Nazionale di Israele si sono recati in un appartamento di Tel Aviv alla ricerca di suoi manoscritti (tra i quali, forse, racconti finora mai pubblicati) e nei giorni scorsi (il 10 aprile) un tribunale svizzero li ha autorizzati ad aprire alcune casseforti a Zurigo in cui con ogni probabilità si trovano altri suoi scritti. Tutto questo raro materiale letterario fa parte dell’archivio di Max Brod, il migliore amico di Kafka, che apparteneva alla signorina Eva Hoffe, la proprietaria dell’appartamento, delle casseforti di Tel Aviv e di quelle di Zurigo. La casa della donna era in uno stato pietoso.
L’archivio di Max Brod
Fino all’estate scorsa Eva Hoffe, nubile e senza figli, vi aveva vissuto da sola, con numerosi gatti, e la visita dei rappresentanti della Biblioteca Nazionale di Israele è avvenuta dopo un lungo contenzioso legale dal quale la donna, che insisteva a serbare in casa sua quei tesori e a decidere a quali archivi consegnarli, è uscita di volta in volta sconfitta. Io ho conosciuto la signorina Hoffe e ho avuto modo di conversare con lei.
I manoscritti appartengono, come si è detto, all’archivio di Max Brod, anch’egli scrittore ebreo di Praga e fin da giovane amico intimo di Kafka. Kafka morì di tubercolosi all’età di quarantun anni, ancor prima dell’avvento del nazismo, e lasciò a Brod un testamento secondo il quale gli cedeva tutti i suoi manoscritti e gli ordinava di bruciarli. Max Brod non lo fece. Al contrario, pubblicò i manoscritti e quando fuggì dai nazisti per approdare in Terra di Israele li portò con sé. Così il mondo conobbe Il processo e gli altri capolavori di Franz Kafka. Esistono poche opere letterarie di importanza mondiale quali quelle di Kafka, scampate alle fiamme.
Max Brod morì a Tel Aviv e lasciò il suo archivio a Esther Hoffe, la sua segretaria e la persona a lui più vicina. Anche Esther passò a miglior vita. Le sopravvissero le due figlie: Ruth ed Eva. Ruth venne a mancare in età relativamente giovane e nelle casseforti di Eva rimase ciò che tutto il mondo avrebbe voluto vedere: pagine autografe di Kafka e i diari di Max Brod riguardanti l’amico. Ancora oggi non sappiamo esattamente che cosa ci sia in quei forzieri.
Materiali contesi
La Biblioteca Nazionale di Israele sostiene che i materiali in essi contenuti le appartengono, in quanto Max Brod era intenzionato a lasciarglieli. Altre istituzioni obiettano che erano invece destinati a loro ed Eva Hoffe, che li aveva ricevuti in eredità, proclamava con fermezza che stava a lei decidere a quali archivi, in Israele o all’estero, affidare quel tesoro letterario. La battaglia legale che ne conseguì le spezzò il cuore e la ridusse in uno stato di indigenza. I processi intentati contro di lei la videro sconfitta e il contenuto dell’archivio di Brod andò alla Biblioteca Nazionale dello Stato di Israele. La scorsa estate, in agosto, Eva Hoffe è morta in un ospedale di Tel Aviv all’età di 85 anni.
Io la conobbi in seguito al mio interesse per Max Brod e Franz Kafka. Di tanto in tanto ci parlavamo. Mi raccontava del garbuglio legale nel quale era rimasta avviluppata come K., il protagonista del Processo. Dopo essere uscita sconfitta da varie cause, arrivate fino alla Suprema Corte di Giustizia israeliana, mi disse: «Sono in lutto, mi sono rasata i capelli».
Questa è una vicenda kafkiana in cui uno Stato e altri organi di potere hanno impedito a una donna debole di decidere che cosa fare dei manoscritti in suo possesso. Parafrasando il grande scrittore praghese: è una giustizia che ha una vita propria. È impossibile capirla, raggiungerla, spiegarla. Ed è impossibile non ritrovarsi in una situazione in cui non ti faccia sentire colpevole.
So che esistono diversi aspetti della questione. Che la vendita in passato del manoscritto del Processo per due milioni di sterline a un’asta di Sotheby’s da parte di Esther Hoffe suscitò risentimento (secondo la legge israeliana la signora Hoffe avrebbe dovuto preparare alcune fotocopie del manoscritto, cosa che in effetti fece; inoltre pagò per intero le tasse relative alla vendita).
Durante un’udienza del processo in un tribunale di Tel Aviv in cui ero presente tutti i posti a sedere erano occupati da avvocati. Ogni gruppo di legali rappresentava interessi diversi. A Eva Hoffe non fu permesso di dire una sola parola e io notai quanto faticava a stare zitta quando si parlava di lei, di sua madre e di Max Brod, che l’aveva cresciuta.
Novantacinque anni dopo
È un peccato che Kafka non fosse in quell’aula. Non avrebbe creduto che in un tribunale di Tel Aviv si discutesse di ogni parola di un biglietto da lui scritto novantacinque anni prima in una squallida stanza di Berlino - magro come uno scheletro e moribondo a causa della tubercolosi, con accanto la sua amata Dora, allora diciannovenne .- nel quale chiedeva a Max Brod di bruciare tutti i suoi scritti senza neppure leggerli.
La corte, per un breve momento, dibatté anche se Max Brod, non avendo seguito la volontà di Kafka e le istruzioni del testamento, non si fosse impossessato dei manoscritti in maniera disonesta. Uno dei giudici disse persino: «Potremmo bruciarli oggi stesso. Organizzare una cerimonia e dar loro fuoco». Era uno scherzo, naturalmente. Ma chiunque abbia letto Il processo sa che una parola che all’imputato sembra pronunciata per scherzo potrebbe rivelarsi una seria norma di legge.
I processi vertevano sulla questione se i manoscritti di Kafka e di Max Brod fossero stati effettivamente regalati da quest’ultimo a Esther Hoffe, la madre di Eva. Esiste un documento che lo comprova ma gli avvocati cercarono di dimostrare che quel dono in realtà non era tale.
Sono sicuro che se nel 1924 il tubercolotico Kafka, agonizzante in un letto di Berlino, avesse saputo che lo Stato di Israele, quasi un secolo dopo, avrebbe discusso con tanta prolissità, nel corso di un processo andato avanti per anni, su quanti quaderni scritti di suo pugno aveva lasciato, avrebbe riscritto tutte le sue opere e le avrebbe rese ancora più assurde per avvicinarsi alla realtà.—
L’autore di questo articoloè un giornalista e scrittore israeliano

Repubblica 20.4.19
Portogallo
Quell’alleanza a sinistra che in tre anni ha vinto la sfida contro l’austerità
di Ettore Livini


Il contratto di governo (in rosso e non in gialloverde) ha tenuto. La guerra "dolce" all’austerità, combattuta da sinistra e senza strappi populisti, ha pagato. E il governo portoghese di Antonio Costa alza l’asticella e prova a infrangere altri due tabù: l’azzeramento del deficit di bilancio, giusto per zittire le ultime Cassandre del rigore, e la vittoria-bis alle elezioni politiche di ottobre. Dove la geringonça ("l’ammucchiata") – la fragile alleanza tra socialisti, comunisti e sinistra radicale alla guida del Paese dal novembre 2015 – si presenta con tutte le carte in regola per fare bene: i conti pubblici sono in ordine, la disoccupazione si è dimezzata al 6,3%, il Pil 2018 è cresciuto del 2,3%, il Partito socialista viaggia nei sondaggi al 36%, con un vantaggio a due cifre sul centrodestra. E il dribbling di Lisbona alle terapie lacrime e sangue imposte da Bruxelles per salvare il Paese dal crac (in cambio di 78 miliardi di prestiti) è diventato il laboratorio dove la sinistra europea – un po’ alle corde nell’era dei sovranismi – prova a ritrovare la sua identità.
Trenta mesi fa - quando Costa ha messo assieme il governo di minoranza promettendo di «chiudere la pagina dell’austerità» - nessuno avrebbe scommesso un centesimo sul suo successo.
Anche perché il colpo di coda del Portogallo era stato accolto a stretto giro di posta dalla contraerea dei falchi Ue.
«Vogliono far saltare i patti con l’Europa? Se ne pentiranno – aveva vaticinato il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble -. Torneranno a chiederci nuovi aiuti. E dovranno mandare giù condizioni ancora più dure».
Quel sospetto, all’epoca, l’avevano in molti. Le elezioni 2015 non avevano partorito una maggioranza certa. L’accordo tra socialisti, comunisti (favorevoli all’uscita dall’euro) e sinistra radicale del Bloco de Esquerda sembrava tenuto insieme dallo scotch. «Ma visto che nelle urne il 62% dei portoghesi aveva detto no a nuovi sacrifici, abbiamo gettato alle ortiche le differenze per lavorare a un compromesso pragmatico», spiega Marisa Matias, europarlamentare della sinistra radicale. Tradotto in un patto di governo come quello firmato in Italia tra Lega e M5s,«fatto di 51 punti sui quali era possibile trovare un’intesa – continua Matias - lasciando fuori i temi su cui non saremmo mai andati d’accordo». Il tutto unito da un unico fil rouge: l’addio (o quasi) al rigore: lo stipendio minimo è stato così alzato in due anni da 505 a 600 euro, pensioni e stipendi più bassi sono stati rimpolpati. Le 35 ore di lavoro settimanali, cancellate dalla Ue, sono risorte. E per far cassa si sono messe le mani nelle tasche dove di soldi ce n’erano: le tasse su tabacco, auto e benzina sono state ritoccate all’insù. Ai proprietari di immobili oltre i 600mila euro di valore è stato imposto un salasso del 3% l’anno. I produttori di bevande gassate sono stati colpiti dal "balzello sulle bollicine". E il Catasto ha varato "l’Imu democratica": chi ha casa vista mare paga il 20% in più, chi dà su un cimitero il 10% in meno.
Un libro dei sogni? I risultati dicono di no. Il deficit 2016, è vero, è schizzato oltre il limite concordato con l’Unione. Ma Bruxelles ha chiuso un occhio concedendo un anno di tregua. E il vento è girato. «Abbiamo creato 321mila posti di lavoro in due anni», è il mantra di Costa. Il rapporto deficit/Pil è crollato allo 0,5%. E il Portogallo è uno dei pochi Paesi in Europa dove dal 2015 le disuguaglianze si sono ridotte invece di allargarsi.
Non tutto è oro, naturalmente, quel che luccica. E anche a Lisbona qualche problemino da risolvere c’è ancora. Centomila giovani l’anno sono emigrati dal 2011 alzando l’età media da 37,9 a 45 anni. Il debito pubblico è al 121,5% del Pil. Le infermiere hanno bloccato il Paese per settimane chiedendo un aumento di stipendio da 1.200 a 1.600 euro al mese. Lo stesso hanno fatto funzionari pubblici, pompieri e gli autotrasportatori di carburanti. L’opposizione mette in dubbio tout court il successo della ricetta Costa: «Il boom di questi ultimi due anni – è la teoria - è stato gonfiato da turismo, tassi bassi e boom immobiliare». L’asse francotedesco che domina l’Europa, nel nome dell’asse anti-populisti, applaude Lisbona. Schaeuble ha definito Mario Centeno ministro di Costa e capo dell’Eurogruppo - «il Cristiano Ronaldo dei conti pubblici».
Angela Merkel, in visita a Lisbona, ha scherzato sulle incomprensioni passate: «Sono felice, vi trovo meglio di cinque anni fa». La speranza dei socialisti è che la forza centrifuga che ha unito la sinistra nei momenti difficili tre anni fa non si esaurisca proprio ora che tutto va bene. La fine del sogno della crescita senza (troppo) rigore del Portogallo sarebbe l’ennesimo harakiri nella Spoon River della sinistra continentale.

https://spogli.blogspot.com/2019/04/corriere-19_20.html

QUI DI SEGUITO SABATO ORE DICIANNOVE: DALLA STAMPA DI OGGI SABATO 20 APRILE

venerdì 19 aprile 2019

ORE 18: SULLA STAMPA DI VENERDI 19 LUGLIO

Corriere 19.4.19
II Guerra mondiale
Atene chiederà risarcimenti alla Germania


La Grecia chiederà ufficialmente alla Germania il pagamento del risarcimento - calcolato in circa 290 miliardi di euro - per le distruzioni e i massacri provocati dal Terzo Reich. Berlino respinge la richiesta greca: non sono previsti «ulteriori risarcimenti» rispetto ai 115 milioni di marchi dell’intesa stipulata nel 1960.

La Stampa 19.4.19
“Piange troppo, così starà zitto”
Donna strangola il figlio di 2 anni
di Edoardo Izzo


Piangeva e voleva tornare a casa dalla nonna. Gli ho stretto il collo e chiuso la bocca per farlo stare zitto». Donatella Bona, 28 anni, ha confessato con queste parole l’omicidio del figlio Gabriel Faroleto, di due anni, avvenuto due giorni fa mentre stavano rientrando a casa, nel comune di Piedimonte San Germano (in provincia di Frosinone) dopo un incontro con il papà del piccolo, dal quale la giovane era separata. Ai carabinieri della compagnia di Cassino in un primo momento la ragazza aveva dato una versione ben diversa: «Me l’hanno ammazzato. Mi hanno investito con mio figlio in braccio», aveva detto. Ma i militari non le hanno creduto. E con lei hanno ricostruito in auto il percorso che la donna aveva raccontato di aver fatto, arrivando fino al presunto luogo dell’investimento, in località Volla, dove non c’era nessun segno corrispondente a un incidente, nemmeno una sgommata.
Poche lacrime
Le prime ammissioni della mamma sono iniziate lì. Poi, davanti al suo avvocato e al pm di Cassino, Valentina Maisto, la confessione. Poche lacrime, solo all’inizio. Un racconto freddo, secondo quanto è trapelato. «Non ce la facevo più», avrebbe detto Donatella agli inquirenti. La donna si sarebbe anche dichiarata consapevole degli anni di carcere che l’aspettano. Ma sono due particolari raccapriccianti a rendere ancora più sconcertante l’accaduto. La ragazza ha dei graffi sulle braccia che indicano un tentativo disperato di difesa da parte del bambino, mentre veniva soffocato. Ma non solo: una volta compiuto quello che viene per ora classificato come omicidio volontario, con incredibile freddezza, la giovane mamma si sarebbe rimessa a camminare verso la casa che le avevano lasciato i genitori, in località Volla a Piedimonte San Germano, iniziando a pensare al copione da recitare. Un particolare quest’ultimo che evoca il caso Cogne.
Il corpo del piccolo Gabriel è ora nella camera mortuaria dell’ospedale Santa Scolastica di Cassino dove sarà sottoposto a un’autopsia, su disposizione della procura. La madre, invece, è nel carcere femminile di Rebibbia. La tragedia ha sconvolto la piccola comunità di Piedimonte San Germano dove circola la voce che Donatella nei giorni precedenti sarebbe stata più volte in ospedale per attacchi di panico e ansia. Tuttavia non risulta che fosse da tempo in cura per problemi mentali, come invece è stato detto da alcuni vicini.

Repubblica 19.4.19
L’intervista
Parla il giurista De Siervo ex presidente della Corte costituzionale
"I voleri del ministro elevati a legge Così si mette in crisi lo Stato di diritto"
di Liana Milella


ROMA «Il ministro dell’Interno Matteo Salvini sta continuando a utilizzare alcuni modesti agganci della legislazione vigente per espandere, o addirittura creare, nuove prescrizioni. Alcune volte sicuramente incostituzionali».
Non ha dubbi Ugo De Siervo, ex presidente della Corte costituzionale, nel ritenere che Salvini «stia mettendo in crisi lo Stato di diritto».
Non le pare che le ultime mosse di Salvini violino lo Stato di diritto bypassando leggi o decreti?
«Basta la direttiva di due giorni fa sulla Mare Jonio in cui alla fine il ministro "dispone di vigilare affinché il comandante della nave" faccia ciò che lui reputa opportuno e poi affidi alle autorità militari e di polizia l’esecuzione del suo ordine, come se fosse diventata legge una sua semplice valutazione».
Viene imposta ex novo una norma senza un regolare voto delle Camere?
«Si dà alle autorità militari e di polizia il compito di eseguire la volontà del ministro, non quella del legislatore. Quindi si legittima l’uso dei poteri repressivi, nonché l’eventuale uso della violenza, per far eseguire i desiderata del ministro e non la legge in vigore».
È lecito chiudere i porti con le circolari a capitanerie e
Marina?
«La legge non prevede nulla del genere. E un ministro non può inventarsi un potere che la legge non gli attribuisce. Altra cosa è che eserciti i suoi poteri su tutti coloro che sbarcano nei porti italiani».
Hanno ragione il ministero della Difesa e la Marina a non riconoscere le direttive?
«Certamente il ministro dell’Interno cerca di espandere i suoi poteri anche su alcune autorità militari, il che non è assolutamente previsto dall’ordinamento».
Come giudica le intercettazioni di militari della Marina che danno ordini ai libici senza norme che lo autorizzino?
«Alcuni mesi fa il governo ha escluso in Parlamento che la Marina svolga attività diverse da quelle logistiche. Invece scopriamo che nostri militari cooperano con la Guardia costiera libica per riportare in Libia persone che da lì si siano imbarcate verso l’Europa. Ma com’è mai possibile qualcosa del genere? Ed è impressionante che tutto ciò venga attribuito al ministro dell’Interno, che invece rimprovera aspramente e combatte le organizzazioni a tutela dei migranti».
È propaganda a fini elettorali o queste norme, seppure di destra, sono possibili?
«Alcune non esistono neppure, altre è possibile dedurle dalla legislazione, anche se sono molto discutibili. Per esempio alcune applicazioni della nuova legge sulla sicurezza pubblica».
Le ordinanze per le "zone rosse" delle città finiscono per colpire pure i denunciati, in barba alla presunzione di innocenza: sono costituzionali?
«È una previsione legislativa molto discutibile soprattutto perché limita fortemente le libertà di soggetti solo denunciati ma non condannati neppure in primo grado. Tra l’altro sarebbe assai più efficace semmai denunziare o arrestare persone sospette, perché non serve spostare il problema da una zona all’altra, occorre ridurre o eliminare il fenomeno».
La subordinazione dei sindaci ai prefetti è possibile?
«Sono pienamente d’accordo con l’Anci, che ha fatto presente il ruolo determinante dei sindaci in materia, senza che si possa far credere che a ciò possano provvedere dei pur autorevoli funzionari dello Stato».
Salvini cancella "per direttiva" lo Stato di diritto?
«Lo Stato di diritto appare alquanto in crisi».

Repubblica 19.4.19
Tensioni in periferia a Roma
Donne in prima linea
Presidiano la chiesa e il parroco cede niente più pacco viveri per i rom
Alcune donne della Magliana, a Roma, si oppongono alla distribuzione di pacchi alimentari alle famiglie rom
di Paolo G. Brera


Roma Da ieri nella parrocchia di frontiera di San Gregorio Magno alla Magliana, turbolenta periferia romana, il pacco degli aiuti alimentari è diventato sovranista. «Prima gli italiani! » , avevano intimato i fedeli a don Antonio Interguglielmi, chiedendogli di smettere di distribuire aiuti ai rom e concentrarsi «sui nostri poveri » . Obiettivo incredibilmente centrato: «È un grande, don Antonio. Prima gli italiani, ha confermato » , celebrano su Facebook nella chat di quartiere.
Il tam tam della protesta era montato a neve quando dalla porta laterale della parrocchia era iniziata la processione multietnica per la tradizionale distribuzione pasquale degli aiuti ai bisognosi. Mercoledì un gruppo di infuriati ha affrontato don Antonio strappandogli la promessa: « Ci siamo messi d’accordo, ha detto che d’ora in poi avrebbe pensato prima a noi » , spiega Vera, 52 anni, cuore nero in CasaPound. Ieri, a impedire l’accesso ai rom c’era un presidio di sole mamme ( con, a pochi metri, i tatuaggi sui bicipiti dei mariti). « Gli abitanti verificano che il parroco, essendosi reso conto che la cosa coi rom gli era sfuggita di mano, continui a distribuire solo a chi ha più bisogno. E noi guardiamo con attenzione», dice il referente di CasaPound Alessandro Calvo. Sempre in palla, i neofascisti: hanno montato un gazebo per distribuire pure loro, davanti alla chiesa, pane e pasta «ai veri indigenti».
Kostel, 47enne romeno del campo della Magliana, ha tentato inutilmente di entrare in parrocchia: «Mi hanno chiesto: dove vai? Sei residente? Ecco i documenti, ho risposto, ma mi hanno cacciato. Mai successo, in tanti anni » . Cacciati col beneplacito di don Antonio: «Eravamo andate dal parroco — racconta Vera — per dirgli che la gente dona pensando di aiutare i poveri del quartiere, invece restano senza pacchi per colpa dei rom » . « Ci siamo messi d’accordo — conferma don Antonio — non posso rischiare che esploda un’altra Torre Maura. La parrocchia è enorme, il quartiere difficile. Devo placare gli animi. Ai rom ho già distribuito 50 pacchi di Pasqua, ai residenti 120. Ora prima gli italiani, sì. Devo occuparmi soprattutto dei 30mila residenti affidati a me, i rom sono questione che riguarda più Caritas». «Non siamo mica razzisti», dicono Danila e altre mamme del presidio citando amori interetnici e solidarietà senza bandiere: «Ho 3 figli, uno invalido, e lavora solo mio marito. Non arriviamo a fine mese ma lasciamo il pacco a chi ha più bisogno. Vi par giusto che vada ai rom?».

La Stampa 19.4.19
“Così abbiamo trovato l’anima di Buscetta”
La storia di un uomo che ha tradito la propria famiglia perchè questa ha tradito lui»
di Francesco La Licata


Don Masino Buscetta ha avuto due grandi nemici, due implacabili che lo hanno accompagnato per gran parte della sua esistenza: Totò Riina e Pippo Calò, entrambi boss più che affermati, autoproclamati unici interpreti dell’essenza mafiosa, dei costumi, della «cultura» e della «ideologia» di Cosa nostra. Sistema dei «valori» che vede in cima alla propria scala soprattutto l’omertà. E così è stato gioco facile, per entrambi, tentare di annientare la figura del grande nemico gettandogli addosso il marchio del traditore. È ovvio che un Buscetta pentito avesse poco spazio per rintuzzare l’attacco: i muri di Palermo si riempivano di scritte sull’infamia del tradimento di don Masino, i bambini che giocavano ai mafiosi si offendevano a vicenda chiamandosi «cornuto e Buscetta». La sorella di Masino, vedova per «colpa» del fratello «infame» lo aveva maledetto. Insomma il Traditore non navigava in buone acque e il peggio doveva ancora arrivare con la testimonianza pubblica, quando cioè il pentito si sarebbe dovuto presentare nell’aula bunker di Palermo, davanti alla platea mafiosa dei suoi ex amici in gabbia, per ripetere quanto aveva detto a Giovanni Falcone, nel chiuso delle mura della Questura di Roma, dove aveva risposto a tutte le domande.
L’Italia intera - quindi - chi per semplice curiosità, chi per consapevolezza dell’importanza della posta in gioco, rimaneva in attesa della reazione del «Traditore». Qualcuno, specialmente tra la folta schiera degli avvocati difensori e di qualche politico, si augurava un «ritorno di saggezza» di Buscetta e la conseguente scelta di «non confermare» e quindi ritrattare tutto. Così Masino sarebbe rimasto «infamato» a vita.
Ma non andò così. Buscetta non fece un’arringa difensiva, anzi. Avanzò nel silenzio dell’aula giudiziaria, già ammutolita nel vederlo esente da tentennamenti, e immediatamente ribaltò l’accusa di tradimento. «Io non sono un pentito - disse al presidente Giordano -. Sono loro che devono pentirsi di qualche cosa», aggiunse indicando gli odiati nemici in gabbia. «Sono loro che hanno tradito Cosa nostra»: chiaro, esplicito il riferimento alla strategia stragista e sanguinaria dei «corleonesi». Il «Traditore» che accusa i suoi nemici di alto tradimento, mentre sullo sfondo corre un pezzo importante della nostra recente storia, anche politica.
Attorno a questo tema ruota il film del maestro Marco Bellocchio che passa al microscopio le menti e i sentimenti dei protagonisti, le loro debolezze, i loro incubi, le gioie e i dolori di tanti uomini perduti. E lo stesso Buscetta non è mai «uno»: è dolente per la tragica fine dei figli, è violento, è tenero con la sua terza moglie, è innamorato ma non perde d’occhio la missione intrapresa col giudice Giovanni Falcone. Sembra sincero quando cammina sulla linea sottile della confessione giudiziaria alternata ai racconti privati, con cui cerca di spiegare il senso del «tradimento» operato da Riina. Con Calò ha gioco ancora più facile perchè gli getta addosso la terribile responsabilità di averlo privato dei figli che lui, Buscetta, gli aveva affidato nel momento in cui abbandonava la Sicilia: «Tu non hai fatto nulla per salvarli».
Resta evidente, oggi, a distanza di 30 anni, l’importanza giudiziaria delle rivelazioni di Buscetta. Ma più importante è stato il colpo che il pentito ha inferto all’immagine e alla credibilità di Cosa nostra. Masino ha fatto piazza pulita dell’ipocrisia e delle falsità su cui si reggeva la forza della mafia: basti pensare a tutte le favole sul rispetto delle donne e dei bambini o sulla sacralità di giuramenti e dichiarazioni di amicizia. Masino ha delegittimato Cosa nostra, rivelando al suo popolo che il re è nudo e Riina, lui sì, «è stato il traditore e l’uomo che ha distrutto la mafia».

il manifesto 19.4.19
Marco Bellocchio: «La figura di Tommaso Buscetta unisce orrore e moralità»
Cannes 72. Il regista racconta il lavoro sul boss mafioso divenuto collaboratore di giustizia
di Cristina Piccino


ROMA Era tra quelli che rimbalzavano nelle voci sui possibili concorrenti al prossimo Festival di Cannes da molti giorni, ma la certezza è arrivata solo ieri, con l’annuncio ufficiale di Frémaux: Il traditore, il nuovo film di Marco Bellocchio, sarà in concorso a Cannes, unico titolo italiano – almeno per ora – nella selezione ufficiale. «Naturalmente sono contento di essere a Cannes, il concorso è una gara e posso solo accettarla cercando di fare il più bel film possibile, correndo freneticamente perché c’è veramente poco tempo» ha detto il regista ieri, in un rapido incontro convocato a Roma nella sede di Rai cinema (che ne è produttore insieme a IBC Movie, Kavac Film, i francesi Ad Vitam, i tedeschi The Match Factory). Poche parole, rimandando a una conversazione «più approfondita» sulla Croisette dopo la visione.
Sappiamo tutti quale è il soggetto de Il traditore, Tommaso Buscetta, il «boss dei due mondi», uno dei primi importanti collaboratori di giustizia che con le sue testimonianze ha permesso ai magistrati di conoscere il sistema di Cosa nostra. Ma il cinema di Bellocchio non è un cinema di «biopic», piuttosto lavora sull’interpretazione, sulle sfumature, sulle ambiguità. Lui dice che Il traditore è diverso da tutto ciò che ha fatto fino adesso, e se deve trovare qualcosa che gli si avvicina potrebbe essere Buongiorno notte, in cui rileggeva il caso Moro. Spiega: «Anche qui i personaggi si chiamano coi loro veri nomi,a differenza che in Buongiorno notte però sono osservati in pubblico, nel teatro del maxiprocesso di Palermo o in altri tribunali. Per me Il traditore è un lavoro personalissimo, lo definirei un film civile ma senza ideologia né retorica».
LA STORIA inizia con l’arresto di Buscetta – che sullo schermo ha il volto Pierfrancesco Favino – in Brasile, a San Paolo, nel 1983. È allora che il giudice Giovanni Falcone gli propone di collaborare, lui rifiuta ma intanto l’Italia ne chiede l’estradizione e quando viene concessa Buscetta tenta il suicidio. Sa bene che il ritorno a Palermo significa per lui una condanna, la guerra che lo oppone ai corleonesi di Totò Riina ha ucciso già numerosi dei suoi familiari. È per questo che accetterà di collaborare? «C’è senz’altro una componente di calcolo nella sua decisione in cui conta anche molto però l’affetto per Falcone- dice Bellocchio – La figura di Buscetta unisce orrore e moralità. Si parla di ’tradimento’ ma le questioni sono molto più complesse. Buscetta ha ’tradito’ la propria famiglia, ha reciso le sue radici e se lo ha fatto è stato in qualche modo per salvare la propria vita…».
NON DIRÀ tutto però don Masino, non subito. Quei rapporti tra mafia e politica per esempio rimasero un buco nero per anni nonostante le insistenze di Falcone e degli altri magistrati. «Lo stato non è pronto» era la sua risposta. Sarà solo dopo l’estate del 1992 che Buscetta, dal suo bunker segretissimo in qualche parte dell’America, dove poi morirà di cancro nel 2000, inizia a rivelare quei legami. Cosa nostra ha appena ammazzato Falcone e la sua scorta facendo esplodere la strada tra Palermo e l’aeroporto di Capaci. Poco dopo verrà ucciso sotto casa della madre anche il giudice Paolo Borsellino. Buscetta parla e fa il nome di Salvo Lima (ucciso poco prima) potentissimo andreottiano in Sicilia, il cui padre secondo il racconto di Buscetta – che lo descrive come il suo referente più diretto – era già affiliato a Cosa nostra. Per arrivare a Andreotti il quale sarebbe stato il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli divenuto troppo pericoloso – accusa da cui il leader dc venne poi prosciolto.
«Falcone ha un capitolo specifico nella storia che si riapre con la sua morte – aggiunge Bellocchio – É allora infatti che Buscetta decide di svelare i rapporti tra i politici e la mafia».

il manifesto 19.4.19
Lucifero, la stella del mattino
di Alberto Olivetti


L’origine del male ed il suo attestarsi nel mondo, pur negli orientamenti diversi che contrassegnano le interpretazioni bibliche e, in distinti filoni, la letteratura neotestamentaria e la molteplice elaborazione cristiana dei primi secoli, si rappresenta nella vicenda che vede protagonista l’arcangelo Lucifero.
È l’argomento della tragedia Lucifer di Joos van den Vondel (1587-1679), rappresentata per la prima volta ad Amsterdam il 2 febbraio del 1654: Gabriele araldo di Dio annuncia agli angeli “il mistero della Incarnazione futura, per cui Dio unisce la sua natura non a quella dell’angelo, bensì a quella dell’uomo e dona ad ambedue pari potenza e maestà. Allora Lucifero, invidioso, decide di divenire simile a Dio ed impedire all’uomo l’accesso al cielo. Vinto, trascina nella rovina, per vendetta, il primo uomo ed i suoi discendenti, mentre egli e i suoi angeli ribelli, precipitati nell’Inferno, sono dannati per sempre”. Il mondo che nel sesto giorno della creazione, come si legge in Genesi, Dio contempla compiacendosi nel costatare che “le cose che aveva fatto erano molto buone”, è incrinato nelle fondamenta.
Del resto, “il male, scrive Tullio Gregory, che nel Genesi si manifesta nella tentazione del serpente (creatura di Jahvè, ‘astuta’ ma senza caratteri demonici) e nell’infrazione di Eva e di Adamo, doveva trovare un più ampio scenario, tale da coinvolgere tutta la creazione. All’origine del male, continua Gregory (cito da Il principe di questo mondo. Il diavolo in Occidente), non poteva porsi solo la disobbedienza della prima coppia umana a un comando divino, ma una più profonda crisi nell’ordine creato da Jahvè”. Intendo porre in rilievo un aspetto del capolavoro di Vondel, come egli cioè rappresenti il tema del male facendo costante ricorso a panorami di cieli, còlti nelle loro straordinarie mutazioni. Non per caso Walter Benjamin allude ad una influenza di Vondel quando registra che “anche nel dramma barocco tedesco lo spettacolo della natura entra sempre più sulla scena drammatica”.
Mi limito a due esempi. Il secondo atto della tragedia si apre con il lamento di Lucifero, insidiato dall’uomo nel suo rango presso Dio. La diminuzione della sua forza, compromessa dalla presenza nel creato dell’uomo, induce Lucifero a trattenere gli spiriti alati, dicendo loro: “avete portato abbastanza in alto la stella del mattino di Dio. Cessate di ornare di ghirlande e corone le vesti di Lucifero; non indorate più la sua fronte d’una aureola di stelle mattutine e di raggi. Un altro fulgore s’innalza dal seno della luce divina ed offusca la nostra, così come il sole offusca, agli abitanti della terra, lo splendore delle stelle.
Una notte profonda copre gli angeli e tutti i soli dei cieli”. La stella del mattino portatrice della prima luce appare velata ora che Lucifero pronuncia le sue parole dolenti. Con esse si appanna la limpidezza del cielo e la chiara luminosità pare scemata. Il suo inarrestabile diffondersi risulta impedito da una sospensione che ne inibisce l’espandersi e preclude alla potenza dell’arcangelo la sua incontrastata estensione.
Se non l’Empireo, sede di Dio, ora i nove cieli concentrici che, retti dalle gerarchie angeliche si muovono in svolgimenti ordinati, sono attraversati da una oscillazione, da un ignoto tremore. Non così ad apertura del dramma, quando ancora non è nota agli angeli la decisione divina e Lucifero invia Apollione sulla terra perché riporti notizie “circa la sorte felice di Adamo e la situazione in cui l’Onnipotente l’ha posto”. L’inviato ritorna: “già si alza rapidamente sotto i nostri occhi e attraversa l’un dopo l’altro i cerchi dell’Empireo.
Il suo volo è più rapido del vento, e dappertutto le sue ali fendono le nubi, lasciandosi dietro una lunga scia di luce spendente. Già lo circonda un’aria più pura, già egli si immerge in questa fulgida luce; già vede questo sole ultrasplendente i cui raggi giocano in una sfera d’azzurro”. Vondel insiste in una descrizione naturalistica dei cieli. Così scenari che ti sono consueti – le mutazioni della volta celeste per variare di nubi e di luci, l’alternarsi delle albe e dei tramonti, del pieno sole e delle notti illuni – ti si offrono come ragionamenti compiuti sul male del vivere.

https://spogli.blogspot.com/2019/04/corriere-19.html
Corriere 19.4.19
II Guerra mondiale
Atene chiederà risarcimenti alla Germania


La Grecia chiederà ufficialmente alla Germania il pagamento del risarcimento - calcolato in circa 290 miliardi di euro - per le distruzioni e i massacri provocati dal Terzo Reich. Berlino respinge la richiesta greca: non sono previsti «ulteriori risarcimenti» rispetto ai 115 milioni di marchi dell’intesa stipulata nel 1960.

La Stampa 19.4.19
“Piange troppo, così starà zitto”
Donna strangola il figlio di 2 anni
di Edoardo Izzo


Piangeva e voleva tornare a casa dalla nonna. Gli ho stretto il collo e chiuso la bocca per farlo stare zitto». Donatella Bona, 28 anni, ha confessato con queste parole l’omicidio del figlio Gabriel Faroleto, di due anni, avvenuto due giorni fa mentre stavano rientrando a casa, nel comune di Piedimonte San Germano (in provincia di Frosinone) dopo un incontro con il papà del piccolo, dal quale la giovane era separata. Ai carabinieri della compagnia di Cassino in un primo momento la ragazza aveva dato una versione ben diversa: «Me l’hanno ammazzato. Mi hanno investito con mio figlio in braccio», aveva detto. Ma i militari non le hanno creduto. E con lei hanno ricostruito in auto il percorso che la donna aveva raccontato di aver fatto, arrivando fino al presunto luogo dell’investimento, in località Volla, dove non c’era nessun segno corrispondente a un incidente, nemmeno una sgommata.
Poche lacrime
Le prime ammissioni della mamma sono iniziate lì. Poi, davanti al suo avvocato e al pm di Cassino, Valentina Maisto, la confessione. Poche lacrime, solo all’inizio. Un racconto freddo, secondo quanto è trapelato. «Non ce la facevo più», avrebbe detto Donatella agli inquirenti. La donna si sarebbe anche dichiarata consapevole degli anni di carcere che l’aspettano. Ma sono due particolari raccapriccianti a rendere ancora più sconcertante l’accaduto. La ragazza ha dei graffi sulle braccia che indicano un tentativo disperato di difesa da parte del bambino, mentre veniva soffocato. Ma non solo: una volta compiuto quello che viene per ora classificato come omicidio volontario, con incredibile freddezza, la giovane mamma si sarebbe rimessa a camminare verso la casa che le avevano lasciato i genitori, in località Volla a Piedimonte San Germano, iniziando a pensare al copione da recitare. Un particolare quest’ultimo che evoca il caso Cogne.
Il corpo del piccolo Gabriel è ora nella camera mortuaria dell’ospedale Santa Scolastica di Cassino dove sarà sottoposto a un’autopsia, su disposizione della procura. La madre, invece, è nel carcere femminile di Rebibbia. La tragedia ha sconvolto la piccola comunità di Piedimonte San Germano dove circola la voce che Donatella nei giorni precedenti sarebbe stata più volte in ospedale per attacchi di panico e ansia. Tuttavia non risulta che fosse da tempo in cura per problemi mentali, come invece è stato detto da alcuni vicini.

Repubblica 19.4.19
L’intervista
Parla il giurista De Siervo ex presidente della Corte costituzionale
"I voleri del ministro elevati a legge Così si mette in crisi lo Stato di diritto"
di Liana Milella


ROMA «Il ministro dell’Interno Matteo Salvini sta continuando a utilizzare alcuni modesti agganci della legislazione vigente per espandere, o addirittura creare, nuove prescrizioni. Alcune volte sicuramente incostituzionali».
Non ha dubbi Ugo De Siervo, ex presidente della Corte costituzionale, nel ritenere che Salvini «stia mettendo in crisi lo Stato di diritto».
Non le pare che le ultime mosse di Salvini violino lo Stato di diritto bypassando leggi o decreti?
«Basta la direttiva di due giorni fa sulla Mare Jonio in cui alla fine il ministro "dispone di vigilare affinché il comandante della nave" faccia ciò che lui reputa opportuno e poi affidi alle autorità militari e di polizia l’esecuzione del suo ordine, come se fosse diventata legge una sua semplice valutazione».
Viene imposta ex novo una norma senza un regolare voto delle Camere?
«Si dà alle autorità militari e di polizia il compito di eseguire la volontà del ministro, non quella del legislatore. Quindi si legittima l’uso dei poteri repressivi, nonché l’eventuale uso della violenza, per far eseguire i desiderata del ministro e non la legge in vigore».
È lecito chiudere i porti con le circolari a capitanerie e
Marina?
«La legge non prevede nulla del genere. E un ministro non può inventarsi un potere che la legge non gli attribuisce. Altra cosa è che eserciti i suoi poteri su tutti coloro che sbarcano nei porti italiani».
Hanno ragione il ministero della Difesa e la Marina a non riconoscere le direttive?
«Certamente il ministro dell’Interno cerca di espandere i suoi poteri anche su alcune autorità militari, il che non è assolutamente previsto dall’ordinamento».
Come giudica le intercettazioni di militari della Marina che danno ordini ai libici senza norme che lo autorizzino?
«Alcuni mesi fa il governo ha escluso in Parlamento che la Marina svolga attività diverse da quelle logistiche. Invece scopriamo che nostri militari cooperano con la Guardia costiera libica per riportare in Libia persone che da lì si siano imbarcate verso l’Europa. Ma com’è mai possibile qualcosa del genere? Ed è impressionante che tutto ciò venga attribuito al ministro dell’Interno, che invece rimprovera aspramente e combatte le organizzazioni a tutela dei migranti».
È propaganda a fini elettorali o queste norme, seppure di destra, sono possibili?
«Alcune non esistono neppure, altre è possibile dedurle dalla legislazione, anche se sono molto discutibili. Per esempio alcune applicazioni della nuova legge sulla sicurezza pubblica».
Le ordinanze per le "zone rosse" delle città finiscono per colpire pure i denunciati, in barba alla presunzione di innocenza: sono costituzionali?
«È una previsione legislativa molto discutibile soprattutto perché limita fortemente le libertà di soggetti solo denunciati ma non condannati neppure in primo grado. Tra l’altro sarebbe assai più efficace semmai denunziare o arrestare persone sospette, perché non serve spostare il problema da una zona all’altra, occorre ridurre o eliminare il fenomeno».
La subordinazione dei sindaci ai prefetti è possibile?
«Sono pienamente d’accordo con l’Anci, che ha fatto presente il ruolo determinante dei sindaci in materia, senza che si possa far credere che a ciò possano provvedere dei pur autorevoli funzionari dello Stato».
Salvini cancella "per direttiva" lo Stato di diritto?
«Lo Stato di diritto appare alquanto in crisi».

Repubblica 19.4.19
Tensioni in periferia a Roma
Donne in prima linea
Presidiano la chiesa e il parroco cede niente più pacco viveri per i rom
Alcune donne della Magliana, a Roma, si oppongono alla distribuzione di pacchi alimentari alle famiglie rom
di Paolo G. Brera


Roma Da ieri nella parrocchia di frontiera di San Gregorio Magno alla Magliana, turbolenta periferia romana, il pacco degli aiuti alimentari è diventato sovranista. «Prima gli italiani! » , avevano intimato i fedeli a don Antonio Interguglielmi, chiedendogli di smettere di distribuire aiuti ai rom e concentrarsi «sui nostri poveri » . Obiettivo incredibilmente centrato: «È un grande, don Antonio. Prima gli italiani, ha confermato » , celebrano su Facebook nella chat di quartiere.
Il tam tam della protesta era montato a neve quando dalla porta laterale della parrocchia era iniziata la processione multietnica per la tradizionale distribuzione pasquale degli aiuti ai bisognosi. Mercoledì un gruppo di infuriati ha affrontato don Antonio strappandogli la promessa: « Ci siamo messi d’accordo, ha detto che d’ora in poi avrebbe pensato prima a noi » , spiega Vera, 52 anni, cuore nero in CasaPound. Ieri, a impedire l’accesso ai rom c’era un presidio di sole mamme ( con, a pochi metri, i tatuaggi sui bicipiti dei mariti). « Gli abitanti verificano che il parroco, essendosi reso conto che la cosa coi rom gli era sfuggita di mano, continui a distribuire solo a chi ha più bisogno. E noi guardiamo con attenzione», dice il referente di CasaPound Alessandro Calvo. Sempre in palla, i neofascisti: hanno montato un gazebo per distribuire pure loro, davanti alla chiesa, pane e pasta «ai veri indigenti».
Kostel, 47enne romeno del campo della Magliana, ha tentato inutilmente di entrare in parrocchia: «Mi hanno chiesto: dove vai? Sei residente? Ecco i documenti, ho risposto, ma mi hanno cacciato. Mai successo, in tanti anni » . Cacciati col beneplacito di don Antonio: «Eravamo andate dal parroco — racconta Vera — per dirgli che la gente dona pensando di aiutare i poveri del quartiere, invece restano senza pacchi per colpa dei rom » . « Ci siamo messi d’accordo — conferma don Antonio — non posso rischiare che esploda un’altra Torre Maura. La parrocchia è enorme, il quartiere difficile. Devo placare gli animi. Ai rom ho già distribuito 50 pacchi di Pasqua, ai residenti 120. Ora prima gli italiani, sì. Devo occuparmi soprattutto dei 30mila residenti affidati a me, i rom sono questione che riguarda più Caritas». «Non siamo mica razzisti», dicono Danila e altre mamme del presidio citando amori interetnici e solidarietà senza bandiere: «Ho 3 figli, uno invalido, e lavora solo mio marito. Non arriviamo a fine mese ma lasciamo il pacco a chi ha più bisogno. Vi par giusto che vada ai rom?».

La Stampa 19.4.19
“Così abbiamo trovato l’anima di Buscetta”
La storia di un uomo che ha tradito la propria famiglia perchè questa ha tradito lui»
di Francesco La Licata


Don Masino Buscetta ha avuto due grandi nemici, due implacabili che lo hanno accompagnato per gran parte della sua esistenza: Totò Riina e Pippo Calò, entrambi boss più che affermati, autoproclamati unici interpreti dell’essenza mafiosa, dei costumi, della «cultura» e della «ideologia» di Cosa nostra. Sistema dei «valori» che vede in cima alla propria scala soprattutto l’omertà. E così è stato gioco facile, per entrambi, tentare di annientare la figura del grande nemico gettandogli addosso il marchio del traditore. È ovvio che un Buscetta pentito avesse poco spazio per rintuzzare l’attacco: i muri di Palermo si riempivano di scritte sull’infamia del tradimento di don Masino, i bambini che giocavano ai mafiosi si offendevano a vicenda chiamandosi «cornuto e Buscetta». La sorella di Masino, vedova per «colpa» del fratello «infame» lo aveva maledetto. Insomma il Traditore non navigava in buone acque e il peggio doveva ancora arrivare con la testimonianza pubblica, quando cioè il pentito si sarebbe dovuto presentare nell’aula bunker di Palermo, davanti alla platea mafiosa dei suoi ex amici in gabbia, per ripetere quanto aveva detto a Giovanni Falcone, nel chiuso delle mura della Questura di Roma, dove aveva risposto a tutte le domande.
L’Italia intera - quindi - chi per semplice curiosità, chi per consapevolezza dell’importanza della posta in gioco, rimaneva in attesa della reazione del «Traditore». Qualcuno, specialmente tra la folta schiera degli avvocati difensori e di qualche politico, si augurava un «ritorno di saggezza» di Buscetta e la conseguente scelta di «non confermare» e quindi ritrattare tutto. Così Masino sarebbe rimasto «infamato» a vita.
Ma non andò così. Buscetta non fece un’arringa difensiva, anzi. Avanzò nel silenzio dell’aula giudiziaria, già ammutolita nel vederlo esente da tentennamenti, e immediatamente ribaltò l’accusa di tradimento. «Io non sono un pentito - disse al presidente Giordano -. Sono loro che devono pentirsi di qualche cosa», aggiunse indicando gli odiati nemici in gabbia. «Sono loro che hanno tradito Cosa nostra»: chiaro, esplicito il riferimento alla strategia stragista e sanguinaria dei «corleonesi». Il «Traditore» che accusa i suoi nemici di alto tradimento, mentre sullo sfondo corre un pezzo importante della nostra recente storia, anche politica.
Attorno a questo tema ruota il film del maestro Marco Bellocchio che passa al microscopio le menti e i sentimenti dei protagonisti, le loro debolezze, i loro incubi, le gioie e i dolori di tanti uomini perduti. E lo stesso Buscetta non è mai «uno»: è dolente per la tragica fine dei figli, è violento, è tenero con la sua terza moglie, è innamorato ma non perde d’occhio la missione intrapresa col giudice Giovanni Falcone. Sembra sincero quando cammina sulla linea sottile della confessione giudiziaria alternata ai racconti privati, con cui cerca di spiegare il senso del «tradimento» operato da Riina. Con Calò ha gioco ancora più facile perchè gli getta addosso la terribile responsabilità di averlo privato dei figli che lui, Buscetta, gli aveva affidato nel momento in cui abbandonava la Sicilia: «Tu non hai fatto nulla per salvarli».
Resta evidente, oggi, a distanza di 30 anni, l’importanza giudiziaria delle rivelazioni di Buscetta. Ma più importante è stato il colpo che il pentito ha inferto all’immagine e alla credibilità di Cosa nostra. Masino ha fatto piazza pulita dell’ipocrisia e delle falsità su cui si reggeva la forza della mafia: basti pensare a tutte le favole sul rispetto delle donne e dei bambini o sulla sacralità di giuramenti e dichiarazioni di amicizia. Masino ha delegittimato Cosa nostra, rivelando al suo popolo che il re è nudo e Riina, lui sì, «è stato il traditore e l’uomo che ha distrutto la mafia».

il manifesto 19.4.19
Marco Bellocchio: «La figura di Tommaso Buscetta unisce orrore e moralità»
Cannes 72. Il regista racconta il lavoro sul boss mafioso divenuto collaboratore di giustizia
di Cristina Piccino


ROMA Era tra quelli che rimbalzavano nelle voci sui possibili concorrenti al prossimo Festival di Cannes da molti giorni, ma la certezza è arrivata solo ieri, con l’annuncio ufficiale di Frémaux: Il traditore, il nuovo film di Marco Bellocchio, sarà in concorso a Cannes, unico titolo italiano – almeno per ora – nella selezione ufficiale. «Naturalmente sono contento di essere a Cannes, il concorso è una gara e posso solo accettarla cercando di fare il più bel film possibile, correndo freneticamente perché c’è veramente poco tempo» ha detto il regista ieri, in un rapido incontro convocato a Roma nella sede di Rai cinema (che ne è produttore insieme a IBC Movie, Kavac Film, i francesi Ad Vitam, i tedeschi The Match Factory). Poche parole, rimandando a una conversazione «più approfondita» sulla Croisette dopo la visione.
Sappiamo tutti quale è il soggetto de Il traditore, Tommaso Buscetta, il «boss dei due mondi», uno dei primi importanti collaboratori di giustizia che con le sue testimonianze ha permesso ai magistrati di conoscere il sistema di Cosa nostra. Ma il cinema di Bellocchio non è un cinema di «biopic», piuttosto lavora sull’interpretazione, sulle sfumature, sulle ambiguità. Lui dice che Il traditore è diverso da tutto ciò che ha fatto fino adesso, e se deve trovare qualcosa che gli si avvicina potrebbe essere Buongiorno notte, in cui rileggeva il caso Moro. Spiega: «Anche qui i personaggi si chiamano coi loro veri nomi,a differenza che in Buongiorno notte però sono osservati in pubblico, nel teatro del maxiprocesso di Palermo o in altri tribunali. Per me Il traditore è un lavoro personalissimo, lo definirei un film civile ma senza ideologia né retorica».
LA STORIA inizia con l’arresto di Buscetta – che sullo schermo ha il volto Pierfrancesco Favino – in Brasile, a San Paolo, nel 1983. È allora che il giudice Giovanni Falcone gli propone di collaborare, lui rifiuta ma intanto l’Italia ne chiede l’estradizione e quando viene concessa Buscetta tenta il suicidio. Sa bene che il ritorno a Palermo significa per lui una condanna, la guerra che lo oppone ai corleonesi di Totò Riina ha ucciso già numerosi dei suoi familiari. È per questo che accetterà di collaborare? «C’è senz’altro una componente di calcolo nella sua decisione in cui conta anche molto però l’affetto per Falcone- dice Bellocchio – La figura di Buscetta unisce orrore e moralità. Si parla di ’tradimento’ ma le questioni sono molto più complesse. Buscetta ha ’tradito’ la propria famiglia, ha reciso le sue radici e se lo ha fatto è stato in qualche modo per salvare la propria vita…».
NON DIRÀ tutto però don Masino, non subito. Quei rapporti tra mafia e politica per esempio rimasero un buco nero per anni nonostante le insistenze di Falcone e degli altri magistrati. «Lo stato non è pronto» era la sua risposta. Sarà solo dopo l’estate del 1992 che Buscetta, dal suo bunker segretissimo in qualche parte dell’America, dove poi morirà di cancro nel 2000, inizia a rivelare quei legami. Cosa nostra ha appena ammazzato Falcone e la sua scorta facendo esplodere la strada tra Palermo e l’aeroporto di Capaci. Poco dopo verrà ucciso sotto casa della madre anche il giudice Paolo Borsellino. Buscetta parla e fa il nome di Salvo Lima (ucciso poco prima) potentissimo andreottiano in Sicilia, il cui padre secondo il racconto di Buscetta – che lo descrive come il suo referente più diretto – era già affiliato a Cosa nostra. Per arrivare a Andreotti il quale sarebbe stato il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli divenuto troppo pericoloso – accusa da cui il leader dc venne poi prosciolto.
«Falcone ha un capitolo specifico nella storia che si riapre con la sua morte – aggiunge Bellocchio – É allora infatti che Buscetta decide di svelare i rapporti tra i politici e la mafia».

il manifesto 19.4.19
Lucifero, la stella del mattino
di Alberto Olivetti


L’origine del male ed il suo attestarsi nel mondo, pur negli orientamenti diversi che contrassegnano le interpretazioni bibliche e, in distinti filoni, la letteratura neotestamentaria e la molteplice elaborazione cristiana dei primi secoli, si rappresenta nella vicenda che vede protagonista l’arcangelo Lucifero.
È l’argomento della tragedia Lucifer di Joos van den Vondel (1587-1679), rappresentata per la prima volta ad Amsterdam il 2 febbraio del 1654: Gabriele araldo di Dio annuncia agli angeli “il mistero della Incarnazione futura, per cui Dio unisce la sua natura non a quella dell’angelo, bensì a quella dell’uomo e dona ad ambedue pari potenza e maestà. Allora Lucifero, invidioso, decide di divenire simile a Dio ed impedire all’uomo l’accesso al cielo. Vinto, trascina nella rovina, per vendetta, il primo uomo ed i suoi discendenti, mentre egli e i suoi angeli ribelli, precipitati nell’Inferno, sono dannati per sempre”. Il mondo che nel sesto giorno della creazione, come si legge in Genesi, Dio contempla compiacendosi nel costatare che “le cose che aveva fatto erano molto buone”, è incrinato nelle fondamenta.
Del resto, “il male, scrive Tullio Gregory, che nel Genesi si manifesta nella tentazione del serpente (creatura di Jahvè, ‘astuta’ ma senza caratteri demonici) e nell’infrazione di Eva e di Adamo, doveva trovare un più ampio scenario, tale da coinvolgere tutta la creazione. All’origine del male, continua Gregory (cito da Il principe di questo mondo. Il diavolo in Occidente), non poteva porsi solo la disobbedienza della prima coppia umana a un comando divino, ma una più profonda crisi nell’ordine creato da Jahvè”. Intendo porre in rilievo un aspetto del capolavoro di Vondel, come egli cioè rappresenti il tema del male facendo costante ricorso a panorami di cieli, còlti nelle loro straordinarie mutazioni. Non per caso Walter Benjamin allude ad una influenza di Vondel quando registra che “anche nel dramma barocco tedesco lo spettacolo della natura entra sempre più sulla scena drammatica”.
Mi limito a due esempi. Il secondo atto della tragedia si apre con il lamento di Lucifero, insidiato dall’uomo nel suo rango presso Dio. La diminuzione della sua forza, compromessa dalla presenza nel creato dell’uomo, induce Lucifero a trattenere gli spiriti alati, dicendo loro: “avete portato abbastanza in alto la stella del mattino di Dio. Cessate di ornare di ghirlande e corone le vesti di Lucifero; non indorate più la sua fronte d’una aureola di stelle mattutine e di raggi. Un altro fulgore s’innalza dal seno della luce divina ed offusca la nostra, così come il sole offusca, agli abitanti della terra, lo splendore delle stelle.
Una notte profonda copre gli angeli e tutti i soli dei cieli”. La stella del mattino portatrice della prima luce appare velata ora che Lucifero pronuncia le sue parole dolenti. Con esse si appanna la limpidezza del cielo e la chiara luminosità pare scemata. Il suo inarrestabile diffondersi risulta impedito da una sospensione che ne inibisce l’espandersi e preclude alla potenza dell’arcangelo la sua incontrastata estensione.
Se non l’Empireo, sede di Dio, ora i nove cieli concentrici che, retti dalle gerarchie angeliche si muovono in svolgimenti ordinati, sono attraversati da una oscillazione, da un ignoto tremore. Non così ad apertura del dramma, quando ancora non è nota agli angeli la decisione divina e Lucifero invia Apollione sulla terra perché riporti notizie “circa la sorte felice di Adamo e la situazione in cui l’Onnipotente l’ha posto”. L’inviato ritorna: “già si alza rapidamente sotto i nostri occhi e attraversa l’un dopo l’altro i cerchi dell’Empireo.
Il suo volo è più rapido del vento, e dappertutto le sue ali fendono le nubi, lasciandosi dietro una lunga scia di luce spendente. Già lo circonda un’aria più pura, già egli si immerge in questa fulgida luce; già vede questo sole ultrasplendente i cui raggi giocano in una sfera d’azzurro”. Vondel insiste in una descrizione naturalistica dei cieli. Così scenari che ti sono consueti – le mutazioni della volta celeste per variare di nubi e di luci, l’alternarsi delle albe e dei tramonti, del pieno sole e delle notti illuni – ti si offrono come ragionamenti compiuti sul male del vivere.

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