sabato 6 maggio 2006

Repubblica 6.5.06 Pagina 11 - Interni
IL CASO
No di Gianni e Mantovani alla sua elezione a segretario. Domani la scelta
Prc, ostacoli per Giordano
"Dopo l´addio di Bertinotti, va messa in campo una nuova generazione"


ROMA - Non è poi tutto così scontato dentro Rifondazione. Sul passaggio di consegne della segreteria da Bertinotti a Franco Giordano arrivano ieri le bordate di Ramon Mantovani e soprattutto di Alfonso Gianni, considerato uno dei collaboratori più stretti di Bertinotti. Entrambi bocciano Giordano. Dibattito teso oltre il previsto quindi nel partito che domani accoglierà le dimissioni del neo presidente della Camera e designerà il successore. «Giordano non va, non corrisponde all´identikit del nuovo segretario - attacca Gianni - Qui, e dal nostro quotidiano Liberazione è avvenuta un´incoronazione ante litteram e ora di cosa dovremmo discutere? Tutto è già deciso», e annuncia la sua astensione. Per Gianni è venuta meno la scommessa del congresso di Venezia ovvero di un salto generazionale. Punto su cui insiste anche Mantovani: «Giordano segretario è un passo indietro, uno stop. Proprio in un momento in cui un partito come il nostro va al governo bisognava voltare pagina. Lo si poteva fare, serviva un atto simbolico chiaro e netto comprensibile ai militanti e a tutti gli italiani».
In pratica, per Mantovani, occorreva «mettere in campo una nuova generazione, quella sorta con la nostra decisione di fare parte dei movimenti». Gennaro Migliore, ad esempio? Le polemiche non si fermeranno nei due giorni di dibattito. Ma Giordano ritiene di avere dalla sua la maggioranza netta del partito. Nell´introduzione ieri, Ciccio Ferrara spiega ai compagni il percorso che ha portato alla candidatura di Giordano, la soluzione di continuità e anche i consensi pressoché unanimi che ha raccolto nei sondaggi. «Nulla contro di lui...», però Gianni e Mantovani non demordono.
Libertà 6.5.06
Il regista ospite con Schicchi e la Beretta, dibattito vivace col pubblico sul "Regista di matrimoni"
«Lotto contro il conformismo della vita»
Bellocchio al Jolly: «Che emozione ritrovare la mia gente»
di Manuel Monteverdi


Quella di giovedì è stata una giornata assai intensa per Marco Bellocchio. Ospite nel pomeriggio della presidente dell'Editoriale Libertà, Donatella Ronconi, il maestro è stato poi il protagonista della serata-evento organizzata dal cinema Jolly di Alberto Tagliafichi, che per l'occasione si è tramutato in set televisivo: Bellocchio, infatti, prima della proiezione del suo ultimo film, «Il regista di matrimoni», è stato intervistato in collegamento video da Piero Chiambretti per la trasmissione di culto «Markette».
Incalzato dall'imprevedibile showman, Bellocchio è tornato indietro nel tempo chiarendo alcuni retroscena di Buongiorno, notte; quindi è passato al rapporto con Bernardo Bertolucci («ci fu una rivalità tra di noi, ma tanto tempo fa. Ora è tutto appianato») e, infine, è giunto ad una riflessione sull'attuale situazione politica: «Nella sinistra il peso moralistico deve un po' diminuire; non si cambia un paese solo col moralismo».
Chiusa la divertente (e divertita) parentesi dedicata al tubo catodico, il regista piacentino ha introdotto il suo ultimo lavoro accompagnato dall'attore e grande amico Gianni Schicchi e da Giovanna Beretta, soprano che vediamo impegnato nel canto di un Osanna proprio nelle prime battute del lungometraggio.
«Sono sinceramente emozionato - ha esordito Bellocchio, di fronte ai numerosi spettatori - perché siamo a Piacenza, la terra dove sono nato, mi sono formato e ho vissuto».
«Io non ho parole per entusiasmarvi e affascinarvi prima della visione - ha proseguito - posso solo dirvi che assisterete ad un film che parla di amore e di registi. L'Italia, infatti, un tempo era la terra dei poeti, ora è la terra dei registi, perché molti hanno gettato la penna per dedicarsi al cinema».
Ed è proprio un regista il protagonista della storia: Franco Elica (Sergio Castellitto), in piena crisi esistenziale ed artistica, si rifugia in una Sicilia ancestrale dove si innamora di una promessa sposa (Donatella Finocchiaro), la convince a non sposarsi più e a fuggire via con lui. A ciascuno di noi, ovviamente, l'arduo "compito" di capire se si sia trattato di uno suadente ed inarrivabile sogno o di una splendida e palpabile realtà.
Al termine della pellicola, il cineasta di Bobbio ha risposto per più di un'ora alle domande del pubblico (tra i presenti anche l'assessore alla cultura della Provincia Mario Magnelli), che ha gremito la sala per assistere all'incontro.
«La mia arte non vuole essere consolatoria, bensì d'attacco, che intende contrastare la banalità, il conformismo della vita. E che si esprime, in questo caso, con un'opera che evidenzia una parte visionaria ed una libera dalla drammaturgia classica» ha premesso Bellocchio.
In quanto ai protagonisti, l'artista ha così spiegato le proprie scelte: «La Finocchiaro, da donna siciliana, sposata e borghese, ha dato verità alla storia. Castellitto mi ha aiutato in fase di sceneggiatura, perché è uno di quei pochi attori che sanno quando bisogna accorciare un copione. Gli altri, solitamente, vogliono sempre aggiungere qualcosa».
E parlando di interpreti, non poteva mancare un commento su Schicchi, che si ritaglia una parte anche in questo ultimo lavoro cinematografico: «Gianni è stato protagonista di grandi performance, ma non ha quella gloria che meriterebbe; comunque è sempre meglio essere primo nel proprio paese che secondo in Italia!».
Riguardo alla soluzione aperta del finale, Bellocchio ha poi commentato: «Il mio non è stato uno stratagemma per creare confusione. Io ho una mia interpretazione, che voglio tenere segreta, solo per me».
E a chi gli ha fatto notare come certi aspetti del Cattolicesimo sono meglio espressi nella sua cinematografia che in tanti altri film di cattolici, l'autore de I pugni in tasca ha ribadito: «Ho vissuto la formazione cattolica fino all'adolescenza. Poi me ne sono distaccato, ma posso dire di conoscerla e, per esperienza, posso intuire certi principi».
Bellocchio è stato poi chiamato da uno spettatore ad esprimere un giudizio sul rapporto tra cinema e televisione: «Da un punto di vista produttivo - ha detto - è la televisione che permette al cinema di esistere». Poi ha aggiunto: «La tv come rappresentazione della realtà, tuttavia, si presenta nel modo più blasfemo nei reality-show, un esempio tragico di come si rischi pericolosamente di passare dalla vita alla sua rappresentazione».
Terminato il tourbillon di quesiti e curiosità varie, a coronamento dello stimolante incontro il sindaco di Rottofreno, Giulio Maserati, ha omaggiato Bellocchio con un album fotografico nella speranza, naturalmente, di ritrovarlo molto presto al Jolly, perché - è il caso di dirlo - nell'Italia di oggi il maestro è uno dei pochi a voler essere profeta in patria, prima ancora che nel mondo.

Libertà 5.5.06
Parla il cineasta piacentino ieri in visita a Libertà prima della tappa a San Nicolò dove ha accompagnato il suo film
Bellocchio: in Italia si soffocano le idee nuove
«E a Bobbio in estate porterò Battiato e tanto cinema sconosciuto»
di Manuel Monteverdi

PIACENZA - «Bellocchio sta vivendo una seconda giovinezza»: con queste parole, meno di un anno fa, il critico cinematografico Morando Morandini, ospite del laboratorio bobbiese Farecinema, inquadrò perfettamente l'ottimo periodo artistico del cineasta piacentino.
Il regista di matrimoni, da poco uscito nelle sale italiane, va confermando, semmai ve ne fosse ancora bisogno, tale assunto: il film, infatti, dopo il primo, positivo riscontro di gradimento del pubblico, prenderà parte al prossimo Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard.
Proprio della Croisette e di tanto altro ha parlato, nel corso di una piacevole chiacchierata, lo stesso Bellocchio, in visita ieri a Libertà insieme a Stefano Pronti, accolto dalla presidente dell'editoriale, Donatella Ronconi, prima di recarsi al cinema Jolly di San Nicolò, dove in serata ha incontrato il pubblico dopo la proiezione del suo film.
Maestro, si aspettava un tale successo dal suo film?
«No, perché è un film molto allegro, divertente, ma non semplice. La gente esce dalla sala contenta, in parte anche pensierosa, ma con qualche speranza».
Lei ha definito il film come "I promessi sposi al contrario", perché?
«Perché parla di un regista che deve mettere in scena I Promessi sposi ma scappa dal set e va in Sicilia, dove riuscirà a convincere la principessa di cui si è innamorato a non sposarsi più. Quindi il finale è proprio il contrario dell'opera manzoniana».
Da dove è nata la scelta del protagonista, Castellitto?
«Dal bel rapporto instaurato col film precedente, L'ora di religione. E dal fatto che lui è anche un regista. In questo senso questa è stata una collaborazione molto utile, preziosa».
Accanto a lui spicca la figura di Donatella Finocchiaro. Per quale motivo ha scelto lei?
«Donatella è alta, mora, di una bellezza tradizionale, e possiede molta delicatezza e discrezione, in linea col suo personaggio».
Cosa risponde a coloro che hanno accostato il suo film a quello di Moretti?
«Abbiamo due modi diversi di fare cinema, di guardare ed interpretare la realtà; lui ha una visione del reale molto moralistica, razionale. Io credo più nell'immaginazione, e mi preoccupo di ridurre al minimo le parole. Siamo entrambi di sinistra, ma in modo differente».
A proposito di politica, come si è rivelata l'esperienza con «La Rosa nel Pugno»?
«Ho dato la mia adesione simbolica per aiutare questo partito, che mi piace come sintesi di radicali e socialisti. Però ho voluto rimanere totalmente fuori dalla competizione».
Cosa pensa del rifiuto del presidente della Repubblica ad un Ciampi-bis?
«Penso che abbia fatto bene a declinare. Ha dato il senso di una misura, di un non attaccamento alla poltrona, al potere. Che è stato sempre anche il metro della mia vita».
Cosa intende per «Paese dei morti» quando parla dell'Italia nel film?
«E' una frase che mi è uscita in modo automatico, come accadeva ai surrealisti. Col senno di poi, posso dire che essa non si riferisce alle persone fisiche, ma alla cultura, al soffocamento delle idee nuove, che non si impongono, non ci sono o non si trovano».
E' quindi un argomento che si ricollega all'inquietante occhio che, nel suo film, vede in bianco e nero?
«Sì, esatto. Ma, in fondo, è anche un discorso legato ad una concezione di tipo religioso: i morti comandano. Da ragazzi, infatti, ci insegnavano che la miglior vita è la morte».
E' sempre convinto che il suo non sia un film citazionista?
«Sì, perché tutte le esperienze che tu fai vengono elaborate. Soltanto dopo puoi riconoscere qualche cosa di altri nella tua opera, ma non vi è nel mio film l'atteggiamento citazionista che era, ad esempio, della Nouvelle Vague».
«Farecinema» sta prendendo avvio?
«Sì, si sta confermando anche per il 2006. La formula sarà sempre la stessa, forte di una struttura ancor più solida in fase di rassegna. Vorrei dare al pubblico più titoli, raccogliere i film più interessanti, anche se non necessariamente di maggior successo».
Ad esempio?
«Ho chiamato Franco Battiato, che mi ha già confermato la sua adesione. Porterà il film Musikanten, che nessuno ha visto ma che io ho apprezzato molto. Vorrei invitare anche Capuano con La guerra di Mario o Carlos Reygadas, regista di Battaglia nel cielo, film messicano molto ardito».
Il laboratorio godrà della solita impostazione?
«Sì, e sarà probabilmente impostato sulla realizzazione di un nuovo corto».
Cosa si aspetta da Cannes?
«Andrò con molto impegno, sapendo che dal punto di vista mediatico il fatto di non essere in concorso peserà. Ma ho preferito questa direzione, per il mio equilibrio mentale».

ViviPiacenza.it 6.5.06
Al Jolly incontro con Marco Bellocchio
Il regista incontra il pubblico dopo l'uscita dell'ultimo film, in partenza per il Festival di Cannes
di eb

Serata evento giovedì 4 maggio al cinema Jolly di San Nicolò. Il regista Marco Bellocchio incontrerà il pubblico piacentino in occasione della proiezione del suo ultimo film, "Il regista di matrimoni", uscito recentemente nelle sale e in partenza per il Festival di Cannes.
Piacentino e di famiglia borghese, egli frequenta il liceo dai Barnabiti; nel ‘59 abbandona gli studi di filosofia, intrapresi alla Cattolica di Milano, per iscriversi al CSC. Dipoi, a Londra, segue i corsi di cinema alla Slade School of Fine Arts, licenziando una tesi su Antonioni e Bresson. Esordisce nel lungometraggio con “I pugni in tasca” , considerata una delle migliori opere prime nella storia del cinema italiano. In questa grande pellicola, il ribellismo giovanile viene espresso con maestria in termini di rivolta verso la famiglia e la normalità, attraverso la vicenda d’un giovane che decide di sterminare i propri più stretti consanguinei. Il seguente “La Cina è vicina” segna una virata verso la commedia. I successivi film sono altrettanti attacchi alle istituzioni: il collegio (“Nel nome del padre”), la stampa di regime (“Sbatti il mostro in prima pagina”), il manicomio (“Matti da slegare”), la caserma (“Marcia trionfale”). Segue un periodo grigio, speso tra adattamenti letterari e ritorni a tematiche antiche; ancor peggio va dopo, quando l’inizio della collaborazione con lo psicoanalista Massimo Fagioli produce una schidionata di lavori incomprensibili e pretenziosi, da “Il diavolo in corpo” a “Il sogno della farfalla”. Liberatosi infine dell’ingombrante presenza del proprio mentore, Bellocchio torna alla sua forma migliore con una onirica versione de “Il principe di Homburg”. Ugualmente suggestivo, “La balia” tradisce genialmente l’omonima novella di Pirandello, filtrandola tramite la lente dei rapporti di classe. A seguire, “L’ora di religione” è una potente e suggestiva riflessione laica sui temi della mercificazione del sacro, oltre che il miglior esito della stagione indigena. Della propria generazione, Bellocchio pare l’artista oggi più vitale: il suo discorso, c’è da starne certi, è destinato ad un fertile prosieguo. Con il film "Buongiorno notte", il regista porta sulle scene uno dei periodi più difficile e oscuri della storia italiana: gli anni di piombo, e in particolare il sequestro Moro. Per la realizzazione del film, Bellocchio si è ispirato al "Il prigioniero", libro scritto da Paola Tavella assieme alla carceriera Br di Moro, Anna Laura Braghetti.
L’ultimo film, uscito recentemente nelle sale, vede ancora come protagonista un bravissimo Sergio Castellitto, già personaggio principale de “L’ora di religione”.Un regista, Franco Elica, entra in crisi perché la figlia ha sposato un fervente cattolico e perché è costretto suo malgrado a girare l'ennesima versione dei "I Promessi Sposi". Alla crisi si aggiunge un evento inaspettato, così decide di fuggire in un paesino della Sicilia profonda, dove incontra un uomo che si guadagna da vivere girando filmini di matrimoni e un regista che si spaccia per morto per ottenere finalmente il riconoscimento mai avuto prima "in vita". Conosce anche il principe Ferdinando Gravina di Palagonia, un nobile spiantato che gli propone di dirigere il film del matrimonio di sua figlia, Bona. Franco si innamora immediatamente della bellissima principessa e decide di salvarla da un matrimonio di convenienza.

valdelsa.net 6.5.06
Cinema: IL REGISTA DI MATRIMONI di Marco Bellocchio

Un regista in crisi, alle prese con la difficile realizzazione di una versione cinematografica de 'I promessi sposi', crolla definitivamente quando scopre che la figlia intende sposare un fervente cattolico neocatecumenale. Decide di partire per la Sicilia dove incontrerà un uomo che si guadagna da vivere girando filmini nei matrimoni
Un regista, Franco Elica, è messo in crisi dal matrimonio della figlia con un fervente cattolico e dalla necessità di dover girare ancora una volta una versione dei Promessi sposi. Decide così di partire per la Sicilia alla ricerca dell'ispirazione che sembra aver perso. Lì ritrova un suo amico di vecchia data, anche lui regista, che si spaccia per morto nella speranza di raggiungere la fama che finora gli è stata negata. Incontra anche un uomo che vive realizzando le riprese dei matrimoni. Conosce anche il principe Gravina di Palagonia, un nobile spiantato che gli propone di dirigere le riprese del matrimonio della figlia Bona. Franco si innamora subito della giovane e bellisssima ragazza e si propone di riuscire a evitarle di contrarre un matrimonio di convenienza.
"Il cinema è dominato da vecchie idee; schiacciato dal potere della televisione rischia di diventare elitario. Io credo fortemente nella rivendicazione della forma e nel primato dell'immagine.". Basterebbero queste due righe, fedele trascrizione di un concetto che Marco Bellocchio ha espresso con chiarezza esemplare durante l'incontro con la stampa di presentazione del film, per raccontare il suo Il regista di matrimoni.
E invece no, pensandoci bene non bastano queste parole. Non rappresentano pienamente il giusto tributo a una pellicola di esemplare bellezza e di enorme valore teorico ed estetico; uno dei film più compiuti di un autore pieno, un outsider lucidissimo del nostro pazzo e disperato cinema italiano. Il regista di matrimoni è contemporaneamente la messa in atto coerente e riuscita del concetto espresso in apertura, quanto un poderoso sguardo sulla realtà attraverso una sintesi contenutistico-formale astratta, visionaria, esaltante. E' l'approdo del cinema di Bellocchio, il raggiungimento di una consapevolezza estetica sorprendente e probabilmente definitiva. Un grido di allarme potente e rabbioso, evocativo ed onirico sull'inferno di una quotidianità nulla, irraccontabile ed irraggiungibile.
Fotografato splendidamente da Pasquale Mari ed avventurosamente musicato da Riccardo Giugni (da applausi il pregnante connubio tra l'inquietante commento sonoro e il repertorio classico e contemporaneo) il film vive su una straordinaria dimensione altra garantita dal potere di una messa in scena affilatissima e dal sensazionale montaggio sospeso di Francesca Calvelli (una gigante assoluta, la Thelma Schoonmaker italiana). Bellocchio filma con irruenza e trasporto un'Italia patetica, reazionaria e provinciale, rifiutando qualsiasi didascalismo o banalità ed indagando una crisi con il linguaggio della crisi, integrando forme e contenuti con una lucidità ragguardevole. Il cinema diviene così il mezzo attraverso il quale il regista italiano prende una posizione di straordinaria intransigenza. Filmando ed indagando la soglia tra il visibile e l'invisibile cinematografico, tra il fuoco ed il fuori fuoco, tra il sogno e la realtà, Bellocchio restituisce alla visione quello scarto fondamentale che rende ancora unica l'esperienza cinematografica. Ma è solo una fuga irreversibile, a occhi chiusi ben spalancati.

telefree.it 28.4.06
Marco Bellocchio sposa l'immagine
E' uscito nelle sale "il regista di matrimoni" un film visionario dalle molteplici letture

Sono stati appena consegnati i David di Donatello. "Fu vera gloria? Perché la sentenza deve andare sempre ai posteri? "Massimo Fattor" è la giuria dei critici o il pubblico dei cinefili?
C'è un regista, Marco Bellocchio, che non crede affatto nella "provvidenza" cinematografica.
Il suo scetticismo si manifesta senza mezzi termini nel suo ultimo film, "il regista di matrimoni".
E sono in molti che rimangono perplessi dinanzi ai criteri in base ai quali vengono assegnati gli oscar, alle ragioni che portano alla scelta dei vincitori del David di Donatello.
Nell'edizione appena conclusa la parte del leone è infatti toccata al "Kaimano" ed alla Banda della Magliana.
(...)
Nella finzione cinematografica di stampo manzoniano Bellocchio trasforma la statuetta in "David di Michelangelo" e la assegna ad un tale "Smanna", azzeccagarbugli della cinepresa, regista di un improbabile "Bacio di Giuda". Evidente il riferimento alla celeberrima "Pietà" michelangiolesca: "La compassione è come la paura, se uno la subisce non è più un uomo".
Provvidenza, dunque unico filo conduttore, sembrerebbe suggerire la logica manzoniana, dato il continuo incombere nella trama dello scrittore milanese.
Ed invece è la carenza (voluta) nell'unità logico - funzionale a farla da padrona.
"Sia prima delle riprese che dopo, al montaggio, abbiamo eliminato molte parole, molte situazioni per andare oltre la struttura classica del film. Abbiamo fatto in modo che il film fosse pieno di sospensioni e di crepe, come se fosse stato smontato e bisognasse ricostruirlo" - ha dichiarato Marco Bellocchio.
Se i personaggi ci sono quasi tutti (da Lucia Mondella sposa negletta al regista "Innominato", passando per rivisitati don Abbondio, don Rodrigo, i bravi ecc. ) il filo ultraterreno che lega il capolavoro manzoniano è smembrato e riannodato, più simile alla struttura dell'Orlando Furioso.
È dunque un Marco Bellocchio che ha smarrito la fede nella "provvidenza cinematografica". Che si riflette anche in quelle che sono già prese, e vivono ormai delle ore deluse*
L'arte s'incarna nel film in due personaggi chiave, due spose. Una delusa, ed una promessa. La prima incasellata in uno stanco menage coniugale, condotto da un professionista della cinepresa prigioniero del remake. La seconda nelle lusinghe dei cliché provinciali all'italiana e metaforicamente della critica.
Il regista dovrà uscire dalle torbide grotte che conducono dalla buia spiaggia al convento della promessa sposa. Lo farà attraverso l'uso sipiente dell'immagine (torna alla mente il Tom Cruise di Spielberg in minority report, con il suo montare e smontare i singoli fotogrammi) lo farà attraverso l'uso sipiente della visione e del sogno. Lo farà soprattutto attraverso un continuo passaggio dalla 35 mm al digitale, dove la visione onirica si spegne piuttosto in un essere visti, controllati.
Ed è proprio qui il punto. La realtà si sdoppia si triplica, si dilata in innumerevoli sfaccettature, come gli orologi dell'androne del Principe Gravina. Ognuno porta un orario diverso, pietrificato nel quadrante. Ma nel finale del film riprendono a ticchettare freneticamente, simulando i movimenti dei protagonisti che inseguono l'arte.
E l'arte che non può farsi ingabbiare, che si accompagna con tutti e con nessuno, sembra rispondere all'unisono con la voce di Mariangela Melato: "Sola me ne vo' per la città..."
La Stampa Tuttolibri 6.5.06
Paolo Boringhieri, l’editore che per primo ne fece conoscere tutta l’opera in Italia, ricorda il padre della psicoanalisi a 150 anni dalla nascita
di Alberto Sinigaglia


Coincidenza perfetta, i centocinquant’anni della nascita di Freud cadono proprio oggi, 6 maggio 2006, in piena Fiera del libro intonata all’avventura. Fu senza precedenti né susseguenti l’avventura editoriale e intellettuale osata da Paolo Boringhieri pubblicando dal 1966 al 1980 i dodici volumi delle «Opere di Sigmund Freud»: per intuizione, complessità, passione, rigore esecutivo, generoso mecenatismo. Strappò Freud al livello pionieristico, eroico, ma sovente rudimentale e non privo d’immondizie, al quale in Italia era ancora ridotto. Rivelò il fondatore della psicoanalisi e la sua rivoluzione attraverso l’intero edificio teorico che il medico, pensatore e meraviglioso scrittore viennese aveva allestito. Riviviamo quell’impresa con il suo ideatore. Ottantacinque anni in luglio, fermo e sereno, si tiene lontano dallo scandalo che ha suscitato la recente nuova edizione freudiana eseguita dai successori, la Bollati Boringhieri, con scelte, frammentazioni, ritraduzioni molto polemicamente discusse. La sua è tutt’altra storia. Che visse con Cesare Musatti, il massimo esponente e divulgatore della psicoanalisi nel nostro Paese. «Prima di lui, avevo conosciuto il suo Trattato di psicoanalisi, che mi aveva colpito», ricorda Paolo Boringhieri. «Lo pubblicava Einaudi, di cui Musatti era consulente e io responsabile della Biblioteca di cultura scientifica, nella quale finirono due testi di Freud: Inibizione, sintomo e angoscia (1951) e Casi clinici (1952). Jung, più dolce, più fantasioso, godeva dell’ala protettiva di Pavese, usciva nella “Collana viola”. Cresceva la curiosità intorno a Freud e tra i curiosi c’ero anch’io. Cresceva in me il sospetto che troppi ne parlassero a ruota libera, conoscendolo poco. Avevo voglia di rendere possibile una lettura di Freud: invece di rifarci a cose riportate, di seconda mano, ascoltiamo lui».
Musatti aveva già esortato Einaudi a pubblicare tutto Freud.
«Giulio aveva lasciato cadere la proposta. Non che fosse contro la psicologia o disinformato della psicoanalisi, anzi: già parlare di Freud allora era un atto di coraggio. Lui era un tipo speciale, apriva tante porte, ma non voleva passare per il campione spaccatutto. Pubblicava qualche libro, poi limitava l’impegno. Lo avrebbe fatto con Nietzsche, le cui opere complete uscirono poi da Adelphi a cura di Colli e Montinari».
Per questo lei nel 1957 lasciò Einaudi, ne acquistò la costola scientifica e fondò la Boringhieri?
«L’idea era d’una casa editrice soprattutto di fisica e matematica: manuali per studenti, opere divulgative, testi dei premi Nobel. E psicologia, considerata una branca della filosofia. Curato attivamente da Pier Francesco Galli, con libri facili, prodotti per argomenti, il settore ebbe rapida espansione. La casa editrice cominciò a sfornare più libri di scienze umane che non di scienze matematiche. Andai alla carica di Musatti: “Cerchiamo di realizzare il suo progetto Freud”. Mi ero buttato, sapevo che il pubblico c’era».
Cesare Musatti progettava una scansione per argomenti, raggruppando temi affini: sessualità, società, religiosità... Era il criterio parzialmente seguito da Freud nelle «Gesammelte Schriften», più commerciale. Perché lei scelse l’ordine cronologico di composizione degli scritti?
«Sì, fui io a deciderlo. Pensavo a un’opera definitiva. L’ordine cronologico mancava persino nelle edizioni tedesche. Non era dettaglio da poco. Influenzò tutta l’organizzazione del lavoro».
Ne parlò con Anna Freud?
«Mi affrettai ad andare a Londra per controllare la cronologia esatta, consultando la Standard Edition di James Strachey. Ma avevo già stipulato il contratto con gli eredi, prima che si affacciassero altri. Lo firmai con l’architetto Ernst Freud, l’ultimo figlio. Anna Freud fu gentile, m’invitò nella villetta dove il padre si era rifugiato quando i nazisti l’avevano lasciato andar via dall’Austria e dove aveva trascorso gli ultimi anni. Lì c’erano tutti i suoi ricordi».
«Übertragung»: transfert o traslazione? «Trieb»: istinto o pulsione? La traduzione dev’essere stata un problema angoscioso!
«Bisognava rendere lo stile di Freud diretto, semplice, e rispettare il suo pensiero, fin nelle più sottili differenze: se “Instinkt” è istinto, “Trieb” è pulsione. Un estenuante dibattito ci portò a risolvere i dubbi, conferendo omogeneità di scrittura e di senso all’intero lavoro. Anch’io traducevo o controllavo le traduzioni consultandomi con Elvio Fachinelli, la moglie Herma Trettl, Michele Ranchetti e altri. La traduzione di “Affekt” con affetto non è mai stata discussa. L’unico termine non passato nella pratica psicoanalitica è “traslazione”, secondo noi più fedele al testo: “transfert” ha resistito. Musatti, alla fine, leggeva. Gli piacque la mia idea di tradurre “Besetzung” con investimento, intesa a non perdere la connotazione militare e economica della parola tedesca».
L’impresa decollò quarant’anni fa da «L’interpretazione dei sogni».
«Pur essendo il terzo volume delle Opere, decisi di cominciare di lì. Una faticaccia! Dal sesto volume in poi avevo saltato il fosso e assunto, nel 1973, Renata Colorni: bravissima, si buttò appassionatamente nell’impresa, ne divenne l’anima, la vestale. Grazie a lei avremmo sfornato un volume l’anno, 600 pagine, con la famosa copertina di Enzo Mari: un quadrato nero al centro contornato da linee che digradano dallo scuro verso il chiaro. Era il primo autore che Renata traduceva. Ebbe in seguito il Premio Goethe e il Premio nazionale per la traduzione. E avviò una straordinaria carriera di traduttrice: Canetti, Roth, Schnitzler, Bernhard...».
Fu un grosso impegno finanziario?
«Molto pesante, date le nostre dimensioni. Una follia. Oggi nessuno lo farebbe più, o si farebbe finanziare da una fondazione. Pochi editori avrebbero tollerato un impegno così grande per un’opera sola».
Quando capì di avere vinto la sfida?
«Avversata dal fascismo, dalla Chiesa e dal comunismo, la psicoanalisi non ebbe vita facile neanche dopo la Liberazione. Era considerata faccenda per pochi. Ma già all’uscita dei primi volumi capimmo d’essere sulla buona strada».
Nonostante un’iniziale disattenzione giornalistica e Musatti tenesse le distanze con Servadio e la Società psicoanalitica.
«Nessuno mai attaccò la progettualità del lavoro. E la presentazione di un volume a Milano vide schierati tutti i filosofi della città. Poi i giornali si svegliarono, sempre elogiativi. Il mondo culturale si fece più attento, i termini freudiani adottati da noi entrarono nell’uso. Il nuovo termine “pulsione” scalzò e bandì “istinto” e “impulso”».
Concluso il lavoro, fu definito la prima edizione in Europa delle opere complete di Freud. Era un’esagerazione?
«Non lo era. Le traduzioni sono state condotte sulle Gesammelte Werke, il testo tedesco più completo e attendibile. Sono corredate con le preziose annotazioni e con il commento intertestuale dell’inglese Standard Edition, che ce ne aveva concesso i diritti. Il Dictionnaire de la Psycanalyse di Rondinesco e Plon, uscito nel 1997, definisce quell’edizione “un modello sul piano filologico”. La Francia non è ancora riuscita a darsi le opere complete di Freud. Le nostre divennero un giacimento da sfruttare ampiamente per la casa editrice, che le declinò in singoli scritti, in antologie tematiche per collane economiche».
Freud fu una vampata?
«Venne la moda del marxismo e passò. Venne quella di Freud e fu una specie d’ampliamento della moda precedente in quanto entrambe dottrine molto razionali, senza concessioni ai misteri. Poi si scoprì la miniera Nietzsche, Freud cominciò a perdere terreno, il dibattito sul freudismo si attenuò, si spense. Fino a quando Jacques Lacan non propose un suo personalissimo ritorno a Freud».
Melanie Klein e Lacan, riesplorando l’inconscio, reinterpretando Freud, indussero a una sua riscoperta.
«Mi viene spontaneo un paragone con Darwin. Anche lui prima ha scandalizzato tutti, poi è diventato una verità con le scoperte nella genetica degli Anni 50 e 60. Per Freud è diverso: non abbiamo ancora gli strumenti per dare una spiegazione biologica, chimica a certi fenomeni psicologici. Forse per questo l’interesse per Freud non dura, ha fasi alterne. E dopo le stagioni della Klein e di Lacan, mi pare che abbia di nuovo perso terreno. Non c’è dibattito sul freudismo in Italia, neppure tanto all’estero».
Almeno l’anniversario torna a renderlo attuale?
«Non soltanto per l’anniversario, ma per capire quanto sta accadendo a noi e intorno a noi, potrebbe essere il momento di ritornare a cercarlo».

Il Gazzettino di Venezia 6.5.06
Nasceva a Freiberg 150 anni fa il padre riconosciuto della psicoanalisi, un uomo che ha anche influenzato profondamente la cultura del ’900
di R.C.

Le ombre e le luci della psiche dell'uomo, il dolore dell'anima, le nascoste patologie della mente, la sessualità sono stati al centro della sua vita, dei suoi studi e delle sue intense ricerche. Centociquanta anni fa nasceva Sigmund Freud, era il 6 maggio del 1856 e con lui si apriva il grande capitolo della psicoanalisi, di nuove vie per curare la patologia psichica.
Insieme a Nietzsche, Freud scardinò alcune tra le più importanti "certezze" dell'Occidente di fine Ottocento, facendo duramente traballare la certezza dell'Io che per lui «non è che non ci sia, ma, semplicemente, è una realtà infinitamente più marginale di quel che si è creduto da Socrate in poi».
Freud non fu un filosofo in quanto tale ma piuttosto un medico di fine Ottocento interessato di psichiatria, praticò l'ipnosi per far riemergere traumi nascosti, lavorò a fondo sulla "rimozione", su quelle situazioni conflittuali e troppo pesanti che vengono per questo "rimosse" dallo stato cosciente della mente per finire in quel grande serbatoio della psiche che Freud chiamò "inconscio". Tra i suoi studi che maggiormente scandalizzarono la società del suo tempo in prima linea ci furono la teoria della sessualità infantile. A Freud inoltre si devono termini come libido, totem, lapsus o sublimazione che tanto segneranno la cultura del Novecento.
Nato da una modesta famiglia israelitica, a Freiberg, in Moravia, Freud si trasferì con la sua famiglia quattro anni dopo la nascita a Vienna, si iscrisse dapprima alla facoltà di Scienze, dedicandosi con alcuni successi alla ricerca pura e, successivamente, a causa di problemi economici, a Medicina. Nel 1881 si laureò.
Nel 1882, per ragioni economiche, abbandona la ricerca scientifica e si dedica alla professione medica, specializzandosi in neurologia. Nel 1885 ottiene una borsa di studio che gli permette di accedere alla leggendaria scuola di neuropatologiadella Salpetriere a Parigi, diretta dal celebre Charcot. Questa esperienza assai intensa e l'incontro-conoscenza con il grande scienziato, lascia una profonda impressione sul giovane studioso. Ciò però non toglie che Freud in seguito mantenne sempre un atteggiamento assai originale ed autonomo rispetto alle convinzioni dell'illustre studioso. Ad esempio, il futuro padre della psicoanalisi mal accettava le conclusioni di Charcot circa l'isteria, da lui considerata come una malattia dovuta a cause organiche, paragonandola poi ad una sorta di stato di ipnosi.
Nondimeno, per Freud cominciano a prendere corpo alcune osservazioni sul ruolo della sessualità nel comportamento umano, proprio a partire da osservazioni che per Charcot erano marginali, come quella della connessione fra isteria e sessualità. Nel 1886 Sigmund Freud si sposa con Martha Bernays, che in seguito gli darà ben sei figli (la più famosa tra loro è Anna Freud, continuatrice della ricerca del padre nell'ambito della psicoanalisi infantile) e inizia l'attività privata aprendo uno studio a Vienna. Inizialmente utilizza le tecniche allora in uso, quali l'elettroterapia e l'idroterapia, ma senza risultati apprezzabili.
Decide quindi di utilizzare la tecnica dell'ipnosi, che va ad approfondire a Nancy, in Francia. Il 1889 è segnato da un aperto contrasto con Charcot: Il nodo del contendere è il ruolo dell'ipnosi, studiata da Freud nella scuola specializzata di Nancy e che procura su di lui forte impressione oltre che notevole interesse scientifico. Tornato a Vienna, si dedica completamente alla professione di neurologo. Nel frattempo stringe amicizia con Josef Breuer, con il quale pubblica nel 1895 gli "Studi sull'isteria" e con cui inizia quella grande avventura intellettuale e clinica che lo porterà alla fondazione della psicoanalisi. Gli inizi, ironia della sorte, sono dovuti proprio al comune interesse per l'ipnosi. Breuer, infatti, utilizzando questo metodo, era riuscito a far ricordare ad una sua paziente (la celebre Anna O. degli scritti freudiani), gli eventi traumatici connessi con l'insorgere dell'isteria.
Avvertendo però che nella paziente si stava sviluppando una forma di amore e di dipendenza nei suoi confronti (quel fenomeno che poi verrà denominato "transfert"), Breuer aveva interrotto la terapia affidando la paziente a Freud il quale, dal canto suo, riuscirà, a guarire la giovane.
Nel 1902 si costituì un primo gruppo di psicoanalisi di Vienna.
Tra i lavori più famosi di Freud si annoverano "Psicopatologia della vita quotidiana" (1901), "Tre saggi sulla sessualità" (1905), "Il motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio" (1905). Nel congresso di Norimberga, tenutosi nel 1910, fu fondata una Associazione ufficiale degli psicoanalisti a capo della quale venne eletto Jung. Negli anni seguenti si tennero altri congressi, a Weimar (nel 1911) e a Monaco (nel 1913), e questi contribuirono a far uscire definitivamente la psicoanalisi dalla sua preistoria.
Nel febbraio del 1923 Freud avvertì i primi sintomi di un male che si rivelò un cancro alla mascella. Nel 1938, dunque, si trasferì con la famiglia a Londra, dove sarebbe morto l'anno seguente, il 23 settembre, con la Seconda Guerra Mondiale alle porte.

Il Gazzettino di Venezia 6.5.07
Una mostra a Vienna
Quel "lettino" così carico di simboli e allusioni
di F.B.

Vienna. Oggetto fisico e figurato, reale e immaginario, scientifico e paranormale, il lettino è il simbolo per eccellenza, totem e tabù, della psicoanalisi: ad esso è dedicata una grande mostra a Vienna per i 150 anni della nascita di Sigmund Freud allestita allo storico indirizzo, che è oggi un museo, dove visse e operò il fondatore della psicoanalisi: Berggasse 19, nel IX distretto della capitale.
La mostra, presentata in anteprima alla stampa, rientra nelle commemorazioni organizzate in Austria per l'anno freudiano e sarà inaugurata stasera dal capo dello stato Heinz Fischer. Per il pubblico sarà aperta fino al 5 novembre: "The couch, del pensare sdraiati", è il titolo. Per gli organizzatori, fra cui la curatrice Lydia Marinelli e la direttrice del Museo Freud Inge Scholz-Strasser, un compito arduo rendere omaggio a uno dei figli più famosi della città, costretto in quanto ebreo a fuggire nel 1938 con l'avvento del nazismo. Freud si rifugiò a Londra, dove è morto un anno dopo, e portò con sè la famiglia e tutto il mobilio della sua casa e dello studio nella Berggasse. Compreso il famoso lettino (una chaiselongue bianca dove faceva accomodare i pazienti, coperta con un altrettanto famoso tappeto turco variopinto) custodito ora nella sua casa-museo a Londra come una reliquia tant'è vero che è vietato portarlo fuori del paese e darlo in prestito.
Il grande assente alla mostra è dunque proprio il protagonista, il lettino, che Freud usò come strumento di lavoro dal 1886. Un'assenza, spiegano gli organizzatori, tutta in tema con la psicoanalisi, scienza che scruta appunto l' assente, il rimosso, l'inconscio sotterraneo. «Un luogo discreto fra medico e paziente», dice la Scholz-Strosser. Del resto il lettino di Freud, nella sua casa-museo a Vienna non è mai stato esposto (essendo rimasto sempre a Londra) anche se stranamente la maggior parte dei visitatori (500.000 solo negli ultimi dieci anni) non solo chiede per prima cosa di vedere il lettino ma è anche fermamente convinta nel ricordo di averlo visto esposto nella Berggasse 19. Freud parlava di Diwan o Ruhebett (divano o letto da riposo). Ma quale che fosse il nome, l'oggetto aveva in sè una indubbia ambiguità, spiega la curatrice: ci si può sedere o sdraiare sopra, è un invito al sogno (per liberare l'inconscio), ma non al sonno, ed evoca associazioni sessuali, che sono un elemento centrale dell'analisi psicoanalitica.

Repubblica Torino 6.5.06
Gli incubi surrealisti di Dalì per festeggiare il dottor Freud
di Lorenzo Barrello

Tra sogni e psicanalisi, lo sa bene il dottor Freud, intercorre una stretta relazione. Attraverso l'interpretazione di un incubo è possibile svelare traumi infantili ormai rimossi o trovare la soluzione ad una nostra fobia. In quest'ottica, una delle sequenze oniriche più famose della storia del cinema è senza dubbio quella che Dalì realizzò per Alfred Hitchcock durante la produzione di Io ti salverò. Un filmato tanto breve quanto delirante, che riuniva in pochi minuti tutto il corredo simbolico del pittore surrealista (uomini senza volto, occhi giganti, oggetti «sciolti» e così via), fornendo così al regista inglese il modo per confrontarsi con l'interpretazione dei sogni. Per celebrare il 150° anniversario della nascita di Freud, il cinema Massimo [di Torino ndr] ha deciso di rendere omaggio al padre della psicanalisi, riproponendo per l'occasione proprio il film di Hitchcock, che oggi alle 20.30 verrà presentato da Simona Argentieri in sala 3. Ingresso libero, info 011/8125606.


due lanci Adnkronos Salute 05/05/2006 17.55

PSICANALISI: SIGMUND FREUD, DOMANI IL MONDO CELEBRA 150 ANNI NASCITA

Vienna, 5 mag. (Adnkronos Salute) - Da Vienna a New York, da Londra a Roma, da Parigi a Bruxelles passando per Toronto, Washington e Tokyo, domani il mondo celebrerà i 150 anni della nascita di Sigmund Freud, il medico austriaco fondatore della psicoanalisi nato il 6 maggio 1856. Luogo centrale delle manifestazioni sarà naturalmente Vienna, dove la famiglia di Freud si trasferì dal 1860 e in cui lo psicoanalista visse fino al 1938, quando l'annessione dell'Austria alla Germania di Hitler lo costrinse a emigrare a Londra. ( ... )

PSICANALISI: SIGMUND FREUD, DOMANI IL MONDO CELEBRA 150 ANNI NASCITA (2)

(Adnkronos Salute) - L'edificio di Berggasse 19, una volta dimora di Freud e oggi museo, ha visto anche il ritorno di Margarethe Walter, ultima paziente vivente del famoso psicologo. La donna, oggi ottantottenne, è tornata nella casa-studio di colui che, settant'anni fa, l'ha liberata dalle sue paure e guarita dai suoi traumi. Una visita che allo stesso tempo sembra voler celebrare il 150esimo anniversario della nascita del neurologo austriaco, e il 70esimo anniversario dell'incontro tra lo stesso e Margarethe Walter. Era il 1936 quando l'allora studentessa liceale venne condotta nel salotto dove ebbe luogo il solo e unico incontro con Freud, ma i ricordi sono ancora nitidissimi negli occhi dell'anziana signora che, ritrovandosi a camminare per il pavimento della stanza dove venne ascolata, ha sistemato una sedia nel punto esatto dello studio dove era seduta 70 anni fa. ( ... )
(Adnk/Adnkronos Salute)

Altri articoli che sono usciti oggi sul tema (e non disponibili in rete):

Corriere del Veneto, Caro Freud, ci serve che il suo pensiero rimanga ad inquietarci

Corriere del Veneto, Caro Freud, quanto ci manca

Il Piccolo di Trieste, Parole su Freud, a 150 anni dalla nascita

venerdì 5 maggio 2006

Repubblica 5.5.06
Quest'uomo ci ha cambiato la vita?
Centocinquantanni fa nasceva il padre della psicoanalisi
Dalla scoperta dell'inconscio al ruolo delle pulsioni e dei sogni
Il bilancio su una difficile eredità che ha diviso il mondo della cultura
di Umberto Galimberti


Nel 1927, a 71 anni, quando la vita di ciascuno incomincia a rivelare a chi l'ha vissuta il suo segreto Freud scrive: «Dopo 41 anni di attività medica la conoscenza che ho di me stesso mi dice che in verità non sono mai stato propriamente un medico. Sono diventato medico essendo stato costretto a distogliermi dai miei originari propositi, e il trionfo della mia esistenza consiste nell'aver ritrovato, dopo una deviazione tortuosa e lunghissima, l'orientamento dei miei esordi. Non so nulla, dei primi anni della mia vita, che deponga per un mio bisogno di aiutare l'umanità sofferente; d'altra parte la mia innata disposizione sadica non era particolarmente forte, ragion per cui non necessariamente doveva svilupparsi questo suo derivato.
«Neppure ho mai giocato al "dottore", giacché palesemente la mia curiosità infantile seguiva altre vie. Negli anni della giovinezza divenne predominante in me l'esigenza di capire qualcosa degli enigmi del mondo che ci circonda e di contribuire magari in qualche modo a risolverli. La via migliore per soddisfare questa esigenza mi apparve allora l'iscrizione alla facoltà di Medicina, ma, dopo essermi cimentato senza successo con la zoologia e la chimica e dopo aver superato tutti gli esami medici, continuai a non interessarmi ad alcuna branca della medicina fino a quando il mio venerabile maestro von Brücke mi esortò, in considerazione della mia pessima situazione economica, a rinunciare alla carriera puramente scientifica. Passai allora dall'istologia del sistema nervoso alla neuropatologia, e poi, in base a nuove sollecitazioni, alle ricerche sulle nevrosi».
Ma che cos'è una nevrosi? Freud che, contrariamente a quanto si crede, non si appassiona alla medicina di stampo positivista in voga al suo tempo, rifiuta la tesi che la nevrosi sia una malattia del sistema nervoso, e avanza l'ipotesi che la nevrosi sia un "conflitto" tra il mondo delle pulsioni (da lui denominato Es) e le esigenze della società (denominate Super-io) che ne chiedono il contenimento e il controllo. In questa dinamica è possibile scorgere il tragitto dell'umanità e il suo disagio che Freud condensa in queste rapide espressioni: «Di fatto l'uomo primordiale stava meglio perché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L'uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po' di sicurezza».
Ma da dove Freud trasse questa sua concezione, a dir poco rivoluzionaria, di nevrosi? Non dalla medicina del suo tempo ovviamente, ma dalle intuizioni filosofiche del romanticismo, da Goethe, da Schelling e soprattutto da Schopenhauer, che Freud considera suo "precursore" e a proposito del quale scrive: «Probabilmente pochissimi uomini hanno compreso che ammettere l'esistenza di processi psichici inconsci significa compiere un passo denso di conseguenze per la scienza e per la vita. Affrettiamoci comunque ad aggiungere che un tale passo la psicoanalisi non l'ha compiuto per prima. Molti filosofi possono essere citati come precursori, e sopra tutti Schopenhauer, la cui "volontà" inconscia può essere equiparata alle pulsioni psichiche di cui parla la psicoanalisi».
Secondo Schopenhauer, infatti, ciascuno di noi è abitato da una doppia soggettività: la "soggettività della specie" che impiega gli individui per i suoi interessi che sono poi quelli della propria conservazione, e la "soggettività dell'individuo" che si illude di disegnare un mondo in base ai suoi progetti, che altro non sono se non illusioni per vivere e non vedere che a cadenzare il ritmo della vita sono le immodificabili esigenze della specie.
Questa doppia soggettività viene codificata dalla psicoanalisi con le parole io e inconscio.
Nell'inconscio occorre distinguere un inconscio "pulsionale" dove trovano espressione le esigenze della specie, e un inconscio "superegoico" dove si depositano e si interiorizzano le esigenze della società. Sono esigenze della specie la sessualità, senza di cui la specie non vedrebbe garantita la sua perpetuazione, e l'aggressività che serve per la difesa della prole.
Queste due pulsioni, proprio perché sono al servizio della specie, l'io le subisce, le patisce, e perciò diventano le sue "passioni", che la società, per salvaguardare se stessa, chiede di contenere, nella loro espressione, entro certi limiti. Ciò avviene attraverso l'educazione, durante la quale, interiorizzando i divieti genitoriali, ciascun individuo acquisisce gradatamente i divieti sociali che svolgono una funzione di contenimento dei moti pulsionali.
Tra le esigenze della specie (Es o inconscio pulsionale) e le esigenze della società (Super-io o inconscio sociale) c'è il nostro io, la nostra parte cosciente, che raggiunge il suo equilibrio nel dare adeguata e limitata soddisfazione a queste esigenze contrastanti, la cui forza può incrinare l'equilibrio dell'io (e in questo caso abbiamo la nevrosi) o addirittura può dissolvere l'io sopprimendo ogni spazio di mediazione tra le due forze in conflitto, e allora abbiamo la psicosi o follia. La psicoanalisi, che per curare ha bisogno dell'alleanza dell'io, può operare solo con la nevrosi, aggiustando le incrinature dell'io, mentre è impotente con la psicosi, dove inconscio pulsionale e inconscio sociale confliggono corpo a corpo, senza uno spazio di mediazione.
Scopo della psicoanalisi è che l'io (la nostra parte cosciente) sia in grado di guadagnare sempre più spazio all'inconscio, come gli olandesi (l'esempio è di Freud) hanno guadagnato un'estensione della terra sottraendola al mare, perché, scrive Freud: «L'intenzione degli sforzi terapeutici della psicoanalisi è in definitiva di rafforzare l'io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell'Es. Dove era l'Es, deve subentrare l'io. È questa l'opera della civiltà».
Il pessimismo di Schopenhauer, da cui Freud era partito per smascherare la trama delle motivazioni che l'individuo conscio dà del proprio pensare e agire, si risolve nell'ottimismo della ragione, la quale, scoperto il segreto della natura, non è più rappresentazione illusoria, ma struttura d'ordine che trasforma il caos in cosmo, la natura in cultura. Nasce così, con Freud, una morale del tutto nuova, regolata non più dall'ascesi, ma dal lavoro, dall'opera di civiltà. Il suo dover essere non ha in vista un altro mondo, ma l'ordinamento di questo mondo.
Espansione del cosmo e riduzione del caos. Freud non ha scoperto l'inconscio, che semmai ha scoperto Schopenhauer, Freud ha scoperto le regole per aver ragione dell'inconscio. La sua psicologia è una celebrazione della potenza della ragione sulle pulsioni che la minacciano. Il pensiero di Freud, che tutti si affannano a superare o a dichiarare superato, su questo punto, che è poi il nucleo portante della sua teoria, va rigorosamente mantenuto e gelosamente custodito, a meno che il nostro futuro non ci prepari una regressione dell'umanità nell'insofferenza ai divieti e nella più sfrenata espressione delle pulsioni, perché questo significherebbe il declino della civiltà e insieme l'infelicità dell´individuo.

Repubblica 5.5.06
Intervista a James Hillman che analizza l'importanza e i limiti di Freud
Il codice di Edipo scritto sull'anima
Gli attacchi. La dottrina freudiana non è piaciuta né alle femministe né alla Chiesa, e naturalmente è stata detestata dai farmacologi
di Leonetta Bentivoglio

Esploratore accanito e sempre originale dei miti su cui poggia l'inconscio collettivo, lo psicanalista americano James Hillman (nato nel 1926 ad Atlantic City) è il pensatore junghiano più carismatico e abilmente mediatico del nostro tempo, capace di conquistare un successo planetario con testi come Il codice dell'anima, Puer Aeternus, La forza del carattere e il bellissimo Il sogno e il mondo infero. Un libro, quest'ultimo, lanciato a spada tratta contro i suoi due maestri, Freud e Jung, definiti «imperatori dell'anima» nel loro impulso alla razionalizzazione del mistero dell'inconscio.
E tuttavia per Hillman la grandiosità di Sigmund Freud non si discute, come ci spiega in quest'intervista. Ciò che conta, premette, è «distinguere tra le conquiste più autentiche e incisive di Freud e l'insieme di dottrine o dogmi derivati dal suo pensiero, che per me non hanno alcun interesse. Hanno invece tuttora un grande valore certi basilari svelamenti di Freud. Non c'è niente di più importante, per il percorso della psicologia moderna, dell'idea freudiana di inconscio. Freud ha saputo dire all'uomo occidentale: in te c'è molto più dell'ego, e in questo modo gli ha segnalato il dubbio e l'umiltà. In una società egocentrica e sfrenatamente orientata verso il profitto come la nostra, Freud ha dimostrato che nella mente umana, nelle sue intenzioni e motivazioni, c'è tanto di più dell'io. Nelle certezze granitiche dell'ego, e senza le salvifiche incrinature del dubbio, si arriva a una sorta di dimensione paranoica e malata, la stessa a cui oggi tende la nostra società. La stessa, per esempio, che sembra vivere perennemente il presidente Bush».
Lei ha lavorato molto sulla centralità del mito di Edipo. Lo considera ancora imprescindibile?
«Sì, ma non nel modo in cui lo intendono i freudiani. Secondo me non vale tanto come mito che riguarda i rapporti famigliari, anche se è comprensibile che quest'aspetto fosse considerato centrale nella Vienna del diciannovesimo secolo. La rilevanza del mito, a mio parere, è legata alla cecità e all'inconsapevolezza. Non m'interessa insomma l'interpretazione dei discepoli di Freud e tutto il sistema che hanno costruito attorno all'Edipo, ma considero fondamentale la scoperta, da parte di Freud, degli influssi del mito sulla psiche umana. Secondo me l'Edipo è importante in quanto parla della cecità del re e dell'effetto di questa malattia su tutta la società, che s'ammala come il suo sovrano.
Inoltre è proprio la cecità il requisito del metodo edipico della psicologia del profondo, in quanto rappresenta il punto d'avvio del viaggio alla ricerca di sé. Uscire dal buio dello sguardo, cercare di scoprire chi siamo, è il primo atto di sconfitta dell'inconsapevolezza: l'analisi mira ad aprire gli occhi del paziente, in modo che egli scruti con chiarezza la propria vita, come un campo di proiezioni inconsce. La psicologia ci mostra i miti in vesti moderne, mentre i miti mostrano la nostra psicologia in vesti antiche. Il primo a riconoscere questa verità fondante per la moderna psicologia del profondo fu Sigmund Freud».
E Jung?
«Fu il primo a comprendere le implicazioni racchiuse nel riconoscimento da parte di Freud del rapporto tra mito e psiche, fra mondo antico e psicologia moderna. Per questo le mie fonti sono loro, Freud e Jung, entrambi con la stessa importanza. Ma è necessario leggere Freud con animo pacato e libero da pregiudizi, senza mediarne la lettura con le dogmatiche sovrapposizioni dei freudiani».
Quali considera le interpretazioni più devianti o perverse del pensiero di Freud?
«Non voglio rispondere a questa domanda. D'altra parte ciò che conta non è la dottrina e tutti, in pratica, l'hanno già attaccata. Non è piaciuta alle femministe né alla Chiesa né agli studiosi di biogenetica. Ed è stata ovviamente detestata dai farmacologi. Molto più della dottrina e delle sue varie derivazioni, vale il potere d'estensione della mente che Freud ha saputo indicarci. Egli ne ha ampliato i confini fino a includere l'ignoto, ponendo così limiti umilianti alla dimensione conscia. Ci ha insegnato che la vita va vissuta nel dubbio e nell'apertura dell'immaginazione. Un'altra sua conquista cruciale è stata la parola».
In che senso?
«Proprio nel senso di cura del parlare. I problemi della psiche, ci ha dimostrato Freud, possono essere affrontati parlando. Non con la farmacologia o con trattamenti violenti e invasivi oppure con la chirurgia, bensì con la purezza della parola, che grazie a Freud diventa strumento di soccorso e guarigione. E stato lui a inventare il "parlare terapeutico". Tutti hanno storie da raccontare: la nostra intera vita è riflessa in una storia. Narrarla è già un passo verso il superamento del malessere. È questo il motivo per cui Freud non è mai stato apprezzato dall'industria farmaceutica, dalla neurologia e da tutte le scienze che trattano l'essere umano come meccanismo o forma biologica, e non come forma psichica. Freud era uno psicologo, non un biotecnico o un biogenetico. Perciò non è mai piaciuto agli scienziati».
E a lei, professor Hillman, cosa non piace di Freud?
«La riduzione dell'uomo alla sua infanzia. L'idea che le esperienze iniziali determinino lo sviluppo della vita successiva. Tutti i miei libri parlano della vita successiva e non di quella antecedente per due motivi. Primo: sono convinto che il ruolo della fase iniziale della vita sia stato sopravvalutato. Secondo: sulla nostra infanzia non si può più intervenire. Il passato resta tale».
Più volte, nei suoi saggi, lei si è occupato di uno dei testi chiave di Freud: "L´interpretazione dei sogni".
«Lo considero un libro di valore immenso. Oggi, nel mondo, molti terapisti sembrano disconoscere l'importanza dell'attività onirica. Non gli junghiani, ma la maggior parte degli altri ha preso disastrosamente le distanze dal mondo dei sogni. Se si guardano i testi odierni delle facoltà universitarie di psicologia non si trova quasi più niente in proposito. Invece sarebbe decisivo, per il nostro futuro, tornare alla lettura di Freud, cioè di quelle che sono state le nostre prime fonti, e aprire di nuovo le porte alla ricchezza della dimensione onirica e immaginativa».

Repubblica 5.5.06
Le ramificazioni della psicoanalisi

Il maestro e i suoi eredi
Adler e Jung. Era normale che si allontanassero da Freud. La separazione fu inevitabile
di Elisabeth Roudinesco

Fondando l'Associazione Psicanalitica Internazionale, nel 1910, Sigmund Freud crea un movimento, al cui centro, aldilà della clinica, sta l'idea dell'emancipazione umana. Tuttavia, un movimento che ha al contempo un´aspirazione mondiale e una dimensione corporativa, ad esempio per quanto riguarda la formazione degli analisti, va necessariamente incontro a divisioni e scissioni. E´ ciò che accade alla psicanalisi fin dalle sue origini, dato che Alfred Adler e Carl Gustav Jung abbandonano l'associazione nel 1912 e nel 1913. In entrambi i casi, però, non si trattò di vere e proprie scissioni, giacché sia l'uno che l'altro non erano mai stati veramente freudiani. Era quindi normale che si allontanassero da Freud.
Adler aveva fatto parte della prima società psicanalitica di Vienna, ma era piuttosto legato alla psicologia dell'individuo e non condivideva le teorie sessuali di Freud né le sue posizioni sull'inconscio. Jung era stato molto importante per lo sviluppo della psicanalisi, perché per primo aveva individuato la possibilità d'utilizzare il metodo psicanalitico per la cura delle psicosi e della follia. Le differenze con Freud erano però molto significative. Aldilà delle loro diverse concezioni del "subconscio" e dell'"inconscio", Jung era spiritualista, affascinato dalle religioni orientali e dall'esoterismo, mentre Freud era ateo, darwinista e impregnato di cultura giudeocristiana. La loro separazione fu quindi inevitabile.
In seguito, il movimento psicanalitico ha conosciuto diverse battaglie interne. Sono nate scuole che si sono contrapposte su questioni teoriche e cliniche. Una delle principali correnti che rimise in discussione la teoria freudiana, ma sempre restando all'interno dell'Associazione psicanalitica internazionale, fu quella di Melanie Klein. La psicanalista inglese inventò infatti la psicanalisi dell'infanzia, a cui Freud non credeva, e mise l'accento sulle relazione con la madre, che invece il padre della psicanalisi aveva poco indagato.
Freud fu anche in disaccordo con l'orientamento dell'Associazione Psicanalitica Americana, dominata da Abahram Brill, che voleva riservare la psicanalisi esclusivamente ai medici. Freud lo considerava un atteggiamento troppo riduttivo, ma non riuscì ad imporre il suo punto di vista. L'associazione statunitense era diventata molto potente, grazie all'afflusso degli psicanalisti tedeschi e austriaci emigrati negli Stati Uniti per sfuggire al nazismo. La psicanalisi anglosassone, meno centrata sull'idea della pulsione di morte, più pragmatica e igienista era meno sovversiva di quella pensata da Freud, il quale concepiva l'esperienza dell'analisi come un percorso attraverso di sé, un confronto con la morte e la tragedia. Per il fondatore della psicanalisi, stare meglio non era la finalità essenziale, era solo una delle conseguenze di un lavoro su di sé ben più complesso. Per gli psicanalisti anglosassoni, invece, il benessere diventa lo scopo centrale della cura.
Durante il nazismo si verificò l'episodio più riprovevole di tutta la storia della psicanalisi. Ernest Jones, che pure non era nazista, accettò infatti di compromettere la psicanalisi con il nazismo, in nome della neutralità della disciplina. Il peggio fu che Freud non lo disapprovò, lasciandolo fare. Jones pensava in quel modo di "salvare" la psicanalisi, ma quella collaborazione fu un errore gravissimo, che oltretutto nel dopoguerra fu a lungo occultato dalla storia ufficiale della psicanalisi.
A bilanciare l'influenza della scuola anglosassone, negli anni Cinquanta intervenne il notevole sviluppo della scuola francese, dominata dal pensiero di Jacques Lacan, autore di una vera e propria rivoluzione nell'ambito del freudismo. Il famoso psicanalista francese, che è l'ultimo grande maestro della disciplina, invocando un ritorno alle origini del pensiero di Freud, attaccò il conformismo della psicanalisi ufficiale, che però lo costrinse ad abbandonare l'Associazione. Il risultato fu una vera scissione. Lacan, per il quale l'inconscio non è più solamente biologico ma una funzione del linguaggio, sottolineò la dimensione filosofica dell'opera di Freud, e l'idea della psicanalisi come avventura intellettuale. Sul piano pratico, introdusse la libera durata delle sedute e della cura, che invece in precedenza erano strettamente codificate. Insomma, Lacan liberalizza la psicanalisi, aprendo ai non medici e trasmettendo il gusto dell'avventura freudiana a tutta una generazione di psicanalisti. Oggi in Francia il movimento freudiano è perlopiù lacaniano, sebbene al suo interno vi siano molte divisioni.
Nel dopoguerra, la terza generazione psicanalitica, quella che non ha conosciuto direttamente Freud, ma che ha saputo rinnovare la psicanalisi mostra che le nuove patologie delle società democratiche e consumistiche, sono più legate al narcisismo che ai conflitti sessuali. Nella società contemporanea, infatti, non ci sono più le stesse frustrazioni sessuali presenti nella Vienna di fine Ottocento, quindi anche le patologie sono diverse. E spesso si tratta di patologie border line, non riconducibili né alla nevrosi né alla psicosi. Una dimensione che la psicanalisi ha saputo integrare nella sua riflessione.
Nonostante i conflitti interni, la psicanalisi ha dunque saputo dimostrare la sua vitalità e la sua capacità di rinnovarsi. Il che in fondo non dovrebbe stupirci, visto che la teoria freudiana considera il soggetto responsabile di se stesso e capace di modificarsi attraverso la presa di coscienza. In futuro si diffonderanno probabilmente delle forme ibride d'analisi, delle psicoterapie d'ispirazione analitica, ma anche in questo caso gli analisti dovranno continuare a confrontarsi con il pensiero di Freud e le sue intuizioni geniali.
(Testo raccolto da Fabio Gambaro)

giovedì 4 maggio 2006

Il manifesto 4.5.06
Dalla lezione di Freud un ideale condiviso
di Prancesca Borrelli


A centocinquant'anni dalla nascita di Freud, ciò che questo inserto propone non è la pretesa di un bilancio, né un contributo alla retorica delle celebrazioni, bensì il piacere di intrattenerci con il suo pensiero. Del resto, che lo si sappia o meno, lo facciamo un po' tutti i giorni: la psicoanalisi nasce infatti come una filosofia della vita quotidiana, per questo è arrivata a permeare così in profondità le nostre consuetudini lessicali mentre rivoluzionava per sempre il senso comune. L'abitudine a interpretare, così come Freud la intendeva, ovvero il riferirsi a una semantica sganciata dalla logica, non l'ha teorizzata lui bensì Aristotele; ma è lui che . l'ha applicata ai nostri discorsi quotidiani e ai nostri sogni, abituandoci a diffidare di ogni pretesa di coerenza, di ogni velleità di afferrare il reale nelle forme in cui si manifesta Non a caso Paul Ricoeur ha letto in Freud un «maestro del sospetto», accanto a Mane e insieme a Nietzsche. Nessuno dei tre ha propriamente scoperto qualcosa, eppure la forza sovversiva delle loro teorie è superiore alla portata di qualsiasi invenzione. Grande protagonista della caduta del cogito cartesiano, Nietzsche aveva già immaginato la psiche come un sistema di pulsioni, e Freud si diceva niente altro che un suo commentatore, riconoscendogli un «grado di introspezione ... mai raggiunto da nessuno». Entrambi non potevano considerarsi se non tardivi epigoni dell'imperativo delfico «conosci te stesso». Da qui a trame un metodo terapeutico applicabile al«intero genere umano» - perché questo era l’orizzonte dei «pazienti» potenziali cui Freud esplicitamente si riferiva - il passo era abissale! Come pure, non si deve a Marx la scoperta della lotta di classe, perché nessuna società è stata immune da conflitti ma furono le sue teorizzazioni a aprire, se non altro, la prospettiva di un «libero sviluppo di ciascuno» come «condizione per il libero sviluppo di tutti». In molti si sono provati a restringere l'orizzonte di teorie che, in realtà, spalancavano porte mai più richiuse: chi contestando a Mane il fatto che, alla fin fine, tutto nel suo pensiero si riduce alla spinta economica, chi imputando a Freud la derivazione dell'indagine psicoanalitica dal suo pansessuaiismo. E c'è anche chi ritiene - come George Steiner che sapere di più su noi stessi non sia affatto un mirabile risultato, salvo dare per scontato che «Freud ha cambiato l'intera nostra civiltà». Una civiltà che non gli sembrava meritevole di durare a lungo, visto l'alto prezzo di infelicità che comporta, minacciati come siamo dalla nostra costitutiva fragilità: come nessun altro animale, infatti, l'uomo è «preda della propria infanzia». Nel tempo, persino i pilastri della teoria freudiana sono stati messi in discussione: la centralità del complesso edipico, il ruolo delle pulsioni, il primato della sessualità nelle motivazioni che ci spingono a agire; e anche nella pratica terapeutica sono state contestate la neutralità dell'analista, la regressione alle nevrosi infantili, la frustrazione dei desideri del paziente, che riprende la convinzione freudiana secondo cui se la soddisfazione dei nostri bisogni non conoscesse limiti non saremmo indotti a congetturare su ciò che ci manca, dunque il pensiero non produrrebbe conoscenza. I dissensi si erano già affollati intorno a Freud quando era ancora nel pieno della sua prepotenza intellettuale» e non si sono mai sopiti; del resto, più volte egli affermò che l'opposizione incontrata dalle sue idee lo confermava nella loro importanza. Anche per questo abbiamo restituito, nelle pagine che seguono, almeno due altre prospettive: quella junghiana, perché lo psichiatra svizzero fu protagonista della più drammatica frattura sofferta dal movimento psicoanalitico; e quella lacaniana, per rendere conto del suo revisore più geniale, • l'epigono mosso da un ideale di ritorno al maestro le cui teorie assorbivano le acquisizioni della linguistica strutturale. «Si salverà il senso del mio pensiero?» si domandava Freud? Molto più di questo è accaduto: dalla sua lezione è nato un ideale universalmente condiviso, grazie al quale sappiamo che la ricerca del significato porta più lontano ancora della verità.

Il manifesto 4.5.06
La scena analitica a rischio di incendio
Fin dall'inizio, per spiegare il funzionamento della terapia che aveva inventato,, Freud la chiamò «catartica». L'ondata emozionale fantasmatica suscitata sulla scena analitica avrebbe ripercorso il cammino della tragedia antica, che secondo Aristotele doveva provocare una «purificazione degli affetti» suscitando «pietà e terrore»
di Alberto Luchetti

Tanto le ricorrenze gene-tliache incutevano a Sigmund Freud qualche ansia circa la possibilità di superarle indenne, tanto non aveva dubbi circa il valore e il futuro della psicoanalisi, la disciplina che lasciava in eredità all'homo sapiens sapiens, benché fosse molto preoccupato circa la possibilità che venisse malcompresa, deformata o neutralizzata. Già nel 1914, formulava un giudizio che ancora oggi possiamo fare nostro: «Almeno una dozzina di volte nel corso di questi anni mi è capitato di leggere [...] che ormai la psicoanalisi è morta, superata e liquidata una volta per tutte. Avremmo dovuto dare una risposta simile al telegramma che Mark Twain inviò al giornale che aveva erroneamente annunciato la sua morte: Notizia del mio decesso fortemente esagerata».

La scoperta più clamorosa
Non c'è dubbio che il contributo di Freud più rivoluzionario, al tempo stesso pratico e teorico, sia l'invenzione di uno strumento di cura che combina saldamente il metodo delle libere associazioni di pensiero e la situazione analitica. A più riprese, egli stesso ribadì che la propria scoperta principale stava, infatti, nell'intreccio assolutamente innovatore tra la definizione di un nuovo metodo di indagine rivolto a processi psichici altrimenti inaccessibili, l'allestimento di una inedita situazione terapeutica, e le conoscenze che cosi si sarebbero potute ottenere dando forma a una nuova disciplina scientifica. E fra queste conoscenze, la più clamorosa riguarda quell'inconscio che, nei secoli intuito e sondato da poeti, scrittori e filosofi, prima di Freud nessuno aveva riconosciuto nella sua dignità psichica, preferendo relegarlo nella materia, o nel regno delle sostanze ineffabili. All’indagine psicoanalitica, invece, quello stesso inconscio rivelava di possedere una realtà distinta da quella materiale e al tempo stesso più solida e resistente aei contenuti e delle dinamiche psicologiche: una realtà costituita dal nucleo duro dei desideri che muovono i fenomeni psichici.
L'inconscio che emergeva dalla rivoluzione del pensiero freudiano mostrava, inoltre, un funzionamento non riconducibile alla coscienza e si presentava come il correlato di una sessualità pulsionale infantile: essa, diversamente da quella istintuale che giunge ad affiancarla nella pubertà, scaturisce dalle relazioni e dunque dalla comunicazione con gli altri esseri umani. Questo inconscio sessuale, per di più, non costituisce un nostro (nuovo) centro - sia pure occulto e a noi stessi inaccessibile - ma rappresenta la nostra costitutiva e irresolubile eccentricità, sedimento del nostro originario e strutturale orbitare intorno all'altro e a ciò che a lui stesso è inconscio. Quanto accade nella situazione terapeutica che Freud mise a punto potrebbe essere efficacemente descritto tramite una metafora che egli stesso propose: «Si ha un completo cambiamento di scena, come quando uno spettacolo viene interrotto per l’improvvisa irruzione di un elemento reale: ad esempio quando durante una rappresentazione teatrale si leva un grido d'allarme per un incendio». E non è un caso se Freud mutuò questa analogia proprio dal teatro: non si trattava, infatti, soltanto di una passione da cui trasse innumerevoli riferimenti, ma di una forma artistica a cui si ispirò anche quando costruì una innovativa teoria della psiche umana e quando si trovò a dovere illustrare il suo inedito «trattamento dell'anima». Fin dall'inizio, per spiegare il meccanismo della sua nuova forma di terapia si rifece all'effetto della tragedia antica, che secondo Aristotele doveva provocare una «purificazione degli affetti» suscitando «pietà e terrore»: per questo, appunto, la chiamò «catartica». Più tardi, Quando l'attività onirica gli si rivelo essenziale per indagare la psiche, reclamò per essa un'«altra scena» posta accanto al teatro della coscienza. E ancora al teatro Freud guardò modellando sul personaggio di Edipo il famoso complesso di desideri, affetti e fantasie che organizza tì nucleo inconscio della soggettività propria a ogni essere umano. Quanto alla metafora dell'incendio che scoppia durante una rappresentazione teatrale, Freud la utilizzò prima di tutto per descrivere l'irruzione imprevista e indesiderata del transfert nella cura. Si sa che questo fenomeno del transfert - mediante il quale il paziente vive nella relazione col proprio analista pensieri e affetti relativi a sue esperienze passate - venne inizialmente considerato un ostacolo all'analisi; ma quando Freud vi riconobbe un suo perno ineludibile, è ancora al teatro che si rivolse per descriverne l'utilità nel lavoro analitico. Nel transfert, infatti, il paziente «ci squaderna dinanzi con plastica evidenza, agendo per così dire teatralmente» davanti a noi, un pezzo di storia della sua vita sul quale potrebbe fornire soltanto insufficienti informazioni, e che invece così «rappresenta» agendolo anziché riferendone in parole.

Un luogo di apertura
II setting proprio dell'analisi è dunque una scena rappresentativa - dove il discorso del paziente procede per libere associazioni di pensiero - messa in tensione dall'orbitare intorno a un altro enigmatico - il terapeuta - che come lo spettatore sta lì in carne ed ossa, e soprattutto in inconscio è una scena sottoposta al rischio di venire incrinata, o perfino travolta e dissolta, dall'ondata emozionale e fantasmatica che la relazione nel qui e ora può sollevare. Ma la cura analitica si presta ad essere descritta così, solo se non la si ridice al luogo di una «messa in scena» nel presente di emozioni o relazioni che appartengono al passato: se non la si riduce, cioè, ad un mero gioco di illusione e di disillusione (a cui peraltro non è riducibile nemmeno il teatro). Se così fosse, l'analisi non varrebbe certo la pena che spesso comporta.
Al contrario, la sua specificità e la sua efficacia sono nel fatto che la situazione analitica costituisce un luogo di apertura inedito nell'esistenza e nella storia dell'umanità: essa può Qualcosa nella misura in cui riapre l'apertura originaria del neonato all'altro adulto. Da questa apertura originaria, riattivabile in analisi, nasce quell'«altra cosa» interna che è l'inconscio, corpo estraneo nella nostra stessa intimità, che ci lascia sèmpre incompiuti, decentrati, inadatti. Tuttavia, questa scoperta sovversiva, prodotta da un'invenzione altrettanto rivoluzionaria, non può che essere continuamente occultata per la sua intrinseca insopportabilità da parte dell'Io; ma altrettanto inesorabilmente riemerge nei sintomi, nei malesseri e in quella psicopatologia della vita quotidiana che altro non è se non il ritorno di quel rimosso fondamentale che è la sessualità.

La psiche in pericolo
Perciò, l'immagine della rappresentazione teatrale vanificata dalle fiamme, oltre a illustrare il dispositivo psicoanalitico, vale in generale anche per rendere conto dei limiti che incontrano i processi di significazione e di storicizzazione tramite i quali la soggettività si articola e si costituisce: giacché gli affetti e le pulsioni che alimentano questi processi al tempo stesso li mettono in pericolo, mettendo a repentaglio anche l'esistenza della psiche che ne è insieme la sede e il prodotto, La metafora dell'incendio a teatro può cosi servire a giustificare anche l'effetto respingente, nelle svariate sue forme, che l'invenzione e la scoperta di Freud hanno avuto in primo luogo su lui stesso, e che continuano a produrre su di noi: la psicoanalisi ci rivela infatti come la nostra soggettività, il nostro poter dire «io» e il nostro essere coscienti di essere coscienti (prerogativa sconosciuta alle altre specie viventi) si fondino su una radicale e insolubile traumaticità: quella traumaticità spesso insostenibile che Freud per primo ha così lucidamente e tragicamente additato all'essere umano.

Il manifesto 4.5.06
Una rivoluzione lanciata ai confini della coscienza
Di Mario Lavagetto

Senza Freud sarebbe impossibile pensare il 900. Da quando la sua opera ci ha liberati dalla introspezione classica, abbiamo appreso come quel che conta non siano le parole, ma ciò che le parole dicono alle spalle di chi le pronuncia. Una nuova semiotica della psiche sostituisce a qualcosa di labile e indefinito l'equivalente di una realtà materiale: è qui che va cercato il senso
della frattura più significativa che ha segnato il pensiero dell'occidente

Sono nato, ha scritto Freud nella più ampia delle sue testimonianze autobiografiche, il 6 maggio 1856 a Freiberg (Moravia), piccola città dell'attuale Cecoslovacchia». Sono passati centocinquant'anni da quella data e, come sempre accade in simili ricorrenze, si moltiplicano i tributi, i convegni, le riflessioni, le commemorazioni, i numeri unici. Molti sono i modi per ricordare e commemorare quando sembra giunto il tempo dei bilanci. Alcuni singolari, come quello della casa editrice Bollati Boringhieri, che propone una imponente, per quanto parziale, rilettura del corpus freudiano in dieci volumi, sotto la direzione di Michele Ranchetti, con l'esplicito intento di «contestualizzare» gli scritti del fondatore della psicoanalisi: progetto, a giudicare dai primi due volumi, interessante sulla carta, ma affidato a traduzioni nuove (e . dove nuove sono e non soltanto rielaborate . discutibili e discusse aspramente) e fondato su un altrettanto discutibile lavoro di contestualizzazione, spesso poco perspicuo e avarissimo di informazioni bibliografiche, quando non reticente nel riconoscere il lavoro di chi era venuto prima e aveva dato, presso lo stesso editore, un contributo fondamentale alla conoscenza del pensiero freudiano in Italia.
Senz'altro meno sorprendenti e più prevedibili sono stati i tentativi, reiterati da più parti, di chiedersi quanto dell'eredità freudiana sia ancora attuale e utilizzabile. Ed è proprio di qui che vorrei partire, per sbarazzarmi subito di una domanda che a me appare legittima solo se, a porsela, è un analista che si trova quotidianamente alle prese con la propria pratica terapeutica. Per un «laico» il problema è diverso perché Freud, come diceva Auden, può certo cadere in errore o talvolta nell'assurdo, ma «per noi ora non è più una persona/ è una corrente di pensiero». Come a dire che andrà ripensato in blocco e collocato nel suo tempo e interrogato, non diversamente da come siamo soliti interrogare i classici del pensiero occidentale. Quale che sia, in ogni caso, il nostro atteggiamento intellettuale e il metro che vorremo adottare nei confronti dell'opera di Freud, c'è tuttavia un punto su cui mi sembra difficile non convenire: senza quell'opera è impossibile pensare il Novecento, un secolo che . «nato in posizione podalica» come dirà Musil . sembra almeno in parte dovere la propria «anomalia» al libro, L'interpretazione dei sogni, che precedette di pochissimo il suo primo capodanno.

Alla svolta del secolo
Che si consideri la psicoanalisi una scoperta decisiva o, viceversa, una tardiva sorella dell'astrologia, condannata per sempre agli inferni della pseudoscienza, non si potrà comunque sfuggire al riconoscimento della sua incontrovertibile portata storica: tanto, così capillarmente e diffusamente, è penetrata nel corpo di un'epoca, determinandone (magari per contrasto) la fisionomia, la storia, le scelte, i modelli e i paradigmi ermeneutici. A tal punto che anche i suoi più accaniti detrattori, come Nabokov, possono concedersi il piacere di scrivere che «uno dei massimi esempi di aberrazione ciarlatanesca e satanica, imposta a un pubblico di bocca buona, è l'interpretazione freudiana dei sogni», e tuttavia, nonostante lo scongiuro e l'anatema, non possono far sì che il mondo, su cui si posa il loro sguardo e da cui nascono i loro libri, non sia profondamente impregnato, al di là di ogni immediata consapevolezza, fin nell'intimo delle sue fibre, da quella interpretazione; non sia abitato da personaggi di una nuova specie antropologica che non sono più quelli del diciannovesimo secolo e che, con Freud, hanno contratto debiti più o meno consapevoli. Né Humbert, né Pnin, né Smurov, né Luzin sarebbero nati così come sono, senza quella interpretazione.
Dopo Copernico e Darwin, era solito ripetere Freud, che avevano sfrattato l'uomo dal centro dell'universo prima, e dell'evoluzione naturale poi, era arrivato, con la psicoanalisi, un terzo, più drammatico e improrogabile sfratto che aveva tolto al soggetto l'illusione di essere, con la luce della sua coscienza, padrone in casa propria. A registrare quello sfratto, d'altronde, aveva provveduto, come ha suggerito Lacan, trent'anni prima la poesia, quando uno di coloro, «che magari non sanno quello che dicono, ma lo dicono prima degli altri», aveva proclamato che «Io è un altro». Da allora ogni possibile conoscenza di sé era apparsa come una conquista che sarebbe stata comunque parziale, lacunosa, viziata, ottenuta a tentoni tra sfingi misteriose e intrattabili.

Figure obbligate di un dramma
Quell'individuo, quel soggetto veniva colto in uno stadio preciso della sua evoluzione e con un profilo socioantropologico determinato. Freud, in più di un'occasione, dichiarò che la terapia non funzionava né con i principi né con i proletari. E, in effetti, la psicoanalisi si fondava su presupposti teorici che erano strettamente connessi a una situazione concreta e storicamente determinata, quella del singolo, vissuto, cresciuto e operante all'interno della famiglia borghese, di quella «famiglia-canguro», di quella «famiglia-cellula » che, ha detto Foucault, aveva sostituito la «famiglia-relazionale» e che era il luogo di una sorta di «incesto epistemofilico»: il padre e la madre figure obbligate di un dramma dove i ruoli erano fissati con precisione e i figli oggetto di ansiose preoccupazioni, spiati, seguiti e misurati secondo i principi di un codice etico implicito ed esoso. «In effetti, ha detto ancora Lacan, sono i rapporti della psicologia dell'uomo moderno con la famiglia coniugale che si propongono allo studio dello psicoanalista: quell'uomo è il solo oggetto che sia veramente sottoposto alla sua esperienza».

Sonni per sempre turbati
Impiantando Edipo su quella scena domestica e familiare, Freud determinava una devastante deflagrazione dei codici. Se l'eroe greco, diceva pressappoco, continua a commuoverci, è perché «ci costringe a vedere» qualcosa che è in noi e attorno a noi, qualcosa che avremmo voluto cancellare o allontanare, che era stato neutralizzato da un minuzioso e accanito «progredire secolare della rimozione». Freud, a sua volta, ci costringe implacabilmente a vedere oltre, a frantumare il sistema di interdetti che sembrava regolare la vita di quella cellula: la psicoanalisi, sosteneva, è venuta a turbare i sonni del mondo, ad articolare l'indicibile, a mandare in frantumi le barriere che sembravano isolare la patologia in territori segregati e rassicuranti. Cercare i motivi di quel «turbamento», come è stato fatto in diverse circostanze, nella attenzione alla sessualità infantile, espone a una serie di obiezioni: basterebbe, come ha fatto qualcuno, richiamarsi alla Psychopathia sexualis di Krafft- Ebing, che costituisce un impressionante catalogo, diceva Bataille, di ogni possibile infrazione «alla legge, alle convenzioni e alla tranquillità», per accorgersi che lo scandalo della psicoanalisi va cercato altrove. Va cercato, suggeriva Freud, nel fatto che, a differenza della psichiatria classica, ferma a inventariare e a descrivere degli stati patologici . egli si era sforzato di fornire una spiegazione, di stabilire dei nessi e di organizzare delle storie destinate ad assomigliare in modo imbarazzante, se ne era reso conto fin dagli Studi sull'isteria, a delle «novelle», a qualcosa che appariva necessariamente privo della rigorosa «impronta della scientificità» e segnato dalla «macchia dell'errore». Questo non impedisce tuttavia a Freud di riconoscere la funzionalità ermeneutica dello strumento di cui è «costretto» a servirsi dalla natura stessa del suo oggetto che, in prima istanza, è, sua volta, narrativo: è la parola, il discorso, il racconto che il paziente fa di se stesso. E quando, nella prima serie delle sue lezioni introduttive alla psicoanalisi, Freud mette gli studenti di fronte al problema rappresentato dalle inevitabili deformazioni che il sogno (in quanto oggetto di studio) subisce nel momento stesso in cui viene trasformato e verbalizzato, lo risolve drasticamente dando un'ulteriore prova del suo geniale empirismo: «basta stabilire che come sogno debba valere precisamente ciò che il sognatore racconta, a prescindere da tutto ciò che egli può avere dimenticato o modificato nel ricordo». Ma se questo è l'unico dato «di un'esperienza possibile» e «per una conoscenza possibile», non è allora illegittimo riconoscere in esso un «oggetto materiale» in modo del tutto omologo a come lo sono, suggeriranno Emilio Garroni e Armando Ferrari, il pilone di un ponte o un disturbo epatico per l'ingegnere e per il medico.
Chi si trova a prendere in mano uno dei trattati di psicologia che vedono la luce nella seconda metà dell'Ottocento ha molto spesso la sensazione di aggirarsi tra le ombre di una specie di teatro maeterlinckiano, dove i personaggi di una singolare commedia dell'arte (la gelosia, l'angoscia, il dolore, l'amore, il desiderio) si muovono in un'atmosfera rarefatta, dando vita a un'algebra dei sentimenti che trascende i singoli individui.

Qualcosa si è mosso
Il mutamento radicale impresso da Freud, e che fu colto con grande lucidità dai suoi primi lettori, esposti (più di quanto non accada a noi) all'urto di quella rivoluzione copernicana, sta proprio qui. «Proust e Freud, scriveva nel 1925 Jacques Rivière, redigendo il testo delle lezioni che avrebbe tenuto al Vieux Colombier, inaugurano un nuovo modo di interrogare la coscienza. Rompono con le indicazioni del senso intimo; non vogliono più restargli in parallelo; aspettano, spiano, invece dei sentimenti, i loro effetti; non vogliono capirli che attraverso i loro segni. L'uomo interiore è qui trattato per la prima volta come un corpo sulla cui composizione non possono istruire che le reazioni a cui dà luogo». Quelque chose a bougé, qualcosa si è mosso. E si tratta di un sommovimento profondo e decisivo. La psicologia ha abbandonato di colpo i suoi scenari tradizionali e si è orientata verso la concretezza. Eccoci finalmente, osserverà pochi anni più tardi Pollitzer, liberati dall'introspezione classica. Non contano più le parole, ma quello che le parole dicono alle spalle di chi le pronuncia; la traccia non è più fornita dai discorsi o dalle confessioni, ma da una folla di piccoli indizi. Viene così inaugurata una semeiotica della psiche che sostituisce a qualcosa di labile e indefinito l'equivalente, lo ripeto, di una realtà materiale. È qui, ne sono convinto, che va cercato ancora il senso e la portata della frattura indotta nella cultura occidentale da chi, al tempo delle sue grandi scoperte diceva di se stesso: «In questo momento io non sono affatto uno scienziato né un osservatore né uno sperimentatore né un pensatore. Io non sono niente altro, per temperamento, che un conquistador, un avventuriero se vuoi tradurre cosí, con tutta la curiosità, l'ardimento e la tenacia caratteristiche di un uomo di tale specie».

Il manifesto 4.5.06
Il verminaio della vita allo sguardo di Jung
Di Paulo Barone

Cosa è accaduto in cento anni di psicoanalisi? Se è vero che ai suoi esordi aveva faticato a penetrare lo spirito del tempo, quel che ora patisce è, semmai, un eccesso di ricezione

Esiste davvero un' junghiana di Freud degna di questo nome, che non sia un semplice inserto sporadico o uno sguardo estraneo, qualcosa, per intenderci, non assimilabile né alla visione «panoramica», fredda, distaccata e apparentemente esaustiva, e nemmeno al ritratto «curioso», promiscuo, sempre diviso tra la demolizione senza appello e la celebrazione sconsiderata del proprio oggetto? C'è in Jung qualcosa capace di sollecitare, in altri termini, certi anelli nervosi della partitura psicoanalitica e di entrarci in risonanza così da restituire, sia pure in una brevissima sincope, una versione più affilata delle questioni che ci riguardano?

Cosa resta del lascito freudiano
Per quanto suoni paradossale, un'immagine del genere pare entrare in gioco soltanto oggi, allorquando cioè il movimento psicoanalitico può ormai rivendicare una sua ben riconoscibile storia, una diffusione delle proprie parole d'ordine in molti campi disciplinari e addirittura un loro travaso nel gergo comune: oggi che è ormai del tutto naturale disquisire attorno a un eventuale lascito freudiano; e dunque intorno ai meriti, alle lacune e alle manovre datate della psicoanalisi, ma impossibile contestarne il cammino già percorso (anche per coloro che vorrebbero metterci per sempre una pietra sopra). Cosa resta di Freud? L'immagine junghiana nasce precisamente da qui. Per poterla valutare occorre risalire al suo antefatto. Al tempo della «divergenza» da Freud, lo sguardo di Jung si caratterizza per il fatto di essere uno sguardo teorico «ritratto», in fuga. La psicoanalisi gli appare come una procedura di stampo razionalistico, sbilanciata univocamente a favore della coscienza, cui viene accordato un potere abnorme e incontrastato, del tutto in linea con la cultura moderna, che del predominio della coscienza (e della ragione) ha fatto il proprio tragico mito. Non si tratta di un'adesione inerte allo spirito del tempo, poiché la psicoanalisi vi partecipa producendo una cascata prodigiosa di elementi conoscitivi riguardo alla genesi e al funzionamento dei processi psichici. Ciononostante, dalla distanza in cui si pone Jung, tutto l'insieme delle prerogative dell'inconscio, degli stadi di sviluppo, delle fasi evolutive, tutto quell'andirivieni tra principio di piacere e principio di realtà, processo primario e secondario, prima e seconda topica, sembra un punto minuscolo, un fremito leggero. Per quanto ripartita in diverse istanze, sequenziata storicamente e articolata attraverso la convivenza di due «logiche», e dunque bench é in pieno movimento, la materia concettuale freudiana riflette una superficie che si restringe sino a diventare appena percepibile. È il destino delle concezioni programmaticamente rivolte a generare «processi indirizzati», unilaterali: alla fine l'esperienza si complica, si frantuma, si isola e si uniforma. L'esempio dell'Ulisse di Joyce . autore volentieri equiparato a Freud è emblematico a riguardo. Jung vi riscontra un modo di procedere tipicamente «vermicolare»: completa assenza di «giudizi», atrofia del «sentimento» e, parallelamente, un'attività mentale limitata alla mera «percezione sensoriale ». In base ad essa ogni cosa viene triturata e masticata, colta per quel tanto che un singolo fotogramma consente e inanellata alle altre nel loro nudo e misero «esser-così». Un groviglio di «tenie» senza né capo né coda. Agli occhi di Jung, insomma, il mondo «moderno» e «psicoanalizzato» appare proprio in virtù della sapiente, efficace e sempre più minuziosa indagine cui viene sottoposto . come un mondo angusto e concentrato, limitato a una presenza via via fuggevole e momentanea, trapiantato in un presente di breve respiro, trasformato in un «verminaio » di esperienze evanescenti. Un simile scenario veniva osservato da Jung da molto distante. Addirittura dalla punta apicale di un «presente senza tempo» che la sua «psicologia analitica» doveva contrapporre al presente esasperato della coscienza moderna per ridarle spessore e profondità, ritmo e rotondità. Un simile presente senza tempo non era un semplice passato più remoto ma quella soglia illocalizzabile e indecidibile che articola simbolicamente l'intera serie delle suddivisioni entro cui ci muoviamo: laddove, per esempio, coscienza e inconscio, natura e cultura, intelletto e sensibilità immediatamente si distinguono e si contattano, si separano e si sovrappongono. Una soglia peraltro tipica delle grandezze psicologiche collettive, tagliate (apparentemente) fuori dal verminaio della coscienza moderna. (La distanza tra i due «presenti » era talmente grande che non a caso Jung, per toccare da vicino i fenomeni psichici, per localizzare la psicologia analitica e non lasciarla marcire nel vuoto siderale, pensava bene di indossare il guanto freudiano). Ebbene, cosa è accaduto nei cento anni di storia della psicoanalisi? Se di qualcosa essa patisce non è più, come agli esordi, di un deficit di penetrazione, ma di un eccesso di ricezione. Le sue osservazioni, le sue indagini, le sue tecniche di manovra sono diventate, nel frattempo, così raffinate e sofisticate da frazionare in innumerevoli rivoli e portare allo scoperto ogni minimo gesto, ogni più piccola fantasia. Si tratta davvero di un dispositivo che ha funzionato a dovere. E tuttavia, proprio mettendo a setaccio, raggiungendo e condizionando le propaggini più estreme delle nostre condotte, quel dispositivo non ha finito inevitabilmente col rimanere esso stesso frazionato e disperso? Se è vero che sono i passaggi, gli andirivieni tra principio di piacere e principio di realtà, processo primario e secondario, sogno e ragione a definire quello che siamo, allora per produrre
le differenze sottili che oggi ci caratterizzano e di cui abbiamo bisogno per farci riconoscere, questi passaggi non possono non avvenire che a velocità supersonica. Constatiamo così che l'intera macchina psicoanalitica funziona solo sotto sforzo, al massimo della sua intensità. Con ciò però l'andirivieni è piuttosto un fremito istantaneo, dato che le sponde di inconscio e coscienza, di principio di piacere e principio di realtà, sono pressoché simultanee e tutti si canta all'unisono mentre gli elementi differenziali risultano, come di fatto ormai sono, effimeri, impalpabili. Sparati di colpo in un campo psichico che appare sovvertito, appiattito, concentrato e uniformato. Dove a sopravvivere possono essere esclusivamente gli scatti fotografici di un pensiero «sensoriale», che non ha più interlocutori di natura «individuale», ma entità anonime, sin dal principio «collettive».

A distanza dal corpus freudiano
Non ci vuole poi molto per notare che questo stato di cose sembra realizzare precisamente quel «verminaio» dell'«immediato presente» intravisto da Jung, o almeno per ammettere che una simile immagine incarnerebbe con buona approssimazione la condizione attuale. In fondo, quando Foucault parla della necessità di ragionare ormai in termini di «tecnologie del sé» e quando Derrida afferma che di Freud rimangono incandescenti certi colpi di sonda locali e minori, certi tagli «inconsci» inferti alla sovranità del soggetto, al di là di tutte le sue costruzioni metapsicologiche, già cadute o destinate a cadere, non ci troviamo poi così lontani dalla visione junghiana. Ciò significa che quel che resta di Freud sarebbe allora un'immagine firmata Jung e dunque una presunta rivincita della sua impostazione? La risposta è decisamente negativa. Lo sguardo di Jung si teneva solo perché poteva contare sull'ottimo stato di forma del corpus freudiano e dunque solo in virtù della smisurata distanza del suo punto di vista. Ma il fatto che quella visione oggi sembra essersi perfettamente realizzata implica che anche la distanza di sicurezza di cui godeva è venuta meno, e con essa l'osservatorio junghiano.
I due presenti, quello «senza tempo» e quello «immediato», vivono adesso addossati l'uno all'altro. Prerogativa dell'immagine junghiana, perciò, è di scolorire e dissolversi mentre mostra e mantiene fermo questo addossamento. La sua è un'opera di puro servizio, pronta ad assolvere al proprio compito non appena ci si chiede cosa resti del «corpo» freudiano e poi sparire. Senza trattenere nulla per sé (né per l'autore che la firma) essa può forse aiutarci a comprendere come nemmeno di questo corpus rimanga, a rigore, più nulla, dal momento che, sbriciolandosi in una miriade di particelle potentissime e fosforescenti, anch'esso ha ormai abbandonato la sede di residenza e le pratiche abituali per tracimare, nella sua nuova e quasi invisibile veste, ovunque nella nostra vita. Quella che ci riguarda è infatti, palesemente, una vita psichica, lì dove il «verminaio» si toglie di dosso il giudizio di riprovazione e di nausea che il suo nome poteva ancora evocare e diviene faccenda comune a ciascuno.

Il profilo della nostra interiorità
Chi di noi potrebbe oggi fare a meno di una simile nozione? Ad essa sistematicamente ricorriamo per descrivere noi stessi, per rivendicare la nostra supposta «interiorità» e per darle voce, per trovarvi rifugio dagli insulti del mondo esterno, per iniziare un nuovo cammino di trasformazione o, semplicemente, per sentirci vivi. Tramite il concetto di vita psichica tutta una folta e innumerevole minutaglia di micro-accadimenti è stata portata allo scoperto e considerata degna della massima attenzione, creando così un vero e proprio spazio di iper-significatività dove regolare le nostre condotte. Mai più elementi trascurabili di diritto. Siamo stati messi a nudo, anche se, al contempo, abbiamo moltiplicato i tratti, e con ciò anche il peso, del nostro profilo. La vita-psichica è, perciò, quel fattore ambiguo, ambivalente, incerto e di basso profilo, per mezzo del quale veniamo quotidianamente asserviti ed espropriati mentre, sempre per suo tramite, solleviamo la testa e ci emancipiamo. L'immagine junghiana ci suggerisce che è qui che possiamo senz'altro ritrovare i fermenti attivi di Freud: tutto il suo corpo dottrinale, nessun frammento escluso, anche se in forma stravolta e irriconoscibile. Ogni sua particella, nessuna esclusa, a patto che disciolta per sempre nell'acido di pratiche generiche. Fuori dalla vita-psichica, almeno secondo l'immagine junghiana, resterebbe solo il verminaio.

Il manifesto 4.5.06
La lingua corrente plasmata sul lessico dell’inconscio
Di Gian Luigi Beccaria

Non c'è dubbio che l'incremento del tasso di terminologia scientifica entrata nell'uso corrente abbia caratterizzato il Novecento e caratterizzerà ancora di più questo secolo. Nei tempi andati la persona di media cultura conosceva poche parole scientifiche, ora invece se ne conoscono molte, o comunque se ne usano in gran numero, anche quando non se ne sa il significato preciso. La stampa quotidiana, notiziari e trasmissioni televisive, divulgano le scienze, riservano loro spazi sempre più ampi, così che anche il comune parlante sta diventando un assiduo ricettore di neologismi specialistici. Certo, la terminologia scientifica passa a investire il linguaggio comune con significati banalizzati o addirittura distorti: di solito, con significati polisemici, come succede per esempio alle parole della medicina, e in particolare a quelle della psicoanalisi. Che passano anche da una specialità all'altra, ampliando il significato originario: presa di coscienza, per esempio, che deve la sua fortuna iniziale al singolare rilancio conosciuto nel secondo dopoguerra dalla psicoanalisi, è passata dal significare, in senso proprio, la «consapevolezza di sé», la «riappropriazione dell'io», all'uso più allargato che ne fa l'ambito sociopolitico quando intende la «consapevolezza dei propri diritti», del proprio «ruolo nella società. Ora l'espressione è di uso abbastanza largo anche nel linguaggio comune, a patto di farsi ancor più ambiguamente polisemica. Ed è un fenomeno che si ripete. Psicosi, dal tedesco Psycose, termine coniato nel 1845 da Feuchtersleben, era intesa come una malattia mentale che portava a una grave alterazione della personalità, caratterizzata da allucinazioni, delirio, perdita di contatto col mondo esterno. Entrata nella lingua corrente, psicosi è venuta a significare semplicemente un fenomeno di esaltazione o eccitazione collettiva («psicosi della guerra»), e genericamente «panico», «forte paura». Così va la storia della lingua. Ogni linguaggio scientifico quando si diffonde nel parlare corrente assume di regola un'ampia gamma di articolazioni approssimate. Le parole della psicoanalisi, che avevano in Adler, Freud o Jung dei significati precisi, si sono volgarizzate come nozioni di contenuto un po. oscuro, con relazioni allentate, appiattite rispetto al significato originario. È interessante, ad esempio, osservare come nel linguaggio di tutti i giorni siano decadute le categorie tradizionali della rappresentazione sociale, quella che era portata a drammatizzare la vita psichica in poli antitetici (sano opposto a pazzo), e quella stessa drammatizzazione abbia assunto parole tratte dalla psicoanalisi. E penso, per esempio, a complesso di inferiorità e complesso di superiorità, coppia che ha allargato la propria disponibilit à descrittiva riproponendo semplicemente un'antica dicotomia, quella tra chi è in una posizione di dominio e chi è in una posizione subordinata. Con l'avvento e la divulgazione della psicoanalisi è successo, dunque, che sono sopraggiunte nel linguaggio corrente nuove semplificazioni parascientifiche, alle quali si deve la riproposta di coppie antitetiche semplificanti, come complessato-senza complessi, estroversointroverso ecc. Il che non ha portato alcun progresso introspettivo rispetto alla vecchia rappresentazione, ma ha aggiunto più possibilità di parola al comune parlante. Penso allora alla fortuna linguistica di nevrosi, isteria, ossessione, aggressività, inconscio, represso, blocco mentale, paranoia, fobia, frustrazione, inibizione e via seguitando, che hanno assunto un significato assai vago e distorto, ma anche comodo a noi che parliamo e abbiamo avuto a disposizione una gamma espressiva più estesa per rappresentazioni di sé e degli altri. Non mi sento di fatto di condannare il linguaggio giovanile quando fa uso di voci come schizo, schizoide, per dire semplicemente «nervoso», «agitato» o essere in para, essere in paranoia per «essere in uno stato di depressione, di confusione». Comunque sia, nel parlare corrente si è finito col chiamare ogni stramberia una psicosi, ogni persona strana uno psicopatico o un mitomane. Mentre l'analisi psicoanalitica si andava socializzando, è dunque successo che tutta una terminologia creata originariamente da Freud per rendere conto dell'inconscio servisse poi per tentare di sfuggirlo.

Il manifesto 4.5.06
Due passi nel desiderio sotto l’occhio di Lacan
Di Massimo Recalcati

E’ viva? È morta? Respira? Si muove? Ciclicamente questo genere di interrogativi investono l'opera di Freud rivelando, nella loro ripetizione, che è semplicemente impossibile confinarla nel museo delle cere della modernità. Proverò a individuare in modo sintetico quello che mi pare il punto più vibrante, dunque irriducibilmente vivente, dell'esperienza freudiana. In un giudizio ispirato sul padre della psicoanalisi, Jacques Lacan ha proposto di distinguere almeno due passi fondamentali di Freud. Si tratta delle sue due navigazioni intorno al continente dell'inconscio. La prima lo conduce verso il desiderio inconscio, la seconda verso la pulsione di morte: sono queste le due categorie chiave dell'impresa freudiana. Nella prima navigazione è impegnato il Freud dell'Interpretazione dei sogni: è il Freud ermeneuta celebrato da Paul Ricoeur. È il Freud che s'interessa della dimensione eminentemente simbolica dell'esistenza umana. Il corpo parlante delle isteriche, le tortuosità dei sogni, il lampo istantaneo del lapsus e del motto di spirito, il groviglio dei sintomi, le sbadataggini della vita quotidiana: tutto quello che la ragione filosofica e scientifica non si è mai degnata di considerare, diviene per Freud espressione simbolica della vita dell'inconscio. Un voler dire clandestino . il voler dire dell'inconscio . si enuncia tra le righe del discorso cosciente come un ritorno della verità esiliata dalla rimozione.

L’inconscio sottratto all’ineffabile
Questo primo Freud, il Freud ermeneuta, insiste nell'evidenziare il carattere retorico-linguistico dell'inconscio, il quale non appare affatto come il selvaggio, l'istintuale, lo schizofrenico, l'irrazionale ma come una ragione che risponde a leggi simboliche precise. In questo senso, uno dei meriti enormi di Freud consiste nel sottrarre l'esperienza dell'inconscio alla dimensione intimistica dell'ineffabile, distanziandosi, così, decisamente dalla tradizione romantica. È ciò su cui ha insistito in modo articolare il cosiddetto «ritorno a Freud» di Lacan: l'inconscio non è l'incolto, il prelinguisitico, il caos sotterraneo. L’inconscio è un'altra ragione, l'inconscio è strutturato come un linguaggio. Ciò che Freud avanza qui è qualcosa di semplicemente inaudito sino ad allora. Prendiamo ancora come riferimento L'interpretazione dei sogni: egli non si limita, ovviamente, ad affermare che i sogni hanno un senso . cosa del resto nota sin dall'antichità . ma ci mostra come questo senso sia in un rapporto fondamentale col desiderio del soggetto e, soprattutto, come il sogno risponda a un lavoro di narrazione complesso e articolato in forme grammaticali precise. Freud, cioè, scompagina l'opposizione moderna di ragione e sentimento, di razionalità e irrazionalità, spingendo piuttosto la ragione illuminista al suo limite interno, obbligandola cioè a confrontarsi con la sua radice più scabrosa. Insomma, ciò che Freud davvero inventa è l'idea di una ragione diversa dalla ragione dell'Io. Non si tratta affatto di opporre il barbarico al civile, l'irrazionale al razionale, ma di superare questa antitesi mostrando come l'uno sia nell'altro e viceversa. In fondo, è lo stesso principio che ispira anche la fondamentale lettura freudiana dell'amore e dell'odio. Quando infatti Freud introduce il concetto di ambivalenza affettiva per descrivere la possibilità che sentimenti di amore si trasformino in quelli di odio, o viceversa, non sta affatto definendo una patologia degli affetti, ma la condizione strutturale dell'affettività umana. L'odio non è in
questo senso una semplice alternativa all'amore, come l'ombra lo è della luce, ma un nucleo interno all'amore; e lo stesso vale per l'amore nei confronti dell'odio. L'inconscio di Freud è associato innanzitutto al desiderio. Non è un serbatoio di simboli, ma indica la struttura del desiderio umano come tale. Questo significa che la tesi dell'esistenza dell'inconscio non si limita ad affermare i limiti della coscienza. In fondo, prima di Freud, già Marx . e con lui ogni filosofia materialista rigorosa . ha mostrato come l'essere della coscienza ci appaia sin dalle sue origini come un essere spurio, condizionato, infettato da qualcos'altro da sé. La tesi principale del materialismo storico esige, infatti, che la coscienza venga ribaltata dalla sua supposta padronanza e rivelata nella sua posizione derivata, condizionata dai movimenti e dai processi che coinvolgono la struttura sociale ed economica.
Il passo davvero ulteriore di Freud consiste nel porre questo problema della non originarietà della coscienza e quello del suo condizionamento non solo come l'effetto della sua dipendenza dalle condizioni materiali della vita, ma anche come l'effetto di una discontinuità interna al soggetto di cui l'artefice è, appunto, il desiderio. L'inconscio di Freud è, in questo senso, una esteriorità interna che spiazza la falsa autonomia della coscienza. Per questo, nell'Interpretazione dei sogni egli mostra che il desiderio non è una proprietà del soggetto, non è un attributo della coscienza, ma è qualcosa che s'impone alla coscienza soggiogandola. Il soggetto appare a Freud come proiettato costitutivamente nel disagio, come un soggetto del disagio. Il programma della civiltà è infatti inconciliabile con il programma del desiderio. Non c'è armonia, non c'è intesa possibile tra l'uno e l'altro. Se si vuole, è questa una prospettiva fortemente dualistica che Freud non abbandonerà mai nel corso della sua opera, pur così ricca di cambiamenti interni di direzione. Le due categorie chiave dell'impresa freudiana conducono l’una verso il desiderio inconscio, l’altra verso la pulsione di morte. E comportano conseguenze etiche e politiche che trascendono, pur implicandolo, l’orizzonte della psicoanalisi.

Oltre le leggi del simbolico
Ciò che non cambierà mai è, appunto, l'idea di una discordanza fondamentale tra la realtà umana, animata dal desiderio, e le esigenze della realtà esterna, sostenute dal programma della Civiltà. Ciò che non cambierà mai è, in altri termini, l'idea che il soggetto umano, in quanto soggetto del desiderio, sia disadattato alle sue radici. Il problema del progresso civile non è per Freud come emancipare l'uomo dal suo nucleo selvatico, barbaro, animale, ma come tenere conto di questo nucleo in quanto mai del tutto integrabile nel piano della Civiltà. Questo residuo pulsionale, refrattario a ogni programma di incivilimento, troverà una forma concettuale compiuta solo intorno agli anni '20 nel concetto di pulsione di morte (Todestrieb). Siamo giunti al secondo passo di Freud, il passo che, appunto, lo conduce verso l'al di là del principio di piacere, verso una dimensione dell'esperienza umana che non risponde più alle leggi del simbolico. In realtà si tratta di un concetto rigettato dalla storia della psicoanalisi del dopo Freud (con le eccezioni straordinarie di Melanie Klein e di Jacques Lacan) perché ritenuto troppo speculativo e, soprattutto, perché in contrasto col tentativo tipicamente postfreudiano di recuperare una visione umanistica della natura umana il cui principio normativo tornava a essere quello dell'Io forte, dell'Io adattato, dell'Io desessualizzato, padrone in casa propria, capace di governare dall'alto le forze pulsionali. Questa seconda navigazione intorno al continente dell'inconscio definisce il passo più autenticamente sovversivo di Freud. La vera pietra dello scandalo non consiste tanto nell'aver decentrato l'Io rispetto alla potenza simbolica dell'inconscio come facoltà semantica di significazione, ma nell'aver mostrato che l'inconscio stesso non può essere ridotto ermeneuticamente a un «voler dire», poiché come Es, come pura pulsione di morte, esso esprime una tendenza al male, alla distruzione, all'insubordinazione radicale nei confronti di ogni vitalismo edonistico. È questa dimensione mortifera e maligna a costituire un'altra esperienza dell'inconscio . quella dell'inconscio come coazione a ripetere, come pulsione di morte . assai più inquietante di quella dell'inconscio come desiderio. Non solo il soggetto appare come scisso, privo di centro, parlato dall'inconscio (prima navigazione) ma anche come contro se stesso, animato da una volontà di godimento che lo trascina rovinosamente verso la propria distruzione (seconda navigazione).

Un interrogativo etico fondamentale
Queste due navigazioni di Freud intorno al continente inconscio implicano conseguenze politiche ed etiche che trascendono decisamente, pur implicandolo fortemente, l'orizzonte clinico della psicoanalisi. Voglio fare un solo ma significativo esempio. Prendiamo la categoria etica e politica di responsabilità.
Ebbene cosa significa, dopo Freud, dopo il suo doppio passo intorno al continente inconscio, essere responsabili? Cosa diventa «essere responsabili» in un universo discorsivo dove il luogo della coscienza morale si trova trasceso da un'altra ragione e sospinto verso una deriva mortifera? Più semplicemente: cosa significa essere responsabili dopo l'affermazione dell'esistenza dell'inconscio? In realtà è Freud stesso a formulare questa domanda, nella forma più diretta e provocatoria possibile, in un articolo titolato «Alcune aggiunte d'insieme a L'interpretazione dei sogni» del 1925: «siamo o no responsabili dei nostri sogni?» si chiede. Facendo anche notare che la psicoanalisi ha dischiuso la porta verso due possibili risposte a questo interrogativo etico fondamentale. La prima consiste nel fare dell'inconscio un alibi nei confronti del soggetto morale. Se l'inconscio è più forte di me, a lui posso demandare la responsabilità ultima delle mie azioni (anche di quelle più tragiche). È ciò che Freud definisce «ipocrisia morale», ossia quell'atteggiamento che rigetta l'esistenza dell'inconscio e finisce per proiettare l'incivile e lo scabroso . se si vuole, la pulsione di morte che abita il soggetto . nell'altro da sé, nell'altra cultura, nell'altro uomo, nell'altra comunità. L'altra via invece ci sospinge a dilatare il concetto di responsabilità e ad assumercene tutte le conseguenze possibili. In questa prospettiva essere responsabili dei propri sogni significa in realtà essere responsabili del proprio desiderio. Anche del carattere eccentrico, disadattato e non omologabile del proprio desiderio. Il principale insegnamento morale che Freud trae dal suo doppio passo intorno all'inconscio consiste nel ritenere che il sogno, anche laddove esprima il peggio di me, essendo comunque «una parte del mio essere », esige di essere assunto eticamente. «Mangia il tuo Dasein!» ha affermato una volta Lacan deducendo la posta in gioco ultima di un'analisi, ovvero mangiare il proprio peggio, la propria nuda esistenza. «Mangia il tuo sogno!», «Mangia il tuo Es!» gli avrebbe fatto probabilmente eco Freud.

Il manifesto 4.5.06
Dalla psichiatria italiana una condanna senza appello
Di Ferruccio Giacanelli

Sin dal primo contatto con la psicoanalisi gli alienisti oscillarono tra il rifiuto e l’ostracismo. Insistevano sul suo preconcetto sessuale, sul suo procedere in offesa al comune senso del pudore. E di Freud dicevano che era affascinato da un «verbalismo» lussureggiante

All'avvio del 1900 la conoscenza della costruzione dottrinale di Sigmund Freud si sta già diffondendo ovunque. In Italia, la psichiatria pubblica si è ormai costituita in disciplina medica «matura», autonoma e autorevole, che è materia di insegnamento universitario, ed è ormai «funzione di Stato», come dirà uno dei suoi massimi esponenti, Augusto Tamburini. Nel 1901 avrebbe tenuto il suo XI congresso ad Ancona, e nel 1904 Giovanni Giolitti le avrebbe conferito il suggello giuridico con la legge destinata a regolamentarla sino al 1978. Ma il procedere del nuovo secolo non vedrà un incontro felice fra la psichiatria italiana «ufficiale» e Sigmund Freud. Se questi suscitò subito l'interesse di giovani medici ospedalieri, come Luigi Baroncini di Imola e Marco Levi Bianchini di Nocera Inferiore, o giovanissimi come Edoardo Weiss di Trieste, sarebbero trascorsi diversi decenni perché quell'«incontro» avvenisse in forma significativa, e introducesse la psicoanalisi come una presenza concreta e percepibile nella cultura e nella pratica della nostra psichiatria istituzionale. Perché?

Le radici della diffidenza
Per una sorta di persistente «crampo storiografico», capita ancora oggi di sentire attribuire il ritardo dello sviluppo della psicoanalisi in Italia esclusivamente all'egemonia dell'idealismo crociano, all'abolizione dell'insegnamento della psicologia con la riforma Gentile del 1923, alla ostilità da parte del regime fascista. Non v'è dubbio che queste condizioni abbiano avuto notevole importanza . ma si dimentica che l'area delle scienze mediche era allora dominata dai residui del positivismo, e le leggi razziali che avrebbero colpito psicoanalisti importanti di etnia ebraica furono emanate nel 1938. Così fu per Emilio Servadio ed Edoardo Weiss, costretti all'esilio; Marco Levi Bianchini, bizzarro personaggio, traduttore di opere di Freud e fondatore nel 1925 della prima società italiana di psicoanalisi, propagandista della dottrina freudiana più entusiasta che rigoroso, fu destituito dalla direzione dell'Ospedale psichiatrico di Nocera Inferiore nonostante fosse un fervente seguace di Mussolini. Ma in realtà tutto ciò interessa soprattutto l'orizzonte culturale o filosofico italiano nel suo insieme. La psichiatria come corpo specialistico di medici investiti di una funzione pubblica e attivi nella rete delle istituzioni manicomiali reagì sin dall'inizio, sin dal primo contatto con la dottrina freudiana, con un atteggiamento di rifiuto . o addirittura di netto ostracismo . in cui sono rintracciabili le radici della diffidenza che anche attualmente affiora qua e là nella psichiatria «ufficiale», a malapena dissimulata dalla professione di una nuova scientificità bio-medicale.

Nei trattati una fonte preziosa
È lo stesso ideale, o la stessa ambizione, che animava gli psichiatri italiani alle soglie del XX secolo: nei loro scritti o nelle dichiarazioni pubbliche in occasione dei loro congressi risuonavano toni di celebrazione del progresso scientifico da balletto Excelsior. Grazie infatti al progresso ineluttabile delle scienze esatte, in un futuro che sembrava ormai a portata di mano si sarebbe raggiunta finalmente la «spiegazione» delle malattie mentali, ricercandone la causa in quel misterioso substrato biologico che ancora sfuggiva alle pazienti indagini di laboratorio, alla microscopia o alla chimica. Inutile, quindi, qualsiasi speculazione psicologica sul comportamento dei malati di mente: fantasie, deliri, allucinazioni, sofferenze abissali o gioie estatiche, tutto era insensato, alla lettera «privo di senso». Il malato di mente rimaneva incomprensibile e indecifrabile. Credo che la fonte privilegiata per comprendere il modo di porsi degli psichiatri anche nei confronti della teoria freudiana sia offerta dai trattati della disciplina. Più ancora dei periodici, diffusi esclusivamente fra gli addetti ai lavori, i trattati di psichiatria sono strumenti preziosi per cogliere i processi di produzione o riproduzione della cultura. Opera degli psichiatri più illustri della loro epoca, racchiudono il sapere e in qualche misura lo rendono ufficiale, codificato, e come tale indiscutibile anche quando è ancora in fieri. Usati come strumenti di riferimento negli ospedali e per la formazione delle nuove leve di medici nelle università, erano destinati a restare nel tempo testi indispensabili per la pratica professionale cui ci si affidava, come ad un'autorità indiscussa, per l'elaborazione delle perizie giudiziarie. Con questi testi si realizza la trasmissione del sapere anche al di fuori dell'ambito specialistico, e il consolidamento di convinzioni, giudizi, orientamenti, in una parola della cultura nei riguardi della follia di un'epoca intera. Nel Trattato delle malattie mentali di Eugenio Tanzi ed Ernesto Lugaro, per esempio, prestigioso testo di importanza nazionale dall'inizio del 900 fino almeno alla vigilia della seconda guerra mondiale o addirittura al secondo dopoguerra, si rimprovera a Freud con sdegnoso sarcasmo il suo essere affascinato da un «verbalismo lussureggiante», e di essere rimasto «chiuso nel labirinto della propria ermeneutica» con il risultato di finire per comporre «una sinfonia di metafore sonanti». E questa «fascinazione» si rivela al suo massimo grado a proposito delle «associazioni libere», nelle quali si fanno strada «le immagini più bizzarre e incoerenti, che forniranno all'immaginoso psicoanalista la materia per le sue bolle di sapone». Se tali giudizi sono rivolti a quegli aspetti della costruzione freudiana che sembrano contraddire la razionalità «scientistica», peggio accade con il tema della sessualità che ferisce la sensibilità moralistica dei nostri bravi psichiatri. Agli psicoanalisti viene rimproverato che «nelle parole incoerenti di un demente essi sanno leggere la traduzione simbolica d'un sudicio romanzo» e quando si spingono ad applicare il loro metodo nella terapia dell'isterismo finiscono per assomigliare a «certi confessori che spingono la fantasia dei penitenti sopra un terreno lubrico».

Contro i palombari della psiche
La condanna è senza appello e si ripeterà ancora nel secondo dopoguerra. Nel 1946, nel diffusissimo trattato di Giulio Mòglie, da un lato si ridimensiona la psicoanalisi assimilandola alla «vecchia psicoterapia», quella «spicciola che ogni medico intelligente e paziente fa tutti i giorni », dall'altro della «dogmatica teoria del Freud» si stigmatizza il «pansessualismo, in tutte le sue espressioni più animalesche, sino all'incestuoso complesso di Edipo». Altri illustri psichiatri dichiarano di voler discutere Freud senza giudizi preconcetti, ma giungono in sostanza alle stesse conclusioni: riconoscono l'importanza e l'originalità della sua dottrina, la sua statura di studioso, la sua capacità di spaziare in terreni vastissimi della cultura e dell'arte figurativa. Tutto bene, ma. A quel «ma» fa seguito una serie di riserve, di citazioni avverse, di critiche espresse da studiosi più o meno insigni e in forma più o meno sarcastica, si parla dei «palombari della psiche» e simili, di difficoltà o impossibilità a usare la psicoanalisi nella pratica della psichiatria, accettandone al più le applicazioni per le forme più semplici di psiconevrosi. Col passare del tempo, ci fu chi introdusse nella quotidianità della clinica psichiatrica singole nozioni o frammenti della teoria freudiana, avulsi dall'insieme e con mero valore empirico-strumentale: termini come «lapsus», «rimozione » «sublimazione» e simili entreranno a far parte dell'eterogeneo gregario della psichiatria, privi ormai di ogni aggancio con la coerente concezione freudiana della vita psichica dell'uomo. La posizione contraria alla psicoanalisi assunta dagli psichiatri italiani della prima metà del secolo XX ci rivela in realtà qualcosa che ci porta al cuore degli stessi problemi originari della disciplina. L'insistere sulla sottolineatura del «preconcetto sessuale» della psicoanalisi; sul suo procedere in offesa al «senso comune» e al «senso del pudore»; sui rischi che con Freud si correrebbero creando «una psicologia sessuale del poppante» . «e perché non del feto o dell'embrione?» ironizzano Tanzi e Lugaro, non potendo prevedere che ottanta anni dopo in Italia si sarebbe discusso se l'embrione sia già «persona», sono come increspature di superficie che rivelano ciò che v'è nella profondità dello stagno: quel mandato sociale implicito della psichiatria che deriva dal suo essere radicata nei valori costituiti della sua epoca e del suo tessuto istituzionale, in una «normalità» inespressa e indiscussa, assunta come «data». La psichiatria italiana della prima metà del 900 sottintende la visione d'una società costruita secondo stereotipi codificati della famiglia, dei rapporti fra i due sessi, della donna, del bambino, e poi delle gerarchie sociali e di molti altri valori facilmente intuibili dei quali lo psichiatra si pone come esponente e garante.

Solide certezze in frantumi
Freud con la sua teoria interveniva a turbare la tranquillità della psichiatria che era impegnata a perseguire le proprie speculazioni all'interno dei recinti manicomiali, e gli psichiatri avvertirono che la psicoanalisi metteva in crisi certezze che sembravano saldamente acquisite. Essa mostrava agli alienisti del suo tempo che la vita psichica dell'uomo era infinitamente più complessa di quanto sospettassero, e soprattutto li costringeva ad ascoltare il sofferente psichico cui veniva così restituita la sua possibile soggettività, e insieme ad acquisire la consapevolezza della problematicità intrinseca al loro rapporto quotidiano con il malato. Molte altre fratture e altri mutamenti sarebbero stati necessari nella società e della cultura italiana perché si compisse la metamorfosi della psichiatria; perché la voce di Freud venisse ascoltata e insieme fosse riconosciuta, infine, la «sensatezza» disperata della follia.

Il manifesto 4.5.06
Quel che i bambini dovrebbero sapere di Freud
Di Cesare Musatti

Sigmund Freud (si pronuncia Froid) era un medico nato nel 1856 e vissuto quasi sempre a Vienna. Si occupava di persone con certe malattie che si dicono nervose, e scoprì un metodo per curarle. Il metodo non consisteva nel prescrivere medicine, ma nello scoprire determinati pensieri che questi ammalati avevano dentro di sé. Erano strani pensieri: conservati nella mente, senza che gli stessi ammalati sapessero che c'erano. Che sia possibile avere dentro di sé idee e desideri, aspirazioni e timori, senza saperlo, sembra certamente assai curioso; e ai tempi di Freud molti non credevano a questa teoria.
Essa permetteva di curare facendo ritrovare e ricordare queste cose dimenticate, ed eliminando in tal modo il loro effetto dannoso. Anche con i bambini il metodo poté essere applicato. Il primo bambino curato con questo sistema era il piccolo Hans. Senza alcuna ragione si spaventava di fronte a grossi cavalli da trasporto, anche se veduti soltanto da lontano; stava perciò tappato in casa per il terrore di incontrarli. La paura era dovuta a idee che Hans si era messo in mente quando era ancora molto piccino, e che aveva del tutto dimenticate. Quando Hans ritrovò, con l'aiuto del metodo di Freud, queste idee, ogni paura scomparve. Molte fobie che spesso qualche bambino prova per animali inoffensivi, ma anche altre paure, come ad esempio quella del buio, hanno simile origine e possono essere curate con questo sistema, che si chiama psicoanalisi. Il metodo si usa però, soprattutto, con persone adulte, tormentate da fissazioni, paure, incapacità di affrontare certi lavori, difficoltà a stare in mezzo alla gente, o a costituirsi una famiglia, oppure sofferenti per dolori in varie parti del corpo, senza che vi sia nulla di malato nel loro organismo. Spesso, incidenti che passano inosservati, impressioni provate quando si era piccini, e poi dimenticate, preoccupazioni sentite in modo esagerato, ma a cui si è cercato di non pensare più, rimangono dentro di noi e provocano disturbi, che sembrano del tutto incomprensibili e privi di senso. Molte di queste impressioni nascoste in noi risalgono all'infanzia. I grandi avevano una volta l'abitudine di raccontare un sacco di frottole ai loro figli, a proposito di problemi che interessano molto i bambini, e che gli adulti considerano argomenti proibiti. Ad esempio, di fronte alla curiosità infantile sulle diversità tra il corpo maschile e quello femminile, su come vengono al mondo i neonati, o su quel che fanno tra loro i genitori nel lettone, non venivano fornite spiegazioni chiare, anzi questi argomenti venivano circondati di mistero. Ne derivavano nei bambini
angosce, fantasie del tutto lontane dalla realtà, e sentimenti di colpa per la propria persistente curiosità: anche queste impressioni, successivamente dimenticate, potevano essere causa di futuri disturbi.
Se oggi si è più franchi con i bambini, questo è dovuto in gran parte alla diffusione delle idee di Freud. Ma il suo merito principale è quello di avere scoperto come si possa vedere dentro di noi, anche le cose che in noi sono coperte e dimenticate. Per giungere a questo obiettivo, Freud e gli psicoanalisti che ne hanno seguito la lezione, osservano tutti i minimi gesti, il modo di comportarsi e di parlare, e anche i sogni che a ciascuno capita di fare durante la notte. E questo non perché i sogni annuncino direttamente qualche cosa che deve accadere, o che si deve temere (come credono i superstiziosi), ma perché attraverso i sogni si manifestano proprio quei pensieri segreti che sono in noi e di cui non sappiamo nulla. La psicoanalisi è un metodo complicato e richiede molto studio per poter essere adoperato in maniera efficace e corretta; del resto non serve soltanto per curare le persone malate o disturbate, ma più in generale per comprendere meglio gli altri e il loro modo di agire. Perciò l'importanza dell'opera di Freud non riguarda soltanto la medicina, ma ogni scienza che si occupi dell'uomo. Sigmund Freud ora è famoso e ricordato con riconoscenza, ma durante la sua vita subì molte persecuzioni, come accade spesso a coloro che annunciano al mondo idee nuove; inoltre, in quanto ebreo, era mal visto da certa gente stupida e cattiva, che giudica le persone non per il loro valore, ma per la loro diversa razza o religione. Quando le armate tedesche dei nazisti occuparono nel 1938 l'Austria, poco prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale, Freud fu costretto a lasciare Vienna e a rifugiarsi a Londra, dove morì nel 1939.
Il decano della psicoanalisi italiana, morto nel 1989, scrisse questo testo per “Il Lavoro”di Genova che lo pubblicò il 25 maggio 1978

Il manifesto 4.5.06
Quando morì era già una leggenda

Brani tratti dai necrologi di alcuni tra i più fedeli collaboratori di Freud
Credeva che la conoscenza fosse un dato oggettivo non un semplice punto di vista

Marie Bonaparte:
Fra le notizie dai fronti di combattimento, nell'ora in cui i cancelli della morte si spalancano a tanti giovani, l'annuncio della scomparsa di un vecchio giunge a commuovere la coscienza universale, poiché colui che ha chiuso alla luce i suoi occhi profondi è stato un grande fra gli uomini. Ogni secolo vede nascere solo pochi di questi personaggi, e l'universo, sebbene in questi tempi assorbito dalla morte e dalla distruzione, o teso a proteggersene, ha sentito passare, insieme al soffio della morte che ha falciato Freud, lo spirito di una elevata e calma grandezza. Discendente io stessa di una stirpe che ha dato al mondo uno dei suoi più grandi conquistatori, ma figlia di un nipote dell'Imperatore che si consacrò alle opere del pensiero, fin dall'infanzia ho imparato a valutare, ben più delle azioni di forza e di potere, le conquiste spirituali, ed è senza dubbio questo che mi ha portato, ormai sul declino della vita, verso Freud, di cui mi inorgoglisco di essere la discepola. (...) La cultura tedesca è oggi esiliata
dalla Germania, da una Germania dove ormai da tanti mesi risuonano solo il rumore degli stivali, il frastuono dei carri armati o dei cannoni, il rombo degli aerei. Con Einstein, Thomas Mann e tanti altri, Freud, perseguitato nel suo pensiero, dopo avere visto distrutti i suoi libri a migliaia, aveva dovuto lo scorso anno prendere la via dell'esilio (...) Le ceneri di questo corpo minuto animato da una fiamma tanto elevata riposeranno non lontano da quelle di Newton o di Darwin. E a giusto titolo: l'arditezza di questi tre grandi geni fu uguale, che lo spirito del primo si sia slanciato verso gli astri, del secondo verso l'evoluzione millenaria della vita, dell'ultimo infine verso gli abissi insondati dell'animo umano.
Da “Marianne” 4 ottobre 1939

Ernest Jones:
Freud è morto. Queste semplici parole, cariche di significato, hanno risuonato a lungo in tutto il mondo. Alla piccola cerchia superstite di coloro che hanno goduto della sua amicizia, queste parole esprimono una perdita diretta e inestimabile. (...) Se si dovesse scegliere un'unica sua caratteristica fra tutte, si tratterebbe probabilmente dello sconvolgente coraggio intellettuale la più rara e trascendente forma di coraggio . di cui Freud diede prova. Quando più volte si trovò a confronto con l'oscuro ignoto, e all'apparenza inconoscibile, il suo impulso era quello di spingersi oltre, per nulla impaurito di fronte a quello che avrebbe potuto incontrare e solo in un territorio inesplorato, senza precursori o compagni con cui condividere i suoi dubbi. Freud possedeva la qualità dell'audacia intellettuale al suo più alto grado. (...) La sua non era la mente di un filosofo o di un contemplativo, era una mente inquieta e inquisitiva. Freud credeva che la conoscenza fosse un dato oggettivo, non un semplice punto di vista, e che entro le nostre limitate facoltà potesse essere raggiunta. Ma sapeva anche che per farlo è essenziale l'onestà più rigorosa e che per questo supremo obiettivo una persona deve essere pronta a sacrificare non solo il tempo, e un lavoro costante, ma l'amour propre, qualsiasi reputazione di coerenza, nel senso di fissità, e qualsiasi sentimento personale che possa anche solo minacciare di interferire con il fine unico della verità. (...) Esiste un generale accordo circa l'importanza che «un forte ego» gioca nel definire l'integrità psichica, e senza dubbio Freud possedeva un ego immensamente forte. Sappiamo che questo non è un concetto facile da definire, ma sicuramente è connotato da due tratti che ritroviamo esemplificati nella misura più alta in Freud: la tolleranza dell'ansia, vale a dire una tale padronanza da rendere minimi i suoi effetti, e una valutazione ferma della realtà. Freud era innanzi tutto un realista. (...)
Da International Journal of psychoanalisis 1940

Max Etingon:
È un tempo infelice quello in cui ci troviamo a vivere. (...) Eppure, nonostante questo, proviamo ugualmente un dolore profondo nel ricevere da Londra l'annuncio che Sigmund Freud è mancato, dopo molte sofferenze, nel suo ottantaquattresimo anno d'età. Non è semplicemente un nome in più che si aggiunge a quello dei molti che devono ora soffrire e morire. Questa perdita è smisurata, perché Freud è stato uno dei rari spiriti che hanno conosciuto una reale grandezza. Non fu solo un grande medico, un esperto o un tecnico, come Hertz o Marconi, Roentgen o Koch, uomini di eccezionale talento e successo. Freud è stato diverso, perché ha dato al nostro mondo tormentato ciò di cui ha maggiormente bisogno, la comprensione della mente umana. È vero che molti nostri contemporanei non si curano di riconoscere il debito che abbiamo nei confronti di Freud nei campi della scienza e della creatività in cui il suo lavoro ha reso possibile un progresso significativo o addirittura decisivo. Il mondo, però, parla la sua lingua, e usa le conoscenze che egli ha saputo estrarre da profondità finora inesplorate.
Da Palestine Post 26/9/1939

Freud è morto il 23 settembre 1939. Nonostante i molti anni di malattia e la sua età avanzata, la notizia della sua morte è un duro colpo. (...) Non ho dubbi che nel corso del tempo alcune posizioni di Freud verranno modificate. Nuove idee verranno a sostituirsi ad esse. Sono tuttavia convinto che la fama dell'uomo e la gloria dei suoi grandi risultati rimarranno inoffuscate, qualsiasi cosa accada in futuro
Da Psychoanalitic Quarterly 8/1939

Ludwig Jekels:
Penserete forse che sono incline al misticismo quando affermo che è del tutto appropriato che questo uomo abbia lasciato il mondo proprio in questo momento. Non lo dico perché Freud aveva raggiunto un'età avanzata e soffriva di una grave malattia (...) Quello che desidero dire è che appare pienamente naturale che quest'uomo, il cui intero essere fu devoto ai più nobili principi dell'umanesimo, abbia abbandonato questo mondo nel momento in cui prevalgono le più grossolane contraddizioni a questi principi. La sete di verità e l'amore sono i fondamenti dell'umanesimo. Sono loro a spianare la strada a quella più ampia comprensione degli altri uomini che è il caposaldo dell'umanesimo. L'immensa tensione di Freud all'apprendimento della verità si rivela nella storia della sua ricerca e nella sua battaglia senza compromessi per la verifica e l'asserzione della verità così come egli la vedeva. (...) Quanto all'amore, l'opera di Freud non ha forse rivendicato il diritto del genere umano ad amare? Non elevò egli l'amore al livello di un fattore legittimo, vitale e naturale della vita? Ed egli lo fece in un tempo in cui l'amore veniva riconosciuto solo dai poeti ed era considerato di solito come un gioco
dell'immaginazione, un capriccio o una sensazione. (...) Freud prendeva appassionatamente parte alla vita di coloro che gli erano vicini ed era sempre pronto a offrire una mano di aiuto ogni volta che lo riteneva opportuno; al tempo stesso il suo amore era quanto di più lontano dall'estatica esuberanza di «compassione e disprezzo» che Schopenhauer ha offerto all'umanità. Egli si batté per raggiungere nella sua vita lo stesso obiettivo che aveva perseguito nel trattamento psicoanalitico . il governo delle emozioni attraverso la comprensione. Questa stessa tensione per la sovranità della Ragione gli rivelò i grandi limiti della lotta dell'uomo contro il suo destino, e in ultima analisi la necessità per l'uomo di accettare l'inevitabile con pazienza e dignità. E anche questo Freud dimostrò ampiamente con la sua serena rassegnazione alla dolorosa malattia e all'esilio. Ora questo grande spirito, questo nobile uomo
è stato sollevato dal suo compito e liberato da qualsiasi destino.
Da Psychoanalitic Quarterly 8/1939