sabato 22 giugno 2013

il Fatto 22.6.13
Missile Cgil su Letta: “Sa fare solo annunci”
Mezzo milione di cassaintegrati. Camusso dà l’ultimatum al premier
Evasione: un miliardo al mese finisce all’estero
di Salvatore Cannavò


Dopo le scosse berlusconiane Enrico Letta è costretto a registrare quelle sindacali. È stata Susanna Ca-musso, ieri, a “bacchettare” il capo del governo: “Abbiamo la sensazione – ha detto il segretario della Cgil intervenendo a Radio 24, l’emittente di Confindustria – che i dossier si moltiplichino e che non si decida sui singoli capitoli”. “Il dibattito Imu-Iva – ha aggiunto Camusso – dimostra che si continua a stare dentro gli echi della campagna elettorale”. Per il governo che emana decreti del “fare”, l’accusa di inconcludenza è la peggiore che si possa ricevere.
Ultimatum sindacale
Dietro le righe delle dichiarazioni ufficiali, in Cgil si registra l’insofferenza nei confronti del governo. “Sarebbe ora che ascoltino anche le ragioni del lavoro – dicono in Corso Italia – visto che finora hanno ascoltato solo quelle delle imprese”. Si assiste di nuovo alla dialettica del governo Monti, sensibile agli allarmi di imprenditori grandi e piccoli “che urlano contro la deindustrializzazione e poi senza ragione delocalizzano in altri paesi”. Il riferimento, nemmeno tanto implicito, è all’Indesit della famiglia Merloni che proprio ieri ha confermato i suoi 1.425 esuberi e ha rotto il tavolo di trattative con il sindacato che ha annunciato lo sciopero di tutto il gruppo per il 12 luglio. Quello che Camusso invierà oggi dal palco di San Giovanni, dove concluderà assieme a Bonanni e Angeletti di Cisl e Uil, la prima manifestazione sindacale unitaria dopo tanto tempo, non sarà probabilmente un vero e proprio ultimatum. Ma un avvertimento sì. E provenendo dal sindacato di riferimento del segretario del Pd, azionista di maggioranza dell’esecutivo, sarà un messaggio da ascoltare. L’allarme di Camusso trova conferme nei dati diffusi dalla Cgil sulla cassa integrazione. Il sindacato di Corso Italia calcola in 524.379 il numero dei lavoratori costretti a casa. Si tratta di un numero teorico che si darebbe se le ore di cig autorizzate fossero tutte a zero ore. In questo caso la somma percepita oscillerebbe tra i 700 e gli 800 euro al mese. Come accade, concretamente, in fabbriche come Pomigliano o Termini Imerese. In realtà può succedere che in un’azienda la cassa integrazione sia a rotazione, oppure duri una settimana o due. Calcolando una media di ricorso alla cig del 50% delle ore lavorabili la Cgil stima in poco più di un milione (1.048.757) i lavoratori a riposo forzato. Che possono percepire cifre superiori al minimo ma comunque inferiori al proprio stipendio. Le risorse perse dal mondo del lavoro, infatti, ammontano complessivamente a 1,7 miliardi pari a 3.300 euro a lavoratore. Un salasso per le famiglie e una contrazione evidente nei consumi.
Miliardi buttati
Questo avviene in un paese in cui, nei primi cinque mesi del 2013, la Guardia di Finanza ha accertato danni all’erario causati dagli sprechi per 1 miliardo di euro, trovato uno scontrino su tre irregolare, sequestrato 2,5 miliardi di beni alla mafia. E un altro miliardo ogni mese viene tranquillamente portato all’estero.
La manifestazione di oggi a Roma, con comizio unitario in piazza San Giovanni, dopo due grandi cortei che attraverseranno la città (uno da piazza della Repubblica e l’altro da piazzale dei Partigiani) vuole recuperare l’iniziativa di Cgil, Cisl e Uil che puntano a farsi sentire dal governo. Ne hanno bisogno perché dopo i tagli e le promesse mancate rischia di saltare definitivamente il rapporto con la propria base.
Lo scontro alla Fiat
Al corteo ci sarà anche la Fiom che prima, però, nella nottata sarà impegnata a Pomigliano dove Maurizio Landini sarà presente alla “Notte bianca” contro il sabato lavorativo nello stabilimento campano. “È curioso, spiega il segretario della Fiom, che mentre gli operai sono per metà in cassa integrazione quelli al lavoro vengano chiamati a fare gli straordinari mentre gli altri restano fuori”. La richiesta della Fiom è di adottare i contratti di solidarietà: riduzione del salario e contestuale riduzione dell’orario ma tutti al lavoro. Una richiesta che la Fiat respinge fermamente anche perché, spiega, i sabati lavorativi a Pomigliano si sono resi necessari per picchi contingenti di produzione che potrebbero interrompersi. Un presidio della Fiom c’era già stato lo scorso sabato e finì con una carica della polizia, un manifestante all’ospedale e un dirigente Fiom identificato. “Noi non vogliamo impedire a nessuno di entrare al lavoro” ribadisce Landini “ma solo illustrare le nostre ragioni”. La Fiat, però, in un comunicato, parla di rischi di “intimidazione” reputando “gravissimo” se si impedisse ai lavoratori di non entrare in fabbrica.

l’Unità 22.6.13
Guardia di Finanza
Un negozio su tre non fa lo scontrino


Lo scandalo scontrini fiscali continua. Un esercizio commerciale su tre continua a non emettere scontrini o ricevute fiscali. Nei primi cinque mesi del 2013, l’Italia si conferma terra di evasori e furbi, Paese nel quale un miliardo al mese viene nascosto al fisco e portato all’estero. La Guardia di Finanza rende noti i dati relativi al periodo da gennaio a maggio e non è affatto un caso che anche oggi, nel corso dell’incontro con i vertici del Corpo, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sia tornato a ribadire che le Fiamme Gialle rappresentano un «punto di riferimento» a difesa della legalità. E anche delle casse dello Stato, perché in cinque mesi sono stati riscontrati abusi e sprechi nella pubblica amministrazione per oltre 900 milioni di euro. L’azione a tutela del bilancio pubblico, sottolinea la Gdf, è stata «ulteriormente rafforzata» in questi cinque mesi «allo scopo di individuare sprechi e abusi» nella pubblica amministrazione ma anche le truffe agli enti assistenziali e previdenziali. Ciò nonostante, il danno prodotto all’erario è già di 957 milioni.

il Fatto 22.6.13
L’ineleggibità può attendere. Per sempre
La materia scivola a settembre e il Pd collabora
Il premier Letta: Berlusconi è affidabile
di fd’e


Elvira Savino alias la “Topolona tacco 12” (copyright Dagospia), esponente di spicco di Forza Gnocca, ieri ha sparato l’ennesima cartuccia: “Napolitano deve nominare Berlusconi senatore a vita, solo così potrà chiudere la guerra di questi vent’anni. Noi non abbiamo mai chiesto al Colle di intervenire sulla Consulta, esercitando la moral suasion, ma una nomina del genere avrebbe un alto valore simbolico”. Al solito, si dimentica che Giulio Andreotti venne processato da senatore a vita, ma tant’è.
Da giorni, Silvio Berlusconi ragiona sui suoi guai giudiziari, tra rabbia, amarezza e finanche rassegnazione. Chi lo ha incontrato lo descrive persino “fiacco e sfiduciato”. Schifani ribadisce che la pacificazione significa fermare l’accanimento giudiziario contro il Capo. Il premier Letta “comprende” la delusione di B. e riconosce, sollevato, la correttezza delle sue parole pubbliche a sostegno del governo. I falchi del Pdl, infine, vorrebbero usare Imu e Iva per far cadere tutto. In ogni caso, partendo dai problemi concreti dopo il mercoledì nero della Corte costituzionale sul legittimo impedimento, l’orizzonte per il Cavaliere è meno nero e fosco di quanto si pensi. Merito anche del Pd, alleato di governo, che sull’eleggibilità ha scelto la via dello scambio e del dialogo come ha raccontato ieri Ettore Colombo sul Messaggero.
LA GIUNTA PER LE IMMUNITÀ di Palazzo Madama esaminerà l’ineleggibilità del Cavaliere, secondo i criteri della legge del 1957 sui titolari di notevoli concessioni pubbliche non prima del prossimo settembre. Il calendario dell’organismo presieduto da Dario Stefano di Sel è ingolfato infatti da altre questioni che hanno la priorità e che impegneranno almeno tutto il mese di luglio, una volta alla settimana. E quando poi finalmente, con la ripresa dei lavori dopo l’estate, i partiti affronteranno la questione posta dai quattro senatori grillini della Giunta, il Pd voterà quasi sicuramente coi colleghi d’inciucio del Pdl e di Scelta Civica per il no al-l’ineleggibilità.
Il motivo è questo: d’accordo con i vertici del partito, da Epifani alla Finocchiaro e Zanda, Massimo Mucchetti, già editorialista del Corsera e oggi senatore del Pd, ha presentato un nuovo disegno di legge per regolare il conflitto d’interessi. Il pretesto alla base è che la legge del ‘57 va aggiornata perché vecchia: rende ineleggibili i proprietari titolari di concessioni ma non gli azionisti. In realtà, come conferma una fonte autorevole del Pd al Fatto, a microfoni chiusi, “l’importante è allungare i tempi e sminare uno dei fronti più rischiosi del governo Letta, in cambio della discussione sul conflitto d’interessi apriremo al Pdl sul semipresidenzialismo”. Melina, melina, melina. Non solo. C’è anche la ratio politica del ddl di Mucchetti a rassicurare B. Dicono dal Pd: “Dobbiamo evitare i radicalismi alla Micromega”. In sede di voto l’eleggibilità dovrebbe passare con il sì di Pdl, Pd, Scelta Civica. Peraltro, tra i democratici scende di numero il fronte del no. Stando alle dichiarazioni sono rimasti in tre contro Berlusconi: Felice Casson, Stefania Pezzopane e Rosanna Filippin. Insomma, la questione dell’ineleggibilità dovrebbe essere archiviata a favore del Cavaliere.
A spaventare B. resta però la sentenza della Cassazione su Mediaset. Casson già ha posto il problema in termini critici: “Il Senato non deve esprimere un voto politico, solo ratificare una sentenza passata in giudicato”. Ma se ne parlerà in inverno inoltrato.

il Fatto 22.6.13
La svuota-carceri salverà B. e Fede
Regali pure ai mafiosi
Il guardasigilli Cancellieri: “Il decreto è pronto, mercoledì in Cdm”
A svelare la legge ad personam sono sti due deputati M5s
di Beatrice Borromeo


Per ora è solo una bozza, ma se venisse confermata renderebbe felici molte persone. A partire da Silvio Berlusconi e dai suoi coimputati nel processo Ruby. Salvo modifiche in corsa, il decreto che mercoledì il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri presenterà in Consiglio dei ministri per contrastare l’affollamento delle carceri pare l’ennesima legge ad personas: ad accorgersene sono stati i deputati di 5Stelle Francesca Businarolo e Andrea Colletti. Che denunciano: “A beneficiare di questo indulto permanente saranno pure i mafiosi”. Ecco la bozza che il Fatto ha potuto visionare.
SALVA-SILVIO (& ALTRI)
Si legge Salva-Silvio, ma questa norma, che incide sulla sospensione della pena, salverà anche molti altri condannati. Fino a oggi, infatti, chi deve scontare tre anni di carcere ottiene quasi automaticamente la misura alternativa dell’ “affidamento in prova ai servizi sociali” (cioè rimane in libertà). In futuro, per gli ultrasettantenni (oltre che per gli over 60 parzialmente inabilitati), la sospensione della pena verrà concessa a chi di anni ne deve scontare quattro. Il Cavaliere, com’è noto, è imputato nel processo Ruby per l’ex-concussione (le famose telefonate in questura) e prostituzione minorile (in veste di “utilizzatore finale”). Poniamo che venga condannato alla pena richiesta dal pm Ilda Boccassini, cioè sei anni: in quanto ultrasettantenne (come prevede la ex-Cirielli) sconterebbe i primi due anni agli arresti domiciliari e gli altri quattro (con il nuovo decreto) ai servizi sociali. Se invece la pena fosse sotto i quattro anni, niente domiciliari: libertà subito.
SALVA-FEDE
Dove scontano la pena i condannati ultrasettantenni? Oggi (grazie alla ex-Cirielli salva-Previti), ai domiciliari. Un beneficio da cui però è escluso chi risponde di reati di mafia o sessuali. Col decreto Cancellieri, gli unici che non potranno scontare la pena a casa saranno i mafiosi. Se invece un 82enne - come per esempio Emilio Fede - venisse condannato per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione minorile, potrebbe tranquillamente restarsene a casa. Tra i reati “assolutamente ostativi” alla concessione dei domiciliari, infatti, restano solo quelli mafiosi e quelli sessuali “gravissimi”: e non è il caso del processo Ruby .
SALVA-MAFIOSI/1
Anche se esclusi dalla salva-Fede, qualche regalino c’è pure per i mafiosi. Indipendentemente dall’età, la riforma prevede gli ultimi due anni di pena ai domiciliari. Se verrà abbinata alla legge delega Ferranti-Costa sulle pene alternative, i mafiosi potranno evitare di trascorrere gli ultimi due anni di pena in carcere. Nella peggiore delle ipotesi, otterranno la detenzione domiciliare, che finora è esclusa proprio perché il reato di mafia è considerato troppo grave per i benefici. La norma Pd- Pdl prevede che la detenzione domiciliare, per i reati puniti fino a 6 anni, non sia più una “pena alternativa” al carcere, ma una pena principale: così lo sbarramento cade. E i padrini una casa ce l’hanno sempre.
SALVA-MAFIOSI/2
Le buone notizie per i mafiosi non sono finite: aumenteranno anche le probabilità di scampare al carcere duro. Oggi il boss che presenta istanza di revoca del 41-bis, dovunque si trovi, deve rivolgersi al Tribunale di sorveglianza di Roma: la scelta di stabilire una competenza unica nazionale era stata presa per evitare disparità di giudizio tra i vari tribunali di sorveglianza sparsi per l’Italia. Col decreto Cancellieri, invece, il mafioso potrebbe avanzare l’istanza al Tribunale dove sta scontando la pena e, visti i continui spostamenti dei detenuti per i vari processi, potrebbe “scegliersi” il giudice più benevolo o “garantista”.
DROGATEVI TUTTI
Avviso ai criminali: se avete in mente di delinquere, vi conviene fare uso di droghe. E, se ancora non “vi fate”, abbiate cura di cominciare quando vi condannano. Prendiamo il caso di un rapinatore allergico alla cocaina: appena beccato, va in carcere. Se però dimostra che, al momento del reato o dopo averlo commesso, ha assunto sostanze stupefacenti o psicotrope, anzichè in galera andrà a svolgere lavori di pubblica utilità. Finora poi questo beneficio era concesso solo per i reati minori del Testo unico sulla droga (come piccolo spaccio o modesta detenzione). Ora non più: i delinquenti tossici ringraziano.
EVADETE PURE
Ora che, per molti, gli arresti domiciliari diventeranno pena principale al posto del carcere, lo svuota-celle provvede ad agevolare anche la vita dei reclusi in casa. La denuncia di evasione, infatti, non basterà più per sospendere la detenzione a domicilio. Di più: anche chi viene condannato per evasione non tornerà automaticamente in carcere, come accade oggi. Pure i recidivi potranno chiedere e ottenere (più volte) sia gli arresti domiciliari sia la semi-libertà.
DELINQUETE A DOMICILIO
Infine un pensiero alle tipologie di delinquenti che, verosimilmente, potranno beneficiare degli arresti domiciliari: tra gli altri, lo stalker, il pusher, il marito violento. Ve li immaginate, quando torneranno a casa dopo la condanna “virtuale”? Il primo potrà continuare indisturbato a tempestare di telefonate la sua vittima (purchè si procuri un cellulare “pulito”). Il secondo non perderà neanche un cliente (e magari se ne farà di nuovi, soprattutto tra i rapinatori che vogliono evitare il carcere). Se poi il pusher dovesse uscire per rifornirsi, niente paura: l’evasione non comporta più la revoca dei domiciliari. Saranno poi felici le mogli picchiate o le figlie molestate nel veder tornare a casa il loro aggressore appena condannato, che potrà riprendere il suo sport prediletto. Il rischio è che la condanna ai domiciliari la scontino le vittime.

il Fatto 22.6.13
Palestra e Imu a sua insaputa. Tutte le scivolate della Idem
Dal collaboratore del marito diventato affittuario ai 30 attrezzi che il ministro dichiara di usare solo per sé
di Gianni Barbacetto e Martina Castigliani


Niente da chiarire: il ministro Josefa Idem non risponde al Fatto quotidiano, dopo le polemiche che la coinvolgono da mercoledì scorso per problemi di Ici non pagato e costruzione di una palestra senza autorizzazione. Le risposte preferisce affidarle agli avvocati. O a Repubblica, a cui ha concesso una lunga intervista per spiegare la sua posizione. “È tutto in quelle parole”, risponde al Fatto .
Eppure nella lunga serie di dichiarazioni, che assomigliano molto a un’arringa difensiva, manca una risposta, l’elemento forse più importante, almeno per i possibili risvolti giudiziari della vicenda: perché la palestra Jajo Gym, al piano terra della sua abitazione in via Carraia Bezzi a Ravenna, secondo i documenti dell’accertamento di illecito (pubblicato l’11 giugno da ilfattoquotidiano.it ) risulta avesse un affittuario, Maurizio Patanè?
“Sono un collaboratore del marito della Idem, Guglielmo Guerrini”, ha spiegato Patanè. Ma i documenti del Comune lo qualificano come affittuario. La Idem risponde declinando ogni responsabilità: “Non mi sono mai occupata personalmente della gestione di queste cose. Ho sempre delegato ai tecnici, chiedendo di fare le cose a regola d’arte”. Così evidentemente non è stato. Patanè e la sua associazione sportiva dilettantistica non hanno mai pagato l’affitto? Ma allora, come mai l’associazione era una struttura con soci e iscritti paganti?
“NON È UNA PALESTRA”, spiega con cura Idem a Repubblica. Ma allora in quegli spazi avrebbero dovuto esserci solo attrezzature per i suoi allenamenti personali. Che ruolo aveva l’associazione di Patanè? “Bisogna prima di tutto concentrarsi sul fatto che io sono un’atleta e mio marito è il mio allenatore. Mi sono sempre allenata in famiglia. Nella mia casa c’è sempre stata una palestra, come in quella di un professore c’è una biblioteca”. Resta da capire se quella biblioteca presta libri anche ad altri, magari facendo pagare una quota d’iscrizione...
Digitando Jajo Gym, nel web si trovano fotografie di un locale con una trentina di macchinari firmati Technogym. Non sono troppi per una sola persona? Per utilizzarli, bisogna portare un certificato medico e pagare un abbonamento mensile che costa dai 45 ai 60 euro a seconda della formula scelta, come raccontano i cronisti di Ravenna e dintorni che si sono finti clienti con Patanè. Quella della Idem, dunque, è una non-palestra che pretende certificati, fa iscrizioni, offre servizi e compare perfino tra gli impianti sportivi del Comune di Ravenna, nel dépliant “Sport per tutti”.
Di più: dà lavoro, ha dipendenti. Come venivano pagati i lavoratori di una struttura non segnalata alle autorità?
Nell’intervista che pretende di essere il chiarimento definitivo, il ministro poi racconta: “Abitavamo fino al 2007 in una casa di mia proprietà, su due piani. Quando sono cresciuti i figli, ci siamo trasferiti, ma io ho continuato a usare la vecchia casa”.
QUI COMINCIANO i problemi. Idem dimentica di trasferire la residenza nella nuova abitazione e così per quattro anni non paga l’Ici. Fino al 4 febbraio 2013, a poche settimane dalla candidatura ufficiale nelle liste del Pd, quando sposta ufficialmente il nucleo familiare. Il 5 giugno, dopo un’inchiesta su un giornale locale, fa un versamento a titolo di “ravvedimento operoso” per pagare l’Imu arretrata. Una corsa per recuperare le irregolarità. “La denuncia”, ha detto Idem, “è emersa in consiglio comunale solo dopo che sono diventata ministro. Lo capisco, è una battaglia” .
Non confermano questa versione, tutta politica, gli ex colleghi consiglieri comunali di Ravenna. Le critiche alla Idem cominciano già quando viene eletta in consiglio comunale: “Sefi”, come la chiamano dalle sue parti, accumula il 71 per cento di assenze in aula. Le polemiche sono continuate per tutta la giornata di ieri, con attacchi anche pesanti. “Forse le vere puttane”, ha dichiarato con il suo consueto stile l’europarlamentare Mario Borghezio, “sono certi personaggi, donne ma anche uomini, che prostituiscono la funzione di servizio di chi ha uno stipendio pubblico”. A chiedere le dimissioni della ministra sono Movimento 5 stelle, Lega nord e Fratelli d’Italia. Silenzio dal Pd nazionale, mentre quello di Ravenna chiede chiarimenti e spiegazioni.
Repubblica cita il Fatto che ha ricordato come in Germania i politici si dimettano anche solo per una tesi di laurea copiata. Niente dimissioni, invece, per Josefa Idem. “Ci ho pensato molto”, ha risposto, “ma non ho fatto una scelta né di comodo, né di convenienza”. Parla di traguardo da raggiungere, di ostacoli che non fermano la corsa di un’atleta. Eppure, nella vita di uno sportivo la squalifica per irregolarità è la peggiore delle vergogne. Lo sa, Sefi. Ma conclude così: “Guadagno meno di prima e vivo peggio, però faccio un lavoro bellissimo”. Promette di assumersi tutte le responsabilità e di pagare quello che deve con gli interessi. Intanto la Procura della Repubblica di Ravenna sta valutando il caso, per decidere se nella vicenda ci sono profili di reato.

La Stampa 22.6.13
Governo. Ministro nella bufera
Idem, ora spunta l’assunzione sospetta
Un lavoro dal marito quando era assessore a Ravenna
Un consigliere: l’ha fatto per i contributi dal Comune
di Raphael Zanotti


Il municipio avrebbe versato 8642 euro per il periodo che è rimasta in carica
Il contratto sarebbe stato rescisso subito dopo le dimissioni da assessore allo Sport

Quando arrivi a Ravenna, città del ministro Josefa Idem, puoi imbatterti nello striscione che Forza Nuova ha appeso sotto la sede del Pd: «In Germania si sarebbe dimessa, in Italia Idem? ». Oppure nell’uomo al bar che rivendica la statura dell’illustre cittadina: «Sta facendo bene la nostra Sefi, questa è tutta una speculazione politica». Una città spaccata. Lo senti nell’aria. E lo capisci dalle dichiarazioni dei politici. Quando Alberto Pagani, l’altro onorevole di Ravenna, collega del Pd, arriva a chiedere al ministro di chiarire, e al più presto, significa che anche il partito quell’aria l’ha fiutata e si sta riposizionando.
Lei, il ministro, è intanto costretta a scartare. Paradossale per lei, allenata a far muovere la prua di pochi centimetri per non perdere la linea migliore sull’acqua. Ieri, impegnata a Reggio Emilia in un incontro sulle donne, si nega alla domanda dei giornalisti sulle sue eventuali dimissioni. Poi arriva una scossa di terremoto. La sala nella quale sta parlando viene evacuata. E da allora il ministro si fa di nebbia. Tornata nella sua Ravenna? Se è così, qui è arrivata la seconda scossa. Politica.
Un consigliere comunale di opposizione, Alvaro Ancisi, scopre un’altra magagna: nel periodo in cui il ministro era assessore allo Sport del Comune di Ravenna, il marito Guglielmo Guerrini l’aveva assunta come unico dipendente dell’associazione dilettantistica che presiede. Motivo: il Comune, così, le ha versato i contributi previdenziali per tutto il periodo dell’incarico. Esattamente 8.642 euro per 183 giorni lavorativi, dal 10 giugno 2006 al 7 maggio 2007, giorno in cui, per ragioni familiari e per prepararsi meglio alle Olimpiadi di Pechino, l’assessore oggi ministro si dimette. Dal giorno dopo, niente più incarico da assessore e nessun altro versamento. Evidentemente all’associazione dilettantistica Canoa Kayak Standiana non avevano più bisogno di una dipendente e il marito l’ha mandata via.
La coincidenza, ovviamente, è succosa. Si chiede al sindaco di mandare le carte in Procura per i necessari approfondimenti. Procura che, proprio ieri, ha ricevuto le prime carte sul caso Idem: gli esiti delle ispezioni dell’ufficio tributi e dell’ufficio edilizia che hanno accertato una serie di irregolarità edilizie nella casa-palestra di carraia Bezzi 104 dove il ministro risultava risiedere, garantendosi così l’esenzione dall’Ici tra il 2008 e il 2011.
Ancora una volta sembra essere l’associazione Standiana a mettere nei guai l’adorata Sefi. E più si scava in questa direzione, più gli aspetti familiar-professionali s’intrecciano. La Standiana risulta aver collezionato sette tessere nell’ultimo anno. Tre sono a nome del marito, Guglielmo Guerrini, una del fratello di quest’ultimo, Gianni. Che vive, manco a dirlo, in carraia Bezzi 102, la villetta accanto alla famigerata casa-palestra e, fino al 2003, anche sede dell’associazione Standiana.
Oggi, il ministro, per spiegare questo groviglio, invoca la sua buona fede. Spiega che la casa in carraia Bezzi 104 è sempre stata la palestra personale nella quale si allenava «come un professore ha la sua biblioteca». Dice che, dovendo affrontare una dura preparazione atletica, ha lasciato ad altri, a tecnici di sua fiducia, la gestione burocratica della sua vita. Comprensibilissimo, visti i risultati agonistici. Ma in quella palestra personale è stata impiantata un’attività commerciale. E dal 2008, stando alle foto di Google Street. Andrea Alberizia, giornalista di una testata locale, ha fatto un bel colpo: «Mercoledì scorso ho chiamato uno dei numeri indicati nella pagina Facebook della palestra Ja Jo Gym (quella con sede in carraia Bezzi 104, ndr) chiedendo di potermi iscrivere. Mi hanno risposto che l’attività costava 60 euro al mese, ma che probabilmente in luglio sarebbero riusciti a mantenere la promozione a 45 euro. Non mi hanno chiesto alcuna iscrizione ad alcuna associazione sportiva». Non tutti i professori si mettono ad affittare i libri della propria biblioteca.
Dalle carte del Comune di Ravenna risulta che possibili autori degli illeciti riscontrati sarebbero la proprietà. Josefa Idem, e l’affittuario/gestore della palestra, l’Asd Motori e Sports di Maurizio Patanè. Ma esiste questo contratto d’affitto? E da chi è stato stipulato? Dalla proprietà o dalla sempre presente associazione dilettantistica Standiana del marito Guerrini? E se al Comune di Ravenna non risultava esserci alcuna palestra in quell’edificio, essendo accatastato come abitazione principale, a che titolo veniva pagato un affitto annuale, a detta dello stesso ministro, di 600 euro annuali? Domande a cui, probabilmente, il ministro dovrebbe rispondere per chiarire. Come suggerito dal collega di partito Pagani. Intanto Patanè è sparito, il ministro fatica a rispondere e il marito Guerrini è stato «blindato» dall’avvocato che si sta occupando della faccenda, Luca Di Raimondo. Il quale, ieri, è arrivato a Ravenna. Probabilmente per prendere in mano la situazione. Un nuovo tecnico per gestire un po’ di burocrazia della vita del ministro olimpionico.

l’Unità 22.6.13
Renzi prepara il suo piano «Un partito stile Blair»
Ha spiegato in un’intervista ieri al Foglio:
«Sono pronto, sto già lavorando, ho un piano, sto preparando un documento, e mi affascina l’idea di poter fare nel Pd quello che Tony Blair fece nel 1994 con il New labour»

nelle edicole

La Stampa 22.6.13
Pd senza pace Solo il sindaco unisce tutti (contro di lui)
di Marcello Sorgi


Nel Pd senza pace che si prepara al congresso, ogni giorno si annunciano accordi nuovi, che durano lo spazio di un mattino. L’asse Letta-Renzi che doveva consolidare il ricambio generazionale (la parola «rottamazione» è stata abolita perfino dal suo fortunato inventore) s’è infranto sul nascere, perché una parte del partito (Fioroni) punta a spendere tutte le proprie energie per un consolidamento del governo attuale, se del caso proponendo il presidente del Consiglio anche come candidato alla segreteria. L’asse Renzi-D’Alema, il più impensabile, dato che l’ex-presidente del Consiglio è stato il primo a cadere nella campagna per le primarie del sindaco di Firenze, sembrava un po’ più solido, ma poi s’è rotto di fronte alla candidatura, che D’Alema sosterrà, di Gianni Cuperlo alla segreteria, e alla mediazione, che sempre D’Alema ha esercitato nell’ultima direzione, sul problema della divisione di incarichi tra partito e governo. L’asse Renzi-Veltroni, che sarebbe più naturale, ancorché il fondatore del Pd sia stato un’altra delle vittime, sembra sempre che stia per nascere e non nasce mai. L’asse EpifaniBersani vacilla perché il nuovo segretario non ne vuol sentire di ricandidarsi e l’ex-leader sa di non poter riproporsi. L’asse Barca-Vendola che mirava a portare il primo alla guida del partito, e il secondo nuovamente dentro i confini del Pd, è naufragato dopo il giro d’Italia nei circoli Democrat dello stesso Barca e la sua tempestiva rinuncia. E prima ancora di discutere se e quanto il partito possa ancora sostenere la difficile esperienza delle larghe intese, contro la quale la base degli iscritti rumoreggia, e soprattutto se e quando sia opportuna una discussione del genere, con il governo in carica che non gode di salute florida, il partito s’è spaccato sulle regole congressuali, sul come far eleggere il nuovo leader (solo dagli iscritti o con una consultazione più ampia?) e sull’atteggiamento da tenere a proposito della possibile dichiarazione di ineleggibilità di Berlusconi, che sarà dibattuta e poi messa ai voti nelle prossime settimane.
Così che l’ennesimo paradosso del Pd è che un partito che non ha timori e non perde occasione di mostrarsi diviso su tutto, su una sola cosa, invece, è concorde: trovare il modo, con le buone o con le cattive, di impedire a Renzi di guidarlo o di correre per il prossimo governo. Alla fine, questo ha capito Renzi. E per questo ha deciso di correre da solo contro tutti.

Corriere 22.6.13
L'assessore di Firenze e il caso escort «Mi hanno distrutto»
In ospedale: ora penso a salute e famiglia
di Giusi Fasano


FIRENZE — Potrebbe anche non dirlo, tanto è evidente. «Sono davvero a pezzi», ripete Massimo Mattei a chiunque lo vada a trovare in ospedale. È lì da giorni, problemi seri al pancreas. Il telefono sempre acceso, la mente sintonizzata su tre fronti in contemporanea: la salute, lo scandalo hard della sua Firenze e la famiglia da proteggere da infinite chiacchiere boccaccesche che lo riguardano. Ogni tanto si sfoga via sms: «Mi hanno distrutto voci e cattiverie», digita in uno dei messaggini spediti in questi giorni amari. «Non so se sono stato ingenuo. Forse come mio solito troppo generoso, che è comunque un difetto...».
L'ex assessore alla Mobilità di Palazzo Vecchio è un uomo all'angolo. «Massacrato», per dirla con le sue parole, dalle carte di un'inchiesta che tira in ballo il suo nome per interposta persona. «Non ne posso più di questo stillicidio di notizie e mezze notizie che mi riguardano», si irrita al telefono con un'amica, «è inaccettabile».
A Firenze sono sotto accusa in quattordici per favoreggiamento della prostituzione. La Procura aveva proposto il carcere per dodici a gennaio: richiesta bocciata. Ci ha riprovato una seconda volta aggiungendo altri due nomi: niente da fare, di nuovo una bocciatura. Quindi sono tutti inquisiti e liberi.
Nell'inchiesta ci sono migliaia di pagine che svelano conversazioni privatissime su richieste, argomenti, accordi sessuali. C'è Adriana, «l'ape regina» delle escort fiorentine, che fra i tanti parla anche con Mattei da un telefono intercettato. Ed ecco fatto. L'assessore renziano che più renziano non si può finisce sulla graticola anche se non è nella lista degli indagati. E si dimette «per motivi di salute». Sul suo conto, si dice, sta germogliando un fascicolo a parte che non ha nulla a che vedere con le serate hard. Ma lo sfondo sessuale tiene comunque banco, resiste alle differenze, arriva nelle case, dalle mogli e dai figli.
Si scopre che a fine 2011 Massimo aveva messo a disposizione di Adriana un appartamento della Borro, cooperativa di cui lui era presidente, gli inquirenti annotano appuntamenti fra i due in quell'appartamento e dagli atti depositati due settimane fa per la chiusura delle indagini risulta ogni parola. Di solito le case della Borro erano per i dipendenti, quella volta fu concessa a lei. «Ma non sapevo né potevo sospettare che lei facesse un altro tipo di lavoro sennò non sarebbe successo», sintetizza lui in una lettera diffusa a scandalo scoppiato. E precisa: «Era un'amica da dieci anni, la conoscevo bene».
«Io all'Adriana, ti sembrerà strano, volevo pure bene. Ho pagato e pagherò questo malinteso», scrive Mattei a un amico via sms. Ma «l'Adriana» oggi è un pensiero in sottofondo. In primo piano ci sono dispiaceri su dispiaceri: «Dal mondo politico mi hanno dimostrato solidarietà ma certa stampa non ha avuto minimamente rispetto», si lamenta sempre via sms. «Sono in un letto d'ospedale e chiunque venendo a trovarmi vede il dolore amplificato da quanto mi sta succedendo».
Con qualcuno, al telefono, capita che il discorso finisca sul sindaco. Negli ambienti politici della città c'è chi è convinto che Matteo Renzi al primo titolo di giornale gli abbia fatto capire che avrebbe gradito le dimissioni, altri invece avrebbero voluto che non lasciasse. Lui su questo argomento tiene il timone dritto sulla diplomazia. «Ho ritenuto giusto andarmene e me ne sono andato. Nessuno mi ha costretto. E la mia lealtà politica verso Renzi non è in discussione, come sa bene anche lui». Fine del discorso.
Dell'inchiesta sulle escort, delle sconcezze diventate chiacchiere e dei personaggi che popolavano questa o quella camera degli alberghi «Mediterraneo» e «Villa Fiesole», non vuole saperne più nulla, figurarsi a discuterne pubblicamente. «Di tutta questa storia non voglio parlare, men che meno con i giornalisti», annuncia a un'amica che lo chiama per chiedergli se lo vuole fare. «Quello che avevo da dire l'ho detto nella lettera che ho diffuso. Io non sto bene e adesso quello che devo fare è concentrarmi su me stesso, nel senso della mia salute». Se sarà mai indagato si vedrà. «Il resto, se c'è un resto, lo affronterò un passo alla volta. In questo momento mi interessa salvare due sole cose: la mia salute e la mia famiglia».

l’Unità 22.6.13
Beppe Grillo, il maestro della guerriglia digitale
di Michele Di Salvo


IL CASO È EMBLEMATICO DELLA DISTANZA (E DEGLI ERRORI) DEI MEDIA TRADIZIONALI NELL’AFFRONTARE LA «DIALETTICA» NELL’EPOCA DELLA COSIDDETTA «GUERRIGLIA DIGITALE». l’Unità ha fatto un titolo forte  uno di quei titoli secchi quasi fossero hashtag  in cui eviden ziava come una certa azione dei parlamentari a 5 Stel le di fatto creava un problema anche su misure a favo re delle popolazioni vittime dei terremoti. Si può discu tere o meno, ma tant’è. E del resto titoli decisamente «forti» sono da sempre quelli di Libero, del Giornale, per non parlare del Fatto Quotidiano. Cosa ha di anoma lo questo titolo? Nulla, se non che  come è del tutto evidente dai commenti e dalla straordinaria attenzio ne che Grillo mostra verso questo giornale  nella ricer ca di espansione del suo «ambiente internet» il sito de l’Unità è tra i suoi primi cinque sitibersaglio, ossia quei luoghi di cui e in cui parlare per attingere traffico.
La replica di Grillo a questo titolo è stata semplice,
quanto banale: postare la ricevuta di un bonifico e dire «l’Unità fa schifo», una parola d’ordine diventata hashtag (per la verità poco o per nulla seguito) e un minipost. La scelta è perfetta per non portare traffico al sito del giornale, finanche il link alla prima pagina non è diretto, ma alla rassegna de IlPost (gruppo Ban zai, che mette sempre tra i «blog del giorno in eviden za» proprio quello di Grillo). E tuttavia le notizie di erano due: c’era quella sul decreto, ma anche quella sul fatto che mentre il M5S affermava che le assunzio ni sarebbero state fatte su base di merito e curri culum, questo è stato concretamente fatto solo in 4 casi su 400! Ed è questo che a Grillo non è andato giù. Ed ha risolto (secondo lui) tutto semplicemente dicen do che l’Unità fa schifo e, come sempre, non commen tando, non replicando, non entrando nel merito.
l’Unità, media tradizionale che gestisce il suo porta le come un media tradizionale, in maniera decisamen te sobria, riprende la notizia dell’attacco ricevuto, e riporta, pari pari, il contenutospot proposto da Gril lo. È questo quello che fa un giornale, riprende e rilan cia una notizia. A questo punto piovono commenti pentastellati, commenti di pari contenuti e forma di quelli postati sul blog di Grillo. Ecco cos’è «guerriglia web», ed ecco come si guadagna pubblico, e si fa in modo che un sito, teoricamente tuo antagonista, ti dia spazio e rilanci il tuo messaggio. Ed in più ottieni an che il risultato di portare avanti  su un sito altrui  la tua tesi secondo cui sei ingiustamente vittima di un attacco. E tutto questo praticamente gratis.
Se però l’Unità non fosse un giornale serio, e non fosse una testata registrata, con professionisti iscritti all’ordine e soggetti (giustamente) a un codice etico (ordine e codice che Grillo non riconosce e vuole aboli re) potrebbe replicare che Grillo fa schifo perché men te, perché ha falsificato lettere mai ricevute dal Papa e dal presidente Cinese, per le mille frottole su scie chi miche, biowashball, cellularimicroonde, nobel autori del suo programma e così via, e lo farebbe senza linka re nulla al blog di Grillo, ma semmai rilanciando altri siti e blog di «autori amici», come fa il blog di Grillo con le news di Travaglio tramite Cadoinpiedi e TzeTze.
Se l’Unità non fosse un giornale serio, ricorderebbe quella strana ambiguità per cui Grillo denunciò Giova nardi per inadempimento dell’articolo 67 della Costi tuzione (così disse, poi non lo fece, come quasi sem pre!) salvo poi dire che era un articolo senza senso e da cambiare quando la fattispecie riguardava i suoi parlamentari. O chiederebbe conto di come mai Grillo chiede ai suoi parlamentari di rinunciare ai rimborsi elettorali (che consentirebbero al movimento di fare politica autonomamente da lui e Casaleggio) e non chiede a Casaleggio (che da sei anni chiude i bilanci della sua azienda con fatturato proveniente da risorse pubbliche) di rinunciare a quei soldi.
Questa vicenda  al di là della polemica in sé  tutta via mostra la distanza tra le testate giornalistiche, i media tradizionali, l’informazione professionale, e l’era della «guerriglia digitale» senza regole, e al di fuori di ogni possibile deontologia. Ed in questo, in termini di numeri e a scapito della qualità dell’infor mazione, i blog alla Grillo hanno tutto da guadagnare.
Ma tutto questo rilancia anche il più ampio tema dell’informazione ai tempi di internet, dello spot per cui qualcuno esalta il fatto che «chiunque può scrivere e creare contenuti» e presenta la rete come l’unica vera fonte di informazione libera, e viene da chiedersi  senza entrare nel merito delle opinioni, della massi ma libertà sui contenuti e senza alcuna censura  se sia davvero ammissibile tutto, anche la menzogna, e qual siasi tipo e genere di forma; in altre parole se tutto ciò che è possibile della anche essere di per sé lecito o legittimo. Se davvero questa è la rete che vogliamo e la dialettica che fa bene al Paese e alla società nel suo complesso.

La Stampa 22.6.13
De Pin: “Non lascio per i soldi. L’aria si era fatta soffocante, voglio pensare con la mia testa”
Paola De Pin, la senatrice veneta uscita dal gruppo del M5S:
“Delusa dal M5S, non me l’aspettavo così”
di Andrea Malaguti

qui

Repubblica 22.6.13
Il retroscena
La senatrice Casaletto e il deputato Zaccagnini potrebbero lasciare
Altri abbandoni sono in arrivo la rabbia degli intransigenti “Vanno via per tenersi i soldi”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — «Non è un fulmine a ciel sereno. È arrivato il momento di restituire i soldi, chi se ne vuole andare vada». Roberto Fico non nasconde l’esasperazione davanti alla domanda sull’addio della senatrice Paola De Pin. È furioso con la stampa, per non aver spiegato il punto di vista dei 5 stelle nella battaglia contro il decreto emergenze. Vuole concentrarsi su quello, sul lavoro, e non pensare a chi potrebbe lasciare, ancora, il Movimento. Ma gli ortodossi di Camera e Senato stanno in realtà cercando di capire chi dei cosiddetti “dissidenti” è già pronto ad andare via, e chi è invece “recuperabile”, come ha iniziato a sperare perfino Beppe Grillo.
Non è un caso che il capo politico dei 5 stelle stia continuando a chiamare deputati e senatori per cercare di rasserenare gli animi. E che abbia deciso di venire a Roma già la prossima settimana, appuntamento che stavolta non dovrebbe saltare e cui potrebbe partecipare anche Gianroberto Casaleggio. Da una parte, la data di martedì è lo spartiacque ideale: ieri deputati e senatori hanno ricevuto un’email con l’iban del fondo al quale restituire i soldi. Entro martedì, dovranno far confluire lì la parte eccedente lo stipendio che si sono impegnati a ricevere (5mila euro lordi, circa 3mila netti, su 10mila) e quel che non hanno speso dei rimborsi percepiti (che tra diaria, spese per l’esercizio del mandato, taxi e telefono superano gli 8mila euro al mese). Il tutto rendicontato voce per voce (nei file excel che neigiorni scorsi i parlamentari studiavano compulsivamente sono compresi titoli come: affitto, caparra, agenzia immobiliare, lavanderia, baby sitting, vestiti). «Sarà la Rete a decidere se non va bene quello che spendi», rispondono in coro a chi chiede loro cosa sia ammesso e cosa no.
«Chi se ne va adesso lo fa pernon restituire», è la linea che filtra dalla comunicazione, che però comincia a temere le dimensioni dell’emorragia. «Da una parte è meglio che chi non vuole rispettare le regole vada via subito, che non continui lo stillicidio quotidiano - è il ragionamento - ma certo, se fossero in tanti il problema sarebbe difficile da gestire. Èper questo che Grillo è preoccupato ».
Gli ortodossi - che tengono d’occhio «i prossimi» - hanno messo sotto osservazione la senatrice lombarda Monica Casaletto e il deputato Adriano Zaccagnini. Perché molti degli altri dialoganti si sono attestati su una linea più attendista. «Voglio credere a questa tregua», dice Tancredi Turco mentre mangia un panino insieme a Tommaso Currò. «Il fatto che la De Pin abbia lasciatodimostra che le epurazioni non servono, chi se ne vuole andare va via da solo. Io combatto da dentro ». Il catanese annuisce, dopo la telefonata di Grillo lavora per la pacificazione. E anche la sarda Paola Pinna, pur non convinta della modalità della restituzione dei soldi, non intende mancare l’appuntamento di martedì nédare alibi a chi vuole mandarla via. Il più inquieto è proprio Zaccagnini. Ne fa una questione di democrazia, «l’epurazione della Gambaro è stata assurda, antidemocratica, capisco che la De Pin abbia deciso di lasciare, sapevo che aveva avuto dei problemi a livello locale». Quanto a lui, «ho cercato di fare un appello che non è stato recepito, avevo chiesto ai talebani di cambiare loro per primi i toni, ma è chiaro che non vogliono. Dai messaggi che leggo in chat stanno solo aspettando il momento della diaria. Questa tregua è fittizia, hanno solo paura che le percentuali in favore delle espulsioni precipitino ancora ». Ce l’ha con quanto successo ieri in aula, Zaccagnini: «Di Battista ha risposto a un intervento del Pd con toni da talebano, parlando a nome di tutti. Di Stefano ha dato del “leccaculo” a un deputato di Sel. In Parlamento non possiamo usare i toni che Grillo usa fuori. Io non mi ci riconosco». Anche per questo, gli ortodossi credono che «volerà via» a inizio settimana. Ma lui ribatte: «Il fatto che sia a disagio, non vuol dire che esca lunedì».
il Fatto 22.6.13
JP Morgan
“Troppa democrazia. E la crisi resta”
di Luca Pisapia


Milano Il più grande ostacolo alle diffusione delle politiche liberiste di austerity nell’Europa meridionale sono le Carte costituzionali, nate dalla resistenza e dall’antifascismo, che impediscono le necessarie riforme strutturali perché tutelano troppo i lavoratori, dando loro addirittura “licenza di protestare”. Per questo bisogna sbarazzarsene al più presto. Lo scrive in un rapporto datato 28 maggio 2013 il colosso finanziario statunitense Jp Morgan: una di quelle società formalmente denunciate nel 2012 dal governo federale americano come responsabile della crisi dei subprime del 2008. Dal suo ufficio londinese Malcolm Barr, uno dei principali estensori del documento di JP Morgan, preferisce non rilasciare dichiarazioni, ma conferma tutto quanto è scritto a pagina 12 e 13 del documento. Si comincia con l’analisi delle difficoltà d’integrazione degli Stati meridionali dell’Eurozona: “Quando la crisi è iniziata era diffusa l'idea che questi limiti intrinseci (all’attuazione delle politiche di austerity, ndr) avessero natura prettamente economica (…) Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei Paesi del sud, e in particolare le loro Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell'area europea”. Poi, detto che le politiche neoliberiste non riescono ad avere mano libera per ostacoli di natura politica, gli autori cercano la radice di questi problemi, e la individuano nelle Costituzioni antifasciste, impregnate di socialismo: “I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell'esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo”. Infine, ecco centrato l’obiettivo: “I sistemi politici e costituzionali del sud presentano le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei Parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; (…) la licenza di protestare se sono proposte modifiche sgradite dello status quo (…) Vi è una crescente consapevolezza della portata di questo problema, sia nel centro che nella periferia dell'Europa”.
Il documento di Jp Morgan ha ovviamente sollevato molte polemiche, secondo diversi analisti per la prima volta è stata infatti scritta nero su bianco la vera strategia con cui la finanza mondiale vuole imporsi nei paesi dell’Eurozona: la dismissione delle Costituzioni antifasciste, e delle tutele che le Carte costituzionali garantiscono in materia di lavoro.

l’Unità 22.6.13
Se J.P. Morgan vuol cambiare la Costituzione
di Cesare Salvi


PURTROPPO IL FASCISMO È CADUTO, C’È STATA LA RESISTENZA, LIBERE ELEZIONI E L’ITALIA È DIVENTATA UNA REPUBBLICA DEMO CRATICA fondata sul lavoro. Malaugurata mente qualcosa di simile è accaduto negli anni Settanta negli altri Paesi mediterranei. Anche Spagna, Portogallo e Grecia si sono dati Costituzioni «segnate dall’esperienza delle dittature».
Questi giudizi sono contenuti nel docu mento del 28 maggio 2013 del thinktank della J.P.Morgan, una delle due più potenti banche private del mondo. Secondo questo documento la presenza di Costituzioni che «mostrano una forte influenza delle idee so cialiste» costituisce il maggior ostacolo all’integrazione dei Paesi del Sud nell’area europea. Pensate che in questi Paesi sono previste «tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori» e «la licenza (sic) di protestare se vengono proposte sgradite modifiche del lo status quo». Gli esecutivi sono stati così «limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)».
Solo il Wall Street Journal ha pubblicato il testo, il Financial Times ne ha accennato senza entrare nei dettagli, ora lo si trova nei siti. Al documento, che esprime quello che l’élite finanziaria internazionale pensa dav vero, non si è voluto dare troppo rilievo. Ma esso esprime un dato purtroppo reale e in atto, che parte da lontano. Già negli anni Settanta la Trilaterale aveva pubblicato un rapporto nel quale si denunciava l’eccesso di democrazia. E oggi assistiamo al progres sivo svuotamento dei poteri dello Stato na zionale, che incontra però il limite delle Co stituzioni. Queste sono quindi diventate il nemico da abbattere.
È bene ricordare ai consulenti della gran de finanza che l’orientamento costituziona le espresso nei testi da loro citati è comune a tutti i Paesi dell’Occidente nella fase stori ca definita «l’Età dell’oro» da Hobsbawm. La Costituzione tedesca del 1947 (anche lì «purtroppo» non c’era più il Nazismo) è mol to simile a quella dei Paesi mediterranei: c’è scritto che «la proprietà obbliga», e il princi pio dello stato sociale è sancito, ed è stato dichiarato immodificabile dalla Corte costi tuzionale di quel Paese. Negli Stati Uniti, la Corte suprema approvò le leggi sociali del New Deal e poi le garanzie dei diritti civili. Per merito di queste Costituzioni, l’Età dell’Oro fu segnata da un progresso che fu insieme economico, sociale e di civiltà dei diritti. In Italia abbiamo avuto il miracolo economico, il divorzio e il nuovo diritto di famiglia, lo stato sociale, lo Statuto dei lavo ratori. Era l’epoca del compromesso tra ca pitale e lavoro. Conflitto politico e sociale, e poi sintesi. Ma successivamente, come ha detto il miliardario americano Warren Buffet,«la lotta di classe l’abbiamo vinta noi». Oggi il problema, ci dicono da J.P. Mor gan, è la democrazia. Si delinea quello che è stato definito «l’autoritarismo liberista», che ha le sue radici nell’ultima fase della Germania di Weimar. La storia non si ripe te mai nello stesso modo, ma resta maestra di vita.
Oggi si discute della riforma della Costituzione italiana. Per fortuna, per ora nessuno ne mette in discussione la prima parte, quel la dove sono le norme che turbano i banchie ri di Wall Street e non solo loro.
Ma al di là del legittimo dibattito tra con servatori e innovatori, bisogna cominciare a chiedersi se non è venuto il momento di prendere sul serio ciò che in quella prima parte è scritto. Per esempio che il lavoro è un diritto di tutti, che la Repubblica deve promuovere le condizioni per renderlo ef fettivo, che il lavoratore ha diritto ha una retribuzione sufficiente a una esistenza libe ra e dignitosa. Si diceva un tempo: politiche per la piena e buona occupazione.

Repubblica 22.6.13
L’amaca
di Michele Serra


Lo sapevate che includere “i diritti dei lavoratori tra le tutele costituzionali” è di grave detrimento all’economia?
Che i Paesi dell’Europa meridionale patiscono le nefaste conseguenze “delle idee socialiste”? E addirittura concedono “licenza di protestare” alle categorie sociali che si ritengono lese nei loro interessi? Se non lo sapevate, ve lo spiega un prezioso documento di analisi politica della banca d’affari JPMorgan (celebre anche tra i non addetti dopo la catastrofe finanziaria del 2008), che pare concepito apposta per alimentare le più fosche paranoie dei nemici di Wall Street, quelli che vedono complotti tecno-pluto-giudaico-massonici dietro ogni stormir di foglie.
Mettiamola così: il documento di JPMorgan (vedi Repubblica di ieri, pagina 2), quanto a ottusità ideologica, è speculare alle più puerili sortite anti-sistema. Basterebbe uno studente di liceo appena sveglio per mettere in ridicolo la teoria dell’Europa mediterranea prigioniera di pregiudizi “socialisti” e zavorrata da Costituzioni che si impicciano dei diritti di chi lavora. L’obiezione ovvia è che sono cento volte più “socialiste” le democrazie del Nord Europa: ma non sembrano patirne troppo. JPMorgan si ripresenti più preparata alla prossima sessione d’esami.

il Fatto 22.6.13
Marino impantanato, la giunta è un rebus
Sindaco in apnea tra no tecnici e pressing dei partiti
Prima lista attesa domani
di Luca De Carolis


Spiazzato, dai no dei tecnici che aveva scelto. Impantanato, in mezzo alle pretese e ai veti incrociati dei partiti. Per il neo sindaco di Roma, Ignazio Marino, la giunta è ancora un rebus. Una partita maledettamente complicata, nonostante quel 64 per cento con cui nel ballottaggio aveva travolto Alemanno, 12 giorni fa. Prima delle urne, Marino aveva promesso una squadra imperniata sulmerito “enon sulle indicazioni dei partiti”. Tanto da esortare: “Inviatemi i vostri curricula”. Ma dopo lo champagne, il chirurgo ha cozzato contro la realtà. Seminata di ostacoli, dalle pressioni dei capicorrente, sino al passo indietro dei nomi che voleva per una giunta di alto profilo. E così al 22 giugno la giunta è ancora piena di caselle vuote. Mentre l’orologio corre veloce: dalla sua proclamazione (il 12 giugno) il sindaco di Roma ha 20 giorni di tempo per scegliere i 12 assessori. In testa Marino aveva uno schema chiaro: squadra con il 50 per cento di donne, vicesindaco incluso, e metà tecnici. Massimo sei posti ai partiti, di cui tre al Pd e uno a Sel. Per farcela, avrebbe dovuto chiudere in fretta, perché i tempi lunghi alimentano richieste e mal di pancia. È andata diversamente, perché gli sono saltati i punti fermi. Come Giovanni Legnini, deputato Pd e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Marino lo voleva come assessore al Bilancio: la poltrona più pesante, nella Roma gravata da un bilancio in rosso e da miliardi di debiti. Legnini è stato da subito scettico. Dopo il suo primo no, per convincerlo si è mosso anche il segretario del Pd Epifani, ma non è bastato. “Non ho ritenuto di privare l’Abruzzo, la mia regione, dell’unica rappresentanza di governo, nè di ipotizzare il cumulo di incarichi” ha spiegato. Ha detto no anche Marino Sinibaldi, direttore di Rai 3, per cui era pronta la Cultura. Eugenio Patanè, presidente Pd Roma, sostiene: “È ovvio che si cerchi il meglio, ma quando al meglio offri delle responsabilità a cui non segue un’adeguata retribuzione economica, solo 3.600 euro al mese, ci pensa due volte a lasciare un incarico dove guadagna quello che vuole ed ha responsabilità cento volte inferiori”.
PER IL BILANCIO ora si cerca un parlamentare o un tecnico del ministero del-l’Economia. Per l’Urbanistica, in corsa Giovanni Caudo, docente a Roma 3, e l’architetto Daniel Modigliani. Su Caudo peserebbero i dubbi di parte del Pd, che lo ritiene “troppo ambientalista”. Poi c’è il corpo a corpo con i partiti. Infuriata Sel, che ieri su Repubblica ha fatto trapelare di essere “pronta a non entrare in giunta”. Il partito di Vendola vuole il vicesindaco e due assessori. Ma l’incontro di giovedì con il sindaco è andato male. L’unico certo del posto è il consigliere comunale Luigi Nieri. Il Pd invece si aspettava una proposta di Marino tra giovedì e venerdì. “Ma non è ancora arrivata” precisava ieri la renziana Valentina Grippo, a margine della riunione degli eletti dem. ll segretario del Pd Lazio, Enrico Gasbarra: “Nessun nome ci è stato chiesto dal sindaco e nessun nome gli abbiamo proposto, aspettiamo comunicazioni”. Gli spifferi danno come quasi certe in giunta Michela Di Biase, compagna di Dario Franceschini, e la renziana Estella Marino. Probabili anche gli zingarettiani Paolo Masini ed Enzo Foschi. Avrà un ruolo anche Mirko Coratti (Popolari). Come capogruppo, favorito Francesco D’Ausilio. Ieri in Comune delegazione di Centro democratico: vorrebbero un assessorato per Barbara Contini. Come se la caverà Marino? Un uomo vicino al sindaco definisce “del tutto false le indiscrezioni pubblicate”. Si parla di una prima lista di nomi che verrà consegnata ai partiti entro domani. Uno schema suscettibile di modifiche. La giunta completa dovrebbe essere varata entro martedì. Ma il rischio è quello di una squadra da manuale Cencelli: molto distante dalle promesse da campagna elettorale.

l’Unità 22.6.13
Il popolo del futébol non vive di solo calcio
di Darwin Pastorin


NON MOLLERANNO. NON SMETTERANNO. HANNO PRESO A SPUTI PERSINO IL TOTEM DEL PALLONE, non è più tempo di futébol e allegria.
«Copa para quem?», Coppa per chi? A cosa servono Confederations Cup e Mondiale, per non parlare delle Olimpiadi, se il Brasile, dopo il Grande Sogno di Lula e, in parte, di Dilma, si trova ora alle prese con una crisi economica che mette paura e la gente non vuole stadi, ma Salute e Istruzione? Non ci sono soltanto i poveri in piazza, c’è anche quella media borghesia che, grazie alla sinistra al potere, aveva trovato un nuovo benessere. Che si sentiva inserita in un contesto sociofinanziario finalmente all’altezza delle nazioni più ricche, poteva guardare gli Usa non più dal «cortile», ma dai piani alti. Poi, è cominciato il crollo: e la scintilla, come spesso accade, è scoccata per un lieve aumento dei prezzi dei trasporti pubblici a San Paolo. Quella piccola onda è diventata, oggi, un oceano di protesta, di rabbia lacerante, anche di violenza: da San Paolo a Rio de Janeiro, da Belem a Ribeirao Preto, da Brasilia a Salvador a Porto Alegre il «movimento» continua a crescere. La Fifa sostiene che questa Confederations non è a rischio (e ogggi si gioca ItaliaBrasile... ), ma la Coppa del prossimo anno potrebbe saltare: per motivi di sicurezza, le nazionali hanno paura, non si sentono protette, i giocatori ormai non escono più dagli alberghi. Certo, ora dipende tutto da Dilma Rousseff, l’ex guerrigliera che sfidò, guardandoli negli occhi, i criminali in divisa che, durante gli anni bui della dittatura, la condannarono, e la torturarono, dopo un processo farsa: la presidentessa deve intervenire, dare risposte alle accuse di corruzione di alcuni membri del suo governo, di certe sue presunte «spese folli» in occasione dei viaggi di rappresentanza; deve ritornare a parlare al cuore della gente, riprendere in mano il lavoro cominciato da Lula, l’ex operaio metallurgico, leader del Partito dei Lavoratori (chiamato PT, Partido dos Trabalhadores), capace di dare una
svolta a sinistra, quel cambio di rotta forte e orgoglioso: più che gli impianti sportivi faraonici interessa il progetto Fame Zero da portare a termine, conta non perdere i posti di lavoro, dare agli studenti il futuro. Nel 1984, Lula e Dilma furono tra i protagonisti della prima, grande rivolta civile. Era la stagione del movimento Diretas Jà per l’elezione diretta del presidente della Repubblica (che diventò Tancredo Neves dopo la lunga dittatura militare), il 16 aprile di quell’anno scesero in strada, a San Paolo, da Praça da Sé fino a Vale do Anhangabaù, millecinquecento persone. Mai visto niente di simile. Fino a questi giorni. Non solo la capitale paulista, ma tutte le altre grandi metropoli, e non solo: i paesi, i sobborghi, le zone aride. Tutti uniti da una «indignazione» che non ha colore, infatti la gente marcia urlando «Senza Partiti!». Un brutto colpo per il PT, rimasto troppo «disattento», incapace di cogliere gli umori della nazione. Si è chiuso nei palazzi di vetro perdendo di vista la realtà del quotidiano, il disagio, sì quel profondo e lacerante senso di disagio. Nell’84 protagonisti divennero anche i giocatori, soprattutto quelli del Corinthians, con in testa il dottor Socrates: fu proprio la «democrazia corinthiana», il tentativo di autogestione da parte di una squadra di calcio, a dare inizio alle rivolte, pugno chiuso e sulle magliette l’invito ad andare a votare. La storia non è cambiata: adesso, grazie ai social network, calciatori come il fuoriclasse Neymar, l’attaccante Hulk, Dani Alves e David Luiz twittano a sostegno di manifestanti. A fare una brutta figura è stato Pelé, sempre più «posterdipelé», che ha dichiarato: «Per favore, dimentichiamo la confusione che c’è nel nostro Paese e pensiamo soltanto alla Seleçao, che è il nostro sangue, la nostra vita». Apriti cielo! Il Mito è stato duramente criticato, soprattutto da un altro ex campione, Romario, nelle vesti di deputato del Parlamento nelle file del Partito Socialista: «Pelé dice solo delle enormi bestialità, è un poeta soltanto quando sta zitto. Io sono orgoglioso della mia gente. Avanti così!».
No, non c’è pace per Dilma. Tutto è nelle sue mani, non solo il mondiale, ma qualcosa di molto più importante: la serenità, fatta di certezze e di avvenire, di tutto un popolo.

l’Unità 22.6.13
Fabio Porta. Parlamentare Pd eletto nella circoscrizione America meridionale:
«Questo movimento non è un ritorno al passato»
«Quei giovani chiedono di fare di più e più in fretta»
di Umberto De Giovannangeli


«In Brasile quanti sono scesi in piazza non chiedono un ritorno al passato e non mettono in discussione i risultati ottenuti dai governi progressisti a gui da Pt (Partido dos Trabalhadores). Ciò che si chiede è una maggiore coerenza e determinazione rispetto agli obiettivi di politica sociale ed economica che quegli stessi governi si sono dati nel corso di questi anni». A sostenerlo è Fa bio Porta, deputato del Pd eletto nella circoscrizione dell’America meridiona le, profondo conoscitore della realtà brasiliana, dove Porta continua a risie dere (a San Paolo).
Un milione in piazza in Brasile. Quale let tura politica è possibile dare di questa rivolta?
«Si tratta di una rivolta dai caratteri ri levanti, da prendere molto sul serio. Non è un fuoco di paglia. Non lo è, per le dimensioni che sta assumendo e an che per la sua estensione sociale e geo grafica. Detto questo, starei molto attento a trarre conclusioni affrettate e strumentali di una vicenda ancora in divenire. Le manifestazioni di questi giorni sono l’espressione di una legitti ma richiesta, soprattutto da parte dei giovani, di una maggiore attenzione al le politiche pubbliche e sociali da parte del Governo Federale e dei governi lo cali (statali e municipali). Il Brasile con ferma anche in questo modo di essere una democrazia matura e compiuta, nella quale oltre ad una sana dialettica tra maggioranza e opposizione esiste una forte mobilitazione da parte dell’opinione pubblica e della società ci vile intorno alle principali tematiche politiche ed economiche».
Cos’è il Brasile oggi?
«Il Brasile ha vissuto un fenomeno di grande crescita economica e anche di ridistribuzione delle ricchezze. C’è adesso una nuova classe media che ha tratto beneficio dalle politiche dei go verni a guida Pt. Questa crescita ha pe rò determinato una progressiva lievita zione dei prezzi e del costo della vita, alla quale non ha corrisposto una omo genea e parallela crescita della qualità di servizi di primaria importanza, quali sanità, istruzione, trasporti. La richie sta, in particolare dei giovani, al governo è di fare di più e più in fretta in questa direzione. Dall’altro lato, c’è preoccupazione rispetto agli altissimi investi menti che sono stati fatti per grandi eventi sportivi, in particolare per i Mon diali di calcio del 2014. Ciò che si chie de è un analogo investimento per le po litiche sociali».
Il Brasile che protesta è un Brasile che si sente «orfano» del presidenteoperaio, Luiz Inàcio Lula da Silva? «Indubbiamente Lula aveva una mag giore empatia con la popolazione, men tre il profilo e il carattere dell’attuale presidente, Dilma Rousseff è più fred do e tecnocratico. Le ultime dichiara zioni della presidente lasciano intende re una maggiore volontà di ascolto, al la quale dovrebbero far seguito misure concrete che vadano nella direzione delle richieste dei manifestanti».
C’è chi sostiene che quel milione in piaz za segni la crisi del «modello Pt», porta to di una crisi che non si sa gestire... «Intanto ci sono crisi recessive, come quella che viviamo in Italia, e crisi frut to di una crescita. Insisto su questo pun to: nel caso del Brasile siamo di fronte a una crisi che coincide con una forte espansione economica, che va gestita e resa più equilibrata sul piano sociale, ma ciò che sta avvenendo non segna il tramonto del progressismo brasilia no».
Un progressismo con cui il Pd ha intrec ciato forti rapporti.
«Noi del Partito democratico, da anni presenti in Brasile e storicamente vici ni ai partiti progressisti e alle organiz zazioni dei lavoratori di quel Paese, ci sentiamo particolarmente sensibili al le rivendicazioni di chi chiede maggio ri investimenti sul sociale e un’accele razione sulle politiche di riforma della sanità e della scuola. Siamo vicini e soli dali con chi protesta in maniera pacifi ca e lontani da chi invece invoca sui massmedia la repressione violenta del le manifestazioni da parte delle forze dell’ordine; vicini a chi sa ascoltare la voce della piazza e lontani da chi stru mentalizza politicamente aspirazioni sincere di un’opinione pubblica libera ed eterogenea. D’altro canto, il Brasile è il Paese dove vive la più grande comu nità di italodiscendenti al mondo; è per questo che quanto accade non può lasciarci indifferenti».

La Stampa 22.6.13
La rabbia che il mio Brasile non nasconde più
di Andréa Del Fuego


Andréa del Fuego è autrice di racconti e libri per bambini e giovani. Con il suo romanzo d’esordio, «Fratelli d’acqua» (Feltrinelli), si è aggiudicata il premio José Saramago 2011. Vive a San Paolo e collabora con l’emittente paulista Tv Cultura.

Sono nata nel 1975. Quando ho cominciato a frequentare le elementari, nel 1981, in Brasile c’era ancora la dittatura militare. A scuola si soffriva molto per questo, anche se erano ormai gli ultimi effetti residuali, «figli» del golpe del 1964. Ricordo per esempio il fatto che ci facessero cantare l’inno nazionale a squarciagola, tutti in fila come soldatini, nel cortile d’ingresso, prima di cominciare le lezioni. Ogni mattina, di ogni settimana per tutto l’anno. Oppure le interminabili lezioni di Educazione civica, una materia che aveva come unico obiettivo, in realtà, non quello di creare una coscienza civile ma piuttosto quello di inculcare nelle teste dei bambini una modo di pensare totalmente a destra, in perfetto allineamento con quelli che erano i principi della dittatura. Il mio professore, però, era un’altra cosa. Già avanti con gli anni ci inondava di libertà. Rammento che, quando entrava in classe, il suo primo gesto era quello di aprire una porta della nostra classe che affacciava su un giardino. Poi si sedeva, dispiegando il giornale e ci diceva «fate quello che volete». Io non mi rendevo conto e non capivo perché non ci desse le lezioni di Educazione civica. Eppure in quel modo tutto speciale il mio professore stava protestando regalandoci una grande lezione di resistenza. Contro la dittatura del pensiero unico. Ma veniamo adesso ai fatti del 2013. Sono passati quasi quarant’anni da allora. Oggi sono madre - ho un figlio di poco più di un anno - e a differenza della maggiore parte delle donne brasiliane non ho la tata. Il che mi ha costretto a seguire tutte le manifestazioni dal divano di casa mia. Vi confesso, anche una cosa: non pensavo, all’inizio delle proteste, che sarebbero cresciute a tal punto. E come me credo che l’intero Paese sia stato sorpreso.
Dove era nascosta tutta questa rabbia, questa polvere da sparo che è esplosa? Dov’era prima tutta questa massa di persone insoddisfatte, scontente non tanto per l’aumento nei prezzi dei biglietti dei trasporti pubblici – che tra l’altro è stata l’unica rivendicazione chiara sin dall’inizio e, per di più, accolta dalle autorità – ma con la tipica rabbia di chi appartiene ad un certo partito? Perché c’è più rabbia nei confronti di un partito in particolare e non, invece, di altri? Nell’ultima manifestazione qui a San Paolo, quella di giovedì notte, quella che ha riunito in tutto il Brasile oltre un milione di manifestanti, abbiamo assistito all’aggressione fisica contro i militanti della sinistra da parte di chi rivendicava il carattere «apartitico» del movimento. Aggressioni arrivate da «difensori della giustizia» che, nel caso, scendono in piazza per difendere il Paese dalla corruzione, intendendo però quest’ultima come una causa astratta che può includere tutto e il contrario di tutto. Eccetto loro stessi. La corruzione esistente è legata ai corruttori, che hanno nomi e cognomi. Però ho una domanda da fare: perché nessuno ha scritto nulla sinora, neanche un manifesto piccolino chiedendo all’imprenditore X o all’imprenditore Y di vergognarsi e chiedere pubblicamente scusa? Io, dunque, resto in attesa, come facevo da bambina, in attesa che arrivi presto un professore che mi apra di nuovo la porta che dà sul giardino, come a scuola. Spero che sia la presidente Dilma Rousseff, in modo da evitare al mio Brasile un inutile capovolgimento di valori e la totale mancanza di libertà.

Corriere 22.6.13
Un milione di brasiliani in strada. Governo in trincea, due morti
Incubo Confederations Cup, dubbi sulla prossima visita del Papa
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO — Nessuno sa perché è cominciata, né quando finirà. Nessuno soprattutto sa come rispondere alla piazza. Sono già nella storia del Brasile le manifestazioni di questi giorni — a Rio non si erano mai viste 400.000 persone in piazza come giovedì sera, tranne naturalmente nei blocos del Carnevale — mentre si contano le prime vittime, un ragazzo travolto da un’auto a Ribeirão Preto e una netturbina morta per le esalazioni di un lacrimogeno a Belem.
Voluta o meno, la coincidenza temporale tra il risveglio sociale e un evento planetario come la Confederations Cup di calcio sta diventando un incubo per le autorità e il governo di Dilma Rousseff. Nonostante nel torneo tutto si stia svolgendo normalmente — partite e logistica — stanno venendo a galla le diffidenze di un organismo come la Fifa nei confronti del Brasile. Giornali e siti locali hanno rivelato che la cupola del calcio mondiale avrebbe addirittura minacciato di sospendere il torneo, se non fosse stata garantita la sicurezza delle squadre. La Fifa ha smentito. «Mai discusso nulla del genere, chiediamo però che ci garantiscano la sicurezza. Se ce l’hanno con noi, siamo l’obiettivo sbagliato».
Altrettanto fantasiosa appare l’ipotesi che il Brasile possa perdere i Mondiali di calcio del prossimo anno, mentre una preoccupazione concreta è per l’arrivo di papa Francesco, a fine luglio, per la Giornata Mondiale della gioventù. Lo ha ammesso il segretario generale della Presidenza, Gilberto Carvalho. A Salvador intanto, dove oggi si gioca Brasile-Italia, sono stati sospesi vari eventi e la visita della presidente. Agli azzurri è stato chiesto di non allontanarsi dall’hotel. La nostra delegazione è stata descritta come la più preoccupata per la sicurezza, anche perché alcuni giocatori hanno le famiglie al seguito.
Le immagini di ieri mattina (1,2 milioni di persone nelle strade di un centinaio di città) raccontano la gigantesca protesta, folle pacifiche in festa ma anche attacchi pesanti dei teppisti. Si vedono ragazzi e ragazze che allungano fiori ai poliziotti e altri incappucciati che sono riusciti addirittura a dar fuoco all’ingresso del ministero degli Esteri, a Brasilia. I cortei sono lunghi, non troppo rumorosi e colpiscono per l’abbondanza di cartelli scritti a mano, con una buona dose di irriverenza e umorismo. Non ci sono bandiere di partito, o sindacato. La stragrande maggioranza sono giovani tra i 20 e i 25 anni, e la pelle è in prevalenza bianca, il che in Brasile coincide in pratica con la classe media e alta. E poi ci sono sempre i facinorosi. E’ la terza volta che le curve moderniste della capitale Brasilia finiscono sulle tv di tutto il mondo, e sconcerta la facilità con la quale i rivoltosi riescano sempre ad arrivare a obiettivi così strategici. A Rio stavolta il bersaglio è stato il palazzo del Comune, con un bilancio da guerriglia diffusa tutt’intorno. Distrutti 98 semafori, 62 pensiline dei bus, 340 cestini per i rifiuti. Quando una frangia del corteo ha sfiorato le installazioni del Carnevale, al Sambodromo, ha fatto a pezzi tutto quello che era a tiro. I fermati sono però appena una manciata, qualcuno ha precedenti penali. Tutto invece si è svolto tranquillamente a San Paolo, da dove arriva un significativo passo indietro. Il Movimento Passe Livre, quello che ha dato il via a tutta la protesta per il trasporto pubblico, ha deciso che non organizzerà più marce, «a causa dell’infiltrazione di persone e temi di destra», legati agli ultimi incidenti.
Le manifestazioni sono destinate a continuare, moltiplicandosi in città lontane e di piccole dimensioni. Dopo aver cancellato gli aumenti delle tariffe di bus e metrò, in decine di città, le autorità non sembrano avere più risposte immediate da dare. Dilma Rousseff è descritta dai suoi come sconvolta per le dimensioni della protesta e titubante sul da farsi. L’altro giorno è volata a San Paolo per discutere la situazione con il suo predecessore e mentore Lula. Ma anche una vecchia volpe del confronto politico e sociale come l’ex presidente sembra non avere soluzioni facili. Troppo frastagliata è la domanda, troppo difficile indovinare una risposta.

Corriere 22.6.13
Se vacilla anche la religione nazionale del pallone
di Michele Farina


«E’ una grande notizia: da noi il calcio non è più sacro» commenta Fernando Duarte, guru del giornalismo sportivo brasileiro. «Una volta la semplice presenza di giocatori del calibro di Neymar avrebbe placato gli animi della gente. Non è più così». Anzi: lo stesso Neymar, il più pagato gioiello della Seleção, è rimasto impigliato negli striscioni dei manifestanti: «Un’insegnante vale più di Neymar». Tiè. L’attaccante comprato dal Barcellona ha cercato via social network di schierarsi sulla barriera (la barricata) del popolo, ma non ha bucato la Rete. I tempi e i giocatori sono cambiati da quando il cantautore Vinicius de Moraes celebrava Mané Garrincha, l’angelo dalle gambe storte, l’analfabeta (ha scritto Darwin Pastorin) che sapeva interpretare il canto dei passerotti: «La rivoluzione sociale in marcia si ferma meravigliata a vedere il signor Mané palleggiare e poi prosegue il cammino».
La Rivoluzione dell’Aceto (usato contro i lacrimogeni della polizia) non si ferma davanti ai palleggi di Neymar e alle progressioni dell’incredibile Hulk. Sfida i templi del futebol, dal Maracanà allo stadio Garrincha, e alza un’ola di furore quando il segretario generale della Fifa, Jerome Valcke, osa dire che tutto tornerà tranquillo se la squadra verdeoro arriverà alla finale di questa Coppa delle Confederazioni. Ma Valcke si sbaglia perché «il calcio non è più sacro» se la nazionale degli 11 Dei è costretta a «volare» allo stadio di Brasilia anziché prendere il pullman. Il mare di folla che normalmente li osanna adesso alza barricate al loro passaggio. Le marce verso il Parlamento non sono niente di nuovo, scrive il guru Duarte. Le barricate erette sulla strada dove passa la Seleção sono una vera rivoluzione. Una retrocessione inconcepibile nella scala dei simboli nazionali. Come perdere 10 a 0 contro Tahiti.
Se non c’è più religione (del pallone), anche la religione «vera» (il Brasile è il più popoloso Paese cattolico del mondo) giustamente si preoccupa: i vescovi si riuniscono per fare il punto sul prossimo viaggio del Papa. Se Neymar non è più intoccabile, significa che anche il grande regista della Chiesa può beccarsi qualche striscione dai torcedores?
Che onta: altro che le polemiche sulle vuvuzelas in Sudafrica. La Fifa, l’organizzazione del calcio mondiale, ieri è stata costretta a smentire le voci di una sospensione del torneo in corso e addirittura i dubbi su una possibile cancellazione della Coppa del Mondo da 13 miliardi di dollari prevista per l’anno prossimo. Qualcuno in Brasile fa balenare l’oltraggioso paragone con il caso della Colombia, che si vide cancellare i Mondiali del 1986 (poi giocati in Messico) per questioni di sicurezza. Inimmaginabile: la Coppa che emigra magari nella vicina, odiata Argentina della pulce Leo Messi? Per i brasiliani sarebbe peggio che uscire dai Bric, la squadra dei Paesi rivelazione in economia. O forse no? Il presidente della Fifa Sepp Blatter, prima di partire alla volta della turbolenta Turchia (che fortunatamente per lui non ha in programma tornei internazionali) ha chiesto ai manifestanti di «non strumentalizzare il calcio». Il futebol uno «strumento»? Quale eresia: per milioni di brasiliani il calcio è sempre stato un fine più che un mezzo, una magnifica malattia e insieme un potente anestetico contro quello che succedeva fuori dal campo. In fondo, Pelè e compagni trionfavano su Riva e Boninsegna mentre il Paese viveva sotto la cappa della dittatura militare. Nel 1980 il capitano della Seleção era il ribelle Socrates, Dottore di gioco e di democrazia. Sconfitto da Pablito al Mundial spagnolo, Socrates è morto nel 2011. Ci fosse lui oggi in campo al posto di Neymar, la Rivoluzione dell’Aceto avrebbe risparmiato i suoi 11 Dei?

Repubblica 22.6.13
Brasile, un milione di indignados
“Basta calcio, investite su di noi”, è guerra nelle piazze: due morti
La Fifa: “Se la violenza non si ferma Mondiali 2014 a rischio”
di Andrea Sorrentino


SALVADOR DE BAHIA — Al decimo giorno di tumulti, quella che all’inizio era solo una sorprendente mobilitazione popolare, ora si è trasformata in un maremoto. E’ l’intero Brasile che scende in strada e sfila, perché semplicemente non ne può più. Della corruzione dei politici, dei trasporti pubblici che versano in condizioni vergognose, degli stipendi dei dipendenti pubblici e privati, delle scuole, degli ospedali, della violenza urbana. Martedì scorso erano stati 250 mila, ma giovedì sera hanno contato almeno 1 milione e 250 mila persone nelle strade e nelle piazze di tutta la nazione: 14 capitali di Stato e in totale 75 città invase dalla gente. A Rio il picco: in 300 mila sciamano, una avenida dopo l’altra, chiedendo un altro futuro. Sono sfilate per lo più pacifiche ma quasi ovunque sfociano in disordini e scontri ad opera di minoranze violente: la polizia risponde con lacrimogeni, spray urticanti, pallottole di gomma. E’ il caos, ma anche un formidabile risveglio delle coscienze, che fa dire agli inglesi: «In Brasile hanno il coraggio di lottare per i propri diritti, a differenza dell’Inghilterra».
Ma dopo le centinaia di feriti dei giorni scorsi, cadono le prime vite, il che costringe il presidente Dilma Rousseff a riunire il gabinetto di crisi del governo. Due i morti. Il primo è Marcos Delefrate, 18 anni: sta sfilando nelle strade di Ribeirao Preto, stato di San Paolo, quando viene investito da un Suv che compie una manovra spericolata per cercare strada tra la folla di manifestanti. La seconda è Cleonice Vieira de Moraes, 54 anni, netturbina: si rifugia negli uffici della prefettura di Belèm per sfuggire ai disordini, ma rimane soffocata dai gas dei lacrimogeni lanciati dalla polizia e muore per una crisi cardiaca. Ci sono anche 80 feriti nel resto del Brasile, di cui 62 solo a Rio de Janeiro dove ci si scontra a lungo con la Força Nacional de Segurança (i corpi paramilitari antisommossa), dalla sede della prefettura fino in centro ad Avenida Rio Branco, fino a sud, a Largo del Machado. Oltre ai feriti, Rio registra la distruzione di un centinaio di semafori, di una trentina di spartitraffico, di 62 fermatedi autobus. A Brasilia la gente prende d’assalto il Palazzo di Itamaraty, sede del ministero degli Esteri, lancia sassi sulla facciata, appicca fuochi: un manifestante rischia di perdere un occhio. A Vitoria, dove marciano in centomila, viene danneggiato il palazzo di Giustizia. Intanto ieri mattina, undicesimo giorno di tumulti, vengono evacuati due ministeri a Brasilia per un allarme bomba.
Le manifestazioni di piazza erano iniziate per l’aumento di 20 centesimi sul prezzo del biglietto dell’autobus all’inizio di giugno, ma la decisione di revocare i rincari due giorni fa ha alimentato le proteste, anziché frenarle: il popolo ha capito di aver in qualche modo intimidito le istituzioni, e prosegue. Spontaneamente esenza essere ispirato dalle forze politiche: nessuno dei principali partiti è in piazza, né ha ancora preso posizioni chiare. E’ la rivoluzione dell’aceto. «Cerco aceto» è uno degli slogan che girano in rete e sui cartelli: con l’aceto si attenuano le conseguenze dei lacrimogeni, tutti lo usano per difendersi. Intanto il Movimento Passe Livre (Paese Libero) annuncia chesospenderà le marce a San Paolo perché troppi movimenti che non c’entrano niente si stanno unendo, movimenti considerati “fascisti”, come quelli contro l’aborto. Le spese per i futuri Mondiali di calcio hanno fatto deflagrare la protesta: si parla di 11 miliardi di euro in totale. Per questo, nonostante il fatto che i calciatori della Seleçao abbiano appoggiato lemanifestazioni, la gente urla anche «Mondiale no grazie», oppure il gettonatissimo «un professore vale molto più di Neymar» oppure «Dilma, non investire sulla Fifa, investi su di me». Ce n’è ancora, per il presidente, in vertiginoso calo di consensi a 15 mesi dalle elezioni presidenziali: «O povo na rua, Dilma a colpa è sua», se il popolo è in strada la colpa è di Dilma.
Dopo il gabinetto di crisi, durato due ore, il presidente non rilascia dichiarazioni. Sul momento filtra solo che tutti gli avvenimenti in programma rimangono in agenda, e il riferimento è alla Confederations Cup. Si è sparsa la voce che la Fifa abbia minacciato di sospendere le partite, e fonti di stampa raccontano anche di un piano per portare la finale fuori dal Brasile. La stessa Fifa sia il governo smentiscono. Però l’allerta rimane e getta ombre sul futuro, persino sul Mondiale 2014: a Salvador, dove oggi si gioca Italia-Brasile, due pullman di funzionari della Fifa sono stati danneggiati, mentre due tifosi dell’Uruguay capitati in mezzo alla marcia sono stati malmenati. C’è preoccupazione anche per la Giornata mondiale della gioventù, che si terrà dal 23 al 29 luglio prossimi a Rio de Janeiro in occasione della visita di Papa Bergoglio.
Si vivono giorni infuocati, e oggi ricorre il quarantacinquesimo anniversario del «venerdì di sangue », la Bloody Sunday brasiliana: il 22 giugno 1968, durante le proteste studentesche contro la dittatura militare, la polizia uccise 28 persone. Vladimir Palmeira, leader di quella rivolta, oggi approva i nuovi tumulti: «Sono felice. Una società che sembrava morta sta partecipando attivamente alle proteste e chiede un futuro migliore. Ora bisogna andare avanti». La rivoluzione dell’aceto è solo all’inizio.

Repubblica 22.6.13
Panem, non circenses
di Gabriele Romagnoli


LO SPLENDORE della storia sta nel fatto che a un certo punto decide di fregarsene anche di se stessa e cambia corso. Quel che per secoli era valso come legge, diventa un coriandolo.
Gli anestetici si trasformano in eccitanti, i luoghi comuni in piazze dell’inedito. Il motto “Panem et circenses” era scolpito sui templi di ogni sede di potere, ma una folla inattesa ha preso lo scalpello, cancellato le ultime due parole e aggiunto un punto esclamativo: “Panem!”. Gli acrobati, eventualmente, dopo cena. La sorpresa numero uno non è tanto che il re sia nudo, ma che lo si sia capito nonostante il più depistante dei travestimenti: pantaloncini, maglietta e scarpini chiodati. La sorpresa numero due è che il calcio come oppio dei popoli abbia smesso di funzionare proprio in Brasile, dove (credevamo) bastavano una palla di stracci e una spiaggia per essere felici e chi si è suicidato per un gol di Paolo Rossi deve pur resuscitare per due di Neymar.
Invece, c’è sempre un momento in cui le cose cambiano e gli ultimi a capirlo sono quelli che, seduti al tavolo del gattopardo,banchettano. Per questo, fatte le debite proporzioni, Blatter davanti all’estate brasiliana dimostra la cinica indifferenza di Gheddafi di fronte alla primavera araba. Da troppo tempo il sedativo funziona, come è pensabile che d’un tratto la gente si svegli? Eppure, sembrerebbe.
Lo sport in genere, ma il calcio in particolare, sono stati fin qui formidabili diversivi. Hanno coperto le macchie, ma distrutto definitivamente i tessuti. Paesi impresentabili hanno allestito vetrine fasulle dietro cui regnava l’oscurità. I governanti invitati in tribuna d’onore, gli inviati in quella stampa, il pubblico sul divano di casa, hanno preferito non guardare oltre il confine dello stadio. L’esempio del Mundial argentino è forse il più clamoroso, ma non l’unico. La dittatura di Videla continuava a torturare nelle galere segrete a breve distanza dal campo sul quale Kempes e compagni regalavano momenti di gioia ai sottomessi. Con beata ingenuità un attaccante del Chievo di nome Pellissier durante una conferenza stampa disse: «Ho conosciuto il calcio con quel mondiale, che intanto succedesse altro in quel Paese non l’immaginavo: perché non ce l’hanno detto?». Perché nessuno ebbe la forza di disertare il circo e assaltare il forno. Perché ai popoli viene raccontata la comprovata bugia che l’organizzazione di una Olimpiade o di un Mondiale è un’occasione per la crescita economica. Di chi? Di una congrega che si spartisce gli appalti. Per gli altri: briciole avvelenate. A giorno due si scopre che il fiume dell’indotto è un rigagnolo. A fine manifestazione restano ecomostri da demolire con gli esplosivi o consegnare agli squatter.
La Grecia già pericolante si è inflitta il colpo di grazia con le Olimpiadi di Atene nel 2004 e proprio ieri si è arresa all’evidenza del tracollo. Un Mondiale (o un’Olimpiade) è un’ opportunità sì, ma non per il popolo: per la sua casta di potere. Le consente di comprarsi la legittimazione internazionale (salvo boicottaggi). Putin ha voluto e ottenuto i Giochi invernali del 2014 e il campionato di calcio del 2018 (con la sola opposizione di Femen e Pussy Riot). Mostrerà al mondo la sua stanza dei balocchi, ma secondo l’agenzia statunitense Standard & Poor’s sette città ospitanti rischiano il crac finanziario per costruire gli impianti. Era questa la prima necessità dei loro abitanti? Saranno loro a guadagnarci o qualche faccendiere con la cazzuola amico dello zar? Il Qatar ha da poco abolito le corse coi cammelli guidati da baby fantini denutriti sostituendoli con robot e organizzerà i Mondiali del 2022 per dimostrare al pianeta i suoi progressi. Di cui gode una parte limitata della popolazione, rigorosamente maschile.
Qualunque cosa uno pensi del governo Monti, almeno di questo va dato atto al decaduto premier: una delle sue prime decisioni fu di bloccare la candidatura olimpica di Roma, con grande scorno del decaduto sindaco Alemanno e della sua numerosa famiglia. Lo fece pronunciando una frase ineccepibile: «Non sarebbe coerente impegnare l’Italia in quest’avventura che potrebbe mettere a rischio il denaro dei contribuenti». Perché di questo si tratta: giocare d’azzardo con denaro altrui, sapendo che al tavolo ci sono pure un paio di bari che vinceranno comunque.
Questo sta facendo il Brasile. Senonché un milione di persone ha fatto irruzione nella bisca. Noi ci stupiamo. Anche perché, lo si ammetta, eravamo convinti che Rio fosse la locomotiva del Sudamerica e Dilma Rousseff un leader ammirevole. Solo tre giorni fa in una delle tracce per il tema della maturità si invitava il candidato a ripercorrere le vicende che hanno portato alla “fase di significativo sviluppo economico dei Brics”, cinque Paesi tra cui il Brasile. Poi arriva il video di una giovane donna a raccontarci con la semplicità con cui si spiega la vita a un bambino di quattro anni che le cose stanno diversamente: la sanità è mala, la criminalità dilaga, l’istruzione latita. Insomma tutti i peggiori luoghi comuni. Tranne uno: il calcio non rimedia, neppure per un minuto, a nessuno di questi problemi. L’esistenza, come dire, è finita in fuori gioco.

Corriere 22.6.13
Crisi diplomatica fra Berlino e Ankara. I turchi: rappresaglia
Il ministro Bonino: “Bisogna tenere aperta la porta europea per Erdogan”
di Paolo Lepri


BERLINO –La Turchia minaccia rappresaglie nei confronti del governo Merkel. È stato l’ultimo atto di una giornata tesa. La posta in gioco è alta. Riguarda il negoziato sull’ingresso in Europa di un Paese che molti in Germania vorrebbero lasciare fuori. L’ambasciatore turco è stato convocato all’Auswärtiges Amt, la Farnesina tedesca. Poco dopo è arrivata la contromossa, con un provvedimento analogo deciso, ad Ankara. Alle accuse reciproche sono seguite, in serata, le dichiarazioni del ministro degli Affari europei Egenem Bagis, uno dei collaboratori del premier Recep Tayyip Erdogan: «Spero che la cancelliera correggerà l’errore fatto lunedì, altrimenti questo porterà a delle reazioni». Nessuno vuole fingere di dimenticare, insomma, le parole della donna più potente del mondo, secondo cui la repressione contro i manifestanti di Piazza Taksim è stata «veramente troppo dura».
L’intervento di Angela Merkel — che si è detta anche «sconvolta» per quanto la polizia ha fatto nelle strade di Istanbul — è stato uno schiaffo. E il governo turco ha deciso di non porgere l’altra guancia. Lo si è capito quando Bagis ha accusato la cancelliera di utilizzare la crisi per motivi di politica interna, invitandola a non interferire in affari che non la riguardano. «Se la signora Merkel — ha aggiunto — cerca degli argomenti per la campagna elettorale, dovrebbe lasciare stare la Turchia». Queste frasi sono state giudicate inaccettabili dal ministro degli Esteri Guido Westerwelle. Guardando al processo di adesione, il timore del governo Erdogan è che le proteste per la repressione determinino una ulteriore battuta d’arresto di trattative bloccate da tre anni. E non viene mai dimenticato che il partito cristiano-democratico della cancelliera è contrario ad un ingresso a pieno titolo della Turchia nell’Ue.
La possibilità di un nuovo stallo esiste, se è vero che tanto la Germania quanto l’Olanda hanno proposto giovedì scorso di rinviare la decisione, prevista in settimana prossima, sull’avvio del capitolo 22 del negoziato, riguardante i problemi regionali. A Berlino è stato però smentito che il governo voglia mettere in dubbio il processo di adesione e si è parlato di «problemi tecnici». Westerwelle sembra orientato a proporre che inizi la discussione sui due capitoli successivi, quelli dedicati ai diritti civili e alla libertà di stampa e di associazione. Su questi temi è intervenuto anche il ministro degli esteri italiano Emma Bonino, secondo cui «non è il momento di chiudere la prospettiva europea della Turchia, semmai è il momento di rilanciarla, aprendo oltre al capitolo sulle politiche regionali anche quello sui diritti fondamentali e la giustizia». A Bruxelles sarà una partita difficile.

Repubblica 22.6.13
Contrordine, gli Ufo non esistono ora Londra chiude l’ufficio alieni
Dopo 60 anni, la Difesa inglese si arrende: “Nessuna prova”
di Enrico Franceschini


LONDRA — Gli Ufo non esistono. O, se esistono, la Gran Bretagna ha smesso di cercarli. Dopo 60 anni di indagini infruttuose, il “Ministry of Defense Ufo desk”, ribattezzato a uso interno con ironia inglese “Britain’s X-Files”, come se fosse un telefilm (a indicare che non c’è mai stata grande fiducia di trovarli), ha deciso di chiudere. Non pensate a una mega struttura come quella del Gchq, il servizio segreto elettronico britannico, parente della National Security Agency americana, gli spioni che – come si è recentemente scoperto grazie a una “talpa” fuggitaa Hong Kong – sorvegliano tutte le telefonate che facciamo, le email che scambiamo, i siti che frequentiamo, in nome dell’antiterrorismo, della nostra sicurezza o di chissà quale altro scopo più o meno orwelliano. No, questo era un ufficio assai più modesto: due ufficiali della Raf, la Royal Air Force, anzi per la precisione un ufficiale (di basso grado) e un sottufficiale. Toccava a loro esaminare tutte le segnalazioni di marziani, dischi volanti, alieni di varie forme, avvistati dai sudditi di Sua Maestà. E siccome in oltre mezzosecolo non è saltato fuori nessun omino verde con le antenne in testa, nessun E.T., insomma niente di niente, il ministero della Difesa ha pensato bene di calare la saracinesca e assegnare i due valorosi ispettori del cosmo a un altro, più utile incarico.
Dietro suggerimento del comandante in capo della Raf, generale Carl Mantell, all’allora ministro della Difesa Bob Ainsworth (nel frattempo sostituito), il governo britannico conclude così un’epopea a metà strada tra scienza e fantascienza che ha popolato i sogni dell’umanità per lungo tempo. Con l’occasione, l’“Ufo desk” , il dipartimento Ufo, ha pubblicato gli ultimi “avvistamenti” di alieni giunti sulla propria scrivania, tanto per dimostrare che i due funzionari dell’ufficio non stavano con le mani in mano. Ce n’erano di due tipi. Il primo proveniva da scettici dichiarati, quasi convertiti sulla via di Damasco, o meglio delle guerre stellari: «Non riesco a credere a quello che ho visto, ho 48 anni, lavoro per il ministero della sanità, non credo alle favole, eppure ierisera ho visto delle luci rosse muoversi a grande velocità sul cielo di Londra». Il secondo veniva da convertiti sicuri: «Sono stato teletrasportato ben quattro volte su un altro pianeta e poi ho assistito a un atterraggio degli Ufo», scrive un signore, aggiungendo quasi di sfuggita di credere di essere nientepopodimeno che “Gesù”. Un altro riferisce che un alieno si è stabilito a casa sua. Un terzo afferma che i marziani gli hanno portato via il cane.
Senza scomporsi, anzi con una certa dose di tipico humour britannico, l’ufficio Ufo esaminava tutte le segnalazioni e rispondeva a tutti. Come in questo messaggio inviato a un tizio che ha inviato lafoto di una “oggetto volante non identificato” sulla spiaggia di Blackpool: «Ci dispiace, sir, ma a noi sembra un gabbiano». Consapevole che non basta chiudere un ufficio per convincere il mondo che non esistono gli Ufo, il ministero della Difesa conclude: «Non diciamo che non ci sono. Diciamo che non abbiamo mai verificato alcuna presenza ostile da altri pianeti ». E nemmeno pacifica, per la verità. Così, l’attesa degli extraterrestri continua. Ma senza l’aiuto della Gran Bretagna per scovarli.

l’Unità 22.6.13
Cnr, i novant’anni della ricerca
Il compleanno si festeggia il 25 giugno Occasione per rilanciare il sapere
Il massimo ente scientifico del nostro Paese venne creato da Vito Volterra, senatore e ricercatore che durante il Ventennio non giurò fedeltà al fascismo e venne cacciato dall’ateneo e dalla presidenza della sua creatura
di Pietro Greco


IL CONSIGLIO NAZIONE DELLE RICERCHE (CNR), CHE CON I SUOI 8.000 DIPENDENTI E LA SUA GAMMA DI ATTI VITÀ IN TUTTO LO SCIBILE UMANO È IL MASSIMO ENTE SCIENTIFICO DEL NOSTRO PAESE, COMPIE NOVANT’AN NI. Il compleanno sarà festeggiato il prossimo 25 giugno a Roma, alle ore 11 nell’aula convegni del la sede centrale dell’ente alla presenza del Presi dente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Non è una festa di compleanno qualsiasi. È piuttosto un’occasione, che non va sprecata, per rilanciare  anzi, per rifondare  la politica di ricer ca del nostro Paese sulla base delle due grandi indicazioni che, un secolo fa, mossero il genio di Vito Volterra prima a pensare e poi a creare il Cnr: da un lato progettare l’unico sviluppo possi bile per il nostro paese, quello fondato sulla cono scenza; dall’altro fondare questo modello di svi luppo su una struttura di ricerca pubblica dotata di massa critica e dei caratteri di internazionalità, interdisciplinarità e gelosa autonomia.
All’inizio del secolo scorso il senatore Vito Vol terra è già un ricercatore molto conosciuto per le sue capacità sia nel campo della matematica pura (è un gigante dell’analisi funzionale), sia nel cam po della fisica matematica (ha ottenuto risultati brillanti nel campo della teoria della luce e dell’elasticità) sia in un campo che ha praticamen te fondato, l’applicazione dei modelli matematici all’ecologia. Ma è anche un «politico della ricer ca» considerato tra i migliori al mondo. Partecipa infatti al Consiglio internazionale delle ricerche e, con i grandi della scienza europea, condivide due idee: la scienza è la nuova leva dello sviluppo culturale, civile ed economico del mondo; la scien za è un’impresa globale, che travalica i confini delle nazioni.
La prima guerra mondiale  non a caso definita la «guerra dei chimici»  rafforza la prima convin zione: la conoscenza scientifica si trasforma in tecnologia d’avanguardia. Ahimé anche in tecno logia militare. Ma riduce a pezzi la seconda: la comunità scientifica europea si è divisa e la gran parte degli scienziati, Volterra compreso, si è pre stata a servire gli «interessi nazionali».
È da qui che bisogna ripartire, una volta che la guerra finisce. Ed è da qui che Volterra riparte per riproporre la sua politica della ricerca. La sua analisi è semplice. L’Italia non è nel novero dei Paesi più ricchi e avanzati. Anche il conflitto lo ha dimostrato. Ma in quel novero può (deve) rientra re. Per farlo deve far leva sull’innovazione tecno logica, figlia della ricerca scientifica. Dunque, l’Italia deve dotarsi di un sistema di ricerca robu sto e integrato con quello degli altri paesi euro pei. C’è un’unica possibilità: l’intervento dello sta to. Sono le istituzioni pubbliche che devono crea re un’organizzazione che consenta a una massa critica di ricercatori di fare a tempo pieno e in condizioni di autonomia e libertà sia scienza fon damentale sia scienza di base. Nulla deve distrar li, neppure la didattica che sottrae tempo ai do centi universitari.
Malgrado Volterra sia persona autorevole e in fluente sia nella comunità scientifica sia nella co munità politica, il suo progetto fa fatica ad affer marsi. Ma Volterra non è tipo da arrendersi facil mente. E alla fine la spunta. Il 18 novembre 1923 il Consiglio Nazionale delle Ricerche vede final mente la luce. E lui, Vito Volterra, ne è il presiden te.
Sembra quasi uno scherzo della storia. Perché il governo che fa nascere il Cnr è quello di Benito Mussolini. E il capo del fascismo persegue una linea politica che è l’esatto opposto dei caratteri con cui Volterra vuole modellare la sua creatura. È centralista, mentre il Cnr rivendica autonomia. È autarchico, mentre il Cnr vuole integrarsi nel sistema di ricerca internazionale. Non ha una cul tura scientifica, mentre Volterra pensa l’Italia in tera debba in ogni dimensione  civile, sociale, economica  far leva sulla cultura scientifica.
L’esito è scontato. Non passano tre anni e Vol terra è già fuori dal suo Cnr. Il Duce, nel tentativo di salvare la faccia davanti al mondo, chiama alla presidenza un italiano molto noto: Guglielmo Marconi. Qualche anno dopo Volterra è tra i po chissimi docenti che rifiuta il giuramento al regi me ed è costretto a lasciare anche l’università.
Sotto la direzione dell’inventore della radio, il nuovo grande strumento di comunicazione di massa, il Cnr cresce. Ma non diventa il sale di una nuova Italia, moderna, fondata sull’innovazione e sulla a scienza. Non è questo l’obiettivo del regi me fascista.
Bisogna aspettare la fine dl regime e del secon do conflitto mondiale perché il progetto di Volter ra possa ripartire. Non mancano le difficoltà. Ep pure in pochi anni il Cnr cresce e raggiunge alme no tre obiettivi.
Come agenzia, finanzia molti progetti scientifi ci. Alcuni dei quali consentono a quella italiana di ritagliarsi un ruolo di prestigio nella comunità scientifica internazionale. Il Cnr, per esempio, dà un importante contributo alla creazione del Cern, il laboratorio di fisica delle alte energie che è la prima istituzione in assoluto di un’Europa che vuole diventare unita dopo secoli di guerre laceranti.
Come ente pubblico che fa ricerca in proprio e in settori sempre più vasti: dalla matematica alle scienze umane. Il rapporto tra ricerca di base e ricerca applicata trova un buon equilibrio con i Progetti Finalizzati.
Come incubatore di nuove iniziative: è dalle costole del Cnr che nascono sia istituzioni di gran de qualità sia nell’ambito della ricerca di base (co me l’Infn, l’Istituto nazionale di fisica nucleare) sia di ricerca applicata (il Cnen, il Comitato nazio ne per l’energia nucleare o il Progetto San Marco con cui Luigi Broglio fa dell’Italia il terzo paese a inviare un satellite nello spazio).
Non sono mancati negli ultimi anni le polemi che sul Cnr. Molte sono state del tutto pretestuo se. Come quelle che hanno dipinto l’Ente come una sorta di carrozzone improduttivo. Malgrado il continuo taglio di fondi e le continue riforme (a costo zero) il Cnr è tra i primi centri di ricerca al mondo per produttività.
Le riforme, appunto. Negli ultimi vent’anni so no state diverse. E di diverso segno. Una, quella tentata una decina di anni fa da Letizia Moratti, ha teso a erodere l’autonomia dell’Ente e, nel me desimo tempo, a ridurlo a una sorta di grande centro di sviluppo tecnologico per le imprese ita liane. Ma l’allora presidente, Lucio Bianco, sep pe resistere con grande dignità e notevole efficacia.
Restano gli interrogativi per il futuro. Quale ruolo per il Cnr? Non è semplice rispondere a que sta domanda. Neppure per un presidente, Luigi Nicolais, e un ministro per la ricerca, Maria Chia ra Carrozza, certamente competenti. L’ente non ha più la funzione di agenzia. Ma deve continuare a svolgere ricerca, di base e applicata, ad ampio spettro. Deve inoltre recuperare la capacità di in cubare e gemmare nuove piste di ricerca. Nuove iniziative. Perché se non lo fa il Cnr non lo fa nes suno. Per realizzare tutto questo Luigi Nicolais e Maria Chiara Carrozza dovranno recuperare ri sorse. E non sarà facile. Ma potranno operare al meglio se terranno presenti le indicazioni di Vol terra: autonomia, interdisciplinarità e internazio nalità. E soprattutto se si porranno nella prospet tiva di Volterra: fare del Cnr la leva per portare il paese, dopo trent’anni di declino economico, nell’era della conoscenza. Perché, proprio come un novant’anni fa, l’Italia non è nel novero dei Paesi più avanzati. E solo puntando sulla scienza può sperare di recuperare il tempo perduto.

l’Unità 22.6.13
Fantascienza e religione
Da Asimov a Clarke: quando il misticismo è avveniristico
Dagli anni Cinquanta in poi un filone prolifico e suggestivo che trova il suo must in «2001 Odissea nello spazio»
di Enzo Verrengia


«SIA LA LUCE!», E LUCE FU... ECCO LO STUPEFACENTE FI NALE DE «L’ULTIMA DOMANDA», DI ISAAC ASIMOV, PUB BLICATO PER LA PRIMA VOLTA NEL 1956. Quelle fatidi che parole non hanno provenienza divina, ma elet tronica. Il calcolatore Multivac è così avanzato da sopravvivere all’umanità ed alla morte termica dell’universo. Perciò decide di ripetere il miracolo della creazione. Un esempio perfetto di come la fantascienza affronti la religione lungo i binari del la teologia e dell’epistemologia, affrancandosi dal marchio di mera evasione.
L’altro autore che più volte collegò fantascien za e religione fu l’amicorivale di Asimov, l’inglese Arthur C. Clarke. Anche lui scienziato, pervase di una vena spirituale le sue opere più note. Innanzi tutto due racconti, I nove miliardi di nomi di Dio e La stella. Il primo uscì nel 1953 e parte dalla richiesta di monaci tibetani ad un’azienda informatica. Vo gliono compilare i nove miliardi di nomi di Dio attraverso combinazioni di parole nella loro lin
gua. Manualmente, l’impresa richiederebbe cin quecento anni. Con l’ausilio di due tecnici, Chuck e George, vi riescono in pochi mesi. Soltanto che, a conferma del credo religioso praticato dai mona ci, una volta esaurito il compito, si verifica la fine del cosmo. Infatti, mentre stanno per prendere l’aereo del ritorno negli Stati Uniti, Chuck e Geor ge vedono le stelle spegnersi una dopo l’altra.
Più ardua la scoperta del padre gesuita protago nista de La stella, del 1956. Gli capita di analizzare un’antica ed avanzatissima civiltà distrutta dalla trasformazione del proprio sole in supernova. Le coordinate galattiche e l’epoca dell’immane cata strofe non lasciano dubbi al religioso. La superno va, nella finzione di Clarke, sarebbe stata la stella che indicò ai Magi Betlemme.
Clarke, però, va oltre nel suo libro più celebre, 2001 odissea nello spazio, scritto sulla scorta della sceneggiatura del film di Stanley Kubrick cui ave va collaborato. All’origine, il racconto La sentinel la. Qui, Clarke non aveva presupposto niente di teologico. Semplicemente, una spedizione lunare incappa nel reperto alieno lasciato da una civiltà per rilevare altre forme di vita intelligente. Una piramide emette un segnale di richiamo e funge appunto da sentinella. Il film al quale Kubrick la vorò dal 1964 al 1968 ampliava questo scenario su un livello complesso, dove convergevano specula zione scientifica, filosofia e religione. Tutto comin cia molto indietro nel tempo, allorché l’arrivo sul la Terra di un monolito nero provoca l’evoluzione della scimmia antropomorfa in homo sapiens at traverso un indottrinamento immateriale, che fa delle bestie esseri senzienti, capaci di uccidere per nutrirsi, combattere e sopraffare. Lo stesso reper to ricompare sulla Luna ormai colonizzata ed indi rizza l’umanità verso Giove, intorno al quale si compie la transustanziazione dell’astronauta Da vid Bowman. Il dibattito sulla straordinaria se quenza finale, fatta di colori lisergici ed arredi ro cocò, non si esaurirà mai.
Clarke l’aveva anticipato in un altro suo roman zo, Le guide del tramonto, del 1953, dove sulla Terra giungono degli alieni molto alti che favoriscono l’evoluzione dell’uomo allo stato di pura energia. Il prezzo da pagare è la distruzione del pianeta. Più diretto Guerra al Grande Nulla, di James Blish, sempre del 1953. Biologo ed anche lui gesuita, Pa dre RuizSanchez arriva su Lithia, un mondo ap pena individuato, sul quale non esiste la nozione di peccato originale. Infine, un titolo che, incredi bilmente, anticipa il nome di un pontefice. Il dilem ma di Benedetto XVI, di Herbie Brennan, risale al 1977 ed è ambientato in un domani orribile, allor ché dalle visioni del Papa può scaturire la forza benigna con cui fermare le atrocità del tiranno Ling.
Sono esemplari di un elenco ben più vasto. La religione fornisce alla letteratura avvenirista la possibilità di esplorare la coscienza, l’etica e, so prattutto, esprime l’inadeguatezza cui si tenta di sopperire con la ricerca di una referenza ultra mondana, suprema e creatrice.

Corriere 22.6.13
Tino, antifascista senza illusioni
Capì che la maggioranza degli italiani era conservatrice
di Giorgio La Malfa


Adolfo Tino era nato ad Avellino il 23 luglio del 1900 da una famiglia tipica del Mezzogiorno, di grande dignità ma di scarsissimi mezzi finanziari. Era entrato a 18 anni nel «Giornale d'Italia» di Bergamini e ne era divenuto presto editorialista. Nonostante la giovane età, Tino aveva stretto rapporti personali con tutti i principali protagonisti politici di quegli anni, da Nitti a Bonomi a Giovanni Amendola. Lo stesso Mussolini, di cui Tino fu oppositore fin dall'inizio, ne aveva alta stima e lo utilizzava per tenere indiretti rapporti con Bergamini.
In un'intervista pubblicata nel 1985 negli «Annali» dell'Istituto La Malfa, Tino sostenne che Giolitti e Nitti, insieme, avrebbero potuto frenare la marcia verso il potere del fascismo, ma, scontrandosi e contrapponendosi aspramente, aprirono la strada al regime.
La capacità di analisi politica di Tino risalta in una serie di articoli scritti nel 1925 dalla Bulgaria e dalla Jugoslavia, pieni di osservazioni acute sulle circostanze degli avvenimenti di allora. Essi sono raccolti, insieme con alcuni altri suoi scritti degli anni Venti, in un raro volume pubblicato da Mediobanca nel 1978, che contiene anche gli articoli di Riccardo Bacchelli, Giorgio Amendola, Ugo La Malfa, Giovanni Spadolini e Leo Valiani, apparsi dopo la sua scomparsa.
Nel 1924, mentre è ancora al «Giornale d'Italia», Tino dà vita insieme ad Armando Zanetti a «Rinascita Liberale», una rivista che il fascismo chiuse nel 1925. Costretto anche a lasciare il «Giornale d'Italia», senza mezzi finanziari e senza neppure una laurea, Tino deve scegliere una strada. Si laurea in Giurisprudenza (dando dieci o quindici esami in una sola sessione) e si trasferisce a Milano. Scrive Riccardo Bacchelli, che di Tino fu molto amico, che questi «si trasferì a Milano poverissimo a intraprendere la carriera di avvocato, con lento e faticoso quanto sicuro progresso e successo».
Negli anni milanesi, Tino coltiva una rete di amicizie e di contatti antifascisti. Conosce Raffaele Mattioli e ne frequenta la casa di via Bigli. Ed è nell'ambiente della Comit che incontra mio padre, entrato nel 1933 nell'Ufficio studi della banca. Si forma così un sodalizio solidissimo, da cui nascerà nel 1942 il Partito d'Azione, dopo una lunga e paziente tessitura fra gruppi fra loro molto diversi, che vanno dai crociani, come Omodeo e De Ruggiero, ai seguaci di Giovanni Amendola, come in fondo sono Tino e mio padre, ai gruppi di Giustizia e Libertà nati dai fratelli Rosselli, in cui militano Parri, Bauer ed altri, ai liberalsocialisti di Capitini e Calogero.
A metà del 1942 Tino e mio padre preparano un memoriale per Salvemini, che è in America, nel quale preannunciano la fine del regime fascista per effetto di un colpo di Stato della monarchia che, scrivono, si prepara a sostituire Mussolini con un generale a lei fedele. Il documento, ricopiato in una scrittura minutissima e incollato nella costola di una agendina di pelle, viene consegnato da Enrico Cuccia in Portogallo, dopo un viaggio avventuroso, a George Kennan, il futuro ambasciatore americano a Mosca. Il documento, pubblicato sulle pagine del «New York Times» all'inizio del 1943, anticipa con precisione ciò che avverrà il 25 luglio.
A Milano, Tino è una delle personalità più significative dell'antifascismo. Giorgio Amendola ricorda di averlo incontrato, all'inizio del 1943, nel suo studio di via Monte di Pietà, «centro di contatti fra gli esponenti delle varie correnti politiche dai liberali ai democratici cristiani, dai socialisti ai comunisti». Il 26 luglio la prima riunione dei partiti antifascisti si svolge nel suo studio.
All'inizio del '43 esce il primo numero dell'«Italia Libera», il giornale clandestino del Partito d'Azione, con il celebre articolo Chi siamo, scritto congiuntamente da Tino e mio padre, che enuncia la ferma pregiudiziale repubblicana. Quando la polizia fascista riesce a risalire al gruppo cui fa capo il giornale, Tino si rifugia in Svizzera nella casa di Certenago del marchese De Nobili, uno dei pochi diplomatici che avevano rifiutato di servire il regime. Lì, nel novembre del 1943, lo incontra Leo Valiani, passato clandestinamente in Svizzera con Ferruccio Parri per incontrare i rappresentanti degli Alleati, Dulles e McCaffery.
«Adolfo Tino — scrisse Valiani su "Repubblica" il 7 dicembre 1978 — intuiva già, con realismo straordinariamente lucido, che la maggioranza degli italiani desiderava bensì la disfatta del nazismo e dunque del fascismo, ma per il rimanente intendeva cambiare il meno possibile le proprie abitudini. (...) Anche defenestrata la monarchia, si sarebbe avuta una maggioranza conservatrice. La Chiesa e il partito ad essa vicino ne sarebbero stati, a giudizio di Tino, i beneficiari».
Al rientro in Italia nel 1945, Adolfo Tino, constatato come le speranze di un cambiamento profondo nella vita del Paese fossero destinate ad essere deluse, si allontana dalla vita politica e riprende la professione forense. Diviene consulente legale di Mediobanca e poi suo presidente a partire dal 1958 e fino alla sua scomparsa. Per dirne le qualità, bastano le parole che Enrico Cuccia gli dedicò nell'assemblea di Mediobanca dell'ottobre 1978: «Parlare di lui è difficile per chi ne ricorda l'insofferenza per le apologie e il brusco fastidio per ogni sbavatura retorica. (…) Della parte che egli ha avuto nelle vicende politiche del Paese, del rigore morale e del profondo realismo che hanno guidato il suo operare, altri hanno degnamente già scritto. (…) Come consulente legale di Mediobanca sin dalla sua costituzione e presidente dell'Istituto dal 1958, Adolfo Tino ha profuso i tesori della sua saggezza in consigli e in norme di condotta che hanno guidato lo sviluppo della banca sin dalla fondazione ed hanno conferito uno stile al nostro lavoro. (...) Chi non ha avuto la fortuna di ricorrere al suo avviso, difficilmente può immaginare quanto ricca di insegnamenti fosse questa esperienza, per la limpida chiarezza del suo raziocinare, per la lucidità e, talvolta, la spietatezza dei suoi giudizi, per l'acutezza e la profondità delle sue intuizioni. Egli era fra coloro quibus vivere est cogitare».
È forse il caso qui di rivelare la parte importante che Tino aveva avuto nello spingere Cuccia a tentare la battaglia difficilissima della privatizzazione di Mediobanca fra il 1984 e il 1988. Tino aveva un drastico giudizio negativo sulla Dc, cui imputava un'assenza di senso dello Stato. Riteneva che essa avrebbe cercato di impossessarsi di quel vasto settore pubblico dell'economia che l'Italia aveva ereditato dal fascismo. I due partiti di sinistra non erano in grado di opporsi a questo disegno, anche per i pregiudizi ideologici che li caratterizzavano. Prevedeva che Mediobanca, per il peso che era andata assumendo, non poteva che divenire oggetto di un'offensiva e per difenderne l'indipendenza non sarebbe bastato né lo schermo delle Bin (Banche d'interesse nazionale), né il grande prestigio personale di Cuccia, né la difesa che avrebbero potuto opporre i partiti laici. Bisognava tentare una battaglia per portare Mediobanca fuori dal recinto del settore pubblico. E quando, nel 1988, la battaglia fu vinta, il commento di Cuccia fu semplicemente: «Lo avevo promesso ad Adolfo».
Nel suo ricordo Giorgio Amendola scriveva di avere chiesto a Tino molte volte perché un uomo dotato di così notevole talento politico non avesse continuato la battaglia politica dopo che era stata restaurata la libertà, ma di non avere mai ricevuto risposta a questa domanda. È una domanda destinata a restare senza risposta. Nel suo ricordo di Tino, Bacchelli aveva scritto acutamente che «forse in lui la passione soverchiava la vocazione politica». Ma in ogni caso — aveva concluso — «la sua operosità costituì un esempio di civile e civica utilità e dignità, mentre lasciò negli amici un affettuoso ricordo di amicizia umana e generosa».

Repubblica 22.6.13
L’immaginazione al potere
Kureishi: siamo condannati a essere artisti
di Hanif Kureishi


Una riflessione dello scrittore anglo-pakistano alla Milanesiana
Le idee più audaci e originali come unico antidoto contro la banalità

Fin da adolescente ho apprezzato e collezionato i libri su Come si scrive un libro. Ne ho uno scaffale pieno, e di recente stavo cercando del materiale su trama, struttura e narrazione, l’aspetto tecnico della scrittura, pensando che magari avrei potuto imparare qualcosa. [...] Se però si pensa alla vera arte, alFrankenstein di Mary Shelley, aJekyll e Hyde di Stevenson, aDorian Gray di Wilde, o magari allo straordinario racconto di Cheever, Il nuotatore, allaMetamorfosi di Kafka, a qualunque opera di Carver e persino di una poetessa come Sylvia Plath — bisogna cominciare a pensare alla sfrenata inverosimiglianza, audacia e genialità dell’idea o della metafora dell’artista, piuttosto che alla mera disposizione dei paragrafi. E quando si comincia a pensare a questo bisogna pensare all’immaginazione, a come funzioni, da dove venga e dove possa condurre. Allora ci si trova in un mare di proficui guai.
La maggior parte delle persone ha continuamente delle buone idee, ma preferisce non farci caso. Gli autori appena citati trovarono invece soluzioni a conflitti che li turbavano e addirittura tormentavano, conflitti che allora dovevano sembrare un abisso o qualcosa di insolubile, e che richiesero infine un balzo verso un nuovo modo di vedere le cose. La loro immaginazione era capace di trasformare, di andare oltre, ed esigeva che una novità assoluta venisse creata a partire da cose vecchie, messe insieme in combinazioni scioccanti e dirompenti che ancora oggi risultando fresche e originali. Nonostante ciò, è più che possibile che il conflitto insopportabile provochi depressione o autodisprezzo. Si potrebbe definire la depressione “un fallimento dell’immaginazione.”
Tali conflitti producono però anche l’arte, e l’opera d’arte rappresenta il conflitto “insolubile”.
La metamorfosi, ad esempio, il capolavoro di Kafka il cui eroe, Gregor Samsa, si sveglia un mattino e scopre di essersi trasformato in un insetto, mostra tra le altre cose il rapporto di Kafka con la propria famiglia, il modo in cui potrebbe trovare una via d’uscita dalla sua impasse personale, e quali potrebbero essere le conseguenze per i parenti. Era così che Kafka rifletteva sull’emergenza della propria vita, senza neppure affrontarla esplicitamente. Non poteva parlarne, e non poteva non parlarne. Non poteva neppure cambiare la propria vita; era troppo masochista perquesto; semplicemente, scriveva. Essere realmente trasgressivi è una delle cose più difficili che ci siano. Ad ogni modo, il suo censore o revisore interiore lo rendeva creativo; le sue crisi facevano scaturire una metafora, e lui scriveva un racconto, inoculando nel lettore la malattia, affinché potesse cambiare la sua esistenza. [...] Romantici come Wordsworth e Coleridge sapevano che l’immaginazione è pericolosa quanto la dinamite, non solo dal punto di vista politico — in quanto la popolazione può avere idee notevoli, e tuttavia dissidenti — ma altresì all’interno dell’individuo. L’immaginazione può essere avvertita come un disturbo, o persino una forma di follia, quando in realtà è un’illuminazione. Senza dubbio l’immaginazione è rischiosa, e non può non esserlo; ci sono certi pensieri che devono essere repressi o preclusi. Il bene e il male, come nei film scadenti, vanno tenuti separati. Qui ci sono idee che non possono essere concepite o pensate fino in fondo, che non devono essere messe insieme, non possono fondersi, svilupparsi o apparireambigue. Questo perché l’immaginazione, come il sogno, può essere antisociale. Platone voleva bandire l’arte dal suo stato ideale, perché era falsa, “un’imitazione,”per usare le sue parole, e avrebbe potuto eccitare eccessivamente i cittadini. E noi sappiamo, naturalmente, che lungo l’intero corso della storia scrittori e artisti sonostati attaccati, censurati e imprigionati, e che sarà sempre così. La Parola è sempre rischiosa, e deve esserlo.
Di conseguenza è chiaro che di rado l’immaginazione si comporta bene; può essere ignorata e censurata, ma non può mai essere scacciata definitivamente con la forza di volontà. Ad ogni modo, tale tentativo di scacciarla sarebbe un errore perché, a differenza della fantasia, inerte e immutabile — nella fantasia tendiamo a rivedere all’infinito le stesse cose — l’immaginazione rappresenta la speranza, la rinascita e un nuovo modo di essere. Se la fantasia è un ritorno del già noto e del familiare, sipotrebbe dire che un’ispirazione sia l’improvviso svelamento di una parte della nostra identità, qualcosa che viene visto o compreso per la prima volta. [...] L’immaginazione è una facoltà essenziale, e può essere sviluppata. È altrettanto necessaria dell’amore, perché senza di essa siamo intrappolati nelle deprimenti polarità degli aut-aut, in una Corea del Nord della mente, desolata e vuota, con poco da guardare. Senza l’immaginazione non possiamo ripensare ciò che conosciamo, né vedere abbastanza lontano. L’immaginazione, mentre lotta con l’inibizione, rappresenta altre idee e possibilità; è infinita, complessa, liquida, selvaggia ed erotica. L’arte de-familiarizza, e altrettanto fa l’immaginazione; il mondo banale appare di nuovo strano, e aperto in nuovi modi.
Naturalmente, l’immaginazione non è solo uno strumento del-l’arte, e non possiamo delegare tutta la speculazione agli artisti. Non sono solo gli artisti a mettere insieme cose complesse, a inventarne di nuove, ad aver bisogno dell’intuizione e a utilizzarla. In un certo senso, siamo tutti condannati a essere artisti. Che ci piaccia o meno, e che questo sia conscio o inconscio, siamo i creatori e gli artisti delle nostre vite, del futuro e del passato — ad esempio, possiamo guardare al passato come a un cadavere, a una risorsa o a qualcos’altro. Siamo artisti nel modo in cui vediamo, interpretiamo e costruiamo il mondo. Siamo artisti nel quotidiano, artisti del gioco, della conversazione, della passeggiata, del cibo, dell’amicizia, del sesso e dell’amore. Ogni bacio, ogni lavoro, ogni pasto, ogni cosa udita e ogni parola scambiata possiedono qualcosa di artistico, o ne sono prive.
Sopravvivere efficacemente nel mondo richiede enormi risorse. Ed essere audaci e originali è un’impresa difficile; può sembrare impossibile, perché abbiamo storie e tratti caratteriali che rischiano di diventare identità immutabili. Veniamo plasmati prima di potercene rendere conto; siamo frenati da ciò in cui siamo stati plasmati. E come se non bastasse, siamo posseduti da demoni distruttivi e chiacchieroni che non desiderano affatto il nostro bene. Vivere liberamente è una lotta; le identità divengono vincolate. Siamo limitati da versioni interiorizzate, inappropriate, della legge e del costume, che ci tengono troppo al sicuro, e non c’è nulla di tanto pericoloso quanto la sicurezza, che ci trattiene dal reinventarci e dal ricrearci. L’opera dell’immaginazione può apparire distruttiva, dato che la nostra intuizione ci deve strappare da ciò cui siamo più legati. Naturalmente, se riusciamo a farlo, paghiamo i nostri piaceri con la moneta del senso di colpa. Ma in definitiva l’infelicità e la disperazione sono più costose, e divengono una malattia.

Repubblica 22.6.13
Sonno, "Indispensabili 8 ore
Dormire di meno scatena patologie"
di Massimo Vincenzi

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