sabato 2 giugno 2012

il Fatto 2.6.12
Disoccupazione record: È al 10,9%
Il 36% dei ragazzi è senza lavoro
Allarme del commissario Rehn: l’Europa rischia la disgregazione
di Stefano Feltri


Se non fossimo già anestetizzati da due anni di crisi del debito, una giornata come quella di ieri basterebbe a suscitare un po' di panico anche nel più stoico osservatore economico. Non tanto per la Borsa italiana, che ha perso poco piu dell'uno per cento arrivando ai minimi storici del valore dell'indice di riferimento (è una brutta notizia, ma ora abbiamo problemi piu seri), quanto per il diluvio di dati e dichiarazioni che ormai raccontano una storia chiara: l'euro è minacciato dalla Grecia, ma ancor più dalla Spagna e la crisi europea sta costando la rielezione a Barack Obama, proprio come l'ormai quasi ex inquilino della Casa Bianca temeva da un anno.
VEDIAMO perché. In Italia, nonostante il governatore di Bankitalia Ignazio Visco non abbia voluto infierire nella sua relazione, il quadro sta peggiorando: il tasso di disoccupazione, secondo l'Istat, è tornato nel primo trimestre del 2012 a livelli che non si vedevano dal 1999, quando non c'era l'euro, al 10,9 per cento. Mentre, ancora più preoccupante, è la percentuale dei giovani senza lavoro: 35,9 per cento per gli under 25. Ma di questo i mercati si preoccuperanno tra un paio di mesi. Prima vogliono capire come finiscono Grecia e Spagna. Al Festival dell'Economia di Trento, il presidente di Monte Paschi Alessandro Profumo sostiene che "la Grecia rischia di uscire dall'euro anche se noi non vogliamo, sarà difficile convincerli dopo le elezioni. E fuori Atene, poi serve avere già-pronto un meccanismo per trattenere gli altri, o la tensione si sposterà subito su Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia". A Dublino, gli elettori hanno approvato con quasi il 60 per cento dei voti, in un referendum, il trattato sul rigore fiscale imposto dalla Germania, il cosiddetto fiscal compact. Ma non basterà a metterli al riparo. Ieri i derivati CDS, scommesse sul fallimento di un Paese, dimostravano che sempre piu investitori prevedono un crac della Spagna, sufficiente a sfasciare quel che resta dell'euro: il governo di Mariano Rajoy non ha un piano credibile per ripianare il buco da oltre 20 miliardi nei conti di Bankia, quarto gruppo del Paese. Le smentite sull'arrivo del Fondo monetario, che da mesi vuole avere una gestione diretta della crisi europea (teleguidato dalla Casa Bianca), finiscono per peggiorare la situazione. Tanto più che la Banca di Spagna ha annunciato che nei primi tre mesi dell'anno dai conti spagnoli sono stati trasferiti oltre 100 miliardi di euro, è una vera corsa agli sportelli come non si vedeva dagli anni Trenta, il sistema regge solo perché le banche nazionali possono avere liquidità dalla Bce. Per completare il quadro, la Reuters rivela che in Grecia sta per scoppiare una crisi energetica, perché il governo non ha i soldi liquidi per pagate i fornitori di energia, tra cui l'Eni, già dalla prossima settimana.
NON CI SI PUÒ stupire quindi se Olli Rehn, il loquace (forse troppo), commissario europeo agli Affari economici, avverte che "l'eurozona corre il rischio di disgregarsi". L'ultima occasione per evitare il disastro completo sembra essere il vertice del Consiglio europeo dei capi di governo il 28 giugno: sta crescendo la pressione su Berlino perché Angela Merkel avalli almeno alcune delle misure drastiche di cui si discute, la più urgente delle quali non è l'eurobond o i fondi per mutualizzare il debito, ma una garanzia comunitaria ai depositi bancari che eviti il contagio dalla Spagna (rischio paventato anche da Mario Monti).
Pare che il più violento nel chiedere alla Merkel un po' di reattività sia il presidente Usa Barack Obama; si racconta anche di un alterco nella videoconferenza di mercoledi sera. Ieri si è capita la ragione del nervosismo presidenziale: l'economia americana è ferma, la disoccupazione a sorpresa sta peggiorando, i dati diffusi ieri parlano di un tasso di disoccupazione ad aprile all'8,2 per cento, rispetto all' 8,1 del mese prima. Se l'economia americana barcolla, Obama rischia seriamente di non essere rieletto, Mitt Romney può trovare validi argomenti per convincere gli indecisi. E, per quanto ci riguarda, un presidente azzoppato avrà sempre meno influenza negoziale sull'eurozona in queste difficili settimane. È chiaro che ora Obama moltiplicherà le sue pressioni su Berlino, in vista del Consiglio europeo del 28. Perché l'idea di perdere le elezioni per colpa della Merkel, comprensibilmente, lo irrita parecchio.

l’Unità 2.6.12
Debora Serracchiani:
«Le primarie non parlano alla società»
di Maria Zegarelli


«Non ho firmato l’appello dei quarantenni perché dobbiamo smetterla
di chiuderci in discussioni tutte interne: così non siamo più convincenti»

Debora Serracchiani, europarlamentare Pd, miss preferenze alle europee, pur essendo nella “categoria” dei quarantenni del suo partito, l’ordine del giorno presentato dai suoi colleghi sulle primarie non l’ha firmato. Serracchiani, perché non ha firmato l’appello dei trenta-quarantenni?
«Non l’ho firmato perché credo che il punto non sia la scalata al Pd ma il superamento di questo insostenibile stato di cose che riguarda tutta la politica e interessa lo scollamento che c’è con le persone. Noi non siamo più convincenti, questo è il tema. È evidente che è anche un problema di rinnovamento ma non può essere solo delle persone: deve partire dalle idee. Vanno bene le primarie per i parlamentari, le chiedo anche io con forza se non cambiamo la legge elettorale e va bene imporre il limite del terzo mandato».
Vuol dire che non vi fidate del vostro stesso Statuto? Lì è previsto il limite dei tre mandati.
«È previsto ma ampiamente derogato e questo non è più accettabile. In un mondo perfetto la classe dirigente che c’è dovrebbe passare il suo tempo a formare quella che viene dopo e dal momento che sosteniamo tutti che la politica è un servizio cerchiamo di porre un termine anche al servizio. Tutto questo affetto profondo all’incarico credo stia diventando un problema. Quindi i due punti dell’ordine del giorno li condivido ma sulle primarie no. È come se, mentre sta succedendo di tutto, il Pd si chiudesse in una discussione tutta interna sulle primarie. Non si fanno le riforme che dovevano essere fatte non dieci ma venti anni fa e noi che facciamo?».
Tonini, sulle pagine de l’Unità, ha chiesto il congresso e le primarie di partito a ottobre.
«Ma se lo immagina lo stridore, anche solo dalla lettura di un quotidiano? Nelle prime quattordici pagine si parla della crisi, del rischio Grecia, della disoccupazione e poi alla quindicesima ecco le primarie interne del Pd... Certo, se vogliamo chiudere definitivamente le porte alla società civile possiamo anche farlo...».
Eppure per molti del suo partito significherebbe coinvolgere la società. Non ci crede?
«Alla società si apre con un dibattito sui temi concreti. La gente non ci chiede di fare congressi ma progetti chiari per non rendere vani i sacrifici che si stanno affrontando oggi. Neanche il governo Monti riesce a farlo e questo crea sfiducia. Quale è il nostro compito se non quello di dare una prospettiva?».
Renzi sulla sua pagina facebook annuncia ufficialmente di essere in gara. Lei crede sia possibile ignorare la richiesta che arriva da alcuni dirigenti Pd?
«In questo momento i problemi sono altri e se non lo capiamo rischiamo di essere spazzati via. Se c’è un problema di legittimazione non riguarda il segretario ma il Pd che non riesce a convincere quel 50% di italiani che non va a votare. Non serve un congresso per questo, servono idee e persone disposte a mettersi in gioco. I congressi li faremo, ci sarà tutto il tempo, non possiamo mettere in discussione ogni volta il vertice quando le cose non vanno. Il vertice deve cambiare le cose. È questo l’appello che io rivolgo a Bersani: si lavori per preparare una nuova classe dirigente in grado di guidare il cambiamento». E sulla lista civica nazionale?
«Non mi convince. Significherebbe smistare in modo diverso i voti del centrosinistra. La lista civica ha un senso se ci fa prendere voti di chi altrimenti non voterebbe il centrosinistra».

l’Unità 2.6.12
Maurizio Landini:
«Lista Fiom? Pensiamo ai lavoratori»
di Massimo Franchi


«Servono risposte chiare ai problemi della gente che lavora: per questo il 9 incontriamo Pd, Sel, Fds e Idv. Facciamo il nostro mestiere di sindacalisti»

«Noi facciamo sindacato e difendiamo i diritti dei lavoratori, mai così colpiti. Per questo il 9 giugno incontriamo Pd, Idv, Sel e Federazione della sinistra chiedendo impegni precisi per il futuro sul tema del lavoro». Maurizio Landini festeggiava ieri i due anni alla guida della Fiom («ho resistito bene, sono stati impegnativi per me, ma soprattutto difficili per le persone che rappresento che hanno subito un attacco ai loro diritti senza precedenti») e vuole precisare che «all’orizzonte non c’è alcun partito o lista della Fiom».
Landini, nel pullulare di liste civiche c’è chi dà per certo che la Fiom si candidi alle prossime elezioni. È vero?
«Il problema non è questo. Il problema è che le persone che lavorano hanno visto un peggioramento secco della loro situazione e i loro bisogni non sono sufficientemente rappresentati. Noi chiediamo a chi si candida a governare il Paese di rimettere mano ad una riforma delle pensioni che penalizza anziani e di conseguenza i giovani, una legge sulla rappresentanza che permetta ad ogni lavoratore di scegliersi liberamente il suo sindacato, tornare ad un articolo 18 che realmente salvaguardi dal licenziamento economico, ammortizzatori sociali per i precari fino ad un reddito di cittadinanza. Siamo contenti che Bersani, Di Pietro, Vendola abbiamo accettato il nostro invito e gli chiederemo di prendere impegni concreti su questi temi prima di candidarsi».
E se sabato prossimo i partiti non vi daranno risposte soddisfacenti?
«Una cosa per volta. La nostra richiesta è di riconnettere democrazia e lavoro, sapendo che la crisi di rappresentanza non colpisce solo i partiti. Chi non va a votare o vota nuovi movimenti non va etichettato come “antipolitica”, siamo invece di fronte ad una nuova domanda di politica. Il 9 giugno assieme ai partiti ci saranno anche associazioni, soggetti costituzionali. Dopo il 9 continueremo a chiedere questi impegni a sindaci, presidenti di Regione. Sono due anni, dal contratto di Pomigliano, che combattiamo questa battaglia sui diritti: ora vogliamo portare a casa dei risultati concreti». Ma in questo modo non rischiate di dare spazio a chi vi accusa di fare politica da sempre, di mirare ad uscire dalla Cgil? «La Fiom deve dire quello che pensa.
Fin dal congresso di Rimini del 1996 Claudio Sabattini ci ha insegnato a perseguire l’indipendenza: abbiamo un progetto di società che confrontiamo con tutti, partiti in primis. Noi in questo modo pratichiamo la confederalità, perché io mi batto prima di tutto per l’autonomia della Cgil. Con l’incontro del 9 noi facciamo il nostro mestiere di sindacalisti confederali».
Intanto però il 13 e il 14 chiamate alla mobilitazione contro la riforma del lavoro. «La nostra mobilitazione l’abbiamo decisa all’Assemblea nazionale e mette assieme la protesta contro una riforma del lavoro che peggiora le condizioni e i diritti dei lavoratori e quella contro Fiat, che sta lasciando l’Italia senza che il governo apra bocca, e Finmeccanica, che vuole svendere aziende pubbliche in settori strategici come i trasporti. Dalla segreteria della Cgil invece ci aspettiamo che proclami lo sciopero generale come stabilito dal Direttivo del giorno dopo l’approvazione del testo della riforma del lavoro».
La Cgil sta lavorando per ottenere altre modifiche e aspetta l’arrivo del testo alla Camera.
«Lo sciopero generale non è uno strumento di testimonianza. È uno strumento di lotta per ottenere cambiamenti. E quindi bisogna indirlo al più presto, prima che la riforma arrivi alla Camera. Sennò sarà troppo tardi».

l’Unità 2.6.12
Tutte le correnti del partito Repubblica
«Una nostra lista? Una scemenza», dice il direttore Ezio Mauro
Ma Eugenio Scalfari rilancia l’operazione: «Senza di noi non si vince»
Da De Benedetti in giù, il gruppo editoriale tentato (non da oggi) dalla politica
di Francesco Cundari


«Ci tirano per la giacca, soprattutto gli ambienti di destra, sulla questione della “lista di Repubblica”. È semplicemente una scemenza», dice Ezio Mauro nella consueta riunione di redazione on line sul sito del giornale. Consapevole che il tema era stato lanciato di fatto da un editoriale di Eugenio Scalfari, il direttore metteva le man avanti: «Scalfari ha colto per primo questo elemento, che girava, della possibilità che esistano delle liste apparentate al Pd... ma non tocca mica a noi fare i king maker... personalmente non mi interessa affatto».
Per la verità Scalfari, nel suo editoriale del 13 maggio, si era espresso in modo perentorio, scrivendo che nel ca-
so in cui alle prossime elezioni si andasse con l’attuale legge elettorale «sarebbe molto opportuna la formazione d’una lista civica apparentata con il Pd e rappresentativa del principio di legalità». Ma soprattutto, giusto ieri, esprimeva senza giri di parole la sua opinione, in un’intervista al Fatto, replicando alle obiezioni venute da molti dirigenti del Pd. «Vogliono vincere? Bene, dovrebbero essere contenti che professionisti, giornalisti, esponenti della società civile possano impegnarsi in una lista che allarga il campo del centrosinistra».
La distanza tra la posizione del direttore e quella del fondatore è evidente. Ma se davvero qualcosa di simile a un partito Repubblica potrebbe prendere forma, la storia delle sue divisioni interne, o se vogliamo delle sue correnti,
è già molto lunga e articolata. A partire dal tema che in quella stessa intervista Scalfari pone senza giri di parole come «condizione preliminare» per entrare in coalizione con il Pd. «Si può fare parte di questa coalizione scandisce il giornalista se si sostiene il governo Monti e il suo operato». E non è senza significato che questa affermazione giunga in risposta alla domanda se Maurizio Landini e la Fiom possano patrocinare una lista più caratterizzata a sinistra, da affiancare a quella immaginata da Scalfari. Una linea che è da tempo quella esplicitamente perseguita dalla rivista Micromega di Paolo Florres d’Arcais, rivista del Gruppo Espresso, su cui scrivono anche diversi editorialisti di Repubblica, a cominciare dal sociologo del lavoro Luciano Gallino.
Ma per difendere Monti, nei suoi editoriali, Scalfari non ha risparmiato nessuno. Quando nelle correnti più radicali del «partito Repubblica» si è cominciato a teorizzare che il governo tecnico rappresentasse una sorta di sospensione della democrazia, le repliche del fondatore sono state durissime. Per esempio nel suo editoriale del 4 dicembre: «Questo, lo ripetiamo, è un governo a pieno titolo, un governo politico, il cui scopo primario non diminuisce e tantomeno cancella il compito di governare il Paese nel modo migliore... Chi lo concepisce come un commissariato dell’economia e nient’altro che questo, ha la testa nelle nuvole o cerca pretesti per metterlo anzitempo in crisi».
Una replica veemente, sebbene indi-
retta. Tanto da spingere Gustavo Zagrebelsky a inserire nel suo articolo del 12 dicembre («La democrazia senza i partiti») una risposta altrettanto indiretta, ma non meno netta: «Può essere che in queste considerazioni ci sia una piega di pessimismo, ma vale l’ammonimento: non tutti gli ottimisti sono sciocchi, ma tutti gli sciocchi sono ottimisti».
Quanto alla politica economica del governo, non di rado le analisi scalfariane, tutte tese a dimostrare l’inevitabile necessità delle politiche di rigore e austerità imposte all’Europa da Merkel sono entrate in rotta di collisione con quelle di Federico Rampini, che dall’America argomentava le ragioni degli Stati Uniti di Obama a sostegno della tesi secondo cui l’austerità non avrebbe fatto altro che sprofondare l’Europa nella recessione, aggravando gli stessi conti pubblici.
NUOVI ACQUISTI
Al tempo stesso, tuttavia, Scalfari si trovava scavalcato a destra da due nuovi acquisti, gli editorialisti ultra-liberisti Alessandro De Nicola e Alberto Bisin. Al primo dei quali il 16 gennaio non mancava di dedicare un intero articolo sull’Espresso («Come si declina la parola libertà»), a proposito della distinzione tra «liberale, liberista, liberal...» e così concludendo: «Forse De Nicola è un liberista fondamentalista, ma possono stare insieme quei due termini?».
Tutti questi piccoli episodi e molti altri che si potrebbero aggiungere, seguendo le molte brusche virate del quotidiano su Marchionne, sull’articolo 18 e sullo stesso governo tecnico sono spesso, naturalmente, la spia di tensioni più profonde e dissensi più radicali.
Ma forse il criterio più semplice per distinguere almeno le principali correnti interne al «partito Repubblica» è l’atteggiamento nei confronti di Corrado Passera, spesso lodato negli editoriali del fondatore Scalfari e non meno spesso punzecchiato nelle interviste dell’editore Carlo De Benedetti. O forse bisogna risalire un po’ più indietro, a quando l’Ingegnere sembrava sul punto di accogliere nella sua ultima creatura finanziaria niente meno che l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, suscitando la rivolta di giornalisti e intellettuali d’area, guidati proprio da Scalfari.

il Fatto 2.6.12
Rodotà: lista Scalfari, no grazie
di Silvia Truzzi


Entusiasta no. Tiepido. Anzi perplesso, nonostante la lusinga dell’autorevole outing. Stefano Rodotà respinge l’ipotesi, avanzata da Eugenio Scalfari col Fatto, di una sua candidatura alle prossime elezioni politiche. Entusiasta no. Tiepido. Anzi perplesso, nonostante la lusinga dell’autorevole outing. Stefano Rodotà – con garbo e altrettanta usuale fermezza – respinge l’ipotesi, avanzata da Eugenio Scalfari in persona in un’intervista al Fatto, di una sua candidatura alle prossime elezioni politiche. La “Lista Saviano” suggerita dal fondatore di Repubblica pare non decollare: il medesimo Saviano smentisce sull’Espresso in edicola ieri una sua candidatura diretta. Pur non escludendo l’ipotesi di un “patrocinio” (magari bisognerebbe trovare un’altra espressione però: questa fa un po’ presidente della Repubblica). Scalfari aveva detto a Luca Telese: “Escludo in maniera pressoché certa che Rodotà potrebbe accettare di correre sotto il simbolo del Pd”. Ma che forse come “fiancheggiatore”, avrebbe detto di sì. Invece la risposta del professore è un cortese “no, grazie”. Ecco perché.
Professor Rodotà che ne pensa di quest’ipotesi di laici per il Pd, lanciata da Scalfari?
Facciamo un passo indietro. Feci questa scelta in anni lontani, alla fine degli anni 70, quando fui eletto come indipendente nelle liste del Pci. Fu una scelta difficile allora: c’era il Pci e c’erano molte resistenze.
Eravate veramente indipendenti?
Eccome. Faccio solo due esempi: al tempo dei decreti Cossiga, nel pieno degli anni di piombo, il Pci votò a favore della fiducia. Alcuni di noi, tra i quali io, votammo contro. E poi il Concordato di Craxi: anche qui il Pci si pronunciò favorevolmente, la sinistra indipendente alla Camera votò compatta contro. L’indipendenza c’era, ed era la condizione che consentiva di lavorare in Parlamento.
E ora? È un modello riproponibile?
Può darsi che queste liste siano utili, ma a me non piacciono. Francamente non mi entusiasmano.
Perché questa perplessità?
Sono ipotesi un po’ campate in aria o che danno per scontato il fatto che la legge elettorale non si cambia. Non riesco a capire bene quest’operazione, devo essere sincero. Ogni valutazione, meditata fino in fondo, esigerebbe una premessa: qual è la legge elettorale con cui si va alle urne? Il punto è importantissimo. Se si andasse a votare con un sistema a due turni alla francese, molte cose cambierebbero.
Quindi?
Trovo questo un esercizio che tutti possono fare e va bene fare, però insomma... Io mi fermo qui.
Fassina e Civati, dall’interno, obiettano che chi è vicino al Pd si può candidare nel Pd...
Stando nel Pd è un punto di vista rispettabile.
Che pensa della battuta di Ci-vati, sul fatto che il Pd diventerebbe una bad company?
La battuta non piace a Scalfari, ma il rischio c’è: “Io non mi mescolo con i partiti”.
Starà mica dicendo che si vuol candidare con il Pd?
No: né con il Pd né con una lista esterna. Sono grato a Scalfari perché fa dichiarazioni molto lusinghiere nei mei confronti: voglio dire per chiarire che io non trovo quest’intervista un’aggressione o un’indebita interferenza. Anzi un atto di grande considerazione.
Scalfari parla del suo “spirito di servizio” come motore di una possibile candidatura.
Posso dire? Credo di averne dimostrato, di spirito di servizio: ho fatto per 15 anni il parlamentare, per otto il presidente di un’Authority. Poi ho deciso che il mio spirito di servizio andasse esercitato in altro modo.
Aventiniano!
Ma no, mica mi sono ritirato sotto una tenda a fare il giurista formalista. Oppure mi sono buttato a fare soldi con la professione di avvocato. Ho lasciato il Parlamento dal 1994: se qualcuno pensa che io possa avere ancora un ruolo politico significativo è perché in questi anni il mio lavoro non è stato politicamente indifferente.
Ha ricevuto offerte anche dopo però...
Sì, per il Parlamento europeo. Ma ho rifiutato, e non per spocchia ma perché credo che il miglior lavoro politico sia quello di essere presente nella discussione, anche con i miei malumori polemici. E richiamando l’attenzione sui problemi reali.
E la sua adesione al movimento battezzato da Paul Ginsborg, “Alba”?
Ho dato la disponibilità per una discussione. Se si dovesse andare verso ipotesi più o meno elettorali, non starei in una lista di Alba. La mia scelta è questa. E guardi che non è un lavoro che non ha risvolti politici. Ho partecipato molto attivamente al referendum sull’acqua, a cominciare dalla preparazione dei quesiti.
A un certo punto Scalfari spiega: “Io credo per esempio che in un paese come questo una lista che affermi il valore della legalità sarebbe un punto di forza”. Non è come dire che il Pd da solo sui temi della legalità è meno autorevole?
Appunto. Appunto. Penso che di garanti per la legalità non ne servano, ma sarebbe il caso che il Pd fosse consapevole che sul tema della legalità deve farcela con le sue gambe.
Ultima: il suo nome si fa anche per un ruolo assai prestigioso, la Presidenza della Repubblica.
(Ride molto di gusto) Se ne dicono tante...

il Fatto 2.6.12
Liste civiche istruzioni per l’uso
di Paolo Flores d’Arcais


D’improvviso “tutti le chiedono, tutti le vogliono... ”. Stiamo parlando delle liste civiche, diventate di colpo, proprio come il Figaro rossiniano, “il factotum della città”, cioè della politica. Fino a ieri, invece, per chi le proponeva erano solo frizzi e lazzi, o peggio: un irridente silenzio. Questo giornale, praticamente dalla nascita, insiste sulla necessità di liste autonome della società civile (e su primarie vere di coalizione) come antidoto all’avvitamento e imbarbarimento della politica in partitocrazia. Ora si svegliano tutti. Come mai? E soprattutto con quali intenzioni?
Il “come mai? ” è semplice e si chiama Movimento 5 Stelle. Ai partiti il disprezzo degli elettori “non scuce un baffo” fino a che si traduce in assenteismo dalle urne (tanto, anche se vota la metà degli elettori, i seggi se li occupano e spartiscono tutti). Se però una percentuale a due cifre trasmigra verso Grillo, per le nomenklature sono dolori: la torta si riduce. Ora, lasciamo perdere il mondo berlusconiano e quello dei finti tecnici, insomma l’establishment e le due destre. Che senso possono e debbono avere, invece, liste civiche e primarie per la rappresentanza del Terzo Stato e per una politica di “giustizia e libertà”?
Eugenio Scalfari vuole una lista civica propiziata da Saviano (anche se non si candida), e caratterizzata da una pregiudiziale: il sostegno al governo Monti. Proprio quello che non vuole la società civile mobilitata nelle lotte e nelle campagne di opinione. Scalfari, in sostanza, vuole una lista di “portatori d’acqua” al Pd, piena di bei nomi e che faccia il pieno dei voti in fuga da Bersani &C.
E non parla di primarie. Lo fanno, invece, i “giovani” della fronda Pd (Civati, Concia, Scalfarotto, ma soprattutto l’anziano Parisi, pro-diano doc e fondatore del Pd) che in compenso rifiutano le liste civiche. Ma primarie e liste civiche (al plurale) non possono essere messe in contrapposizione. Sono entrambe necessarie perché nella loro sinergia restituiscano agli elettori democratici un briciolo di sovranità. Altrimenti questi ultimi restano a casa o emigrano chez Grillo. La coalizione di centrosinistra può vincere solo se si apre alla società civile da anni critica e ostile alle scelte di inciuci e subalternità (si chiamino Berlusconi, Marchionne, Monti, anche se non assimilabili). Solo se accetta vere primarie di coalizione, che affidino agli elettori la decisione sul programma politico, di cui i candidati premier in concorrenza – dirigenti di partito, sindacalisti, giuristi, preti... – saranno l’espressione. Bersani accetta la sfida?

Corriere 2.6.12
Dominati da poteri internazionali in balia di apostoli senza spirito
Noi Sudditi di Poteri sempre più Lontani
di Giuseppe De Rita


È corrente, in questo periodo, la spiacevole sensazione di essere dei sudditi, ma molto poco governati. Avvertiamo tutti la sudditanza a decisioni che hanno origine altrove,
in particolare nella grande finanza globalizzata («ce le impone lo spread»); e al tempo stesso sentiamo che le nostre tradizionali strutture di governo non hanno la sovranità e l'intelligenza per regolare il rapporto fra tale sudditanza e la quotidiana vita collettiva. Non ci piace la presunzione della più planetaria banca d'affari quando si attribuisce poteri quasi divini, visto che ogni sua mossa può «regolare o disordinare l'andamento delle costellazioni finanziarie e politiche»; ma neppure ci fa piacere la constatazione che non ci sono in giro protagonisti abbastanza forti per contrastare tale celeste presunzione con adeguate politiche nazionali e/o settoriali.
Chi non ha voce o almeno appartenenza nel circuito del grande potere finanziario internazionale (di fatto la «moderna sede della sovranità»), rischia di apparire come semplice figurante di un panorama di impotenze. I grandi vertici mondiali, dai G5 ai G20, sembrano volenterose conferenze di vecchi e nuovi amici in attesa di un'affollata foto ricordo; i summit europei hanno il triste sapore di congregazioni che rincorrono, mai padroneggiandoli, i propri errori; i governi nazionali, una volta massimi titolari della sovranità decisionale, si affannano a controllare i propri «debiti sovrani»; i parlamenti (e tutte le altre rappresentanze elettive) non hanno più il necessario respiro decisionale, visto che sulla variabile fondamentale della spesa non sono loro i protagonisti; i soggetti politici (i partiti, ma non solo) si rifugiano in una mediocre autoreferenzialità, accodandosi a una logica di governo legittimata prevalentemente da fenomeni e decisioni che si svolgono altrove. E il «popolo», formalmente ancora titolare di ogni democratica sovranità, finisce per sottostare a poteri sempre più alti e lontani, restando sulla soglia o di un adattamento da sudditi o di un malcontento di moltitudine, qualche volta antagonista.
Non sorprende quindi che si vada affermando una struttura del potere, sia internazionale che nazionale, che tende a slittare in alto, mentre i circuiti intermedi (europei e nazionali, politici o istituzionali) restano in una configurazione ambigua: si presentano cioè come un insieme di «gironi» sovrapposti uno sotto l'altro in orizzontale, senza che si attui una significativa comunicazione fra loro. Vivono chiusi nelle loro dinamiche orizzontali e tutte relazionali (è relazionale la dinamica europea come lo è quella nazionale, dalle convergenze di governo alla concertazione sociale al mondo della finanza, ecc.). E ne è naturale conseguenza che fra di esse non si stabilisca un adeguato collegamento in verticale.
Una volta era la politica che sapeva gestire la connessione verticale dei vari «gironi»: tutti ricordano la capacità della Dc o del Pci di gestire le loro appartenenze planetarie (verso gli Usa o verso l'Urss) passando via via per i vari circuiti intermedi e arrivando a innervare oratori parrocchiali e sezioni rionali. Oggi nessuno sa più fare il «lavoro in verticale» (tranne Napolitano, che il mestiere l'aveva imparato prima) e i singoli circuiti intermedi sono abbandonati a se stessi, costretti in dinamiche interne e relazionali che li privano di ogni spinta di innovazione e di convincimento verso l'esterno e verso la quotidianità collettiva. Si concentrano su una micro competizione interna, gestita da ambiziosi colonnelli senza strategia (o da «apostoli senza pentecoste», se si vuole guardare in altri campi oggi di moda).
Chi non ha voglia di adattarsi a un futuro di pura sudditanza ai pochi apicali regolatori delle costellazioni farebbe allora bene se anzitutto si liberasse della ormai asfissiante orizzontalità che regna nei vari gironi di potere intermedio; e se cominciasse in secondo luogo a esplorare gli spazi di un recupero di un lavoro (anche politico) in verticale.
In fondo, di un tale processo si comincia a vedere l'esigenza nei bisogni antropologici della quotidianità (il ritorno del padre, del prete, della maestra, ecc.) ma esso non è ancora nell'orizzonte di attenzione delle nostre classi dirigenti, da decenni prevalentemente relazionali e orizzontali.

Repubblica 2.6.12
Nella tendopoli con arabi e sikh l’ultima scommessa multietnica
Dal cibo all’igiene, sfida ai pregiudizi quando cadono tutti i muri
di Michele Smargiassi


"Niente tonno! Voglio il wurstel!" Ma un campo profughi non è un ristorante
I cinesi sono quasi tutti scomparsi, i tunisini a centinaia ritornano nel loro Paese

MIRANDOLA - "Niente tonno! Voglio il wurstel!". Ma la mensa di un campo profughi non è un ristorante, i cuochi fanno miracoli ma il menù non è infinito. «Voi cucinate solo cose che piacciono a quegli arabi!», gran pugno sul tavolo, le voci si alzano, poi qualcuno interviene, l´inizio di zuffa è sedato. «Poi quel signore si è pentito e ha offerto da bere», conclude il racconto Egidio Pellagatti, toscano, responsabile del campo Costa di Mirandola, affidato all´Anpas. «Ma se non stiamo attenti, ogni cosa è un pretesto». Per scongiurare la guerra etnoreligiosa del wurstel contro il tonno, del ragù contro le melanzane, ci vogliono doti che non facevano parte del bagaglio dei volontari della protezione civile, non prima di questo terremoto d´Emilia, il primo terremoto multietnico nella storia d´Italia.
L´Emilia è già una terra multicolore, e non da oggi. Qui a Mirandola la quota di immigrati è del 16%, ma ci sono comuni dove si sfiora il 20. Se poi conti solo i lavoratori, siamo già a un quarto del totale. Che tre dei dodici operai morti sotto le macerie fossero stranieri non è caso, ma crudele statistica. In più, il terremoto ha un suo modo di ribaltare le cifre, come ribalta le pareti. E adesso, nelle tendopoli di tela azzurra che hanno rimpiazzato i paesi rosso mattone, gli italiani sono finiti in minoranza. Anche in estrema minoranza, come qui al Costa, dove su trecento accampati solo ventotto hanno il passaporto tricolore. C´è una spiegazione, anzi più d´una. Negli edifici vecchi del centro storico ora devastato, più di una casa su tre era abitata da extracomunitari. Aggiungi che «gli stranieri non hanno legami affettivi con le loro case in affitto, non hanno problemi a lasciarle, e non hanno parenti che li accolgono», spiega Domiziano Battaglia, coordinatore dei campi per il comune, «così sono stati i primi, subito dopo il terremoto del 20, a rifugiarsi in massa nelle tendopoli».
Così, quando sono arrivati anche gli italiani stremati dalla seconda botta di martedì, hanno trovato campi già popolati da stranieri. «Avete dato la precedenza a loro!», gridavano giorni fa davanti al municipio da campo Ciro e Salvatore, fratelli di Acerra, che avevano dormito per una settimana in auto ai piedi della loro palazzina lesionata. La risposta in Comune è secca: «La regola è: entra chi è residente nel comune, noi non facciamo altre distinzioni». Ma certo bisogna evitare che le tendopoli diventino dei centri di prima accoglienza impropri. Tutti i campi ora hanno un pass, la Caritas controlla che non vengano forniti aiuti doppi alle stesse persone, «e di notte facciamo le ronde perché c´è sempre qualcuno che prova a scavalcare il recinto», ammette il volontario Antonio. È insomma una Italia multiculturale rovesciata, dai pesi ribaltati, quella che si è formata nelle tendopoli per una serie di eventi tragici e involontari. Ma a suo modo è un laboratorio, una prova da stress dei possibili scenari futuri della convivenza. Coi muri di cemento, il terremoto abbatte i muri invisibili che in una società complessa fanno da cuscinetto, tengono le distanze fra i gruppi e le culture. Niente porte blindate, niente quartieri separati nelle tendopoli. «Abbiamo tende da sei o da dieci letti e dobbiamo riempirle», spiega con la forza dell´evidenza Maria Zanot, coordinatrice del campo della regione Friuli. Ma quando hai una dozzina di nazionalità diverse, alcune ostili fra di loro, fare l´assegnazione dei posti è una specie di Risiko che richiede conoscenze geopolitiche non banali. «Che non devo mettere pachistani e indiani nella stessa tenda lo so già, ma potrò metterci sikh e islamici?».
Alcuni dilemmi si sono risolti da soli. I cinesi, seconda nazionalità per presenze, nei campi quasi non ci sono. «I cinesi sono spariti», ti dicono sorpresi i servizi anagrafe delle tendopoli. Non li trovi neanche in paese, nelle tende autogestite. Come se fossero svaniti assieme all´onda sismica. Probabilmente fuggiti altrove, in assoluto silenzio, in quel mistero che aleggia da sempre attorno alle loro correnti migratorie. I tunisini, invece, se ne vanno ufficialmente: il console in Italia è passato a offrire rimpatri gratuiti, e almeno trecento hanno già approfittato, «Domani parte una nave da Genova, andrei anch´io ma ho i documenti in questura che è crollata», racconta Edi, con stizza. Anche i consoli di Marocco e India hanno fatto offerte simili. I romeni sono partiti in pullman. Torneranno? Le fabbriche sono chiuse. Ma c´è da chiedersi se ci saranno abbastanza braccia per la frutta e la vendemmia, fra qualche mese. Le badanti dell´Est, invece, se ne stanno andando alla spicciolata, impaurite, magari con qualche scusa: «Sonja ha detto che le è morto uno zio, ma adesso come faccio con mia madre...», chiede aiuto disperata al desk comunale una signora, «proprio adesso...». Ma non bastano le fughe volontarie a riequilibrare la babele dei campi. A Cavezzo gli avvisi sono tutti in tre lingue, italiano arabo e hindi. Qui non ci sono tende, sono due campi da tennis coperti da una gran volta di legno e acciaio a prova di catastrofe. Una sola enorme camera da letto a trecento piazze. «Le famiglie marocchine, la sera della scossa grande, non volevano entrare, dicevano che le donne non possono dormire con gli uomini», racconta Francesco Gasperi detto Gas, 19 anni e pettorina da volontario, «ma pioveva e ho detto: c´è solo una scelta, asciutti o bagnati. Hanno discusso un po´ e sono entrati».
A Mirandola, invece, i musulmani chiedevano bagni separati, e qui Pelagatti che è un uomo tranquillo è sbottato, «e che, è una tendopoli o una bagnopoli?». Poi però ti confessa che «in realtà sono gli italiani che mugugnano di più». Per esempio Antonio e Sara: «Gli stranieri si lavano i piedi davanti alle tende». Bisognerebbe spiegare ad Antonio e Sara cosa sono le abluzioni rituali prima della preghiera del venerdì. Ma forse c´è chi lo può fare. Ecco Gurwinder Sikh detto Guru, ha solo 17 anni ma guai se non ci fosse, l´interprete del campo, in realtà il mediatore culturale, paziente, simpatico, «se parli le cose si risolvono» è il suo mantra. Ha organizzato una squadra di coetanei, sikh e indù, che aiuta a pulire i bagni e a servire alla mensa. Ecco, saranno forse i ragazzi come Apooraf, come Gurminder, immigrati di seconda generazione, né più stranieri né del tutto italiani, a costruire la convivenza difficile. Oppure quelli come Mohamed, imponente marocchino ottimista. In coda alla macchinetta del caffé sgrida bonario i connazionali maleducati: «in fila! Bisogna fare la fila!». In Italia da vent´anni, chiama «mamma» la signora Maria, vicina di casa sfollata anche lei. «Sai», ti dice conciliante, «bisogna avere pazienza, il terremoto scuote la terra e la testa». Vero, ma proprio per questo nel campo della provincia di Trento, a San Felice, ogni minima infrazione è una miccia: non svuotare subito la lavatrice, egemonizzare le prese per i cellulari, fumare in tenda. Luisa Zappini, ex infermiera, donna decisa, governatrice del campo, ha un metodo: «Agli ospiti diciamo: non è un albergo, è casa vostra, non siete serviti, datevi da fare». Ogni gruppo nazionale elegge un referente, e se qualcuno sgarra, è il referente che viene richiamato per rottura del patto. Certo, un campo profughi multietnico è la nostra società compressa in una provetta. Magari, questo esperimento non previsto e non voluto servirà perfino a imparare qualcosa.

Repubblica 2.6.12
Quel tempo immobile che ha spezzato il nostro tran-tran
di Wu Ming 1


La memoria Si vuole ripartire subito, ma sarà il caso di cambiare meta e percorso e scendere da questo treno iperveloce
I bimbi dopo la chiusura delle scuole giocano nei parchi senza sosta. Hanno riscoperto il loro spazio

Da quando è iniziato il terremoto in Emilia, i giornali e siti di informazione (soprattutto quelli locali) pubblicano foto di orologi. Le torri degli orologi di Finale Emilia, San Felice sul Panaro e Ferrara; l´orologio della chiesa di Sant´Agostino, quello della chiesa di San Rocco a Cento... Quadranti danneggiati, spaccati, scomparsi. Qualcuno è rimasto intatto ma fermo, a segnare l´ora della scossa che lo ha bloccato. Chi come me vive a Bologna non può non pensare all´orologio della stazione, fisso sulle 10: 25 dalla strage del 2 Agosto.
Perché un orologio fermo diventa notizia? Perché ne guardiamo la foto? Forse perché in essa cogliamo qualcosa, un lampo di verità su noi stessi.
L´Evento che lacera la quotidianità si esprime per metafore. Come gli insorti della Comune di Parigi secondo Walter Benjamin, il terremoto ha «sparato sugli orologi». Non solo: ha causato il tracollo della rete telefonica mobile. Quale messaggio dovremmo cogliere?
Se chiedi a un bambino di disegnare una casa, disegnerà quasi sempre una villetta monofamiliare, anche se vive in un trilocale al decimo piano o in un brefotrofio. In modo analogo, il terremoto ha colpito gli orologi di torri e campanili, benché da tempo non siano più quelli a scandire la nostra giornata. L´odierna forma-orologio è onnipresente, incorporata in ogni nostro dispositivo: computer, tablet, telefonino, furbofono, cruscotto di auto «intelligente»... Oggi, almeno in Occidente, sappiamo tutti e sempre che ora è. Non era mai accaduto che la maggioranza dei membri di una società si percepisse e rappresentasse in ogni momento dentro un tempo scandito e strutturato. Bifo dice che il telefonino è una catena di montaggio mobile, dalla quale non puoi staccarti. Al tempo stesso, sei cronometrista della tua prestazione.
È forte la tentazione di maledire il sisma, descriverlo come «demone», «mostro», entità ostile. «Siamo in guerra con la terra», ha gridato a tutta pagina un quotidiano emiliano, ma non è la terra il nemico. È forse colpa della terra se viviamo, costruiamo, abitiamo, lavoriamo, obbediamo in un certo modo? A uccidere non è il sisma, ma la realtà su cui il sisma getta luce. A uccidere è l´illusione che si possa tornare subito al tran tran di prima, ai ritmi forsennati di prima. La spinta a ripristinare la «normalità» (la parola più ripetuta nelle interviste) è costata altre vite: le aziende non hanno atteso le verifiche e gli operai sono tornati a lavorare in capannoni a rischio, con le conseguenze che sappiamo. Dunque, l´unica «normalità» già ripristinata è quella dei morti sul lavoro per mancanza di sicurezza, delle famiglie devastate, dei figli rimasti orfani perché la macchina non poteva fermarsi.
Spesso, nelle città, i movimenti sociali rivendicano «spazi», ma avere spazi non cambia nulla se non si contestano i tempi. Ti riappropri degli spazi quando i tempi saltano e riprendi fiato, grazie allo zoccolo scagliato negli ingranaggi. È tragico che a gettare lo zoccolo sia stato un terremoto, ma la tragedia non deve ottenebrarci, renderci ciechi di fronte agli esempi.
Un amico mi racconta che, dopo l´ordinanza di chiusura delle scuole, i parchi del suo paese si sono riempiti di bande di bambini che giocano ad libitum. Non accadeva da anni, nemmeno nei giorni festivi. Oggi i bambini - anche in provincia - vivono «imbozzolati» in tempi infernali, con giornate piene di scadenze e impegni incastrati meticolosamente: scuola, piscina, lezione di questo e quello, catechismo... I pochi, interstiziali momenti di far-niente li passano davanti a uno schermo. L´Evento ha interrotto la sequela e fatto riscoprire uno spazio, lo spazio dei giochi per eccellenza.
In diversi stati, gli edifici delle università sono aperti anche di notte, a disposizione degli studenti. In Italia no, ma ci ha pensato l´Evento. La facoltà di Architettura di Ferrara è rimasta aperta di notte, per accogliere chi preferiva dormire fuori casa. Fino a trent´anni fa, quell´edificio di via della Ghiara ospitava un manicomio, grande macchina disciplinare, luogo di costrizione fisica e totale eterodirezione dei tempi.
Mentre scrivo, nelle province emiliane colpite dal sisma (Modena, Ferrara e Bologna) le scuole sono ancora chiuse e c´è chi propone di dichiarare terminato l´anno scolastico. Le scosse potrebbero susseguirsi per mesi, si capisce che la vita sarà diversa. Molti operai si rifiutano di rientrare nei capannoni. «La vita vale più dell´economia», ha dichiarato un dirigente della Fiom. È la frase più eretica che oggi si possa dire, ma la routine già incalza e preme, e presto tornerà a imporsi.
Il tran tran è astuto: si ammanta di straordinario, si traveste da finta discontinuità. Si pensi al «minuto di silenzio»: rituale rapido e innocuo, conferma che l´ordine regna e può permettersi di sprecare un minuto... al termine del quale approfitterà del momento, pigiando sull´acceleratore di strozzanti controriforme e imponendo la sua shock economy.
È vero, vogliamo «ripartire» (il verbo più usato nelle interviste). Tuttavia, sarà il caso di cambiare meta e percorso, saltando giù da questo treno iperveloce. Chiediamoci: questa velocità dove ci porta? «Lavorare con lentezza, chi è veloce si fa male», cantava Enzo Del Re. Chiediamoci, soprattutto: questa velocità a chi conviene? «Un ladro più veloce ruba meglio, e un fesso più veloce non diventa meno fesso», diceva Amadeo Bordiga.
Il tran tran si riaffermerà. Intanto, approfittiamo dell´Evento per respirare, pensare, prepararci a lottare.
© , 2012 (L´autore consente la riproduzione, purché non a fini di lucro)

l’Unità 2.6.12
Sui valori della famiglia nessuno si sottragga al dialogo
Nulla a che vedere con il family day berlusconiano
A Milano un’occasione seria per approfondire ...
di Domenico Rosati


FAMIGLIA E LAVORO, FAMIGLIA E FESTA, FAMIGLIA E SCUOLA, FAMIGLIA E WELFARE, FAMIGLIA E MIGRAZIONI. Basta scorrere l’elenco dei temi per rendersi conto del carattere impegnativo dell’impianto di questo Incontro mondiale delle famiglie, il 7 ̊ della serie, che si sta svolgendo a Milano e che sarà concluso dal Papa con un discorso molto atteso. Tutta la chiesa cattolica si appare, infatti, mobilitata per dar vita a un confronto d’esperienze a scala planetaria, incluse quelle che sembrano mettere in crisi l’istituto familiare incrinandone la stabilità o dissolvendone il ruolo sociale. Ci si trova dunque in presenza di un’occasione seria di approfondimento da non scambiare con la ripetizione di slogan apologetici; e giustamente lo si fa notare in un opuscolo di presentazione. E comunque qualcosa di diverso e in meglio di quel family day che venne somministrato agli italiani. Allora s’intendeva bloccare un progetto per una soluzione plausibile per le unioni di fatto che si muovesse nell’alveo della Costituzione e non pregiudicasse aspetti di principio. E fu, purtroppo, una manifestazione politica con la conta di chi c’era e di chi non c’era e anche con l’esibizione, penosa, di alcuni «difensori del vincolo» non precisamente titolati al riguardo. Ora, viceversa, ci si muove in un’orbita più marcatamente religiosa per rimettere in valore le ragioni sacramentali del matrimonio cristiano e per riproporlo come tale non solo ai fedeli ma a quanti intendano condividerne i significati profondi. In tal modo, oggettivamente, si lascia sullo sfondo il matrimonio civile, del quale ci si era occupati con tanta energia, a rischio di assumere la tutela di un istituto storico che, anche nella sua espressione concordataria che si celebra in chiesa, include ormai il divorzio. L’opzione per l’approccio ecclesiale non implica tuttavia l’indifferenza di chi dall’esterno con onestà intellettuale si pone nella logica della costruzione della comunità e non può non vedere nella famiglia un nucleo non fungibile della vitalità sociale di un Paese. L’esercizio dell’obbligo della sintesi politica costringe a mediare al meglio (che talora è un peggio) ma ciò non corrisponde a insensibilità o neutralità nel giudizio sulla famiglia e sul fatto che, tra le motivazioni che la animano, un peso importante possano avere quelle che le religioni raccomandano ai fedeli e rappresentano nel dibattito pubblico.
Del resto già ai tempi delle prove referendarie c’era stato tra i credenti chi aveva suggerito di affidare la tutela dei valori in campo più alla persuasione pedagogica che alla costrizione legislativa. E s’era riscontrato che proprio su un tema divenuto controverso nel clima della secolarizzazione, come la famiglia, risultavano possibili convergenze significative, come accadde nel nuovo diritto di famiglia. Nel cui ambito la parificazione dei figli nati nel matrimonio e fuori del matrimonio veniva a stabilire un’unica rete di protezione per entrambe le situazioni con riflessi impegnativi anche per i genitori non sposati.
Un altro approccio convergente si realizzò sul finire del ’900 quando, discutendosi di riforma dell’assistenza, si usò la formula delle “responsabilità familiari” per individuare le situazioni meritevoli di apprezzamento e di sostegno in un ambito ben più vasto del welfare. Tale era il respiro del preambolo dell’art. 16 della L. 328/2000, dove era riconosciuto e sostenuto «il ruolo peculiare della famiglia nella formazione e nella cura della persona, nella promozione del benessere e nel perseguimento della coesione sociale». E si accennava ai «molteplici compiti che le famiglie svolgono sia nei momenti critici e di disagio, sia nello sviluppo della vita quotidiana», anche supportando «il mutuo aiuto e l’associazionismo delle famiglie» e il loro «coinvolgimento nell’ambito dell’organizzazione dei servizi». Seguiva un catalogo analitico di priorità che vorrebbe essere comunque rivisitato se si volesse riprendere il filo del discorso partendo, più che dalla perimetrazione dei diritti, dall’individuazione dei doveri (le responsabilità) come titolo identificativo-pratico della famiglia.
Tutto questo per manifestare un’attenzione non superficiale su quel che si elabora a Milano e per sottolineare in sede politica che sul tema della famiglia nessuno può sottrarsi al dialogo quando si fuoriesca dall’ambito strettamente ecclesiale e ci si immetta, da cittadini, nei laboratori della città dell’uomo.





La Stampa 2.6.12
La diversità non sia motivo di scontro
di Giuliano Pisapia
, Sindaco di Milano

Quello che segue è il discorso che il sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha pronunciato ieri pomeriggio sul sagrato di piazza del Duomo a Milano accogliendo papa Benedetto XVI, nel capoluogo lombardo anche oggi per il VII incontro mondiale delle Famiglie.

Santità (...) benvenuto dai milanesi e dagli uomini e dalle donne che arrivano da 170 paesi del mondo e che hanno scelto Milano come loro città. Nuovi milanesi, come il nostro patrono, Sant’Ambrogio. Che non era milanese, e nemmeno italiano.
Benvenuto dai cattolici, che sono la maggioranza della nostra Milano e che oggi sono pieni di gioia; benvenuto anche dai credenti di ogni altra religione perché la fede non può essere motivo di divisione, ma deve essere soprattutto motivo di coesione. Benvenuto anche dai non credenti. Sono le diversità che definiscono i nostri tempi. Diversità di cultura, di credo; di benessere e di possibilità di vita. Diversità di razze, di colori, di speranze. E la diversità non può e non deve essere motivo di scontro. Può e deve essere fonte di aggregazione, di ricchezza, di unità. E, comunque, a tutte e a tutti deve essere garantita parità di diritti. Sono certo che noi possiamo fare tanto se i nostri valori sapranno unire invece che dividere.
Credo sia giusto parlare con franchezza, guardandosi negli occhi. L’importante, poi, è come si continua: per costruire bisogna proseguire spalla a spalla, guardando insieme verso un unico obiettivo. Con il Cardinale Scola – siamo arrivati quasi insieme a guidare la città – stiamo cercando di camminare fianco a fianco. Ci sono parole, ci siamo detti, che non possono che unirci: accoglienza, responsabilità, servizio. Quello che stiamo facendo è cercare di abbattere barriere, di essere aperti al contributo di tutti al di là delle bandiere e al di sopra delle etichette. Io penso che bisogna gettare dei ponti. Non alzare dei muri. La famiglia e il lavoro, oggi, sono il nostro «ponte». Soprattutto oggi, che la crisi ci impone di riflettere e di cambiare. Credo che il messaggio rivoluzionario di Cristo si sposi oggi ancora più facilmente con il messaggio di chi vuole ridurre le differenze, alleviare la miseria, portare nel mondo la giustizia. Con umiltà, che è il modo in cui intendo questa mia missione laica, voglio dire che paradossalmente questa crisi può aiutarci. Ad andare alla sostanza delle cose. A liberarci dell’effimero. A mettere la giustizia sociale, e non il profitto, al centro di ogni decisione.
Voglio essere ottimista, anche se ogni giorno vedo le difficoltà e le confesso il mio dolore quando vedo il lavoro che manca, le famiglie che non arrivano alla fine del mese, donne e uomini che fanno la fila per un piatto di minestra o un pezzo di pane... Ma se guardo avanti vedo che la crisi potrà darci l’opportunità di cambiare. Di cambiare gli stili di vita. Di apprezzare una maggiore sobrietà. Questa crisi può aiutarci ad andare alla sostanza delle cose.
Anch’io – come lei – mi sento di dire ai giovani: non scoraggiatevi. Ho seguito i lavori di Città del Messico e ricordo di aver pensato che il tema – la famiglia, il lavoro scelto per il nuovo incontro mondiale che si sarebbe tenuto proprio qui, a Milano era un tema che mi appassionava. Ma non avrei mai pensato, allora, di essere io ad avere l’onore di accogliere lei, Santo Padre, e un milione di persone che arrivano da oltre 150 Paesi. È un pezzetto di mondo... è una magnifica occasione di cui la città di Milano la ringrazia, e anch’io la ringrazio.
La famiglia. Qual è il significato della parola famiglia? Famiglia significa amore, rispetto, solidarietà. E significa scelta, scelta di condividere un pezzo di strada. La famiglia è, in piccolo, la nostra società. Vengo da una famiglia numerosa – siamo sette fratelli, tantissimi zii, un’infinità di cugini – e anche noi, come Lei con suo fratello, guardavamo insieme in televisione il commissario Rex. So – anche da laico - che la famiglia è il primo mattone della società. Le famiglie sono spesso la vera colonna del sostegno sociale dei più deboli, e pagano oggi il prezzo più alto. E la famiglia – le famiglie – hanno la priorità nelle nostre preoccupazioni. Ci interessa anche il loro tempo. E come lei, penso, che la domenica debba essere il loro tempo. Ci interessa la loro vita. Il cibo che mangiano. Ed è per questo che Milano si prepara, con L’Esposizione Universale del 2015, ad un ulteriore importante momento di apertura al mondo su un tema di cui andiamo fieri: «Nutrire il pianeta, energia per la vita».
E che sarà il nostro contributo di speranza per un futuro migliore, per un mondo più giusto, nel rispetto dell’ambiente, dell’energia pulita, dello sviluppo sostenibile, dell’alimentazione come diritto primario di ogni individuo. Troppo spesso, oggi, al di là delle parole, le famiglie si sentono abbandonate, non sostenute, obbligate a trovare solamente al proprio interno le risorse per sopravvivere. Troppo spesso tante donne sono costrette a portare sulle loro spalle tutto il peso del futuro delle loro famiglie e troppo spesso, nelle case, le donne sono oggetto di violenza. Questo non deve più essere. Allora da qui, oggi, Santo padre, può ripartire un messaggio forte che dia nuovo impulso alla formazione di tutte le realtà familiari. Da questo Duomo vogliamo lanciare una parola di speranza e di apertura: lavoreremo insieme perché nessuno si senta più solo.

Corriere 2.6.12
Il Papa: laici e fedeli assieme per cercare il bene comune
«I cattolici devono animare la vita pubblica. La famiglia patrimonio dell'umanità»
Il sindaco Giuliano Pisapia aggiusta la mantellina del Papa durante il discorso a Milano
di Gian Guido Vecchi


Il Papa in visita a Milano parla di «laici e fedeli assieme per cercare il bene comune». E poi: «La singolare identità di Milano non la deve isolare né separare, chiudendola in se stessa». Benedetto XVI aggiunge: «La famiglia va riscoperta come patrimonio principale dell'umanità». Il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, parla di «tutela per tutte le realtà familiari».

MILANO — «La singolare identità di Milano non la deve isolare né separare, chiudendola in se stessa». Benedetto XVI parla nel pomeriggio ai fedeli che riempiono piazza Duomo ma le sue parole a quel «crocevia di popoli e culture» che è Mediolanum — la «terra di mezzo» come traduce il cardinale Angelo Scola — possono essere rivolte a ogni città del mondo occidentale. La famiglia «va riscoperta come è patrimonio principale dell'umanità» anche perché è il primo luogo di trasmissione della fede in un mondo, ha ripetuto spesso il Papa, dove Dio sta diventando il «Grande Sconosciuto».
Così, nella terra di Ambrogio e Carlo Borromeo, Benedetto XVI allontana per un giorno le polemiche e i veleni dei «corvi vaticani» e torna al punto centrale del suo pontificato: «Voi ben sapete quanto sia urgente immettere nell'attuale contesto culturale il lievito evangelico». Perché «la fede in Gesù Cristo», dice, «deve animare tutto il tessuto della vita, personale e comunitaria, privata e pubblica, così da consentire uno stabile e autentico "ben essere", a partire dalla famiglia». La fede ha, deve avere un ruolo nella polis. È proprio «conservando la linfa delle sue radici» che una città come Milano può «guardare al futuro con speranza». Qui sta il senso dell'apertura, che richiama gli appelli al dialogo pronunciati nella Westminster Hall a Londra e al Parlamento di Berlino. È il punto centrale della sua riflessione in terra ambrosiana: «Nella chiara distinzione dei ruoli e delle finalità, la Milano positivamente "laica" e la Milano della fede sono chiamate a concorrere al bene comune».
In città sono arrivate famiglia da 170 Paesi del pianeta, trecento vescovi e una cinquantina di cardinali. Durante la sua visita — fino a domani, con la grande messa a Bresso — si calcola saranno presenti più di un milione di fedeli. Benedetto XVI sceglie un tono dialogante. Il tema della famiglia ha diviso Milano, il consiglio comunale è spaccato sulla proposta di un registro per le coppie di fatto, l'unico accenno della giornata è quando Giuliano Pisapia parla di tutela «per tutte le realtà familiari». Ma lo stesso sindaco di Milano — nel dare il benvenuto al pontefice a nome dei «cattolici, che sono la maggioranza della nostra Milano e che oggi sono pieni di gioia» ma anche dei «credenti di ogni altra religione» e dei «non credenti» — sceglie parole in sintonia con quelle di Benedetto XVI: «Sono le diversità che definiscono i nostri tempi. Diversità di cultura, di credo; di benessere e di possibilità di vita. Diversità di razze, di colori, di speranze. E la diversità non può e non deve essere motivo di scontro. Può e deve essere fonte di aggregazione, di ricchezza, di unità».
In tempi di crisi, nella sua prima giornata milanese, il Papa si sofferma soprattutto sui temi sociali. Nel suo discorso, limato fino all'ultimo, rivolge «un pensiero affettuoso a quanti hanno bisogno di aiuto e di conforto, e sono afflitti da varie preoccupazioni: alle persone sole o in difficoltà, ai disoccupati, agli ammalati, ai carcerati, a quanti sono privi di una casa o dell'indispensabile per vivere una vita dignitosa». Alza lo sguardo e sillaba: «Non manchi a nessuno di questi nostri fratelli e sorelle l'interessamento solidale e costante della collettività». Elogia le iniziative della diocesi ambrosiana «per andare incontro concretamente alle necessità delle famiglie più colpite dalla crisi economico-finanziaria». E l'impegno comune «all'intera Chiesa e società civile in Italia» per «soccorrere le popolazioni terremotate dell'Emilia Romagna, che sono nel nostro cuore e nella nostra preghiera e per le quali invito, ancora una volta, a una generosa solidarietà».
Sul terremoto tornerà più tardi, alla Scala, dopo il concerto in suo onore e l'esecuzione della Nona sinfonia di Beethoven, diretta dal maestro Daniel Barenboim, con i versi dall'inno An die Freude, «alla gioia», di Friedrich Schiller. Tre minuti di applausi. Però «su questo concerto, che doveva essere una festa gioiosa in occasione di questo incontro di persone provenienti da quasi tutte le nazioni del mondo, vi è l'ombra del sisma che ha portato grande sofferenza su tanti abitanti del nostro Paese», ha mormorato. «Le parole riprese dall'Inno alla gioia di Schiller suonano come vuote per noi, anzi, sembrano non vere. Non proviamo affatto le scintille divine dell'Elisio, non siamo ebbri di fuoco, ma piuttosto paralizzati dal dolore per così tanta e incomprensibile distruzione che è costata vite umane, che ha tolto casa e dimora a tanti...». Certo, quella cantata dei versi «non è una gioia propriamente cristiana», il ritratto di un Dio distante «nel cielo stellato», spiega, è discutibile: «Il buon padre è solo sopra il cielo stellato? La sua bontà non arriva giù fino a noi? Noi cerchiamo un Dio che non troneggia a distanza, ma entra nella nostra vita e nella nostra sofferenza...».
No, «non abbiamo bisogno di un discorso irreale di un Dio lontano e di una fratellanza non impegnativa», conclude: «Siamo in cerca del Dio vicino. Cerchiamo una fraternità che, in mezzo alle sofferenze, sostiene l'altro e così aiuta ad andare avanti».

Corriere 2.6.12
Bertone è accanto al Pontefice Ma sullo Ior si ritrova isolato
La commissione cardinalizia non ratifica la rimozione di Gotti Tedeschi
di Gian Guido Vecchi


MILANO — Di per sé, almeno in teoria, non sarebbe una cosa complicata: il board dello Ior caccia il presidente e la superiore «commissione cardinalizia di vigilanza» ratifica la decisione. Se è d'accordo, ovvio. Solo che l'accordo non c'è, i cardinali sono divisi: due di essi, si dice, hanno rifiutato ieri mattina di votare il provvedimento sostenuto dal segretario di Stato Tarcisio Bertone per chiudere la partita. Nulla di fatto. E lo scontro sulla destituzione del presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi — «sfiduciato» otto giorni fa, con una nota di durezza inaudita, dal Consiglio di sovrintendenza dell'istituto — è tutto in una frase che mormorava ieri un alto prelato: «Vede, ci sono ancora persone che non vanno contro la propria coscienza e morale, perché credono alla vita eterna».
La notizia è filtrata dalle Mura leonine prima che il segretario di Stato Tarcisio Bertone apparisse sorridente alle spalle di Benedetto XVI a Milano, ieri pomeriggio. Un'immagine rassicurante, come una conferma della «fiducia ai miei più stretti collaboratori» che il Papa ha assicurato mercoledì. Non avviene quasi mai che il segretario di Stato accompagni il Pontefice nei suoi viaggi in Italia. Già si diceva si fosse aggiunto all'ultimo momento. Ma è stato lo stesso padre Federico Lombardi a precisare: «La presenza del cardinale nel seguito era prevista da tempo: questo viaggio ha un carattere internazionale, è l'incontro mondiale delle famiglie».
In ogni caso, il sorriso di Bertone velava la sua preoccupazione. La Santa Sede nega ci sia stata una «riunione» della commissione cardinalizia e ammette soltanto una «consultazione» tra i cardinali. Comunque la si voglia definire, resta il fatto che è la seconda in una settimana. Venerdì scorso, all'indomani della destituzione di Gotti Tedeschi, la commissione si era riunita per «trarre le conseguenze» della sfiducia, come diceva il board. Lungi dal trarre conseguenze, si era atteso invano tutto il giorno un comunicato: non avevano trovato neppure l'accordo sul testo, cosa senza precedenti.
La commissione di vigilanza è composta di cinque cardinali: oltre a Bertone, che la presiede, ne fanno parte Attilio Nicora, presidente dell'Autorità di informazione finanziaria; Jean-Louis Tauran, presidente del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso; più l'indiano Telesphore Placidus Toppo e il brasiliano Odilo Pedro Scherer. Gli ultimi due sono nei loro Paesi. Quanto a Tauran e Nicora, si racconta, hanno contestato il comportamento del board. E ieri hanno mantenuto il punto: nessuna ratifica della sfiducia a Gotti Tedeschi. Del resto Tauran fa parte dell'ala diplomatica che guarda con diffidenza al segretario di Stato. E Nicora ha sostenuto fino all'ultimo la prima versione della legge antiriciclaggio, poi modificata con un decreto che il 25 gennaio ha ridimensionato l'Authority che presiede. Uno dei motivi che ha portato Gotti Tedeschi a scontrarsi con Bertone, fino alla sua cacciata.

Corriere 2.6.12
Ratzinger cerca l'unità, però chi attacca ora mira al papato Le gerarchie hanno paura di lasciare tracce scritte e così in Vaticano fa il suo ritorno la «cultura orale» «Mai un allontanamento brutale come quello di Gotti Tedeschi»
di Massimo Franco


L'ultima bava di veleno e di intrigo è filtrata nel primo pomeriggio di ieri. Dalle stanze che un tempo custodivano i segreti è arrivata la voce che la Commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior si era spaccata sulla rimozione del presidente della «banca del Vaticano», Ettore Gotti Tedeschi; e che il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, era stato contestato. La Santa Sede ha fatto sapere che c'era stato solo un incontro informale; e che le «eminenze» si erano limitate a proseguire le consultazioni per trovare il successore. In più, quasi in contemporanea Benedetto XVI è andato a Milano per l'Incontro mondiale delle famiglie insieme con Bertone. E, per quanto la presenza del suo «primo ministro» fosse prevista, qualcuno ha voluto vedere una conferma della volontà papale di ribadire il loro rapporto fiduciario.
Eppure, la sensazione di precarietà e di intossicazione rimane, fortissima nonostante gli sforzi del pontefice di riaffermare un'immagine di unità: anche perché cresce il sospetto che l'offensiva di questi mesi punti a destabilizzare il papato, non solo a colpire il segretario di Stato. Ma la prospettiva di affrontare altri mesi punteggiati da nuovi attacchi e rivelazioni sta creando una psicosi difficile da controllare. Con amara ironia, si sente dire che mai come negli ultimi mesi Oltretevere c'è stato un ritorno alla cultura orale: un modo elegante per spiegare la paura di lasciare tracce scritte, anche ai piani più alti, che un domani potrebbero essere usate contro chi le ha lasciate. La guerra dentro la Curia porta invece a fare incetta di documenti consegnati a notai e chiusi in cassaforte, per difendersi da congiure vere o immaginarie che molti temono possano scattare da un momento all'altro.
C'è chi ha paura fisicamente, di fronte a tensioni e rotture anche personali che fanno risuscitare i fantasmi peggiori del passato papalino. Nessuno poteva pensare che le cinque celle fatte ristrutturare l'anno scorso nella Gendarmeria avrebbero ospitato di lì a pochi mesi il maggiordomo di Benedetto XVI, Paolo Gabriele, indagato numero uno, e per ora unico, per le fughe di notizie e documenti riservati dall'«Appartamento» papale. Sarà interrogato a giorni, e in parallelo continua un'indagine interna destinata a produrre nuovi conflitti e diffidenze: sebbene si dia per sicuro che Benedetto XVI sia intenzionato a graziarlo. Ma i fronti aperti sono diversi. Basti pensare alla situazione che si è venuta a creare con gli ispettori di Moneyval, il gruppo di esperti legali e finanziari del Consiglio d'Europa chiamati a valutare i sistemi antiriciclaggio. All'improvviso, si sono trovati davanti uno Ior decapitato. Fra qualche settimana si dovrà decidere se andare avanti o no sull'inserimento della banca vaticana nella white list, la «lista bianca» degli istituti di credito ritenuti affidabili sul piano internazionale. Il giudizio non cambierà per la presenza di un presidente o di un altro, ma certo le modalità della destituzione non hanno fatto un buon effetto.
Con un'operazione di trasparenza, la Santa Sede voleva realizzare quelli che con enfasi vengono definiti in privato «i Patti lateranensi del XXI secolo»: Vaticano e finanza internazionale che trovano un'intesa in grado di cancellare i sospetti sulle operazioni sporche compiute dallo Ior in passato; di mettere l'istituzione papale al riparo da inchieste imbarazzanti; e di evitare nuovi passi falsi, imponendo la «normalità» bancaria come tappa obbligata per la legittimazione a livello mondiale.
Quando qualche mese fa gli esperti di Moneyval vennero a Roma, la Santa Sede offrì loro o di stare in un albergo vicino alla Città del Vaticano, o di essere ospitati nella residenza di Santa Marta: quella dove abitano i cardinali riuniti in Conclave. Gli ispettori, fra i quali un russo, un olandese, un canadese, un turco, uno scozzese, hanno scelto quest'ultima soluzione, senza per questo rinunciare a setacciare per giorni gli uffici. Nelle valutazioni che i vertici ecclesiastici dello Ior stanno facendo per trovare il successore di Gotti Tedeschi, pesa l'esigenza di scacciare qualunque sospetto di cambi di strategia finanziaria. Si tratta di un passaggio delicato. Per quanto esistano ancora molti punti da chiarire sulle dinamiche interne che hanno accelerato l'uscita di scena del presidente scelto dallo stesso Bertone nel 2009, la spiegazione istintiva è stata inevitabile.
La sfiducia all'unanimità è stata vista come conseguenza di uno scontro durato mesi fra Gotti Tedeschi e gli uomini del segretario di Stato; e giocatosi sia nella partita tormentata del fallimento dell'ospedale San Raffaele, sia sulle norme contro il riciclaggio, sia sul modo di rapportarsi con Bankitalia e Banca centrale europea. Le operazioni dubbie compiute su conti correnti dello Ior, sulle quali sta indagando l'ufficio di informazione finanziaria della Banca d'Italia, sono un punto interrogativo: soprattutto per le sorprese che possono emergere da un pozzo finanziario del quale nessuno riesce a vedere il fondo. La trasparenza è un'arte difficile in un mondo che ha fatto del culto della segretezza il suo modo normale di operare.
L'annuncio di nuove rivelazioni va preso seriamente. E c'è da scommettere che avrà ancora effetti destabilizzanti. Non è da escludersi che il Vaticano reagisca a una luce dei riflettori accecante, spesso strumentale, chiudendo gli occhi; e che prevalgano analisi fuorvianti. Sarebbe un riflesso difensivo naturale, ma rischioso: se non altro perché a svelare gli angoli più reconditi e privati del papato sono state persone troppo vicine a lui; e perché i mandanti di queste manovre fangose mostrano di saper manipolare le persone e la verità in modo tale da rendere irriconoscibili le une e l'altra.

il Fatto 2.6.12
Corvi e veleni
Il papa a Milano con Bertone
Lo Ior non vuole entrare nella white list?
di Carlo Tecce


Il pontificato di Benedetto XVI è un insieme di simboli che vanno interpretati. E la presenza a Milano del cardinale Tarcisio Bertone, accanto al Papa in piazza Duomo per una visita inusuale e delicata, è un simbolo che trasmette un messaggio a Roma: il Segretario di Stato non si tocca. Anche la modifica di un protocollo ferreo ha un valore importante: il primo ministro vaticano accompagna il pontefice soltanto in trasferte internazionali. Questo accade lontano dal colonnato di San Pietro, a Roma faticano a smaltire le scorie per la cacciata di Ettore Gotti Tedeschi, l'ex presidente dell'Istituto per le Opere di Religiose. Un violento comunicato, scritto dal Consiglio di sorveglianza, un organismo laico, licenziò una settimana fa l'economista vicino a Giulio Tremonti, ma la commissione cardinalizia – per le pressioni di Nicora e Touran – ratifica le “dimissioni” di Gotti Tedeschi. La dicitura tecnica è sostanza vera: significa che il professore ha lasciato perché ostacolato, non che l'abbiano cacciato perché incapace. I cardinali più vicini al gruppo lombardo di Dionigi Tettamanzi e Angelo Scola rendono onore all'ex presidente e recuperano un tema centrale: il fondo sovrano Ior vuole far parte di quella white list che cancella i sospetti su movimenti di riciclaggio di denaro sporco e bonifica un pezzo sempre oscuro per la Chiesa? Non vuole, forse. E per questi motivi, pensano diverse fazioni in Vaticano, avrebbero allontanato Gotti Tedeschi. C'è una domanda ulteriore: conviene al Vaticano mettere in regola lo Ior? Giacomo Galeazzi su Vatican Insider (la Stampa) cita un prelato dell'Apsa, acronimo per Amministrazione del patrimonio per la sede apostolica, che avrebbe confidato in Curia: sarebbe sbagliato adottare le norme internazionali antiriciclaggio perché limiterebbero di utilizzare con riservatezza e discrezionalità il forziere papale. Nonostante nei giorni scorsi Bankitalia abbia segnalato ai magistrati una decina di operazioni strane avvenute sui conti Ior. Ieri il Papa è atterrato a Milano con un nuovo maggiordomo, mentre Paolo Gabriele è ancora rinchiuso in Gendarmeria, lunedì dovrebbe ottenere i domiciliari. Benedetto XVI ha ricevuto un minuto di applausi durante il suo arrivo al teatro la Scala. Prima aveva parlato in piazza San Pietro davanti a oltre mezzo milione di persone: “Milano laica e cattolica insieme per il bene comune”. E il sindaco Giuliano Pisapia ha chiosato: “Anche da laico so che la famiglia è il primo mattone. Da Milano, che grazie a lei oggi è al centro del mondo, può partire un messaggio che dia tutela a tutte le famiglie. Lavoriamo insieme perché nessuno si senta più solo”.

l’Unità 2.6.12
Sorpresa: Karl Popper come Marx e Gramsci
di Bruno Gravagnuolo


UN POPPER PLATONICO, HEGELIANO E SEGUACE DI BERKELEY? SEMBRA UNA BOUTADE. Ma a leggerlo bene, Popper non fu immune dall’influsso di quei tre, perché vi si misurò sempre, restandone «contaminato». La prova è in una conferenza del 1978: I tre mondi. Corpi, opinioni e oggetti del pensiero (Il Mulino, Euro 10, pp. 113, tr. di Paola Rumore, pr. di Giulio Giorello). Qual è il punto «idealistico» in questa «Tanner Lecture» all’Università del Michigan? Un doppio rifiuto: del monismo materialistico («tutto è materia»). E del dualismo («tutto è materia o coscienza»). Certo Popper è un realista, e rifiuta l’idea che gli enti siano reali nella mente di Dio o riflesso di un mondo delle idee. Respinge Berkeley e Platone. Eppure «spiritualizza» il mondo. Con l’idea che esistano tre mondi. Quello delle cose fisiche, dei sensi. Quello della percezione soggettiva interiore. E quello delle teorie, delle ipotesi e dell’arte o in generale della «cultura»: deposito ideale cristallizzato in opere. Dunque: sensazioni, percezioni soggettive, e «ragione-linguaggio» inclusivo anche di teorie errate o «falsificate».
Ovvia l’analogia con Hegel. E sta non solo nella visione della cultura come stratificazione e accumulo di civiltà. Ma proprio nel privilegio accordato al linguaggio come banco di prova inter-soggettivo della verità oggettiva (sempre ipotetica e falsificabile per Popper). Di più. Popper usa un argomento hegeliano, per falsificare la verità inespressiva e astorica della certezza puramente sensibile. La quale di per sé è incomunicabile e arbitraria. Talché la sensazione ha senso solo in un processo logico universalmente condiviso.
In sintesi, la verità come in Platone sta nelle idee, salvo che esse vanno sottoposte a procedura empirica di falsificazione. E Berkeley? Anche per Popper le cose si rivelano nell’«essere percepite». Ma ciò che conta è il loro «esser conosciute». Approdo che per Popper sta solo nel «Mondo 3». Che potremmo riassumere così: la ricerca e la raffigurazione della verità come processo logico-linguistico senza fine, fatto di «teorie» e interpretazioni. E che giunge a far proprio il «Mondo 1» e il «Mondo 2», in un nesso di interazione dialettica continua. Morale: anche il realista Popper era un dialettico. E la sua era una sorta di «filosofia della prassi» linguistica fatta di antitesi, via via risolte in sintesi empiriche provvisorie. Un pensiero conflittualista e aperto. Compatibile con quello di Marx, e persino con quello di Gramsci.

La Stampa TuttoLibri 2.6.12
L’avventura di un autodidatta, una vastità d’interessi, compresa la canzone (con Battiato) mentre esce il nuovo saggio «Della misantropia»
“In ginocchio davanti a Nietzsche”
di Giovanni Tesio


Manlio Sgalambro è nato a Lentini nel 1924. Filosofo, scrittore, poeta, paroliere, musicante, attore. I suoi libri sono editi da Adelphi. E’ appena uscito «Della misantropia» (pp. 160, 12). Altri titoli: «Del delitto», «La conoscenza del peggio», «Trattato dell’empietà», «De mundo pessimo», «Trattato dell’età», «La morte del sole», «La consolazione», «Dell’indifferenza in materia di società». Oltre che per Battiato, ha scritto testi di canzoni per Patty Pravo (Emma), Alice (Come un sigillo), Fiorella Mannoia (Il movimento del dare), Carmen Consoli (Marie ti amiamo), Milva (Non conosco nessun Patrizio) e Adriano Celentano (Facciamo finta che sia vero).

«Il primo libro letto? Di Roberto Ardigò Mi colpì la concezione di un universo privo di deità» «Subito dopo la guerra in una libreria antiquaria scoprii i Principi di James e Lady Chatterley» «Mi hanno insegnato molto gli scrittori tedeschi, da Goethe a Broch, Thomas Mann un timoniere» «I miei siciliani: Bufalino, che curava molto l’amicizia e D’Arrigo, la bellezza del suo mistilinguismo»

Lo chiamano «professore», ma lui - pur non opponendo che una mite resistenza - schiva l'etichetta. Manlio Sgalambro è un siciliano che crede nei concetti e che da sotto il vulcano (siamo a Catania) guarda la realtà come un freddo selenita, come un padre del deserto. Aperto a tutto - filosofo, scrittore, poeta, paroliere, musicante, persino attore - sostiene da autodidatta che tutto è venuto per caso. Perennemente attento ai contrasti, alle aporie, alle antinomie («la verità è il contro»), la sua gentilezza
sorprende perché dove aspetti un rude interprete della nostra pieghevole umanità trovi un signore severo che ti spiazza sorridendo e «consolando» (pensando a Boezio ha scritto: «solo la verità consola»). Intanto da Adelphi è appena uscito l'ultimo titolo, Della misantropia: un libro complesso in cui la misantropia viene contemplata «con lo stesso amore che si ha per l'amore». Ma il primo amore per lei non è forse il concetto? «Sì, amo il concetto, amo che le cose passino attraverso questo medium. Il concetto è un cristallo ricco di sfumature».
Il primo libro che lesse? «La formazione naturale nel fatto del sistema solare di Roberto Ardigò. Mi capitò di trovarlo per caso nella biblioteca di un mio parente. Mi colpì la concezione di un universo privo di deità, ma non fu il pensiero a colpirmi davvero. Fu piuttosto la scrittura, il fatto che fosse un'opera magnificamente scritta».
Altre letture? «I Principi di psicologia di James. Ci fu un periodo appena dopo la guerra, pur spiantato com'ero, in cui con un mio amico frequentavo una libreria antiquaria catanese. Io intrattenevo il libraio, e l'amico rubacchiava. Così potei avere i Principi di James e ricordo che andò così anche con L'amante di Lady Chatterley. Ma credo che nel sorriso malizioso del libraio ci fosse tutta la consapevolezza dei furti, tant'è che non mancava di rivalersi sul prezzo degli altri libri che compravamo». Solo letture sode, niente futilità? Albi, fumetti? «Ragazzino leggevo Il Monello e altri giornaletti del genere. «Lei ha parlato di «suggestione dell'opera come qualcosa da cui non possiamo difenderci». Sempre da perfetto autodidatta? «L'autodidatta è affetto, sicuramente, da quello che zio Sigmund chiamò il complesso di inferiorità. Vuole strafare sempre ed è portato a leggere pazzamente. Ma fa delle scoperte folgoranti. Scoprii Heidegger, ad esempio, per cui ebbi in seguito quasi una ripugnanza. Ma mi buttai in ginocchio davanti al suo Sein und Zeit. Impazzii per la fenomenologia di Husserl le cui Ricerche logiche immediatamente dopo la guerra potei leggere solo in traduzioni spagnole». Lei è caduto in ginocchio anche davanti a Nietzsche, pur avendo scritto del suo Zarathustra: «ma tappategli prima la bocca». «Quello che ho appreso da Nietzsche l'ho risputato poi nel mio Anatol, libro apparso nel '90, in cui a Zarathustra contrapposi Anatol». Con quale animo ha affrontato la sua formazione «da giovane cane»? «A sedici-diciassette anni vivevo a tentoni, in un paese tutto mentale. Mi interessavano i problemi, ma anche le soluzioni. Me ne esaltavo anche se poi ho imparato a essere più freddo. Vi fu una fase in cui mi appassionai per il buddismo (appreso dai Discorsi del Buddha, appena apparsi da Laterza, e dalle opere sul buddismo di Oldenberg). Cercavo di dominare i miei impulsi imponendomi vari cilici. Cose da pazzi, si direbbe, ma in un giovane comprensibili». Una forma di allontanamento? «Il conoscitore che vuole sostenere la sua parte nel theatrum mundi deve allontanarsi da sé: almeno venti passi, come farebbero due duellanti. La filosofia non è autobiografica. Parla del sé ma vuole strapparselo di dosso». Nella sua opera i classici citati sono numerosi: da Plutarco a Petronio, da Luciano a Quintiliano… «I classici sono coloro che le furie del tempo possono assediare ma che restano sempre lì, che ti cadono addosso. Se penso al Satyricon penso allo splendore della sua trama, ma soprattutto al suo apporto verbale, all'apporto della scrittura». A proposito della scrittura - si dice spesso che i filosofi scrivono male - mi pare che lei sia un filosofo che per la scrittura ha un amore molto speciale. «Di fatto avevo problemi di scrittura che nei filosofi non trovavo, a parte Croce». Chi tra gli scrittori le ha insegnato di più? «Molto i tedeschi, da Goethe a Broch. In Thomas Mann ho trovato la pacatezza, uno che domina ciò che dice con mano di timoniere. Un dominio che può arrivare al sopore, però». Anche con i francesi mi pare che non abbia scherzato. «Sono arrivato a Paul Bourget, ad ammirarlo soprattutto per i suoi scritti sulla " decadenza", attraverso Nietzsche. Ho letto, e ho riso filosoficamente, con Anatole France. Però mi sono sempre vantato di possedere le opere complete di Voltaire, in una edizione di fine '800 in 44 volumi. Ovviamente andavo dal poema satirico su Giovanna D'Arco al Candide e al suo giardino. Torno a dire: tutto questo è tipico dell'autodidatta che non segue mai una via retta, che torna e ritorna sulla stessa strada». Sono in molti a sottolineare la sua vigilata passione per la scrittura aforistica. Nietzsche, d'accordo, ma anche i cosiddetti moralisti classici, La Rochefoucauld e compagnia? «Al termine " aforisma" preferisco l'espressione " forma breve". Le dirò che mi muovevo anche un po' a dispetto dei moralisti francesi. In loro ci sono schegge, io invece ho sempre cercato di dire in breve tutto ciò che può essere detto di una " cosa". Oggetti e luoghi mentali. Che so? Una scrivania, una stanza d'albergo, un filo di luce che trapassa dalle persiane... ». Qualcuno ha voluto accostare la sua opera all'opera di Cioran. «Non riesco proprio a capire da dove venga questa storia. Cioran l'ho letto tardi e devo dire che non mi è mai piaciuta la sua fatuità. Uno che quando scrive gioca a poker». Per restare in terre più affini, le piace di più il nome di Bufalino? «Con Bufalino fummo amici.
Lui curava molto l'amicizia. Fui più volte da lui. Ricordo che una volta ci incontrammo a Siracusa, invitati a un convegno di storia siciliana. Si parlava della guerra tra sicilioti e cartaginesi e del fatto che, dopo tanto battagliare, tutto finisse all'improvviso. Feci allora una considerazione: e cioè che è la guerra stessa a decidere quando finire. Lui ne convenne. Lo ricordo anche in un duetto con Sciascia sulla mafia. Sciascia parlava parlava e Bufalino ascoltava attento con l'ironia di un sorriso finissimo e sottile». Vogliamo restare sui «siciliani»? «Come potrei dimenticare D'Arrigo? La bellezza del suo mistilinguismo che trapassa da costa a costa. Né dimentico Pizzuto, che appartiene agli scrittori più miei. Ne possiedo quasi tutti i libri, da Si riparano bambole aPaginette. Ritrovo in lui la compostezza di chi sa dominare i frammenti rimasti dopo una esplosione«.
Tra i «continentali»? «Gadda mi ha dato molto, ma non ho potuto restituirglielo».
Lei è anche poeta. «Sì, scrivo poesie, ma penso che la prosa sia " superiore" alla poesia. La prosa ha più nobiltà dentro di sé. Mentre la poesia si può far finire in qualsiasi momento, la prosa ha bisogno di essere espressa fino a quando dice tutto ciò che deve dire». Professore, la domanda obbligata. Lei, compagno d'avventura di Battiato. Come concilia il concetto, la poesia, la canzone? «Per la verità non ho mai tentato di conciliarli. Sono mondi che vanno ciascuno per proprio conto. Ma forse alla fine si incontrano, chi lo sa? ». Una domanda che forse la imbarazzerà. Se dovesse citare qualche narratore d'oggi? «È territorio che non frequento. Leggo però volentieri Cordero: ma è di " oggi"? ». La domanda più futile. Tra lo scrittoio, il letto e il divano, dove legge preferibilmente? «Sul divano».

Corriere 2.6.12
I comunisti francesi e la svastica
A Parigi nell'estate 1940 il Pcf si offrì di appoggiare gli invasori
di Stéphane Courtois


L'alleanza tra nazisti e sovietici. Pubblichiamo una sintesi della relazione tenuta a Roma da Stéphane Courtois, curatore del Libro nero del comunismo, al convegno «L'Italia e il patto Ribbentrop-Molotov». Dal dibattito è emerso che l'Italia fascista s'impegnò in modo consistente nell'aiuto militare alla Finlandia durante la resistenza all'aggressione sovietica nell'inverno 1939-40. Ed è stato sollevato il tema di una residenza diplomatica a Roma che Mosca incamerò dopo l'annessione della Lituania e che è tuttora di pertinenza della Russia nonostante le rivendicazioni di Vilnius, che in altri Paesi occidentali ha ottenuto la restituzione di vari edifici in situazione analoga.
Tra i relatori del convegno: Federigo Argentieri, Eugenio Di Rienzo, Ettore Cinnella, Pirkko Kanervo, Roberto Valle, Marek Kornat.

Quando, il 10 maggio 1940, la Germania nazista lancia la sua grande offensiva contro la Francia, il Pcf è un partito fuorilegge, messo al bando dal governo di Parigi per la posizione disfattista assunta in seguito al patto Molotov-Ribbetrop tra l'Urss e il Terzo Reich. Il leader comunista Maurice Thorez, mobilitato per la guerra, ha disertato ed è fuggito a Mosca.
Il 14 giugno i tedeschi entrano a Parigi, da cui la direzione clandestina del Pcf è fuggita. Alcuni quadri comunisti lasciati a Parigi pubblicano in forma illegale il quotidiano del partito chiuso dal governo, «L'Humanité clandestine». Il 15 giugno tre dirigenti comunisti, Jacques Duclos, Maurice Tréand ed Eugen Fried, arrivano a Parigi provenienti da Bruxelles. Hanno ricevuto dal Komintern direttive che raccomandano di approfittare della situazione per il ritorno alla legalità, in particolare della stampa, vettore privilegiato per la propaganda e l'organizzazione. Nei giorni successivi i comunisti avviano una trattativa con Otto Abetz, rappresentante di Hitler a Parigi e futuro ambasciatore presso il governo collaborazionista di Vichy, per ottenere il diritto di pubblicare legalmente «L'Humanité». (…)
Il 27 giugno Robert Foissin, avvocato dell'ambasciata sovietica, consegna ad Abetz un memorandum che costituisce la base su cui verrebbe autorizzata la ripubblicazione legale del giornale del Pcf: «"L'Humanité" — si legge nel documento — dovrebbe prefiggersi: di operare al risanamento economico del Paese, esaltando la missione creatrice dei lavoratori, impegnandosi a sviluppare lo sforzo di produzione in tutti i campi, sia in quello dell'agricoltura, sia in quello dell'industria; di stimolare l'indispensabile opera di ricostruzione del Paese preconizzando misure da prendere contro le classi abbienti, combattendo l'egoismo capitalista responsabile della catastrofe che si è abbattuta sulla Francia; di essere al servizio del popolo e denunciare i responsabili della situazione; di denunciare le manovre degli agenti dell'imperialismo britannico che vogliono trascinare nella guerra le colonie francesi, e invitare i popoli delle colonie a lottare per la loro indipendenza contro gli oppressori imperialisti; di continuare una politica di pacificazione europea e difendere la conclusione di un patto di amicizia franco-sovietico che sarebbe il complemento del patto germano-sovietico, creando così le condizioni di una pace durevole».
Il Pcf chiede inoltre la liberazione dei suoi militanti imprigionati e il ritorno al loro posto dei rappresentanti comunisti vittime della repressione, che hanno difeso, malgrado gli ostacoli, il patto germano-sovietico.
Questo memorandum asseconda pienamente gli interessi dell'occupante nazista. Propone il rilancio della produzione, compresa quella degli armamenti, mentre i nazisti si apprestano a saccheggiare l'agricoltura e l'industria francesi. Propone di denunciare i governi che hanno guidato la guerra contro la Germania, giustificando così la politica dei nazisti. Propone di denunciare il generale de Gaulle e qualsiasi tentativo di resistenza francese ai nazisti. Propone di far insorgere i popoli dell'impero coloniale, il che può solo indebolire ancora di più la Francia, di impedire che de Gaulle trovi basi di resistenza e, a termine, di consentire ai tedeschi di fare del Nord Africa francese una loro base militare nel Mediterraneo contro gli inglesi.
Giustifica totalmente l'alleanza germano-sovietica che sarebbe all'origine di una «politica di pacificazione europea»: distruzione della Polonia, guerra sovietico-finlandese e annessione di una parte del territorio finlandese da parte dell'Urss, occupazione da parte della Germania di cinque Paesi (Norvegia, Danimarca, Paesi Bassi, Belgio, Francia), annessione da parte dell'Urss di tre Paesi (Estonia, Lituania, Lettonia) e di due regioni romene (Bessarabia e Bucovina del Nord).
In realtà, quello che Duclos e Tréand non sanno è che le proposte di Otto Abetz sono una manovra di vasta portata, controllata da Berlino, e che mira a due obiettivi: esacerbare i conflitti in una Francia completamente traumatizzata, al fine di indebolirla in maniera definitiva e impedirle di resistere, scagliando i rivoluzionari contro i nazionalisti; obbligare, restituendo la legalità al Pcf, i militanti comunisti a uscire dalla clandestinità per poterli reprimere più facilmente in caso di bisogno.
(traduzione di Daniela Maggioni)

Corriere 2.6.12
Due volti del nazional-comunismo: Fidel castro e il Maresciallo Tito
risponde Sergio Romano


Nella risposta a un lettore lei ha affermato che Fidel Castro è un nazionalista più che un comunista; e fin qua mi pare che non ci siano dubbi. Penso che l'avvocato cubano abbia dedicato più la sua vita al suo Paese che alla dottrina politica. Magari ne avessimo anche da noi statisti così! Ma anche Josip Broz, meglio conosciuto con il nome di battaglia di Tito, potrebbe identificarsi come un Fidel Castro del passato, europeo diciamo, visto che ha saputo tener testa non solo a Hitler ma soprattutto a Stalin. Come si potrebbero identificare le due figure, non solamente per la differenza di latitudine, ma anche epocale?
Berto Binelli

Caro Binelli,
Il confronto è interessante, ma le differenze sono forse più importanti delle analogie. Castro è anzitutto un giovane educato dai gesuiti e cresciuto in una buona famiglia della borghesia rurale cubana. Decide di battersi con un regime poliziesco e corrotto, vassallo delle grandi industrie americane. Ma sembra essere, almeno agli inizi, una sorta di liberale progressista e romantico, ansioso di fare per Cuba ciò che altri libertadores latino-americani avevano realizzato per i loro Paesi nel corso dell'Ottocento. I marxisti, se mai, sono il fratello Raul, Che Guevara, altri amici e collaboratori. Se le grandi aziende degli Stati Uniti e il loro governo avessero adottato un altro atteggiamento, Fidel, forse, avrebbe creato un regime diverso, autoritario ma non totalitario, più simile al Brasile di Getulio Vargas e al Venezuela di Hugo Chavez che alla Romania di Ceausescu. Ma dal momento in cui l'Unione Sovietica divenne il maggiore pilastro dell'indipendenza cubana contro il colosso del Nord, Castro si calò entusiasticamente nel ruolo del profeta rivoluzionario e divenne un istrionesco paladino del comunismo latino-americano. Nessun altro regime gli avrebbe regalato un palcoscenico altrettanto vasto dove avrebbe potuto pronunciare, senza il timore di essere interrotto, i suoi interminabili discorsi.
Tito è un personaggio molto più complesso e interessante. Fu soldato dell'esercito austro-ungarico durante la Grande guerra e combatté con i rossi durante la guerra civile. Maturò politicamente, dopo il ritorno in patria, in un ambiente mitteleuropeo molto più colto e informato di quello latino-americano. La sua guerra di liberazione non fu una serie di piccole operazioni di guerriglia condotte contro un esercito privo di qualsiasi coesione morale e ideale. Fu un conflitto di considerevoli proporzioni, combattuto contro due eserciti europei, durante il quale Tito poté contare su uomini di buon livello intellettuale e considerevoli capacità organizzative. Anche Tito, come Castro, fu un leader nazionale e ne dette una prova quando cercò di sfruttare la sua vittoria nella Seconda guerra mondiale per estendere l'influenza della Jugoslavia all'intera penisola balcanica. Anche Tito, come Castro, sfidò la collera di una grande potenza e difese l'indipendenza del proprio Paese dalle interferenze dell'Unione Sovietica. A differenza di Castro, tuttavia, Tito costrinse il suo grande avversario, dopo la morte di Stalin, alla riconciliazione con Belgrado. E uscì dallo scontro con l'Urss doppiamente vincitore.
Pur riconoscendo i meriti e le qualità di Tito, gli storici constateranno che la sua Jugoslavia fu una creazione fragile e si sfaldò pochi anni dopo la sua morte. Ma il confronto con Castro, in questo caso, è prematuro. Potremo farlo soltanto quando avremo assistito alla fine del regime castrista a Cuba.

Corriere 2.6.12
Quel viaggio nell'inconscio a bordo di mantra e balli
«Gli spettacoli tibetani? Sofisticate meditazioni»
di Paolo Salom


Una spiritualità leggera, come l'aria che si respira sul Tetto del mondo. Leggera, sì, eppure impregnata di suggestioni e significati articolati, profondi, affascinanti. Preparatevi a un viaggio nello spirito, a una discesa nell'inconscio, a una messa in scena del vostro io più nascosto. Non vi proponiamo una seduta psicanalitica ma la serie di rappresentazioni che dieci monaci tibetani del monastero Drepung Loseling hanno in cartellone nel corso di Ravenna Festival, il prossimo luglio.
«Sette giorni in Tibet», ovvero creazione di mandala (le pitture multi cromatiche nella sabbia o su tela), danze rituali e canti armonici che colpiranno dritto al cuore. L'universo buddhista nel cortile di casa: un'occasione unica per avvicinarsi a una cultura per millenni confinata nello spazio impervio dell'Himalaya e, oggi, spesso al centro delle cronache internazionali per la difficile situazione generata dallo scontro, con le autorità di Pechino, a proposito di un'autonomia che in cinese e in tibetano ha significati molto diversi. Ma a Ravenna non sarà la politica al centro della scena. Bensì la meraviglia delle preghiere, dei gesti, dei colori. Lo spettacolo di una religione? Piero Verni, autore, tra i tanti saggi, di una Biografia autorizzata del Dalai Lama (Jaca Book), avverte: «In effetti, le manifestazioni del Buddhismo tibetano spesso sono viste nella loro veste più appariscente. In realtà canti, balli, i mandala disegnati su tessuti o nella sabbia non sono altro che sofisticati strumenti di meditazione: per il monaco protagonista della scena come per il fedele che osserva».
Immaginate dunque di essere a migliaia di chilometri da casa e, un po' come per il «Piccolo Buddha» di Bertolucci, di provare a scoprire cosa si celi dietro rituali antichi di millenni. «Le voci, i mantra ripetuti all'infinito, i ghirigori di disegni apparentemente fini a se stessi — spiega Verni — sono in realtà "mappe" che conducono all'incontro con quelle figure essenziali che con un linguaggio occidentale possiamo definire archetipi, simboli arcaici del nostro inconscio». Il Buddhismo come filosofia dell'esistenza: «Le molteplici divinità del pantheon tibetano — continua Piero Verni, che da trent'anni studia la cultura di quel popolo — può a prima vista dare un'impressione di "paganesimo orientale". Non è così: senza troppo addentrarci nella mistica religiosa, possiamo dire che le molteplici forme visive e sonore, incarnano, appunto, archetipi mentali attraverso i quali il meditante "acquisisce" le proprietà positive possedute da ogni singola raffigurazione».
Non è un caso, insomma, se il Buddhismo ha attirato l'attenzione di pensatori come Jung e, in tempi più recenti, è anche diventato «un fenomeno, ahimè, di massa», come chiosa Verni. Tuttavia la realtà è ancora più interessante della teoria: perché assistere a un evento elaborato da un vero Lama significa immergersi in un'atmosfera capace di sollecitare corde di cui neppure si sospettava l'esistenza. A patto naturalmente che si accetti di abbandonare le categorie nostrane di «bello/brutto» o di «buono/cattivo». Un esempio: quello che in scena appare con le forme di un demone (un monaco travestito), in realtà è una figura benigna che ha il compito di allontanare dalla nostra esistenza gli influssi perniciosi che ci avvelenano: «I mostri sono i nostri protettori». Oppure, ancora, abbandonare la mente al canto monocorde di un religioso tibetano può trasportarci in un mondo dove la sofferenza è sospesa, in attesa dell'illuminazione, della chiave per interrompere il ciclo delle reincarnazioni e finalmente accedere al Nirvana, il Paradiso, per così dire, dove ci si trova al cospetto del Buddha.
Se consideriamo che questa interessantissima esperienza è offerta in giustapposizione a elementi di religiosità tipicamente occidentali (canti gregoriani), possiamo solo immaginare la possibile fusione di culture ed esperienze, un sincretismo accompagnato da note elettroniche e polistrumentali capaci di proiettarci in un baleno in una dimensione a prima vista inarrivabile. Che si dissolverà, un istante dopo, come la sabbia di un mandala esposto al vento.

Repubblica 2.6.12
Non solo biro. La rivincita della penna
di Enrico Franceschini


L´anno di nascita è incerto e dicono che sia morta due volte: quando il signor Biro inventò la penna che porta il suo nome e poi quando computer, telefonini e tablet hanno insegnato a tutti a scrivere con le dita, su una tastiera digitale. Eppure la penna stilografica è resuscitata e oggi vive un sorprendente boom. I commercianti al dettaglio, in Inghilterra, indicano che nell´ultimo anno le vendite di questo antiquato strumento di scrittura sono raddoppiate. Amazon, la libreria online più grande del pianeta, che in realtà ormai vende di tutto, mica soltanto libri, conferma il fenomeno: segno che non sono soltanto nonnetti nostalgici a volere di nuovo la stilo, ma anche nuove generazioni. Gente che sa navigare perfettamente sul Web, ma che per certe occasioni vuole avere a portata di mano un elegante bastoncino sormontato da un pennino, da cui esce un sottile liquido nero o blu. La Parker, azienda che le produce dal 1888, al punto da essere diventata sinonimo di stilografica, riporta un fatturato da record. Ma vanno a ruba anche le stilo più economiche che si trovano da Ryman, maggiore catena di negozi di cancelleria britannica, dove sono l´articolo più richiesto, in aumento del 20 per cento rispetto al 2011.
I motivi sono vari, dicono gli esperti della materia. Da un lato, suggerisce James Hall, responsabile dei generi di consumo per il quotidiano Daily Telegraph, «la stilografica d´oggi viene considerata un accessorio di lusso», un oggetto da tenere, sulla scrivania o nel taschino, non tanto per scriverci quanto per esibirlo, e infatti i prezzi dei modelli più venduti rivelano un target di pubblico medio-alto. Dall´altro, sostiene Sharon Hughes, direttrice degli acquisti per la catena di grandi magazzini John Lewis, in tempi difficili non è raro vedere che molti ritornano alle tradizioni, come se attaccarsi alle radici, a valori più semplici e solidi, potesse salvarci dall´instabilità: «E ogni tanto fa piacere scrivere qualcosa a mano, con bella calligrafia, senza fretta, su un pezzo di carta, anziché comunicare soltanto attraverso email, messaggini e social network».
Il ritorno della stilo, a Londra e altrove, fa parte di un più ampio interesse ritrovato per i prodotti di cancelleria: taccuini e matite, astucci e agende. Nell´era digitale la cartoleria sembrava giunta al capolinea, invece va nuovamente di moda, specie come boutique della scrittura a mano, più sofisticata di quelle del primo boom economico del dopoguerra. E la regina di questi articoli è la penna stilografica. Oggetto dai natali che si perdono nel tempo, nato veramente nel 1883 con l´invenzione dell´alimentatore multicanale da parte di Lewis Waterman, poi capace di resistere alla biro e al computer, fino a diventare un´icona antico/moderna. Così, quando il mese scorso un lettore ha scritto al Times di Londra chiedendo "quand´è l´ultima volta che avete visto qualcuno scrivere con una stilo?", la redazione è stata inondata di risposte. Alcune scritte con la stilografica, naturalmente.

Repubblica 2.6.12
Elogio della classe media
Così La scuola "dell’obbligo" fa scoprire il mondo
di Massimo Recalcati


L´imposizione uccide il desiderio Eppure oggi questa è l´ultima frontiera dell´educazione
Qui si insegna a non voler solo consumare oggetti È un luogo di resistenza
Cinquant´anni fa, nel 1962, veniva istituita la nuova "Scuola media unica"
Ecco perché ancora oggi l´istruzione per tutti resta un valore fondamentale

La mia generazione è stata vittima di una Scuola rigidamente e ferocemente disciplinare. Sono stato probabilmente uno tra gli ultimi bocciati della Scuola elementare del Regno Unito nell´anno 1967. Ero alle prese con una maestra che pretendeva di insegnarci che la bellezza del fuoco consisteva solo nel fatto che il fuoco «non sta fermo ma si muove». La bellezza del fuoco non era nei suoi colori, nel suo brillare nella notte, nella sua memoria, nella sua storia antichissima, nel rendere possibile la convivialità del pasto, nel calore che ripara, nel suo profondo rapporto con l´uomo e con la parola. La mia maestra rimproverava e rigettava stizzita qualunque altro tipo di risposta.
Il rifiuto di apprendere fu allora il mio moto personale di protesta. Non volevo digerire quel sapere che pretendeva di essere così stupidamente assoluto. Non volevo stare in una Scuola che voleva fare esistere un solo pensiero sulla bellezza del fuoco. Gli studenti e gli insegnanti che hanno animato le contestazioni del ´68 e del ´77 esigevano una Scuola che non agisse solo come un´istituzione disciplinare e che non fiaccasse la vita distribuendo un sapere morto. Il loro errore – il nostro errore giovanile – era però consistito nel sostenere una versione solo puberale della libertà. Non contestavamo solo gli insegnanti che ritenevano ci fosse una sola risposta alla bellezza del fuoco, ma rigettavamo, più radicalmente, la dimensione obbligatoria della Scuola (che pure nel 1962 era stata una conquista, con la "media unica", n. d. r.), i suoi programmi didattici, la sua finalità che ci appariva solo ideologicamente educativa, la sua gerarchia burocratizzata, il suo essere una organizzazione del potere finalizzata a riprodurre l´adattamento passivo alla realtà. Quello che ci sfuggiva era la funzione fondamentale che la Scuola è chiamata ad esercitare nella formazione del soggetto. Ai nostri occhi la Scuola era solo il luogo di una Legge autoritaria. Anche la psicoanalisi insegna che l´obbligo uccide il desiderio. Eppure il paradosso della Scuola – e il carattere decisivo della sua funzione – si situa proprio qui: come si può fare sorgere il desiderio, il desiderio di sapere, quando l´apprendimento del sapere deve essere obbligatorio?
L´obbligo della scolarizzazione non può essere descritto solo come un intruppamento disciplinare. In questo obbligo si gioca, in realtà, una partita etica. L´obbligo della scolarizzazione non deve essere confuso con l´azione repressivo-disciplinare della Scuola. Obbligare alla Scuola non autorizza a concepire l´educazione come un raddrizzamento dei fusti storti. Tra l´altro, sappiamo tutti che sono proprio le storture, le anomalie, le deviazioni dal solco già tracciato della normalità, ad esprimere solitamente i talenti dei nostri giovani. L´obbligo della scolarizzazione impone un trauma benefico e necessario. Questo trauma è innanzitutto il trauma della de-maternalizzazione della lingua. È un trauma che impone un taglio, una separazione del soggetto dalla sua famiglia. In nessun modo la propria famiglia può esaurire il mondo; la Scuola segna l´uscita dal mondo della famiglia e l´incontro possibile con altri mondi. L´obbligo che essa deve incarnare è l´obbligo di lasciare la propria lingua madre. O, meglio, è l´obbligo di tradurre quella lingua in altre lingue. Gli studi più aggiornati sulla condizione Scuola in Italia ci dicono che sono più di ottanta le lingue che in essa si parlano. La Fondazione Agnelli ha recentemente confermato qualcosa che gli insegnanti democratici sanno già molto bene, e cioè che le classi che funzionano meglio sono quelle socialmente più eterogenee. In questo senso la Scuola porta con sé – nel suo proprio Dna – un´anima profondamente multiculturale perché sancisce l´obbligo dell´umano di rivolgersi al mondo, di staccarsi dal clan di appartenenza, o meglio, di vivere e di giocare culturalmente la propria appartenenza nella contaminazione e nell´incontro con l´Altro.
Nel nostro tempo la Scuola non è un´istituzione disciplinare, ma una istituzione di resistenza all´indisciplina di un iperedonismo che non conosce limiti. La resistenza della Scuola consiste oggi nel sostenere il valore traumatico della Legge della parola, in un´epoca dove il solo obbligo che sembra esistere è quello per il godimento fine a se stesso. Non casualmente una delle cifre più significative del disagio della civiltà contemporaneo è la crisi generalizzata del discorso educativo. Qual è la ragione di fondo di questa crisi se non il declino della Legge della parola che è la sola Legge che introduce nell´umano l´esperienza dell´impossibile, cioè l´esperienza del limite? La solitudine della Scuola e degli insegnanti è legata al loro essere in controtendenza rispetto alla direzione incestuosa del comandamento sociale oggi dominante; garantire la perenne connessione del soggetto ad una serie infinita di oggetti inumani: alcol, droga, psicofarmaci, l´immagine del proprio corpo, oggetti tecnologici più vari. Perché vi sia desiderio di sapere, ma anche formazione, è necessario uno svuotamento preliminare di questa presenza adesiva dell´oggetto. Perché vi sia desiderio di sapere, perché vi sia trasporto, movimento, apertura verso il sapere, verso la cultura, perché vi sia – come teorizza la psicoanalisi – sublimazione della pulsione, vi deve essere svuotamento, distacco, sconnessione, rifiuto del godimento dell´oggetto. La sublimazione ha, infatti, come sua condizione di fondo il vuoto dell´oggetto, la sua perdita. In questo senso la Scuola dell´obbligo è in se stesso un luogo, oggi sempre più decisivo, di prevenzione primaria. La Legge che impone la via della parola come la via dell´umanizzazione della vita è la legge che promette anche una soddisfazione diversa. La Scuola è una istituzione che incarna un punto di resistenza etico alla cultura perversa del "perché no?" che sottrae ogni senso alla rinuncia e al differimento del soddisfacimento pulsionale. Già, perché no? Perché l´esperienza del limite può ancora avere un senso? Perché vi deve essere obbligo, scuola dell´obbligo? Non certamente – come pensavamo nel ´77 – per esercitare un potere di controllo sulla vita. L´obbligo della Scuola è benefico perché si sostiene su di una promessa di fondo. È la promessa che esiste un godimento più forte, più potente, più grande di quello promesso dal consumo immediato e dalla dipendenza dall´oggetto. Questo altro godimento si può raggiungere solo per la via della parola: è godimento della lettura, della scrittura, della cultura, dell´azione collettiva, del lavoro, dell´amore, dell´erotismo, dell´incontro, del gioco. La promessa che la Scuola oggi sostiene controvento è che il desiderio umano per dispiegarsi, per divenire capace di realizzazione ha bisogno, di qualcosa che sappia incarnare la Legge della parola, perché, sappiamo, senza questa legge non c´è desiderio, ma solo disumanizzazione della vita.

Repubblica 2.6.12
Un viaggio nelle superiori ci aiuta a capire il bello del Paese
Tra quei banchi si vede l’Italia
La dedizione di molte persone fa sì che si diffonda una cultura condivisa
di Alberto Asor Rosa


Se dipendesse da me, intitolerei questo pezzo: «Elogio della scuola pubblica italiana». Sono stato quest´anno a colloquio, su argomenti di letteratura e di varia umanità, con docenti e studenti di vari istituti medi superiori (prevalentemente Licei classici, scientifici e linguistici), nelle più diverse località del paese: a Milano, Ferrara, Perugia, Civitavecchia, Benevento, Campobasso, Sulmona, L´Aquila, Monreale, Catania; intorno a Roma, a Bracciano, Torrimpietra, Frascati; a Roma in Licei di estrema e media periferia (Pasteur, Primo Levi), oppure del più assoluto centro storico e della fama più consolidata e sicura (Mamiani, Tasso). Ovunque ho trovato un livello di attenzione e di preparazione più che decente, in taluni casi ottimo. Ovunque, un vivo interesse per un discorso culturale, che, dalle propaggini storiche più lontane dell´identità italiana, arrivi fino ai nostri giorni, e da qui continui a proiettarsi verso il futuro (invece di arrestarsi all´altro ieri, come qualcuno vorrebbe). Dice: ma l´invito rivolto al «conferenziere di fama» costituisce di per sé un´autoselezione. Ossia: chi si fa vivo e partecipa, si colloca da solo al di sopra della media. Può darsi che sia vero. Di fatto, però, la linea dell´eccellenza, se di questo si tratta, presenta una sua sostanziale uniformità, che comunque sorprende.
E del resto come potrebbe esserci una linea dell´eccellenza, se dietro di essa non ci fosse un intero organismo vitale e in movimento? Vorrei perciò utilizzare il caso personale per fare alcune considerazioni d´ordine generale. Come si è visto, io parlo prevalentemente della scuola media superiore, non solo per le esperienze personalmente compiutevi, ma soprattutto per la sua particolare incidenza nell´ambito dei fenomeni sui quali vorrei qui soprattutto attirare l´attenzione. Tuttavia, non ho alcun motivo di credere che gli ordini scolastici precedenti, dalla materna alla scuola media unica, non attingano al medesimo spirito unificante (per l´Università, invece, bisognerebbe fare un discorso diverso, più grave e preoccupato). Ebbene, io dico che nel nostro stanco, demotivato e potenzialmente sempre più disgregato paese, la scuola pubblica rappresenta senz´ombra di dubbio la nervatura unitaria più resistente e più pervasiva. Lo sanno tutti? Se tutti lo sapessero, non accadrebbe che la scuola pubblica italiana, invece d´esser considerata dall´opinione pubblica e dalle forze politiche, come dovrebbe, il soggetto istituzionale più importante e significativo, si presenti agli appuntamenti (compresi quelli che dovrebbero essere organizzati dai Ministri della Pubblica Istruzione, - cioè, per l´appunto, i suoi Ministri), come un grande «convitato di pietra» scomodo e misconosciuto.
La nervatura di cui io parlo è fatta dell´omogeneità dei programmi, di una diffusa e sostanzialmente uniforme dedizione dei dirigenti scolastici e dei docenti e dell´inesauribile travaso di esperienze che corre fra l´istituzione formativa e il resto del mondo (le famiglie in primo luogo, certo, ma anche le altre istituzioni dello Stato, la produzione culturale, il giornalismo, le innumerevoli realtà locali italiane, il mondo così ricco e così specifico dei nostri beni culturali e ambientali, ecc. ecc.). Tutto ciò, però, non funzionerebbe come funziona, se far da cemento a tutto il resto non intervenisse un robusto ed estremamente diffuso spirito democratico. Non sto parlando delle opinioni politiche dei professori, di cui so poco, e che comunque non riguardano questo ragionamento. Sto parlando della disponibilità al confronto e al dialogo, che è elevata, e permea di sé il complesso dell´istituzione. Ossia: da Milano a Monreale la scuola italiana è più italiana, - ossia è più comune, omogenea, riconoscibile, - di quanto accada a qualsiasi altra cosa le stia intorno, - politica, società costumi e linguaggi. Certo, ci sono altre istituzioni unificanti, dal sistema politico democratico - rappresentativo alla magistratura alle (se non è una mia idea fissa) stazioni dei carabinieri. Ma nessuna possiede l´universale pervasività della scuola pubblica e, come io sostengo, la sua sostanziale omogeneità. Se si entrasse di più nel merito, bisognerebbe parlare dei programmi d´insegnamento e della formazione (universitaria e post - universitaria) degli insegnanti: argomenti, ambedue, che condurrebbero a riflettere su altri aspetti dell´identità culturale italiana di massa in questa fase storica, e renderebbe necessariamente più operativo (e forse più critico) il discorso d´assaggio che in questo momento sto facendo. Se le cose però stanno così, non si dovrebbe aprire oggi (come altre volte è accaduto in momenti nodali della nostra storia) un colossale dibattito per la difesa e il rilancio della scuola pubblica italiana? Si parla tanto di prospettive future per il nostro paese. Ma il cuore dello sviluppo sta nella buona salute presente e futura della scuola pubblica. Se non si riparte da questo, non si andrà lontano.