sabato 27 gennaio 2018

il manifesto 27.1.18
Le leggi razziali compimento del fascismo
di Enzo Collotti


Quest’anno il Giorno della Memoria coincide con la ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi contro gli ebrei dell’Italia fascista. Promulgazione ad opera di quel sovrano Vittorio Emanuele III al quale, se non altro per questa ragione, devono essere precluse le porte del Pantheon.
Come giustamente ricorda una importante pubblicazione edita l’anno scorso in Germania per gli ottanta anni dalle leggi di Norimberga, fu una iniziativa tutta italiana senza che vi fosse alcuna pressione da parte del Reich nazista, come si ostina a ripetere qualche tardo estimatore di Benito Mussolini.
Tutto quello che si può dire in proposito è che nell’Europa invasa dall’antisemitismo, l’Italia fascista non volle essere seconda a nessuno, ossessionata come era, fra l’altro, dallo spettro della contaminazione razziale.
Frutto avvelenato dell’appena conquistato impero coloniale e della forzata coabitazione con i nuovi sudditi africani.
Come tutti i neofiti, anche il razzismo fascista ebbe il suo volto truce. La «Difesa della razza», l’organo ufficiale del regime che ebbe come segretario di redazione Giorgio Almirante, ne forniva la prova in ogni numero contraffacendo le fattezze fisiche degli ebrei o rendendo orripilanti quelle delle popolazioni nere.
Il tentativo di fare accreditare l’esistenza di una razza italiana pura nei secoli aveva il contrappasso di dare una immagine inguardabile delle popolazioni considerate razzialmente impure. L’arroganza della propaganda non impedì che essa facesse breccia in una parte almeno della società italiana e ancora oggi non è detto che essa si sia liberata dall’infezione inoculata dal fascismo, come stanno a dimostrare piccoli, ma numerosi episodi che si manifestano, e non solo negli stadi.
Non bisogna fra l’altro dimenticare che non solo tra il 1938 e l’8 settembre del 1943 l’odio razziale ebbe libero corso, ma che dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca la caccia agli ebrei divenne uno dei principali motivi dell’esistenza della Repubblica Sociale neofascista.
In nome della purezza della razza il regime costrinse a fuggire o mise in campo di concentramento ebrei che in altre parti d’Europa si erano illusi di trovare un rifugio non precario entro i confini italiani; ma costrinse all’emigrazione scienziati e intellettuali italiani, privando il Paese di una componente culturale che, nella più parte dei casi, non avrebbe fatto ritorno in Italia neppure dopo la liberazione anche a causa degli ostacoli non solo burocratici alla reintegrazione di quanti erano stati costretti a espatriare e che per tornare a esercitare il proprio ruolo in patria non avrebbero potuto contare su nessun automatismo.
Le leggi contro gli ebrei costituirono un’ulteriore penetrazione del regime nel privato dei cittadini: il divieto dei matrimoni con cittadini ebrei; l’espulsione degli ebrei come studenti ed insegnanti dalle scuole e dalle università; l’espulsione degli ebrei dalla pubblica amministrazione.
Di fatto, ma anche di diritto, si venne a creare una doppia cittadinanza con cittadini di serie A e cittadini di serie B, preludio dell’ostracismo generalizzato sancito dalla Repubblica Sociale che proclamò semplicemente gli ebrei cittadini di stati nemici, quasi a dare la motivazione non solo ideologica per la parteicpazione italiana alla Shoah.
Ancora oggi è difficile dare una valutazione sicura delle reazioni della popolazione italiana alle leggi razziali. Le azioni di salvataggio compiute dopo l’8 settembre non devono ingannare a proposito dei comportamenti che si manifestarono prima dell’armistizio.
Gli stessi ebrei non si resero esattamente conto della portata delle leggi razziali. Il fanatismo della stampa, in particolare nella congiuntura bellica in cui gli ebrei vennero imputati di tutti i disastri del Paese, andava probabilmente oltre il tenore dello spirito pubblico che oscillava tra indifferenza e cauto plauso, aldilà del solito stuolo dei profittatori.
Le autorità periferiche non ebbero affatto i comportamenti blandi che qualche interprete vuole tuttora addebitare loro. Il conformismo imperante coinvolse la più parte della popolazione. Il comportamento timido, più che cauto, della Chiesa cattolica non incoraggiò in alcun modo atteggiamenti critici che rompessero la sostanziale omogeneità dell’assuefazione al regime.
A ottanta anni di distanza la riflessione su questi trascorsi è ancora aperta e si intreccia con alcuni dei nodi essenziali della storiografia sul fascismo (per esempio la questione del consenso).
È una storia che deve indurci ad approfondire un esame di coscienza collettivo alle radici della nostra democrazia e a dare una risposta a fatti che sembrano insegnarci come la lezione della storia non sia servita a nulla se è potuto accadere che il presidente del tribunale fascista della razza diventasse anche presidente della Corte Costituzionale della Repubblica.

Corriere 27.1.18
La collana Oggi in edicola con il quotidiano «Se questo è un uomo», il primodi sedici volumi contenenti le opere del grande scrittore ebreo sopravvissuto alla deportazione nel più importante campo di concentramento e di sterminioUna testimonianza di valore inestimabile sotto il profilo civile e quello letterario
Il coraggio di ricordare e il dovere di raccontare La voce di Primo Levi dall’abisso di Auschwitz
di Antonio Ferrari


In Primo Levi tanti si sono specchiati, perché lo scrittore sopravvissuto agli orrori di Auschwitz non sfoggiava coraggio indomito da superuomo, ma aveva la forza che scaturisce dalla volontà di chi ha dominato la paura. La sua storia nasce dalla rabbia per le ferite subite (fisiche, ma soprattutto psicologiche) che lo hanno spinto a voler raccontare subito quel che gli altri sopravvissuti ai campi di sterminio avevano e hanno taciuto per quasi trent’anni, nel timore di non essere creduti.
Questo ebreo, convinto antifascista, dopo qualche dissapore famigliare, si era unito a formazioni partigiane, e dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, aveva raggiunto le montagne della Val d’Aosta. «E ora chi vuole davvero combattere ha preso la via dei monti», aveva scritto Ruggero Zangrandi.
Non fu fortunato, Primo Levi. Catturato dai nazifascisti, preferì confessare la sua appartenenza — «sono ebreo» — piuttosto che rischiare di compromettere i compagni che lottavano con lui contro gli occupanti tedeschi e le forze della Rsi.
Arrestato subito, fu portato a Fossoli, campo di transito non lontano da Carpi, in provincia di Modena. Da lì, caricato su un treno merci in cui c’erano cinquanta persone per carrozza, visse il destino dei tanti sventurati che condivisero quel feroce viaggio, in cui la maggior parte, soprattutto gli anziani e i più deboli, morirono prima di arrivare a destinazione. Levi ebbe una prima «fortuna», se così si può dire. Essendo laureato in Chimica, aveva ottenuto il «privilegio» d’essere dirottato dopo qualche tempo nel campo di Buna-Monowitz, conosciuto come Auschwitz III, che dista poche centinaia di metri dal lager centrale. Non era di salute ferrea, anzi piuttosto cagionevole, ma fu subito circondato dall’umanità di alcune persone che riuscivano a comprenderne il dramma. Ed è qui che Primo Levi scopre il mondo, feroce, solidale e spietato, delle retrovie del campo di sterminio, dove ciascuno aveva un ruolo: i morti viventi, i predestinati, gli intraprendenti, i kapò. Le camere a gas erano a poca distanza, dai camini uscivano fumo e cenere. Se questo è un uomo , capolavoro di testimonianza diretta e realismo, è il racconto-documento che Levi scrisse di getto, tra la fine del 1945 e il gennaio 1947. Un tuffo terribile, nel desiderio di sapere, di vedere e di conoscere, a che cosa può portare l’abiezione, e l’ingresso in un inferno dantesco.
Primo Levi respira la vita del lager, e in particolare si lega al gruppo degli ebrei saloniki , che vengono dalla città al nord della Grecia e che hanno imparato in fretta, essendo stati deportati in anticipo, le immonde regole del lager, dove ogni cosa, ogni oggetto, ogni informazione, ogni pezzo di pane ha un prezzo e un valore. La fame è un incubo, e gli ebrei di Salonicco si dimostrano «ladri, saggi, generosi, furfanti e solidali», come li ha descritti Levi, e come ha ricordato Sergio Luzzatto sulle colonne del nostro «Corriere della Sera» nel 2007. È come se anche ad Auschwitz ci fosse una Borsa valori, che calcolava non soltanto le valute sottratte agli aguzzini nazisti o agli ebrei che le avevano nascoste. Borsa che seguiva indici spietati da mercato ultracapitalistico, altro che hedge fund e Bitcoin.
Per esempio, come racconta Levi, il cambio di biancheria intima al mercato del lager aveva regole ferree: a volte si poteva scambiare una camicia con discrete dosi di cibo, altre volte la camicia o gli «intimi» non valevano neppure un tozzo di pace. Liliana Segre, che il presidente Sergio Mattarella ha nominato senatrice a vita, ha raccontato che una volta, in coda per la distribuzione di un’improbabile minestra a un gruppo di affamati, aveva ascoltato da una detenuta precedente che in quella «brodaglia» nuotava un topo. La Segre disse: «Forse andava bene anche il topo».
La fame era davvero un incubo. I saloniki , che del lager conoscevano ormai tutti i segreti e i sotterfugi, erano diventati, con le buone o le cattive, i padroni delle cucine, contando su una sottile ed esperta catena di spicciola corruzione. Un ebreo di Salonicco, che ormai faceva parte del Sonderkommando , cioè degli ebrei addetti alla pulizia delle camere a gas e dei forni crematori, raccontò alla collega Alessia Rastelli e a chi scrive che si poteva anche tentare di sottrarsi al forno, pagando una forte somma o qualche dente d’oro. Sami Modiano, che veniva da Rodi, ci raccontò che, ormai destinato al gas, si salvò perché era arrivato un carico di patate alla stazione e i nazisti avevano bisogno di braccia giovani per scaricarle. Nedo Fiano, altro sopravvissuto, ci raccontò d’essersi salvato perché conosceva il tedesco, sapeva cantare ed era di Firenze. L’ufficiale-aguzzino, che forse era andato in vacanza nel capoluogo toscano con la fidanzata, lo prese in simpatia.
Primo Levi, nelle pagine più intense di Se questo è un uomo , racconta le prime notti sul pagliericcio e l’ingresso in quel tremendo dormiveglia fra il sogno di rivedere la libertà, la casa, gli amici, e l’incubo di un cibo abbondante che non riusciva mai a raggiungere, perché il sogno-incubo finiva. Poco prima della liberazione del lager da parte dell’Armata Rossa, Levi vive un secondo «incidente fortunato». Si ammala di scarlattina, malattia infettiva, e viene ricoverato nell’infermeria. Evita così la «marcia della morte», con il brutale trasferimento dei prigionieri: chi non ce la faceva e cadeva, veniva ucciso subito. I nazisti non volevano testimoni dei loro crimini.
Dopo molte peripezie, lo scrittore-chimico torna a Torino, cerca di riadattarsi alla vita civile, ma deve prendersi carico della mamma e della suocera, seriamente malate. Levi, a 67 anni, in fondo alle scale della sua casa, cade e muore. Si disse che non era stato un incidente, ma forse un suicidio. Non si può escluderlo. Della vita Primo Levi aveva conosciuto, da fragile coraggioso, soprattutto il peggio.

Memoria, romanzi e racconti, interviste Una serie che comprende sedici uscite
È in edicola da oggi con il «Corriere della Sera», in occasione della Giornata della Memoria, il romanzo-testimonianza di Primo Levi (Torino, 1919-1987), Se questo è un uomo , al costo di e 7,90 più il prezzo del quotidiano. Il volume è il primo della nuova collana «Opere di Primo Levi» (nel piano dell’opera della pagina accanto sono riportate tutte le 16 uscite), dedicata ai lavori dello scrittore e chimico. I volumi, tutti editi da Einaudi (fatta eccezione per la raccolta di poesie Ad ora incerta , proveniente dal catalogo Garzanti), sono presentati nella versione originale dell’editore; solo i Racconti sono suddivisi in due uscite. Se questo è un uomo (la prefazione è di Cesare Segre) è il volume che Levi pubblicò nel 1947, reduce da Auschwitz, e narra lo sconvolgente inferno dei lager, l’offesa, l’umiliazione e l’inerme degradazione dell’uomo di fronte allo sterminio di massa. È il testo che ha reso Levi uno degli scrittori italiani più letti nel mondo. Tra le prossime uscite, tutte settimanali: La tregua (3 febbraio); Se non ora, quando? (10 febbraio); La chiave a stella (17 febbraio).

Corriere 27.1.18
Ruppe subito il silenzio E molti non lo capirono
Altri preferivano non rievocare tante atrocità
E trovare un editore all’inizio fu un problema
di Frediano Sessi


Il ritorno a casa dalla deportazione, per Primo Levi, fu lungo più del previsto. «Per ragioni non chiare — scrive — il nostro rimpatrio ebbe luogo il 19 ottobre del 1945», dopo trentacinque giorni di viaggio. A Torino, nessuno lo aspettava. «Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a farmi riconoscere». A casa, si sentiva schiacciato dal peso dei ricordi, più vicino ai morti che ai vivi.
La poesia fu il primo rifugio nella parola scritta; ma sul treno che lo riportava a Torino, Levi aveva cominciato a raccontare la sua storia. Così, quando in novembre prese a scrivere i singoli episodi del libro di ricordi, aveva ben chiaro che cosa dire. Scrisse forse gli ultimi capitoli; come disse poi in alcune interviste, Storia di dieci giorni fu il primo a essere scritto.
Furono gli amici e la sorella Anna Maria a leggere il dattiloscritto e a incoraggiare Primo a pubblicarlo, così il testo fu inviato ad alcuni editori, tra i quali la casa editrice Einaudi. Ma in breve, il libro fu letto e rifiutato da tutte le case editrici interpellate. Che fare? L’amico Silvio Ortona, segretario del Partito comunista di Vercelli, dopo avere letto alcuni capitoli, gli propose di pubblicarli a puntate sul settimanale del partito «L’Amico del Popolo». È il primo passo verso una redazione pubblica dei ricordi di Levi.
Intanto, la sorella Anna Maria, aveva portato il dattiloscritto agli uffici della casa editrice De Silva, di proprietà di Franco Antonicelli, che accolse la proposta di buon grado. In attesa della pubblicazione presso l’editore De Silva, Levi apportò alcune modifiche al dattiloscritto. Aggiunse colore, emozione, precisione e dettagli alle descrizioni, cercando di arrivare in modo più diretto al cuore del lettore: «Ho cercato di mantenere l’attenzione sui molti, sulla norma, sull’uomo qualsiasi, non infame e non santo, che di grande non ha che la sofferenza». Il libro fu stampato in 2.500 copie, ma ebbe poca circolazione al di fuori della città di Torino e del Piemonte. Già nella primavera del 1948, nessuno ne parlerà più, nonostante le ottime recensioni scritte da Italo Calvino e Cesare Cases.
Verso la fine di maggio del 1955, Levi ricorda che fu invitato a commentare una mostra sulla Resistenza in Piemonte e che fu assediato «veramente bombardato», di domande sulla sua esperienza diretta. Allora si decise a riportare il suo libro alla casa editrice Einaudi che, questa volta, l’11 luglio del 1955 firmò un contratto per la riedizione. Nonostante l’impegno previsto di pubblicarlo entro il marzo del 1956, il libro sarà di nuovo in libreria solo nel giugno del 1958.
Le differenze tra la prima edizione De Silva e la nuova edizione Einaudi sono significative: per esempio, mentre la prima edizione comincia con il racconto del campo di Fossoli, la seconda riporta il racconto dell’arresto in Valle d’Aosta.
Levi vuole così stabilire un ponte tra la sua storia di ebreo ad Auschwitz e il breve periodo trascorso nella Resistenza. Molte altre aggiunte vanno nella direzione di attribuire maggiore chiarezza al testo, che deve, assolutamente, raccontare dei fatti. Levi accorda un posto di rilievo al racconto di alcuni bambini deportati. Questo si spiega anche con il fatto che nel 1958, Levi è padre per la seconda volta. Le altre aggiunte riguardano per esempio il terzo capitolo, Iniziazione , che non era presente nella prima edizione; capitolo nel quale Levi presenta la babele concentrazionaria. Interessante notare il senso profondo di queste aggiunte: la volontà di annientare gli ebrei, sembra suggerire Levi, riguarda l’intera umanità, proprio perché colpisce anche i bambini.
La scrittura di Levi, procede già in questo libro per «tessere», vale a dire parti essenziali che si incastrano e che hanno funzioni diverse: a volte sono narrative, altre volte invitano o propongono una riflessione, altre volte servono a costruire il sentimento del tempo, a sollecitare, più che la ragione, l’emozione del fatto narrato, quasi a voler indurre il lettore a provare compassione.
Ma il viaggio di Se questo è un uomo non finisce qui: nel 1964, Levi licenzia una versione radiofonica del libro, che andrà in onda alla radio il 25 di aprile, anniversario della Liberazione. La riduzione teatrale, invece, scritta in collaborazione con l’attore Pieralberto Marché è del 1966.

il manifesto 27.1.18
Come disfare la banalità del male
Giornata della Memoria. Intervista con Piotr M. A. Cywinski, direttore del Museo di Auschwitz. Il luogo che un tempo è stato il più grande campo di sterminio, dal 2006 è diretto dallo storico polacco. «Dobbiamo approdare a una nuova comprensione della responsabilità che pesa su ciascuno di noi»
di Guido Caldiron


«Memoria, consapevolezza, responsabilità». Nel tracciare le coordinate del suo lavoro come direttore del Museo-Memoriale di Auschwitz-Birkenau, creato dove esisteva il più grande campo di sterminio industrializzato del Terzo Reich, ma un luogo assurto anche a tragico simbolo dell’intera barbarie nazista, lo storico polacco Piotr M. A. Cywinski non ha mai avuto dubbi.
Come ha spiegato in Non c’è una fine (Bollati Boringhieri, pp. 148, euro 15), «stando ad Auschwitz giudichiamo molto di più di una specifica generazione, giudichiamo l’umanità. Di conseguenza giudichiamo noi stessi». Il senso di questo ricordo interpella perciò in maniera radicale il presente come il futuro, ciò che si compie ancora oggi nell’indifferenza dei più, il ruolo e le responsabilità della «civile» Europa che in quel luogo perse, definitivamente, la propria innocenza. Altrettanti interrogativi che riecheggiano nel Giorno della Memoria.
Dal 2006 lei guida il Memoriale e il Museo di Auschwitz-Birkenau, quali le sfide più importanti con cui si è dovuto misurare?
Un sito di tale vastità pone a chi se ne deve occupare molte sfide, e di diversa natura. Richiede allo stesso tempo una sorta di attenzione tecnica costante e una delicata preoccupazione emotiva. Il tutto, cercando di mantenere un approccio storico e morale onesto.
Sul piano concreto, la responsabilità maggiore è stata certamente quella di definire e far sì che si mettesse in pratica un meccanismo di finanziamento dei lavori di conservazione che è essenziale per il futuro. Allo stesso modo si è trattato di impegnarsi per mantenere l’autenticità del sito, vale a dire ciò che ne fa un luogo sacro e che «parla» ai visitatori. Questo perché i milioni di persone che vengono ogni anno ad Auschwitz (50 milioni fino a oggi, nda) non lo fanno con lo spirito di chi si reca a visitare un qualunque museo. Sperano di compiervi il proprio rito di passaggio, di avvicinarsi il più possibile alla comprensione dell’essere umano, con tutte le conseguenze che questo comporta.
Lei ha scritto che questo luogo non deve smettere di «urlare», non può essere né normalizzato né pacificato in alcun modo. Corriamo concretamente questo rischio?
Senza dubbio. A lungo termine il rischio è evidente. Oggi, gli strumenti di tortura del Medioevo sono esposti nelle fiere di paese per suscitare la curiosità dei bambini. Un’evoluzione decisamente macabra.
Perciò, la grande sfida è far comprendere che Auschwitz non rappresenta un avvenimento tra i tanti lungo un ampio asse temporale della storia europea. Auschwitz è un punto di non ritorno. Gli enormi sforzi compiuti dopo la Seconda guerra mondiale nella prospettiva della creazione di un mondo più umano, da un punto di vista giuridico, politico, culturale, economico e religioso, rappresentano dei passi senza precedenti nella nostra cultura, ma è proprio la comprensione di ciò che è stato Auschwitz che rappresenta la chiave per comprendere fino in fondo il valore e il significato di questi cambiamenti. È sinceramente impossibile capire cosa è accaduto dopo il 1945 senza vedere nella Shoah un punto di svolta totale nella civiltà europea.
Nel suo libro ha sottolineato come la voce dei sopravvissuti e il Memoriale siano i due pilastri della narrazione di Auschwitz. Con il tramonto dell’«era del testimone» che ruolo sarà chiamato a svolgere quello che lei chiama a giusto titolo il «Luogo»?
Il Luogo rende i racconti dei sopravvissuti più credibili. Esattamente come queste testimonianze rendono il Luogo più comprensibile. È un’esperienza totalmente diversa visitare Auschwitz dopo aver letto Primo Levi, Shlomo Venezia o Elie Wiesel. E la lettura di queste pagine diviene qualcosa di differente quando si è camminato sulla stessa rampa di cui parlano, quando si è entrati in una delle baracche che vi sono descritte, o quando si è passati sotto l’insegna che recita: «Arbeit macht frei». Perciò, nella percezione di tutti, Auschwitz deve e dovrà funzionare in qualche modo anche in futuro all’unisono con le voci dei sopravvissuti. Per questo continuiamo a raccogliere e pubblicare le loro testimonianze.
Il suo ufficio è vicino al punto in cui termina abitualmente la visita al «campo». Milioni di persone, soprattutto giovani, prendono parte ai viaggi della memoria che rappresentano uno dei modi in cui negli ultimi anni molti si sono misurati con quanto accaduto ad Auschwitz e, più in generale, con la Shoah. Cosa legge nei loro volti al momento di lasciare il sito e cosa crede porteranno con sé dopo questa esperienza?
Le persone che vedo ogni giorno ad Auschwitz sono molto diverse tra loro. Questi giovani vengono da società, paesi e continenti differenti. E hanno ovviamente vari e diversi punti di riferimento. Ciò che mi sta davvero a cuore è che dopo aver fatto questa esperienza, nell’immaginare il proprio futuro e il ruolo che intendono svolgervi, varchino la soglia della memoria per acquisire grazie a ciò che hanno visto e sentito qui una visione della propria responsabilità individuale. E perché questo accada credo vada fatto anche un vero lavoro educativo sia prima che soprattutto dopo la visita. La storia da sola non è sufficiente, va legata all’etica e all’educazione civile. Abbiamo un dovere nei confronti delle nuove generazioni: offrire loro tutti gli strumenti perché possano diventare degli adulti consapevoli.
Elie Wiesel, scomparso lo scorso anno, definiva Auschwitz come il «luogo della verità» e spiegava come ricordare non sia sufficiente, ma vada compreso e trasmesso come la Shoah abbia avuto luogo grazie all’azione e all’indifferenza di tanti, facendo sì che la memoria sia messa in questo modo al servizio di una presa di coscienza. Non crede si tratti di una lezione che dovrebbe tornarci utile oggi che nuove forme di discriminazione e di indifferenza circondano le sorte dei migranti in Europa e le vite di tante vittime della guerra alle porte di casa nostra?
È proprio per questo che rinchiudere la Shoah nello spazio della storia non è sufficiente. Il grido delle vittime non è unicamente un grido che ci arriva dalla storia. È un grido morale, etico, civile. E se qualcuno pensa che provare che un «fatto» è avvenuto sia sufficiente, si sbaglia di grosso. È riflettere sul senso, sul significato di quel fatto, per me e oggi, che rappresenta la vera posta in gioco, se vogliamo approdare a una nuova comprensione della responsabilità che pesa su ciascuno di noi. La nostra indifferenza di oggi ci accusa ancor più di quella del tempo della guerra. Da un lato sappiamo ormai fin troppo bene quale sia il prezzo di questa indifferenza, dall’altra, i nostri strumenti di azione sono di tutt’altro livello rispetto a quelli del passato.
E, elemento che aggrava ancor più la nostra situazione, viviamo in società che conoscono la pace da lungo tempo. È facile dispiacersi per un mondo che non ha fatto abbastanza durante la Seconda guerra mondiale. Ma questo sentimento può essere considerato sincero solo per chi si sforza di fare tutto il possibile ora. Ci saranno in futuro musei dedicati all’ondata di profughi o alla tragedia dei Rohingya in Birmania. E allora saremo tutti noi ad essere considerati responsabili di quanto accaduto.
Nelle nostre società si torna a parlare di «difesa della razza bianca», si denuncia la presenza dei musulmani come un «corpo estraneo», riecheggiano parole d’ordine fasciste e slogan antisemiti, come accade anche nella sua Polonia. Se, come lei ha scritto, ad Auschwitz l’Europa si è perduta, come ripartire da questa presa di coscienza per fare fronte alla nuova barbarie che monta?
Ovunque, nelle nostre società si assiste a una recrudescenza dell’estremismo e della xenofobia. Un fenomeno che è ancor più che inquietante e che chiede si moltiplichino gli sforzi e la presenza sul piano pubblico ed educativo. In questo senso, stiamo sviluppando il lavoro sulla rete, ad esempio attraverso una rivista internazionale (memoria.auschwitz.org) e abbiamo appena lanciato una grande mostra itinerante su Auschwitz destinata nei prossimi anni ad essere esposta nel Vecchio Continente come negli Stati Uniti.

Repubblica 27.1.18
La donna che visse sei volte
Non mi sono mai sentita una vittima, neppure nelle condizioni più avverse. Coltivavo pervicacemente una sorta di estraneità anche perché ignara della tragedia che stavo vivendo
Da Terezín ad Auschwitz, da Mauthausen a Bergen-Belsen Zdenka Fantlová, famiglia ebrea cecoslovacca, fu deportata da un campo all’altro
intervista di Simonetta Fiori


Una fotografia scattata nel 1948 la ritrae spavalda, le labbra ben disegnate, d’una bellezza luminosa, perfino sfrontata. Niente lascia intendere che quella giovane donna con le perle sia una sopravvissuta di Auschwitz. E di altri cinque campi: prima Terezín, più tardi Kurzbach, Gross-Rosen, Mauthausen, Bergen-Belsen. Forse perché Zdenka Fantlová, figlia d’una famiglia ebrea cecoslovacca, non ha mai accettato l’identità di vittima. Anche le sue memorie ora pubblicate in Italia mostrano una tonalità inedita nella letteratura della Shoah, proprio per un’adesione alla vita che non ammette ombre né sospensioni.
Come se l’orrore vissuto nei lager non avesse lasciato un segno nel suo sguardo. Come se davvero fosse possibile sopravvivere integri ad Auschwitz ( 6 campi, l’incredibile storia di una delle ultime testimoni
viventi della Shoah, edizioni tre60, tradotto dall’inglese The tin ring).
A novantacinque anni la voce energica di Zdenka tradisce al telefono un carattere fermo, anche imperioso. Qualche colpo di tosse non la distoglie da un racconto che mescola urgenza morale e liturgia ripetitiva. Alle domande emotivamente più difficili tende a sfuggire, riconducendo l’attenzione su un vissuto che giustamente esige silenzio e ascolto. Oggi vive a Londra, in una strada elegante dalle parti di Kensington. Sbarcata in Australia nell’immediato dopoguerra, per una ventina d’anni ha calcato le scene teatrali con discreto successo, ricevendo anche un riconoscimento per il ruolo di contadina siciliana nella Rosa tatuata di Tennessee Williams. S’è sposata, ha avuto una figlia e due nipoti. «La vita è stata molto generosa con me», dice Zdenka.
Può sembrare un paradosso per una donna che ha preso parte alle “marce della morte”. In realtà non lo è. Nella lotta con il dolore ha vinto lei.
Mrs Fantlová, perché s’è decisa a scrivere la sua storia solo dopo cinquant’anni?
«Perché solo dopo mezzo secolo sono tornata a casa. Nei primi tempi avevo voglia di dimenticare, come molti dei sopravvissuti della Shoah.
Ho vissuto tanti anni in Australia, poi nel 1969 ci siamo trasferiti a Londra. Ma per tornare in Cecoslovacchia ho aspettato la fine del comunismo. Prima non la consideravo un posto sicuro».
Ed è stato il ritorno a casa che le ha fatto venire voglia di scrivere?
«In realtà sono state le domande dei miei vecchi compagni di scuola ritrovati a Rokycany, una cittadina a 80 chilometri da Praga. Non ci vedevamo dal gennaio del 1942, quando la mia famiglia venne deportata a Terezín. “Ma perché sei l’unica sopravvissuta?”.
“Che vita hai fatto nei campi di concentramento?”.
Domande semplici cui però non era facile rispondere. Così, tornata a Londra, mi sono affiorati alla mente tanti particolari che avevo accantonato da qualche parte».
Il suo racconto è diverso da altre testimonianze per il tono incredibilmente vitale. Ma lei ha vissuto realmente la sua prigionia in quel modo o ha scelto di raccontarla così?
«Io l’ho vissuta in quel modo. Questo perché non mi sono mai sentita una vittima, neppure nelle condizioni più avverse. Mi sono sempre percepita come un’osservatrice di eventi che però non mi riguardavano personalmente.
Coltivavo pervicacemente una sorta di estraneità anche perché ignara della tragedia che stavo vivendo. E anche mentre subivo orrende umiliazioni, facevo in modo che non mi dominassero fino in fondo».
Come è stato possibile?
«Non avevo paura. E questo mi ha reso più forte. Anche nel dopoguerra sono rimasta libera da quei ricordi, non ho cercato di soffocarli sotto una pietra come hanno tentato di fare altri sopravvissuti alimentando così le loro ansie. Credo che ciascuno di noi – noi reduci dalla Shoah - abbia sofferto e resistito in modo diverso».
Lei ha vissuto l’esperienza straordinaria del cabaret a Terezín.
«Sì, lavoravo nelle cucine del campo quando fui avvicinata da un ragazzo pallido con l’aria triste da Pierrot.
“Scusi signorina lei sa piangere?”. Poi mi invitò alle prove dello spettacolo nella baracca Magdeburgo. Era Josef Lustig, attore e drammaturgo famoso per le commedie satiriche».
Cosa significava fare teatro in un campo?
«Non era intrattenimento o distrazione, ma speranza! ( ndr Zdenka ripete tre volte: hope hope hope). Speravamo che la guerra sarebbe finita presto e noi saremmo tornati a casa. Tutte le iniziative culturali – anche musica, concerti, recital – ci riportavano alla vita civilizzata che facevamo prima della guerra. Il teatro ci dava la forza per andare avanti, più prezioso d’un pezzo di pane. Mi ricordo ancora la canzone finale dello spettacolo di Karel Svenk, una sorta di Charlie Chaplin ceco. Le sue satire erano smaccatamente politiche e rispecchiavano i desideri di ciascun ebreo seduto in platea. “Volere è sempre potere, quindi tenetevi per mano, stringetevi forte, e sopra le rovine del ghetto potremo finalmente scoppiare a ridere”.
Eravamo tutti convinti che sarebbe successo».
Molte erano pièce comiche.
Cosa comportava ridere insieme ai propri persecutori?
«Ma noi non ci concepivano come prigionieri. Indossavamo i nostri vestiti, incontravamo gli amici. C’era più libertà a Terezín di quanta ne avremmo avuto nel mondo normale. Nel giro di pochi mesi la città si venne popolando di artisti, attori, registi, musicisti che erano il meglio della società culturale ceca: per una ragazzina come me fu un’occasione irripetibile. E poi noi i tedeschi non li vedevamo neppure. Avevamo soltanto guardie ceche che naturalmente ricevevano gli ordini dal comando nazista».
Tra le disposizioni più temute c’era l’ordine di salire su un treno diretto a Est.
«Sì, in fondo era come ballare sotto la forca. Ma tenga conto che allora non sapevamo niente di Auschwitz.
Vivevamo in una sorta di inganno totale. I tedeschi ci avevano condannato a morte senza dircelo, permettendoci di suonare e cantare fino all’ultimo. Ricordo ancora un gruppo di vecchi signori a cui fu promessa una gita in un rinomato centro termale: la loro preoccupazione fu di mettere in valigia l’abito a sera. E invece furono spediti in una camera a gas».
Poi il treno per Auschwitz è arrivato anche per lei, sua madre e sua sorella. Pur restituendo l’orrore, la sua testimonianza è ricca di speranza. Qualcuno ha sollevato l’obiezione che potrebbe essere “pericolosa” perché c’è il rischio che i lettori non comprendano fino in fondo la barbarie dei campi e le ferite lasciate sulle vittime.
«Io ho raccontato la mia esperienza esattamente come l’ho vissuta. E l’unico momento in cui la mia voglia di vivere è venuta meno è stato quando arrivata a Stoccolma, subito dopo la liberazione, ho scoperto che la mia famiglia era stata annientata.
Ero l’unica sopravvissuta.
Sopravvissuta anche ad Arno, il mio grande amore perduto e ritrovato a Terezín: a casa conservo ancora l’anello di latta in cui aveva inciso la data della nostra separazione».
Oggi quali sono i suoi sentimenti in un’Europa attraversata da pulsioni neonaziste e razziste?
«La gente mi chiede spesso se l’Olocausto sia ripetibile. Io rispondo sì. Perché non è stata una catastrofe naturale ma il prodotto dell’umanità. E gli uomini purtroppo non cambiano. Finché non impareranno cos’è la tolleranza, ci sarà il pericolo d’una tragedia anche peggiore».

il manifesto 27.1.18
Viene prima la forza lavoro
Libri. Forza Lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi) di Roberto Ciccarelli. Un capitolo di etica rivoluzionaria e spinoziana: «Non sappiamo di cosa è capace una forza lavoro, non sappiamo fino a dove può arrivare una potenza». Il «lavoro vivo» alimenta le piattaforme ed è sfruttato dal capitalismo digitale. I nuovi padroni cercano sempre di tirare la corda che lega i lavoratori, ma non possono impiccarli perché impiccherebbero se stessi
di Toni Negri


Nel settembre 1969, il primo numero di «Potere Operaio» incitava i lavoratori a lottare contro «automazione e negromazione» (con questo neologismo si indicavano coloro che sarebbero stati dall’automazione esclusi dal lavoro e destinati alla miseria sociale).
Dinnanzi a quel primo apparire di congegni automatici, gli operai rispondevano: più salario, meno orario. L’automazione sembrava un alleato nel definire la forza lavoro in lotta come una «variabile indipendente» dello sviluppo.
QUALCHE SETTIMANA FA, in un seminario parigino, riders di «Deliveroo» ricordavano che le loro rivendicazioni erano, certo, «più salario», ma anche «controllo dell’algoritmo» per conquistare più decenti condizioni di vita. A cinquant’anni di distanza, mentre il padrone, senza vergogna, lesina sempre sul salario, i lavoratori puntano dunque la loro attenzione sulla governance automatica, considerandola un elemento fondamentale nella determinazione del comando sulle loro condizioni di vita.
Se osservassimo solo le rivendicazioni, ieri orario, oggi flessibilità della giornata lavorativa, poco sembrerebbe essere cambiato – quando invece guardiamo alle riflessioni sui congegni automatici, scopriamo che è mutata una cosa essenziale: la maggiore interiorità che oggi il lavoratore ha rispetto all’organizzazione del lavoro, all’algoritmo.
Quindi, sia la debolezza della sua collocazione nel processo lavorativo, sia la virtuale capacità, ovvero la forza, di rompere in maniera decisiva con l’organizzazione capitalista della valorizzazione.
QUESTA DIFFERENZA ci introduce a un paradosso: quanto più il lavoro è sottomesso al capitale, agli automatismi della valorizzazione, come avviene oggi, quanto più ogni momento della vita del lavoratore è utilizzato dal capitale per produrre valore; tanto più il lavoratore è posto nella necessità di lottare per essere autonomo nell’organizzare la giornata lavorativa e la sua vita.
Il processo lavorativo sembra così, ora, essersi sganciato dal processo di valorizzazione e quest’ultimo sembra sussumere il primo, non immediatamente ma, collocandolo dentro un rapporto fluttuante e lasco.
PERCHÉ AVVIENE QUESTO? Perché l’operaio, il lavoratore (generalmente «cognitivo») ha una certa autonomia («cognitiva») che porta con sé quando si inserisce nel processo lavorativo – un’autonomia che il padrone deve assumere in quanto tale per utilizzarla nella produzione.
Ma questo uso è difficile, il «valore della forza lavoro» non è totalmente riconducibile al «valore di scambio», l’autonomia del lavoratore è potenza lavorativa e, virtualmente, rifiuto di subordinazione. Tutto ciò costituisce lotta di classe e, come minimo, va contrattato: questa è la situazione. Fino a che punto si potrà stringere la supremazia del processo di valorizzazione, organizzato dal padrone, sopra il processo lavorativo vissuto e relativamente posseduto dal lavoratore?
IL PADRONE CERCA CONTINUAMENTE di tirare la corda che lega il lavoratore, ma non può impiccarlo – impiccherebbe se stesso – sa dunque che le cose sono cambiate, che il lavoratore non è più quello schiavizzato nella piantagione e neppure quello massificato nella grande industria, ma è, per lo più, e comunque nella tendenza, «cognitivo» – quindi sempre più essenziale e sempre meno controllabile, perchè la sua produttività aumenta quanto più il lavoratore è autonomo e potente nel rapporto cooperativo.
LEGGIAMO Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi) di Roberto Ciccarelli, in particolare il magistrale capitolo nel quale appunto di «forza lavoro» si parla.
Qui essa è crudamente «anatomizzata in vita», in movimento – come fare altrimenti quando la classe produttiva è caratterizzata dalla spontaneità e dalla mobilità del lavoro vivo cognitivo?
IL LAVORO VIVO è qui descritto nella sua qualità di potenza immediatamente produttiva, tanto più potente perchè questa sua facoltà è moltiplicata dalla cooperazione ed estesa nell’ulteriore rapporto che lega produzione e riproduzione.
QUELLO CHE SOPRA DEFINIVAMO, oggettivamente, un paradosso, cioè la convivenza fra soggetto della valorizzazione capitalista (la forza lavoro sfruttata) e il lavoro vivo, cioè la personalità vivente nel lavoro, il lavoro di soggettivazione – quella convivenza che mal si combinava, anzi, che veniva spezzandosi, quel matrimonio difficile da celebrare fra processo di valorizzazione e processo lavorativo, è qui colto dal punto di vista del lavoro vivo stesso, dalla sua soggettivazione.
TALE È infatti il senso della domanda: «cosa può una forza lavoro?» Nel capitolo conclusivo del libro si fissa così la scoperta della dualità potente della forza lavoro, nell’autonomia di quel lavoro vivo che si oppone, pur nutrendolo, al capitale costante.
A CIO’ CONSEGUE una questione ancore più importante: come può questo potere del lavoro vivo cognitivo, farsi forza? Come può farsi sovversivo? Questa domanda è da proporre, meglio, da riproporre, perchè il libro di Ciccarelli comincia di lì, dall’ingabbiamento della forza lavoro nell’algoritmo, nelle piattaforme – e ne mostra con grande lucidità le vischiosità e le latenti contraddizioni, ne chiarisce la sempre virtuale dialettica oppositiva.
Una controversia, è l’eufemismo che Ciccarelli usa drammatizzando quella dualità di potenza e soggezione/sfruttamento e concludendo, senza alcun eufemismo, la critica della forza lavoro con un capitolo di etica rivoluzionaria. E spinoziana: «viviamo in un non sapere: non sappiamo di cosa è capace una forza lavoro, non sappiamo fino a dove può arrivare una potenza».
BISOGNERÀ proseguire la ricerca sul terreno che è stato fin qui dissodato, e chiedersi come colpire il capitale sul terreno dell’algoritmo imprenditoriale (quando lo si sia riconosciuto come «soggettività del capitale costante») che organizza lo sfruttamento del capitale variabile.
In secondo luogo, si tratterà di comprendere quali siano le condizioni nelle quali i lavoratori possono organizzare strategie di rottura di quel dominio – questo è il terreno della «conricerca», cioè di un’etica divenuta prassi politica; e infine, si tratterà di cogliere, attraverso la lotta, i dispositivi di «riappropriazione proletaria» di quel «comune» che sta sotto le macchine della nuova organizzazione della valorizzazione.

Corriere 27.1.18
La classe operaia va ai Cinque Stelle Tra i pensionati primo il Pd, bene FI
Giovani e lavoratori autonomi, M5S avanti
Nel complesso il Movimento sale al 29,3%, dem in calo (22,7). Forza Italia stacca la Lega
di Nando Pagnoncelli


Il risultato più eclatante delle elezioni europee del 2014 non fu tanto il risultato ottenuto dal Pd (40,8% dei voti), quanto l’eccezionale trasversalità del voto: il partito di Renzi si affermò in 105 province su 110 e tra tutti i segmenti sociali con due sole eccezioni, i lavoratori autonomi e gli elettori di età compresa tra 35 e 44 anni (tra i quali il M5S risultò il primo partito). I dem si imposero tra i più giovani come tra gli anziani, tra gli imprenditori come tra i disoccupati, tra i laureati come tra gli analfabeti, tra i cattolici come tra gli atei: l’ultimo voto espresso su scala nazionale, insomma, ancorché segnato da una elevata quota di astenuti (41,3%) fece registrare la trasformazione del Pd in «partito pigliatutti».
Oggi lo scenario è profondamente mutato, si sono verificate scissioni e aggregazioni tra partiti e, con la nuova legge elettorale, si sono costituite nuove coalizioni. Così i singoli segmenti sociali presentano una graduatoria e preferenze tra i partiti molto più variegate rispetto a quattro anni fa. Vediamone alcuni.
Le donne oggi sono nettamente più indecise e manifestano una maggiore disaffezione rispetto agli uomini (42% contro 27%), sono più inclini a votare per Forza Italia e meno per il M5s.
Gli elettori più giovani (18-24 anni) sono spesso oggetto di attenzione da parte dei partiti e dei media: per la maggior parte di loro si tratta delle prime elezioni politiche. Sono poco numerosi (all’incirca l’8% degli elettori) e, come i loro coetanei europei, non sembrano molto mobilitati (il 37,4% si dichiara indeciso o astensionista); il voto per i due principali partiti (M5S e Pd) è sostanzialmente in linea con la media nazionale e sono più propensi a votare per Liberi e uguali, i partiti minori del centrosinistra e Lega. Tra i 25 e i 54 anni l’astensione scende, i dem ottengono meno voti (tra il 15% e il 18,9%), al contrario dei pentastellati che risultano stabilmente sopra il 30%. Tra gli elettori meno giovani (65 anni e oltre), il segmento più numeroso con il 26,4% del totale, indecisione ed astensione toccano il 39% e i partiti preferiti risultano Pd (36,1%) e FI (19,5%), mentre M5s e Lega raggiungono il valore più basso.
Riguardo al livello di istruzione si è tornati alle dinamiche tradizionali: i laureati presentano un tasso di astensione più contenuto, una maggiore propensione per la sinistra e il centrosinistra e un consenso decisamente più contenuto per Forza Italia e Lega. Tra le persone meno istruite (con licenza elementare o nessun titolo di studio), che rappresentano un elettore su quattro, il Pd si attesta al primo posto sfiorando il 30% dei voti validi, confermando la tradizionale «doppia anima» del proprio elettorato, seguito dal M5S (24%) che risulta incalzato da FI (22,7%).
Anche l’analisi per ceti professionali mostra dati interessanti: tra operai e lavoratori esecutivi il M5S ottiene il consenso più elevato superando il 40%, la Lega vanta un risultato superiore alla media sfiorando il 20%, mentre Pd e sinistra sono in sofferenza. I ceti dirigenti esprimono propensioni al voto abbastanza in linea con la media degli elettori con l’eccezione di Leu e dei partiti minori di centrosinistra (tra cui + Europa di Emma Bonino) che risultano più graditi, mentre il Pd pur confermandosi secondo partito ottiene meno consenso.
I cedi medi (impiegati e insegnanti) propendono nettamente per il M5S come pure i lavoratori autonomi (artigiani e commercianti): tra i primi FI è in difficoltà, tra i secondi la Lega ottiene un buon risultato. Tra le casalinghe il M5s è il primo partito, in linea con il dato complessivo, ma si distinguono in positivo Forza Italia (secondo) e Fratelli d’Italia (unico partito con una leader donna). Tra i pensionati Pd e FI sono decisamente sopra la media mentre M5s e Lega sotto. Gli studenti privilegiano Pd e Leu, mentre è più contenuto il consenso per FI e quello per Lega e M5S è in linea con la media generale.
Infine i cattolici, un elettorato sempre inseguito dalla politica ma, da tempo, assai poco incline a riconoscersi in uno specifico partito: infatti tra coloro che partecipano assiduamente alla messa domenicale il Pd risulta primo partito, seguito dal M5S che precede di qualche decimale FI. La Lega, presso i cattolici praticanti, ha un consenso più contenuto rispetto alla media.
In buona sostanza i partiti tendono ad avere alcuni blocchi sociali di riferimento, le cosiddette costituencies , che esprimono bisogni, priorità, aspettative e valori talora molto diversi. La componente prevalente tra i pentastellati è costituita da coloro che lavorano e appartengono al ceto medio impiegatizio e ai ceti esecutivi; il Pd ha il suo zoccolo duro tra i pensionati; Forza Italia tra le casalinghe e i pensionati (non a caso Berlusconi ha ipotizzato di istituire un ministero per la terza età) mentre, rispetto al passato, ha perso la propria capacità di rappresentanza dei ceti produttivi. La Lega compete con il M5S rappresentando prevalentemente ceti medi e operai. Liberi e uguali ritrova alcune componenti tradizionali della sinistra (pensionati, impiegati e studenti) e, sorprendentemente, gli elettori dei ceti dirigenti sono più numerosi di quelli operai.
Il sondaggio odierno fa registrare piccole variazioni per i singoli partiti rispetto a dieci giorni fa (il M5S sale al 29,3%, il Pd scende al 22,7%, mentre Forza Italia è in crescita: 16,9% contro il 13,7% della Lega). Nella fase finale della campagna l’attenzione sarà rivolta prevalentemente all’elettorato più contendibile, rappresentato dall’«area grigia» dell’astensione (21,9%) e dell’indecisione (12,9%) che nell’insieme riguarda oltre un terzo dell’elettorato (34,8%), composto prevalentemente da donne, da elettori meno giovani, poco scolarizzati, casalinghe e pensionati. Poco più della metà di costoro (51,9%) già si astenne nel 2013. Escludendo costoro, tra gli attuali indecisi il segmento più numeroso è di provenienza Pd (15,1%), seguito da centrodestra (12,3%) e M5s (10,3%).
Si tratta di elettori che attualmente stanno alla finestra. Una parte (soprattutto i più scolarizzati) appare più disorientata che disillusa e ciò rende la sfida non meno complicata: si tratta di elettori non pregiudizialmente ostili alla politica, ma alla ricerca di proposte convincenti nelle quali identificarsi e di leader credibili a cui fare riferimento. Mancano cinque settimane al voto, il tempo stringe.

Il Fatto 27.1.18
Pd, la minoranza non vota sulle liste
Renzi: ‘Esperienza devastante’
Orlando: ‘Nomi? Non li abbiamo neanche letti’

qui

La Stampa 27.1.18
Notte tra urla e pianti nasce il PdR di Renzi e si rischia la scissione
Il Guardasigilli fa un sondaggio con Bonino
di Fabio Martini


Tra urla e pianti, nella lunga e patetica notte consumata al Nazareno, sede del Pd, è diventato più chiaro quel che accadde 11 mesi fa, quando l’ala sinistra di Bersani e D’Alema lasciò il partito. Allora Matteo Renzi non fece nulla per impedire la scissione, perché già aveva in mente quel che ha messo in pratica nelle ultime 48 ore: la «normalizzazione» dei futuri gruppi parlamentari del Pd. I numeri hanno una loro eloquenza. Alle Primarie di maggio che lo avevano incoronato segretario, Matteo Renzi aveva ottenuto il 69,2% dei consensi popolari, ma ieri notte quando la direzione del Pd si è riunita per l’okay alle liste, quasi il 90 per cento dei posti «sicuri» appartenevano all’area del leader. Le minoranze congressuali (Orlando ed Emiliano) sono state strette all’angolo: avranno un manipolo di parlamentari, così come li avranno gli alleati più riottosi del segretario (Franceschini), ma si tratta di rappresentanze frammentate, piccole percentuali, gruppi destinati all’irrilevanza, quando arriverà l’ora delle grandi scelte. Una «libanizzazione» del dissenso interno che tornerà utile fra 40 giorni.
Dopo le elezioni del 4 marzo incombono decisioni decisive nella vita del Pd e in quella personale di Renzi. Se il partito dovesse restare sotto il minimo storico, il 25,4% raggiunto nel 2013 da Bersani, potrebbe aprirsi un processo al leader e per Renzi disporre di una pattuglia parlamentare ad alta fedeltà rappresenta un’assicurazione sulla vita. E gruppi renziani serviranno anche davanti a scenari meno drammatici ma potenzialmente divisivi: quale governo? Quale maggioranza? Quale presidente del Consiglio?
Naturalmente quando si fanno le liste per le elezioni più che ai massimi sistemi, i notabili di partito guardano ad interessi più prosaici. E nella giornata di ieri gli sherpa di Renzi hanno tirato la corda in modo così teso che ad un certo punto, senza che la notizia trapelasse, Andrea Orlando è stato costretto ad accarezzare un’idea clamorosa: lasciare il partito e trovare accoglienza elettorale nella lista «+Europa» di Emma Bonino. Uno degli amici del Guardasigilli ha fatto un sondaggio preliminare e non impegnativo ma poi l’ipotesi - che poteva diventare dirompente - è stata lasciata cadere. Almeno per ora.
È stata davvero una giornata di passione quella che si è consumata al piano nobile del Nazareno. L’orario di inizio dei lavori della Direzione è slittato per ben tre volte, dalle iniziali 10,30 si è via via andati sino alle 22,30: uno scivolamento di dodici ore, quasi un record. E a forza di rinvii l’«assedio» a Matteo Renzi si è fatto assillante: lo guatavano amici, nemici, alleati, semi-alleati. Qualcuno urlando («ci ha imbrogliato»), qualcuno piangendo. Un giovane democratico confida di aver visto Debora Serracchiani con gli occhi lucidi, ma chissà se era lei, chissà cosa è vero, o verosimile nel racconto di una delle giornate umanamente più intense nella storia del Pd.
Lui, Matteo Renzi, ad un certo punto ha staccato il cellulare, per ore non ha risposto più agli sms, ha scritto e cancellato nomi di candidati assieme al suo amico Luca Lotti. Un assedio anche umano, come racconta lo stesso Renzi: «E’ una disperazione far fuori 150 uscenti... C’è quello che ti dice, ho il mutuo da pagare, l’altro che ti fa sapere che gli manca una legislatura per la pensione, un altro che accampa un buon motivo....».
Certo, nella grande «mattanza» che ha accompagnato la febbrile fattura delle liste del Pd c’è stato anche un coté patetico. Ma il grande sospetto dei non-renziani è che, con la scusa del dimagrimento che doveva investire tutte le «aree» interne del Pd, il leader ne stesse approfittando per aumentare il proprio peso specifico, per dare un’accelerata a quel progetto di trasformazione del Pd in «PdR», quel «Partito di Renzi» che è la sintesi un po’ grossolana ma preferita dai detrattori del leader. I conti si potranno fare soltanto quando le liste saranno definitivamente vistate e approvate, ma ieri sera quando si è aperta la Direzione del Pd chiamata al formale via libera, i pesi interni erano ridistribuiti, con una presenza massiccia dell’area Renzi. Alle Primarie quell’area aveva conquistato il 69,2% dei consensi, contro il 20% di Andrea Orlando e il 10% di Emiliano: dei 200 posti “sicuri” (tra listini e collegi), quasi il 90% andranno a candidati vicini al segretario. In questo «correntone» di maggioranza, il 70-72% dei parlamentari sarebbero renziani doc, l’ 8-10% amici di Martina e Orfini, il 5-7% amici di Franceschini. Alle minoranze restererebbe il restante 10% .

Il Fatto 27.1.18
Nel suk del Nazareno Renzi vuol scegliere tutti gli eletti
Il leader azzera correnti e minoranze interne e poi, di fronte alle proteste, “minaccia” Orlando: “Troppe cariatidi, cambiate nomi”
Nel suk del Nazareno Renzi vuol scegliere tutti gli eletti
di Wanda Marra


La direzione del Pd per presentare le liste doveva esserci ieri mattina alle 10. Poi è slittata alle 16, poi alle 20, poi alle 22.30. Il Nazareno è un suk da lunedì. Tra giovedì notte e venerdì non dorme nessuno di quelli che stanno nella war room o nella stanza accanto: né Matteo Renzi, né Luca Lotti, nè Matteo Orfini o Matteo Richetti, né Lorenzo Guerini, né Maurizio Martina, né Ettore Rosato. Al gruppone ieri si sono aggiunti i preoccupati Maria Elena Boschi e Dario Franceschini.
Il segretario sta lavorando al progetto concepito fin dal giorno dopo la vittoria congressuale: la “renzizzazione” del Pd attraverso le liste. Gli altri cercano di arginarlo. L’ostacolo finale è il Guardasigilli, Andrea Orlando. Per tutta la giornata di ieri si inseguono voci su una rottura quasi definitiva tra il segretario e il ministro. Riassunto: per evitare la congiura pre-elettorale, Renzi aveva assicurato che le candidature avrebbero rispettato le proporzioni congressuali: per Orlando significa una quarantina di posti “sicuri” (il 20% preso alle Primarie dei 200 seggi su cui fa i conti il Pd). L’offerta finale di Renzi ieri era circa 15. Di fronte alle lamentele dell’interessato, Renzi lo avrebbe sfidato così: “Il problema non sono i numeri, ma i nomi. Bisogna trovare gente nuova. Togli qualche cariatide”, obiettando così anche sulla lista che gli era stata sottoposta. Un modo per scegliere pure i candidati della minoranza.
Orlando, dunque, ha dovuto valutare le mosse da fare. Prima di tutto, l’“arma fine di mondo”: decidere di non candidarsi né lui, né nessuno della sua componente, non fare campagna elettorale, sfilarsi anche dal sostegno a Giorgio Gori in Lombardia. E così far deflagrare il Pd prima del voto. A sera, la soluzione pareva scartata. A favore di una dinamica molto più ordinaria: la guerra interna per i pochi posti garantiti. “Andrea non ha il coraggio di scegliere chi deve entrare di noi e chi no”, si sfogavano i suoi. A rischio Cesare Damiano e Andrea Martella. Fuori Barbara Pollastrini e Marco Meloni, in origine della corrente “lettiana”.
Renzi ha motivato con il “bisogno di cambiare” il suo tentativo di prendere tutto (150 posti su 200, lasciando le briciole agli altri capibastone: Orlando, Emiliano, Franceschini, Orfini e Martina). Ma questi volti appetibili il segretario non li ha trovati. Entreranno nelle liste Piero De Luca, figlio di, l’ex presidente del Friuli Riccardo Illy e il capogruppo dei Socialisti e democratici Gianni Pittella. Tra i volti “nuovi” l’economista Tommaso Nannicini (che sta scrivendo il programma del Pd), l’intellettuale Giuliano da Empoli e alla fine pure Tommaso Cerno, condirettore di Repubblica. In quota società civile il pediatra Paolo Siani, l’ex segretaria dello Spi-Cgil Carla Cantone; Beppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci; la scienziata Anna Grassellino, l’avvocatessa sfregiata dall’acido Lucia Annibali, l’avvocatessa milanese disabile Lisa Noja. E il rettore di Messina Pietro Navarra, l’ex rettore di Camerino Flavio Corradini e il rettore di Udine Alberto Felice De Toni. E ancora: le giornaliste Federica Angeli e Annalisa Chirico.
In campo, quasi tutto il governo uscente. Bolzano ha provato a protestare contro la Boschi paracadutata, ma senza successo. La notte è lunga e la trattativa con Orlando va avanti a oltranza. Tra i renziani moltissimi sono in bilico. Roberto Giachetti ha rinunciato al paracadute del proporzionale. Tra chi dovrebbe arrivare in Parlamento Debora Serracchiani, governatrice del Friuli e Filippo Sensi, portavoce prima di Renzi, ora di Gentiloni. Riconferma anche per Daniela Cardinale, figlia dell’ex ministro, nonostante le proteste del Pd di casa sua, quello di Caltanissetta.

La Stampa 27.1.18
Dalla corazzata alla nascita dell’incrociatore del segretario
di Marcello Sorgi


Si può leggere la lunga e sofferta trattativa per la definizione delle liste come estrema contorsione di un Pd ridotto com’è ridotto, se solo si riflette che nella primavera di quattro anni fa lo stesso partito aveva superato il 40 per cento alle europee e oggi nei sondaggi è quotato poco più della metà. Oppure, e forse siamo più vicini alla realtà, si può interpretare il travaglio a cui si sta assistendo, tra il marciapiede e i corridoi del Nazareno, come il parto del famigerato PdR, il «Partito di Renzi» che il leader ha sempre immaginato da quando ha assunto la guida del Pd, e mai è riuscito a realizzare.
Certo, pensando alle ambizioni originarie di questa sorta di «Partito della Nazione», collocato al centro del sistema politico nel ruolo di una Dc 2.0, tutto appare molto ridimensionato, a cominciare dalle aspettative in termini di seggi, anche in questo caso dimezzate rispetto a quelle gonfiate dal Porcellum nella scorsa legislatura con quasi quattrocento parlamentari tra Camera e Senato, mentre adesso sarà grasso che cola se il centrosinistra ne porterà a casa duecento. Ma si sa: la sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016, la caduta del «governo dei mille giorni», il tira e molla sulla data del voto fin quasi alla scadenza naturale della legislatura, la scissione dei bersanian-dalemiani, la nascita di Liberi e Uguali, con l’obiettivo dichiarato di assestare il colpo finale alla stagione renziana, a maggior ragione dopo che il leader battuto era riuscito a farsi rieleggere alla segreteria del partito, hanno portato a un drastico ripensamento, per non dire rimpicciolimento, del disegno originario.
Tal che, in linea con il ritorno al proporzionale, è abbastanza chiaro che Renzi non pensa più alla portaerei uscita dalle urne del 2014, ma piuttosto a un agile incrociatore, con il quale, tenendo ben saldo il timone e con un equipaggio di fedelissimi, tentare l’aggancio del nuovo, incerto equilibrio politico che occorrerà costruire dopo il 4 marzo. Obiettivo realistico, solo che non si capisce più cosa c’entri con il centrosinistra.

il manifesto 27.1.18
Pd, la notte di Renzi pigliatutto
Grasso: Il 70 per cento dei capilista e oltre l’80 dei candidati sarà espressione del territorio di appartenenza. IL dem Giachetti annuncia che correrà solo all’uninominale: in un collegio che era destinato al radicale Magi
di Daniela Preziosi


Alle otto della sera Piero Grasso annuncia su twitter: «Siamo pronti!», «Vi anticipo qualche dato: il 70 per cento dei capilista e oltre l’80 per cento dei candidati sarà espressione del territorio di appartenenza». Le cifre servono a respingere le critiche che piovono come grandine sulle liste di Liberi e uguali: mancata «territorialità» dei candidati, cioè nomi catapultati dal centro. E blindatura degli uscenti di Si e di Mdp. Tutto falso, s igiura al quartier generale di via Zanardelli a Roma: «Il 50 per cento dei parlamentari non è stato ricandidato». Va detto che gli uscenti sono più di 80 e una stima non pessimistica ne dà come rientranti la metà. Ma soprattutto, si sottolinea «il 69 per cento dei capilista è stato indicato dai territori. Se aggiungi gli uninominali si arriva oltre il 90 per cento».
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I NUMERI, DA VERIFICARE appena le candidature saranno accettate e firmate, non raccontano la burrasca delle ultime ore. Nella notte di giovedì Grasso convoca Speranza, Fratoianni e gli ambasciatori di Civati. Pippo è furibondo, i suoi di Possibile chiedono un referendum tra gli iscritti. C’è chi parla di un confronto ruvidissimo con Fratoianni (si racconta anche di un posacenere volante, i presenti smentiscono). Possibile si sente penalizzata dalla manciata di seggi ’sicuri’ concessi dall’asse di ferro Mdp-Si, lo stesso Civati corre nel listino di Lombardia 3 e a differenza degli altri due segretari non ha un seggio sicuro. È la terra di Giorgio Gori, che Leu non appoggia alle regionali lombarde. Dagli sherpa di Mdp arriva l’ultimatum: o tutti dentro, o tutti fuori. La situazione si sblocca alle tre di notte con una telefonata distensiva di Grasso: oltre a Civati, Pastorino e Brignone, il giornalista Giulio Cavalli sarà schierato in Lombardia e l’avvocato Maestri in Umbria. «Resta l’amarezza e la profonda delusione, non per i posti, ma per il metodo e per il trattamento ricevuto», si sfoga Civati, «e pensare che il 3 dicembre avevo parlato di fratellanza».
SEMBRA RIENTRATA la protesta dell’assemblea regionale sarda: il candidato contestato di Si resta al suo posto ma al senato a Cagliari viene schierato Yuri Marcialis, assessore e uomo forte di Mdp. È l’unico caso in cui viene modificata la lista. Non si tocca nulla in Calabria e in Sicilia. Né in Abruzzo: lì ieri in dodici si sono ritirati dalle liste per protesta contro i due «catapultati da Roma» (Costantino di Si e Leva di Mdp). «Neanche con il Porcellum andò così», tuona Gianni Melilla, deputato uscente, «nel 2013 sia il Pd che l’allora Sel fecero le primarie per i parlamentari. Oggi tutto viene deciso da Roma. Se pensano che del vecchio partito conservano solo il centralismo democratico si sbagliano di grosso». Oggi a Pescara una nuova assemblea. Ma da via Zanardelli non trapela preoccupazione. Anzi, c’è soddisfazione: «Abbiamo chiuso le liste, e siamo i primi».
AL NAZARENO VA MOLTO PEGGIO. Mentre il manifesto va in stampa è convocata la direzione per la ratifica delle firme. Slittata fin qui tre volte: dalla mattina alle 10 e 30 al pomeriggio alle 16 alla sera alle 20 alla notte alle 22 e 30. Alle quattro di mattina della notte precedente Renzi ha mandato tutti a casa, per poche ore: il braccio di ferro con Orlando era a un punto morto. «È chiaro che si riducono i parlamentari, ma tutti devono assumersi una quota di questo peso che va equamente ripartito», avverte Gianni Cuperlo.
UN NUOVO INCONTRO in giornata viene intercettato dai cronisti ma smentito dal Nazareno. Le delegazioni regionali in rivolta sfilano nel pomeriggio davanti al segretario, Guerini, Lotti, Rosato e Orfini. Molti nomi ballano. In tarda serata non sono ancora stati ricevuti (neanche stavolta) il trio di Insieme, Bonelli-Nencini-Santagata. Che lancia l’ennesimo appello disperato.
MA RENZI HA BEN ALTRE gatte da pelare. In mattinata Roberto Giachetti annuncia che si sfila dal proporzionale e corre all’uninominale di Roma-Monteverde. Un bel gesto, il collegio non è sicuro: ma era destinato al radicale Riccardo Magi. Che dovrebbe traslocare all’Eur. Dove però c’è già la combattiva Prestipino. Insomma, la matassa invece di sbrogliarsi si imbroglia.
ANCHE PERCHÉ Andrea Orlando minaccia di non votare le liste, e il problema non sono solo i numeri. Il segretario vuole «facce nuove» e fra gli orlandiani non ce n’è molte. Sarebbe escluso Cesare Damiano.  Lorenzo Guerini smentisce veti. «Stiamo lavorando tutti assieme per individuare le candidature che possano avere sul territorio maggiori possibilità di vittoria», giura. In tarda serata la proposta renziana è quella iniziale: 15-16 posti sicuri a Orlando (che forse ne spunterà 20), 6-7 a Emiliano. Tutte le altre correnti sono ridotte ai minimi: con quella di Franceschini, fin qui la più numerosa, quella di Orfini e quella di Martina, cinquanta posti in tutto (erano con il segretario al congresso, non hanno una quota di riferimento). A Renzi invece, andrebbero 150 parlamentari. Vengono annunciati i nomi del saggista Giuliano Da Empoli e del condirettore di Repubblica Tommaso Cerno. Maria Elena Boschi rinvia la presentazione della sua candidatura a Bolzano prevista nel pomeriggio. Ma, fa sapere, «è solo un rinvio tecnico».

il manifesto 27.1.18
Non solo Casini. A Bologna i dem sbandano a destra
Verso le elezioni. Minniti è in città e il sindaco Merola ha un’idea: «Aprire centri di rimpatrio per i delinquenti». A rischio anche la candidatura di Lo Giudice
di Giovanni Stinco


BOLOGNA Soffia il vento elettorale, Marco Minniti passa da Bologna, e tanto basta per fare inclinare il sindaco a destra. E’ successo giovedì quando Virgilio Merola ha proposto al ministro l’apertura in città di un Cpr, un centro per il rimpatrio, nuovo nome con cui sono stati ribattezzati i ben più conosciuti e disumani centri di identificazione e espulsione. Ma Merola ha preferito coniare l’espressione «centro di rimpatrio per i delinquenti», zucchero per ogni palato leghista che si rispetti.
«Parole di destra, sembra di sentire il leghista Attilio Fontana», tuona il presidente nazionale di Antigone Patrizio Gonnella.
In realtà a ben vedere tutto il Pd bolognese sta volente o nolente sbandando paurosamente. Priorità assoluta sono ovviamente le candidature per le politiche del 3 marzo. Da almeno un mese, e nonostante le infinite trattative che tra i dem hanno fatto cadere e risorgere a fasi alterne praticamente ogni aspirante candidato al parlamento, ad essere certa è solo la candidatura tra le file Pd del democristiano Pierferdinando Casini.
Alla faccia di tutte le lamentele e dei maldipancia di una base a cui non basterà turarsi il naso per dare il proprio voto a quello che fino a ieri era l’avversario di sempre, e che oggi è semplicemente un «alleato serio e fedele».
Se Casini è al sicuro, e con ogni probabilità sarà schierato in un collegio uninominale blindato, di quelli dove si dice sia impossibile perdere, le cose si fanno complicatissime per Sergio Lo Giudice. Senatore dem uscente, presidente onorario dell’Arcigay e una vita nell’attivismo lgbt, Lo Giudice assieme a Monica Cirinnà ha lavorato più di tutti per l’approvazione della legge sulle unioni civili, ci ha messo la faccia anche quando non conveniva ed è stato capace di portare a casa un provvedimento che, comunque lo si giudichi, ha fatto avanzare i diritti civili in Italia.
Per gli scontri interni al Pd, alla voglia di Renzi di fare piazza pulita dei suoi avversari interni e al gioco delle correnti (anche locali) almeno fino a ieri notte era Lo Giudice e non Casini a rischiare di restare fuori dalla lista degli eleggibili.
Un paradosso che fa gridare molti allo scandalo: fuori un campione dei diritti lgbt, dentro l’ormai lodatissimo democristiano del Family Day. «Casini ama la sua città, anche a Roma porta sempre la sciarpa rossoblu del Bologna», è arrivato a dire qualcuno per giustificare politicamente la sua candidatura.
«Un partito che blinda Casini e non riserva lo stesso vantaggio a uno come Sergio Lo Giudice – dice il presidente del Cassero Lgbt center di Bologna Vincenzo Branà, – dà un segnale chiaro a noi come comunità lgbt. Perché al di là dei programmi elettorali ci sono le persone che quei programmi li rendono attuabili in parlamento».
Non è solo il Cassero a insorgere. Tutta la comunità lgbt italiana si è mobilitata. «La buona politica – è la dichiarazione del circolo Mario Mieli di Roma – si misura anche con la scelta delle persone giuste e con il riconoscimento del lavoro svolto; la cattiva politica si misura anche con scelte dettate dalla fedeltà al capo partito a prescindere del valore e del lavoro svolto».
Aspettando che si componga definitivamente il puzzle delle candidature per le prossime elezioni politiche, resta la situazione in città, con un sindaco che, applaudito da suoi, ha proposto l’apertura di un nuovo Cie cittadino. Si tratta dello stesso Merola che nel 2013 definì «cuore di tenebra» il centro di identificazione ed espulsione di Bologna. E solo 12 mesi fa, alle prime indiscrezioni di stampa sull’apertura di nuovi mini-Cie in tutta Italia, disse seccamente: «Da noi non passeranno».
Ma il vento politico è evidentemente cambiato. Tant’è vero che ad applaudire la proposta del sindaco giovedì c’era anche il segretario del Pd di Bologna Francesco Critelli. Lo stesso che assieme a tutta la maggioranza Pd nel 2013 votò in Consiglio comunale per impedire la riapertura del Cie cittadino.
Un «centro di rimpatri per delinquenti». La proposta del sindaco di Bologna Merola, che al ministro Minniti ha offerto la propria città per l’apertura di nuovo Centro per il rimpatrio dei migranti (il nuovo nome dei Cie), non è passata inosservata.
A bollare come «leghista» l’idea del primo cittadino democratico non c’è solo l’associazione Antigone, che da sempre si occupa dei diritti dei detenuti.
Il deputato Giovanni Paglia di Liberi e Uguali ha deciso di citare le stesse parole che Merola usò 5 anni fa: «Mi chiedo che bisogno ci sia di utilizzare la peggiore demagogia di destra per giustificare il ritorno del cuore di tenebra della città».
«Ricordo al sindaco che i Cie e i Cpr – dice Yasmine Accardo della campagna LasciateCIEntrare – sono usati per rimpatri a volte illegittimi, una settimana fa abbiamo purtroppo assistito all’espulsione di 30 nigeriani che stavano ancora aspettando una risposta alla loro richiesta di asilo. In un Cie non si entra in quanto delinquenti ma in quanto persone che lo Stato italiano vuole espellere».
«Se dici che il Cie è disumano tutti sono contrari al Cie, se però dici che ci metti i delinquenti allora fai una sparata di destra, guadagni pure consensi, e soprattutto fai passare il concetto che i Cie possano essere utili. Non è così», dice l’avvocato Guido Savio dell’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.
«Le dichiarazioni del sindaco di Bologna – spiega il ricercatore dell’Università di Bari Giuseppe Campesi, tra i fondatori dell’Osservatorio pugliese sulla detenzione amministrativa – rilanciano un vecchio cortocircuito, e cioè la tendenza a confondere il diritto penale con il diritto dell’immigrazione. Se in città c’è un problema di ordine pubblico va risolto col diritto penale, i Cie non sono la soluzione».
Infine Patrizio Gonella di Antigone: «Le dichiarazioni come quella del sindaco di Bologna rischiano di alimentare il clima di paura e di odio che respiriamo oggi, vorremmo che almeno le forze che si ispirano ai principi liberali e democratici cambino linguaggio, e poi magari anche politica».

Il Fatto 27.1.18
Sinistra: pluricandidature e big blindati
Grasso chiude le liste ma non i litigi: i territori insorgono, Civati non parla
di Tommaso Rodano


Le liste della discordia sono chiuse: tra polemiche e silenzi, Liberi e Uguali ha trovato la quadra sulle candidature per le elezioni del 4 marzo. La griglia con i nomi – in buona parte anticipati in questi giorni – sarà resa pubblica tra domenica e lunedì. Il prezzo politico dell’operazione però è piuttosto elevato: i territori dei partiti coinvolti hanno contestato vivacemente, e continuano a farlo, le decisioni sulle liste calate dagli apparati dei partiti (e dominate nella sostanza da Mdp).
Si litiga sull’abuso delle pluricandidature e la generosa distribuzione dei “paracadutati”: dirigenti ed ex parlamentari piazzati nelle poche posizioni eleggibili delle liste, anche in territori molto lontani da quelli di provenienza.
Poi c’è il caso Civati: il fondatore di Possibile – uno dei tre movimenti che compongono l’alleanza guidata da Pietro Grasso – dopo aver minacciato di mollare tutto (a causa del metodo di selezione dei candidati) e aver lasciato polemicamente uno degli ultimi tavoli della trattativa, ieri ha firmato l’accettazione delle candidature. Ma ha conservato per tutta la giornata un risentito silenzio, anche sui social network dove è solitamente molto attivo. Non esce dall’alleanza – anche perché il suo partito malgrado tutto ha portato a casa quattro parlamentari quasi sicuri (lo stesso Civati, Beatrice Brignone, Andrea Pertici e Luca Pastorino) – ma il suo malumore è una spia delle lacerazioni non superficiali prodotte nella lista di Grasso. E in Sardegna il braccio destro di Civati, Thomas Castangia, ha annunciato la rinuncia a correre dei candidati di Possibile (oltre all’ex Sel Massimo Piras): “Prendiamo atto della candidatura di Claudio Grassi nella nostra Isola come capolista nel collegio plurinominale Sardegna Sud – ha scritto su Facebook – nonostante una proposta unitaria e condivisa da parte di tutti i dirigenti di Liberi e Uguali della Sardegna, che prevedeva solo candidati sardi”.
Grasso ha provato a sedare le polemiche: “Un primo dato che posso dare, checché se ne sia detto, è che il 70% dei capilista viene dai territori. L’altro dato – ha aggiunto – è che nelle liste i capilista saranno per il 50% da parlamentari uscenti e per il 50% da persone nuove”. Il gruppo dirigente però – questo Grasso non lo dice – si è blindato con le pluricandidature in più listini proporzionali.

Il Fatto 27.1.18
Viaggio attraverso l’Italia a testa in giù
Dal Vajont a Sanremo, passando per Lampedusa, Arcore e Dagospia: i luoghi che hanno cambiato la nostra storia
di Pino Corrias


Esce oggi per Chiarelettere “Nostra incantevole Italia” di Pino Corrias. Ne pubblichiamo uno stralcio.

La mappa dei luoghi. Le carte geografiche contengono il mondo. Quando siamo in viaggio, calcolano le distanze. Ci raccontano dove siamo. Cosa ci lasciamo alle spalle e cosa troveremo al prossimo orizzonte. Questo libro è la mappa del mio viaggio nell’incantevole Italia di ieri e di oggi. È fatto di luoghi dove il tempo si è addensato, dilatandosi in un racconto da tramandare con i testimoni di quel tempo, di quel luogo. E, insieme con loro, dirne l’intreccio che ne scaturì e le conseguenze che ancora ci riguardano. […] Nostra incantevole Italia è il resoconto di un viaggio durato molti anni, alla fine del quale ho provato a rimettere ordine a storie che in tanti si sono esercitati a complicare anche quando erano semplici. Perché viviamo in uno strano paese scandito dal trasformismo delle classi dirigenti, dove tutte le verità sono sempre provvisorie.
Siamo il paese del doppio Stato, delle doppie verità, della doppia velocità di crescita tra il Nord e il Sud, ammalato di quattro mafie. Siamo il paese delle commissioni di inchiesta. Ne abbiamo avute ottantasei in una settantina di anni, la prima, nel 1948, sulla miseria degli italiani, l’ultima, nel 2017, sulla ricchezza fraudolenta delle banche, affidata niente di meno che a Pier Ferdinando Casini, l’ex portaborse di Forlani, ex socio di Mastella, ex galoppino di Berlusconi, ultimamente alleato di Renzi. Siamo una incantevole Italia appesa a testa in giù, con 2.300 miliardi di debito pubblico, il 130 per cento del nostro Prodotto interno lordo.
Dipendiamo dallo spread e facciamo finta di dimenticarcene anche se pesa come una catastrofe sempre imminente. Evadiamo 111 miliardi di tasse ogni anno, senza riuscire a porvi rimedio, come sa fare qualunque altro paese, appena superato il confine di Chiasso. Tre milioni e mezzo di persone lavorano in nero. L’economia sommersa vale 208 miliardi. Quella legale è ammalata di clientelismo, familismo, confraternite, cordate, tutte forme non sanguinarie della cultura mafiosa che coltiviamo dal basso. Perfezionando una trappola che mette in fuga migliaia di giovani laureati, ricercatori, imprenditori, artisti che cercano fortuna altrove, a Londra, Berlino, New York, lontano dalle falangi di raccomandati, figli, nipoti, portaborse delle infinite nomenklature che intasano tutte le tubature della Repubblica.
Strilliamo contro gli immigrati, ma sappiamo come sfruttarli a fondo, nelle fabbriche del Nord, nelle campagne del Sud, persino nei centri di prima accoglienza, dove rubiamo loro gli spiccioli dell’assistenza, e dentro le casse dell’Inps, dove versano più di quello che otterranno. Vorremmo ributtarli in mare, salvo quelli che ci servono per la cura della casa, dei nostri figli, dei nostri anziani. Abbiamo la classe politica tra le più corrotte d’Europa, la più ignorante, ma che è lo specchio fedele di un paese che muore di furbizia e conformismo. Dove si venera a chiacchiere la famiglia, ma non si consente alle giovani coppie di avere un lavoro decente e di fare figli. Eppure andrebbe sempre ricordato da dove siamo partiti, cosa eravamo settant’anni fa, residui di un paese fascista, razzista, analfabeta, distrutto dalla guerra costata mezzo milione di morti, e nutrito dai massacri compiuti dai nostri italiani brava gente in Albania, Grecia, Jugoslavia, Eritrea, Libia, dove abbiamo stuprato, impiccato, torturato. Per poi essere sconfitti dagli angloamericani, puniti, sottomessi. E poi salvati grazie al riscatto finale della Resistenza, e agli equilibri della Guerra fredda. Che ci hanno consentito di entrare nel nuovo consorzio di nazioni europee uscite anche loro distrutte dalla guerra, dalle dittature, dalla Shoah, dall’orrore. Tutti paesi in ginocchio, non solo noi e la Germania, gli sconfitti, ma anche l’Inghilterra e la Francia, i vincitori.
Coi quali abbiamo imboccato l’unica via di rinascita possibile, quella dell’Europa unita. Imperfetta, burocratica, lenta, ma che ci ha garantito uno sviluppo economico e culturale mai visto prima. La copertura della moneta unica, il mercato senza frontiere. Oltre a settant’anni di pace che ha voluto dire intelligenza non sprecata a ucciderci. Ha voluto dire democrazia, tolleranza, giustizia, emancipazione femminile, diritti delle minoranze, benessere sociale. Vantaggi che ci sembrano così naturali, dentro al nostro paesaggio di vita quotidiana, da non vederne più la lucentezza. Ipnotizzati dalla miserabile mistica delle piccole patrie, della piccola ricchezza conquistata lavorando dentro la complessità del mondo, dal quale crediamo di difenderci con la semplificazione dei muri. Senza neanche sospettare che i muri imprigionano più di quanto proteggano. C’è un palazzo in cima al nostro bagnasciuga che è il simbolo di tutti i palazzi: il Quirinale con le sue milleduecento stanze, apoteosi del potere e dei pennacchi, che ho scelto come ultima tappa del viaggio. Immaginando quanto sarebbe bello chiuderlo per riaprirlo. Traslocando il presidente in un luogo più adatto alla sobrietà di una Repubblica, piuttosto che lasciarlo tra le ombre nere che furono dei papi, dei re, di quel potere distante, minaccioso e ottuso. Restituirlo agli italiani, in forma di spazio pubblico […]. Cominciare da lì a rimettere la nostra incantevole Italia a testa in su.

il manifesto 27.1.18
Sessantotto, dibattito giovedì 1 febbraio a Roma


SESSANTOTTO! Giovedì 1 febbraio – a 50 anni dall’occupazione della facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Roma La Sapienza, si svolgerà il dibattito Sessantotto, per ritrovarsi che concernerà la presentazione dei due volumi che la rivista «MicroMega» dedica all’importante anniversario del ’68.
Da Luciana Castellina a Letizia Battaglia, da Paul Auster e Axel Honneth a Martin Walser, Eva Cantarella, Gustavo Zagrebelsky, i due volumi comprendono moltissime altre firme del panorama politico-culturale sia nazionale che internazionale.
Sono testimonianze, analisi e articoli che raccontano mezzo secolo di distanza dall’anno della «contestazione».
Alle ore 11 (Aula I), ne discutono con le e gli studenti Luciana Castellina, Francesco Pardi, Franco Piperno, Franco Russo (Coordina Lucia Annunziata). alle 16.30 (Aula magna del Rettorato), alla presenza di Andrea Camilleri, Paolo Mieli, Luciana Castellina, Paolo Flores D’Arcais e altri verrà introdotto il lavoro del doppio numero di MicroMega.
Numerosi sono anche i materiali d’epoca, tra cui si segnala una intervista inedita a un’intervista inedita a Rudi Dutschke.
Ampio spazio è dedicato alla polemica che seguì la pubblicazione della poesia che Pasolini scrisse «in difesa» dei poliziotti.

Corriere 27.1.18
La via polare della seta: Shanghai-Rotterdam risparmiando 20 giorni
Pechino immagina una rotta commerciale tra i ghiacci
di Guido Santevecchi


PECHINO Quante sono le nuove Vie della Seta immaginate da Xi Jinping? Se si realizzerà la visione del presidente cinese abbracceranno tutto il globo, compreso l’Artide. Pechino ha svelato ieri il progetto per una Via della Seta Polare, che sfruttando l’opportunità del restringimento dei ghiacci dovuto al riscaldamento terrestre può permettere al traffico commerciale di accorciare i tempi di navigazione dall’Asia all’Europa. Un mercantile salpato da Shanghai, usando il passaggio a Nordest della Russia risparmierebbe quasi tremila miglia nautiche per raggiungere il porto di Rotterdam in Olanda, che significano venti giorni, evitando il percorso tradizionale attraverso l’Oceano Indiano, il Canale di Suez e il Mediterraneo che dura circa 48 giorni.
L’idea cinese per la zona artica è appoggiata dalla Russia, ma è vista dai Paesi occidentali come la prova che i cinesi vogliono lanciarsi nella corsa allo sfruttamento delle sue risorse naturali, perché si calcola che nella regione più settentrionale del globo ci sia il 22 per cento delle risorse di combustibile fossile non ancora sfruttate. Seguono preoccupazioni per l’ecosistema. Presentando il Libro Bianco sulla Politica artica, il viceministro degli Esteri di Pechino Kong Xuanyou ieri ha assicurato «sviluppo sociale ed economico per tutti». E ha aggiunto: «A proposito del ruolo della Cina negli affari artici voglio sottolineare che non essendo un Paese della regione non interferiremo». Nel documento si legge che il governo incoraggerà le aziende cinesi a costruire infrastrutture lungo la rotta artica.
Il linguaggio ecumenico è tipico della diplomazia di Pechino. Ma secondo il Center for Strategic and International Studies di Washington, in realtà le iniziative della «Belt and Road» (nome internazionale del piano Vie della Seta di Xi) offrono grandi opportunità principalmente alle aziende della Repubblica popolare. Al momento è cinese l’89% delle aziende impegnate nella realizzazione delle infrastrutture, dei porti, delle autostrade e delle ferrovie; il 7,6% è dei Paesi attraversati, dall’Asia all’Africa all’Europa e il 3,4% è internazionale.
Il cambiamento climatico è un dato di fatto e la Cina è pronta a sfruttarne un aspetto commercialmente utile. Lo scioglimento dei ghiacci ha liberato la nuova rotta: nel 2010 furono quattro i mercantili a passare a Nord durante l’estate, con un carico complessivo di 110 mila tonnellate, ma nel 2017 la via polare è stata seguita da 46 navi, che hanno trasportato 1,26 milioni di tonnellate di prodotti. Tra quei cargo c’era una petroliera cinese che dalla Norvegia alla Sud Corea ha impiegato solo 19 giorni di navigazione. A settembre il rompighiaccio «Xue Long» (Dragone della neve) ha seguito il Passaggio a Nordovest del Canada, riducendo di una settimana la rotta tradizionale da Shanghai a New York attraverso il Canale di Panama. Mentre Pechino esultava per l’apertura di un nuovo percorso commerciale, il governo del Canada protestava perché la crociera del Dragone era stata autorizzata per «puri motivi di ricerca scientifica».
Il Mar glaciale artico si estende su una superficie di circa 14 milioni di chilometri quadrati che rientrano nelle giurisdizioni di Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, Svezia e Stati Uniti. Nel 2013 la Cina ha ottenuto lo status di Paese osservatore nel Consiglio Artico (anche l’Italia è stata accolta). Da allora, Pechino si è mossa su diversi fronti. Ricerche di petrolio offshore con l’Islanda; un gasdotto con la Russia; la posa di un cavo a fibra ottica lungo 10.500 chilometri, dalla Cina sino all’Europa attraverso il territorio della Finlandia.

Repubblica 27.1.18
2018, l’anno dell’Europa
di Thomas Piketty


Dieci anni dopo la crisi finanziaria, il 2018 sarà l’anno del balzo in avanti dell’Europa? Diversi elementi inducono a ritenere che andrà così, ma l’esito è tutt’altro che scontato. La crisi del 2008, che ha portato alla recessione mondiale più pesante dopo quella del 1929, nasceva dalle debolezze sempre più eclatanti del sistema americano: eccesso di deregolamentazione, esplosione delle disuguaglianze, indebitamento dei più poveri. L’Europa, con il suo modello di sviluppo più egualitario e inclusivo, avrebbe potuto cogliere quell’occasione per promuovere un sistema di regole migliore per il capitalismo globale. E invece è successo un disastro: senza un’adeguata fiducia fra gli Stati membri, e prigioniera di regole rigide applicate a sproposito, l’Unione Europea nel 2011-13 provocò una nuova recessione, da cui solo ora, a fatica, si sta riprendendo.
L’arrivo al potere di Trump, nel 2017, ha messo a nudo una nuova, evidente falla del modello americano, e questo rilancia la domanda d’Europa, tanto più se si considera che l’evoluzione dei modelli alternativi (Cina, Russia) è tutt’altro che rassicurante.
Per rispondere alle aspettative, tuttavia, l’Europa dovrà superare molteplici sfide. Innanzitutto una sfida generale: la deriva verso la disuguaglianza della globalizzazione. L’Europa non rassicurerà i suoi cittadini spiegando che la situazione qui da noi è migliore che negli Stati Uniti o in Brasile. Le disuguaglianze avanzano in tutti i Paesi, incoraggiate da una concorrenza fiscale esacerbata che favorisce i più mobili, e che l’Europa continua a rinfocolare. I rischi di ripieghi identitari e logiche del capro espiatorio saranno superati solo se si riuscirà a proporre ai ceti popolari e alle giovani generazioni una strategia concreta di riduzione delle disuguaglianze e investimento nel futuro.
La seconda sfida è il divario fra Nord e Sud, che all’interno della zona euro si è drammaticamente allargato, e che fa leva su versioni contraddittorie degli eventi. In Germania e Francia la gente continua a pensare che abbiamo aiutato i greci perché abbiamo prestato loro soldi a un tasso di interesse inferiore a quello che viene praticato a noi sugli stessi mercati. In Grecia la lettura dei fatti è diversa e si mette l’accento sul cospicuo utile finanziario realizzato. In realtà, il salasso imposto all’Europa del Sud, con conseguenze secessioniste drammatiche in Catalogna, è il risultato diretto di un miope egoismo franco-tedesco.
La terza sfida è il divario fra Est e Ovest. A Parigi, Berlino o Bruxelles non ci si capacita dell’ingratitudine di Paesi che hanno beneficiato di imponenti trasferimenti pubblici. Ma a Varsavia o Praga vedono la questione diversamente, sottolineando che gli investimenti privati sono stati pagati a caro prezzo e i flussi di profitti versati ai proprietari delle imprese superano i trasferimenti europei che viaggiano nell’altro senso.
In effetti, se si vanno a esaminare i numeri, i Paesi dell’Est non hanno torto. Dopo il crollo del comunismo, gli investitori occidentali ( in particolare tedeschi) hanno acquisito la proprietà di parte del capitale dei Paesi dell’ex blocco orientale: circa un quarto, se si considera l’intero stock di capitale ( incluso il settore immobiliare) e più della metà se ci si limita alla proprietà delle imprese ( e ancora di più per le grandi imprese). Gli studi di Filip Novokmet hanno dimostrato che la ragione per cui in Europa dell’Est le disuguaglianze sono cresciute meno che in Russia o negli Usa è da addebitarsi al fatto che una grossa fetta degli ingenti redditi prodotti dal capitale esteuropeo finiscono all’estero.
Tra il 2010 e il 2016, i flussi annui in uscita di profitti e redditi da capitale (al netto dei flussi in entrata corrispondenti) hanno rappresentato in media il 4,7 per cento del Pil in Polonia, il 7,2 per cento in Ungheria, il 7,6 per cento in Repubblica Ceca e il 4,2 per cento in Slovacchia, riducendo in egual misura il reddito nazionale di questi Paesi. Per fare un confronto, nello stesso periodo i trasferimenti annui netti provenienti dall’Unione Europea, vale a dire la differenza fra il totale degli esborsi ricevuti e dei contributi versati al bilancio comunitario, sono stati sensibilmente inferiori: il 2,7 per cento del Pil in Polonia, il 4 per cento in Ungheria, l’1,9 per cento in Repubblica Ceca e il 2,2 per cento in Slovacchia.
Certo, si può obiettare che gli investimenti occidentali hanno consentito di accrescere la produttività delle economie in questione e quindi hanno portato benefici a tutti. Ma i dirigenti esteuropei non mancano mai di ricordare che gli investitori abusano della loro posizione di forza per comprimere i salari e mantenere margini di profitto eccessivi. Esattamente come successo con la Grecia, le potenze economiche dominanti tendono, al contrario, a considerare naturali le disuguaglianze: si parte dal principio che il mercato e la “libera concorrenza” conducono a una ripartizione giusta delle ricchezze e si considerano i trasferimenti realizzati a partire da questo equilibrio “ naturale” come un atto di generosità da parte di quelli che con il sistema ci guadagnano. In realtà, i rapporti di proprietà sono sempre complessi, soprattutto all’interno di comunità politiche di grandi dimensioni come l’Unione Europea, e la loro regolazione non può essere affidata al buon volere del mercato. Potremo uscire da queste contraddizioni solo attraverso una rifondazione intellettuale e politica, accompagnata da una reale democratizzazione delle istituzioni europee. Speriamo che il 2018 possa dare un contributo in tal senso.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

venerdì 26 gennaio 2018

il manifesto 26.1.18
Praxis e educazione in Gramsci»
Pensare alla pedagogia come lotta egemonica
Un volume di Massimo Baldacci edito da Carocci, «Oltre la subalternità
di Donatello Santarone


Il libro di Massimo Baldacci, Oltre la subalternità. Praxis e educazione in Gramsci (Carocci, pp. 276, euro 27), riempie un vuoto di conoscenza sul pensiero pedagogico di Antonio Gramsci che durava, in Italia, dagli anni Sessanta-Settanta, da quando cioè su tale questione apparvero i primi fondamentali studi di Urbani, Manacorda e Broccoli (seguiti poi da quelli di Ragazzini).
Massimo Baldacci, docente di Pedagogia generale all’università di Urbino, parte da questa importante tradizione di studi per riproporne l’eredità più feconda ma anche per introdurre con maggior vigore un nesso fondamentale tra tutto il pensiero di Gramsci interamente innervato dalla filosofia della praxis, cioè da una originale e creativa forma di marxismo, e la dimensione pedagogica, che è politica e culturale, del suo pensiero. Il tutto per rispondere a una cruciale domanda educativa del presente: come fare per liberare la mente dalle scorie nocive del pensiero neoliberale che penetra nella forma di un suadente senso comune che rende passivi e docili i soggetti.
TUTTA LA RICERCA di Baldacci e il suo attuale impegno nella denuncia degli aspetti mercantili delle politiche scolastiche e universitarie avviate dagli anni Novanta nasce da qui. Pensare la scuola e l’educazione in modo gramsciano significa per l’autore porsi il problema di come modificare la soggettività dei subalterni, come far arrivare in alto chi sta in basso (per dirla con Brecht), come far diventare governanti i governati. Insomma, pensare all’educazione come una lotta egemonica di tipo pedagogico-culturale per andare, come recita il titolo del libro, oltre la subalternità.
Su tutto questo la miniera inesauribile dei Quaderni e delle Lettere rappresenta ancora oggi una fertile cassetta degli attrezzi che Baldacci rovista con profonda competenza partendo da quello che egli definisce il postulato pedagogico di Gramsci riassunto in queste parole del rivoluzionario sardo: «Ogni rapporto di egemonia è necessariamente un rapporto pedagogico». Un’egemonia vista sempre nella sua contraddittoria dialettica di direzione e dominio, consenso e forza.
La stessa che caratterizza anche il processo educativo, fatto non idealisticamente di buoni sentimenti da dispensare, ma caratterizzato da un nesso inestricabile di autorità e spontaneità, necessità e libertà, norma e infrazione della norma.
«Si deve riconoscere a Gramsci – scrive Baldacci – una profonda onestà intellettuale, oltre a uno spiccato realismo, perché la tendenza dominante nella pedagogia è sempre stata quella di semplificare o mascherare l’ambiguità del rapporto educativo, nascondendo o edulcorando il suo lato coercitivo, per enfatizzare la dimensione dell’amore reciproco educatore/educando.
SARÀ MANACORDA a evidenziare questo aspetto del pensiero di Gramsci», in particolare attraverso la fondamentale categoria del conformismo dinamico. Rispetto ai contributi di Mario Alighiero Manacorda, del quale restano insuperabili non solo gli studi sul comunista sardo ma anche quelli su Marx e in generale sul marxismo e l’educazione, la posizione di Baldacci è critica in quello che definisce un certo economicismo di Manacorda, in particolare nell’enfatizzazione degli aspetti legati al nesso educazione-americanismo-conformismo. Ci sono certamente, in questa critica, elementi di verità, ma bisogna considerare la necessità avvertita da Manacorda di contrastare una certa lettura culturalista di Gramsci e di farlo proprio in nome dell’indiscutibile nesso che c’è tra le riflessioni pedagogiche di Marx e quelle di Gramsci.
Molto pertinente appare, invece, la critica che Baldacci rivolge alla posizione adialettica di Althusser che vede l’apparato educativo solo come luogo di mera riproduzione delle idee delle classi dominanti, non cogliendo la dimensione contraddittoria dei sistemi educativi attraversati invece, secondo Gramsci, da dure lotte egemoniche, da quelle che gli statunitensi chiamano guerre culturali. E molto acutamente, parlando della nozione gramsciana di apparato egemonico, Baldacci scrive in una nota che tale nozione «sembra maggiormente vicina al concetto di campo di Bourdieu – come realtà attraversata da forze contrastanti – che non a quello althusseriano di apparati ideologici di Stato».
UN’ULTIMA fondamentale questione è il nesso tra educazione e filosofia della praxis. Si tratta di uno degli aspetti centrali dell’interpretazione di Baldacci il quale giustamente sostiene che il progetto emancipativo insito nei processi educativi è tale per Gramsci solo se si lega a una prospettiva di liberazione umana che prende il nome di comunismo e si connette, sul piano teorico, con la filosofia della praxis.
Questo perché in Gramsci, e in generale in tutta la tradizione del marxismo pedagogico, l’educazione non è un’entità disincarnata dai rapporti di produzione e dai conflitti di classe, ma è, come tutte le dimensioni dello spirito, espressione in ultima analisi di determinati rapporti storici tra governanti e governati. Anche in questo per il pensatore sardo la lezione di Marx è fondamentale, in particolare nella scoperta della dialettica inesauribile tra dimensione simbolica e dimensione socioeconomica le quali, a dispetto di una certa tradizione interpretativa caricaturale del pensiero di Marx, non sono mai meccanicamente effetto l’una dell’altra ma vivono dinamicamente come momenti di uno stesso processo storico e umano.

il manifesto 26.1.18
Una campagna-appello contro i «nuovi fascismi»


Si stanno moltiplicando nel nostro Paese sotto varie sigle organizzazioni neofasciste o neonaziste presenti in modo crescente nella realtà sociale e sul web.
Esse diffondono i virus della violenza, della discriminazione, dell’odio verso chi bollano come diverso, del razzismo e della xenofobia, a ottant’anni da uno dei provvedimenti più odiosi del fascismo: la promulgazione delle leggi razziali.
Fenomeni analoghi stanno avvenendo nel mondo e in Europa, in particolare nell’est, e si manifestano specialmente attraverso risorgenti chiusure nazionalistiche e xenofobe, con cortei e iniziative di stampo oscurantista o nazista, come recentemente avvenuto a Varsavia, persino con atti di repressione e di persecuzione verso le opposizioni.
Per questo, uniti, vogliamo dare una risposta umana a tali idee disumane affermando un’altra visione delle realtà che metta al centro il valore della persona, della vita, della solidarietà, della democrazia come strumento di partecipazione e di riscatto sociale.
Per questo, uniti, sollecitiamo ogni potere pubblico e privato a promuovere una nuova stagione di giustizia sociale contrastando il degrado, l’abbandono e la povertà che sono oggi il brodo di coltura che alimenta tutti i neofascismi.
Per questo, uniti, invitiamo le Istituzioni a operare perché lo Stato manifesti pienamente la sua natura antifascista in ogni sua articolazione, impegnandosi in particolare sul terreno della formazione, della memoria, della conoscenza e dell’attuazione della Costituzione.
Per questo, uniti, lanciamo un allarme democratico richiamando alle proprie responsabilità tutti i livelli delle Istituzioni affinché si attui pienamente la XII Disposizione della Costituzione («È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista») e si applichino integralmente le leggi Scelba e Mancino che puniscono ogni forma di fascismo e di razzismo.
Per questo, uniti, esortiamo le autorità competenti a vietare nelle competizioni elettorali la presentazione di liste direttamente o indirettamente legate a organizzazioni, associazioni o partiti che si richiamino al fascismo o al nazismo, come sostanzialmente previsto dagli attuali regolamenti, ma non sempre applicato, e a proibire nei Comuni e nelle Regioni iniziative promosse da tali organismi, comunque camuffati, prendendo esempio dalle buone pratiche di diverse Istituzioni locali.
Per questo, uniti, chiediamo che le organizzazioni neofasciste o neonaziste siano messe nella condizione di non nuocere sciogliendole per legge, come già avvenuto in alcuni casi negli anni 70 e come imposto dalla XII Disposizione della Costituzione.
La campagna di raccolta firme per l’appello verrà presentata giovedì 1 febbraio alle 11.30 a Roma nei locali del Museo storico della Liberazione – luogo simbolo del martirio antifascista.
Interverranno: Susanna Camusso, segretaria generale Cgil, Francesca Chiavacci, presidente Nazionale Arci, don Luigi Ciotti, presidente Libera, Carla Nespolo, presidente nazionale Anpi, Roberto Rossini, presidente Nazionale Acli
*** Promuovono: Acli, Aned, Anpi, Anppia, Arci, Ars, Articolo 2, Cgil, Cisl, Comitati Dossetti, Coordinamento democrazia costituzionale, Fiap, Fivl, Istituto Alcide Cervi, L’Altra Europa con Tsipras, Libera, Liberi e uguali, Libertà e giustizia, Pci, Pd, Prc, Uil, Uisp. Aderiscono: Auser, Giovani democratici, I sentinelli di Milano, La Rete per la Costituzione, Link Coordinamento universitario, Movimento federalista europeo Toscana, Movimento giovanile della sinistra, Rete degli studenti medi, Rete della conoscenza, Ugo Nespolo, Aldo tortorella, Unione degli studenti – Unione degli universitari

il manifesto 26.1.18
Shoah, Mattarella demolisce il mito degli italiani brava gente
Cerimonia al Quirinale. Per il giorno della Memoria, il presidente della Repubblica usa parole durissime sulle connivenze all'antisemitismo radicate nella società italiana subito dopo le leggi razziali e sulle colpe del fascismo: inaccettabile dire che ebbe anche dei meriti
La neo senatrice a vita Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, con Mattarella ieri al Quirinale


«Il presidente è stato molto chiaro e mi hanno fatto particolarmente piacere alcune sue frasi sul passato. Speriamo che sia effettivamente il passato». Al Quirinale, Pietro Terracina, uno dei sopravvissuti di Auschwitz, commenta così il discorso di Sergio Mattarella per il giorno della memoria. Il presidente della Repubblica alla condanna dei crimini della storia ha aggiunto un deciso avvertimento per il presente.
La cerimonia si è svolta ieri perché il giorno della memoria – 27 gennaio, anniversario dell’aperture dei cancelli di Auschwitz da parte dell’Armata rossa sovietica (le «truppe russe» nel discorso di Mattarella) – cade quest’anno di sabato, giornata del riposo per gli ebrei. Oggi il capo dello stato è impegnato con l’apertura dell’anno giudiziario in Cassazione. Mattarella aveva in qualche modo anticipato il suo richiamo al valore della memoria – «un antidoto indispensabile contro i fantasmi del passato» – nominando la settimana scorsa senatrice a vita Liliana Segre, anche lei sopravvissuta e testimone dell’olocausto.
«Tutte le vittime dell’odio sono uguali e meritano uguale rispetto, ma la Shoah per la sua micidiale combinazione di delirio razzista, volontà di sterminio, pianificazione burocratica, efficienza criminale, resta unica nella storia d’Europa», ha detto Mattarella. Per la prima volta il capo dello stato ha voluto invitare anche il rappresentante della comunità dei rom, sinti e camminanti. «Speriamo che il passato non torni mai – ha detto Terracina – non temo per me o per i miei correligionari, temo
invece per altre minoranze che sono ancora a rischio».
Con parole mirate, Mattarella ha demolito il mito degli italiani brava gente e della dittatura lieve. «Sul territorio nazionale il regime fascista non fece costruire camere a gas e forni crematori. Ma il governo di Salò collaborò attivamente alla cattura degli ebrei che si trovavano in Italia e alla loro deportazione verso l’annientamento. Le misure persecutorie – ha aggiunto – la schedatura e la concentrazione nei campi di lavoro favorirono enormemente l’ignobile lavoro dei carnefici delle SS». Mattarella ha ricordato l’ottantesimo anniversario delle leggi razziste del 1938, «ideate e scritte di pugno da Mussolini, trovarono a tutti i livelli delle istituzioni della politica, della cultura e della società italiana connivenze, complicità, turpi convenienze, indifferenza».
Di rara nettezza la condanna del fascismo: «Con la normativa sulla razza si rivela al massimo grado il carattere disumano del regime fascista … dopo aver soppresso i partiti, ridotto al silenzio gli oppositori e sottomesso la stampa, svuotato ogni ordinamento dagli elementi di democrazia, il fascismo mostrava ulteriormente il suo volto». «E per questo sorprende sentir dire, ancora oggi, da qualche parte, che ebbe alcuni meriti, ma fece due gravi errori: le leggi razziali e l’entrata in guerra. Si tratta di un’affermazione gravemente sbagliata e inaccettabile, da respingere con determinazione. Perché razzismo e guerra non furono deviazioni o episodi rispetto al suo modo di pensare, ma diretta e inevitabile conseguenza».
In conclusione, Mattarella ha detto che «focolai di odio, di intolleranza, di razzismo, di antisemitismo sono presenti nelle nostre società. Non vanno accreditati di un peso maggiore di quel che hanno ma sarebbe un errore capitale minimizzarne la pericolosità».

Corriere 26.1.18
«Fascismo disumano, non ebbe meriti»
Mattarella ricorda la «pagina infamante» delle leggi razziali: mai minimizzare l’odio nella società
di Marzio Breda


«Un capitolo buio, una macchia indelebile, una pagina infamante della nostra storia». Ecco che cosa sono state, per Sergio Mattarella, le leggi razziali del 1938. Norme rivelatrici del «carattere disumano del fascismo» e che trovarono le «connivenze, la complicità, le turpi convenienze, l’indifferenza di istituzioni, politica, cultura e società italiana». Il frutto malsano, insomma, di un regime che «non ebbe alcun merito»”, come «ci sorprendiamo a sentir dire ancora oggi da qualche parte», con la pretesa che gli «unici errori della dittatura siano stati appunto quelle leggi e l’entrata in guerra». Un’affermazione simile è «gravemente sbagliata e inaccettabile, perché razzismo e guerra non furono deviazioni o episodi rispetto a un certo modo di pensare, ma una diretta e inevitabile conseguenza… erano insite nella natura violenta e intollerante di quel sistema». Il capo dello Stato marchia con durezza la svolta mussoliniana di 80 anni fa, che appaiò l’Italia alla Germania di Hitler. Parole acuminate, le sue. Che forse non a caso cadono all’indomani di quanto ha detto il candidato leghista alla presidenza della Lombardia, Attilio Fontana, piegando il senso dell’articolo 3 della Costituzione in un appello elettorale «in difesa della razza bianca».
No, insiste il presidente, celebrando l’Olocausto e le responsabilità riconducibili anche al nostro Paese. «La Repubblica non teme di fare i conti con la propria storia», dice, ricordando due cose: 1) la parte che nella persecuzione degli ebrei in Italia ebbero «intellettuali, giuristi, scienziati, storici», con il loro supporto teorico alla «ignominia» del Manifesto della razza; 2) «l’antitesi più netta» a tutto questo ci è offerta dalla Carta del ’48 con quell’articolo 3 che ora qualcuno vorrebbe storpiare calpestando il principio che esclude discriminazioni di ogni genere.
Purtroppo, avverte, non possiamo ancora «minimizzare i focolai di odio, intolleranza, razzismo e antisemitismo nelle nostre società». Perciò «i fantasmi del passato, il rischio che si possano di nuovo spalancare le porte dell’abisso devono esser sempre tenuti presenti». Abbiamo «il dovere», che per lui è un antidoto, «della memoria», spiega guardandosi attorno nell’affollato salone dei corazzieri del Quirinale. Ci sono gli ormai pochi superstiti dei lager nazisti, fra i quali, insieme a Piero Terracina, Liliana Segre (appena nominata senatrice a vita), molti studenti e la cantante israeliana Noa, con le sue struggenti canzoni.

La Stampa 26.1.18
Mattarella, monito ai politici: no al mito del fascismo buono
Avviso contro l’odio: “Sorprende che ancora adesso qualcuno parli di meriti”
di Ugo Magri


Verso gli ebrei l’Italia è colpevole. Anche contro «gitani, omosessuali, testimoni di Geova, disabili»: 80 anni fa, con le leggi razziali, fu commesso nei loro confronti «un crimine turpe». E sebbene la vergogna ricada sul fascismo, tutti noi «abbiamo il dovere di riconoscere quanto di terribile e disumano» fu fatto allora. Sergio Mattarella non chiede formalmente «perdono» alla comunità ebraica perché la Repubblica, che egli rappresenta, è nata proprio in contrapposizione a quegli orrori (basta leggere l’articolo 3 della Costituzione). Ma il discorso presidenziale marca comunque una responsabilità collettiva. Taglia netto con lo stereotipo auto-assolutorio degli italiani sempre brava gente. Ci fu, riconosce Mattarella, la «complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati, cittadini asserviti». In troppi tacquero, restarono indifferenti. Non si può dimenticare né nascondere quanto accadde, con la nostra storia dobbiamo «fare i conti». Un’ammissione così esplicita mai si era udita finora sul Colle.
Basta banalità
Mattarella è un uomo politico moderato che però, se vede in gioco i valori, diventa intrattabile. Nei ricordi di famiglia, mai messi in pubblico, c’è il padre che nel 1938 passò i guai a Palermo proprio per aver condannato le leggi razziste sul giornale diocesano. Contestarle era dovere. Chi ora minimizza o prova a giustificare merita disapprovazione. Difatti il passaggio più intenso del discorso pronunciato al Quirinale nel Giorno della Memoria, con tutte le massime cariche pubbliche sedute dinanzi, tra queste la neo senatrice a vita Liliana Segre sopravvissuta ad Auschwitz, picchia duro su chi banalizza. «Sorprende sentir dire, ancora oggi, da qualche parte, che il fascismo ebbe alcuni meriti ma fece due gravi errori: le leggi razziali e l’entrata in guerra. Si tratta di un’affermazione», secondo il Capo dello Stato, «gravemente sbagliata e inaccettabile». Ovvio che il pensiero corra a quanti, tra i leader in circolazione, si sono travestiti da storici. Ne vengono in mente un paio che in piena campagna elettorale Mattarella, ovviamente, non cita. Un mese fa Berlusconi aveva negato al Duce la qualifica di dittatore, lo era fino lì. E Salvini non risulta si sia mai pentito di quanto disse: «Prima delle leggi razziali, per vent’anni Mussolini, aveva fatto tante cose buone, la previdenza sociale l’ha portata lui mica i marziani». Errore, reagisce Mattarella a questi discorsi che ogni tot rispuntano: «Razzismo e guerra non furono deviazioni o episodi, ma diretta e inevitabile conseguenza» di un certo modo di pensare. La sua condanna è a 360 gradi.
Anticorpi in azione
I «focolai di razzismo e di antisemitismo» sono tuttora presenti e non vanno sottovalutati. Però Mattarella, al quale non è sfuggito l’allarme lanciato domenica dal rabbino Riccardo Di Segni, è fiducioso: certi fenomeni «non vanno accreditati di un peso maggiore di quel che hanno. Il nostro Paese e l’Unione europea hanno oggi gli anticorpi necessari».

La Stampa 26.1.18
Dietro la condanna del Ventennio l’ombra dei populismi autoritari
di Giovanni Sabbatucci


Nella cerimonia al Quirinale che ha inaugurato le celebrazioni del Giorno della memoria, il presidente della Repubblica non si è limitato alla celebrazione rituale o alla deplorazione generica. Ha invece affrontato la questione ancora scabrosa e dolente delle leggi razziali varate ottanta anni fa dal fascismo con toni decisi e argomentazioni nette, non scontate né usuali nei discorsi ufficiali di un capo di Stato. Anche per questo, oltre che per il suo contenuto, il discorso di ieri è destinato a occupare un posto di rilievo nella storia degli interventi presidenziali.
Già in altre occasioni - da ultimo nelle motivazioni della nomina a senatrice a vita di Liliana Segre - Sergio Mattarella aveva manifestato una speciale sensibilità al tema: un’attenzione certo giustificata dal riproporsi - nelle piazze, sui social networks, in certe scritte murali, persino nella campagna elettorale - di atteggiamenti e slogan esplicitamente razzisti e neonazisti. In questo caso, però, l’obiettivo polemico principale è un altro: è la persistenza, è la sostanziale invarianza nel tempo di quei luoghi comuni consolatori che gli appartenenti alla generazione dei nati alla fine della seconda guerra mondiale sentono ripetere da sempre come un monotono ritornello: «il fascismo ha fatto anche cose buone», «la responsabilità delle persecuzioni razziale è tutta dei tedeschi», per finire col classico «ah, se Mussolini non fosse entrato in guerra…».
Su questi punti, il capo dello Stato è entrato decisamente nel merito, ricordando agli immemori e ai minimizzatori di turno alcuni dati di fatto non confutabili. Primo: il fascismo avrà fatto anche cose buone (quale regime non ne ha fatte?), ma questo non significa che fosse «in parte» buono, visto che le cose cattive bastano e avanzano per qualificarlo. Secondo: è certo che la primazia (logica e cronologica) delle persecuzioni razziali e dei relativi orrori, culminati nella Shoah, spetta alla Germania nazista, ma è altrettanto vero che gli italiani (quasi tutti) si adattarono alla legislazione antisemita senza proteste o intimi trasalimenti; e non pochi di loro (non tutti per la verità) si prestarono al ruolo di «volonterosi carnefici» sotto la Repubblica sociale, collaborando per la parte di loro competenza alla fase preliminare delle operazioni di sterminio. Terzo: la storiella di un Mussolini rovinato dalle cattive compagnie si basa su un’ipotesi del tutto infondata. Mussolini non poteva non fare la guerra, perché - come ha giustamente ricordato il presidente - il fascismo era un fenomeno costitutivamente autoritario e liberticida e inesorabilmente votato alla violenza e alla guerra. Questa almeno era la deriva assunta dal regime già prima dell’alleanza con Hitler e delle leggi razziali. Che poi Mussolini, come molti italiani, credesse poco alla teoria e alla mistica della razza e che vedesse la campagna antisemita come un’iniezione di spiriti bellicosi nel corpo del popolo, è altro discorso: ma dal punto di vista etico - mi sentirei di aggiungere - questo rappresenta un’aggravante più che un attenuante.
E’ dunque, quella del presidente Mattarella, una presa di posizione che non lascia adito a dubbi interpretativi e che non ha solo il valore di una precisazione storiografica. Serve, in una difficile fase pre-elettorale, a ribadire i confini della legittimità repubblicana, collocando decisamente l’Italia nel novero delle democrazie liberali, e ad allontanarla dal modello delle democrazie autoritarie e populiste (le «democrature«), verso cui alcuni Paesi dell’Est Europa stanno pericolosamente inclinando.

Repubblica 26.1.17
Mattarella e la macchia indelebile
di Ezio Mauro


Ci sono due modi di confrontarsi con la memoria. Il primo è la contemplazione archeologica di un reperto del passato.
Il secondo è la relazione pedagogica con ciò che noi siamo e con ciò che vorremmo essere: per capire se abbiamo fatto i conti con la lezione della storia o se viviamo in un presente disincarnato ed estemporaneo, dove ogni improvvisazione è possibile, perché è saltato qualsiasi vincolo culturale, politico e morale con le responsabilità che nascono dalla nostra vicenda nazionale.
Ieri, nel ricordare il giorno in cui i cancelli di Auschwitz si sono aperti sull’orrore, il presidente della Repubblica si è fatto carico fino in fondo di questa responsabilità del passato chiedendo di fatto scusa agli ebrei italiani per i crimini commessi dal fascismo che si era impossessato dello Stato, deformandolo.
È un atto che mancava e che era doveroso, perché va al di là della memoria, della solidarietà e della stessa condivisione. La denuncia dell’orrore italiano nato con le leggi razziali e il manifesto della Razza diventa infatti un impegno della Repubblica e della democrazia italiana contro le tentazioni razziste, xenofobe, discriminatorie, contro le insorgenze isolate e ignoranti di un richiamo postmoderno al fascismo come espressione materiale, situazionista, testimoniale di antagonismo sociale.
Riaffermando l’unicità della Shoah nella storia dell’occidente, Mattarella ha ricordato il consenso che accompagnava i carnefici, senza che le radici di umanità e di pietà, le conquiste della scienza, della cultura, dell’arte, e quindi del progresso e della civiltà — potremmo dire la “ bellezza” dell’Europa — agissero da freno e da schermo: ma anzi permettendo che le persone venissero prima ridotte a numeri, liste, elenchi, cose e oggetti, spogliati di ogni dignità e di ogni diritto, come talvolta capita nuovamente.
L’Italia ha partecipato a questa discesa nell’abisso: non solo con la caccia agli ebrei da parte della repubblica di Salò e con la deportazione, ma con la “ pagina infamante” e la “ macchia indelebile” delle leggi razziali che portarono alla schedatura, alla discriminazione, all’esclusione dalla vita civile, alla concentrazione nei campi di lavoro dei cittadini ebrei. Nel consenso, nella complicità e nell’indifferenza della cultura, della politica, della pubblica opinione.
Ma le leggi razziali non sono un semplice errore, bensì una diretta conseguenza dell’ideologia di sopraffazione, autoritarismo e supremazia tipica del fascismo, dunque perfettamente coerenti e conseguenti ad una politica che sopprime il pluralismo politico, imbavaglia i giornali, calpesta l’opposizione, cancella la democrazia istituzionale. Ecco perché Mattarella respinge il riduzionismo risorgente, che oggi cerca di distinguere i presunti meriti del fascismo dai suoi errori. La lettura è opposta: proprio le norme sulla razza “ rivelano il carattere disumano” del regime e il “ distacco definitivo” della monarchia dai valori del Risorgimento e dai principi dello Statuto.
Con questa testimonianza il Capo dello Stato condanna la banalizzazione del fascismo praticata oggi quotidianamente, e distrattamente introiettata dal sistema politico e culturale, la riduzione della dittatura a vizio del carattere nazionale, la derubricazione del regime ad ambiguità politica, incidente casuale, esperimento italico, folclore della storia.
Questa condanna si accompagna al recupero del nesso troppo facilmente smarrito in questi anni tra la Resistenza ( come moto nazionale autonomo di ribellione alla dittatura), la riconquista della democrazia, la Costituzione, la nascita della Repubblica e delle sue istituzioni. Una Repubblica, ricorda il presidente, che “ si è definita e sviluppata in totale contrapposizione al fascismo”, una Costituzione che all’articolo 3 rifiuta ogni discriminazione. Un Paese che proprio per questo deve sentire il dovere oggi “ di riconoscere che un crimine turpe e inaccettabile è stato commesso nei confronti dei nostri concittadini ebrei”.
Si afferma così, insieme, l’unicità e l’universalità della persecuzione razziale antiebraica, davanti a rischi di antisemitismo, di razzismo, di intolleranza e di odio che ritornano oggi: non vanno ingigantiti, dice Mattarella, sapendo però che all’ombra della globalizzazione timori identitari e paure per il futuro possono far riemergere fantasmi del passato, quando la semplificazione della storia suggerisce scorciatoie pericolose.
Una democrazia costituzionale consapevole delle sue radici, che comportano obblighi e doveri, è una risposta a questi pericoli. Una Repubblica cosciente della sua storia è una garanzia: quando le istituzioni sanno leggere i segni del passato, non quando si propongono, come avveniva qualche anno fa, di abolire il 25 aprile.

il manifesto 26.1.18
Pd e Leu, artiglieria pesante sulle liste. Mdp-Si sotto assedio
Orlandiani in rivolta, la direzione dem rischia di slittare. Grasso alle prese con forfait eccellenti, no di Bartolo e Iacomini. Civati indeciso su un referendum fra i suoi iscritti. Al ’nazionale’ minimizzano: «Normali malumori». A notte il presidente convoca i vertici dei due partiti, ora toccherà a lui mettere la faccia su tutte le scelte
di Daniela Preziosi


I guai iniziano presto nella sede di Liberi e uguali. La vicenda abruzzese – dirigenti regionali contro «catapultati» – si è conclusa male, con una rottura con il ’nazionale’, e dirigenti che si scusano con i militanti di averli «coinvolti» in questo «schifo». L’uscente Melilla tuona: «Una delusione, un’infinita tristezza».
SULLA CARTA RISULTANO ancora aperti i dossier Sicilia e Sardegna, due territori le cui assemblee hanno scatenato la rivolta contro i candidati ’stranieri’. Ma in pratica le liste non si toccano: «Non ci sono margini di modifica», spiegano dal quartier generale di via Zanardelli a Roma. Spostare uno dei candidati contestati (Grassi in Sardegna, Costantino e Leva in Abruzzo, Epifani in Sicilia, per dire solo delle baruffe principali) significherebbe cambiare troppi tasselli del domino.
SULLA CHAT degli onorevoli di Mdp esplode il malcontento. Ad essere furiosi non sono solo gli ex di area Pisapia, tutti fuori dalle liste «senza neanche una telefonata», ma anche alcuni ex Pd. Nel Lazio c’è il caso Filiberto Zaratti: l’ambientalista eletto nei Castelli è stato rimpiazzato dalla toscana Elisa Simoni, ora in bilico in extremis con una candidata romana.
INTANTO LA ’QUOTA CIVICA’ tanto voluta da Piero Grasso evapora. Il medico di Lampedusa, Pietro Bartolo, portato fin qui in processione nei teatri, annuncia la sua rinuncia: «Il mio posto è qui, con gli isolani e i migranti». Ha parole amichevoli per Grasso e per Leu, e le conferma a chi lo interpella direttamente. Ma in Mdp in molti credono che la proposta del seggio di Pavia non era quello a cui pensava quando gli hanno chiesto di candidarsi. Qualche giorno fa aveva rinunciato anche Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia. E il sociologo Marco Omizzolo, ricercatore e vicepresidente della Onlus In Migrazione, chiarisce sui social che anche lui non accetta: «Leu si è dimostrata coerente con la peggiore tradizione politica dei partiti», scrive, «logiche solo spartitorie e non di cambiamento reale». Da più parti (Sardegna, Sicilia) viene invocato Grasso come garante. Ma a sua volta anche il presidente è oggetto di malumore per aver candidato il suo portavoce Alessio Pasquini: «Se chiede una persona di sua fiducia, non possiamo dirgli di no», è la replica imbarazzata che arriva da via Zanardelli.
DALLA SUA SICILIA, oltre a comunicati di fuoco contro la corsa di Epifani, arrivano anche le parole di Claudio Fava, eletto da Mdp e Si: «Non mi riconosco nel progetto di Leu, la Sicilia è vista come una colonia, serbatoio per prendere voti, per accompagnare in parlamento e salvare chi con la Sicilia non c’entra nulla», dichiara a Sicilialive.
NON È FINITA. PIPPO CIVATI spiega al politburo di Leu che in queste condizioni deve convocare un referendum fra gli iscritti di Possibile: «In nove regioni non ho neanche i candidati». Dei suoi solo tre sono eletti ’sicuri’. Ma dei tre uno è meno sicuro, ed è proprio Civati, nel collegio di Bergamo-Brescia. Un altro, quello marchigiano, ha però provocato le proteste dei militanti di Mdp che volevano invece Lara Ricciatti, deputata del territorio.
Confronto ruvido, quello fra Civati e gli altri due segretari di Leu, Speranza e Fratoianni. Proseguito nella notte.
C’È CHI DESCRIVE UN BERSANI imbarazzato e chi intercetta alla camera un Nichi Vendola molto preoccupato. A notte la situazione rischia di diventare ingestibile e Grasso convoca i vertici Mdp e Si.
SE ATENE PIANGE SPARTA non ride. La giornata dei guai al Nazareno inizia presto e prosegue per tutta la notte. Oggi la direzione che dovrebbe ratificare le liste è convocata per le 10 e mezza. Ma gli uomini di esperienza – nella sede del Pd svuotata di funzionari dalla cassa integrazione comunque non mancano – dubitano che non debba slittare. Renzi, barricato nella sua stanza a occuparsi personalmente del dossier candidati – insieme a Lotti, Guerini, Orfini, Rosato, Martina – ha in agenda incontri anche per stamattina.
Molti i tasselli delle liste ancora incerti. Innanzitutto non c’è ancora a quadra con Andrea Orlando. Il ministro, capo di una minoranza che ’pesa’ il 20 per cento (dati dell’ultimo congresso) ieri mattina ha smentito le minacce di disimpegno dalla campagna elettorale riferite dalla stampa. Si è incontrato a lungo con Renzi, ma la situazione è rimasta tesa per tutta la giornata, soprattutto dopo che sono filtrate voci di esclusione dalle liste di Cesare Damiano e Barbara Pollastrini (rispettivamente area Orlando e Cuperlo). Voci subito smentite dal Nazareno.
DELICATI I CASI CAMPANIA e Sicilia. Ieri la delegazione campana ha incontrato due volte Renzi, alla fine sembra certa la candidatura di Pietro De Luca, figlio del governatore, e del il suo braccio destro Franco Alfieri, «l’uomo delle fritture». IN SICILIA ieri il sottosegretario Giuseppe Castiglione, uomo forte di Alfano, ha lasciato Civica popolare di Beatrice Lorenzin. E invece il sindaco Leoluca Orlando si è iscritto al Pd, per garantire la candidatura del suo braccio destro Giambrone. Infine i tre alleati arancioni, Nencini-Bonelli-Santagata. Respinti al Nazareno mercoledì, ieri in serata ancora aspettavano di essere ricevuti

Il Fatto 26.1.18
Liberi, Uguali e incazzati: terremoto per le liste
Candidati paracadutati, vecchi ras con poltrona sicura. E il medico di Lampedusa si ritira
di Luciano Cerasa


“Rivolgo un estremo appello a Pietro Grasso e ai gruppi dirigenti di LeU affinché si ponga immediato rimedio a quanto sta accadendo in tante realtà regionali, compresa la mia, sulla formazione delle liste, i territori sono in rivolta in tutto il Paese”. Michele Piras, deputato sardo di Liberi e Uguali si fa portavoce del malcontento che sta squassando alla prima prova elettorale l’alleanza nata a sinistra del Pd, che rischia di finire in una gigantesca rissa per le poltrone.
Le liste,spiega l’ex coordinatore regionale sardo di Sel, sono “deboli, contrastate, escludenti”. Gli appelli provenienti dai territori finora sono serviti a poco. “Sia chiaro – mette in guardia il deputato – che così si rompe tutto” prefigurando l’ennesimo naufragio della sinistra. Le grida di dolore per le candidature non condivise o mal digerite e per l’abuso delle pluricandidature, provenienti dagli esponenti locali, si moltiplicano e anche i deputati e i senatori uscenti ed esclusi soffiano sul fuoco. In Piemonte ci si chiede quale sia il valore aggiunto che potrebbe apportare alla lista la riproposizione della vecchia guardia di Sel attraverso il grimaldello di LeU, con Giorgio Airaudo e Nicola Fratoianni a fare da apripista. A Bologna vecchio e nuovo corrono appaiati: nell’uninominale la “pasionaria” del Brancaccio, Anna Falcone, si presenta insieme a Pierluigi Bersani capolista nel proporzionale. Il nome della Falcone ritorna anche nelle pluricandidature nel Friuli e a Sondrio. Acque agitate in Abruzzo, dopo che la candidatura di Nico Stumpo di Mdp – impegnato in queste ore a Roma nella compilazione delle liste – nei due listini proporzionali in Calabria ha provocato uno tzunami che ha scaraventato la deputata calabrese Celeste Costantino in cima alla Maiella, affiancata da Danilo Leva proveniente dal vicino Molise.
Mal di pancia sui social anche in Basilicata, dopo che negli elenchi dei candidati a Potenza è spuntata la figlia del’anziano notabile lucano della Dc, Romualdo Coviello. I Liberi e Uguali siciliani sono in rivolta per la scelta di candidare capolista al Senato Pietro Grasso e Guglielmo Epifani alla Camera, togliendo spazio a diversi che ambivano a queste posizioni, da Giuseppe Zappulla a Gianni Battaglia e Pino Apprendi. La missione di Davide Zoggia nell’isola non ha placato i tanti mal di pancia per le scelte “calate dall’alto”, con qualcuno che pensa addirittura di defilarsi.
In Sicilia si consuma uno strappo anche con Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa protagonista di Fuocoammare. Per lui ci fu una standing ovation nel giorno della presentazione di LeU ma ieri Bartolo ha comunicato la rinuncia alla candidatura annunciata da Massimo D’Alema: “Vorrei che al molo Favaloro non ci fosse più bisogno di me, ma, purtroppo, gli sbarchi continuano senza sosta, il mio posto è qui”. Secondo Peppino Caldarola le ragioni sono altre: “Lo avevano spostato al Nord per lasciare spazio in Sicilia a qualche iperprotetto: se per favorire un burocratino si sacrifica Bartolo siamo veramente alla frutta”.
Lo sguardo è puntato ora verso le mosse del leader Pietro Grasso, che domenica aprirà ufficialmente la sua campagna elettorale a Palermo. A Napoli i fan di Antonio Bassolino si dividono tra delusi e furiosi per l’esclusione del loro leader dalle liste. Nei fatti, LeU – che a Napoli deve fare i conti anche coi mal di pancia di Possibile, che ha ritirato le sue candidature – ha preferito aprire agli uomini di Luigi de Magistris: tre di loro – Mario Coppeto, Elpidio Capasso e Josi Gerardo Della Ragione – saranno candidati nell’uninominale a Napoli e provincia.

La Stampa 26.1.18
Scatta la lite sui candidati
Anche nel partito di Grasso
di Marcello Sorgi


Giunta ormai in vista del traguardo, la composizione delle liste si sta rivelando più sanguinosa del previsto. Al punto da far temere una sorta di voto a dispetto, annunciato dalle organizzazioni locali e dai territori che si sentono traditi dalla giustapposizione delle nomenklature centrali, in cerca di collegi sicuri che a questo punto sicuri non saranno. L’ultima rissa interna è scoppiata dentro Liberi e Uguali, con il «no» del medico simbolo dei migranti Pietro Bartolo, che ha rinunciato alla candidatura propostagli dal leader di LeU Grasso, ufficialmente, per restare a Lampedusa e continuare a salvare le vite degli immigrati che affrontano in condizioni proibitive la traversata del Canale di Sicilia. A smentirlo è arrivato Peppino Caldarola, direttore della rivista dalemiana «Italianieuropei», che ha rivelato che l’addio di Bartolo è stato determinato da un trasferimento dell’ultima ora della sua candidatura nel collegio incerto di Pavia, per ragioni, spiega Caldarola, «di implosione di un ceto politico che mira all’autosopravvivenza», e lo fa riservando a se stesso le collocazioni geografiche e in lista che meglio possano garantire la rielezione. Altre proteste arrivano dalle segreterie regionali di Mdp, componente forte di LeU, per il mancato rinnovamento delle liste e per il rifiuto di inserire candidati locali, cancellati per far spazio ai grandi nomi piovuti dal centro.
Analoghi rifiuti si erano verificati nei giorni scorsi nel centrosinistra (il più clamoroso quello di Roberto Burioni, medico in prima fila nelle battaglie a favore dei vaccini), e nel Pd è aperta la sfida finale sul numero di collegi da assegnare alla minoranza di Orlando, che minaccia di non presentarsi. Nel centrodestra si tratta a oltranza, ma pur essendo in teoria maggiore, stando ai sondaggi, il numero dei candidati eleggibili, allo stato non si riesce a trovare l’intesa neppure su chi dovrà correre per la Regione Lazio. E nel Movimento 5 Stelle non si placano le polemiche per l’esito, in buona parte predeterminato, delle primarie on line.
Se questa doveva essere la tornata in cui si sarebbe dovuta ridimensionare, anche grazie al terzo di seggi riservata all’uninominale, la quota di parlamentari nominati dalle segreterie dei partiti e imposti a un elettorato che ha finora reagito con l’astensione, ciò che sta accadendo è esattamente il contrario. Con il rischio che la cosiddetta base (per non parlare dei potentati locali) di partiti ormai inesistenti come strutture sul territorio reagisca, in campagna elettorale e nelle urne, aggiungendo un pizzico di suspence a elezioni già incerte in partenza.

il manifesto 26.1.18
Cento piazze giallo-Giulio e le verità del pm Pignatone
Anniversario. Borse di studio intitolate al ricercatore assassinato in Egitto, messaggi per ricordarlo anche da Gentiloni e Boldrini
di Rachele Gonnelli


Si chiama «giallo Giulio», ormai, in Italia il colore che altrove è una tonalità tra l’evidenziatore e il limone, come gli striscioni che pendono dai balconi di palazzi comunali e facoltà universitarie. Ieri era il secondo anniversario della sua sparizione e insieme ad Amnesty international Italia attorno alle 19,41 – ora in cui Giulio Regeni mandò il suo ultimo sms, sua ultima presenza viva, ultimo atto libero – in cento piazze si sono svolte fiaccolate e sit-in attorno a una candela in ricordo del suo «giallo», fatto però più di segreti di Stato e ambigue posizioni diplomatiche che di mistero.
Nel giorno del secondo anniversario della sparizione di Giulio al Cairo il procuratore Giuseppe Pignatone ha voluto, con una lunga lettera ai giornali, fare il punto, in modo pubblico, sulle indagini e sui rapporti con gli inquirenti egiziani. Rapporti di cui non nasconde, pur nella cooperazione al di là dell’assenza di trattati specifici, i problemi, dai tentativi di depistaggio iniziali su false piste come lo spionaggio di Regeni fino alla mancata condivisione dei dati grezzi dei tabulati telefonici. Due sono le «risultanze» che Pignatone mette in qualche modo agli atti, ribadendo che la magistratura inquirente, che deve risolvere il caso, resta quella cairota: il primo riguarda il movente del barbaro omicidio.
Giulio Regeni, chiarisce il magistrato italiano oltre ogni ragionevole o non ragionevole dubbio, è stato ucciso per le sue ricerche, che riguardavano – è bene ricordarlo – le lotte sindacali nell’Egitto di Al Sisi. «Il movente dell’omicidio va ricondotto esclusivamente alle attività di ricerca di Giulio – mette nero su bianco – ed è importante la ricostruzione dei motivi che lo hanno spinto ad andare al Cairo e l’individuazione delle persone con cui ha avuto contatti sia nel mondo accademico sia negli ambienti sindacali egiziani». Sottolinea come sia «emerso con chiarezza» che alcune delle persone che conobbe nel corso delle sue ricerche lo abbiano «tradito». Così pure appare acclarato che «apparati pubblici egiziani» avevano preso a sorvegliarlo nei mesi precedenti alla sparizione «con modalità sempre più stringenti».
Quanto agli accertamenti disposti dalla procura italiana a Cambridge, Pignatone dice solo che c’erano contraddizioni tra le dichiarazioni «acquisite in ambito universitario e quanto emerso dalla corrispondenza recuperata nel suo computer». I primi risultati del materiale sequestrato durante la perquisizione della tutor Maha Abdelrahman, «ad un primo esame sembrano utili», scrive Pignatone, ma lo studio non è ancora concluso.
Il caso non è chiuso e l’Italia intesa come Paese – lo dimostrano le cento piazze che hanno aderito alla campagna di Amnesty «per la verità su Giulio Regeni» e il palinsensto Rai scombussolato da banner e servizi speciali sulla giornata e sulla storia di Giulio – non intende lasciare che il tempo e la stanchezza del non avere risposte copra tutto con un manto di oblio e indifferenza. Quest’anno anche molte scuole e università hanno partecipato a questa palestra di memoria individuale e collettiva, con lettere, dibattiti (a Firenze e a Sassari) e borse di dottorato intitolate a Regeni (a Bologna e alla Federico II di Napoli). Mentre a Genova alla fiaccolata ha partecipato l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani.
Dalla politica molti i messaggi su di lui via twitter, tra cui quello telegrafico del premier Paolo Gentiloni che sottolinea: «L’impegno per la ricerca della verità continua». E quello della presidente della Camera e candidata di LeU Laura Boldrini, che condivide l’appello dei genitori sul fatto che già «due anni sono troppi» senza verità e giustizia.

Il Fatto 26.1.18
A Bolzano tutti d’accordo su Boschi: non la vogliono
In trasferta - Dagli altri partiti autonomisti ai Verdi locali (alleati con LeU) a pezzi di Pd: “Lei e Bressa non sono di qui”
di Ferruccio Sansa

“Complimenti a Maria Elena Boschi! È riuscita in un miracolo politico: mettere d’accordo italiani e sudtirolesi del Sudtiroler Freiheit. Tutti uniti contro la candidatura. C’è un grande consenso… nel dissenso”, è l’opinione di Hans Heiss, consigliere provinciale dei Verdi di Bolzano. Difficile trovare in Alto Adige chi sostenga Boschi. Tra gli italiani come tra i sudtirolesi (o altoatesini che dir si voglia), tra il centrodestra e perfino nel centrosinistra. Ma il discorso è più profondo: Boschi è la punta dell’iceberg. La parte immersa, concordano tutti, “è la nuova legge elettorale che di fatto cancella la presenza in Parlamento dei rappresentanti italiani locali e anche degli altoatesini esterni al Süd Tiroler Volkspartei (Svp)”.
Racconta Roberto Bizzo, presidente del Consiglio Provinciale di Bolzano (Pd): “I due unici parlamentari italiani eletti a Bolzano rischiano di essere Boschi e Gianclaudio Bressa. Lei viene da Arezzo e lui da Belluno! Il Pd aveva un’immensa responsabilità: portare a Roma i rappresentanti del centrosinistra riformista e autonomista di questa terra. Boschi è stata voluta dal partito nazionale. A livello locale invece è stato espresso Bressa, voluto dall’Svp. Lo stesso Bressa che aveva raggiunto il limite di mandati previsti dallo Statuto Pd, ma ha ottenuto la deroga. Anche perché – conclude Bizzo – lo stesso Svp, incredibilmente, si era offerto di candidarlo se non lo avessero fatto i dem”.
Per dirla con Riccardo Dello Sbarba, lui pure consigliere provinciale dei Verdi: “In questa legislatura Bressa da Roma ha fatto avere all’Svp il possibile e l’impossibile. Siamo alla liquidazione del Pd di Bolzano”. Ma, come spiega Dello Sbarba, il primo passo della candidatura Boschi era stata la legge elettorale: “Fatta su misura per l’Svp” che all’epoca puntellava il governo di centrosinistra e domani potrebbe portare una decina di parlamentari a sostenere il centrosinistra. Lo stesso ragionamento che aveva ispirato la riforma costituzionale (la madre era Boschi) che regalava al Trentino Alto Adige un numero di “senatori nominati” tre volte superiore in proporzione rispetto a regioni come Marche, Umbria o Liguria. Racconta Dello Sbarba: “Qui è previsto un meccanismo opposto rispetto alle altre regioni: due terzi maggioritario e un terzo proporzionale. Per giunta senza lo scorporo. Così l’Svp con il 46% dei voti a Bolzano avrà il 90% dei seggi. Nella legge elettorale c’è perfino una norma scritta apposta per un singolo collegio, Bolzano Bassa Atesina (quello di Boschi, ndr)”.
Così le prossime elezioni saranno accompagnate da novità clamorose: i Verdi qui non si schiereranno col Pd, ma con Liberi e Uguali. Tra i candidati diverse figure che si sono allontanate dal Pd come Oktavia Brugger e Vanda Carbone. Non solo. Il Sud Tiroler Freiheit di Eva Klotz ha deciso di non correre nemmeno: “Non mettiamo la nostra faccia su una finta democrazia”, annuncia il consigliere regionale Sven Knoll. Aggiunge: “Boschi, che si era detta contro le regioni a statuto speciale, si candida proprio qui!”. Risultato: i sudtirolesi più accaniti guarderanno sempre più a Vienna che promette di concedere la doppia cittadinanza. E la tensione tra le due comunità aumenta. Racconta Christoph Franceschini, penna di punta del seguitissimo sito Salto.bz: “Si parla tanto del disagio degli italiani in Alto Adige. E poi, quando si vota, nemmeno un italiano di questa provincia andrà a Roma”.

il manifesto 26.1.18
A Fiumicello per Giulio e per tutti i Giulio che ogni giorno spariscono in Egitto
Due anni senza verità. Nel paese di Regeni ieri tantissima gente e forti emozioni per stringersi intorno alla famiglia e ricordare il giovane ricercatore nel secondo anniversario della sua scomparsa
Ivan Grozny Compasso


Fiumicello (Udine) Sono le 19 e 41 quando nel piazzale dei Tigli si accendono centinaia di fiaccole. C’è tantissima gente, non solo chi qui a Fiumicello ci vive. È la mamma di Giulio, Paola, a dare il via a questo momento emotivamente fortissimo. A due anni dalla scomparsa del giovane ricercatore ci si ritrova, poco prima delle 18 e 30, fuori la scuola media Ugo Pellis che lui stesso ha frequentato da ragazzo. C’è chi è arrivato dalle provincie vicine, chi da più lontano. Tra tanta gente comune anche volti noti della cultura, dello spettacolo, del giornalismo.
«UNA GIORNATA – commenta Giuseppe Giulietti, presidente nazionale della Fnsi – essenziale e importante. Ma a questo 25 gennaio dobbiamo far seguire il 26, il 27 e tutti gli altri giorni del calendario. È possibile arrivare a verità e giustizia solo continuando a chiedere, se non si spegne l’attenzione mediatica e collettiva su Giulio e, come dicono i suoi genitori con uno straordinario esempio di civiltà, su tutti quei Giulio egiziani che ogni giorno spariscono e perdono la vita».
Ci sono tantissimi giovanissimi, anche bambini. Sono loro ad aprire quello che di fatto è un corteo silenzioso che attraversa tutta Fiumicello. E sono sempre loro che ogni tanto si fermano e leggono quella che è una vera e propria rivisitazione della Costituzione ripensata e adattata secondo la loro sensibilità e visione della vita. Le parole diritti e pace risuonano nelle strade, come l’eco di qualcosa che dovrebbe scontato e invece è ancora tutto da guadagnare.
A TENERE LO STRISCIONE GIALLO che apre invece lo spezzone degli adulti, assieme ai genitori di Giulio, c’è, tra gli altri, anche Pif. «Vengo da una città come Palermo dove ogni giorno ci si confronta con la memoria, con l’esigenza di non dimenticare. Eppure venendo qui, entrando in casa di Giulio, visitando i suoi luoghi, conoscendo i suoi genitori, si ha come l’impressione che da un momento all’altro lui debba arrivare. Invece… Fa molta impressione essere qua, a casa sua». Più defilato, quasi in incognito, tra la gente, un infreddolito e partecipe Valerio Mastandrea. Sarà proprio lui, più tardi, verso le 20 e 30, a leggere proprio degli scritti di Giulio a una platea numerosa che lo ascolta attentamente. Legge questi pensieri con garbo ma evidentemente emozionato.
«I genitori di Giulio – commenta Mastandrea – come la famiglia di Cucchi o la sorella di Uva, hanno reagito a queste ingiustizie con un atteggiamento che solo chi giudica superficialmente queste vicende può vedere come una reazione legata alla relazione parentale. Sono proprio loro a dimostrare invece a noi il loro saper rendere un’ingiustizia patrimonio collettivo e allo stesso tempo mostrano l’incapacità della politica di saper cogliere il lato umano e culturale di queste tragedie, di saperle fare proprie e di saperle trasformare. Questa gente che sa coinvolgere così tante altre persone in tutta Italia, ha una percezione dell’ingiustizia di questi episodi più alta delle istituzioni. La famiglia Regeni – prosegue l’attore -, quella di Cucchi o altre non chiedono solo verità per i propri cari, ma per tutte le situazioni di questo tipo che si ripetono ogni giorno, non solo in Egitto, dove spariscono e muoiono giovani come Giulio ogni giorno, ma anche da noi».
INFINE LE PAROLE di Paola Defendi, la mamma di Giulio che si rivolge alla tanta gente presente nel teatro di Fiumicello: «A Roma si sono accorti di cosa sta succedendo? Hanno visto che mobilitazione c’è stata oggi? Piazze intere piene di gente, tutte gialle. Oggi quindi ribadiamo che se noi riusciamo a ottenere davvero verità e giustizia, facciamo tutti insieme cambiare un intero Paese. E questo, se lo riusciamo a ottenere, sarà proprio grazie a Giulio che continua a darci forza e coraggio per raggiungere questo risultato».

Il Fatto 26.1.18
Pignatone, Regeni e quelle finte verità
di Guido Rampoldi


In una irrituale lettera a due giornali amici, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha rivendicato la linearità dei comportamenti del suo ufficio nell’affiancare gli inquirenti egiziani che indagano, o dovrebbero indagare, sull’assassinio di Giulio Regeni. La collaborazione con il Cairo, scrive in sostanza Pignatone, per quanto sia complicata e tortuosa ci ha messo nelle condizioni di sventare depistaggi, scoprire informatori che avevano segnalato il ricercatore agli apparati di sicurezza, e (ma questo non è detto esplicitamente) identificare poliziotti egiziani coinvolti a vario titolo nel delitto.
Perché nessuno di questi ultimi è stato incriminato? Come per rispondere a questa obiezione Pignatone fa presente che la cooperazione tra le due magistrature ha i suoi tempi e “qualunque fuga in avanti da parte nostra si trasformerebbe in un boomerang in grado di vanificare quanto fin qui con fatica costruito”. Infine il procuratore difende le indagini condotte a Cambridge e accompagnate da gran fracasso mediatico, in quanto avrebbero offerto materiale “utile alle indagini”. Anche se quest’ultima formula pare troppo vaga per non essere furba, la ricostruzione del procuratore nel complesso rispecchia dati di fatto. Il problema è che contiene solo una parte della verità, e non potendo dire la parte mancante Pigantone avrebbe fatto meglio a tacere, essendo una verità a metà di fatto una menzogna.
Per cominciare ciò che rende del tutto anomala la collaborazione tra le due magistrature non è la differenza tra i due ordinamenti, tantomeno la “mentalità araba” chiamata in causa da Pignatone, quanto il paradosso italiano per il quale Roma chiede all’assassino chi sia l’assassino. Ragione per la quale in testa al fascicolo della procura andrebbe scritto a chiare lettere: questa indagine non condurrà mai alla verità. Il Cairo non ci dirà mai come è morto Regeni, chi l’ha materialmente torturato, chi ha dato l’ordine di sopprimerlo, e perché. Potremo al più individuare figure di contorno, quelle che peraltro già conosciamo, essenzialmente per merito degli investigatori italiani, carabinieri del Ros e poliziotti del Servizio centrale operativo. Ma appena le indagini arrivassero sulla soglia della camera di tortura, o più esattamente al sistema della tortura e degli omicidi extragiudiziali col quale il regime governa, le informazioni offerte dal Cairo diventerebbero scarse e lacunose: come peraltro è già successo. Se infatti in questa storia c’è una cosa ovvia è che il vertice egiziano sa tutto sulla morte di Regeni dal primo minuto, ma nasconde e mistifica. Questo rende semplicemente farsesca la determinazione a trovare la verità che al-Sisi ripete a italiani compiacenti, politici o ministri.
Di questa indecorosa commedia fa parte anche il Procuratore generale Nabil Sadek, che Pignatone ringrazia pubblicamente nella sua lettera benchè il personaggio sia un magistrato sui generis, e forse neppure un magistrato. Insediato da al-Sisi dopo il golpe in quanto fidatissimo, Sadek garantisce quantomeno col suo silenzio il sistema che ha inghiottito Regeni. Il rapporto di Human Right Watch del 5 settembre scorso descrive quel sistema come una gigantesca “catena di montaggio”: “La polizia e gli ufficiali della sicurezza nazionale torturano regolarmente detenuti politici con metodi che includono pestaggi, scosse elettriche, posizioni dolorose e talvolta stupri”; i dissidenti spariscono nel nulla; e le procure, che Sadek ispira, perseguono non queste sistematiche violazioni ma i magistrati e gli avvocati che le denunciano.
Il rapporto di Human Right Watch ammonisce Sadek che questi comportamenti sono configurabili come “crimini contro l’umanità”. Non risulta che il procuratore generale si sia convinto a pentirsi. Il suo predecessore fu fatto saltare in aria nel 2015 da un gruppo di ragazzi alle prime armi, tutti in seguito arrestati, torturati, condannati a morte e ora in attesa di esecuzione. ‘Terroristi’, concorderebbero magistrati egiziani e italiani. Ma eliminarono lo strumento mortale di un regime golpista con un’azione di resistenza armata che l’etica liberale e i principi degli stati di diritto occidentali tendono a considerare legittima. Non immagino quale sia in merito l’opinione di Pignatone ma il procuratore converrà che le speranze di conoscere l’intera verità sulla morte di Giulio Regeni non dipendono dalla buona volontà di al Sisi e della sua banda, incluso l’esimio procuratore generale, semmai dalla possibilità che costoro spariscano presto della scena, e un regime di transizione autorizzi finalmente a indagarne le malefatte.

Il Fatto 26.18
Anatomia degli ultimi istanti Giulio nel cuore nero del Cairo
Alle 19.41 - L’ultimo segnale di Regeni dal metrò: poi sarà prelevato dai Servizi segreti egiziani che lo hanno sequestrato e torturato per otto giorni
di Pierfrancesco Curzi


Tutti chiedono verità per la morte di Giulio Regeni. L’onda ‘gialla’ ieri ha riempito decine di piazze in Italia, a due anni dalla scomparsa dell’allora 28enne ricercatore della Cambridge University. Al Cairo il clamore del caso sta svanendo, resta solo un tiepido ricordo. Ieri sera, esattamente due anni fa, alle 19.41 Giulio lasciava il suo ultimo segnale captato, prima di essere inghiottito da un buco nero senza ritorno.
La Procura di Roma ammette gli ottimi progressi dell’inchiesta dopo cento giorni di fastidiosi depistaggi, eppure la verità ufficiale, quella giudiziaria, non appare imminente e soprattutto certa. Col presidente al-Sisi al potere per altri 4 anni – così appare, dopo le fughe e gli arresti dei contendenti a 2 mesi dal voto – difficile pensare a una svolta.
Il Cairo non ha alcuna intenzione di mettere sotto processo se stessa. I faldoni consegnati dal procuratore generale, Nabil Sadeq, ai colleghi italiani e ai legali della famiglia Regeni sono incompleti. Nei giorni a cavallo dei due tragici anniversari, scomparsa e ritrovamento del cadavere di Giulio, spuntano fuori nuove prove e nuovi testimoni, altri ritrattano. Solo rumore e depistaggi. Gli inquirenti si aspettano un ‘miracolo’ dalle immagini registrate dal circuito di videosorveglianza della metropolitana del Cairo: “Le hanno bruciate, sono scomparse, stop. Non dobbiamo aspettarci nulla da quel fronte”. Maaty Elsandoubi è un giornalista egiziano scappato dall’Egitto l’anno scorso dopo le pressioni subìte dal regime, adesso vive a Roma. Dal 3 febbraio 2016 ha lavorato sul caso del ricercatore di Fiumicello: “Si è parlato di imprese specializzate nel recupero dei video, tedesche, russe, tutto inutile. Potranno sbattersi quanto vogliono, ma in quegli apparati non troveranno più nulla. Sono pessimista, credo che fino a quando al-Sisi sarà al potere la verità sulla morte di Giulio non emergerà. O di sicuro sarà incompleta”.
Il 25 gennaio 2016, quinta ricorrenza della rivoluzione di piazza Tahrir, la città era in fermento, polizia e militari schierati. Il regime blindò la zona centrale, da Garden City a Downtown, passando per Bab al-Luq. L’obiettivo? Evitare gli scontri e le violenze degli anniversari precedenti. Tra le strategie messe a punto anche la chiusura della stazione Sadat della metro (ieri non è mai stata chiusa, segno che il regime non ha annusato rischi), proprio quella sotto piazza Tahrir.
Giulio aveva previsto tutto. Dovendo recarsi in centro per incontrare un amico, e da lì raggiungere un docente universitario per festeggiare il suo compleanno, sarebbe sceso alla fermata successiva, al-Naguib. Da al-Bahoos, la stazione nel quartiere di Dokki a trecento passi da casa sua, fino ad al-Naguib sono 4 fermate. Si pensava che Giulio fosse comunque salito sul treno per essere poi fermato dal personale dei servizi di sicurezza immediatamente dopo essere sceso dal treno. In realtà è molto probabile che Regeni su quel treno non ci sia mai salito. Il colpo di mano per sequestrarlo sarebbe avvenuto dentro la stazione di al-Bahoos. Per 8 giorni e mezzo è finito nelle mani degli aguzzini. Ci sono nomi e cognomi, prove circostanziate e la conferma di ripicche e sgarbi tra servizi segreti civile e militare. La conferma sta proprio nel ritrovamento del corpo di Regeni, la mattina del 3 febbraio, ai margini dell’autostrada Cairo-Alessandria. Luogo e tempistica tutt’altro che casuali: a poca distanza da una base dei servizi e nel giorno della missione politico-economica del nostro governo.
Di recente, le attenzioni si sono spostate anche nel Regno Unito, all’Università di Cambridge, il committente per la ricerca sul campo. Giulio Regeni è stato rapito, torturato e ucciso al Cairo e ha iniziato a morire dal giorno dell’approccio verso il mondo dei venditori ambulanti e dei sindacati autonomi. Un covo di serpi, di informatori della polizia, assoldati per registrare ogni movimento sospetto in chiave anti-regime, strumenti per tastare il polso della situazione.
Dopo la morte di Giulio i sindacati indipendenti in pratica sono scomparsi, quanto meno nessuno rappresenta più gli ambulanti. Tutto inglobato all’interno del sindacato ufficiale (Etuf, Egyptian trade union federation). Lo stesso Mohamed Abdallah, intervistato ieri dal Fatto, ha ammesso d’aver perso il lavoro dopo tutto il clamore suscitato dalla sua denuncia. Tra gli ambulanti, però anche brava gente: “Dal giorno del rapimento a oggi ho paura a rispondere alle chiamate di chiunque sia collegato a Giulio – racconta un venditore che vuole restare anonimo – Continuo a fare il mio mestiere, ma intanto sono andato via dal mercato Ahmed Helmy (quello del video registrato in incognito da Abdallah un mese prima del rapimento di Regeni, in cui il sindacalista chiede i soldi per curare sua moglie malata di cancro, ndr.), non sono mai andato d’accordo con Abdallah, è una brutta persona. Ricordo ancora il primo giorno in cui vidi quel giovane. Prima non mi fidavo degli stranieri, gente strana che vedi nei film, li tenevo lontani. Poi è arrivato Giulio, col suo idealismo, le buone maniere, il sorriso sincero. Ci ha coinvolto tutti. Un ragazzo eccezionale, disposto ad ascoltare seriamente i nostri problemi, di chi fa una vita da cani in mezzo alla strada. Mi ero affezionato, oggi piango spesso pensando a lui e ho gli incubi”.

il manifesto 26.1.18
Trump attacca di nuovo i palestinesi. Anp: «Non ti incontreremo»
Usa/Israele/Palestina. Il presidente Usa ha condannato i palestinesi per aver scelto di non incontrare il suo vice Mike Pence. E minaccia un ulteriore taglio degli aiuti Usa. «La minaccia della politica di fame e sottomissione non funzionerà con noi» replica l'Anp.
di Michele Giorgio


«Rifiutarsi di incontrare l’oppressore non è una mancanza di rispetto, è un segno di rispetto di se stessi». È stata secca e immediata la replica di Hanan Ashrawi, del Comitato esecutivo dell’Olp e storica portavoce palestinese, a Donald Trump che ieri a Davos, incontrando il premier israeliano Netanyahu, ha accusato i palestinesi di mancanza di rispetto nei confronti del vice presidente Usa Mike Pence che non hanno voluto incontrare durante la sua visita nella regione.
Trump ha ribadito la sua minaccia di bloccare gli aiuti Usa all’Anp se il presidente Abu Mazen non andrà a negoziare, senza condizioni, con Israele. Minaccia respinta al mittente da Nabil Abu Rudeina, portavoce di Abu Mazen, che ha confermato che non ci sarà un incontro a meno che la Casa Bianca non ritiri il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele. «La minaccia della politica di fame e sottomissione non funzionerà con il popolo palestinese» ha detto Abu Rudeina «e se la questione di Gerusalemme è fuori dal tavolo gli Usa resteranno fuori da quel tavolo». Il portavoce dell’Anp ha spiegato che i palestinesi non rifiutano la trattativa ma «sono pronti a impegnarsi in negoziati solo se basati su uno Stato palestinese con Gerusalemme est capitale».
Si aggrava con il passare dei giorni lo scontro tra palestinesi e Stati Uniti provocato dalla dichiarazione su Gerusalemme fatta da Trump a dicembre. E Washington spara a zero proprio su Abu Mazen descritto non più come un leader moderato bensì come un estremista. Megafono di questa linea dura è in particolare l’ambasciatrice Usa all’Onu Nikki Haley. «Abu Mazen ha insultato il presidente americano» ha detto ieri Haley durante una riunione del Consiglio di Sicurezza. A suo dire al leader palestinese mancherrebbe «il coraggio e la volontà di cercare la pace».

La Stampa 26.1.18
Trump avverte Abu Mazen
“Basta aiuti se non negoziate”
Affondo contro il leader palestinese: ha mancato di rispetto agli Usa E il capo dell'Anp: “Gli americani non sono più degli interlocutori”
di Paolo Mastrolilli


Se i palestinesi vogliono continuare a ricevere gli aiuti economici americani, devono riprendere il negoziato. Ma se vogliono davvero la pace, probabilmente dovranno cambiare leadership. L’attacco contro Abu Mazen è stato lanciato ieri insieme dal presidente Trump a Davos, e dall’ambasciatrice Usa all’Onu Nikki Haley. Forse lo scopo era spingerlo al tavolo delle trattative, in vista della proposta che il genero del capo della Casa Bianca Jared Kushner sta preparando.
Però i toni usati lasciando intendere che se non lo facesse, Washington punterebbe alla sua sostituzione. Nelle stesse ore, sempre dalla Svizzera, il premier israeliano Netanyahu ha spiegato la sua visione per il futuro della regione: i palestinesi possono avere l’autogoverno, ma devono delegare la questione della sicurezza allo Stato ebraico.
Incontrando Netanyahu a margine del World Economic Forum di Davos, Trump ha accusato Abu Mazen di aver «mancato di rispetto» agli Stati Uniti, quando la settimana scorsa non ha voluto vedere il vice presidente Pence. Lo ha fatto per protestare contro la decisione di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv, ma il capo della Casa Bianca ha risposto che con questa mossa ha favorito la pace, invece di farla deragliare: «Nei negoziati precedenti non riuscivamo mai ad andare oltre la questione di Gerusalemme. Ora l’abbiamo tolta dal tavolo, così non dobbiamo più parlarne». Quindi Trump ha minacciato: «Diamo centinaia di milioni di dollari ai palestinesi. Quei soldi sono sul tavolo, non li riceveranno più se non si siedono a trattare». Il presidente ha detto che la sua proposta di pace sta arrivando, «ed è una grande proposta per i palestinesi». È molto buona anche per Israele, che però «dovrà pagare» per il riconoscimento di Gerusalemme, facendo concessioni nel negoziato. Trump non ha voluto commentare le dichiarazioni di Abu Mazen su di lui, ma si è augurato che «alla fine le teste più fredde prevarranno».
Proprio nelle stesse ore, con una coincidenza che è difficile considerare casuale, l’ambasciatrice Haley ha attaccato il leader palestinese durante un discorso all’Onu: «Ha insultato il presidente». Quindi, esaltando il coraggio che Sadat e re Hussein avevano avuto nel guidare Egitto e Giordania verso la pace con Israele, si è chiesta: «Dov’è il Sadat e il re Hussein palestinese?».
Lo scopo immediato di questa offensiva è spingere Abu Mazen a tornare al tavolo della trattativa, in vista della proposta di pace elaborata da Kushner. Fonti diplomatiche spiegano che si basa su un approccio regionale in cui l’Arabia Saudita, in cambio dell’appoggio ricevuto dagli Usa contro l’Iran, spingerà i palestinesi ad accettare l’offerta fornendo forti compensazioni economiche per i territori perduti. Il leader dell’Anp, però, ha risposto così alle dichiarazioni del capo della Casa Bianca: «Se gli Usa hanno tolto Gerusalemme dal tavolo, noi toglieremo gli Usa dal tavolo». Una chiusura per ora netta, che sembra cancellare il ruolo di Washington come mediatore. Se non cambierà, gli americani cercheranno di convincere i palestinesi che la leadership di Abu Mazen non è più nei loro interessi.
Poco dopo il bilaterale col capo della Casa Bianca, in un colloquio con Fareed Zakaria, Netanyahu ha indicato la sua visione per la pace: «Qualcosa di simile a quanto gli Usa avevano offerto alla Germania dopo la Seconda guerra mondiale». L’obiezione di Zakaria è stata che senza la creazione di due Stati Israele dovrà cessare di essere un Paese democratico, per negare ai palestinesi il diritto di influenzare col voto la sua linea politica, oppure di essere ebraico, perché la crescita demografica renderà gli arabi maggioranza. Netanyahu allora ha indicato una terza via: «I palestinesi possono autogovernarsi, ma Israele deve continuare a garantire la sicurezza nei loro confini. Per evitare che finiscano nelle mani dell’Isis e di al Qaeda, o in quelle dell’Iran, come era accaduto quando ci ritirammo da Gaza».

il manifesto 26.1.18
Padova e il fantasma del 7 aprile
Il procuratore Calogero ha querelato Umberto Contarello per dei commenti espressi sul processo all'Autonomia Operaia nel 1979. Lo sceneggiatore ha poi fatto marcia indietro parlando di «scherzi della memoria»
di Ernesto Milanesi


PADOVA Padova è sempre «impiombata» dal 7 aprile. Anche dopo quasi 40 anni scatta il riflesso pavloviano. E si riapre il campo di battaglia sul teorema di Pietro Calogero (sposato dal Pci) e sulla «supplenza giudiziaria» (contestata dai garantisti dell’epoca) nei confronti dell’Autonomia e dei «cattivi maestri» di Scienze Politiche.
Mercoledì sera al Centro universitario di via Zabarella si discuteva, senza tanti problemi e con una completa gamma di opinioni, la tesi di laurea di Giulia Princivalli (che è nata nel 1993) Padova di piombo. Lo scontro fra Pci e Autonomia Operaia negli anni ’70 (Alba Edizioni, pagine 102, euro 10). È il medesimo sforzo di libera riflessione che nel 2002 aveva prodotto Luca Barbieri con I giornali a processo: il caso 7 aprile al termine del corso in Scienze della comunicazione. Ma paradossalmente non fa notizia.
È squillato l’allarme rosso per combattenti e reduci. Calogero ha querelato Umberto Contarello, in gioventù segretario cittadino della Fgci, per la sua testimonianza nel web che faceva passeggiare il pm dentro le stanze della Federazione di via Beato Pellegrino.
Nello stesso modo social lo sceneggiatore da Oscar si è rimangiato lo «scherzo della memoria», ottenendo una raffica di insulti da Flavio Zanonato, padre-padrone del Pci-Pds-Ds ora eurodeputato dopo un ventennio da sindaco. Così Padova torna ad avvelenarsi, come se il tempo si fosse cristallizzato. Per fortuna, la storia restituisce quella stagione tutt’altro che univoca. E la città dell’altro secolo si è «riconciliata», soprattutto grazie a chi ha preservato passioni meno tristi e più critiche.
Un altro «ricordo» di Contarello era passato sotto silenzio: il 17 novembre 2011 aveva già scritto on line di Pecchioli, Folena e Longo, ma anche del faccia a faccia con Calogero prima della deposizione in tribunale. «Arriva con la toga sotto braccio che mi pare un cencio. Mi dice ciao perché ci conosciamo…».
Per la giustizia, valgono sempre le parole di Giovanni Palombarini che ricopriva il ruolo di giudice istruttore: «L’impostazione del pm ha goduto a lungo di forza interna, nell’ideologia della magistratura del tempo prima ancora che nel sistema delle impugnazioni, e sostegni esterni, anche di un partito politico, affidati a strumenti di informazione spesso partecipi di quella impostazione. È ipotizzabile che si possa sviluppare una riflessione su questo dato, che nella sua drammatica oggettività è emerso dalla storia del processo 7 aprile?».
Per «il manifesto», parla l’editoriale di Rossana Rossanda: «Un uomo come Luciano Ferrari Bravo, assolto, fu condannato in primo grado a 14 anni e 5 ne aveva già fatti in carcere. Chi glieli restituirà? Forse “l’Espresso”, che regalò ai lettori la voce del telefonista delle Br a Eleonora Moro, perché fosse riconosciuta come quella di Negri? “Repubblica” che ne titolò festosamente l’arresto come capo delle Br a piena pagina? Questa non è stata soltanto una pagina scandalosa della giustizia italiana, come rilevava da tempo Amnesty International. È stata una storia di silenzi,codardi e coperture. Abbiamo contato sulla punta delle dita giuristi e intellettuali disposti a spendere impegno e riflessione, a trovare abominevole che un’idea politica che si poteva non condividere affatto fosse consegnata non alla lotta politica ma a un trucco giudiziario».
Per la politica, infine, a Padova chiunque può sorridere. Chi aveva l’indice puntato e chi stava alla sbarra, massimi dirigenti del Pci e militanti del Movimento del ‘77, funzionari e portavoce dei centri sociali nella campagna elettorale del 4 marzo si ritrovano insieme nello stesso «contenitore» guidato da un ex magistrato.
Comunque, ben oltre il fantasma del 7 aprile e il desueto ring scenografico, a Padova ci si preoccupa ancora del futuro. Senza più «cassaforti» né rendite di posizione, bisogna preservare dalle lobby sussidiarie al declino almeno la libertà dell’Ateneo e il servizio pubblico nella «fabbrica della salute».

il manifesto 26.1.18
Anticomunismo e principio di libertà
Botta e risposta tra Carlo Antoni e Ranuccio Bianchi Bandinelli sull’interpretazione del concetto di libertà
di Alberto Olivetti


Nel dicembre del 1951 Carlo Antoni stese un ‘manifesto’ per la «Libertà della Cultura». Fu sottoscritto, tra gli altri, da Piero Calamandrei, Ferruccio Parri, Gaetano de Sanctis, Luigi Salvatorelli, Gaetano Salvemini. «Riteniamo, vi si affermava, che qualsiasi risultato si possa conseguire nello sforzo di rendere più degna l’esistenza umana, esso sia precario o addirittura illusorio, ove sia ottenuto con detrimento della libertà». A questa dichiarazione di principio fa seguito un trasparente richiamo alla vicenda ed alla situazione dell’Unione Sovietica: «se, in conseguenza di rivolgimenti e sviluppi sociali o economici o di accadimenti militari, le circostanze possono suggerire ai responsabili del governo della cosa pubblica una stretta disciplina, questa non può arrivare all’estrinseca imposizione di formule e di dogmi che sostituiscano alla libera ricerca, all’invenzione originale, alla scoperta, la mortificante uniformità delle opinioni di regime». Il principio della libertà di coscienza, di pensiero e di espressione è tutt’uno con lo sforzo di rendere più degna l’esistenza umana. Così, l’ordinamento politico che comprime ed espunge quella libertà «confessa con ciò stesso la sua interna debolezza e artificiosità» dice Antoni, e mostra la «sua ingiustizia e la scarsa fiducia nella propria bontà». Sta di fatto, in ogni caso, che coloro che professano le arti e le scienze e sono responsabilmente impegnati nella vita politica e civile, hanno il dovere di custodire quel principio di libertà «al di fuori delle tendenze e degli ideali politici e delle preferenze per l’una o l’altra forma di ordinamento sociale e di struttura economica». «Gravissima e senza perdono» conclude il manifesto, «la loro responsabilità ove rinuncino a questa difesa».
Il 13 dicembre l’Unità pubblica una «Lettera aperta a Carlo Antoni» di Ranuccio Bianchi Bandinelli che giudica il manifesto «una cattiva azione sul terreno politico e sul terreno culturale». È «un’opera di divisione», intenzionata a rendere «più difficile in Italia proprio la lotta per la libertà in generale e per la libertà della cultura in particolare». Antoni invoca «valori universali» e non affronta «i problemi concreti posti a ciascuno di noi, oggi, nel nostro Paese», stretto tra il «pericolo clericale» e «l’ingerenza americana». Coglie, invece, «ogni occasione per minare subdolamente le istituzioni sulle quali si regge quel mondo nuovo che avanza» come accade a «coloro che hanno elevato a dogma l’anticomunismo». Bianchi Bandinelli conclude osservando che «chi ha il dogma dell’anticomunismo non è libero. E perciò, replica ad Antoni, il tuo manifesto non è il manifesto di uomini liberi, ma il manifesto di una mentalità da Santa Alleanza trasportato nel nostro tempo». Antoni, con l’articolo «Un vecchio errore», risponde sul Mondo. Nega che la difesa della libertà della cultura dal manifesto invocata abbia carattere anticomunista, ma scrive, «non nascondo che il manifesto era, nel mio pensiero, rivolto in gran parte a voi, comunisti, perché in voi si manifesta una contraddizione». Tanto sensibili alle costrizioni della libertà di espressione in Italia, e poi «non mostrate nessuna sensibilità per divieti, restrizioni e condanne che siano emanati dalle autorità sovietiche».
Antoni prende un tono diretto («redigendo quel manifesto ho pensato proprio a te»): «è inquietante trovarsi di fronte ad uomini come te, della medesima vita intellettuale, uomini della cui finezza ed intelligenza, del cui disinteresse non si ha modo di dubitare», e si chiede come sia possibile una tale rottura. Si risponde che essa risiede, per l’appunto, nell’interpretazione che si dà del concetto di libertà. «Tu affermi che chi ha il dogma dell’anticomunismo non è libero. Io invece, sono persuaso che tu, nel comunismo, sei libero e ti senti libero». È che, argomenta Antoni, Bianchi Bandinelli si attiene a Rousseau «che concepiva la libertà come l’inserzione totale del proprio spirito nella volonté générale della comunità e quindi negava la libertà di coscienza e di pensiero». Un errore. Organismi storici particolari, scrive, mai possono «riassumere ed esaurire l’universa vita e cristallizzare l’infinita nostra coscienza».

La Stampa 26.1.18
“In laboratorio la sfida è conoscere
È così che funziona la scienza”
Giorello: chi si affanna a condannare non dovrebbe dimenticare l’abiura di Galileo
di Gabriele Beccaria


«Sono d’accordo con chi sostiene che la scienza riconosce i propri limiti, a cominciare da quelli teorici, ma è altrettanto vero che poi lavora per superarli oppure per aggirarli. È da questo tipo di sfida che sono nati nuovi settori di indagine, molti anche con ricadute potenti sul piano pratico. Mi viene in mente il biologo Carlo Alberto Redi, il quale sottolinea questo continuo gioco dell’impresa scientifica»: così riflette Giulio Giorello, decano dei filosofi della scienza.
Professore, i limiti - in questo caso per una tecnica che spaventa molti, come la clonazione - ci vogliono? E come devono essere stabiliti?
«I limiti in assoluto alla scienza? Ma chi li fissa, poi? Certo, li hanno fissati a Galileo Galilei e si sono viste le conseguenze. L’Italia, che era all’avanguardia della nuova filosofia naturale, è regredita grazie a quei giudici che senza pietà, e sotto la minaccia della tortura, costrinsero Galileo all’abiura nel 1633. E si tratta di una pagina vergognosa, e ancora aperta, della storia del nostro Paese».
Se questa è la logica ineluttabile della ricerca, non è però fondamentale una migliore - e più consapevole - comunicazione su ciò che accade e sta per accadere nei laboratori?
«La comunicazione dei risultati della scienza è una materia estremamente delicata. Oggi si parla di fake news, ma ben prima che questa locuzione fosse di uso comune si sono viste le conseguenze negative di notizie premature o di altre presentate in modo sbagliato: penso, nel campo della fisica, al caso della fusione fredda. Ma è successo anche nel settore della biologia».
Più cautela e, quindi, anche più sensibilità verso gli interrogativi e le comprensibili paure di tanta parte dell’opinione pubblica?
«Penso che la cautela sia molto importante e, in particolare, la sobrietà: credo che nella comunità scientifica si senta il bisogno di ricercatori che non si vergognano di parlare delle prospettive e delle linee metodologiche dei loro studi, oltre che degli eventuali risultati. Un buon esempio italiano di equilibrio è Edoardo Boncinelli, esperto di biologia che nasce fisico e che, quindi, ha una vasta conoscenza di entrambi i domini, delle “scienze dure” e anche di quelle della vita. Non a caso è tra coloro che, al contrario di personalità teologiche e filosofiche che partono subito con una condanna, dice: “Aspettiamo e vedremo”. Il nostro primo dovere è capire. Non lasciamoci prendere dalla smania di giudicare immediatamente. Di Minosse ne esiste già uno, messo a giudicare e a condannare nell’Inferno di Dante. Non ne abbiamo bisogno di altri».
Quando si parla di esperimenti che toccano la vita, molti critici evocano la natura, e i suoi diritti, contrapponendola alla cultura, descritta come sfrenata e perversa: lei cosa risponde?
«Violiamo la natura fin dai tempi dell’agricoltura, ma bisogna rendersi conto che fa parte della natura anche la natura umana e lì è scritto il bisogno di capire e di sperimentare. Può essere, a volte, declinato male, ma rappresenta la linfa vitale della migliore ricerca scientifica».

La Stampa 26.1.18
Nelle roccaforti della rivoluzione dove resiste il sogno di Chavez
Le cittadelle dei privilegiati del regime, circondate dalla metropoli con i supermercati vuoti
di Nadia Ferrigo


Miguel Suarez Barroso abbassa il vetro scuro della sua nuova Chery di un paio di dita, quel che basta per mostrare il Carnet de la Patria a un giovanissimo soldato che giocherella con il fucile e alza la sbarra che protegge l’ingresso della cittadella militare di Fuerte Tiuna. Trent’anni appena compiuti, giornalista, da due nell’ufficio stampa del presidente Nicolas Maduro. 
Chi come lui lavora per lo Stato può comprare a un prezzo stracciato - circa quindici milioni di bolivares, al cambio parallelo 150 euro, venti volte meno del prezzo sul mercato libero - un appartamento in uno dei centocinquanta palazzoni rossi con connessione Internet e aria condizionata. 
Siamo nella roccaforte della rivoluzione venezuelana, una città nella città abitata dalle famiglie di militari e burocrati che coltivano l’utopia della rivoluzione chavista, pronti a sostenere il presidente Maduro alle elezioni indette alla fine di aprile e bollate come «né libere né giuste» da Nikki Haley, ambasciatrice americana all’Onu. 
Le lunghe file di auto nuove importate dalla Cina e i ragazzini che al tramonto giocano nei campetti di basket della cittadella militare sembrano quasi arrivare dal passato, prima che Caracas si trasformasse in una megalopoli con code infinite per comprare il pane o ritirare in banca somme ridicole, con le strade che dopo il tramonto si animano solo dei disperati che frugano nell’immondizia. Frutta e verdura non si trovano tutti i giorni nemmeno al Fuerte, ma la salsa di soia d’importazione cinese - da preferire al sempre più raro sale - e i preziosi barattoli di cioccolato in polvere stanno ben allineati sugli scaffali. Miguel ne afferra un paio e paga distrattamente, mentre recita la tiritera sui nemici del Paese che ogni sera il presidente ripete in tutte le trasmissioni radio e in tv, a reti unificate. 
«Il cambio impazzito è colpa della guerra economica degli Stati Uniti e dell’Europa. Da mangiare non si trova perché i proprietari dei supermercati alzano i prezzi per arricchirsi sulla pelle del popolo» spiega Miguel, passeggiando davanti ai condomini sorvegliati ventiquattr’ore su ventiquattro dove vivono i rappresentati dell’Assemblea Costituente voluta da Maduro e che ha sostituito il Parlamento, in mano all’opposizione. «Quando ci sarà il Petro, il nostro Bitcoin, torneremo a essere il Paese più ricco del mondo». 
La moneta virtuale
Il Petro è la nuova criptomoneta, presentata a gennaio dal governo, il cui valore dovrebbe dipendere dalle risorse naturali di cui il Paese è ricco: petrolio, oro, gas e metalli preziosi. Niente più mazzette di banconote che giorno dopo giorno valgono sempre meno, basterà il Carnet de la Patria, tesserina magnetica con dati personali e codice Qr. Comparso per la prima volta lo scorso dicembre, è indispensabile per poter ritirare la clap, provvista alimentare mensile non gratuita, ma a un prezzo controllato dal governo. Anche se tanti raccontano di non aver mai ricevuto nulla, il governo assicura di aver distribuito ai cittadini tesserati 500 mila bolivares come regalo di Natale. 
Sul Correo del Orinoco - uno dei due giornali di governo in edicola a prezzo stracciato, quaranta volte meno che l’unico di opposizione rimasto - ogni giorno si aggiorna il calcolo dei tesserati. A inizio gennaio erano quattro milioni di persone, una settimana più tardi e dopo l’annuncio di un nuovo bonus, ribattezzato Bono de Reyes perché distribuito il sei gennaio, il doppio. Difficile stabilire quanto e se il numero sia gonfiato, ma certo il regime di Maduro scommette sulla possibilità di trasformare le regalie in voti, contando così il popolo della Gran Misión Vivienda Venezuela, il piano di edilizia popolare inaugurato da Chavez. In dieci anni sono stati costruiti, anche grazie alla collaborazione di Cina e Russia, più di due milioni di alloggi destinati alle famiglie più povere e ai sostenitori della rivoluzione bolivariana.
Il Comandante Eterno
A vegliare sulla città sono ancora gli occhi di Chavez, che spuntano dai murales per strada e sui muri rovinati dei palazzoni popolari. Ribattezzato «Comandante Eterno», il suo volto e le sue parole trasmesse e riportate all’infinito in ogni occasione ora torneranno anche sui social. In occasione delle elezioni è stato riattivato il suo account Twitter, così da «preservare il pensiero del comandante». A Caracas se ne parla al presente, come se non fosse morto cinque anni fa. 
Leggenda vuole che fu lui, durante un volo in elicottero, a indicare il punto ideale per costruire Ciudad Caribia: sulla strada per l’aeroporto di La Guardia, a poco meno di un’ora di autostrada dal centro e arrampicata tra le colline che circondano la capitale. Nessuna sbarra all’ingresso, ma l’esercito controlla chi entra e chi esce da questo microcosmo di palazzine semplici ma ordinate, una piazzetta, giochi per i bimbi e uno stadio per il baseball ancora in costruzione. 
C’è tutto, anche l’idea di costruire un’Università, tranne la possibilità di lavorare. Esclusa qualche estetista che lavora in casa e un paio di bancarelle di gallette e dolciumi, le oltre 100 mila persone che hanno ricevuto un appartamento dal governo vivono tra impieghi saltuari e la clap. Chi come Jennifer Amorez, 40 anni e una figlia di 20 che ha cresciuto sa sola, ha un lavoro come segretaria in città, deve prendere una navetta: ogni viaggio sono 700 bolivares. Dieci volte meno dei servizi di autobus cittadini, anche se di mese in mese il prezzo del biglietto cambia con l’inflazione e una corsa in metro sta ancora a 16 bolivares. «Non avevamo una casa, ma una baracca a Petare, con il pavimento di terra. Da quando Chavez mi ha dato questa casa, la mia vita è cambiata: ho trovato un posto sicuro dove crescere i miei figli».

Corriere 26.1.18
San Frediano, il quartiere più cool del mondo. Secondo Lonely
L’Oltrarno di Firenze Batte Seul, Lisbona e Copenaghen: ecco tutti i suoi «segreti»
di Lorenza Cerbini


Non è a New York, né a Londra, né a Rio de Janeiro, né a Dubai. Il quartiere più «cool» al mondo si trova «Oltrarno», a Firenze ed è San Frediano. L’ha stabilito la rivista Lonely Planet con la Top 10 dei quartieri più «fighi» del pianeta. San Frediano ha superato Seongsu-dong (Seul), Triangolo (Lisbona), Vesterbro (Copenaghen), Business Bay (Dubai) e Damansara Heights (Kuala Lampur).
«Qualcuno ha pagato», «Si sono sbagliati, non c’è dubbio», «San Frediano più cool di New York? Ma chi ci crede!», queste le reazioni dei “san fredianini”, dubbiosi sui criteri di selezione usati. Li elenca Phil Harper, direttore Pubbliche Relazioni di Lonely Planet. «Abbiamo chiesto ai collaboratori locali di scegliere i quartieri in sviluppo basandosi su nuovi hotel e ristoranti, su vita notturna e trasporti. Quindi, i nostri esperti hanno redatto la classifica».
Il vicolo di Borgo San Frediano da nome al quartiere (da rispolverare il romanzo “Le ragazze di San Frediano” di Vasco Pratolini da cui il regista Valerio Zurlini nel 1955 ha tratto un film). Passata via dei Serragli, il Borgo si trasforma nella nobile e raffinata via di Santo Spirito (in zona vive Matteo Renzi), piena di negozi di antiquariato.
Fino a qualche decennio fa, San Frediano abbondava di artigiani, corniciai, intagliatori, candelari e falegnami. Molti oggi hanno chiuso. Un cambiamento repentino lamentano i commercianti e puntano il dito contro la Ztl con orari diktat. «Siamo stati in piazza dei Nerli dal 1967 al 2012. Poi, ci siamo spostati di poco, in via Pisana, ma qui si può parcheggiare», dice Stefania Checcucci, della torrefazione Oke Caffè. «Di giorno il quartiere è desolato. Spariti macellai, fruttivendoli e bronzisti». Veronica Moradei (Flores Fiori) vende rose e orchidee da un lustro. «I pensionati sono la vera particolarità del quartiere. Gli affari sono lenti e dopo le sette non si vendono più fiori». Chi ama il jazz d’autore si ferma da Twisted. «Sono qui dal 2002 – dice Stefano Nuzzo – Oggi si fanno solo mangiare i turisti».
Chi vi giunge per la prima volta, tuttavia, ha la sensazione di vivere un’atmosfera di segreti. Nel quartiere c’è l’Antico Setificio Fiorentino coi telai disegnati da Leonardo da Vinci. La Moleria Locchi forgia cristalli per i Reali. C’è lo studio di scultura Galleria Romanelli. Le vetrine di Ceramic Art illuminano il borgo come pure lo studio del fotografo delle spose Marco Sabatini. Nella Cité “libreriacafé per la resistenza culturale” si ascolta musica dal vivo. Questo mix di vecchio e nuovo deve aver attratto Lonely Planet e le conseguenze di quella classifica si fanno sentire. «S’è impennata la richiesta di edifici da comprare e ristrutturare», dice Enea Porta titolare di GR Immobiliare. «La corsa a comprare era iniziata già mesi prima dell’articolo», dice Maurizio Di Cara di Sanfrediano Immobiliare. «Siamo qui da 25 anni e con il cambio generazionale, il quartiere è migliorato, molti appartamenti sono stati restaurati».
Il quartiere vive soprattutto di notte, attraendo giovani in cerca di movida. Una tendenza non del tutto nuova. A San Frediano sono nati tanti amori a colpi di cin-cin. Su piazza del Carmine si affaccia dal 1985 Dolce Vita, un cocktail bar civettuolo a cui piace lo slogan «la moda passa, lo stile resta» e ideatore dell’aperitivo all’italiana. San Frediano, insomma, sta attirando un pubblico nuovo, sperando ne rispetti quello che rimane della sua antica l’identità.

Repubblica 26.1.18
La storia
Rock, rimmel, pace l’idolo israeliano contro il governo Nel nome del padre
Aviv Geffen è il cantante più popolare del Paese e figlio di un artista censurato per aver paragonato ad Anna Frank una sedicenne palestinese in cella
di Alberto Stabile


BEIRUT Aviv Geffen contro Avigdor Lieberman. La stella del rock israeliano contro il ministro della Difesa. La creatività a volte sfrontata che ammicca alla sinistra contro il conformismo nazionalista preoccupato di conservare il potere. Più distanti di così non potrebbero essere. Ma a metterli l’uno di fronte all’altro è stata la poesia che il padre del cantante, il poeta Yehonatan Geffen, ha composto per Ahed Tamimi, la sedicenne palestinese diventata un’icona della lotta contro l’occupazione, incarcerata e messa sotto processo per aver schiaffeggiato un soldato israeliano.
Nella sua lirica, Geffen padre paragona Ahed ad Anna Frank ( oltre che alla poetessa israeliana di origine ungherese Hanna Szenes, considerata un’eroina nazionale, e a Giovanna D’Arco). Apriti cielo. Per Lieberman quel confronto con Anna Frank è blasfemo e inaccettabile e allora ordina immediatamente che Yehonatan Geffen venga bandito dalla radio militare. Il poeta che ha osato tanto non dovrà più essere intervistato, né le sue canzoni ( anche Yehonatan è un apprezzato autore di musica) dovranno più essere trasmesse.
Ovviamente non finisce qui. La prima a contrattaccare è la figlia del poeta, l’attrice e a sua volta poetessa, Shira Geffen che interviene con una sua poesia in difesa del padre. Poi, scende in campo Aviv, il mito rock di un’intera generazione di giovani israeliani cresciuti ascoltando le sue canzoni che parlavano di amore e di suicidio, di pace, di politica e di vita militare, i temi ricorrenti nell’esistenza di una gioventù alla quale vengono imposti molti sacrifici che ai giovani di altri paesi non vengono chiesti. “ The moonlight children”, i ragazzi del chiaro di luna, come li aveva battezzati Aviv, lo avrebbero seguito ovunque, quel folletto che si presentava al suo pubblico avvolto in costumi luccicanti di lustrini ( un po’ alla Renato Zero) e con gli occhi cerchiati di rimmel.
Ma qui, nella sua risposta a Lieberman in difesa della libertà di espressione Aviv è serio e tagliente. Per cominciare, ricorda al ministro della Difesa di chi è figlio ( « Mio padre è stato un ufficiale dei paracadutisti » , in Israele considerato il corpo d’elite per antonomasia) e soprattutto di chi è nipote. Una sorella di Moshè Dayan, è infatti la sua nonna materna. « In famiglia abbiamo avuto un ministro della Difesa — dice Aviv — che sapeva guardare da lontano alla sicurezza d’Israele, nonostante avesse un occhio soltanto » . Un ministro che prevalse sui paesi arabi e venne considerato un eroe. « Lei invece è un eroe soltanto a parole » . Per concludere che finché Lieberman sarà ministro della Difesa, « Anyeh ( Ismail, il leader di Hamas, ndr) e i versi di mio padre potranno stare tranquilli » . Parole che sicuramente Lieberman non gradirà. Ma che mettono in luce la spaccatura profonda che percorre la società israeliana in questi anni segnati dal dominio della destra nazionalista e religiosa. Aviv Geffen appartiene ad un altro mondo, inconciliabilmente lontano da quello di Lieberman e di molti ministri del governo Netanyahu. Nella esperienza formativa di Aviv c’è sicuramente la sua partecipazione alla grande manifestazione di sostegno al processo di pace che si tenne a Piazza dei Re d’Israele, oggi rinominata, Piazza Yitzhak Rabin, a Tel Aviv, il 4 novembre del 1995. Davanti ad un mare di gente, il popolo della pace, Aviv cantò una sua canzone, “ Livkot lekhà” ( Piangere per te). C’era anche Ytzhak Rabin quella sera fra le personalità schierate a favore del negoziato, anzi la manifestazione era per lui e per Shimon Peres. Quella sera stessa, lasciando la piazza, Rabin venne ucciso da Yigal Amir. Solo dopo si seppe che Aviv aveva scritto quella canzone presentendo e temendo la fine di Rabin.
Il Procuratore generale, Mendelblit ha deliberato che Lieberman non ha l’autorità per emanare gli ordini emessi contro Yehoanatan Geffen.

Repubblica 26.1.18
Teorie scolastiche
L’ora di filosofia anche per i ragionieri
di Salvo Intravaia


Lo studio della filosofia sbarca negli istituti tecnici e professionali.
Tra qualche mese, un milione e 300mila ragazzi che mirano ad acquisire un titolo immediatamente spendibile nel mercato del lavoro potrebbero affiancare allo studio dei bilanci aziendali e dei circuiti elettrici quello del pensiero di Socrate e Kant.
L’annuncio arriva direttamente dal Ministero dell’Istruzione, dove il sottosegretario Vito De Filippo ha presentato gli “ Orientamenti per l’apprendimento della filosofia nella società della conoscenza” e il relativo Sillabo, un sorta di manuale per gli insegnanti. Due documenti che, appunto, propongono ai docenti delle scuole superiori una nuova didattica della filosofia che insegni agli studenti come usare quella materia per orientarsi in un mondo sempre più complesso e risolvere i problemi di tutti i giorni. L’obiettivo dichiarato è fornire ai ragazzi più competenze per affrontare al meglio la sfida del terzo millennio. L’intelligenza artificiale, spiega il Sillabo, sta mettendo a rischio una serie di profili professionali e il mondo del lavoro richiede nuove competenze ( come soft skills, progettualità, problem solving e metacognizione) che la filosofia più aiutare a costruire.
Ma in che modo lo studio delle idee di Cartesio e Leibniz può aiutare un ragazzo che si misura con i circuiti elettronici o che impara a cucinare all’istituto alberghiero? «In questo mondo complesso e con tecnologie sempre più avanzate, non basta più acquisire i contenuti, che si trovano ormai in rete», risponde Adriano Fabris, professore di Filosofia morale dell’Università di Pisa. «Occorre essere capaci di vagliarli criticamente, approfondirli e selezionarli in modo da orientarsi al meglio. La filosofia aiuta a sviluppare la capacità di utilizzare al meglio questi contenuti mettendoli in relazione con tutti gli altri campi». Per farlo, le scuole potranno ritagliare ore di filosofia ridimensionando (fino a un massimo del 30 per cento, come prevede l’Autonomia scolastica) quelle delle altre discipline, oppure chiedere al ministero di viale Trastevere docenti di Filosofia per realizzare attività didattiche oltre l’orario curricolare. “Orientamenti” e Sillabo sono stati elaborati da una commissione di esperti coordinata dalla professoressa Carla Guetti, direttore generale al Miur ma, nelle intenzioni, sono aperti al contributo degli insegnanti.
Un lavoro che sembra ispirato alle parole del grande filosofo austriaco Karl Popper, secondo il quale “tutta la vita è un risolvere problemi”. Anche Roberto Esposito, ordinario di Teoretica alla Scuola Normale di Pisa, è convinto che lo studio delle teorie filosofiche apparentemente più astruse possa aiutare nella pratica di tutti i giorni. «In America e in tanti altri paesi anche europei» spiega Esposito «i funzionari e i dirigenti di maggiore successo che si occupano di gestione del personale o della comunicazione sono laureati in filosofia. È una disciplina che sviluppa lo spirito critico e il ragionamento sintetico, capacità che consentono di affrontare i singoli problemi inserendoli in un contesto più generale. Una modalità che rende più elastico il ragionamento e più rapida la soluzione». Sembrano confermarlo le carriere di alcuni dottori in filosofia: dal numero uno di Fca Sergio Marchionne, al presidente francese Emmanuel Macron, all’ex premier britannico David Cameron, al tycoon Rupert Murdoch.
D’accordo solo in parte il sociologo Domenico De Masi: «Non è importante che i laureati in filosofia abbiano successo nelle aziende, che non si occupano certo della felicità dei lavoratori.
Un essere umano lavora in media 80mila ore sulle 700mila che rappresentano la vita media. La scuola si dovrebbe occupare di preparare i ragazzi anche alle 620mila ore rimanenti. Per questo oltre alla filosofia farei studiare la sociologia».

Repubblica 26.1.18
Pd e destra quale classe dirigente
di Stefano Folli


Sono noti i punti deboli del Pd in questa campagna elettorale. Il principale riguarda il declino del segretario Renzi, confinato agli ultimi posti negli indici di popolarità quando meno di quattro anni fa aveva trionfato nelle elezioni europee. La frattura fra l’immagine del leader e l’opinione pubblica spiega quasi tutto dello psicodramma in cui si sta avvitando il Pd. Tuttavia il centrosinistra allargato ha ancora un vantaggio rispetto ai concorrenti: riesce a esprimere in modo visibile una classe dirigente sperimentata. Pur non esenti da critiche, i volti e i nomi di Gentiloni, Padoan, Delrio, Calenda (benché non candidato), per citare i principali, costituiscono un piccolo patrimonio di serietà offerto agli italiani. L’intesa con Emma Bonino e altri esponenti di correnti politiche varie, dai centristi cattolici ai Verdi, rafforza questa tendenza a presentarsi come un’area coerente nel segno del realismo.
Può darsi che tutto questo serva a poco o sia addirittura controproducente nel momento in cui prevale la spinta a rovesciare i vecchi equilibri e a cercare soluzioni radicali al malessere diffuso.
Ma è quanto di meglio il Pd può mettere in campo nel confronto con gli avversari. I quali fra tre giorni dovranno dimostrare agli italiani se sono in grado o no di esprimere a loro volta una classe dirigente. Finora non sembra che ci stiano riuscendo. I Cinque Stelle, e non è una novità, si affideranno al solito esercito di sconosciuti, simbolo della società civile che si auto-governa perché non si fida dei “professionisti” della politica. Con qualche minima eccezione: un economista che lavora in Sud Africa, Fioramonti, l’ex direttore di Sky, Carelli, e pochi altri.
Quanto al centrodestra, non è un caso se Berlusconi, a intervalli di tempo quasi preordinati, tira fuori dal suo cilindro un candidato premier, offerto ai mass media con un bel sorriso ma anche con scarsa convinzione. L’ultimo è Antonio Tajani, presidente da pochi mesi del Parlamento europeo e probabilmente destinato a restare a Bruxelles. In ogni caso non si tratta di un’investitura che Berlusconi sarebbe comunque impossibilitato a garantire, visto che non si vota per scegliere il premier (il compito, come è noto, spetterà al capo dello Stato e solo a lui). È invece il tentativo di legare la causa del centrodestra a un volto riconoscibile.
Anzi, a più volti evocati nel corso delle settimane. Tutti insieme formano quel gruppo dirigente valido anche sul piano mediatico che il centrodestra non ha e di cui Berlusconi a tratti sente la mancanza. Ma è un gruppo avvolto dalla nebbia, non una squadra di governo potenziale come quella messa in campo dal centrosinistra.
Può darsi che di qui al 4 marzo Berlusconi corra ai ripari. Ma la stessa logica della sua coalizione, dove è in atto una serrata competizione interna, rende poco credibile questa eventualità.
Salvini e in misura minore Giorgia Meloni hanno il problema di distinguersi da Berlusconi, cioè dall’uomo che è una sorta di cannibale nei loro confronti. Per cui ognuno cercherà di indicare attraverso le candidature un proprio mini-gruppo dirigente che varrà più che altro come copertura del leader. In questo Salvini ha agito con una certa tempestività: i nomi dell’avvocato Bongiorno e degli economisti euro-scettici Bagnai e Borghi sono la risposta leghista al tema della classe dirigente. Leghista ma non dell’intero centrodestra. E infatti non si riesce a immaginare come possano convivere, in un ipotetico governo di destra, Tajani e Bagnai.

Repubblica 26.1.18
1968
La rivolta
di Paul Auster


Lo scrittore aveva poco più di vent’anni, era studente alla Columbia Ecco come ricorda quegli avvenimenti, i pestaggi dei neri, gli scontri, le divisioni nella sinistra, la deriva terroristica presa da alcuni gruppi. E la notte del suo arresto
Il 1968 è stato probabilmente l’anno più importante, folle e confuso della mia vita.
Sono nato nel 1947, ciò significa che nel ’ 68 ho compiuto ventuno anni. A quell’epoca ero perciò giovane, ma non così giovane. Durante gli anni precedenti, da adolescente, ho sempre seguito con attenzione quello che accadeva negli Stati Uniti e nel mondo. M’interessavo al movimento per i diritti civili negli Stati Uniti e seguivo gli sviluppi dell’escalation in Vietnam. Ero sostenitore dei Sane ( National Committee for a Sane Nuclear Policy), un gruppo pacifista negli Stati Uniti, che si opponeva all’uso delle armi nucleari. Seguivo con attenzione gli avvenimenti, ma non ero un attivista. Stavo maturando la decisione di fare lo scrittore e avevo già iniziato a scrivere poesie e racconti. Nel 1965, a diciotto anni, sono entrato alla Columbia University. Ero ormai risoluto nel voler diventare uno scrittore.
Il 1967 è stato un anno molto turbolento, quello della guerra dei Sei giorni in Israele e dei giganteschi disordini a Newark, nel New Jersey, la città dove vivevano mia madre e il mio patrigno, avvenimenti che ho visto con i miei occhi.
Gli scontri razziali scoppiarono nel luglio, più o meno in contemporanea con la guerra dei Sei giorni in Israele. I neri insorsero contro gli amministratori di Newark, ma loro protestavano esclusivamente contro il razzismo. Il mio patrigno, il secondo marito di mia madre, era un avvocato del lavoro. Era una brava persona, che ho sempre ammirato moltissimo. Era consulente legale del comune di Newark. Non era un grande incarico, ma era un’attività importante per la comunità, e lui godeva di grande rispetto da parte di tutti gli amministratori e i cittadini. A quel tempo io abitavo a New York, a Manhattan, e una sera mia madre e il mio patrigno vennero per portarmi a mangiare fuori. Finita la cena, siamo saliti nella macchina del mio patrigno, che doveva riaccompagnarmi a casa. Il mio appartamento era uptown. Lui aveva un’auto di proprietà del comune di Newark.
In macchina c’era una ricetrasmittente che stava trasmettendo un frastuono di voci. Dicevano che Newark era in preda ai disordini, che era scoppiata una rivolta. Il mio patrigno disse che non poteva riaccompagnarmi perché doveva rientrare immediatamente a Newark. Ci recammo subito al municipio e incontrammo il sindaco, un italoamericano di nome Hugh Addonizio. Era seduto alla sua scrivania, con la testa fra le mani, e stava piangendo. Disse al mio patrigno: « Norman, Norman, che cosa devo fare? » .
Quella notte Addonizio commise un gravissimo errore: lui e il governatore del New Jersey, Richard J. Hughes, decisero di chiamare la guardia nazionale e la polizia di Stato del New Jersey. Io mi trovavo in quella stanza quando entrò il capo della polizia.
Sembrava un marine, con i capelli tagliati cortissimi. Disse al sindaco: « Li prenderemo tutti dal primo all’ultimo quei neri figli di puttana, gli daremo la caccia » .
Sempre quella notte il mio patrigno, in quanto avvocato del comune, andò a controllare la situazione nelle celle del seminterrato e io lo accompagnai.
Le celle erano piene di neri. Erano stati tutti picchiati, sanguinavano dalla testa. Dunque la reazione della guardia nazionale e della polizia di Stato si era già scatenata, ed è una cosa che non dimenticherò mai. Mi sembrò di trovarmi nel bel mezzo di una guerra. Ero lì e vidi tutto con i miei occhi. I tumulti andarono avanti per qualche altro giorno e poi, finalmente, terminarono. (…) Nella primavera del 1968, alla Columbia University – io frequentavo il terzo anno – si sviluppò un grande movimento di sinistra, guidato da una delle organizzazioni studentesche, gli Students for a Democratic Society ( Sds). L’Sds contestava l’establishment dell’università su svariate questioni. Una delle più importanti era la partecipazione delle università alla ricerca per il ministero della Difesa. La protesta era in realtà contro la guerra in Vietnam e il razzismo, ma la Columbia era un’istituzione privata, non pubblica come le università europee, per cui le nostre proteste erano inevitabilmente, come dire, un po’ periferiche. La contestazione dei rapporti fra la Columbia University e il ministero della Difesa rappresentava una protesta simbolica, che innescò comunque un’enorme esplosione nell’aprile del 1968, quando gli studenti occuparono cinque edifici della Columbia e l’università chiuse. Io stesso, che non ero un militante dell’Sds ed ero impegnato soprattutto a leggere filosofia, letteratura e a scrivere le mie poesie e le mie prose, rimasi talmente coinvolto da quanto succedeva da diventare uno degli occupanti.
Il giorno in cui scoppiò l’occupazione ci fu una coalizione fra l’Sds e l’organizzazione degli studenti neri, la Sas, Student African- American Society e i due gruppi occuparono insieme una facoltà dell’ateneo. Gli studenti bianchi e quelli neri dissentivano sulle tattiche e a un certo punto i neri dissero ai bianchi che erano disposti a morire pur di non lasciare l’edificio. Secondo me stavano esagerando, ma in ogni caso dissero che sarebbero stati pronti a portare dentro delle armi per combattere. Gli studenti bianchi non volevano arrivare a tanto.
La divisione rappresentò un momento molto triste. Tutto successe alle 5 del mattino del 24 aprile: gli studenti bianchi lasciarono la facoltà prendendo possesso di un altro edificio dell’ateneo. E poi continuarono, arrivando a occupare cinque edifici. Quindi, in un certo senso, se gli studenti bianchi e neri fossero rimasti uniti, la protesta forse non avrebbe raggiunto certe proporzioni. La divisione costrinse gli studenti bianchi a intraprendere un’azione diversa, che si allargò a tutto l’ateneo.
Molti anni dopo, nel 2008, nel quarantesimo anniversario di questi fatti, fu organizzato un weekend alla Columbia per ricordare quello che era accaduto quattro decenni prima. Io partecipai, ma notai che a quarant’anni di distanza la spaccatura era ancora fonte di grande dolore, soprattutto per i bianchi. Proprio durante l’anniversario, gli studenti neri spiegarono con più chiarezza le loro posizioni e credo che alla fine le due parti siano giunte a una sorta di intesa. Ma ci sono voluti quarant’anni per arrivarci.
Rimanemmo in quell’edificio per cinque- sei giorni, dopodiché, visto che il braccio di ferro tra gli studenti e l’amministrazione continuava, il rettore della Columbia chiamò la polizia antisommossa di New York . E così la notte del 30 aprile fui arrestato insieme ad altri settecento studenti e passai la notte in cella.
Alla fine ritirarono le accuse, anche perché era complicatissimo procedere legalmente contro ogni singolo studente, e non subii nessuna condanna.
Di quella notte ricordo che eravamo tantissimi tutti insieme, ci avevano stipati nelle celle.
L’unica cosa che mi torna in mente con precisione è un poliziotto che ghignava e si fregava le mani, era molto contento che tutti quegli studenti capelloni fossero finiti in prigione. Scherzava sul fatto che era la notte del 30 aprile e disse: « Domani è il primo maggio, mi sa che non potrete partecipare alla vostra bella manifestazione di sinistra perché, ah- ah, siete in prigione » .
Una parte dei Weathermen teorizzava e praticava la lotta armata. È successo, credo, a partire dal ’ 69. A Chicago ci furono i cosiddetti “ Giorni della rabbia”, durante i quali i manifestanti si scontrarono con duemila agenti. Fu un vero disastro. Dopo quei fatti entrarono in clandestinità. Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta compirono molti attentati dinamitardi. La gente adesso non ne parla più. Si trattava di un movimento clandestino piuttosto attivo.
Fecero parecchie stupidaggini anche diversi anni dopo: nel 1981, per esempio, rapinarono il furgone portavalori di una banca – la chiamarono la Brink’s robbery.
Nello scontro a fuoco rimasero uccisi un agente di sicurezza della banca e due poliziotti. Uno degli studenti della Columbia, Dave Gilbert, è ancora in carcere a causa di quella rapina, sta scontando una condanna a settantacinque anni.
Il problema dell’estrema sinistra radicale dell’epoca era che si illudeva che negli Stati Uniti ci fossero davvero le condizioni per fare la rivoluzione. Erano solo cento o duecento, e si lasciarono talmente trascinare dalle ideologie su cui basavano la loro esistenza, al punto da convincersi che loro, duecento ex studenti del college, fossero in grado di abbattere il governo degli Stati Uniti. Era un’idea assurda, del tutto irrealistica. Alla fine qualunque loro azione è stata un fallimento e il gruppo andò in pezzi. Che spreco. Ma a quei tempi era così: c’era gente convinta che quelle azioni avrebbero davvero cambiato le cose. Voglio raccontare un’ultima cosa, per dare l’idea dell’importanza che ha avuto la Columbia per il movimento. Nell’estate del 1969 entrai in un ufficio postale. Negli uffici postali ci sono delle bacheche in cui sono esposti i dieci criminali più ricercati dall’Fbi. Guardai le fotografie e scoprii che ne conoscevo sette: i miei ex compagni di studi appartenenti all’estrema sinistra radicale erano ricercati dall’Fbi.
Non dimenticherò mai il momento in cui vidi le facce di quelle persone che conoscevo, identificate come criminali dal governo degli Stati Uniti.
– Testo raccolto da Paolo Flores d’Arcais, tradotto e curato da Cristiana Mennella