martedì 9 maggio 2006

La Stampa, 26.04.06
GENETICA
La guerra del feto
NEL FIGLIO LE COPIE DI ALCUNI GENI VENGONO «SPENTE» A SECONDA CHE PROVENGANO DALLA MADRE O DAL PADRE IL PROCESSO PUO’ CONTINUARE DOPO LA NASCITA E SPIEGA ANCHE DEPRESSIONE E AUTISMO


LA gravidanza può essere l'esperienza più emozionante della vita. Ma può anche rivelarsi pericolosa. Nel mondo si stima che 529 mila donne muoiano ogni anno mentre sono incinte o di parto. E 10 milioni soffrono di malesseri, infezioni e invalidità. Per il biologo evoluzionista di Harvard, David Haig, le statistiche non fanno che aumentare il mistero che circonda questo evento: «Prendete il cuore e i reni: funzionano perfettamente per anni, mentre la gravidanza è associata a ogni sorta di problema medico. Qual è la differenza?». La differenza consiste nel fatto che il funzionamento di cuore e reni in gravidanza non riguarda più una sola persona, ma due. Ed è un processo che non si svolge in perfetta armonia. Haig sostiene che madre e feto ingaggiano una lotta inconscia per il nutrimento. La teoria, che trova sempre maggiori consensi, spiega anche una caratteristica sorprendente dei futuri bambini: le copie di alcuni geni ereditati vengono «spente», a seconda che provengano dalla madre o dal padre. E il conflitto può continuare anche dopo la nascita e influenzare perfino la vita futura, spiegando disordini psicologici come depressione e autismo. A ispirare Haig sono stati gli studi di Robert Trivers, un biologo evoluzionista dell'Università di Rutgers. Già nel ‘70 si disse convinto che le famiglie creano un conflitto evolutivo: da un lato la selezione naturale favorisce i genitori che crescono la prole più numerosa possibile, limitando quindi le risorse tra più figli; dall’altro lato la selezione naturale favorisce i geni che aiutano i bambini a intercettare la maggiore quantità possibile di risorse, più di quanta i genitori siano disposti a offrire. Oggi Haig considera la gravidanza come l’arena perfetta di questa «guerra». Se lo sviluppo nel ventre materno è cruciale per la salute futura del bambino, è plausibile che la natura favorisca i geni che permettono di sottrarre più nutrimento alla madre. Un feto, quindi, non è passivo e per questo la natura aiuta la madre a resistere alle sue incursioni. E’ un tiro alla fune. «Noi pensiamo ai geni come parti di un meccanismo sincronizzato, ma nella realtà la cooperazione viene meno». Haig è stato il primo a indicare le complicazioni della gravidanza come il prodotto di questo scontro. Una delle più comuni è la pre-eclampsia, caratterizzata da un pericoloso aumento della pressione arteriosa negli stadi avanzati della gravidanza. Questa sarebbe una strategia comune a tutti i feti, che cercano di spingere più sangue nella placenta e strappare più nutrimento. Ananth Karumanchi della Harvard Medical ha confermato l'ipotesi: nelle donne affette da pre-eclampsia c’è un livello insolitamente elevato di una proteina, la sFlt1, prodotta dal feto stesso. Haig ha elaborato anche alcune ipotesi sulle difese materne: una delle strategie messe in atto dalle donne è «spegnere» una serie di geni dei bambini. L’accorgimento si basa sul fatto che la maggior parte dei geni di cui siamo portatori forma una coppia: ereditiamo una copia dalla madre e una dal padre. In genere si comportano in modo identico: 15 anni fa, però, alcuni scienziati hanno identificato più di 70 paia di geni in cui la copia di un genitore non codifica mai una proteina. Questo processo - definito «imprinting genomico» - non è ancora del tutto chiaro, ma si ritiene che sia possibile grazie alla presenza di «maniglie chimiche» - i gruppi metilici - attaccate alle unità del Dna: alcune «maniglie» possono spegnere i geni degli spermatozoi e delle cellule uovo e questi restano spenti anche dopo la fecondazione. Uno degli esempi più significativi è rappresentato dal gene Igf2. Prodotto solo nelle cellule fetali, stimola la crescita. Normalmente solo la copia del padre è attiva. Per comprenderne meglio l'attività, gli scienziati hanno spento questa copia in alcune cavie. Risultato: la prole nasce sottopeso. E’ probabile che la copia della madre resti «silente» per evitare di rallentare lo sviluppo del feto. D’altra parte si è scoperto che le cavie incinte possiedono un altro gene, l’Igf2 r, che interferisce con l’Igf2: in questo caso è il gene del padre a essere silente, quello che deve velocizzare la crescita della prole. Se la copia della madre del secondo gene è spenta, nascono cuccioli più pesanti del 125% rispetto alla media. Ci sono anche altri geni dell’«imprinting genomico» che velocizzanoe rallentano la crescita dei feti in modi simili, rafforzando la teoria di Haig.
E alcune malattie sono state associate a questi geni: la sindrome di Beckwith-Wiedemann, per esempio, che provoca un’ipercrescita degli organi, predisponendo alla formazione di tumori. In alcuni casi è collegabile a una mutazione che rimpiazza la copia silente di Igf2 della madre con un copia extra di quella del padre. Ora Haig studia le implicazioni della sua teoria anche dopo la nascita: «Penso che spieghi molti tipi di comportamento». Si è scoperto, infatti, che alcuni geni «imprinted» si trovano nel cervello dopo la nascita e talvolta in età adulta. Non è un caso che una delle maggiori fonti del conflitto dopo la nascita sia rappresentata dal nutrimento che la madre dà a ogni individuo della prole. Un mammifero cresce meglio se riceve più latte. L'allattamento richiede da parte delle madri un grande dispendio di energie, che potrebbe essere impiegato in altre attività come accudire più figli. E' emerso che un certo numero di geni «imprinted» è attivo nel cervello dei bambini e si pensa che potrebbe influenzare il loro comportamento nei confronti delle madri. Nelle cavie uno di questi sarebbe il GnasXi. Di solito la copia della madre è silente. Se invece la copia paterna non funziona, i figli mettono meno forza nella poppata. Succhiano così poco latte che, a nove giorni, pesano un quarto del normale. Secondo Haig, altri geni restano «imprinted» anche nel cervello degli adulti e la loro evoluzione dipenderebbe dal tipo di gruppo in cui i mammiferi vivono. In molte specie, mentre le femmine tendono a rimanere nel gruppo, i maschi lo lasciano. Di conseguenza le femmine condividono più geni con gli altri membri del gruppo rispetto ai maschi e, se i geni materni possono favorire comportamenti di aggregazione, quelli paterni potrebbero spingere all'individualità. «Mamma e papà - spiega Lawrence Wilkinson della University of Cambridge - hanno pretese molto diverse sul nostro comportamento».
Copyright «The New York Times Science»

David Haig è un genetista evoluzionista della Harvard University e le sue ricerche d’avanguardia si concentrano sugli equilibri e sui conflitti nel Genoma, con un particolare interesse sui rapporti tra genitori e prole. LA TEORIA La maggiore conquista della genetica in 20 anni è stata la scoperta dell’«imprinting genomico», che traccia la provenienza dei geni: Haig è convinto che i «geni attivi paterni e materni» costituiscano meno del’1% del totale, ma che siano in conflitto gli uni con gli altri, costringendoci a ripensare il concetto di individuo. IL LIBRO I suoi studi sono raccolti nel saggio «Genomic Imprinting and Kinship», Rutgers, 2002.
IL SITO INTERNET http://www.oeb.harvard.edu/faculty/haig/HaigHome.htm












La Stampa, 26.04.06
MOVIMENTISTA O ISTITUZIONALE, LA SVOLTA DEL SUBCOMANDANTE
Le metamorfosi di Fausto in gessato
di Riccardo Barenghi


Come sarà il futuro Presidente della Camera? Sarà un nonno felice di giocare coi suoi nipoti o il terrore di risparmiatori, proprietari di case e televisioni Mediaset? Sarà la persona «più gentile del mondo» o il segretario comunista che «quando si incazza, si incazza»? Sarà l’uomo al quale piace frequentare salotti borghesi e aristocratici o il leader politico che non sente ragioni quando pensa di averla, la ragione? Quello che passa mondane serate col senatore Mario D’Urso e Valeria Marini o che usa il pugno di ferro contro il dissenso interno? Sarà un Presidente che si commuove facilmente o un politico permaloso che si innervosisce se qualcuno (magari un vignettista) lo prende in giro. «Un rivoluzionario che veste i panni della mitezza» oppure uno che se decide di squassare tutto, lo squassa? Vestirà insomma l’abito scuro, il gessato che si è messo domenica in tv, o il passamontagna del subcomandante Marcos? Probabilmente si vestirà di scuro, ogni tanto si infilerà il passamontagna (scuro anch’esso però).

Il momento più felice della vita politica di Fausto Bertinotti è in corso, questi giorni, queste ore, raccontano i suoi amici-compagni. Scaramanzia a parte ovviamente, abitudine che lui non abbandona mai. Il periodo di più duro fu quello che seguì la rottura col governo Prodi, l’isolamento, il brutto risultato alle elezioni europee, la paura di essere additato all’opinione pubblica della sinistra come colui che avrebbe fatto vincere Berlusconi (e infatti, a vittoria avvenuta, lo disse Nanni Moretti a Cannes). Lo stesso Bertinotti, in un’intervista a Claudio Sabelli Fioretti del settembre 2003 su Sette, sintetizza così quel momento: «La cosa è stata drammatica, asperrima, dolorosa, una lacerazione dei tuoi rapporti col vicino. Ho provato un aspetto del mondo di sinistra al quale appartengo, l’intolleranza».

Era amareggiato in quegli anni, il mondo politico, quello intellettuale, giornali, riviste, non gli perdonavano il peccato dell’ottobre del ’98. D’altra parte se l’era anche un po’ cercata, far cadere il primo governo della sinistra fu un’impresa niente male. Anzi pessima, per quasi tutti. Non per lui, che invece ha sempre rivendicato quella scelta. Ha passato anni bui, per quanto in televisione lo invitassero comunque, sui giornali lo intervistassero (spesso quelli di centrodestra, troppo spesso hanno detto in parecchi) e neanche le feste mancavano. Nel marzo del 2000 il suo sessantesimo compleanno fu celebrato nella villa del cantante Antonello Venditti: c’era poca politica, pezzi sparsi di cultura e giornalismo, molto mondo dello spettacolo. Comunque parecchia gente per un reietto.

Il reietto tuttavia riuscì a resistere, anzi in quegli anni di chiusura (o settarismo che dir si voglia), qualcosa cominciò a maturare. Mentre resisteva all’ondata che rischiava di travolgerlo, evidentemente pensava al dopo. «Primum sopravvivere», poi si vede. E il dopo lo aiutò: la vittoria di Berlusconi, la rivolta di Genova, la reazione pacifista alle guerre provocate dall’11 settembre, mezza Italia che improvvisamente riempiva le piazze chiamata non dai partiti ma dalla Cgil e o dai girotondi. Finalmente i movimenti, i suoi amati movimenti. Loro c’erano, lui un po’ meno: era ancora ai margini, guardato a vista, con sospetto. I protagonisti erano altri, Cofferati, Moretti... Però qualcosa s’era mosso, nel mondo, in Italia e pure nella testa di Bertinotti. Che evidentemente capisce che non poteva più starne fuori, troppo stava succedendo perché Rifondazione restasse a guardare, scettica e anche rancorosa. Il rischio era la morte politica, un partitino residuale e dunque inutile.

Bertinotti svolta, revisione teorica (la non violenza) e politica (il centrosinistra, l’Unione, il governo) camminano insieme. Si scontra con le sue minoranze interne, ne provoca addirittura la nascita di nuove ma va dritto per la sua strada. Anzi corre. Si candida alle Primarie, investe tutto se stesso e tutto il patrimonio politico di cui dispone nella nuova avventura di governo. Con le stesse modalità, la stessa convinzione - cocciutaggine dicono - la stessa determinazione insomma con cui anni prima aveva fatto la scelta opposta. Le politiche cambiano, il carattere no.

Tanto che Armando Cossutta, col quale divise cinque anni di leadership - «la coppia più bella del mondo», si autodefinivano, tramontata poi in un divorzio violento e rancoroso -, proprio Cossutta racconta di aver scoperto questo lato caratteriale di Bertinotti quando cercava di convincerlo a non rompere con Prodi nel ’97, ossia l’anno prima della rottura vera e propria. «Una volta - ci raccontò l’ex dirigente del Pci - entrai nella sua stanza e gli dissi: bene, ora ci siamo fatti sentire ma adesso dobbiamo ricucire, mediare. Capì dalla sua faccia che lui non aveva affatto quest’intenzione: ma allora tu vuoi rompere sul serio?». Con Cossutta la storia finì lì anche se si trascinò stancamente per altri dodici mesi.

Il resto è cronaca, dal partito residuale si passa al partito-movimento, dunque alle svolte che via via mettono in crisi le stesse radici comunistiche, e si arriva così al partito-governo, sempre però con un po’ di movimento appresso. Fino al partito-istituzione, la Presidenza della Camera appunto. E qui torna il punto interrogativo, come sarà Bertinotti Presidente della Camera e, di conseguenza, come diventerà l’Istituzione sotto la sua guida? Dicono che starà molto attento a tutte le regole, grande rispetto per l’opposizione ma nessuna concessione a piccole e larghe intese. Al contrario, «garantiremo l’autosufficienza del governo Prodi». Tenterà di aprire la Camera alla società civile e viceversa, perché «il risultato di Berlusconi ci dice che esistono larghissime fette di società che noi, noi la sinistra intendo, nemmeno sappiamo chi sono, dove vivono, cosa pensano». Si occuperà di politica estera, visto che il ruolo gli consente parecchi viaggi e contatti internazionali. Con in testa un’idea sola: la pace.

Certamente non smetterà di frequentare i salotti famosi e quelli più intimi, organizza tutto la moglie Lella («la sua migliore amica», dicono i suoi amici) ma lui ci va volentieri, anche stanco morto. Dicono che la molla che lo muove sia la curiosità e non la mondanità. Curioso di tutti comunque, qualsiasi ambiente sociale, dai più raffinati ai più semplici, dalle stelle alle stalle insomma. Così come gli piace il cinema, il teatro, i romanzi e la sua famiglia, raccontano che coi tre nipoti avuti dal figlio Duccio passa ore a giocare. Non smetterà di trovare insopportabili i pettegolezzi sulle giacche di cachemire, la sua erre moscia, i vestiti di tweed. Non smetterà di piangere, come fece quando dovette difendere un accordo che non voleva, quello che chiuse la crisi Fiat del 1980, e al teatro Smeraldo di Torino scoppiò in lacrime davanti a migliaia di delegati sindacali. Oppure, più recentemente, quando ha incontrato la madre di Peppino Impastato, «e fu un diluvio».

Ai commessi della Camera che le chiedevano qualche «anticipazione», Ritanna Armeni, che di Bertinotti è amica da una vita oltre ad esser stata la sua addetta stampa per sei anni, ha risposto di stare tranquilli: «E’ un uomo gentile e cortese, non gli piacciono gli screzi ma è anche molto preciso, tutto deve funzionare bene, procedere». E se invece non procede, se insomma succede qualcosa che lui considera grave? Racconta un’altra sua amica, la neosenatrice Rina Gagliardi: «Allora può esplodere. E lo si capisce perché un attimo prima gli si gonfia una vena del collo». Dunque Onorevoli colleghi, occhio alla vena.














La Stampa, 26.04.06
Il ruolo di Bertinotti.
Domande a Rossanda su Parlamento e riforma della politica
Rina Gagliardi


Bertinotti è un “vincitore ingombrante” o, al contrario, uno speaker innocuo? E’ destinato a terremotare, in permanenza, l’equilibrio politico del governo Prodi o, all’opposto, si è già istituzionalizzato, imborghesito, placato? Insomma, per citare un classico di Umberto Eco, è un apocalittico o un integrato? Vedete bene: il segretario di Rifondazione comunista non è ancora stato nominato alla Presidenza della Camera né, com’è logico, ha reso note le linee-guida alle quali cercherà di ispirare il suo lavoro, che già il dibattito propone punti di vista pressoché diametralmente opposte.
I due editoriali simmetrici del Corriere della Sera e del manifesto di ieri rappresentavano, esemplarmente, questa divaricata preoccupazione. Per Panebianco, Rifondazione ha vinto le elezioni (tesi non del tutto infondata), i riformisti sono stati sconfitti, e Bertinotti, da presidente della Camera, condizionerà pesantemente, a sinistra, il nuovo esecutivo - quasi si approssima la repubblica dei soviet.
Per Rossana Rossanda, invece, la conquista del vertice istituzionale da parte del Prc rappresenta una sorta di rinuncia preventiva alla lotta necessaria per costringere Prodi a fare politiche di sinistra - insomma, è quasi una resa, come fu quella del più prestigioso predecessore di Bertinotti, Pietro Ingrao, spostato dal Pci a Montecitorio in una classica logica da “promoveatur ut amoveatur”.
E dunque? Dunque, intanto, questi ragionamenti - e queste paure così difformi - danno l’idea che a tutto siamo fuorché ad un evento di ordinaria routine. Un “fatto politico” di prima grandezza, comunque destinato a modificare l’equilibrio politico della prossima fase, quella che sarà imperniata sul governo dell’Unione.
Proviamo a ragionarne, se possibile, con calma? La riflessione di Rossana Rossanda muove da un presupposto analitico tutto da dimostrare: quello per cui il presidente della Camera è, non può che essere, un puro notaio dei lavori parlamentari. Un ruolo minore, insomma, nella vicenda politica e nelle scelte dell’esecutivo. Se così fosse, avrebbe ragione a lamentare quello che lamenta - ovvero il già consumato depotenziamento della funzione politica della sinistra radicale. Ma a me pare proprio che così non sia.
Nei fatti, nella famosa “costituzione materiale” delle cose, il presidente della Camera ha assunto, nell’ultimo decennio, una funzione politica marcata - basti l’esempio, appena alle nostre spalle, di Pier Ferdinando Casini, che sulla sua presidenza “moderata” non solo ha contenuto alcuni eccessi berlusconiani, ma ha costruito una leadership credibile per il futuro del centrodestra. Nei fatti, cioè, dallo scranno più alto di Montecitorio si può molto lavorare per determinare scelte, priorità e, soprattutto, “centralità” politiche.
Del resto, perché mai, se no, i Ds avrebbero rivendicato la carica per il loro uomo più rappresentativo? Massimo D’Alema - questo è sicuro - sarebbe stato un presidente della Camera tanto eccellente ed “ingombrante”, quasi quanto lo sarà Bertinotti - ma in una direzione, e al servizio di una visione strategica, tutt’affatto diverse. (A proposito: questa è stata la partita vera che si è giocata, in questi giorni: una partita tutta politica, altro che scontro sulle o per le poltrone o, peggio, “mercato dei posti”. Sarebbe bene finirla, con le drammatizzazioni e i finti scandali. O si pensa che i nuovi assetti del parlamento, del Quirinale, del governo si farebbero meglio tirando a sorte?)
Poi, naturalmente, c’è la soggettività di chi assume questo incarico - e con essa le sue chances di sviluppo, le sue potenzialità. Trattandosi di Bertinotti, queste carte sono intuibili fin da oggi (e un altro commento di ieri, sul “Riformista”, le sottolinea acutamente): attengono ad un compito, il rilancio della democrazia e della partecipazione politica, che il segretario di Rifondazione comunista ha più volte rappresentato in una formula efficace, la “Grande Riforma” di cui l’Italia ha bisogno come il pane. La stessa Rossanda, nel suo articolo, pone l’accento su questa urgenza - sull’emergenza democratica. Come può non vedere, allora, che proprio su questo terreno è decisiva la qualità politica, la radicalità democratica, di un presidente come Fausto Bertinotti, per ciò che egli è e per ciò che rappresenta? E chi, se non il presidente della Camera, può provarsi a mettere in moto questo processo? Un processo che comprende, per un verso, un rapporto nuovo tra dimensione istituzionale, società civile, movimenti. E che implica, per l’altro verso, una tendenza tanto virtuosa quanto necessaria: il riequilibrio dei poteri dello Stato, ovvero quel rilancio della centralità del parlamento e delle assemblee elettive di cui tanto abbiamo parlato e che, forse, ci siamo persi per strada. Tutto chiaro, tutto a posto? Ma no, il lavoro - l’avventura - deve ancora cominciare. La rivoluzione non è alle porte, si tranquillizzi il “Corriere”. Ma una nuova stagione della politica, questa sì, ha tutte le ragioni di temerla e di paventarla.



































Liberazione, 26.04.06
L’ambizione di cambiare e trasformare la società
Alessandro Cardulli


Il quadro nazionale del voto finalmente è completo. Tutti i passaggi previsti dalle leggi sono stati effettuati. Le Corti di Appello, la Cassazione, hanno detto che non ci sono stati né brogli né truffe. Le grida di Berlusconi non hanno avuto alcun effetto. Sono state solo le grida di chi ha perso e deve sloggiare. Mentre inizia il “lavoro”, come dice Romano Prodi, per costruire il nuovo governo, si approfondiscono le analisi sul voto e, a Roma, ci si prepara alla nuova sfida elettorale che riguarda il Comune. In questo quadro, acquista ancor più valore e significato il risultato complessivo di Rifondazione: un punto fermo, la certezza che la sinistra alternativa, antagonista, radicale o come la si voglia chiamare che il partito rappresenta è ben radicata nella società nei territori, nei luoghi di lavoro. Una attenta valutazione andrà fatta sulla differenza, non di poco conto, tra il voto per il Senato e quello per la Camera, sul rapporto con i giovani e quindi con i movimenti che i giovani animano, sui possibili voti diessini in uscita verso Rifondazione e poi in rientro verso l’Ulivo. Fatto solo apparentemente contraddittorio perché si è voluto rafforzare Prodi e non i Ds e la Margherita che hanno ottenuto risultati deludenti e, al tempo stesso, la sinistra di alternativa. Il voto ha un duplice valore. E’ il segno che una proposta di governo del paese, vista da sinistra, incontra consensi, che le idee forza, non violenza, pace, lavoro, diritti, espressi da Rifondazione hanno fatto breccia fra tanti cittadini. Idee forza non solo espresse mediaticamente ma sostenute da lotte, iniziative, movimento. E’ il segno che in un’Italia divisa a metà la sinistra di alternativa ha un ruolo importante da svolgere: impedire derive moderate, avanzando proposte di trasformazione e cambiamento della società. L’altro segnale che viene dal voto riguarda il rapporto fra Rifondazione, le tante associazioni nate in questi mesi, i movimenti. La scelta di partecipare, con pari dignità come si dice, alla costruzione di un nuovo soggetto della sinistra, di aprire la fase costituente della Sinistra europea è chiaramente vincente. Proprio da Roma viene la piena conferma del valore di questa scelta. Nella capitale Rifondazione diventa il secondo partito dell’Unione conquistando voti pari al 9,5 per cento. In alcuni municipi si va addirittura oltre l’11 per cento. Non è un caso che proprio da Roma abbia preso le mosse il processo di costruzione del nuovo soggetto politico della sinistra di alternativa, quando con Fausto Bertinotti, Pietro Folena, Patrizia Sentinelli, in un affollatissimo teatro a due passi dal Colosseo, Rifondazione incontra la neonata associazione “Sinistra romana”. C’è piena sintonia fra il voto espresso e la crescita, l’impegno in prima persona con l’invito esplicito rivolto da “Sinistra romana” agli iscritti e ai tanti amici e compagni che oggi conta a votare Rifondazione. Forti di questo risultato e dei valori che esprime affrontiamo, da subito, un’altra tappa: il voto per il rinnovo del Consiglio Comunale e dei Municipi. Sentiamo di vivere una bella esperienza, di far parte di un progetto di unità della sinistra che, con Rifondazione, le altre associazioni a partire da quelle che fanno capo a “Uniti a sinistra”, ad oggi più di cinquanta, punta in alto, guarda all’Europa, ha l’ambizione di cambiare e trasformare la società. Per questo il nostro impegno anche nella campagna elettorale romana esce confermato e rafforzato dall’esito del voto di aprile. Impegno che significa messa a disposizione di esperienze, iniziative, persone che vogliono dire la loro, partecipare, aprire la strade ad un nuovo modo di far politica. Insieme al partito che ha coraggiosamente imboccato la strada del rinnovamento.
















Liberazione, 27.04.06
Polemiche dopo i gesti antisemiti (di piccoli gruppetti) al corteo dei centocinquantamila a Milano.
La protesta dell’ambasciatore di Israele Gol.
Bertinotti: “Sentiamo il mondo ebraico affratellato in una storia senza la quale non saremmo quello che siamo”.
La condanna dei centri sociali
L’Unione e Bertinotti: «Incompatibile col 25 aprile bruciare bandiere israeliane»
Daniele Cortese


«Vi è una incompatibilità esistenziale fra il 25 aprile, la nostra presenza alla manifestazione, e le bandiere israeliane bruciate». In una giornata che ha visto un gran numero di reazioni alla notizia di due bandiere israeliane bruciate da alcuni “outsider” nel corteo del 25 aprile il segretario di Rifondazione comunista non lascia spazio ad equivoci: «Come si sa, nel nostro lungo cammino, anche per aver militato da sempre per il riconoscimento della causa del popolo palestinese, consideriamo ugualmente decisivo il riconoscimento di Israele e del suo futuro. Non parliamo poi del mondo ebraico che sentiamo affratellato in una storia senza la quale non saremmo quello che siamo».

Bertinotti ci tiene a puntualizzare che «Rifondazione comunista sta facendo da tempo una battaglia politica e culturale che è quella della non violenza, nell’approdo a questa cultura non c’è solo il rifiuto delle armi ma c’è l’idea del riconoscimento della diversità che è molto di più del rispetto: è la condizione per cui tu senti l’altro come necessario a te anche quando è molto diverso. In questo momento - aggiunge il candidato alla presidenza della Camera - c’è l’esigenza di guadagnare un’idea mite della politica. Io continuo ad essere contro tutte le idee di annacquamento delle differenze politiche e programmatiche che io penso che siano la vita della democrazia. Non capisco per quale ragione la radicalità del contrasto non possa vestire l’abito mite e della ricerca della verità interna contenuta nelle posizioni dell’altro».

Tutti i centri sociali milanesi, seppure con toni e modalità diversi, si dissociano dall’episodio, peraltro marginale perchè verificatosi in seno ad un piccolo gruppo che neanche aderiva pienamente al corteo, isolato ed ignorato, in coda ai 150mila di Milano.

Ferma ed unanime nel centrosinistra la condanna del gesto. Per Fassino «i valori dell’antifascismo sono libertà, democrazia, solidarietà, rispetto della dignità umana, riconoscimento dei diritti e dell’ identità di ogni persona. Chi brucia le bandiere nega questi valori e non ha nulla a che fare con l’antifascismo». In linea con il pensiero del segretario Ds anche Clemente Mastella. «Dove non c’è rispetto, non può esserci neanche democrazia» dice il presidente dell’Udeur esprimendo solidarietà all’ambasciatore di Israele a Roma Ehud Gol: quest’ultimo convinto della necessità di «scuse ufficiali» da parte dell’Italia. Lapidario pure il commento del neoeletto al parlamento Augusto Rocchi (Prc), già segretario di Rifondazione nel capoluogo lombardo: «Chiunque è stato protagonista o manifesti per i valori della Resistenza e della Costituzione italiana deve essere bene accetto in manifestazioni che hanno questo obbiettivo».

Sull’altro fronte dello schieramento politico, invece, quel che resta sono le speculazioni ai danni di Rifondazione comunista che possiamo riassumere con l’interrogazione al parlamento europeo di alcuni eurodeputati di Fi, tra cui Antonio Tajani, in cui si domanda alla commissione Ue cosa si intenda fare per fronteggiare «il nuovo antisemitismo degli ultimi tempi».














Liberazione, 28.04.06
Il ritorno alle origini per non tornarci più
Nel saggio “Le passioni di Lea” un viaggio a più voci nel pensiero di Lea Melandri, dal sogno d’amore al ruolo della scrittura.
Un libro originale anche nella formula: le pagine raccontano in presa diretta lo scambio tra l’intellettuale e le sue lettrici
Ambrogio Cozzi


In un celebre quadro di Magritte, due amanti si baciano, ma nessuno vede l’altro, entrambi hanno la testa ricoperta da un velo, ignorando chi sia in effetti il partner. L’amore è cieco come si suol dire, e in effetti i due personaggi non si vedono. Ma nel bacio, nel contatto delle labbra provano comunque qualcosa, qualcosa li mette in contatto. Un esterno muove un interno. Non sappiamo nulla di quel che hanno provato, ma permane un incontro.

L’inizio ci rimanda all’incontro tra scrittore e lettore, alla sua, per certi versi, insondabilità, a un esterno della scrittura che muove un interno alla lettura. Ad un’operazione che permette un incontro tra due persone velate, la prima che ha messo in scrittura i suoi fantasmi, il suo reale, la seconda che attraverso quei fantasmi incontra i propri, la propria trama che tesse i suoi sogni e le sue passioni.

Se a governare la scrittura è la presenza dei propri fantasmi, la stessa non sarebbe possibile senza una tensione comunicativa che testimoni della vita, di una narrazione che faccia i conti con la presenza della morte e ne renda testimonianza. Come in Sherazade, la parola punta ad evitare la morte, la narrazione coinvolge chi ascolta e permette la salvezza.

Le passioni di Lea. Storia di un incontro ravennate (a cura di P. Nobili, M. P. Patuelli, S. Simoni, pp. 148, euro 12,00-Longo editore Ravenna) gode di una singolarità: è il resoconto di un incontro tra una scrittrice e le sue lettrici. Un incontro in cui non si cerca di fare della parola della scrittrice il luogo depositario dell’auctoritas della interpretazione vera, ma si opera un gioco di rilancio, in cui dalla lettura si è passate alla scrittura, ponendo come oggetto della stessa i rimandi che la lettura ha suscitato. Ma l’operazione non si ferma a questo stadio, anche l’autrice entra in gioco, cercando di rispondere a queste sollecitazioni, legando l’incontro al ritorno della memoria di quei luoghi che ha abitato nell’infanzia.

Qui però il ritorno non è venato di nostalgia del tempo che fu, l’elemento autobiografico non diviene consolatorio, e neppure rivendicazione e racconto di un percorso trionfalistico. Il distacco e le sue ragioni vengono ribadite, quasi chiose al testo di una vita. Le esperienze non sono solo registrazioni della memoria, ma in un sottile gioco rimandano a quel che è stato dimenticato e riappare tra le righe come l’elemento di fatica che vede nella vita contadina dei genitori e si replica nelle lunghe pedalate per raggiungere la scuola. Una fatica che potrebbe inscriversi e trovare senso nei luoghi natii, ma che sente come soffocanti, stretti. L’incontro con le altre donne che hanno contribuito al testo non si configura come un ritorno, ma come un riconoscerle all’interno del nuovo percorso. Il distacco non viene colmato in una sorta di happy end, ma viene ribadito come occasione che rende possibile l’incontro, la memoria non pacifica, ma nel rapporto che l’oblio stabilisce con essa ne rintraccia i confini per cogliere nei ritorni una separazione da quel mondo, ma anche le ragioni di quel distacco per potersi incontrare oggi.

Forse sta proprio in questa duplicità, in questa contrapposizione una radice possibile del sogno d’amore e della scrittura d’esperienza, i due temi portanti del lavoro di Melandri e del testo collettivo pubblicato di recente. Se il sogno d’amore è la tendenza a far uno, a superare la separazione in una linea nostalgica di ritorno all’indistinto, alla fusione, a quella preistoria che segna il nostro ingresso nella vita, la scrittura è la ricerca di un’uscita possibile, una messa in scena dei fantasmi, una ricerca delle parole per dire il reale che sostiene la nostra esistenza.

Non si cada nell’errore di far coincidere l’esperienza con la scrittura, esperienza ha qui un duplice senso: tentativo di far entrare nella teoria ciò che ne è sempre stato espulso, perché percepito come basso, non degno di parole, ma anche lavoro di scavo, di ricerca su aspetti che si manifestano in forme mascherate, ad ognuno in modi differenti, ma che interrogano la presenza al mondo in chi li sa ascoltare.

Se qualcuno può intravedervi il pericolo di uno smarrimento, di una omgeneizzazione in una storia pubblica e comune, citiamo dalla prefazione del 1997 a L’infamia originaria quella che ci sembra ancora oggi la risposta più consona: «Ma se è calata sul primo femminismo una dimenticanza così tenace - spiega qui Melandri - è perché la scrittura e la memoria del singolo ….. hanno incontrato da subito le spinte opposte di una generalizzazione che subordinava a criteri di universalità e appartenenza la materia concreta di cui è fatta ogni vita».

Questo rispetto per ogni vita, porta ad una dimensione di ascolto i cui echi si ritrovano negli interventi di donne che hanno lavorato sui suoi testi nel corso di alcuni anni. Il rimando alle rubriche di posta su un settimanale, piuttosto che alla pittura di Frida Khalo, oppure le riflessioni sulle divisioni nel movimento femminista piuttosto che quelle sul sogno d’amore costituiscono una esperienza di scrittura in cui la stessa intellettuale è coinvolta. Testimoniano di un percorso che creativamente si stacca dalla nostalgia e dai suoi richiami, generando un ritorno vitale che sfugge a facili illusioni pacificatorie. Di questo ritorno vitale sottolineiamo due aspetti: quello del corpo e quello della violenza.

Sul primo Lea Melandri ha scritto molto, ma in un breve scritto che qui compare compie un salto, all’interno della possibilità della ripetizione come ripresa. Sono i pochi passi dedicati alla sua infanzia e adolescenza. Poche righe, ma che calano il corpo in un contesto che lo significa e lo segna all’interno dei rapporti interpersonali e familiari, dove il corpo non coincide con il biologico, ma recupera una geografia dai gesti che leggiamo negli altri, nella fatica e nei momenti in cui la natura ci viene incontro, nelle urla e nei silenzi dei rapporti familiari, nelle attese cui possiamo e a volte non vogliamo sottrarci. Questo è il corpo che esce dal sogno d’amore, segnato dal lutto di un’impossibilità del ritorno, ritorno che lo consegnerebbe alla consolazione, ad una ripetizione mortifera che lo fisserebbe nel tempo. Eppure dimensione sempre presente, rischio ancora attuale: fermare il tempo illudendosi di fermare la morte. Una vita consegnata all’aspetto biologico e ridotta ad esso, cui nel distacco Melandri oppone una vita che cerca le proprie ragioni nell’interrogare la ripetizione, nel cogliere all’interno di essa le possibilità di una distanza che per quanto dolorosa segna la vita in modo unico per ciascuno, cercando di evitare il canto delle sirene che ci inducono al Nirvana. Questo è il lavoro che non permette le generalizzazioni, anzi le ripudia perché nelle generalizzazioni si crede che la strada sia già tracciata, senza fare i conti con quel che resiste, che fa opposizione perché non ha cittadinanza.

Proprio da questa esclusione può partire il discorso sulla violenza, come forma di ripetizione esterna di un occultamento interno. «La violenza invisibile che portiamo impressa nostro malgrado nella coscienza del corpo, nel modo di sentire e di pensare noi stesse e il mondo, non può essere paragonata a quella che viene da fuori, ma vederla e analizzarla è importante proprio per capire come sia stato e sia tuttora possibile sopportare l’altra, anzi talvolta non riconoscerla nemmeno come violenza».

Un invito importante, che rimanda al lavoro soggettivo come scelta non eludibile, che ci invita ad evitare facili accorpamenti o generalizzazioni non in nome dell’ideologia, ma della pratica quotidiana, del lavoro di rappresentazione della violenza interna come incontro con la morte della vita possibile, nostra e di altri.

Qui la dimensione del sogno originario mostra una duplice sfaccettatura, per non perdere quel che di positivo esiste attraverso il sogno originario occorre un lavoro di separazione, di distacco. Ed è qui forse che le parole si fermano, pur non cessando di tentare di dirne qualcosa.




















Liberazione, 30.04.06
Il discorso del presidente della Camera
Confronto e dialogo contro guerra e terrorismo
Fausto Bertinotti


Signore deputate, signori deputati, mi rivolgo a voi direttamente senza la lettura di un testo scritto per sottolineare con un piccolissimo gesto il senso di apertura, di confronto e di dialogo che vorrei prevalesse in questo Parlamento.

Ringrazio allo stesso modo chi ha voluto votarmi e chi, altrettanto comprensibilmente, mi ha negato il suo voto. Vorrei così richiamare alla pari dignità politica di ognuna e di ognuno in quest’aula, del governo come dell’opposizione, della maggioranza come della minoranza. Vorrei che ognuno di voi e ogni parte politica potesse contare sul mio assoluto rispetto di questo principio.

Saluto le donne e gli uomini del nostro paese. Saluto il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi anche per il modo autorevole e popolare con cui rappresenta il paese.

Attendo l’elezione del Presidente del Senato, al quale fin da ora assicuro la mia collaborazione. Saluto il presidente della Corte costituzionale.

A Pier Ferdinando Casini, che mi ha preceduto in questo importante incarico con una capacità e con un senso delle istituzioni che spero di potere imitare, va il sincero ringraziamento mio e di tutta l'Assemblea.

Auguro a tutte le deputate ed a tutti i deputati, all’insieme dell'Assemblea buon lavoro. Ne ha bisogno il paese, ne hanno bisogno le nostre istituzioni democratiche.

Credo che il primo compito che tocca a tutti noi sia quello di lavorare ad una forte valorizzazione del ruolo del Parlamento della Repubblica italiana. Si tratta, credo, di una necessità storica in questi nostri tempi difficili. Tempi di un passaggio impegnativo per la democrazia in Italia e in Europa.

Viviamo ogni giorno il rischio di un distacco del paese reale dalle istituzioni, il rischio di una separazione della quotidianità della vita delle donne e degli uomini dalla politica, il rischio che in questo quadro una parte della società - quella più debole, quella più spogliata - venga trascinata fuori dal quadro della politica. La politica tutta vive una sua crisi, eppure dal nostro paese viene alta e grande una domanda di politica, come si è visto anche dalla partecipazione alle recenti elezioni: una domanda esigente e, a volte, aspra. Il Parlamento non potrà da solo risolvere questi grandi problemi, affrontare questa dura crisi, ma può concorrere alla rinascita e allo sviluppo di tutte le forze democratiche, di partecipazione e di politica; concorrere con l’insieme delle istituzioni democratiche e attraverso la partecipazione delle donne e degli uomini del nostro paese, con cui penso possiamo lavorare alla riqualificazione dello spazio pubblico, che ognuna e ognuno possa vivere come propria comunità.

Credo che dovremmo guardare con attenzione e cura a tutte le amministrazioni da cui dipende la vita dello Stato repubblicano. Rivolgo da qui un’attenzione a tutti i dipendenti pubblici, ai corpi dello Stato, alle sue amministrazioni centrali e locali, centrali e territoriali, affinché possano dispiegare tutta la loro potenzialità.

Vorremmo concorrere a valorizzare la loro autonomia, le loro autonomie, che sono una grande ricchezza per il paese - tutte le autonomie, da quella della magistratura a quella del servizio pubblico di comunicazione e di informazione -, per far sì che tutti noi possiamo sentirci cittadini di uno Stato di diritto e cittadini conosciuti e riconosciuti.
Più in generale, di fronte a questo Parlamento sta il compito di un rapporto positivo tra il paese reale e le istituzioni. Il popolo deve poter investire tutta la sua fiducia sulle istituzioni democratiche per nuove conquiste di libertà, di diritti alle persone, anche liberandoli in tanta parte del paese dai gioghi che subiscono, a partire da quello intollerabile di ogni mafia, per una nuova frontiera da costruire di giustizia sociale e di sicurezza delle cittadine e dei cittadini, sicurezza nel senso più alto di diritto al futuro, e cioè il diritto di poter costruire i propri destini.
Per questo noi vogliamo contare sulla scuola come una parte fondamentale nella costruzione di una nuova convivenza e vorrei qui ricordare il lavoro prezioso delle insegnanti e degli insegnanti che costituiscono un patrimonio per il futuro del nostro paese. Un patrimonio con cui lavorare e sconfiggere la peggiore delle selezioni di classe, quella che può colpire in giovane età ragazze e ragazzi, spingendoli all’esclusione. Vorrei ricordare da questa tribuna la lezione, in cui vorrei tutti ci riconoscessimo, di una grande coscienza civile e di un riformatore del nostro paese che su queste cose tanto ci ha insegnato: don Lorenzo Milani.
Ma le istituzioni democratiche sono vitali se cresce con esse la società civile. Questa relazione sociale e umana, che fa la cultura grande di un paese, può essere oggi il fondamento anche di una nuova economia, non solo di una civiltà: l’Italia ha qui la sua risorsa più grande.
Perciò, vorrei che potessimo vivere insieme - insieme -pur nella diversità delle posizioni politiche, un allarme: il rischio della crisi della coesione sociale, che può attraversare l’Italia come tutta l’Europa.
Interroga la politica questa crisi. C’è una fatica di vivere, un’incertezza, qualche volta una perdita di senso, in parti della società che vengono spogliate di futuro. Vivono, queste realtà drammatiche, insieme a tante esperienze di speranza, di innovazione, di investimento sul futuro. Per battere le prime, il Parlamento può inscrivere la sua iniziativa nell’impegno - comune - a costruire popolo, appartenenza, comunità.
Sono un uomo di parte: un uomo di parte che, perciò, non teme il conflitto; che sa che la politica chiede scelte, confronto tra tesi diverse, anche opposizioni e persino contrapposizioni. Ma una cosa vorrei che fosse bandita dal nostro futuro politico: quella di lasciare scivolare la politica nella coppia amico-nemico, in cui c’è la negazione di quello che pensa diversamente da te. Abbiamo bisogno, insieme alle differenze, e persino ai contrasti, di costruire un concorso per realizzare un’Assemblea, questa, che parli a tutto il paese il linguaggio della convivenza, della convivenza anche oltre la politica, della convivenza come valorizzazione delle differenze, delle diversità da non negare ma, anzi, da nominare e da riconoscere: differenze di genere, attraverso le quali si manifestano due punti di vista diversi nel mondo; differenze etniche, tra nativi e migranti; differenze generazionali; differenze tra credenti e non credenti e tra le molte fedi.
La laicità non è solo un’eredità del passato; e non è neppure solo la più necessaria e condivisibile difesa dell’autonomia del legislatore. La laicità chiede, in Italia come in Europa, una sua rielaborazione, per farne l’orizzonte di una nuova convivenza, della costruzione di una cittadinanza universale in cui progettare il nostro futuro, un futuro che sta sospeso tra rischi terribili e grandi speranze. Progettare il futuro: si può!
Lo sapremo fare, quale che sia anche la radicalità del nostro dissenso, se sapremo riandare alle radici più profonde del nostro popolo e delle sue grandi culture. Questa legislatura si apre tra il 25 aprile ed il 1° maggio, due date importanti della nostra storia.
Il 1° maggio, la festa del lavoro, ci raccorda ad una questione fondamentale: il rapporto tra il lavoro e la vita, che decide, spesso, il livello di società e di civiltà. Per anni, non solo questi ultimi, si è vissuto un oscuramento nel mondo del lavoro: un lavoro che ha subito spesso una svalutazione sociale, alla fine della quale è spuntata drammaticamente la precarietà come il male più terribile del nostro tempo. Io penso che sia intollerabile. Perciò, dobbiamo riprendere il filo di un diverso discorso, per restituire il futuro alle nuove generazioni, che ce lo chiedono in molti modi, ma che ce lo chiedono così intensamente.
Il 25 aprile è la radice della nostra Repubblica. Vorrei che questa Assemblea potesse idealmente svolgersi a Marzabotto, in quel cimitero sopra una collina annegata nel verde, in un silenzio che esalta il ricordo del genocidio, degli orrori della guerra. Anche lì, signore deputate, signori deputati, è nata la nostra Costituzione, la sua irriducibile scelta di pace, riassunta nell’articolo 11 della Costituzione. C’è lì la ragione prima della nostra irriducibile lotta contro la guerra e contro il terrorismo.
Noi piangiamo anche oggi le vite di soldati italiani uccisi a Nassiriya; anche oggi portiamo la nostra umana solidarietà alle famiglie di questi cittadini. L’una e l’altra cosa ci fanno intendere il dolore per ogni vittima della guerra e del terrorismo. Perciò, vorrei che facessimo insieme nell’avvio di questi nostri lavori un pellegrinaggio, il pellegrinaggio che Piero Calamandrei indicava ai giovani.
Ha scritto Piero Calamandrei: «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione»: lì c’è l’origine della nostra Repubblica!
Vorrei che questo pellegrinaggio fosse il viatico per il lavoro di questa Assemblea, in cui ognuno possa riconoscersi per trovare nelle radici le ragioni e la forza per progettare il futuro dell’Italia, dell’Europa e del mondo.














Liberazione, 30.04.06
Ritratto dell’amico Fausto, ragione e passione politica
Quel giorno del 1980, in un cinema di Torino, il popolo operaio della Fiat piangeva la sconfitta dei trentacinque giorni. L’ho conosciuto così
Rina Gagliardi


Chi l’avrebbe mai detto? In quel giorno lontano del 1980, in un cinema di Torino, il popolo operaio della Fiat piangeva la sconfitta dei trentacinque giorni. E quel sindacalista quarantenne - che però pareva un ragazzo, con quella faccia aggraziata, gli occhi chiari, un sorriso accattivante - piangeva più di tutti: come fa chi sa di aver perso, di aver dovuto firmare non un cattivo accordo, ma una sorta di resa “storica”. Fausto Bertinotti, da ieri presidente della Camera, terza carica istituzionale della Repubblica, l’ho conosciuto così: dentro una temperie drammatica della lotta operaia in cui era stato protagonista, ma non vincitore. Dentro una vicenda-spartiacque che avrebbe inaugurato il ventennio del neoliberismo, della rivincita padronale, della ristrutturazione selvaggia, della “mobilità” a senso unico della forza-lavoro. Eppure, a differenza di gran parte della sinistra e della dirigenza nazionale del sindacato, non aveva cercato di edulcorare la batosta, di rivestirla di parole rituali, o addirittura di travestirla da “compromesso avanzato”: aveva capito, prima degli altri, che stava cominciando, qui e altrove, una stagione oscura. La grande gelata degli anni Ottanta.

Ventisei anni dopo, tocca proprio a quel sindacalista anomalo sedersi sullo “scranno” che già fu di Pietro Ingrao e di Nilde Iotti. Un’astuzia della ragione storica, hegelianamente parlando? Un risarcimento simbolico (e non solo) dell’amarezza di quei giorni? La prova, l’ennesima, che la politica procede sempre, sui cicli lunghi, per salti, zigzag, contraddizioni? Chissà. Ventisei anni dopo, nessuno di noi è la stesso. Anche Bertinotti non è più lo stesso - e non solo perché ha qualche capello di meno e qualche ruga in più. In realtà, invece, è proprio la stessa persona che allo “Smeraldo” parlava con la voce incrinata e il cuore a pezzi: in mezzo ci ha messo “soltanto” la capacità di percorrere la strada meno comoda e scontata, quella che tiene insieme ragione e passione politica. Ha scritto in uno dei suoi primi libri-confessione: “…io so, per esempio, che qualunque cosa faccia d’ora in avanti, resterò sempre e comunque un sindacalista” (“Tutti i colori del rosso”, a cura di L. Scheggi Merlini, 1995)

***
Quando da Torino si trasferì a Roma, Bertinotti toccava la prima tappa rilevante della sua “carriera”, l’ingresso nella segreteria nazionale della Cgil. Era il 1985, anno terzo dell’era di Bettino Craxi. C’era già stato quasi tutto, il taglio di San Valentino della scala mobile, la lunga battaglia di resistenza culminata nella manifestazione del 24 marzo ‘84, la morte improvvisa di Enrico Berlinguer, ed era alle porte la sconfitta referendaria. Al palazzo aragosta di Corso d’Italia, dunque, arrivava un sindacalista di movimento, per di più di quella “specie” particolare che era cresciuta alla scuola torinese e piemontese, quella di Emilio Pugno, di Pierino Caroli, di Tino Pace - quella per la quale i mostri sacri “romani” non esistevano, si chiamassero anche Sergio Garavini o Bruno Trentin. Ma Bertinotti non. portò soltanto un “vento di sinistra”: inaugurò uno stile, un’antropologia. Del suo trasferimento a Roma, per esempio, aveva discusso molto seriamente con la sua compagna Lella e il figlio allora quattordicenne - un esempio per l’epoca rarissimo di “democrazia familiare” integrale. Arrivato nel palazzo, stupì tutti per il fatto che ogni mattina, entrando, salutava, per primi, i compagni addetti all’ingresso e al centralino, un’abitudine che conserverà fino alla fine del suo mandato - non sembri una sciocchezza, così non si comportava quasi nessun altro dirigente. Infine, e non ultimo, discuteva con tutti, e di tutto: ascoltava e imparava, riascoltava e s’incuriosiva, pur avendo idee basiche e categorie di lettura della realtà sostanzialmente “ferree”. Ecco, Bertinotti sconvolgeva (quasi) tutti gli stereotipi consolidati del sindacalista: militante e combattivo, fino all’ostinatezza e, talora, alla caparbietà, come chi era stato allevato nelle Camere del lavoro del nord operaio, ma al tempo stesso spiritualmente “educato”, come chi è dedito alle buone letture, alla riflessione sui grandi temi della politica e della società, alla ricerca. Si può dirla così: era già allora un ossimoro vivente. Certezze granitiche e dubbio organico, coerenza e apertura, riferimento forte alla tradizione e capacità anche radicale di innovazione, convivevano felicemente nei suoi interventi e lavoro politico. Una peculiarità che spiazzava, affascinava, coinvolgeva qual, che volta divideva. Poi, certo, quando si trattava di prendere decisioni impegnative - magari di rompere equilibri e prassi consolidati - andava fino in fondo. Fu così che maturò il conflitto politico con Bruno Trentin, padre nobile della sinistra e del sindacato italiano: prima con il “documento dei 39”, che poneva il tema della democrazia interna nella Cgil, e poi con la nascita di “Essere Sindacato”, Bertinotti divenne un leader nazionale. Un punto di riferimento, prima, della sinistra sindacale, poi, via via, di un movimento più vasto. Man mano, il suo rapporto con la Cgil - che era stato per più di vent’anni di identificazione totale - diventò sempre più critico: dal congresso di Rimini del 1991, Bertinotti fu, per eccellenza, l’“oppositore”, in un’organizzazione, come la Cgil, storicamente strutturata su componenti politiche e di partito (comunisti, socialisti, poi nuova sinistra), che tendeva a non accettare, più di tanto, il dissenso interno organizzato. Quando si arrivò a firmare i celebri accordi del ’92 e del ’93, che sancivano la politica della concertazione e della compatibilità piena con le logica d’impresa, per lui l’aria si fece quasi irrespirabile. Nel clima segnato dalla vicenda di Tangentopoli, dalla crisi verticale della prima repubblica, cioè dei partiti di massa, dai governi “tecnici” (Ciampi e Amato), Bertinotti uscì dal Pds e si dimise dalla Cgil - lo fece, se così si può dire, senza rete, senza ancora immaginare il suo futuro politico. Come quando qualcosa che pure è stato prezioso ed anzi essenziale, compreso un sistema densissimo di relazioni e rapporti umani, si è lacerato per sempre. Era il marzo del ’93, mi pare. Un altro anno difficile per i movimenti e per la sinistra. Un altro tempo di dura resistenza.


***
Sulle modalità che determinarono l’ascesa di Bertinotti alla segreteria nazionale di Rifondazione comunista - sancita dal II congresso nazionale del gennaio 1994 - sono circolate molte leggende, e ricostruzioni contrastanti. Ma forse più di ogni altra cosa valse un incrocio, o un incontro, “oggettivo”: da un lato, c’era un partito, Rifondazione comunista, senza leader (Sergio Garavini si era dimesso, al termine di uno scontro interno molto duro, nell’estate del ’93); dall’altro lato, c’era un dirigente della sinistra, Bertinotti, senza partito. Certo, qualcuno, più d’uno, aveva immaginato che Bertinotti sarebbe stato, in buona sostanza, un segretario “manovrabile”: del resto, nessuno, forse neppure lo stesso Bertinotti, conoscevano le sue qualità di dirigente politiche dentro un partito complicato come il Prc, allora controllato da Armando Cossutta. Un errore di previsione, o un calcolo, davvero grossolani. Ma un errore “comprensibile”: uno che era nato e cresciuto nel sindacato, che aveva spiccate tendenze intellettuali, che non aveva fatto, o quasi, vita di partito, non lasciava presagire, ai più, l’originalità e la stoffa della sua leadership. Per di più, c’era sempre quella sua capacità di spiazzare gli interlocutori. Qualche anno dopo, quando ancora la diarchia del Prc funzionava egregiamente, Armando Cossutta mi raccontò di esser rimasto sinceramente stupefatto dalla totale “assenza di pretese” di Bertinotti, già segretario in pectore del Prc: Cossutta gli aveva chiesto, più o meno, “che cosa vuoi”, quando diventerai segretario, quali condizioni poni, chi pensi di collocare negli organigrammi, e si sentì rispondere, all’incirca, “nulla”. Si tratta forse di un unicum nella storia dei partiti politici. Ma Bertinotti - ieri come oggi - non ha mai avuto il gusto di comporre organigrammi, o di giocare con la dimensione tattica della politica (arte in cui per altro si è poi dimostrato alquanto versato): ha puntato sempre sull’egemonia, sui rapporti che riusciva a stabilire e costruire, sulla dinamica dei processi politici reali. E con il potere il suo rapporto non è mai stato disinvolto, se mai molto imbarazzato, insomma il contrario del cinismo che impera.

Dello stesso genere, credo, è stato il suo rapporto con i media e, segnatamente, con la televisione: una responsabilità, una sfida, un compito nuovo, affrontati con piglio “naturale”, senza sovrapposizioni, senza dover essere. La prima volta in Tv, mi pare di ricordare, fu un “duello” con Mariotto Segni, in una trasmissione condotta da Lilli Gruber - sugli spalti, c’erano le due “squadre” dei duellanti, pronte ad intervenire su richiesta. Allora, Segni era uno dei politici più noti d’Italia - tristemente noti per aver guidato lo schieramento referendario destinato a smantellare la prima repubblica e a introdurre il maggioritario. Bertinotti era appena arrivato al vertice di Rifondazione. Eppure, vinse “alla grande”, stracciò dialetticamente il suo antagonista con nonchalance ed eleganza - con forza politica ma senza durezze. Una sorpresa, questa sì, per tutti, la prima performance tv di Bertinotti. Una sorpresa, come del resto, i suoi primi comizi alle feste di Liberazione, tenuti di fronte ad una folla oceanica. Il primo banco di prova, certo, erano state le elezioni politiche, quello sciagurato ’94 in cui Silvio Berlusconi, “in campo” da tre mesi, aveva battuto la coalizione progressista data per sicura vincente da tutti, book makers di Londra compresi: lì, Bertinotti aveva lanciato il tema della tassazione dei Bot, irritando il vertice diessino e l’opinione moderata (sono passati dodici anni, ma la questione della lotta alla rendita resta attualissima.


O no?). Lì aveva rivelato le sue doti di fantasia e autonomia politica sui quali in pochi avevamo scommessi. Lì, insomma, aveva cominciato ad affermare sul campo una autentica statura di leader davvero popolare - come non ce ne sono oggi in Europa. Perfino dal punto di vista “sociologico”, il feeling con larghe masse di popolo, di giovani, di lavoratori che Bertinotti è riuscito a stabilire negli anni si configura come un fenomeno tutto da studiare - in una fase storica di crisi della politica e della fiducia di massa nella politica. Politicamente parlando, è la figura politica che ha maggiormente contribuito, a cavallo tra i due secoli, al rilancio della rappresentanza: capite perché lo hanno eletto presidente della Camera e nessuno, anche e soprattutto tra i nostri avversari, ha trovato molto da ridire?


***
Ma che tipo di uomo è Fausto Bertinotti? E come ha fatto a conquistare un successo, politico e personale, così oramai indiscutibile? Non è facile rispondere a domande, o curiosità, come queste. Che si tratti di una persona di grande spessore intellettuale e culturale, è evidente a chiunque. Che sia curioso, aperto, vocato alle relazioni con il prossimo, è altrettanto evidente. Che sia dotato di un’attitudine del tutto originale all’elaborazione politica, all’“invenzione”, alla mediazione originale, antiburocratica, tra teoria e prassi, è chiaro, non solo per i militanti di Rifondazione comunista. Ma c’è, sicuramente, dell’altro - anche un pizzico di fortuna, certo. A mio modesto parere, Bertinotti anche un uomo “semplice” - semplice nel senso brechtiano del termine, nel senso di quella “sofisticata semplicità” tanto difficile a farsi e a praticarsi. Semplice come sinonimo di autentico - e tra le tante virtù che fanno di un dirigente politico un leader vero l’autenticità, quasi più dell’intelligenza, è una qualità rarissima. Significa che Bertinotti è stato capace, prima da sindacalista, poi nei mari procellosi della segreteria di Rifondazione comunista, tra scissioni, battute d’arresto, ripartenze e rilanci, nei rapporti con il resto della sinistra e con i movimenti, con gli interlocutori più distanti e financo con gli avversari, di essere sempre, “semplicemente”, se stesso - compresi i suoi difetti. Qui, c’è il segreto di un comportamento sempre ispirato da una coerenza rigorosa, per qualcuno maniacale, che si trasforma, ogni volta che è necessario, in fertile duttilità. La capacità di procedere, quando di meglio non si può fare, “per approssimazioni successive”, ed eventualmente anche per errori e correzioni. La voglia di confrontarsi, sempre, con la realtà del mondo “grande e terribile” che ci sta di fronte, nulla a che fare con la banalità del realismo. E quindi la curiosità verso ciò che è diverso da sé, come regola aurea della propria condotta - credo che questa norma valga per il Bertinotti “privato” come per quello “pubblico”. Che, del resto, non ha mai davvero vissuto queste due dimensioni come separate, distanti, o cinicamente contraddittorie: anche in questo la sua “semplicità” fa rima con “integrità” e tensione morale. Non è tanto più semplice, in fondo, essere se stessi piuttosto che inseguire per tutta la vita un modello forzato di sé, o di successo, o di potere?

Infine, la leadership di Bertinotti ha sempre avuto un tratto specifico di fraternità. Il leader, per solito, richiama la figura paterna - ha l’autorità o l’autorevolezza che si conferisce al padre. Bertinotti trasmette - nel privato come nel pubblico - l’immagine di un fratello. Forse di un fratello maggiore, che ti precede sempre nei pensieri, soprattutto quelli grandi, che sa e sa fare di più, che può rappresentarti e anche guidarti - ma da distanza non sacrale, e sempre all’interno di una complicità affettuosa che non ti schiaccia. Anche questa qualità peculiare, ne sono sicura, farà di Bertinotti un presidente della camera straordinario, nel senso letterale del termine. Un amico. Un amico del popolo.













Liberazione, 03.05.06
Mahmud Darwish, la lingua perduta della libertà
Per il poeta palestinese, che sarà tra gli ospiti della Fiera internazionale del libro che si apre domani al Lingotto di Torino, «la poesia ha sempre cantato solo i perdenti»
Maria Nadotti


«Una lieve ferita sul braccio del presente assurdo… e la Storia si burla delle sue vittime e dei suoi eroi… Getta su di loro uno sguardo e passa... (...) Quanto a me - ormai carico di tutti i motivi per il viaggio -, io non sono mio. Non sono mio…».

E’ la folgorante chiusa di “Murale”, il poema che il palestinese Mahmud Darwish, uno dei massimi autori contemporanei, scrive tra il 1998 e il 1999, in quel «tempo in prestito» che è la vita dopo una malattia o un incidente miracolosamente non mortali.

All’uscita da un coma popolato di presenze luminose e assediato dal “lutto della parola”. Darwish riapproda alla scrittura per dire in versi quel suo viaggio al termine della notte, ricostruendo allo stesso tempo la trama della propria vicenda biografica e della propria avventura poetica.

«Scartato e forse dimenticato dalla morte, cui oggi mi sento pronto e che sembra avermi voltato le spalle», come afferma con ironia, «ho desiderato dare vita a un testo che distillasse il meglio della mia opera poetica», da consegnare ai lettori del futuro. Come la “Mu’allaqat”, leggendaria selezione di poesie preislamiche, le più belle, le “dorate”, incise e “appese” alle pareti della Ka’ba alla Mecca. E “Murale”, che alterna le cadenze e le altitudini di un salmo a un’ardita messa a nudo memoriale della materia “umile e bassa” del corpo e dei sentimenti, è davvero un testamento poetico e umano.

Nato nel 1942 a al-Barweh in Galilea, Darwish è figlio del secolo “crudele”, di cui impara presto «la legge del ferro e la scienza degli addii». Nel 1948 è cacciato con la famiglia dal suo villaggio natale, che viene raso al suolo dall’esercito d’occupazione dello stato israeliano a venire. Inizia da lì, e diventerà formidabile materia poetica e di riflessione sulla storia e la politica, sulle alterne vicende della libertà e del potere, uno sradicamento - ma meglio sarebbe dire una lacerazione - che si ricomporrà almeno in parte solo nel 1996, al ritorno in Palestina dal lungo esilio in Libano e Francia.

Lontano dal proprio paese, Darwish mette casa nella propria lingua, scrivendo di ciò che è andato perduto e del presente oscuro, coltivando la memoria e l’immaginazione, dando all’intera comunità palestinese della Palestina, di Israele e della diaspora un luogo tangibile in cui ritrovarsi e riconoscersi, sentirsi esistenti e insieme. Atto di nominazione forte e mai compiacente, consapevole del rischio di farsi malleabile strumento di una causa, di essere troppo a ridosso del proprio oggetto. «Un testo poetico può esprimere tutto», afferma il poeta, «bisogna però allontanarlo da ciò che lo perturba: l’effimero, il contingente, l’immediato, ciò che vi è di inconsistente nel reale... Dove vive la poesia? Nel tema che affronta o nella sua indipendenza estetica rispetto al proprio tema?... In passato ho risposto a atti barbari con parole violente. Volevo lanciare una pietra contro l’invasore e l’ho fatto. Ora so che per la poesia sono essenziali le distanze infinite. La poesia ha bisogno di essere innocente, libera da ogni sovraccarico ideologico o simbolico».

Nel 1970, al momento del passaggio dall’esilio in Palestina all’esilio in Libano, quando inizia il tempo dell’erranza, Darwish scrive: «Ho scoperto che la terra è fragile e il mare leggero, ho imparato che lingua e metafora non bastano affatto a dare un luogo al luogo. La parte geografica della Storia è più forte della parte storica della geografia... E’ indispensabile passare dal relativo all’assoluto. Indispensabile un’apertura, che mi permetta di inscrivere il nazionale nell’universale, perché la Palestina non si limiti alla Palestina, ma fondi la propria legittimità estetica entro uno spazio umano più vasto».

E ancora: «Io non conosco nessuna grande poesia che sia figlia di una vittoria. Prendete le tragedie greche. La compassione per le vittime ci scuote assai più dei peana. Ciò che manca terribilmente nell’eredità greca è la poesia di Troia... Io ho scelto di essere un poeta troiano. Appartengo risolutamente al campo dei perdenti. I perdenti che sono stati privati del diritto di lasciare traccia della loro disfatta, privati del diritto di proclamarla. Io preferisco dire questa disfatta... Mi schiero dalla parte di Troia, perché essa è la vittima... Ho scelto di essere il poeta di Troia, perché Troia non ha raccontato la propria storia. E noi, fino ad oggi, non abbiamo raccontato la nostra. Chi impone il proprio racconto eredita la terra del racconto. Amo la poesia perché ci fa dono di una forza, pur se immaginaria. Perché il carceriere non canta? Il prigioniero canta perché è solo con se stesso, mentre il carceriere non esiste se non insieme all’altro, al sorvegliato. E’ talmente occupato a tenere in isolamento il prigioniero che si scorda della propria solitudine».

L’intero corpus poetico di Mahmud Darwish è percorso da quest’attenzione per l’umanità del nemico. «Il nemico non è mai stato una semplice idea, bensì un corpo, dei lineamenti, una famiglia, e una storia, vera o falsa che sia. Respira l’aria che respiriamo noi, e il nostro antagonismo nei suoi confronti non nasce da un conflitto razziale o etnico. E’ politico e ideologico. Il nemico è mobile quanto lo siamo noi, non dimora solo in se stesso, ma avanza sotto numerose maschere, in movimento costante tra sé e l’altro, l’altro e sé. Il nemico non è una figura astratta, ci compenetriamo e ci capita di scambiarci i ruoli. Viviamo in condizioni umane complesse, senza alcuna distanza tra loro e noi... La mia immunità ideale risiede nel non perdere la mia umanità nello sguardo che poso sul nemico. Quanto a permettergli di abitarmi, costruire il mio immaginario, dettarmi la mia stessa versione delle cose, diventare la mia memoria, è tutt’altra cosa. Possiamo fare concessioni e intenderci su tutto, tranne che sulla Storia. La pace vera è il dialogo tra due versioni. Che non mi impongano la loro versione e io non imporrò loro la mia. E la Storia se la riderà di noi due. La Storia non ha tempo per gli ebrei e gli arabi. Da queste parti sono passati molti popoli. La Storia è cinica, e tanto meglio!

La sola identità che proclamo è: “io sono la mia lingua”. Niente di più, ma niente di meno. E dico che in questa lingua si percepisce la vicinanza dei romani, dei persiani e di tanti altri popoli. Io non mi riconosco che attraverso la mia lingua, dal momento che non mi inquietano affatto le cosiddette “differenze” di razza o di sangue. Non credo alle razze pure, né in Medio Oriente né altrove. Al contrario, sono convinto che il meticciato mi arricchisca e arricchisca la mia cultura. E’ l’altro a chiedermi, incessantemente, di essere un Arabo, secondo, naturalmente, la sua personale definizione di “arabità”. Sono arabo perché parlo arabo. Sono arabo perché l’arabo è la mia lingua, e conduco una difesa strenua della lingua araba, non per salvaguardare la mia identità, ma per la mia esistenza, la mia poesia, il mio diritto di cantare...».











Liberazione, 03.05.06
Marx e Spinoza, la potenza della povertà
Girolamo de Michele


In un recente dibattito con Negri sul nuovo ordine della globalizzazione, Danilo Zolo confessava il suo imbarazzo nel confrontarsi col pensiero marxista, dal quale aveva preso le distanze per la sua irriducibile avversione ai suoi “tre pilastri teorici”: la filosofia dialettica della storia con le sue “leggi scientifiche”, la teoria del valore-lavoro come premessa delle rivoluzioni comuniste, la teoria dell’estinzione dello Stato e il connesso rifiuto dello Stato di diritto e della dottrina dei diritti soggettivi. La risposta di Negri era che se il marxismo potesse essere ridotto a quei tre “pilastri”, lui stesso non sarebbe marxista. Nella stessa discussione Negri ricordava di essere andato a “sciacquare in Senna” i suoi panni, cercando di ibridare il marxismo operaista con le prospettive del post-strutturalismo francese, e al tempo stesso di aver cercato di recuperare al marxismo quella linea materialistica che “da Machiavelli porta a Spinoza e a Marx”. Una linea interpretativa che non è solo libresca, ma si è costituita nelle pratiche sociali dell’ultimo fine-secolo e che può, diversamente da altre tradizioni marxistiche, confrontarsi a pieno titolo con i movimenti globali del nuovo millennio. A confermare la produttività di quella ricerca arriva ora un libro di Margherita Pascucci, La potenza della povertà. Marx legge Spinoza (Ombre Corte, pp. 137, euro 13,00) e presentato dallo stesso Negri. Uno studio che sembra essere l’anticipazione di una più ampia ricerca, e che mette al fuoco una grande quantità di materiale, a dispetto dell’agile dimensione del testo. Il cuore della ricerca di Pascucci mi sembra potersi riassumere nella distinzione tra miseria e povertà, e nella lettura della povertà all’interno del concetto di potenza (dynamis). Potenza è possibilità di essere, manifestazione di una natura aperta al possibile, laddove miseria è l’impotenza di una condizione umana ridotta all’interno delle leggi del valore. Ovvero: potenza è possibilità di essere, miseria è riduzione dell’essere plurale all’insignificanza del valore, alla schiavitù dell’economico. «Ogni volta che il povero viene definito attraverso la mancanza, si ristabilisce l’impotenza della povertà»: il furto della propria dynamis/potenza, della propria capacità di essere e di produrre che, in modo collettivi, ristabilisce la capacità di vivere di ognuno. In questo senso “potenza” coincide con “virtù”, e si contrappone al valore determinato dallo scambio: «Mentre la virtù è un mezzo di accordo delle differenze, una composizione del singolo con il tutto, l’integrazione di lavoro manuale e lavoro intellettuale, del pensiero nella prassi, il valore è l’espressione della frammentazione dell’essere: il segno della proprietà, della schiavitù e della monarchia. Il segno della povertà politica». In altri termini, Pascucci sembra alla ricerca di una chiave filosofica in grado di leggere il tema della “dignità” nei movimenti che si oppongono al nuovo ordine globale - pensiamo soprattutto ai movimenti del Sudamerica, ma anche all’India, alle insubordinazioni contadine e operaie nella Cina - a partire dalla rivendicazione della propria vita, e non dalla rancorosa ricerca di quella mancanza che si traduce in teoria del bisogno, e che è già un’accettazione implicita della prospettiva dell’avversario. E di questa chiave Pascucci cerca anche di ricostruire una genealogia, che spazia dal materialismo lucreziano sul quale si esercitava il giovane Marx alla potenza del corpo in Spinoza (altro “livre de chevet” del giovane filosofo di Treviri), fino al pensiero del virtuale e della filosofia come “teoria delle molteplicità” di Deleuze (e con interessanti spunti sul pensiero antico, che meriterebbero una più distesa trattazione). Sintetizzando, si tratta di leggere la pienezza del nostro essere - un essere molteplice e multiforme, dinamico e collettivo - a partire non dallo scambio tra vita e valore, cioè alla mera equivalenza determinata dallo scambio economico, ma dall’equivalenza tra essere e potenza di essere, tra realtà in atto e possibilità, che è anch’essa reale. Tra lo stato di cose esistente e la virtualità come creazione e distribuzione (Deleuze). Qui si apre uno squarcio all’interno di quel pensiero della crisi che, attraverso l’accettazione dell’orizzonte temporale heideggeriano, infiorava l’accettazione delle catene mondo come è e come non può che essere, riducendo la prospettiva di una vita più degna alla mera “migliore amministrazione” dell’esistente. Al contrario, la tradizione post-operaista - una tradizione che non è eredità del passato, ma che si è fatta e si fa da sé nelle pratiche - sa che la temporalità non è orizzonte ma costituzione, come ribadisce Negri: costituzione costrittiva del tempo come tempo di lavoro o costituzione del tempo come liberazione della potenza del collettivo, accettazione del corpo come un dato o autopoiesi dei corpi secondo linee dettate dalle potenze liberatorie del desiderio.




















AprileOnLine, 29.04.06
Otto diritti per non soffrire invano
Sanità. Presentata ieri la Carta dei diritti contro il dolore inutile.
Un'iniziativa per promuovere la prevenzione, il controllo e il trattamento della sofferenza a fini terapeutici
Alessandro Cossu



E’ stata presentata ieri la Carta dei diritti contro il dolore inutile, promossa da Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato con il contributo di numerosi altri soggetti del mondo della medicina e non solo.
La Carta si propone di migliorare la conoscenza del dolore e promuovere sempre di più la prevenzione, il controllo e il trattamento dello stesso; i diritti in essa illustrati si ispirano a quanto previsto dal Codice Deontologico Medico Italiano e, in particolare, a quanto previsto dall’art. 3 (“Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana”), oltre che da diverse dichiarazioni e documenti internazionali.

Le difficoltà di accesso alla terapia del dolore riguardano due fronti: quello più diffuso della cura del dolore nei pazienti terminali di cancro, per i quali si segnalano passi in avanti, seppur con difficoltà burocratiche, e quello, contraddistinto da notevoli e maggiori problemi, dei malati cronici. I pazienti affetti da Parkinson, Alzheimer, patologie autoimmuni, sclerodermia, paratetraplegia, artride reumatoide, cefalea, sono tra quelli che più di frequente segnalano il mancato accesso alla terapia del dolore e la scarsa informazione sul diritto a non soffrire.

Le organizzazioni di tutela delle malattie croniche rilevano l’esiguità dei medici di medicina generale e specialisti che hanno ritirato il ricettario speciale per la prescrizione dei farmaci oppiacei e segnalano la scarsità di informazione ai pazienti innanzitutto sul fatto che si possa fare qualcosa contro la sofferenza Inoltre, il recente rapporto realizzato da Cittadinanzattiva su un campione consistente di centri di Assistenza domiciliare oncologica evidenzia che l’8% dei cittadini lamenta difficoltà nell’accesso ai farmaci oppioidi a causa della indisponibilità del ricettario da parte del medico prescrittore (27%), per errori nella compilazione della ricetta (20%) o per indisponibilità del farmaco in farmacia (53%), e solo nel 54% delle realtà monitorate l’équipe ha, al suo interno, un componente che si informa regolarmente sulla persistenza o meno del dolore.

“Il sintomo dolore è sottovalutato per diversi motivi, di ordine culturale e organizzativo”, ci ha dichiarato Francesca Moccia del Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva. “Da una parte si ritiene che esso sia un evento naturale connesso alla malattia e spesso connotato di significati simbolici e religiosi, e per di più la valutazione e cura del sintomo prevede che al centro del sistema di cura sia messo il paziente e non il medico. Dall’altra parte, giocano a sfavore del paziente le carenze organizzative del nostro sistema, come la mancanza di operatori sanitari correttamente formati alla gestione del dolore e la scarsa diffusione di protocolli sulla terapia del dolore e sull’uso di analgesici, in particolare di analgesici oppioidi”.

La nuova legge sulla droga complica ulteriormente le cose e dilata la burocrazia. Sono numerosi infatti i problemi connessi alla legge Fini-Giovanardi, come sottolinea la Società italiana di cure palliative, di cui si tiene in questi giorni il XIII Congresso. Chi trasporta oppiacei anti-dolore, con le nuove norme in materia di droga, in teoria può essere inquisito se non riesce a dimostrare l’utilizzo terapeutico delle sostanze. Questi farmaci, inoltre, devono essere prescritti su un particolare ricettario a ricalco in triplice copia e una delle copie deve essere custodita dal paziente come “giustificativo”. I farmaci devono essere registrati in un registro di entrata ed uscita, firmato in ogni pagina da un responsabile dell’Asl e farmacista e paziente devono conservare per due anni copia della stessa. Chi fosse trovato inottemperante alla normativa, deve sborsare fino a 28 mila euro e rischia una reclusione da 8 a 20 anni.
“Tutti elementi – dice Teresa Petrangolini, segretario generale di Cittadinanzattiva - che burocratizzano ulteriormente l’accesso alla terapia del dolore e rendono davvero insostenibile la sofferenza dei malati di cancro e dei pazienti cronici. Per questo chiediamo una sostanziale modifica della legge sulla droga affinché non entri in contrasto con il diritto dei pazienti a non soffrire inutilmente e a non essere additati come tossicodipendenti”.

Questi gli otto diritti contenuti nella Carta:
Diritto a non soffrire inutilmente. Ciascun individuo ha diritto a vedere alleviata la propria sofferenza nella maniera più efficace e tempestiva possibile.
Diritto al riconoscimento del dolore. Tutti gli individui hanno diritto ad essere ascoltati e creduti quando riferiscono del loro dolore.
Diritto di accesso alla terapia del dolore. Ciascun individuo ha diritto ad accedere alle cure necessarie per alleviare il proprio dolore .
Diritto ad un’assistenza qualificata. Ciascun individuo ha diritto a ricevere assistenza al dolore, nel rispetto dei più recenti e validati standard di qualità.
Diritto ad un’assistenza continua. Ogni persona ha diritto a vedere alleviata la propria sofferenza con continuità e assiduità, in tutte le fasi della malattia.
Diritto ad una scelta libera e informata. Ogni persona ha diritto a partecipare attivamente alle decisioni sulla gestione del proprio dolore.
Diritto del bambino, dell’anziano e dei soggetti che “non hanno voce”. I bambini, gli anziani e i soggetti che “non hanno voce” hanno lo stesso diritto a non provare dolore inutile.
Diritto a non provare dolore durante gli esami diagnostici invasivi e non. Chiunque debba sottoporsi ad esami diagnostici invasivi deve essere trattato in maniera da prevenire eventi dolorosi.

Cittadinanzattiva chiede che l’Italia si adegui agli standard europei attraverso l’adozione di una serie di politiche concrete per la lotta al dolore. In particolare propone di: modificare la legge sulla droga affinchè non entri in contrasto con il diritto dei pazienti a non soffrire inutilmente; inserire la terapia del dolore nei Livelli essenziali di assistenza; considerare la presenza di strutture e servizi di terapia del dolore come un elemento discriminante ai fini dell’accreditamento per il Servizio sanitario nazionale; prevedere centri e servizi per la terapia del dolore in età pediatrica; inserire obbligatoriamente nel percorso formativo di medici e infermieri un corso base sulla terapia del dolore.
















Liberazione, 04.05.06
Oggi e domani a Vico Equense si discute il Libro verde che la Commissione dell’Ue ha adottato per migliorare la salute mentale della popolazione europea
Sulla strada, con i ”matti“, verso Strasburgo
Luigi Attenasio*


Continua la lunga marcia di Psichiatria Democratica per una Europa senza manicomi: oggi e domani a Vico Equense “Giornate europee di studi”, si discute il Libro verde che la Commissione dell’UE ha adottato per migliorare la salute mentale della popolazione europea proponendo una consultazione allargata alle istituzioni, ai governi, ai professionisti della sanità, alla società civile, alle associazioni dei pazienti, a tutti gli interessati. Sarà anche l’occasione per ricordare che proprio un anno fa partiva da Roma verso Strasburgo il viaggio di una idea, il pullman dei “44 matti”, operatori utenti familiari giornalisti, che con Giovanni Berlinguer e Roberto Musacchio, parlamentari europei sponsor dell’iniziativa, portarono a Josep Borrel, presidente del Parlamento europeo, Franco Basaglia e Marco Cavallo, raffigurati in un quadro, simbolo della liberazione dalle catene dei manicomi e della loro scomparsa in Italia. Borrel si impegnò perché anche in Europa iniziasse il cammino per una diversa assistenza in salute mentale. Anche quel viaggio è servito per interessare al problema i paesi europei dove ancora sopravvivono i manicomi, “zavorra” arcaica e anacronistica non solo per lo specifico psichiatrico ma anche per il modello europeo di civiltà “intriso di diritti, garanzie sociali, capacità di dialogo tra i popoli e le culture”. Psichiatria Democratica vuole in Europa quanto avvenuto in Italia, cioè che si trasformi realmente l’assistenza psichiatrica. Non si soddisferà di “lacchezzi”, certa che non esiste strategia nel campo delle politiche di salute mentale che non abbia come punto di partenza il superamento definitivo di tutti gli ospedali psichiatrici, tramite concrete pratiche di deistituzionalizzazione per una centralità del territorio. Riproporrà il suo Dna, un cocktail di lotta antiistituzionale, gestione alternativa della sofferenza psichica, critica della ideologia scientifica, responsabilizzazione verso chi rischia segregazione e internamento a vita in quanto matto, per legiferare anche in Europa contro ogni pratica coercitiva, in particolare la contenzione, contro i manicomi giudiziari ma anche contro i Cpt, nuovi manicomi del 2000. E inoltre, quanto già discusso a Torino a Novembre scorso nel convegno internazionale “Per un’Europa senza manicomi” organizzato con la CGIL e le associazioni di utenti e familiari, parlamentari, intellettuali, magistrati dove è nata PD europea (Francia/Portogallo/Germania/GranBretagna/Finlandia/Slovenia/Spagna/Ungheria): valorizzazione delle politiche di genere con un’attenzione specifica alla salute mentale delle donne, a quella dei bambini e degli adolescenti (non ci si indignerà mai abbastanza per quanto avvenuto in questi giorni a Milano dove è stato fatto fuori dalla scuola con un atteggiamento scarsamente autoriflessivo, francamente espulsivo, oltrechè discriminatorio e razzista, un bambino con ADHD, sindrome della cosiddetta iperattività e deficit dell’attenzione, inventata per giustificare l’uso, molto pericoloso su un cervello in formazione, del Ritalin, amfetaminosimile, vera e propria droga) e alle fascie più a rischio, anziani, migranti…; protagonismo di utenti e familiari (la 180 si è fatta con la gente, nelle piazze, non nel chiuso di paludati convegni scientifici, ma con il coinvolgimento diretto dei pazienti, che rivendicarono non migliori medicine ma libertà, dignità e diritti: le assemblee generali ad Arezzo, vero e proprio parlamento dell’istituzione, ne democratizzarono la vita quotidiana. Non vi fu, per dirla con Pasolini, “modernizzazione senza progresso”, cioè una trasformazione gattopardesca dell’assistenza tenendo in vita, come in Francia, i manicomi al fianco di servizi un po’ rimodernati ma sostanzialmente ancora funzionali all’internamento); servizi territoriali e di salute mentale di comunità, con l’integrazione dell’ambito sanitario con quello sociale; formazione non separata dalla pratica dei servizi di qualità e per un sapere multidisciplinare; supporto alle cooperative sociali e alle politiche solidali che favoriscano una vera integrazione nel mondo del lavoro (in opposizione allo sfruttamento tipico dell’ergoterapia e del lavoro dipendente verso una impresa sociale al confine tra consumo e produzione di risorse materiali ma anche immateriali non riducibili a merce, come sentimenti, emozioni, condivisione); rispetto dei diritti delle donne e degli uomini in relazione alle libertà personali e ai bisogni fondamentali, quali la casa e il lavoro; impegno nel rendere accessibili e fruibili i diritti di cittadinanza, inclusi quello alla salute e alla salute mentale dei detenuti, con campagne contro il pregiudizio e lo stigma, basate, anche, sulla denuncia puntuale di ogni forma di discriminazione e razzismo.

Anche con la fine dei manicomi, si costruisce l’Altreuropa, quella dei popoli, in contrapposizione a quella della moneta, delle tecnocrazie e della guerra (vedi voce A/Altreuropa dell’alfabeto della Sinistra Europea a cura di Graziella Mascia e Rina Gagliardi): un’Europa dell’accoglienza, in cui le diversità siano valorizzate e non discriminate e represse, le culture si incontrino in arricchimento profondo e reciproco senza più sfruttamento del lavoro dei meno garantiti e senza sacche di odio etnico e razziale, un’Europa di donne e uomini liberi, un’Europa dei diritti.

* Presidente Psichiatria Democratica Lazio












Liberazione, 04.05.06
A colloquio con Vincenzo Ruggiero, autore del saggio “La violenza politica”, ultimo di una serie di studi sulla sociologia e le discipline sul crimine.
Un libro al di là dello specialismo con incursioni nella letteratura e i movimenti
«Troppa criminologia, non capiamo il conflitto sociale»
Ermanno Gallo


E’ docente fra Pisa e Londra e ora esce in Italia il suo ultimo saggio La violenza politica (Laterza, euro 20,00), già pubblicato in Gran Bretagna. Pochi cenni dai quali si deduce il profilo internazionale della ricerca di Vincenzo Ruggiero, autore di articoli e saggi di anticriminologia, da molti considerato un enfant terrible della sociologia.


Cosa intende per “analisi criminologica”?

Bisogna abbandonare periodicamente il proprio campo di lavoro e la propria disciplina di studio, per mettere alla prova in altri contesti le conoscenze che si sono acquisite. Si può eventualmente tornare, a volte arricchiti, nel proprio terreno specialistico e osservare con uno sguardo nuovo i fenomeni che si studiano. Si tratta di un’idea di “de-territorializzazione”, che io interpreto come desiderio di fuga dal proprio territorio, dai propri costumi logici, verso una destinazione non prevedibile. Le mie “linee di fuga” sono state in passato la sociologia urbana, i movimenti sociali, la letteratura classica, e di recente l’architettura e la scultura contemporanea. Deleuze, a questo proposito, afferma che «fuggire significa creare, trovare un’arma».


Sociologia e criminologia si sono occupate della violenza politica. Lei distingue tra violenza autorizzata e non autorizzata. E recupera formulazioni abbandonate dalla comunità accademica che hanno ancora una «scintillante capacità analitica». Quali?

Questa capacità analitica la si avverte se il viaggio, o la fuga di cui ho detto, produce esiti positivi. Ad esempio, dalla sociologia urbana impariamo che non esiste aggregato sociale senza forme variabili di conflitto collettivo e costanti possibilità di mutamento. Bene, dalla criminologia impariamo invece, da un lato, a focalizzarci sul conflitto interpersonale, e, dall’altro, a distanziarci il più possibile dalle nozioni di cambiamento sociale. La criminologia, che pure deriva dalla sociologia classica, è costretta a selezionarne gli assunti, a scartare alcune idee e a cristallizzarne altre, in maniera da pretendere indipendenza disciplinare. Ancora, la criminologia utilizza, naturalmente, un’idea di conflitto, un’idea però che sembra poter spiegare, in maniera astratta e glaciale, sia l’uxoricidio che l’aggressione nucleare. E’ invece la letteratura classica che, secondo me, pone dei limiti all’azione e ai conflitti umani, caricandoli di una vena tragica, emotiva. Infine, è la stessa sociologia classica a interrogarsi sul bisogno di mutamento sociale e sui costi umani richiesti perché il mutamento medesimo abbia luogo.


Cioè?

Una breve “fuga” nel territorio di studio dei movimenti sociali, ad esempio, ci aiuta a capire che l’azione collettiva attinge da uno specifico repertorio simbolico, dispone di risorse ideologiche e di strumenti comunicativi. I movimenti insomma risultano da: disponibilità di risorse, modelli pregressi di azione politica, accumulazione di capacità tecniche, passione, solidarietà sociale, memoria collettiva e destrezza organizzativa. E’ esattamente il contrario del paradigma criminologico convenzionale, secondo cui la motivazione della condotta deriva da una situazione di carenza, di deficit, mancanza di risorse o potere.


militanti delle formazioni terroristiche, ad esempio nella Raf e nelle Br, ai quali lei dedica alcune parti del saggio, si resero conto di come la violenza anti-istituzionale potesse trasformarsi in qualcosa di simile a quello contro cui combatteva. E’ possibile una sociologia della pace?

La questione fondamentale è: che rapporto c’è tra violenza autorizzata (dall’alto) e violenza non autorizzata (dal basso)? In quali condizioni e in che misura la violenza non autorizzata produce cambiamento sociale? Ecco allora che Beccaria e Bentham cercano di valutare gli effetti negativi della violenza istituzionale e di esaminare quanto la sedizione e i crimini contro lo stato siano efficaci o controproducenti in vista del mutamento. Lombroso e Ferri distinguono, a questo proposito, tra rivoluzione e ribellione, mentre Durkheim e Mauss discutono di effervescenza collettiva che può generare mutamento e di “condotte morbose” che producono soltanto distruzione. I sociologi di Chicago, a loro volta, parlano di violenza dall’alto, e offrono un’analisi estremamente interessante dell’azione collettiva, violenta o meno, dal basso.


Che violenza è quella del terrorismo?

Una forma di violenza “pura”, cieca, che non colpisce obiettivi umani specifici per delle responsabilità loro precisamente attribuibili, ma interi gruppi di civili non combattenti, popolazioni ritenute collettivamente responsabili di un misfatto. Parlo della guerra contemporanea e del cosiddetto terrorismo internazionale, ai quali attribuisco la capacità di “clonarsi” l’un l’altro. Se identifichiamo i tratti comuni di queste due forme di violenza politica “pura”, dobbiamo concludere che la strada per il cambiamento sociale sarà una strada non violenta. Non si può somigliare troppo al proprio antagonista, non si può parlare la stessa lingua del nemico, non possiamo fare oggi quello che non faremmo mai in una ipotetica società futura.

Per questo motivo, nell’ultimo capitolo di questo libro, elaboro un’ipotesi di criminalizzazione della guerra: si intenda bene, non parlo di crimini di guerra, ma di guerra come crimine. Mi rendo conto di quanto sia controversa una simile operazione teorica, e soprattutto come sia discorde da una tradizione politica ancora molto radicata. La violenza, si dice, è la leva della storia; la guerra, si predica, può essere trasformata in guerra rivoluzionaria. Il che è come dire che l’industria della morte è comunque un’industria, e come tale porta sviluppo, prosperità, liberazione. Chi crede che criminalizzando la violenza istituzionale si debba poi rinunciare all’uso della violenza “rivoluzionaria” mi ricorda un po’ quegli elettori italiani che temono la criminalizzazione dei grandi evasori fiscali in quanto dovranno magari rinunciare alle proprie piccole evasioni, alle loro irregolarità anguste e miserabili. E’ come accettare le devastazioni, le aggressioni, i democidi e le torture perpetrate dai potenti in nome del proprio diritto di lanciare una bottiglia molotov.










ANSA, 30.04.06
Cardiopatie, dipendono dalla testa
Si rafforza legame con la depressione


Uno studio ha permesso di dimostrare che le malattie cardiovascolari dipendono dal nostro cervello. Condotta a Ravenna l'indagine ha dimostrato che i pazienti con cardiopatia cardiovascolare ischemica hanno una composizione di acidi grassi all'interno delle membrane piastriniche sovrapponibile a quella di casi di depressione. Se dovesse essere confermata si tratterebbe della prima dimostrazione della relazione tra patologie cardiovascolari e depressione.








Corriere della Sera, 30.04.06
Nassiriya, battezzato con vicino bara del papà
Il piccolo Niccolò, figlio del capitano Ciardelli, riceverà il sacramento mercoledì a Pisa, subito prima dei funerali del padre


ROMA - E' stata aperta al pubblico la camera ardente all'ospedale militare del Celio con le bare dei tre militari italiani caduti a Nassiriya. Centinaia di persone in fila fin dalla mattina a cui si sono mescolati i leader politici. E dalla famiglia del capitano della Folgore Nicola Ciardelli giunge la notizia che il piccolo Niccolò, due mesi, figlio dell'ufficiale scomparso sarà battezzato con in chiesa la bara del padre. Così ha voluto la giovane vedova dell'ufficiale e mamma di Niccolò, Giovanna Netta.

BATTESIMO - A spiegarlo è il vescovo di Pisa, monsignor Alessandro Plotti, che mercoledì mattina prossimo celebrerà il battesimo del piccolo e subito dopo i funerali di Nicola Ciardelli, nella chiesa di San Nicola a Pisa, la parrocchia dell'ufficiale. «La povera mamma - spiega monsignor Plotti - aspettava il marito per battezzare Niccolò. Ora è morto, ma vuole che il battesimo sia fatto comunque presente il padre. È un segno di speranza, legare la morte alla vita». Monsignor Plotti ha spiegato che la salma di Ciardelli sarà trasferita martedì sera alla caserma della Brigata Folgore di Livorno, per la camera ardente. Mercoledì alle 9.30 è previsto l'arrivo della bara nella chiesa di San Nicola. Alle 10.30 il battesimo del piccolo Niccolò e alle 11 ci sarà la messa funebre.
CAMERA ARDENTE - Tre bare avvolte dal tricolore su un tappeto rosso davanti l'altare della cappella del Celio, con alle spalle la corona di fiori del presidente della Repubblica. Così si presenta la camera ardente dei tre caduti di Nassiriya, oltre al capitano Ciardelli, sono morti nell'attentato anche i marescialli Carlo De Trizio e Franco Lattanzio. Le bare sono vegliate dai parenti e da un picchetto di carabinieri e parà: la bara dell'ufficiale dell'esercito è posizionata al centro mentre quelle dei due marescialli sono posizionate ai lati. In un silenzio irreale i primi a rendere omaggio sono stati i vertici della Difesa, con il Capo di Stato maggiore ammiraglio Gianpaolo di Paola, e il capo di Stato maggiore dell'Esercito generale Filiberto Cecchi. Primo ad arrivare del mondo politico il sottosegretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta, seguito dal leader della Margherita Francesco Rutelli. Subito dopo Romano Prodi, Piero Fassino e Massimo d'Alema.
IL TRIBUTO DELLA GENTE COMUNE - Successivamente un flusso ininterrotto di centinaia di persone è venuto a rendere omaggio alle salme. La gente entra a scaglioni e si ferma un attimo prima di entrare nella cappella proprio di fronte alle corone di fiori delle più alte cariche dello Stato. A queste corone si aggiungono i fiori delle tante persone comuni che hanno così voluto testimoniare la loro vicinanza ai tre caduti. All'interno, davanti alle tre bare, la tensione dei presenti si scioglie in commozione: papà con bambini, suore, persone anziane sostano di fronte ai feretri avvolti nel tricolore dove poggiano spada e berretto dei militari. Ai lati delle bare due file di sedie per ospitare i familiari ai quali ogni tanto qualcuno vuole tributare la propria riconoscenza.












Corriere della Sera, 30.04.06
Volume ridotto della materia grigia tra le conseguenze
Cocaina, fumo, alcol: danni a cervello feto
Due studi presentati a uin congresso americano provano gli effetti deleteri sullo sviluppo celebrale dei nascituri


SAN FRANCISCO - Cocaina, fumo e alcol durante la gravidanza possono danneggiare anche gravemente lo sviluppo cerebrale del feto. Lo provano due studi presentati durante il congresso delle Società americane di pediatria, in corso a San Francisco. Le possibili conseguenze sono problemi comportamentali nel bambino negli anni successivi.
«Vari studi con immagini ad alta definizione - ha affermato il neurologo Michael Rivkin, del Children's Hospital di Boston - hanno dimostrato che bambini esposti a cocaina durante il periodo della gestazione presentano un volume nettamente minore della massa cerebrale e ridotta materia grigia corticale. Inoltre, anche bambini esposti, sempre mentre erano in utero, a fumo di sigaretta e alcol - ha aggiunto l'esperto - presentavano simili caratteristiche». Rivkin è arrivato a questi risultati studiando un campione di 35 bambini tra i 10 e i 14 anni, una parte dei quali avevano avuto un'esposizione prenatale alla cocaina. Gli effetti deleteri sul feto di queste sostanze assunte da donne in gravidanza sono stati confermati anche da un secondo studio, condotto dall' Uk College of medicine in collaborazione con varie università americane: lo studio, che ha coperto un periodo di nove anni, ha dimostrato che i bambini con esposizione prenatale a cocaina, alcol e fumo, presentano nella maggioranza dei casi esaminati, problemi e turbe comportamentali che si protraggono nel tempo almeno fino all' età di nove anni.
FUMO - I ricercatori statunitensi hanno anche confermato la pericolosità del fumo passivo, dimostrando un collegamento tra esposizione al fumo di sigaretta e aumento dei problemi comportamentali. La ricerca in questo caso è stata condotta dal Cincinnati Children's Hospital su un campione di 225 bambini esposti al fumo di almeno cinque-dieci sigarette al giorno. Gli esperti hanno misurato il livello di nicotina nell'organismo dei ragazzi ed hanno così rilevato che in quelli nei quali maggiore era l' esposizione al fumo maggiori erano anche i comportamenti patologici collegati a stati di ansietà e depressione, problemi comportamentali nei confronti dei genitori e nei rapporti con gli altri.













ANSA, 03.05.06
Creati topi con disturbi autistici
I dati resi noti dalla rivista specializzata Neuron


Sono nati i primi topolini con un disturbo simile all'autismo; aiuteranno a svelare i misteri nascosti dietro questa complessa malattia. Gli animali sono stati creati dall'equipe di Luis Parada della University of Texas Southwestern Medical Center di Dallas, togliendo il gene 'PTEN'. La rivista Neuron riferisce che i sintomi manifestati suggeriscono la localizzazione anatomica di alcune delle aree cerebrali coinvolte nell'autismo e potrebbe favorire la comprensione della malattia.








ANSA, 04.05.06
Un giovane su 10 ha la vocazione
E' quanto emerge da un'indagine San Paolo/Eurisko


Almeno un giovane italiano su dieci ha considerato l'idea di farsi prete o suora. E' quanto emerge da un'indagine San Paolo/Eurisko su un campione rappresentativo di oltre mille italiani tra i 16 e i 29 anni. Per seguire questa via occorre pero' rinunciare a troppe cose, e per sempre. Cio' che spaventa e' soprattutto la solitudine.I giovani considerano la vocazione una forma di auto-realizzazione nell'impegno per se' e per gli altri.








ANSA, 04.05.06
Un mantello per l'invisibilita'
Superlenti potrebbero rendere oggetti invisibili, Studio


Il 'mantello dell'invisibilita' potrebbe diventare realta' grazie agli studi di due matematici. In un articolo pubblicato sui Proceedings of the Royal Society i due scienziati descrivono un ipotetico dispositivo che potrebbe rendere invisibili gli oggetti posti vicino ad esso, anche se solo ad alcune specifiche lunghezze d'onda. Il 'mantello' funzionerebbe grazie alle proprieta' di un materiale recentemente scoperto, e usato per produrre superlenti.









ANSA, 09.05.06
Molecole alla base dell'attrazione
La ricerca dell'Istituto di Stoccolma


Un cocktail di molecole che scatenano il desiderio e circuiti nervosi sono alla base delle preferenze sessuali. Lo dice una ricerca condotta in Svezia dall'Istituto di Stoccolma per le ricerche sul cervello. I ricercatori hanno osservato gli effetti che i feromoni, molecole dell'attrazione sessuale, provocano nell'ipotalamo, parte anteriore del cervello. Risultato: l'omosessualita' femminile e' controllata da meccanismi diversi da quelli dell'omosessualita' maschile.











Repubblica, 08.05.06
"Scoppia" una coppia su due. Un milione di divorzi all´anno
Italia, aumento del 62% in 10 anni degli addii definitivi
Il rapporto dell´Istituto di politica familiare
Alberto D´Argenio


Ogni 33 secondi si rompe una famiglia europea. Il che, facendo le somme, corrisponde a un milione di divorzi all´anno all´interno dell´Ue, dove ormai la metà degli coniugi sceglie la via della separazione. E in Italia le cose non vanno certo bene, visto che negli ultimi 10 anni i divorzi sono aumentati del 62%.
È decisamente allarmante il rapporto dell´Istituto di politica familiare che sarà presentato domani al Parlamento europeo da Jaime Mayor Oreja, europarlamentare del Partito popolare europeo ed ex ministro degli Interni nel governo spagnolo di Josè Maria Aznar.
Lo studio dell´istituto indipendente spagnolo, secondo quanto scritto dall´edizione on line del quotidiano iberico Abc - si chiama «Evoluzione della famiglia in Europa 2006» e avverte che negli ultimi 25 anni nel Vecchio continente i casi di divorzio sono aumentati del 50%. Il che, tradotto in numeri, significa che ogni anno si rompono circa 315 mila familgie in più rispetto al 1980. Allora i matrimoni che finivano male erano 637 mila, mentre nel 2004 sono stati più di 955 mila. Un dato che l´istituto, a buon ragione, definisce «preoccupante», soprattutto se accostato al numero complessivo dei cittadini dell´Unione europea, che sono poco meno di 500 milioni.
La maglia nera dell´aumento delle rotture famigliari spetta al Portogallo, con una crescita dell´89% nell´ultimo decennio. Seguono l´Italia (62%) e la Spagna (59%), dove sono stati tenuti in conto solo i dati sui divorzi ignorando quelli sulle separazioni. Ma per l´istituto un dato «ancora più preoccupante» è quello che mette in relazione il numero di matrimoni celebrati con il totale di quelli falliti. E il risultato è sconcertante: in Europa una coppia sposata su due decide di divorziare. Il che, spiega lo studio, è dovuto anche alla diminuzione di nozze, ma soprattuto all´aumento delle rotture.
A confermare l´allarme è anche Eurostat, l´Ufficio statistico dell´Unione europea, secondo cui nel 2004 ogni 1000 persone ci sono stati 2,1 divorzi. L´Italia è decisamente sotto media, con 0,8 rotture, ma ad allarmare è la loro dinamica, visto che nel 1993 erano solo 0,4. E le famiglie più litigiose sembrano essere quelle baltiche. In Lituania i divorzi sono stati 3,2 per mille persone, mentre in Estonia 3,1. Decisamente difficile anche la vita anche nelle case del Belgio, con la media di 3 divorzi per mille. I più romantici sembrano essere greci e sloveni, con 1,1 e 1,2 divorzi per mille. E dai numeri di Eurostat sembra emergere una curiosa novità: forse l´euro non fa poi così male alle famiglie, visto che nei dodici paesi che hanno adottato la moneta unica la media dei divorzi è inferiore a quella Ue, con l´1,9 per mille.












Repubblica, 24.04.06
Basaglia docet, ma a Berlino è meglio


Ricevo appelli angosciosi da molti famigliari di malati di mente che non trovano accoglienza nelle insufficienti strutture territoriali diurne oggi operanti ma in numero e qualità di gran lunga insufficiente di quanto la legge Basaglia presupponeva. Una lettera da Venezia solleva il caso particolare dell´assistenza agli affetti dal «disturbo bipolare» (un tempo chiamata psicosi maniaco-depressiva) che, a seconda del suo grado, assume caratteristiche particolarmente gravi, che spaziano dal suicidio alla allucinazione, confusione mentale, aggressività. A differenza della schizofrenia non provoca, però, demenza perché è una malattia dell´affettività, non del pensiero.
Chi mi scrive è il prof. Cesare Dal Palù, il quale, assieme alla moglie, ha creato una associazione di volontariato (Minerva) per soccorrere questo tipo di malati, per lo più giovani fra i 18 e 35 anni. «La psicoterapia – spiega – che tanta importanza ha per la cura di questi pazienti è quasi assente nelle strutture pubbliche. Quanto ai Servizi Asl di diagnosi e cura sono esclusivamente distributori di farmaci». Nella lettera sono elencate alcune esigenze essenziali: «1) Organizzare un servizio di assistenza domiciliare, più adatta ad affrontare i casi più gravi quando il paziente rifiuta la cura ambulatoriale; 2) Un numero verde cui ricorrere in caso di emergenza; 3) Istituzione di centri diurni sette giorni su sette, specificamente dedicati al «disturbo bipolare» in cui si organizzi tutta la giornata del paziente e si attui la psicoterapia sociale per aiutarlo a superare le fobie che persistono; 4) Istituzione di una agenzia del lavoro dove con l´aiuto di tutors e la valutazione continua dello psichiatra si metta in grado il paziente di utilizzare la sua riacquisita abilità lavorativa e la sua creatività (spesso si tratta di persone intellettualmente molto dotate); 5) Rafforzare le strutture territoriali dedicate alle patologie psichiche, respingendo la tentazione di ripristinare i manicomi (che invece si vanno moltiplicando sotto la dizione di «residenze protette» a conduzione privata); 7) Istituzione nelle Università di corsi di specializzazione specifica delle patologie psichiatriche più gravi (disturbo bipolare e schizofrenia)». Ho chiesto in proposito un parere a Mauro Mancia, professore emerito di neurofisiologia alla Statale di Milano, nonché rinomato psicoanalista.
Riassumo il suo pensiero: «La legge 180 è stata un´operazione di grande valore. Del manicomio veniva fatto un uso perverso e liberticida del paziente da giustificarne la chiusura. La soluzione di Basaglia non è stata però sufficiente ed incorreva in due errori che hanno avuto riflessi negativi nella assistenza psichiatrica: a) Il suo presupposto ideologico per cui la malattia mentale sarebbe il risultato di un abnorme rapporto dell´individuo con la società non teneva conto che la psicosi si sviluppa nelle primissime relazioni del bambino con la madre e l´ambiente in cui cresce ed è, pertanto, la famiglia, e non la società nel suo insieme, responsabile della sofferenza mentale di un individuo; b) Il rifiuto della psicoanalisi e la negazione della psichiatria come scienza medica capace di prendersi cura di un malato di mente, specie se affrontato precocemente».
Da ciò risulta che non è pensabile riaffidare alla famiglia uno psicotico che ha trovato proprio nella famiglia, fin dall´infanzia, le cause del suo disturbo. Non è, però, neanche possibile affidarlo sic et simpliciter al territorio, dove riceve quasi esclusivamente delle terapie farmacologiche.
«La soluzione migliore ci viene dalla Germania. Qui sono stati creati, sia a livello universitario che ospedaliero, istituti di psicoterapia e psicoanalisi o istituti specializzati in malattie psicosomatiche dove, in day hospital, si praticano cure farmacologiche, psicoterapiche, psicoanalitiche, di lavoro-terapia, arte-terapia, musico-terapia. In questo ambito il paziente viene seguito tutto il giorno con varie modalità terapeutiche di contenimento che hanno come finalità quella di reinserirlo, dopo un adeguato periodo, nella società e nel sistema lavorativo - In Germania questa organizzazione è a carico del sistema assicurativo pubblico che paga sia quote elevate di sedute annuali che altre forme di terapia istituzionalizzata e privata. Non si tratta, come è evidente, di ricreare ospedali psichiatrici ma istituzioni nuove, fondate sull´assistenza giornaliera, 7 giorni su 7, dove il paziente sia trattato con assoluta dignità e competenza. In tal modo, inoltre, si liberano le famiglie da un peso insostenibile». Argomenti importanti per l´agenda del prossimo ministro della sanità.
















Repubblica, 24.04.06
La sanità pubblica e l´offesa ai malati
FRANCO LA SPINA


La sanità pubblica in Italia non è solo uno scandalo, ma anche una offesa. Offesa ai pazienti, per lo scadere del livello delle cure. Offesa agli operatori sanitari per l´impossibilità di lavorare meglio, come nella stragrande maggioranza vorrebbero. Offesa alla dignità e al buon senso dell´opinione pubblica che è esposta ad un continuo balletto delle cifre (i soldi che non ci sarebbero), e delle responsabilità, rimpallate tra ospedali, Asl, regione e governo centrale (soldi mal spesi, mai arrivati, progetti faraonici senza copertura, ministri inquisiti, ecc…). Ma se si parla di psichiatria la melassa delle molteplici responsabilità ed incapacità si discioglie in limpido, ufficiale e cristallino menefreghismo. Tanto di quelli, i malati psichiatrici, non importa proprio a nessuno. Ma attenzione: il punto di forza di questo partito trasversale che non s´indigna, tace di fronte all´ingiustizia della sofferenza psichica dimenticata, anzi vi collabora con attiva partecipazione ai concorsi, al potere di piccolo cabotaggio ospedaliero, attivandosi soltanto e soprattutto per ciò che profuma, olezza, puzza di "carriera", è la paura.
Sì, proprio la nostra la paura che la follia incute e che frena l´opinione pubblica dal reagire con una decisa presa di posizione. In difesa di chi, per la propria condizione psicopatologica, da solo non può difendersi. I malati. Molto di più di altre malattie, e più sottilmente, la malattia mentale induce paura: nella follia c´è una diversità avvertita come clamorosa, e spesso si indulge a pensare che sia questa diversità, essa sola, a spaventarci. Invece ciò che più ci turba è la somiglianza con il malato: l´origine della sua follia, cioè, che è strettamente legata allo sgomento per il non-senso della condizione umana. Una radice comune lega la nostra "sopportazione" di una esistenza misteriosa e inquietante, con l´incapacità di sopportare l´esistenza che è tipica del malato psichico, ed i suoi modi di difendersene. La radice comune che ci fa allontanare dai problemi della psichiatria è l´angoscia esistenziale, la nostra. Il fatto che tre centri psico-sociali rischino di chiudere per mancanza di fondi, che due grandi ospedali milanesi corresponsabili, solo ora, nell´emergenza, rimpallino responsabilità sulla Regione, che in questi anni ha determinato il disastro economico della sanità ed adesso rinfaccia al governo di non aver ricevuto adeguati stanziamenti è una vaudeville messa in scena da attori principianti e con ben altra vocazione. Duemila malati l´anno è l´attività operativa di questi centri, attività di assistenza messa in forse dalla prospettiva di una sciopero per la sospensione del pagamento degli stipendi. Certo lo scandalo è sui giornali e qualcuno si precipiterà a raccontarci che c´è rimedio. C´è sempre un rimedio, quando per tappare un buco se ne apre un altro, ben occultato, fino a quando verrà a galla anche quello. E noi saremo qui a scriverne stupiti, sempre meno, indignati, sempre meno, sfiduciati sempre di più. Mi tornano in mente ricordi recenti di tese discussioni al capezzale del malato da dimettere rapidamente per rimanere in tempi di ricovero compatibili con il budget di spesa, e di dialoghi con politici, sordi di fronte alle mie argomentazioni cliniche, che mi invitavano a leggere i loro discorsi parlamentari. Spiace dirlo, ma che pena! Che fare? La psichiatria è così delicata ed importante che non la si può lasciar gestire da primari, amministratori e politici. Urge l´intervento di tutti gli psichiatri che sentano in loro lo spirito di cittadinanza e non altre sirene.










Una segnalazione di Piergiuseppe Cancellieri:
Sospsiche.it, 06.05.06
Freud, psicoanalisi e psichiatria: ricordiamolo anche per i demeriti


Non c'è alcuna prova che la psicoanalisi sia utile per gli schizofrenici, anzi alcuni la ritengono dannosa. Teorie come le "cattive madri" hanno avuto per padre Freud e seguaci che le hanno distorte e amplificate. Oggi tutto fa parte di un passato da ricordare come disastroso nella cura della schizofrenia. Freud va ricordato per i meriti nel campo delle nevrosi, le scuole a lui ispirate vanno citate per i grandi demeriti nel campo delle psicosi.

Freud e le teorie sulle “cattive madri”
Nel secolo scorso le teorie sulle "cattive madri" o meglio "inadeguate o incapaci" hanno avuto una larga eco come base della causa della schizofrenia. Siccome molte persone pensavano e credevano di avere delle madri cattive e molte tra queste erano affette da schizofrenia, fu teorizzato che le due cose erano relazionate.
Cosa ne sapeva Freud degli schizofrenici?
I più grandi sostenitori di queste teorie erano molti seguaci delle teorie sulla psicoanalisi del dr. Sigmund Freud. Freud di per sè non ne sapeva nulla sulla schizofrenia. Nel 1907 riconobbe in una lettera che "raramente vedo dementi (così a suo tempo venne chiamata la dementia praecox, l'odierna schizofrenia).

Nel 1911 Freud pubblico la sua analisi su un uomo, Daniel Schreber, che soffriva causa una schizofrenia di tipo paranoide. Freud concluse che Schreber soffriva "a causa di un conflitto sulla sua inconscia omosessualità" che provocò un complesso di Edipo all'inverso. Fatto incredibile, Freud non esaminò mai Schreber ma si limitò a leggerne le memorie. Fred più tardi scrisse a una amico che "Non mi piacciono questi pazienti [gli schizofrenici] ... li sento così distanti da me e da qualsiasi altro essere umano. Una stano tipo di intolleranza, che sicuramente non fa di me uno psichiatra".

La perdita di interesse di Freud nei confronti della schizofrenia non dissuase i suoi seguaci dall'applicare le sue teorie rispetto a questa malattia. Dagli anni '40 e negli anni '50 le teorie di Freud sulla schizofrenia furono largamente credute negli Stati Uniti [ndr.: in Europa con intensità maggiore, ancor oggi...]. Per esempio nel 1949 quando il Dr. Trude Tietze pubblicò un studio largamente citato su 25 madri di schizofrenici, concluse che "tutte le madri sono ansiose e ossessive, tutte erano dominanti... Il loro proprio sviluppo sessuale era rimasto imprigionato e le loro idee distorte sul sesso si riflettevano sullo sviluppo sessuale dei propri figli". Come in tanti altri studi sulle teorie di Freud, Tietze non usò alcun tipo di "controlli" nel loro svolgimento (es. confronti con popolazione normale, ecc.).

Molti studi hanno oggi dimostrato che la psicoterapia proposta da Freud e seguaci non ha alcun valore per la schizofrenia.

Gli studi di May
Con tutta probabilità il migliore di questi studi fu fatto dal dr. Philip R. A. May e colleghi all'ospedale di Stato di Camarillo in California. May assegnò in modo casuale 228 pazienti con schizofrenia suddividendoli in cinque reparti diversi dove essi venivano trattati da (1) solo psicoterapia, (2) psicoterapia con farmaci (3) solo farmaci (4) solo di tipo ambientale (5) terapia elettroconvulsivante. I pazienti che stavano meglio erano quelli trattati con i soli farmaci oppure quelli trattati con farmaci insieme a psicotgerapia; quelli che stavano peggio erano quelli che erano trattati tramite la sola psicoterapia o solo di tipo ambientale. L'incontroverbile conclusione è che l'aggiunta di psicoterapia non è di alcun aiuto nel trattamento. Questi pazienti sono stati seguiti dai tre ai cinque anni dopo un trattamento di tipo iniziale e e risultati non cambiarono: "L'analisi della varianza indicò un significativo ed estremo effetto dei farmaci a fronte di una insignificante efficacia della psicoterapia".

Gli studi di May furono criticati da alcuni per aver utilizzato la psicoterapia in forma "non intensiva" abbastanza e per averlo fatto da psicoterapeuti che non avevano una buona esperienza. Fu svolto un altro studio, all'uopo progettato per trattare pazienti affetti da schizofrenia con un orientamento psicoanalitico di tipo psicoterapico (due ore alla settimana per due anni) usando terapeuti di elevata esperienza. Alla fine del periodo di studio si concluse che, nonostante la presenza di psicoterapeuti esperti "la psicoterapia da sola non produsse risultati o ne produsse veramente pochi nei confronti delle persone affette da schizofrenia". Tali studi furono riassunti da Donald Klein, uno degli psichiatri Americani più rispettabili: "non ci sono basi scientifiche per affermare che i benefici clinici ci siano nei confronti dei pazienti schizofrenici utilizzando la psicoterapia individuale".

Ci sono anzi diverse prove che la psicoanalisi e la psicoterapia orientata al sè (introspettiva) non siano di alcuna utilità per la schizofrenia, anzi addirittura nocive. Nello studio di May ad esempio "l'andamento di chi si era sottoposto alla psicoterapia era significativamente peggiore se confrontato con il gruppo di controllo di chi non aveva seguito alcun trattamento". In altre parole, pur non seguendo alcun trattamento il gruppo analizzato godeva di migliore salute mentale rispetto a quello che si era sottoposto alla psicoanalisi tramite la sola psicoterapia.

Con la psicoanalisi i pazienti si ammalano ancor di più
Alla luce delle attuali conoscenze sui cervelli degli schizofrenici non dovrebbe essere sorprendente capire che la psicoterapia di tipo introspettivo li rende ancor più malati. Tali persone sono state sovraccaricate da stimoli esterni ed interni e stanno tentando di dare un qualche ordine al loro caos. Nel bel mezzo di questo di tutto questo lo psicoterapeuta chiede a loro di districare le più profonde motivazioni dell'inconscio, un compito veramente difficile anche se assegnato a una persona alla quale il cervello funziona perfettamente [ndr: gli schizofrenici notoriamente non riescono a concentrarsi, a capire un discorso e sono disturbati da voci interne].

L'inevitabile conseguenza è di aggiungere l'insulto alla ingiuria, scatenando una cacofonia di pensieri repressi e desideri in un vortice interiore già esistente. Fare la psicoterapia interospettiva con le persone affette da schizofrenia è come dirigere un flusso d'acqua su una città già devastata da un tornado, o ancor meglio per usare un'altro paragone tratto da un recente articolo dal titolo "Gli effetti collaterali da un trattamento intensivo della schizofrenia cronica", la psicoterapia introspettiva è "analoga a riversare olio bollente su vecchie ferite, ignorando di fatto che la schizofrenia è caratterizzata da una particolare vulnerabilità della persona qualora esposta a relazioni sovrastimolanti, sollecitazioni di tipo negativo e intenso nonchè pressioni per un rapido cambiamento".

Va sottolineato che molte persone (inclusi diversi professionisti nel settore della salute mentale) ancora oggi credono erroneamente che la terapia introspettiva sia efficace per trattare la schizofrenia [ndr.: questo avviene in europa dove si crede che la famiglia sia la causa della malattia e la psicoanalisi sia la soluzione].

Il dott. F. Torrey, autore di questo articolo, afferma di aver incontrato famiglie che hanno dovuto sostenere spese da 100.000 dollari a 200.000 dollari l'anno per sottoporre il proprio congiunto a un trattamento psicoterapico basato su psiconalisi presso ospedali privati. Questa purtroppo è una delle aree della medicina Americana, continua Torrey, che non solo è provata come inutile se non nociva, ma che può essere legalmente prescritta e pagata dal cittadino.


Riconoscere il ruolo nocivo della psicoterapia introspettiva verso i pazienti affetti da schizofrenia non è una novità. In uno studio del 1976 sugli effetti nocivi delle psicoterapia, Hadley e Strupp. Nel 1978 il presidente della Commissione per la Salute Mentale negli Usa osservò che "ci sono numerose prove che indicano che alcuni pazienti schizofrenici cronici rispondono in modo avverso ai trattamenti di tipo psicologico". Brevenente perciò il dr. Gerald Klerman, al tempo uno degli psichiatri più considerati a livello governativo e famoso ricercatore, riconobbe che "recenti prove indicano che una psicoterapia di tipo intensivo può avere effetti negativi nel trattare la schizofrenia".

Quale è, allora, il giusto ruolo della psicoanalisi e della psicoterapia introspettiva nel trattare la schizofrenia?
Non ve ne è alcuno, anzi dovrebbe essere esplicitamente sconsigliata ed evitata. In uno studio riassunto dal Dr. T. C. Manschreck pubblicato nel New England Journal of Medicine del 1981, raggiunse la seguente conclusione: "offrire [come soluzione di cura] la tradizionale psicoterapia come trattamento dei disturbi schizofrenici è da considerarsi inadeguato e possibilmente una azione negligente. La psicoanalisi e le terapie psicoterapiche introspettive si sono dimostrate di ben poco valore nel trattare queste patologie."

Alla luce delle conoscenze attuali si sa che trattare la schizofrenia con questi approcci terapeutici non solo costituisce una negligenza, ma una vera e propria malaprassi sanitaria. Gli operatori che sostengono tali trattamenti dovrebbero essere tacciati d'applicare un tipo di terapia superata e vetusta, come fossero dei sopravvissuti alle guerre ispano-americane o delle ere più remote.



















Liberazione, 04.05.06
Pedofilia:Lecce, arrestato parroco già ai domiciliari


Don Donato Bono, parroco di Sternadia (LE), già agli arresti domiciliari per aver compiuto atti osceni con un dodicenne a bordo della sua vettura, è stato arrestato con l’accusa di aver tentato di inquinare le prove a suo carico. Il parroco ha compiuto pressioni sui genitori del minorenne affinchè revocassero la denuncia. Ora è stato trasferito nel carcere di Lecce.

















Liberazione, 07.05.06
Bertinotti saluta i lettori di Liberazione
Continueremo a discutere, ma in modi nuovi


Chissà quanto sarebbe durata ancora questa nostra consuetudine di scriverci pubblicamente sul nostro giornale, ogni domenica.
E’ stata una buona abitudine, come un “prendiamoci una cosa insieme”, una pausa di riflessione suggerita da un rapporto che si attiva in un incontro, un incontro che diventa pubblico ma rimane nostro. Chissà quanto sarebbe durato ancora.
Invece è buona educazione politica che si fermi qui, mentre eleggiamo il nuovo segretario del nostro partito e io (chi l’avrebbe detto) divento presidente della Camera dei Deputati. Così questa è soltanto l’occasione per un augurio fraterno a Franco Giordano, a tutte e tutti voi e l’occasione per riconfermare la partecipazione condivisa a quella staordinaria comunità di donne e di uomini che è il Prc, un partito che si giova di un giornale bello e prezioso come Liberazione.
Abbiamo dinanzi a noi e con la nostra gente tanta strada da fare. Delle sue difficoltà e delle tante speranze che ci animano continueremo a discorrere insieme nei modi nuovi che ci sono richiesti dalla nuova realtà. Non ora e non qui. Questo è solo un abbraccio, perché è certo che continueremo a camminare insieme.
Grazie molte di tutto. Vi voglio bene. Buona domenica e buona fortuna.
Fausto Bertinotti












Liberazione, 07.05.06
Stamane il Comitato politico nazionale elegge il nuovo segretario.
Ci sarà anche il Presidente della Camera.
Discussione vera ieri nell’esecutivo e nella direzione che hanno preceduto l’assemblea di oggi.
Il dopo-Bertinotti comincia con Giordano
Stefano Bocconetti


Ciccio Ferrara, neodeputato, della segreteria di Rifondazione, prende il microfono quando sono le due del pomeriggio. Dopo una ventina di interventi, altrettanti ce n’erano stati nel primo giorno dei lavori della direzione e dell’esecutivo, giovedì. Non sono conclusioni le sue, né tenta un sintesi della discussione. Che del resto proseguirà stamane nel Cpn. Si alza dalla presidenza e prende il microfono quasi solo per «dare forma» a quello che tutti avevano sentito. «Sul nome di Giordano c’è un’amplissima maggioranza, che conferma l’indicazione venuta dalla consultazione di queste settimane». Sarà dunque Giordano il candidato che stamane si sottoporrà al voto del «parlamentino» di Rifondazione. Non sarà il solo candidato comunque: in lizza - l’annuncio è di ieri - ci sarà anche Marco Ferrando. Leader di una delle minoranze del partito, “Progetto comunista” che, sulla carta, può contare su 7 voti su 260.

Giordano ad «amplissima» maggioranza, dunque. Non all’unanimità. Avrà l’astensione delle due minoranze più consistenti (Essere comunisti, astensione confermata ieri da Grassi, e Sinistra Critica, anche se un gruppo di dirigenti che avevano votato la seconda mozione ha annunciato il voto favorevole a Giordano) e il «no» della quinta mozione. Anche lì, comunque, una manciata di voti.

Giordano sarà così segretario. Ma non senza discussione. La prova, proprio in questi due giorni di dibattito che hanno preceduto il Cpn. Due giorni difficilissimi da sintetizzare. Segnati da un tema sopra agli altri: il «salto» generazionale. Che significa? Di che si è parlato? Alfonso Gianni è stato il primo ad introdurre l’argomento. Con toni polemici. Ha ricordato che all’ultimo congresso di Rifondazione, il partito ha scelto la strada dell’innovazione. Politica, culturale. Il partito ha scelto la strada del rinnovamento del gruppo dirigente, valorizzando quella che è stata definita la «generazione di Genova». E allora per Alfonso Gianni, Franco Giordano non corrisponde all’identikit del segretario che si era provato ad immaginare a quelle assisi. Da qui, l’annuncio della sua astensione. Anche se poi, parlando con i cronisti dopo la notizia della candidatura di Ferrando, Gianni ha spiegato che «non vuol correre il rischio di apparire equidistante fra i due». Per cui vuole pensarci ancora un po’.

Ricambio generazionale, si diceva. Che deve avere un «valore simbolico». Per esempio, Ramon Mantovani ha annunciato il suo no a Giordano spiegando che forse è arrivato il momento di far emergere una classe dirigente del partito che non sia «ex». Che non venga, insomma, dal Pci o da Democrazia Proletaria. «Che sia maturata dentro Rifondazione». E forse «più coraggio» lo avrebbe preteso anche Graziella Mascia, vice capo gruppo alla Camera. Che stamane voterà Giordano segretario ma è pure lei convinta che il congresso di Venezia abbia fatto, in modo irreversibile, una scelta che modifica il modo di fare politica: la scelta di essere dentro i movimenti. Una scelta, pure questa esplicita, che prevedeva l’«investimento sulla generazione di Genova». Che doveva essere promossa subito.

Ma di chi si parla? A quale gruppo dirigente alternativo si fa riferimento in questi interventi? Ecco il punto. Molti - a cominciare da Rina Gagliardi l’altro giorno, per arrivare ieri a Patrizia Sentinelli e a Russo Spena - hanno polemizzato con i primi interventi sostenendo che l’affermazione della generazione di Genova non può essere banalizzata, riducendola ad un ricambio «biologico». Chi è sotto la soglia di una certa età è promosso, chi la supera è bocciato. Genova, la «generazione di Genova» non può essere definita solo anagraficamente. Lo ripeterà anche Ferrero, secondo il quale il «patrimonio di Genova, e le elaborazioni ad esso connesse - in soldoni: cos’è Rifondazione oggi - sono un problema di cultura politica e non una questione di età». Genova, insomma, ha ridisegnato il rapporto fra politica e movimenti, ha ridisegnato le stesse regole dei movimenti, ha tratteggiato una nuova idea del rapporto fra politica e sociale. Ed ha costretto tutti a farci i conti. No, non è un problema solo anagrafico. Tanto più che il giovane segretario della federazione di Napoli, De Cristoforo ha spiegato esattamente come il problema non è quanto simbolicamente sia innovativa la figura del segretario (e per lui comunque Giordano lo è), quanto invece conti innovare, sul serio, la forma partito. Ancora oggi sclerotica, accentratrice. Che non fa i conti con quel che davvero è accaduto in questi anni nelle regioni, nei territori. Dove da tempo «vive» l’idea di far parte dei movimenti, di animare i movimenti. Un’idea che accomuna tutti, giovani e meno giovani.

Venezia, allora. Ma anche qui, occorre intendersi. Per Rina Gagliardi - ma anche per Elettra Deiana che nella sua storia di militante per troppe volte ha visto trasformare tappe importanti in totem indiscutibili: dal 68, al 77 via via fino a oggi -, per Rina Gagliardi, si diceva, il congresso di Venezia è l’appuntamento che ha disegnato quella Rifondazione che ha poi vinto le elezioni, ha eletto il suo segretario alla Presidenza della Camera e si appresta alla «terribile» prova del governo. «Ma oggi si apre una fase completamente diversa». Allora, per lei, il richiamo a Venezia non è un atto fideistico. L’ultimo congresso, insomma, ha soprattutto insegnato un metodo: quello dell’innovazione. Che non è dato una volta per tutte, che non segna mai punti di approdo definitivi. Ma che, appunto, è un metodo. Da applicare alle diverse fasi che si affrontano. E oggi l’innovazione significa costruire, la Sinistra europea.

Ma su Venezia non la pensa allo stesso modo Gennaro Migliore. Il suo è stato uno degli interventi più seguiti, anche dai giornalisti. Visto che il suo nome è circolato in questi mesi come quello di un possibile sucessore di Bertinotti. E Migliore ha esordito spiegando perché voterà Giordano. «Lo appoggerò per molte ragioni - ha spiegato - La prima: non c’è nessuno come Giordano che possa raccogliere un consenso più ampio». E qui Migliore polemizza con Rina Gagliardi. Sostenendo che fare i conti con le novità, è logico e doveroso. Ma parlando, come aveva fatto la neosenatrice di «Rifondazione della Rifondazione», si corre il rischio di mandare in soffitta quel bagaglio di elaborazione varato a Venezia. Questa è anche un po’ la preoccupazione che emerge dall’interveno di Niccolò Pecorini, segretario toscano. Che dice esplicitamente di «non essere disponibile a rimettere in discussione la nuova grammatica della politica disegnata» all’ultimo congresso.

Rifondazione discute così. Serratamente. Discute e non dà deleghe. Milziade Caprili, neo vicepresidente del Senato, spiega che il rinnovamento, soprattutto nelle strutture decentrate, è già in atto. Ma che il problema vero è che questo partito ha bisogno - subito, ora - di altri ventimila iscritti. O come Russo Spena che chiede di farla finita con le «repubbliche marinare» interne al partito. O Elettra Deiana che denuncia come Rifondazione sia ancora troppo lontana dall’affermare una cultura di genere. O come Roberto Musacchio che invita tutti a non far finta che si parta da zero. Proprio in queste ore, il Social Forum di Atene, rivela quanto sia interno ai movimenti un partito come il Prc. Un partito che vuole essere il perno di un’aggregazione più vasta, la sezione italiana della Sinistra europea. Il cui avvio non sarà comunque facile. Se Graziella Mascia già vi legge i tentativi di trasportare lì dentro pezzi di ceto politico, provenienti da altre esperienze. Si parla così, in Rifondazione. Senza peli sulla lingua. Ma tutti attentissimi a non perdere la coesione del gruppo dirigente. Nel passaggio di Rifondazione forse più difficile della sua storia: l’inizio del dopo Bertinotti. Quel segretario che ha fatto da supplente e da inventore, come qui l’ha definito qualcuno. No, il compito di Giordano davvero non sarà facile.