sabato 1 giugno 2013

Letta: «Il Cdm ha approvato il ddl che annulla il finanziamento pubblico: entro tre anni a pieno regime»
Il premier loda «la coesione politica della maggioranza» e spiega che il provvedimento varato ieri serve per ridare «credibilità» alla politica.
dall’Unità




Vien fatto di chiedersi se questa "proposta" di Letta, che ancora ieri Aldo Cazzullo su Sette del Corsera (leggi qui) sosteneva essere comunque sbagliata, diventerà mai legge davvero... La sensazione inquitante dopo aver finito di sfogliare i maggiori quotidiani è che si sia voluto cambiare discorso per distogliere l'attenzione pubblica dalla riforma della legge elettorale che ancora ieri - pericolosamente per loro - era su tutti i giornali e che Pd-Pdl forse riusciranno a non fare mai : oggi quella questione fondamentale è improvvsamente scomparsa del tutto da tutti i quotidiani...

il Fatto 1.6.13
Fondi pubblici ai partiti. Tutti i trucchi della legge
Il governo vara il ddl che dovrebbe abolire i “rimborsi” elettorali (fra tre anni)
Ma i soldi usciti dalla porta rientrano dalla finestra: sconti fiscali ai donatori, sedi e spot tv gratis, 2 per mille delle imposte fino a 61 milioni all’anno  
Aboliti i soldi ai partiti? La norma non c’è, l’inganno sì
Il sistema del 2 per mille premierà chi prende di più
di Marco Palombi


Abolizione del finanziamento pubblico? Mica tanto: con la riforma approvata ieri tra le fanfare in Consiglio dei ministri il sistema potrebbe arrivare a costare oltre 61 milioni di euro (contro i 91 attuali). Nel ddl del governo, infatti, c’è il trucco, diciamo una nota creativa visto che – vuole la leggenda – il meccanismo (“una mostruosità giuridica” fu definito all’epoca) lo creò Giulio Tremonti per l’8 per mille alla Chiesa.
Prima di entrare nello specifico, vediamo come funziona la faccenda. Niente più contributi diretti ai partiti, dice il governo, da adesso in poi si reggeranno sui soldi dei privati con qualche aiuto “non monetario” dello Stato. Enrico Letta – che ha fortemente voluto questa legge così com’è – parla di “promessa mantenuta” e spera che il Parlamento la “approvi rapidamente perché ne va della credibilità del sistema politico”. Peccato che mantenere una quota di rimborsi elettorali sulle spese certificate (come al premier chiede gran parte del suo stesso partito) sarebbe costato meno essendo pure più trasparente del sistema scelto. Ecco, per punti, di cosa stiamo parlando.
DETRAZIONI. Dall’anno prossimo aumentano quelle per le erogazioni liberali ai partiti di persone e aziende: 52% fino a cinquemila euro, 26% – come le onlus – fino a ventimila. Cinquecento euro di sconto fiscale, al massimo, pure a chi si iscrive alle scuole di formazione politica. Ovviamente questo comporta una quota di mancato gettito per lo Stato al momento non quantificato (al ddl manca la bollinatura della Ragioneria generale).
DUE PER MILLE. Viene introdotta la possibilità – a partire dal 2015 – di destinarlo ai partiti al momento della dichiarazione dei redditi o di lasciarlo all’erario: i soldi cominceranno a uscire, però, solo dal 2017.
SOSTEGNI STATALI. I partiti avranno a disposizione spazi gratuiti sulla Rai per la messa in onda di messaggi politici; l’Agenzia del Demanio dovrà con-cedergli “almeno in ogni capoluogo di provincia” una sezione.
TRASPARENZA. Potranno accedere a queste facilitazioni solo quei partiti che hanno uno Statuto e regole di democrazia interna, fanno certificare i propri bilanci e rendono i dati accessibili ai cittadini. Chi risponde a questi requisiti sarà iscritto a un apposito registro. Fa notare Fabrizio Cicchitto del Pdl: “Quale sarà l’Autorità che valuterà se lo Statuto di un partito risponde a criteri di trasparenza e democraticità? Quale che sia, avrà poteri decisivi sull’assetto democratico”.
IL TRUCCO. Sta nell’articolo 4, quello che disciplina il 2 per mille: al comma 2 si legge, infatti, che “in caso di scelte non espresse, la quota di risorse disponibili... è destinata ai partiti ovvero all’erario in proporzione alle scelte espresse”. Chi non firma per nessuno, contribuisce lo stesso, proprio come accade nell’8 per mille alle confessioni religiose: per dare un’idea, solo il 43% circa dei contribuenti mette la propria firma sotto ad una delle caselle (Stato compreso), ma nel calderone finiscono i soldi di tutti e la Chiesa cattolica con meno del 40% delle opzioni si porta a casa ben oltre l’80% del fondo. Nel caso dei partiti, a differenza che nell’8x1000, è prevista una soglia massima alle uscite e la previsione che “un decreto del ministro dell’Economia stabilisce annualmente l’importo massimo da destinare” al 2 per mille per evitare di spendere troppo.
GRADUALITÀ. Queste misure entreranno in vigore in tre anni, cioè saranno a regime dal 2017. Quest’anno, dunque, il fondo per i rimborsi elettorali rimarrà di 91 milioni (al lordo dei soldi del M5S) per poi essere ridotto del 40, 50 e 60% nei tre anni successivi: in soldi significa che l’anno prossimo usciranno 54 milioni di euro, 45 quello dopo, trentasei nel 2016 e, infine, zero.
Quanti sono i soldi? Il governo ha chiarito che “il tetto massimo” di questo sistema è di 61 milioni di euro (senza tetto, infatti, varrebbe all’ingrosso 250 milioni). Proviamo a simulare la ripartizione: se la metà delle scelte espresse saranno per lo Stato (si tenga conto che, nel caso dell’8 per mille, superano di poco il 5%), ai partiti andrebbero comunque 30,5 milioni di euro. È bene ribadirlo: quei soldi li avranno comunque, anche se le scelte espresse ammontassero in tutto a un milione di euro. Come si vede, solo con una certa capacità di astrazione si può definire “contribuzione volontaria” questo meccanismo. “Al massimo ai partiti arriveranno 10-15 milioni”, minimizza però il ministro Orlando.

Corriere 1.6.13
Più vantaggi che per la lotta al cancro. Gli errori di una scelta insufficiente
Chi aiuterà un politico godrà di un trattamento 12 volte più favorevole di chi sostiene un’opera benefica
E non ci sono tetti massimi
di Sergio Rizzo


ROMA — Chiamatela come meglio credete. Ma non con il nome sbagliato: abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Perché inseguire Beppe Grillo è un conto; raggiungerlo, un altro. I soldi dei contribuenti, e tanti, arrivano alla politica attraverso mille rivoli, moltiplicatisi negli anni come organismi dotati di vita propria. E questa legge non li chiude affatto tutti. Alcuni li allarga persino. Gli sgravi fiscali non sono forse una forma di finanziamento pubblico, sia pure indiretto? Si tratta di denari che lo Stato non incassa consentendo ai partiti di avere donazioni da imprese o privati cittadini. Dunque è come se quei soldi lo Stato li desse alla politica. Con un trattamento, per chi decide di aiutare economicamente un partito o un politico, 12 volte più favorevole rispetto a quello cui ha diritto il sostenitore di un'opera benefica. Perché mentre il singolo cittadino che finanzia un'associazione impegnata nella lotta contro una malattia rara può detrarre dalle tasse il 26 per cento del contributo solo fino a un tetto di 2.065 euro, qui parliamo della possibilità di risparmiare il 52 per cento fino a 5 mila euro e il 26 per cento fino a ben 20 mila. La matematica, com'è noto, non è un'opinione. Dare 20 mila euro in beneficenza consente di detrarre al massimo 542 euro, regalare la stessa cifra a un partito ne fa invece risparmiare 6.500. Vero che il vantaggio fiscale per chi finanzia la politica, ancora lo scorso anno, quando la detrazione era sì al 19 per cento ma con un tetto di 103 mila euro, era addirittura più che quadruplo. Ma anche così ci sarebbe da chiedersi se sia giusto privilegiare fiscalmente i partiti più delle organizzazioni che aiutano il prossimo. Altra domanda: siamo sicuri che una volta imboccata questa strada non si debba stabilire indipendentemente dagli sgravi anche un tetto massimo di contribuzione oltre il quale un solo privato o una singola impresa non possa andare, per impedire i condizionamenti da parte di determinati interessi? Magari fissando pure il principio adottato dalla Germania che impone la pubblicazione immediata via web dei contributi superiori a 50 mila euro.
Vedremo. Intanto prendiamo atto della decisione di rinunciare sia pure gradualmente in tre anni a quello che era rimasto dei ricchi «rimborsi» elettorali: una droga pesante che aveva gonfiato gli apparati di personale trasformando i partiti in macchine per ingoiare denaro. Ed era chiaro che l'unico modo per tamponare il taglio del finanziamento diretto sarebbe stato quello di agire sul finanziamento indiretto. Anche se questo, oltre a farci risparmiare un po' di quattrini non potrà scongiurare una salutare cura dimagrante.
Finanziamento indiretto è pure il 2 per mille delle tasse: altre entrate cui lo Stato rinuncia a favore della politica. Sempre che ci si possa fare affidamento, visti i precedenti. Negli anni Novanta si provò con il 4 per mille. All'inizio fu corrisposto ai partiti un anticipo di 160 miliardi di lire, con l'impegno a conguagliare quella cifra, in più o in meno, quando il ministero delle Finanze avesse fatto i calcoli dei denari effettivamente destinati dai contribuenti alla politica. Peccato che il conto non sia mai stato reso noto. Elementare la ragione: i partiti avrebbero dovuto restituire tanti denari che avevano già speso. La legge del 4 per mille finì in soffitta e si cominciarono a gonfiare in un modo indecente i «rimborsi».
A quanto ammonterà questo finanziamento indiretto è difficile dire. Il 2 per mille è una incognita assoluta. Mentre gli sgravi fiscali erano finora stimabili in una decina di milioni l'anno, somma adesso inevitabilmente destinata a crescere. Poi però ci sono gli altri rivoli. L'esenzione dell'Imu per le sedi politiche, per dirne una. I contributi pubblici alla stampa di partito, circa un miliardo di euro dal 1990 a oggi. Oppure le agevolazioni postali per il materiale elettorale, una disposizione introdotta con la legge che ha fatto seguito al referendum del 1993, che si somma curiosamente ai rimborsi delle spese elettorali. Per dare un'idea delle dimensioni di questo rivolo, i 9 milioni di lettere spedite agli italiani da Silvio Berlusconi con la promessa di restituire l'Imu potrebbero essere costate allo Stato 2 milioni 160 mila euro di francobolli. Ovviamente oltre ai famosi «rimborsi».
Ma è niente al confronto del torrente più grosso che continuerà certo ad alimentare il finanziamento pubblico. Stavolta non più indiretto: denaro sonante. Sono i contributi ai gruppi parlamentari e dei Consigli regionali. Quanti soldi? Anche qui non è facile dirlo, ma si parla sempre di un centinaio di milioni l'anno, pur dopo il giro di vite imposto in varie Regioni. Nel solo Lazio dello scandalo Batman si distribuivano ai gruppi 14 milioni l'anno. I contributi ai gruppi di Camera e Senato spuntano nella legge sul finanziamento pubblico approvata nel 1974 da tutti i partiti (tranne i liberali) durante la bufera dello scandalo petroli. E sono proprio quelli che il referendum radicale del 1993 aveva abrogato. In barba al voto di 34 milioni di italiani sono stati invece mantenuti: non più per legge, bensì per autonoma iniziativa del Parlamento. La loro abolizione non è mai stata all'ordine del giorno.
Il finanziamento pubblico dunque non è morto, a dispetto dell'epitaffio scolpito ieri dal governo di Enrico Letta. Chi credeva davvero che alla politica non sarebbe più arrivato un euro statale si metta l'anima in pace. Pur eliminando l'autentico sconcio dei «rimborsi» elettorali l'Italia non diventerà come la Svizzera: unico Paese europeo dove non sono previsti sotto alcuna forma contributi per i partiti. Va detto chiaramente che i rubinetti pubblici resteranno aperti, pur assumendo in qualche caso forme più evolute e moderne. Una di queste è il libero accesso a spazi pubblicitari sulle reti televisive, o l'erogazione gratuita di alcuni servizi, come accade in Svezia.
E se è fondamentale il vincolo della massima trasparenza per ottenere i benefici fiscali, ancora di più lo è l'obbligo di dotarsi di «requisiti minimi idonei a garantire la democrazia interna». Il che tira in ballo la legge sulla forma giuridica dei partiti con la quale si dovrebbe attuare l'articolo 49 della Costituzione, mai riempito di contenuti da ben 65 anni. Un anno fa quel provvedimento, per quanto lacunoso, sembrava in dirittura d'arrivo. Poi è rimasto nei cassetti di Montecitorio. Ma ogni riforma del finanziamento della politica non può risultare credibile, senza le regole che dicano che cosa sono i partiti, quali sono i loro obiettivi, come devono essere organizzati. Vanno scritte subito, avendo tuttavia sempre presente che è soltanto un primo passo. Al punto in cui si è arrivati, per provare a riconciliarsi con gli italiani i partiti devono fare ben altro: a cominciare da una legge elettorale che restituisca ai cittadini il potere di scegliere. Quella che ora improvvisamente non è più urgente per nessuno.

l’Unità 1.6.13
Non impoverire la democrazia a vantaggio dei più ricchi
La battaglia delle idee dentro i partiti dipenderà sempre più dall’attitudine degli aspiranti leader a procacciarsi i favori di ricchi finanziatori
di Michele Prospero


La politica ha un costo. Solo l’ipocrisia può far finta di credere che i partiti campino di aria. E per questo in tutte le democrazie europee, da quelle più antiche, a quelle di più recente istituzione, esiste il finanziamento pubblico dei partiti. Anche l’Inghilterra, che ne è priva, concede a tutti i gruppi un modico sussidio, di qualche milione, per ricerche, attività di studio. E solo per l’opposizione prevede sovvenzioni più cospicue.
Il proposito del governo di tagliare il finanziamento diretto ai partiti, cui nel 2015 si aggiungerà anche il blocco dei fondi indiretti destinati all’editoria, ha sollevato molti interrogativi sul destino della politica in Italia. In assenza di norme sul conflitto di interessi, sulla trasparenza della provenienza dei fondi, sulla tracciabilità delle contribuzioni, sugli argini alle donazioni mascherate c’è il rischio di riesumare una logica ottocentesca. Cioè quella prevalenza degli interessi ristretti che ad una grande «scuola del sospetto» faceva dipingere lo Stato liberale come un comitato d’affari della borghesia.
In un’età che vede la proliferazione di partiti privati-mediatici-aziendali (quelli di Berlusconi e di Grillo), con la decapitazione dei contributi pubblici si affida al denaro il compito di orientare il senso della competizione. Il taglio del finanziamento non è quindi una operazione neutra: avvantaggia alcune classi sociali e ne danneggia altre, che vengono così limitate nella loro capacità di entrare nella sfera pubblica.
Dinanzi al peso asimmetrico degli interessi organizzati, la scomparsa della mano pubblica oscura la regia delle lobby della finanza e dell’economia nel decidere i contenuti della legislazione. Certo, il finanziamento pubblico non basta per preservare l’autonomia politica dei partiti dai gruppi di interesse e neppure per scacciare i fenomeni di corruzione. Ma negare ai partiti i fondi per la cultura, per l’informazione, per le funzioni organizzative significa impoverire la democrazia e darla in appalto alle potenze del mercato.
La battaglia delle idee entro gli stessi partiti dipenderà sempre più dall’attitudine degli aspiranti leader a procacciarsi i favori di ricchi finanziatori. La sovranità di media e denaro porta al sacrificio del ruolo dei gruppi dirigenti, dei luoghi di discussione non subalterni ai poteri privati. La caduta della legittimità dei partiti rende più facili certe scorciatoie e la negazione dei contributi pubblici viene salutata come un riavvicinamento alla società civile. Ma la chiusura dei fondi inaridisce la già precaria esistenza dei partiti, con conseguenze catastrofiche nella funzionalità delle istituzioni, sulla capacità di governo di una società in declino.
Se i partiti vengono scacciati dallo Stato (in tutta Europa le fonti di sostegno provengono in gran parte dalle risorse pubbliche: dal 95 per cento della Spagna, al 90 per cento della Grecia, all’85 per cento del Belgio), non è che tornano nella società e nei territori. Scappano verso il denaro e chi ne dispone comanda ancor più, decide la leadership contendibile e detta l’agenda legislativa. Il divorzio dalla società resta immutato mentre annullata è la distanza dai poteri forti in grado di condizionare, proibire, sconsigliare.
Neanche i grandi partiti di massa, nel loro periodo aureo (15 elettori su 100 erano membri di un partito), potevano sopravvivere con i soli sacrifici dei militanti (tesseramento, sottoscrizioni per la stampa, feste). Ora che i partiti vantano meno radici nella società e nella membership attiva (poco più del 4 per cento degli elettori è iscritto a un partito in Europa), e il ruolo finanziario degli iscritti pare ovunque ridimensionato, pensare che le organizzazioni possano cavarsela con le donazioni private è una operazione dettata da falsa coscienza.
L’aggiunta di alcune misure di scopo (accesso garantito ai media, disponibilità di sedi periferiche) va incontro al partito che opera nella rappresentazione e richiede misure utili per le mansioni elettorali-procedurali. Non risponde però al partito di rappresentanza che dispone di organismi per conservare la continuità organizzativa e per aggiornare l’identità culturale.
In una età di antipolitica, il sostegno finanziario dello Stato allarma molto più del dominio di interessi economici privati che riducono i partiti a loro docile braccio secolare. E però proprio dove i partiti godono ancora di una buona salute (in Germania ogni anno ricevono133 milioni, cui si aggiungono gli oltre 100 per la fondazione Erbert della Spd e i 90 della fondazione Adenauer della Cdu) si registra anche una crescita economica e una buona tenuta sociale.
La mediazione politica va ricostruita, non bisogna accarezzare l’antipolitica con misure punitive dei partiti, che già sono deboli e vagano come fantasmi in uno Stato assente. L’Italia non cresce anche perché le vie della mediazione politica sono state ostruite. Chi indebolisce il mediatore invece di ricostruirlo, accentua la crisi. E quindi tiene accese le condizioni della rivolta antipolitica, non le placa.

Repubblica 1.6.13
Il cinismo e la buona fede
di Curzio Malese


OGNI volta che l’antipolitica comincia a mostrare i propri limiti, come accade in questi giorni con la sconfitta di Beppe Grillo alle ammini-strative, arriva puntuale la solita furbata del ceto politico. Per ricordarci le ragioni che hanno portato un ex comico a prendere il 25 per cento dei voti. La strana maggioranza destra-sinistra si sta impegnando per non cambiare nemmeno il finanziamento
pubblico ai partiti.
E QUESTO dopo aver fatto capire agli italiani di non avere alcuna intenzione di cambiare sul serio la porcata della legge elettorale, nonostante l’impegno solenne preso con il Quirinale. Il massimo che farà è di cambiare nome al finanziamento pubblico ai partiti. Come del resto è già avvenuto dopo il referendum che l’avrebbe in teoria abolito da un quarto di secolo.
In un Paese dove la metà degli elettori domenica scorsa non è neppure andata a votare, prendere ancora in giro i cittadini su questi temi è miope e sciocco.
I dettagli sono spiegati altrove, qui conta la sostanza. La sostanza è che con la nuova legge del governo Letta cambia poco, si tratta appena di uno sconto sulla pioggia di danaro versato dall’erario nelle casse dei partiti. E già su quel poco si accapigliano, perché molti, soprattutto a destra, non vorrebbero rinunciare al benché minimo privilegio, con tanti saluti alle promesse elettorali.
Destra e sinistra confermano in queste vicende, come sempre quando si tratta d’interessi concreti, i propri vizi peggiori. Da una parte il cinismo del berlusconismo,
che per tutte le ultime campagne elettorali, nel tentativo di recuperare sul populismo grillino, ha sbandierato il blocco al finanziamento dei partito come una specie di totem. Ma dopo, naturalmente, quando si tratta di metterlo in pratica, arriva il totale voltafaccia. Dall’altra parte, la solita ipocrisia del centrosinistra, che accampa ogni volta alibi più o meno ben concepiti. Qualcuno magari è perfino in buona fede. Laura Puppato, per esempio, non ha torto a dire che in tutta Europa esiste il finanziamento pubblico ai partiti. Peccato che in nessun altro paese europeo vi sia un livello di corruzione politica paragonabile al nostro. Se in Germania o in Francia si fosse verificato in questi anni un terzo degli scandali legati al finanziamento pubblico ai quali abbiamo assistito in Italia, il sistema sarebbe già stato smantellato da anni. Peccato che in nessun altro paese non d’Europa ma dell’Occidente i partiti godano dell’incredibile status di soggetti di diritto privato e non pubblico, stratagemma utilissimo in caso di processi. Peccato che nessun altro popolo europeo sia costretto a pagare ogni anno una tassa di 60 miliardi al malaffare politico. Sarebbe ora di finirla con questi uomini politici che scoprono l’Europa quando conviene e quando non conviene, quasi sempre, si dedicano all’ostinata difesa delle più assurde anomalie.
A proposito, fra le tante anomalie italiane rispetto all’Europa, c’è anche il meccanismo dell’otto per mille alle fedi religiose. Non esiste altrove un sistema fiscale dove le donazioni “volontarie” vengono prelevate dalle tasche dei contribuenti senza un esplicito assenso. In attesa che il nuovo Papa, così interessato alla trasparenza e tanto nemico del privilegio, rinunci a tale grottesco privilegio, come infallibilmente accadrà (forse), sarebbe davvero indecente estendere questa truffa al finanziamento dei partiti. Sappiamo bene che tutti questi discorsi non servono a nulla. Li abbiamo fatti per un anno e mezzo durante il governo Monti, mentre i partiti avrebbero dovuto riformare la politica, abbatterne i costi, cambiare la legge elettorale, e invece non hanno combinato nulla, consegnando a Grillo un quarto dell’elettorato. Ma che volete, è il nostro mestiere di giornalisti. Il giorno in cui anche i politici decideranno di fare il loro, festeggeremo in piazza.

il Fatto 1.6.13
“Ma perchè dobbiamo pagare noi?”
Nella sede del Pd la protesta dei dipendenti
“Si tassino i parlamentari”
di Wanda Marra


Letta sul taglio ai finanziamenti pubblici ci mette la faccia”. Mentre il tesoriere Antonio Misiani spiegava nella sede del Nazareno ai dipendenti Democratici la situazione nell’assemblea di giovedì pomeriggio si levava un urlo spontaneo dal fondo della sala “Sì, e noi il culo”. Boato. Applausi. Tensione e malumore che nei corridoi del Nazareno si respirano da tempo. “Sono mesi che viviamo in una situazione d’incertezza - racconta una dipendente (forma anonima, si tratta del suo posto di lavoro) - sappiamo da tempo che le risorse non bastano. Ma fino alle elezioni c’è stata una specie di rimozione collettiva: si sperava che con la vittoria si sarebbe aggiustato tutto. Quella sul finanziamento magari non sarebbe neanche stata la prima legge di Bersani”. E invece, adesso i 196 dipendenti del Pd sono i primi a rischiare. Il partito che fa della difesa del lavoro una bandiera rischia di non riuscire a salvare i posti di lavoro dei suoi dipendenti. “È chiaro che il Pd deve cambiare la sua natura - dice Gea Polidori, della rappresentanza sindacale - però dobbiamo capire come”. Già: il personale non è mica l’unica voce a bilancio: 12.820.000 euro (bilancio 2011, l’ultimo disponibile). Poi, ci sono la propaganda e la comunicazione (16 milioni e 300mila euro), il contributo a spese territoriali (13 milioni e rotti) altri servizi e acquisti di beni (9 milioni, in cui rientrano anche viaggi, ristoranti, alberghi). Ieri al Nazareno c’era la ressa: telecamere puntate non verso i big democratici presi da qualche interminabile riunione, ma sui dipendenti in uscita. “Ma perché la prima cosa di cui si parla dev’essere il personale? ”, protesta un’altra dipendente. Nella tesissima assemblea di giovedì sono uscite proteste e proposte. “Si può chiedere un contributo supplementare ai parlamentari”, diceva qualcuno. Per adesso, sono tenuti a versare 1500 euro al mese. Se ne dessero 1000 in più farebbero 400mi-la. E poi, ci sono gli affitti: non solo il Nazareno, ma 3 piani a via Tomacelli (700mila euro l’anno). “Sono davvero necessari? ”. E le spese per fare politica, dai viaggi fino alle iniziativa. Voci dall’assemblea: “Certo, si poteva sprecare un po’ meno”. E soprattutto: “Della questione si deve far carico il gruppo dirigente e anche chi qui dentro guadagna bene. Non infierire su chi prende 1400, 1300 euro al mese”. Perché gli assunti democratici vanno dagli stipendi base delle segretarie a cifre 5 o 6 volte tanto. “E poi, non va bene che tutti pensano che noi siamo tutti inutili e incapaci”.
NON A CASO ieri l’eroe del giorno a Sant’Andrea delle Fratte era Sposetti, l’ex tesoriere dei Ds che al Corriere della sera ha dichiarato: “Lei lo sa chi se ne va a casa? Quelli che fanno le pulizie alle 5 del mattino, quelli che rispondono al telefono, quelli che scrivono i comunicati”. Nei corridoi del Nazareno era tutto un capannello con lui. Dagli altri dirigenti - raccontano - neanche una parola di solidarietà. Se non quella di Fioroni su Twitter: “La loro dignità ed il loro lavoro va difeso con la stessa forza e determinazione con cui come Pd difendiamo gli altri”. Aggiunge ai preferiti Chiara Geloni (lei però al mese di euro ne prende 6000). “Tra noi c’è anche chi è d’accordo con il fatto che bisogna abolire il finanziamento pubblico. Viviamo in questo mondo mica da un’altra parte”, spiega Arcangelo Simioli, anche lui rappresentanza sindacale. “Però, il partito si deve prendere le sue responsabilità: deve rimodulare i piani di bilancio e le modalità di finanziamento. Dobbiamo riuscire ad avere qualche donazione in più dalla base”. E insomma, “c’è modo e modo di gestire le cose”. Peraltro, come informa la Polidori, neanche la cassa integrazione per ora è una certezza: “Noi per legge non abbiamo diritto agli ammortizzatori sociali. Stiamo cercando di capire come fare”.

l’Unità 1.6.13
Stefano Rodotà
«La Costituzione sarebbe stravolta con l’adozione del modello francese. Vi immaginate in Italia un ballottaggio tra Berlusconi e Grillo?»
«Inaccettabili gli insulti di Grillo»
«Difendo le mie idee. Il presidenzialismo snatura la Costituzione: rafforza i populisti meglio il modello tedesco»
«Agli attacchi sono abituato, resto coerente con le mie idee. Meglio un’opera di manutenzione della Carta e correzioni di tipo tedesco. Bersani coerente contro il leaderismo
intervista di Bruno Gravagnuolo


«È illusorio curare la crisi della politica con scorciatoie decisioniste tipo il semipresidenzialismo. Così si rinforzano il populismo e l’antipolitica». Idee nette quelle di Stefano Rodotà sulle riforme istituzionali. E ce n’è per tutti. Per Berlusconi, per Grillo e per il Pd, che mette in guardia: «Rifondare il partito sul rafforzamento dell’esecutivo servirebbe a coprire un vuoto di cultura politica. Non a rilanciare o rinnovare un’identità».
Dunque, altro che «ottuagenario miracolato dalla rete», come inveisce il comico genovese, al quale lo studioso replica con fermezza e senza astio. Quella di Rodotà è un’analisi lucida, che parte da lontano.
A tre decenni dalle diatribe sulla Grande Riforma, tornano i temi del presidenzialismo e del premierato. Con accuse di conservatorismo a chi vi si oppone. Anche lei è conservatore?
«Si è soliti contrapporre conservatori e riformatori a riguardo. Ma nel mezzo c’è molto di più: dal tema del bicameralismo, ai regolamenti, al numero dei parlamentari, ai poteri del premier. Sui principi costituzionali mi iscrivo di buon grado fra conservatori, ma senza rinunciare all’innovazione, sui punti elencati. Perché un conto è la doverosa manutenzione della nostra Costituzione. Altro il suo stravolgimento su basi presidenziali o semi. Non è vero che il premier oggi non abbia poteri, come dice Berlusconi. Tutt’altro. Semmai il problema è quello dei colpi di mano sulle regole. Favoriti da maggioritarismo e Porcellum, che hanno travolto le garanzie sul 138 e sull’elezione presidenziale vigenti in era proporzionale».
Perché tornano le pulsioni decisioniste?
«Intanto i famigerati anni 70, accusati di vischiosità, furono i più proficui in senso riformista. Dalle Regioni, allo statuto dei lavoratori, al divorzio. Invece gli anni 80, “decisionisti”, furono sterili e fatti di debito pubblico. Il punto è stata la crisi della politica. Sicché una politica lottizzatrice pigra e svuotata dinanzi al mutamento sociale anni 80 ha finito con lo scaricare le sue colpe sulle istituzioni e sulla loro forma, invece di ripensare le “sue” forme. Si è celebrata l’alternanza come panacea. Per cui nell’era del bipolarismo tutto si sarebbe rinnovato e alternato, mutando le classi dirigenti. Risultati: aumento della corruzione, instabilità, paralisi. E una politica colonizzata da avventure populiste».
Alla base dell’«ingovernabilità» e delle larghe intese vi sarebbe l’ossessione maggioritaria?
«Sì, è stato il nostro sistema maggioritario a far crescere il populismo e il bipolarismo selvatico, con ciò che ne è seguito. A partire dal Mattarellum...».
Ma esisteva un’altra strada dopo Tangentopoli?
«Certo, e ho cercato di perseguirla in minoranza. Con la Sinistra indipendente, e contro le impostazioni di Segni e Gianfranco Pasquino. Mi sono battuto in tal senso, al referendum del 1993 contro il maggioritario. Il mio modello? Modello tedesco: metà collegi uninominali, e metà proporzionale. E poi: sbarramento, Camere diversificate, poteri del premier e sfiducia costruttiva. Infine, regolamenti, velocizzazione legislativa, poteri del “Cancelliere”. La mia posizione resta questa, sebbene sia stata sconfitta dall’egemonia di un altro senso comune, e con gli effetti che vediamo...». Veniamo al semipresidenzialismo, che torna a circolare anche nel Pd. Il suo giudizio? «Tecnicamente ha molte controindicazioni. Dalla cosiddetta monarchia repubblicana ai conflitti della coabitazione. Ma la questione non è tecnica o astratta. In Francia dove si è imposto tra crisi algerina e ambizioni nazionali ha retto, perché lì c’è una lealtà repubblicana condivisa. Nel contesto italiano di contro, i rischi sono enormi, perché non c’è delimitazione verso l’estrema destra, e il sistema potrebbe risultare catastrofico e divisivo. Oltralpe anche la sinistra ha votato Chirac, e non Le Pen. E se lo immagina un ballotaggio finale tra Berlusconi e Grillo?».
Conseguenze nefaste anche per la politica, risucchiata a quel punto tutta dentro la figura del decisore eletto dal popolo? «Certo, per la politica e per i partiti. La subordinazione sarebbe fatale, e ne verrebbe travolta la funzione di garanzia del Presidente, cardine del nostro ordinamento parlamentare. Inficiata anche la norma che definisce immodificabile la forma repubblicana dello Stato, che fa corpo con la Repubblica parlamentare. Con danni e conflitti irreparabili. E devo dare atto a Bersani di questo: è stato sconfitto, ma ha mantenuto una posizione fermamente avversa alla personalizzazione della politica. Che è all’origine dei mali di cui parliamo».
E Grillo, negatore di libertà di mandato e democrazia delegata, non è dentro questi mali? E ancora: è deluso degli attacchi alla sua persona?
«Ho ringraziato Grillo per la sua “designazione”. Dopo avergli anche detto che, dinanzi alla canditura di Prodi, facevo un passo indietro. Poi sono andato a discutere con il suo gruppo alla Camera della democrazia parlamentare. E dissi: “Siete in parlamento, volete gettare al vento la libertà dei singoli in nome del portavoce?” Registrai consensi e dissensi. Ma la questione resta aperta, e andrà avanti lì dentro. Gli insulti? Inaccettabili, visto il mio tentativo di offrire un contributo. Lascio a ciascuno la sua libertà di giudizio, nel rispetto degli altri. Quel che mi sta a cuore è la coerenza delle mie idee. Agli attacchi sono abituato».
Agenda istituzionale di questo governo. Corretta? Confusa? Migliorabile? «Occorre invertire priorità e strumenti. Prima ci vuole la legge elettorale: abolizione del Porcellum, magari anche con un nuovo Mattarellum. Per sottrarre a Berlusconi un’arma di ricatto, allungare eventualmente i tempi di questo governo e inserire altri temi nell’agenda, a partire dai diritti civili. Poi, per via ordinaria senza comitati e commissioni si potrà affrontare la riforma istituzionale. Ma senza stravolgimenti della forma parlamentare. E, auspicabilmente, nel solco di un sistema alla tedesca anche per quel che riguarda i rami alti». Abbiamo evocato i partiti, corpi intermedi decisivi nella nostra Costituzione. La fine del finanziamento rischia di ucciderli? «Viviamo sotto una spinta generalizzata anti-casta, anche per l’uso distorto delle risorse da parte del ceto politicoamministrativo. Ma rischia di farne le spese la democrazia, che senza partiti non esiste. Rischiamo un’americanizzazione della politica, dove il peso delle lobby e del denaro è preminente. Non possiamo rinunciare al ruolo di forti soggettività di massa organizzate, in grado di mediare il nesso tra Parlamento e società. Ruolo non esclusivo certo, perché essenziali sono anche i momenti referendari, la rete, le associazioni e i movimenti civici. Ma senza partiti la democrazia si estingue, a beneficio dei ricchi e dei potenti».

La Stampa 1.6.13
Flores D’Arcais: sbagliato insolentire il “tuo” professore
intervista di Ja. Ia.


«Bastava dar vita a un governo ombra Rodotà, per fare a pezzi tutte le accuse al Movimento cinque stelle. Ma possono ancora farlo. Se passano da una specie di autismo in cui si sono fatti rinchiudere, hanno ancora spazi enormi». Paolo Flores D’Arcais, direttore di Micromega, ha scritto una lettera appello a Grillo e Casaleggio in cui li sprona a far uscire il Movimento da quello che Flores chiama «autismo», a spingere subito su almeno un paio di «grandi battaglie simboliche. Una campagna culturale che si apra a tutta la società».
Una campagna anche tra intellettuali?
«So bene che i loro parlamentari sono gli unici di fatto a battersi per l’ineleggibilità di Berlusconi. Però non è una battaglia che si vince solo in Parlamento, la devi fare nel Paese, con una grande campagna per spiegare che non è una persecuzione a Berlusconi, è che da quella illegalità discendono conseguenze dannose che paralizzano tutta la nostra economia. Micromega ha raccolto 250mila firme, ci sarebbero spazi di consenso enormi, io penso milioni di persone nel Paese».
Intellettuali come Rodotà o Gabanelli si allontanano. Su Rodotà Grillo oggi ha fornito questa spiegazione: voleva evitare che il M5S apparisse come una riedizione della vecchia sinistra-Brancaleone. Che pensa?
«Trovo insensato insolentire una persona dopo averla presentata come leader politico, e anzi capo dello Stato. Toglie credibilità a chi si comporta con questa incoerenza. Poi Rodotà rappresenta la parte migliore del Paese».
Che pensa Flores dell’accusa di leaderismo che viene rivolta spesso a Grillo?
«Per un verso sì, Grillo e Casaleggio attraverso il blog hanno il controllo del movimento. Per altro però va detto che Grillo dà sempre l’impressione di non voler assolutamente fare il leader alla Berlusconi. Questa contraddizione si scioglie solo smettendo di aver paura del proprio successo. Solo così si risponde a chi gli obietta, in maniera interessata, di essere una nuova versione qualunquista extraparlamentare».

Repubblica 1.6.13
Berlusconi gela la riforma elettorale “Con quella gli italiani non mangiano”
E rilancia: ridurre le tasse e lotta all’“oppressione giudiziaria”
di Carmelo Lopapa


ROMA — Leader di governo al mattino, pronto a materializzarsi in tv per rassicurare il premier Enrico Letta e il suo governo a patto che si occupi più di economia che di riforme. Capopopolo di lotta al tramonto, quando la requisitoria al processo Mora-Fede-Minetti gli manda per aria la settimana di relax e dieta nel ritiro in Sardegna. Ira funesta, raccontano i pochi che lo hanno sentito, che fa da contraltare alle dichiarazioni rilasciate al programma di Maurizio Belpietro, «La telefonata». La strategia al momento non muta: i processi non incideranno sulla stabilità dell’esecutivo, sebbene molti nel partito invitano a temporeggiare almeno fino al 24 giugno, data della sentenza Ruby.
Dalla consueta tribuna tv mattutina su Canale5 il Cavaliere prova intanto a sedare un partito sempre più lacerato da lotte intestine tra governativi e pasdaran. «Non c’è nessuna divisione all’interno, né falchi né colombe, c’è un grande gioco di squadra» taglia corto. Detto questo, torna a invocare misure shock per l’economia. Ai nodi cruciali della campagna Pdl non rinuncerà: «È assolutamente possibile adottare la cancellazione dell’Imu sulla prima casa ed evitare l’aumento dell’Iva», insiste. Sono queste le priorità. Non certo le riforme. Avverte: «Parliamo dei problemi veri, come le tasse e la necessaria ripresa dell’economia e del lavoro. Gli italiani non mangiano pane e legge elettorale». E se il governo andasse in crisi e si tornasse al voto col Porcellum, poco male: «Se si dovesse andare al voto, una legge elettorale c’è. Ora in un tempo adeguato facciamo le riforme, magari arrivando all’elezione diretta del capo dello Stato. E’ importante che il centrodestra e il centrosinistra continuino a lavorare insieme in Parlamento, e dentro le riforme si farà una legge elettorale adeguata».
Poi torna all’attacco di Beppe Grillo, come in campagna elettorale: «Il Movimento 5 stelle è destinato a sgonfiarsi, era naturale che tanti italiani stanchi della vecchia politica cercassero uno sfogo, ma ora hanno visto il burattinaio Grillo e i suoi burattini insipienti, ed è chiaro che ci stiano ripensando ». Nessun riferimento invece ai ballottaggi. Del resto, è noto come dopo la battuta d’arresto subita al primo turno, il leader Pdl intenda spendersi ancora meno alla vigilia del secondo. In sostegno del candidato della Capitale, Alemanno, sembra che si pronuncerà con un appello giusto alla vigilia.
La partita di Roma è alquanto complicata. La sua campagna Berlusconi preferisce giocarla tutta sui temi battenti, quelli che toccano le tasche degli italiani. «Sosteniamo il governo con convinzione e ora tutti gli italiani lo attendono alla prova del nove su quei provvedimenti per il rilancio dell’economia, ovvero via l’Imu, nessuna aumento dell’Iva, il cambio dei poteri di Equitalia, la detassazione delle assunzioni, una forte sburocratizzazione. Noi spingiamo e insistiamo per questo shock che si deve dare all’economia ». Meglio lasciare al Parlamento le riforme, è l’avvertimento implicito a Enrico Letta.
E se il partito di via dell’Umiltà è a dir poco in fibrillazione per le rivelazioni contenute nel libro del faccendiere Bisignani, e per il presunto complotto di Angelino Alfano e Renato Schifani, Berlusconi raffredda gli animi, anche lì: «Io confermo la mia totale e assoluta fiducia in loro e anche in altri». Affare chiuso. Restano i veleni di fondo e il chiacchiericcio da Transatlantico. Ma per il Cavaliere, almeno per ora, Alfano segretario non si tocca.

l’Unità 1.6.13
I dissidenti a Cinque stelle
5 Stelle, si cerca la tregua. Ma la scissione è vicina
Tra i dieci e i venti deputati e un’altra decina di senatori pronti a passare ai gruppi misti
Crimi cerca di smussare. Ma tanti protestano: «Le uscite del capo uccidono il nostro lavoro»
di Claudia Fusani


Cercano di uscire dall’angolo del suicidio politico. Grillo a modo suo dicendo che non voleva «offendere» Rodotà (definito «ottuagenario miracolato dal web») e che tutto sommato difende la sua roba («mica mi faccio fregare il partito dalla sinistra»). I fedelissimi cercando di parlare d’altro, dei temi che li hanno portati in Parlamento e che tanta presa hanno avuto nello Tsunami tour.
Quindi lanciano l’hashtag #legge truffa per dire che la decisione del governo di abolire il finanziamento pubblico ai partiti è solo «fuffa». Il web si scalda e sul tema annuncia «protesta clamorose» da parte dei Cinque stelle. Sfornano mozioni e interpellanze su Tav, F35, Ilva. Insomma, Grillo e i suoi girllini cercano di tornare a fare squadra in qualche modo. Ma le linee di frattura continuano a muoversi. In direzione e verso la sinistra. Come il leader pentastellare sa bene visto che intorno all’ora di pranzo posta l’ennesimo messaggio per dire: «Non credo di aver offeso il professor Rodotà perché le parole ottuagenario miracolato dalla Rete me le disse lui al telefono. La sua onestà e la sua intelligenza non sono in discussione. Ma non per questo posso assistere impassibile all costruzione di un polo di sinistra che ha come obiettivo la divisione del M5S in cui lui si è posto, volente o nolente, informato o meno, come punto di riferimento».
Con asprezza e lucidità, Grillo ha capito perfettamente il senso, oggi, del confronto politico: i Cinque stelle perdono pezzi ed è urgente fare qualcosa. Probabilmente, a giudicare da come è andata la giornata, ha capito anche che i metodi sin qui usati non pagano. Tutt’altro. «Ci sarà un clima più disteso anche per voi giornalisti» ha detto uscendo dalla sede della web-tv del Movimento. Ha anche telefonato ai senatori che l’altra sera, giovedì, hanno fatto saltare
Il fatto è che il caso Rodotà e i toni con cui è stato trattato il Professore icona del Movimento, ha fatto precipitare una strategia messa a nudo dal crollo elettorale alle amministrative. Si chiama scissione, come ormai ha capito anche Grillo. Oppure, detto più in politichese, «intergruppo», cioè tra i 10 e i 20 deputati che lascerebbero i Cinque stelle per approdare nel Misto alla Camera e almeno una decina, per lo più siciliani, che farebbero altrettanto al Senato. Questi ultimi si stanno incontrando so-
prattutto con l’eurodeputata Sonia Alfano e avrebbero già una piattaforma in quella formazione «L’Italia migliore» lanciata proprio giovedì da Antonio Venturino, il vicepresidente dell’assemblea regionale siciliana epurato perché ha rifiutato, per motivi personali, di restituire la diaria. I dissidenti tra i deputati hanno i loro referenti più noti in Tommaso Currò e Adriano Zaccagnini, e dialogano con i dissidenti anche i friulani, qualche veneto e qualche romagnolo. Fedelissimi «a Beppe» i napoletani, capofila Roberto Fico e Luigi Di Maio.
Ora, se giovedì la parola «scissione» girava da una capannello all’altro ruzzolando insieme a quella di «intergruppo», ieri anche per la fuga dal palazzo tipica del venerdì i toni sono rimasti sempre alterati ma più cauti. «Non è questo il momento di provocare uno strappo» spiega una deputata del nord che preferisce non comparire con nome e cognome. «Non per vigliaccheria, sia chiaro, ma ho come la sensazione che tutto questo rumore, anche da parte di Grillo, sia fatto apposta per stanare quelli come noi, isolarci e impedirci di realizzare la nostra vera strategia». Che punta a una nuova sinistra che tiene dentro Sel e quella parte del Pd che sorride a Fabrizio Barca e ha già la faccia di Pippo Civati.
Cautela, dunque. Ma idee chiare. Su Rodotà, che ormai sembra essere il punto di non ritorno. «Non possiamo trattarlo come uno straccio. C’è modo e modo di esprimere critiche. Grillo fa da battitore libero e parla a titolo personale ma poi la faccia ce la mettiamo noi e gli dobbiamo parare il c... per atteggiamenti che sono al di sopra delle righe» osserva un parlamentare. Giovedì sera c’è stata una riunione alla Camera. Alcuni deputati avevano chiesto di discutere soprattutto del caso Rodotà e del modo di comunicare di Grillo. Richieste respinte. Silenziate. E dire che una volta volevano fare tutto in streaming. È durato poco.
È lungo l’elenco delle richieste bocciate in assemblea l’altra sera. È stato proposto di selezionare il materiale da pubblicare sul blog, per evitare che diventi solo la vetrina di Grillo di cui nessuno sa nulla finché non lampeggia sulla Rete. «Per non uccidere mediaticamente il nostro lavoro parlamentare» è stato detto «sarebbe meglio limitare le uscite del Capo a una volta alla settima-
na». Si racconta delle facce stupite, per essere gentili, dello staff dei comunicatori tutti allevati in batteria nel gruppo Casaleggio di fronte a simile proposta. Caduta nel nulla.
Tommaso Currò, che per primo uscì allo scoperto dicendo che era necessario almeno provare a dialogare con il Pd, rivela di aver chiesto all’assemblea di preparare un comunicato di solidarietà a Rodotà e di discutere sul risultato elettorale. «Sono stato respinto» dice lui. È stato «aggredito verbalmente» riferiscono altri.
La linea di rottura, quella degli scissionisti, passa per chi si smarca dalle parole di Grillo. E non solo quelle di ieri. Zaccagnini definisce «fango» la parole di quello che ormai è un ex capo e solidarizza con il Professore. Si smarca il senatore Fabrizio Bocchino: «Oggi, se incontrassi per strada il Professore forse non avrei neanche il coraggio di guardarlo in faccia, per dirgli, profondamente imbarazzato che quelle parole che ha letto su internet scritte da Grillo non mi appartengono». È lunga la lista di chi decide di stare con il Professore, Walter Rizzetto , Luca Frusone, Nugnes. «Personalmente insiste Currò su Facebook non mi interessa il corso di comunicazione ma che si faccia politica e che se ne parli. Più allenamento al dialogo e all’ascolto».

Repubblica 1.6.13
I ribelli accelerano sulla sfida a Beppe “Subito il primo intergruppo sugli F35”
Incontro tra quindici giorni. Invitato l’ex candidato al Quirinale
di Tommaso Ciriaco


ROMA — La guerra di nervi è ormai cronica. E i “ribelli” vogliono accelerare per dare uno strattone al Movimento. Tra due settimane, infatti, nascerà ufficialmente il primo intergruppo con Pd e Sel. A fare da “padrino” al battesimo dell’iniziativa potrebbe essere Stefano Rodotà.
Ormai quindi è solo questione di tempo. Ma la frattura nel Movimento ci sarà. E sarà dolorosa. Per aprire un varco serve però un grimaldello. L’idea dei dissidenti è appunto quella di edificare un ponte di dialogo. Sui temi concreti e nonostante Grillo. All’intergruppo sta lavorando anche il deputato di Sel Giulio Marcon: «Hanno aderito in ottanta, trenta sono grillini. A breve lo ufficializzeremo ». I convocati si confronteranno sulla “Pace e sul disarmo”. È solo un inizio, ma sta già provocando un terremoto.
Non tutti i cinquestelle che ne fanno parte, naturalmente, sono malpancisti. Né l’obiettivo va oltre il pacifismo e la battaglia parlamentare della mozione sugli F35. Ma la macchina è partita e lo schema può replicarsi all’infinito: «Io aderirò - spiega ad esempio Adriano Zaccagnini - Il nostro spirito, fin dall’inizio, è stato quello di lavorare su temi comuni. Altri possibili intergruppi? Sulla legge elettorale, sulla revisione del sistema bancario. E poi ancora, sulle carceri e sull’idea di una amnistia per i reati di droga o politici ». E sulla Tav, naturalmente.
Identificata la minaccia, il quartier generale di Grillo ha già attivato la procedura d’emergenza. L’assemblea grillina potrebbe “vietare” l’adesione ad altri intergruppi. Le “scomuniche” sono pronte, così come l’elenco dei ribelli. Ma la speranza è che siano i dissidenti a togliere il disturbo. Il problema è che il malumore quasi tracima. I numeri più accreditati parlano di una trentina di deputati e una quindicina di senatori. Da Turco a Tacconi, Pisano e Rizzetto, fino ai senatori Bocchino e Campanella.
Zaccagnini non pensa che il confronto attivato in nome degli intergruppi sia incompatibile con il M5S. E, comunque, «accetto il rischio, lo metto in conto. Può essere che Grillo non sia d’accordo, che vogliano mantenere compatto il gruppo. Ma non ha senso, perché io voglio lavorare per il bene del Paese».
Come lui, si moltiplicano i distinguo. Sentite Lorenzo Battista: «Il post di Grillo di oggi (ieri, ndr)? Non capisco perché la stampa gli dia eco. Le cose che dice lui non sono la posizione del M5S». E ancora, sul “rischio intergruppo”: «Basta con la storia delle espulsioni!». Tommaso Currò, altro dissidente di primo piano, si infuria in Transatlantico: «Io non me ne vado. Il movimento non ha una paternità. È di chi lo vive!».
Già la prossima settimana i “pontieri” di Pd e Sel potrebbero incontrarsi con i dissidenti, riservatamente. Anche Pippo Civati tesse la tela e domenica potrebbe andare a Bologna per incontrare - così spiega - Stefano Rodotà. Il giurista, inoltre, potrebbe essere anche ospite d’onore della conferenza stampa che ufficializzerà l’intergruppo sulla pace, fra due settimane. «Vogliamo invitarlo spiega Marcon - e vogliamo continuare a collaborare con il movimento. Come abbiamo fatto finora».
Altri malpancisti riversano il disagio su Facebook. Scrive Walter Rizzetto: «La cosa più interessante di oggi è la non replica di Rodotà. Comunque vada, stima». E
Currò: «Troppo spesso ho dovuto mordermi la lingua». Ma il più amaro di tutti è il senatore Fabrizio Bocchino: «Oggi, se incontrassi Rodotà per strada, forse non avrei neanche il coraggio di guardarlo in faccia».

l’Unità 1.6.13
Accordo imprese-sindacati
Intesa tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria: trasparenza nel voto e nei contratti
Rappresentanza, è fatta Accordo sul filo di lana
Camusso: l’accordo è un contributo alla coesione del Paese in un momento difficile
di Massimo Franchi


È arrivata ieri sera la firma tra sindacati e Confindustria sulle nuove regole della rappresentanza, un accordo atteso da anni e salutato dalle parti sociali come una vera svolta nelle relazioni. Camusso: «Contributo alla coesione sociale». Epifani: «È un bel segnale».
Firmato finalmente l’accordo sulla rappresentanza fra le parti sociali. Dopo una riunione thrilling Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno siglato l’accordo sul testo che dà esigibilità ai contratti nazionali di categoria sottoscritti dal 50 per cento più uno dei sindacati e validato dalla maggioranza dei lavoratori dopo una consultazione certificata. Il primo commento è di una contentissima Susanna Camusso: «Questo accordo è il nostro contributo alla coesione necessaria per il Paese».
RIUNIONE THRILLING
La giornata di ieri doveva essere una pura formalità e si è invece trasformata in una quasi rottura. Una riunione breve in cui Giorgio Squinzi, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti dovevano limitarsi a firmare il testo già condiviso sulla rappresentanza. E invece la discussione, cominciata alle 17,30 alla Foresteria di Confindustria a via Veneto, si è accesa e arenata su un punto molto delicato. Quello della validità dei contratti nazionali solo se firmato da organizzazioni sindacali che rappresentano il 50 per cento più uno dei lavoratori. Confindustria ha sostenuto che il codice civile considera i contratti validi a prescindere dalla rappresentanza della controparte e quindi non era disposta a firmare l’impegno a rispettare il contratto solo se sottoscritto dal 50 per cento più uno dei sindacati. Una posizione che, hanno controbattuto i sindacati in modo unitario, rendeva praticamente inutile l’intero accordo che prende appunto il nome proprio da quella norma sulla rappresentanza.
Per una buona ora le parti sono state vicine addirittura alla rottura. Poi il buon senso ha prevalso e gli sherpa delle due parti si sono messi al lavoro per modificare il testo in modo che fosse accettabile per entrambi, con Confindustria che però ha sostanzialmente accettato il punto che i contratti sono validi solo se firmati da sindacati rappresentanti la maggioranza dei lavoratori e dopo che i lavoratori stessi avranno validato l’accordo con un voto certificato. E la firma è arrivata alle 21.
Si chiude così una lunga trattativa che è andata avanti mesi con in mezzo la firma separata (senza la Cgil) sulla produttività dello scorso novembre. Confindustria, Cgil, Cisl e Uil tornano a firmare un accordo a quasi due anni da quello del 28 giugno 2011, in gran parte ancora non applicato.
Si tratta di un nuovo importante passo per quella unità sindacale che vedrà il prossimo sabato 22 giugno la grande manifestazione di Cgil, Cisl e Uil a piazza San Giovanni a Roma. Se i sindacati avevano trovato l’accordo sul testo già a metà aprile e lo avevano condiviso con i loro esecutivi riuniti unitariamente, a Confindustria è servito un mese per arrivare all’approvazione, causa soprattutto le scadenze interne alla organizzazione guidata da Giorgio Squinzi, con l’assemblea annuale e la nomina della nuova giunta. Il vertice ora ha dato il via libera all’accordo che non dovrebbe avrebbe modifiche rispetto al testo dei sindacati.
Il testo prevede la rilevazione e la certificazione della rappresentatività basata sull’incrocio tra iscritti (certificati tramite l’Inps come avviene già per i lavoratori pubblici) e voto proporzionale delle Rsu. Laddove non ci siano le Rappresentanze sindacali unitarie varrà solo il numero degli iscritti. Il secondo capitolo riguarda la titolarità a sedersi ai tavoli della contrattazione nazionale: lo potranno fare solo le organizzazioni sindacali che raggiungano il 5% della rappresentanza per ogni contratto nazionale di lavoro mentre gli accordi saranno definiti dalle organizzazioni sindacali che rappresentano almeno il 50% +1 della rappresentanza e dalla consultazione certificata dei lavoratori, a maggioranza semplice. Qui ogni categoria fisserà unitariamente le modalità attuative della consultazione per ogni contratto. E qua ci sono già segnali di divisioni, prima fra tutte fra i metalmeccanici, con la Fiom Cgil che chiede un referendum vero e proprio, mentre Fim Cisl e Uilm sostengono che il voto possa essere espresso anche dai soli Rsu.
IMPEGNI SULLA SIDERURGIA
Prima della firma formale la Cgil dovrà comunque riunire il proprio direttivo per sancire con un voto l’adesione al testo. Un direttivo che potrebbe essere convocato già oggi per lunedì 3 giugno. In precedenza gli stessi Squinzi, Camusso, Bonanni e Angeletti avevano partecipato nel vicinissimo ministero dello Sviluppo economico al primo incontro del tavolo sulla siderurgia. Un incontro in cui il governo si è impegnato a presentare entro metà alle parti un protocollo per il rilancio di tutto il settore.

Corriere 1.6.13
Renzi attacca ancora, irritazione nel Pd
Orfini: «C’è chi pensa solo alla sua convenienza»
di Daria Gorodisky


ROMA — Matteo Orfini — «nascita» dalemiana, cofondatore della corrente dei Giovani turchi e deputato del Pd — non vede come possano placarsi le tensioni interne al suo partito se non si arriva rapidamente al congresso: «Non ci siamo ancora confrontati sulle ragioni della nostra sconfitta, né abbiamo stabilito che cosa debba diventare il Partito democratico. Non è che, senza congresso, si possono evitare questi temi: la discussione politica è in atto comunque. Non possiamo averne paura».
Massimo D'Alema vorrebbe Gianni Cuperlo alla guida del partito, Renzi vorrebbe se stesso in un ruolo alto, ma non ancora definito…
«Renzi e D'Alema si incontrano spesso... Forse Renzi è diventato dalemiano? Per me la proposta migliore è Cuperlo».
E il sindaco di Firenze candidato per Palazzo Chigi?
«Quando ha partecipato alle primarie contro Bersani, diceva cose che non condivido. Vedremo in prossimità delle elezioni. Però la cosa più importante adesso è aiutare a ricostruire il Pd, il che è cosa ben diversa dall'andare a presentare un libro in giro per l'Italia. Temo che ci sia qualcuno che cerca di vivere una fase così delicata del partito come gli conviene».
Farete il congresso entro ottobre, così come avete votato di fare?
«Non vedo ragioni per rinviarlo, e dovrà essere aperto non solo agli iscritti, con le primarie per scegliere il nuovo segretario».
Una tesi è che rimandarlo serve a tenere in piedi il governo.
«È un'idea sbagliata, il governo si stabilizza solo se c'è un Pd forte; e un partito forte può uscire soltanto dal congresso. E poi che argomento è? Si vuole forse dire che finché resta in piedi questo esecutivo non ci sarà congresso?».
Il governo le sembra instabile?
«È sostenuto da una maggioranza particolare che è complicato tenere insieme. Ma sta facendo alcune cose».
C'è sempre qualcuno che minaccia di farlo saltare se non si agisce secondo la propria volontà.
«Lo spauracchio che agita Berlusconi è poco credibile. Quella con il Pdl non è l'unica maggioranza possibile: il Movimento 5 stelle ha già pagato il prezzo della linea Grillo. Perciò dubito che si tornerebbe facilmente al voto».

il Fatto 1.6.13
L’Italia al contrario, gioiellieri alla fame dipendenti ricchi
Secondo il ministero delle finanze il reddito medio dei lavoratori è di 20mila euro
Per chi commercia con i preziosi, 17.300
Notai primi in classifica
di Salvatore Cannavò


La fotografia del reddito degli italiani consegna ancora un’immagine di ingiustizia. Esistono infatti i redditi da lavoro dipendente, certi e documentabili, che pagano le tasse; esistono quelli dei professionisti, che anche se bassi sembrno però accettabili. C’è poi una zona grigia in cui i gioiellieri sono più poveri degli operai, i tassisti arrancano dietro agli insegnanti e i night club si trovano sull’orlo del fallimento.
La fotografia è stata scattata ieri dal Ministero dell’economia e finanze sulla base degli Studi di settore relativi ai redditi nazionali del 2011. Un reddito totale dichiarato di 106,2 miliardi che è composto da una media di 28 mila euro per le persone fisiche, di 38.400 euro per le società e di 32 mila euro per le società di capitali. La dichiarazione Irpef media di un lavoratore dipendente, invece, è di 20.020 euro l’anno. Scendendo nel dettaglio, però, si scopre, ad esempio, che i gioiellieri dichiarano in media 17.300 euro, i taxisti 15.600, i bar 17.800, gli autosaloni 10.100. Va peggio a discoteche, centri benessere e night club che dichiarano redditi negativi o agli impianti sportivi che dichiarano una media di 400 euro annui.
Più veritieri i redditi dei “professionisti” che si attestano, in media, su 49.900 euro con punte tra i farmacisti, 103.400 euro e i notai: 315.600 euro.
LA ZONA GRIGIA è quella tradizionale delle “partite Iva” stimate dal Ministero in 5,066 milioni di contribuenti in calo dell’1,1% rispetto all’anno precedente. L’analisi della composizione di questo corpo sociale ne evidenzia l’eccessiva concentrazione. I contribuenti con volume d’affari superiore ai 5,165 euro, infatti, sono circa l’1,2% del totale (soprattutto società di capitali) che però corrisponde al 70% del volume d’affari complessivo (che è di 3.241 miliardi di euro).
La stragrande maggioranza delle partite Iva (circa il 99%) dichiara quindi un volume d’affari pari a un terzo del totale e, di conseguenza, redditi molto più bassi di quanto ci si aspetterebbe.
Il riflesso di questa fotografia è dato dal rapporto tra entrate fiscali provenienti dai redditi da lavoro e da pensioni e quello proveniente da altri redditi. Un rapporto più che iniquo con il 93%che discende dai primi e solo il 7% dai secondi. In questo contesto è chiaro che qualsiasi riforma fiscale parte viziata da un difetto d’origine.
A smentire i dati del ministero la Cgia di Mestre, l’associazione artigiana diretta da Giuseppe Bertolussi. “Ancora una volta assistiamo ad un uso artefatto delle statistiche - spiega Bertolussi - riferite ai redditi di alcune categorie di lavoratori autonomi”. Secondo Bertolussi “la comparazione non può essere fatta tra un gioielliere e il reddito medio di un lavoratore dipendente” perché la media di quest’ultimo è innalzata da redditi come quello dei giudici, dei medici o dei professori universitari. “Correttezza statistica vuole che il confronto sia comparato con quello del suo dipendente”. Quindi circa il 30-40% in più. Dal punto di vista complessivo, però, le categorie di “quadri” e “dirigenti” sono meno di un milione in un universo lavorativo dipendente che è fatto da circa 17-18 milioni di lavoratori. Medici e giudici non ce la fanno ad alterare il reddito medio complessivo. E l’operaio paga le tasse che il gioielliere non paga.

La Stampa 1.6.13
I gioiellieri guadagnano meno degli impiegati
L’analisi delle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2012
Tassisti fermi a 15 mila euro, la media dei dipendenti è 20 mila
I titolari di autosaloni si sono fermati a 10.800 euro l’anno
Discoteche, night e sale da ballo lavorano in perdita
di Flavia Amabile


Passano gli anni, cambiano i governi, aumentano le dichiarazioni di lotta all’evasione ma la strada da percorrere è ancora lunga. Anche nelle ultime dichiarazioni dei redditi c’è una lista molto nutrita di imprese e autonomi che dichiarano redditi ridicoli. Sono gioiellieri, taxi, bar, autosaloni e in molti casi sostengono di avere redditi molto inferiori ai 20.020 euro di Irpef dichiarati in media dai lavoratori dipendenti.
Il Dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia ha diffuso ieri i dati più recenti sugli studi di settore e si conferma una tendenza ormai in corso da anni. Si riferiscono alle dichiarazioni del 2012 per i redditi del 2011. L’economia era debole ma la crisi non era ancora così seria come in questi mesi. Il reddito totale dichiarato dai contribuenti soggetti agli studi di settore era di 106,2 miliardi di euro, vale a dire l’1,3% in più rispetto all’anno precedente. Il reddito medio dichiarato era di 28mila euro per le persone fisiche (il 2,4% in più rispetto al 2010), 38.400 euro per le società di persone (il 2,2% in più) e 32mila euro per le società di capitali ed enti (l’1,3% in più).
Molte categorie dichiarano decisamente meno della media. Gli istituti di bellezza sostengono di avere un reddito medio di 7.200 euro l’anno, i bar di 17.800 euro, i taxi di 15.600 euro e i gioiellieri di 17.300 euro.
A prestare fede a queste cifre, insomma, si guadagna molto di più a fare l’impiegato che il gioielliere. Non ne parliamo poi se si tratta di lavorare come albergatori (18.300 euro in media hanno dichiarato come reddito medio d’impresa o di lavoro autonomo), come titolari di un autosalone (10.100 euro) o come parrucchieri (13.200) euro. I calzolai dichiarano 10.800 euro, i fiorai 13.200, In pratica, in alcuni casi, anche meno di 1000 euro al mese che può anche essere credibile per un calzolaio, un po’ meno per altre categorie.
C’è da fare la fame e quindi sono totalmente da sconsigliare a chiunque - sempre a voler credere alle dichiarazioni dei redditi - la gestione di impianti sportivi (400 euro l’anno) o il mestiere di noleggiatori di auto (5300 euro), di librai (8.100 euro) e di antiquari (9.900 euro) Anche in questo caso per alcuni come i librai la crisi dei guadagni è vera, per altri meno.
La pennellata finale a questo quadro non esaltante delle attività imprenditoriali e autonome in Italia, la forniscono quelli che sostengono di lavorare perdendoci: sono i titolari di discoteche, sale da ballo, night club, centri per il benessere fisico e stabilimenti termali.
A dichiarare cifre più elevate sono solo i professionisti. Il loro reddito medio è di 49.900 euro l’anno, seguito da chi si occupa di attività manifatturiere con 32.800 euro di reddito medio, un aumento del 12,4%. Al terzo posto il settore dei servizi con 27.300 euro l’anno e un aumento dell’1,6% rispetto all’anno precedente, aumenti che potrebbero anche essere legati alle continue manovre per combattere l’evasione che stanno facendo emergere quote di reddito finora nascoste.
Per quel che riguarda i professionisti, nel 2011 hanno avuto un leggero aumento dei ricavi/compensi medi dello 0,2% rispetto all’anno precedente ma i ricdisertando le urneavi/compensi totali calano dello 0,6%. Diversi gli andamenti all’interno dei diversi settori: le attività professionali crescono dell’1,1%, ma il manifatturiero cala dell’1,2%, il commercio dell’1%, e i servizi dello 0,4%.
Lo studio è riferitoa 3,455 milioni di soggetti con una diminuzione dello 0,8% rispetto all’anno precedente perché molti avevano aderito al regime dei contribuenti minimi che non prevede l’applicazione degli studi di settore. C’è un calo notevole fra chi si occupa di attività manifatturiere (il 3,3% in meno) e chi si occupa di commercio (l’1,1% in meno) ed è dovuto alle forti e crescenti difficoltà economiche.

il Fatto 1.6.13
Per la chiusura della campagna ha scelto Serracchiani e Pisapia
Marino o astensione: per i 5 stelle questo è il dilemma
Il Movimento combattuto tra l’andare a votare per il candidato del Pd oppure rischiare di far vincere il sindaco uscente
di Luca De Carolis e Paola Zanca


La testa nega apparentamenti o indicazioni di voto per il ballottaggio che vale il Campidoglio. Ma una bella fetta della base a votare vuole andarci eccome, e per Ignazio Marino. Tra i Cinque Stelle romani sono giorni opachi, dopo il primo turno che ha dato al candidato al Comune, Marcello De Vito, un 12,5 per cento sotto le attese. Perché la linea ufficiale del “Marino e Alemano pari sono” non convince tanti tra militanti ed elettori.
UNA DICOTOMIA che sul web emerge chiara. “Non andrò a votare ai ballottaggi di Roma. Non posso votare per chi è appoggiato da un partito che fa in Parlamento e sui territori 'carne da macello' della vita dei cittadini”. Carla Ruocco, deputata Cinque Stelle di casa nella Capitale, la sua posizione l’ha espressa due giorni fa, su Face-book. Prima, finora unica, a sostenere pubblicamente la tesi più paradossale per un rappresentante della Repubblica: l’astensionismo. Per questo, non tutti in Rete hanno apprezzato le parole della parlamentare: “Uno dei pochi diritti che mi è dato come elettore è quello di votare. Privarsene non ha senso”, scrivono. E poi ricordano che Marino è del Pd sì, ma è uno che neanche ha votato la fiducia al governo Letta. Infine domandano alla Ruocco: “Non vorrai ritrovarti Alemanno sindaco? ”. Così, il ballottaggio della prossima settimana diventa una nuova grana per il Movimento. Talmente preso dalle sue questioni interne – a cominciare da quelle organizzative – che nella riunione che si è tenuta giovedì sera all’hotel S. John non ne ha nemmeno discusso. La posizione rimane quella di De Vito: libertà di coscienza e zero preferenze. Si era pensato di fare una votazione on line tra gli iscritti, ma non esiste un regolamento per i sondaggi e, alla fine, l’esito della consultazione rischiava di essere deciso da 200 persone in tutto. Troppo poche per una partita così importante. Eppure ci sono eletti di M5S che hanno pubblicamente elogiato l’ex senatore democratico. Massimo Baroni, psicologo e deputato romano, ha più volte condiviso le idee di Marino in materia di sanità (a palazzo Madama una ventina di proposte di legge a firma del candidato sindaco sono state sottoscritte anche da M5S). Anche Adriano Zaccagnini non ha mai nascosto la stima per il chirurgo. Alessandro Di Battista non si espone (“Vado a votare, ma non dico per chi”), ma è difficile immaginare che scelga Alemanno. Intanto, la campagna elettorale cammina veloce.
QUESTA MATTINA Marino farà coppia con Matteo Renzi, per un paio di iniziative nel quartiere Garbatella. La conferma del riavvicinamento tra i due, dopo l’appoggio del chirurgo a Bersani nelle scorse primarie. Ma anche il pretesto per un’acida nota del comitato Alemanno: “Il sindaco di Firenze sarà assieme al candidato nato a Genova, di madre svizzera e padre siciliano”. Marino ha reso noti i dettagli della sua manifestazione di chiusura: sarà il 7 giugno in piazza Farnese, con Nicola Zingaretti, Debora Serracchiani, Giuliano Pisapia e il sindaco di Cagliari Massimo Zedda. Nomi della sinistra che ha vinto, talvolta “nonostante il Pd” (copyright Serracchiani). Sul fronte ballottaggio, oggi il chirurgo darà le sue risposte ai 12 punti programmatici proposti da Alfio Marchini due giorni fa ai candidati. Promette risposte per oggi e “un deciso cambio di passo” anche il sindaco. Che ieri ha dovuto incassare la conferma in appello della condanna per pedofilia a Don Ruggero Conti, ex garante per le politiche della Famiglia del primo comitato Alemanno. Marchini, con il suo 9,4 per cento, sta alla finestra: per l’apparentamento formale c’è tempo sino a domani sera. L’imprenditore assicura: “Non ci sarà più spazio per accordi sottobanco per incarichi e poltrone”. Nega trattative su nomi, e in particolare di aver chiesto il posto di vicesindaco per Andrea Mondello, ex presidente della Camera di Commercio.

La Stampa 1.6.13
La Roma dei poteri forti che ostacola il “marziano”
Lo stile spiazzante di Marino alla prova di imprenditori e politica
di Fabio Martini

qui

Repubblica 1.6.13
La strana alleanza in salsa verde
di Salvatore Settis


LUPI in salsa ecologica: questo il senso della proposta di legge Ac/70, in discussione alla Camera, su «Contenimento dell’uso di suolo e rigenerazione urbana». Bel titolo: peccato che il testo abbia invece l’aspetto di un patto scellerato fra guardie e ladri di territorio. Riassunto delle puntate precedenti: nel 2008 Maurizio Lupi propone una legge dove il suolo ha mera vocazione edificatoria, senza la minima attenzione per la tutela del paesaggio, l’agricoltura, l’assetto idrogeologico.
Una concezione panurbanistica, in nome di “diritti edificatori” commerciabili; ma la proposta cade in un coro di proteste. Nel 2012 Mario Catania, ministro dell’Agricoltura nel governo Monti, presenta una legge sulla «Valorizzazione delle aree agricole e contenimento del consumo di suolo », che contiene due principi assai positivi: la riduzione del consumo dei suoli agricoli e la disciplina degli oneri di urbanizzazione (da destinarsi solo alle opere di urbanizzazione, secondo l’originaria norma Bucalossi, e non alla spesa corrente). Proposta caduta con la fine della legislatura. In che rapporto con questi “precedenti” è la proposta di legge Ac/70? Essa è totalmente dissociata non solo dal suo titolo, ma anche dalla relazione introduttiva. La relazione, infatti, richiama il ddl Catania e ricorda i dati terrificanti (Istat, Ispra, Wwf) sul consumo di suolo in Italia, le misure di contenimento di altri Paesi, la risoluzione europea che impegna
il governo a norme urgenti di analogo segno, il consenso dell’Ance (associazione dei costruttori) a un radicale cambio di rotta verso la riqualificazione degli immobili. Il testo della legge è fedele a queste premesse solo in minima parte ma per il resto non fa che rilanciare la legge Lupi. Dall’articolo 9 della proposta Lupi derivano, infatti, i «diritti edificatori generati dalla perequazione urbanistica », commerciabili senza limiti, nonché incrementati da ulteriori “premia-lità, compensazioni e incentivazioni”. Targata Lupi è anche l’idea che i Comuni, in cambio di aree per l’edilizia sociale, attribuiscano ai privati ulteriori «quote di edificabilità», per giunta trasferibili a piacere, perfino fuori Comune.
Nella proposta Ac/70, «il suolo non edificato costituisce una risorsa il cui consumo (...) è suscettibile di contribuzione » (articolo 1), e infatti gli oneri di urbanizzazione restano tal quali, anzi basta moltiplicarli per quattro (se l’area è
«coperta da superfici naturali o seminaturali») o per tre (se si tratta “solo” di suoli agricoli), e il miracolo è fatto: qualsiasi territorio diventa edificabile, e i relativi diritti possono essere sommati e trasferiti ad libitum.
Ben lungi dal limitare il consumo di suolo, la norma lo consacra traducendolo in un sovraccosto. Infine, istituisce i «comparti edificatori», mostruosa neoformazione dell’articolo 5, una sorta di consorzio dei proprietari privati di un’area determinata, che presentano poi al Comune «il piano urbanistico attuativo riferito all’intero comparto»: una vera e propria privatizzazione della pianificazione territoriale.
Ecco i primi frutti dell’ascesa di Lupi al ministero- chiave delle Infrastrutture. Se questa legge da Lupi l’avesse firmata lui, tutto regolare; ma a presentarla è Ermete Realacci, lunga storia in Legambiente, oggi presidente della commissione Ambiente alla Camera. Tra i firmatari meraviglia trovare Mario Catania, autore di un ddl di segno opposto, e Ilaria Borletti Buitoni, sottosegretario ai Beni culturali ed ex presidente del Fai. Intanto, è in dirittura d’arrivo un pessimo dpr sulle autorizzazioni paesaggistiche, “semplificate” d’ufficio anche nelle aree soggette a vincolo individuale. Per quanto “larghe” siano le intese su cui si regge il governo, sfugge come gli attentati al paesaggio e all’ambiente di queste norme-inciucio possano stare insieme con le (buone) dichiarazioni programmatiche del ministro dell’Ambiente Andrea Orlando che alla Camera ha insistito su ben altre priorità: controllare il rischio idrogeologico, tutelare gli ecosistemi, ridurre il consumo di territorio, pianificare le risorse idriche come bene comune, «puntare sulla trasformazione del tessuto urbano esistente e non su nuove edificazioni».
Se questo fosse il programma non di un ministro ma del governo, la proposta Ac/70, che si scrive Realacci e si legge Lupi, andrebbe immediatamente cestinata. Molto meglio sarebbe ripartire dal ddl Catania, da migliorarsi parametrando la riduzione del consumo di suolo su serie previsioni demografiche e sul censimento degli edifici abbandonati o invenduti.
In questo senso, va la proposta presentata ieri da nove deputati del M5S (tra cui De Rosa e Zaccagnini), mirata a ridurre senza trucchi e senza inganni il consumo del suolo. Ma il tormentato iter di queste norme non avrà mai fine, se non ci decideremo a separare la proprietà dei suoli dai diritti edificatori, sottoponendo questi ultimi a una rigorosa pianificazione pubblica che non può limitarsi all’ambito meramente comunale.
Un ultimo punto: alcuni firmatari della proposta Realacci, interrogati privatamente, confessano di aver firmato sulla fiducia, senza capirne bene il senso. C’è dunque da chiedersi come, nel buio delle “larghe intese”, lavora questo Parlamento eletto con il Porcellum. E se sia legittimato non dico a varare, ma anche solo a sognare una qualsiasi riforma della Costituzione.

Repubblica 1.6.13
"Commercio" di esseri umani. Sono 2.381 gli schiavi d'Italia
È ciò che emerge dal primo rapporto a livello europeo sul traffico di esseri umani che raccoglie i dati del 2008, 2009 e 2010
L'appello dell'associazioni del Bel Paese: "Non tagliate i fondi all'assistenza"
di Rosita Rijtano

qui

l’Unità 1.6.13
Don Ruggero confermata la pena: 14 anni per pedofilia
di Pino Stoppon


ROMA Nuova condanna per Don ruggero Conti. I giudici della terza sezione della Corte d’appello di Roma hanno condannato a 14 anni e due mesi il sacerdote in relazione ad una serie di violenze ed abusi sessuali che avrebbe compiuto a danno di alcuni ragazzi della comunità che gli era affidata. In primo grado Don Ruggero aveva una pena di 15 anni e 4 mesi. La lieve riduzione della condanna è dovuta alla prescrizione che è stata riconosciuta rispetto alle contestazioni risalenti a prima dell’anno 2000.
«Non crediamo che lui sia un mostro. Hanno detto e scritto di tutto. Per noi lui è un modello positivo». Sono tanti i parrocchiani della Natività di Selva Candida che sono voluti esser presenti ieri nel processo d’appello al parroco. Nessuno di loro è critico verso il sacerdote. «I giornalisti non raccontano la verità», sottolineano. Ma qui sono le sentenze a parlare. I pasdaran di don Conti sono giovani, giovanissimi, ma anche anziani, o maturi signori che hanno preso il permesso dal lavoro per stare qui. «La giustizia non è questa», continuano mentre in ordine lasciano il palazzo di giustizia.
L’inchiesta portò nel giugno del 2008 anche all’arresto di don Conti. Dopo un periodo di carcerazione venne rimesso in libertà dopo alcuni mesi, per motivi di salute, ed un periodo passato anche ai domiciliari. Da sempre don Conti si è dichiarato innocente. A lui sono contestati dagli atti sessuali con minori alla violenza sessuale e alla induzione alla prostituzione minorile. Secondo una denuncia, il sacerdote avrebbe attratto le sue vittime con regali che le loro famiglie non potevano permettersi.
Chissà se polemiche a parte quest’ulteriore condanna non riesca a sbloccare anche la parte civile della vicenda, con le vittime che vogliono e devono essere risarcite. «Con la condanna di don Ruggero Conti si può finalmente mettere un punto a questa inquietante vicenda», chiosa infatti l’avvocato Fabrizio Gallo, difensore di parte civile nel processo a carico del sacerdote dopo la sentenza della corte d’appello. Il penalista ha poi aggiunto: «Nessuno finora ci ha risarcito per i danni subiti, morali e materiali. Abbiamo anche scritto al papa ed alle più alte cariche del Vaticano. Speriamo ora che ora qualcuno da oltretevere si faccia sentire».

il Fatto 1.6-13
Pedofilia, 14 anni a don Conti, ex garante del sindaco Alemanno


APPROFITTANDO delle fragilità di alcuni ragazzi affidati alle sue cure in oratorio e nei campi estivi, abusò ripetutamente di loro. Un’accusa terribile sigillata con una condanna da molti definita esemplare. Oggi, Ruggero Conti, ex garante per le Politiche della famiglia del primo comitato di Gianni Alemanno e guida della parrocchia romana della Natività di Maria Santissima, in via di Selva Candida, è stato condannato in appello a 14 anni e due mesi di reclusione per violenza sessuale continuata e aggravata compiuta tra il 1998 e il 2008. I giudici hanno ridotto così la pena di 15 anni e 4 mesi, inflitta al prelato in primo grado, solo perché prescritti tre episodi contestati. Per l’ex parroco scattarono le manette nel giugno del 2008, proprio mentre stava organizzando con l’oratorio il viaggio per partecipare alla Giornata Mondiale della Gioventù.

l’Unità 1.6.13
L’impazienza della grande Franca Rame
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Grazie Franca di essere stata una delle prime firmatarie della proposta di iniziativa popolare per l’abolizione dell’ergastolo. Hai avuto il coraggio (come hai fatto per tutta la vita in numerose lotte sociali) di andare controcorrente mettendoci la faccia e il cuore, che sentiamo ancora battere dalle pareti delle nostre celle. Un sorriso fra le sbarre da tutti gli uomini ombra.
Carmelo Musumeci, dal carcere di Padova

Il ricordo più lontano che ho di Franca Rame è il teatro in cui si rappresentava Mistero buffo. Si era diffusa la notizia dell’arresto di Valpreda e il clima del dibattito in cui la rappresentazione si concludeva, coinvolgendo il pubblico, era quello, teso, di un gruppo di persone che comprendevano da subito, ribellandosi, l’assurdità della versione ufficiale: quella che attribuiva agli anarchici un gesto che nessun anarchico avrebbe mai compiuto. Fu all’interno di una convinzione profonda e condivisa delle malefatte di uno Stato nello Stato che fomentava il terrorismo di destra per combattere le idee della sinistra che Franca maturò la sua partecipazione alle attività di Soccorso Rosso. Vicina con grande rispetto a chi non capiva e non accettava le posizioni ufficiali del Pci di allora. Il ricordo più vicino è quello del 2006-2008 quando chi come lei credeva nella necessità che le istituzioni facessero qualcosa di più che delle chiacchiere si scontrò con la assoluta e pomposa inutilità della Commissione interparlamentare per l’Infanzia. L’impazienza di Franca che aveva scelto di farne parte con entusiasmo mi torna alla mente sempre quando guardo all’assenza delle infanzie infelici nei programmi ufficiali dei partiti e dei governi. Meglio delle discussioni in Parlamento, diceva quella impazienza, il Soccorso Rosso (o la Caritas), l’attività politica del teatrante e la presenza nei luoghi della povertà, della trascuratezza e della disperazione.

il Fatto 1.6.13
Amina e le sue sorelle al jihad del topless
La blogger tunisina resta in carcere assieme alle attiviste che hanno manifestato per la sua liberazione
di Paolo Hutter


La magistratura di Tunisi non ha proceduto al processo per direttissima delle tre ragazze Femen - due francesi e una tedesca - arrestate mercoledì davanti al Palazzo di Giustizia della capitale tunisina dopo che avevano manifestato a seni nudi per la liberazione di Amina.
Una concatenazione complessa di azioni e reazioni degli ultimi giorni - che si è anche intrecciata col conflitto tra i salafiti e lo Stato - ha finito per produrre davvero quello scontro aperto, quel ‘jihad del topless’ e dell’anti-topless, che finora era stato solo paventato attraverso messaggi che non uscivano da Internet.
LE REAZIONI alle foto che Amina aveva diffuso in Face-book a marzo avevano fatto il giro del mondo, così come la vicenda della sua apparente scomparsa, in realtà una sorta di sequestro da parte della famiglia. Ma oltre alla aggressione subìta dal suo amico e “complice” Zied, a marzo, da parte di alcuni integralisti (per fortuna senza conseguenze significative) non era successo nulla di concreto, nè in termini di presenza in spazi pubblici né in termini repressivi.
Amina viveva in modo semi-clandestino tra case di giovani amici a Tunisi, quasi irriconoscibile nel nuovo look di capelli biondi corti e sembrava intenzionata e destinata a partire per la Francia entro la terza settimana di maggio, dove tramite le giornaliste femministe la attendevano un alloggio e una borsa di studio. Il 1° maggio a sorpresa, Amima si è presentata in piazza a Tunisi ed è andata a contestare vivacemente il comizio del partito Cpr, alleato degli islamisti di Ennahda. La polizia in quel caso si è limitata ad allontanarla. Poco più di due settimane dopo, quando si è presentata a Kairuan nel luogo del raduno vietato ai salafiti, Amina né si è tolta la maglietta né ha gridato insulti. Ha scritto Femen su un muretto. Tutti erano convinti che la polizia l'avesse portata via per rilasciarla poche ore dopo in una situazione più tranquilla, con alla peggio una multa da pagare. Invece la magistratura di Kairuan si è impuntata, ha trasformato il fermo in arresto, ha poi rifiutato la libertà provvisoria. Le tre Femen - francesi e tedesca - sono arrivate a Tunisi pronte a ogni evenienza, ma prima ancora del processo ad Amina fissato per il 30, hanno reagito alla negazione della libertà provvisoria per Amina con il primo atto di lotta nudista in un paese arabo. Il giorno dopo a Kairuan, in un tribunale assediato da salafiti, quando si è profilata l'inevitabile scarcerazione di Amina sull'accusa di “bombo-letta spray lacrimogena” - ha poi avuto una multa di 150 euro - il giudice istruttore ha emesso un secondo mandato di cattura per profanazione di cimitero fissando l'interrogatorio a mercoledì.
I magistrati hanno anche deciso di trattenere le tre Femen europee fissando l'udienza sempre per mercoledì. Nel più mite dei paesi arabi non ci si aspettava di gestire quattro Femen in carcere contemporaneamente, mentre i salafiti fremono da una parte, i laici europei - ma non solo - dall'altra. Se qualcuno - ma chi? - non trova una soluzione di buon senso, lo scontro è appena agli inizi.

il Fatto 1.6.13
Siamo troppi: cura dimagrante per il Partito comunista cinese
80 milioni di iscritti, Pechino vuole sfrondare le tessere
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino Uno spettro s'aggira per la Cina. E non solo uno. Sono almeno 30 milioni. Il Partito comunista cinese fa i conti con i suoi fantasmi. È addirittura un periodico governativo a sollevare la questione. Il Partito comunista ha oltre 82 milioni di iscritti, quanto la popolazione della Germania. Si tratta del 6% della popolazione. Numero che cresce di oltre un milione l’anno. Non sarebbe il caso di cominciare a sfoltirlo al “ragionevole” numero di 50 milioni di persone?
È stato un membro del Partito, il professore Zhang Xi'en che insegna scienze politiche all'Università dello Shandong, a sollevare la questione. I bolscevichi erano “solo” 240mila quando presero il potere in Russia nel 1917 e poi, quando nel 1991 raggiunsero i 19 milioni di iscritti cominciarono a perderlo. Una “tragica lezione su cosa accade quando un partito cresce a dismisura senza dotarsi di un meccanismo che permetta ai propri membri di uscirne”. E la Cina dovrebbe imparare dalla storia e dagli errori commessi nel passato. Seppure il giuramento di fedeltà dei giovani pionieri recita di amare – nell'ordine - il Partito, la Patria e il popolo sono in molti a iscriversi solo per i vantaggi che comporta. E poi ci sono quelli troppo vecchi, o troppo giovani. Insomma, pur non volendo fissare un numero ottimale di “comunisti”, Zhang sostiene che quello attuale si potrebbe tranquillamente tagliare del 10%: “Molte persone, inclusi alcuni speculatori, cercano il loro tornaconto personale professandosi membri del partito al governo. Questo mette il Partito in grave pericolo”.
Sì, perché è vero che gli studenti universitari eccellenti sono quasi automaticamente invitati a tesserarsi, ma è anche vero che si contano sulla punta della dita i professori che non sono iscritti. Poi ci sono quelli che entrano per raccomandazione – le famose guanxi (relazioni) che dominano ogni aspetto della vita sociale e lavorativa nell'ex Impero di Mezzo – e quelli che fanno richiesta ogni anno fino a trovare un “anziano” abbastanza potente e fiducioso in loro che possa fargli da garanzia. Negli ultimi vent'anni poi il Partito si è esteso fino a includere gli uomini d'affari e le minoranze etniche.
IL PARTITO ha inglobato in sé tutte le classi sociali e le contraddizioni della nuova Cina fino a diventare un organo della vita pubblica che porta in seno opinioni e volontà contrastanti. E una volta che si è membri è difficile uscirne. Oggi è opinione comune che solo coloro che si sono macchiati di gravi errori politici possano essere espulsi, mentre il rinunciarvi non è nemmeno contemplato. E questo nonostante l'atto costitutivo sancisca il diritto dei singoli individui di “partecipare o ritirarsi liberamente”. Ma, ci spiega il professor Zhang, “i tempi sono cambiati. L'obiettivo finale dovrebbe essere quello di incoraggiare ognuno a dire la sua. Non è più tempo dell'omologazione del pensiero”.

La Stampa 1.6.13
Le madri di Tiananmen “Xi riporta la Cina a Mao”
A 24 anni dal massacro lettera al presidente: dove sono le riforme?
Il bilancio ufficiale delle vittime di Tienanmen è di 202 morti
Ma per la Croce Rossa sono 3mila. I familiari tenuti all’oscuro
di Ilaria Maria Sala


Come ogni anno, si avvicina l’anniversario del massacro di Tiananmen: 24 anni dopo, le autorità cinesi fanno ancora finta che nulla sia successo nel giugno del 1989, e raddoppiano la censura sulla stampa e sul web, mettono sotto sorveglianza dissidenti e familiari delle vittime e aumentano la presenza delle forze dell’ordine per le strade. Si succedono le generazioni dei leader nazionali, ma che sia al potere Jiang Zemin, Hu Jintao o Xi Jinping, poco conta: Tiananmen resta blindata, circondata da transenne e posti di controllo, e l’amnesia forzata è imposta dall’alto. Una decina di persone è ancora imprigionata per i fatti di quell’anno, ufficialmente negati.
Il silenzio non può certo funzionare per le «Madri di Tiananmen»: un gruppo fondato da Ding Zilin, 68 anni, ex professoressa universitaria oggi in pensione, che nella notte fra il 3 e il 4 giugno perse l’unico figlio, 17 anni, ucciso dall’Esercito di Liberazione del Popolo dopo che venne dato l’ordine di aprire il fuoco sui dimostranti che da più di due mesi occupavano la Piazza Tiananmen.
Ieri, le Madri di Tiananmen hanno pubblicato una nuova lettera aperta alle autorità, dove non lesinano le critiche al nuovo Presidente e Segretario del Partito Comunista cinese, Xi Jinping. Che fra pochi giorni partirà per la sua visita negli Stati Uniti, nel corso della quale incontrerà il Presidente americano Obama, con cui passerà il fine settimana. Per le Madri, però, il nuovo leader «sta facendo grandi passi per riportare la Cina verso l’ortodossia maoista» (una critica che gli viene rivolta ormai da più parti, e che alcuni pensano possa essere un tentativo di rappacificare la sinistra del Partito, ancora offesa dall’affaire Bo Xilai). Ogni illusione di riforma da parte del nuovo leader, dicono le rappresentanti dei familiari delle vittime di Tiananmen, è già svanita, «e la speranza si sta tramutando in disperazione».
Di nuovo, le Madri chiedono al governo cinese di affrontare quanto avvenuto nel 1989, di lasciare che sia aperta un’inchiesta e di rivelare i nomi e il numero delle vittime della repressione di quell’anno. Ding Zilin, infatti, ha fondato il gruppo dei familiari delle vittime proprio per compilare una lista dei morti e dei feriti malgrado le omertà ufficiali, ed è riuscita finora a documentare l’uccisione di 202 persone, pur convinta che il vero totale sia molto più alto, ma impossibile da determinare fin quando non sarà possibile parlare apertamente dell’accaduto. La Croce Rossa cinese, poco dopo gli eventi di quell’anno, rivelò in modo non ufficiale che i morti erano probabilmente «dai 2600 ai 3000».
«Non abbiamo nulla», dicono le Madri nella lettera: «Solo il nostro amore materno e la responsabilità che ciò comporta». Malgrado le difficoltà, «non smetteremo di chiedere giustizia, fino al giorno in cui il verdetto ufficiale sul 4 giugno non sarà finalmente corretto, e le anime delle vittime potranno riposare in pace».

Corriere 1.6.13
Cina: turni anche di 24 ore consecutive, un 14enne muore per «troppo lavoro»
Il decesso nei dormitori della Yinchuan Electronic Company di Dongguan che lavora per Samsung, Sony, Canon e Asus

qui

Repubblica 1.6.13
Se perfino l’università ora è made in China
Accordo storico tra università dello Zhejiang e Imperial College
Docenti cinesi e non per un curriculum a prova di Asia
Pechino ora esporta anche l’istruzione, apre a Londra l’ateneo “made in China”
di Giampaolo Visetti


PECHINO DAL ristorantino all’università. Dal barbiere low cost al manager della multinazionale. La Cina cambia volto ed esporta nel mondo anche l’istruzione del futuro. Lo sbarco in Europa non è di basso profilo: un ateneo nel centro di Londra, cuore della conoscenza nel vecchio continente, a due passi da Oxford e da Cambridge.
AD APRIRE il campus, stile anglosassone e metodi asiatici, l’università dello Zhejiang, tra le cinque migliori nella seconda economia del pianeta. Accordo fatto con il glorioso Imperial College, che da lunedì metterà a disposizione le proprie aule agli insegnanti reclutati dal ministero dell’Istruzione di Pechino. Cattedre a contratto e stipendi più ricchi rispetto alla media degli atenei inglesi: gli studenti potranno trovare docenti cinesi, ma pure di altre nazioni del mondo.
La grande novità sono i programmi: rigorosamente cinesi, con la garanzia di una laurea a prova di Oriente, l’area più concorrenziale, ricca e in crescita del secolo. Tra gli obbiettivi, attività accademiche congiunte, ossia l’integrazione totale dei corsi dell’Imperial College e dell’Università dello Zhejiang, gioiello della regione più industrializzata della Cina. Studenti e professori potranno muoversi tra Londra e Hangzhou, oppure seguire a distanza le stesse lezioni, come in un’unica classe, sia in inglese che in mandarino.
È il passo successivo all’improvvisamente invecchiato “Erasmus”, la nuova istruzione ai tempi della globalizzazione. E a nessuno sfugge che Pechino sia già oltre gli Istituti Confucio, 1780 inaugurazioni in pochi anni e in ogni continente, primo strumento per la costruzione del nuovo softpower “made in China”. Aprire università in Europa, negli Usa e presto in Africa, investendo una montagna di yuan per formare giovani stranieri, è la missione più delicata dell’“espansione culturale” varata dai leader comunisti. Ambizione: cambiare l’immagine della Cina all’estero, elevarla al ruolo di nuova superpotenza, trasmettendo direttamente la conoscenza alle classi dirigenti dei prossimi decenni. Per «conquistare i cervelli», rendendoli compatibili con i nuovi assetti globali, Pechino annuncia che non baderà a spese: dopo campus e università, si appresta ad esportare anche istituti di ricerca, laboratori e centri sperimentali a disposizione delle aziende hi-tech.
Si apre così, tra Oriente e Occidente, l’era della concorrenza all’ultimo studente, al luminare più internazionale e al diploma sino-anglosassone senza più confini. La Cina, conquistato il primato mondiale per numero di neo-laureati, promette infatti di mandare in pensione anche il “modello Silicon Valley”, simbolo del progresso nell’era americana: meno finanziamenti ai concentrati nazionali di menti esiliate nei deserti e risorse illimitate a strutture in rete, sparse in ogni angolo del globo, purché con il marchio chiaro del Dragone. «Vogliamo abbattere i muri che ancora dividono la conoscenza — ha detto Zhang Xiuqin, capo della cooperazione internazionale del ministero dell’Istruzione — : per insegnanti e studenti si aprono opportunità senza precedenti». Il campus a Londra non è che la prima tappa. Nel 2012 i giovani stranieri che hanno beneficiato di una borsa di studio cinese sono stati 23 mila. Entro cinque anni Pechino ne metterà a disposizione 200 mila, importando cervelli in Cina, oppure inviandoli negli atenei che si appresta a distribuire nei luoghi- chiave del pianeta: a New York, dove già opera la Shanghai University, ma pure a San Francisco, Parigi, Berlino, Sydney, Johannesburg, San Paolo, Città del Messico, Mosca, in tutta l’Asia e anche a Firenze, dove sta per sbarcare il campus della Tongji University di Shanghai.
Dal Libretto Rosso di Mao ai manuali di scienza dei materiali: la Cina archivia i dogmi di massa e lancia la sfida per la leadership del progresso 2.0. Solo la meta non cambia: ritornare l’Impero di Mezzo, anche nel tempo del web da indossare.

Corriere 1.6.13
Settecento milioni di poveri in meno, ma in Cina i pensionati soffrono ancora

di Guido Santevecchi

Le statistiche non ci propongono solo cattive notizie, come quella della disoccupazione giovanile che è diventata una piaga globalizzata. Secondo i dati dell'Onu, nel mondo negli ultimi vent'anni un miliardo di uomini, donne e bambini sono stati riscattati dalla povertà. Tra il 1990 e il 2010, la percentuale di coloro che vivevano in condizioni di «estrema povertà» nei Paesi in via di sviluppo è scesa dal 43 al 21%, circa un miliardo di anime, dunque. E in questi due decenni questa zona di disperazione economico-sociale, sempre secondo le statistiche, è stata portata da meno di 1 dollaro al giorno di reddito a 1,25 dollari. Venticinque centesimi di speranza in più. Una cifra irrisoria per noi che paghiamo un caffè al bar quattro volte tanto e ci innervosiamo ad avere monetine in tasca, ma sufficiente a far sopravvivere un miliardo di persone. Questo risultato è stato ottenuto soprattutto grazie al grande balzo in avanti della Cina, che conta 680 milioni di poveri in meno dal 1980, grazie all'apertura dell'economia lanciata da Deng e alla crescita consolidata dai suoi successori.L'Economist si chiede se entro il 2030 le nazioni riusciranno a strappare un altro miliardo di persone dalla povertà. E ricorda che la soglia di 1,25 dollari può trarre in inganno: negli Stati Uniti, per esempio, la linea dell'indigenza è tracciata a 63 dollari al giorno (circa 50 euro) di reddito per una famiglia di quattro persone.
C'è un'altra trappola nelle statistiche: nella Cina del miracolo si è creata una fortissima diseguaglianza, basta pensare ai circa 260 milioni di lavoratori migranti che vivono in topaie, anche 40 a turno in una stanza, lontano dai figli, senza diritti.
Sempre in Cina, il governo ha appena pubblicato l'esito drammatico di un sondaggio tra i 185 milioni di ultrasessantenni. Il 22,9% di questi genitori e nonni vive in povertà, ha una capacità di consumo massima di 400 euro all'anno e il 40% è minato da sintomi di depressione. È la stessa generazione che con le proprie mani, il proprio sudore, ha costruito il boom della seconda economia del mondo. E che somiglia ai nostri pensionati.

Corriere 1.6.13
Arte romantica e nazismo. La mostra della discordia
di Paolo Lepri


BERLINO — Alla cancelliera sembra che sia piaciuta. Il presidente francese l'ha definita «molto bella». Ma per il Museo del Louvre la mostra De l'Allemagne, 1800-1939. De Friedrich à Beckmann è in realtà un grosso problema. Ben maggiore dello sciopero dei dipendenti, proclamato qualche settimana fa, per protestare contro le bande di scippatori minorenni che si mischiano indisturbati tra la folla. I tedeschi non l'hanno mandata giù. Molti giornali, come ha fatto Die Zeit, hanno parlato di «scandalo politico-culturale», perché la storia dell'arte in Germania verrebbe interpretata, nella Hall Napoléon, come un percorso obbligato dal romanticismo al nazismo.
François Hollande e Angela Merkel hanno fatto probabilmente finta di non sapere, giovedì scorso, che questa grande iniziativa pensata nel quadro delle celebrazioni per il cinquantenario del Trattato dell'Eliseo era stata preceduta da scambi di accuse inusuali. «Cultori di stereotipi assurdi» da una parte, «francofobi» dall'altra. Anzi, le immagini li ritraggono mentre si soffermano con grande interesse davanti a molte delle oltre duecento opere esposte. In particolare, la donna più potente del mondo allunga una mano divertita, quasi toccando «L'albero dei corvi», l'inquietante quadro dipinto nel 1822 da Caspar David Friedrich. Ma nonostante gli sforzi e tanta buona volontà, la visita dei due avversari europei ha riportato d'attualità le polemiche.
Che cosa è stato rimproverato ai curatori della mostra? In sintesi, di aver presentato in modo ideologico il romanticismo, la nostalgia del classico, la ricerca di un'identità nazionale nella produzione artistica in Germania. Secondo la Frankfurter Allgemeine Zeitung al visitatore viene fatto credere che «dopo un breve periodo di fascinazione per l'antichità, i tedeschi sono tornati nelle loro foreste per poi diventare matti nel Novecento e ritornare alla luce con il nazionalsocialismo». La sottovalutazione degli espressionisti, l'assenza del Bauhaus e quella del movimento dadaista hanno ricevuto altre critiche. È stato definito «problematico» che l'esposizione si chiuda con immagini tratte da Olympia, il film girato nel 1936 da Leni Riefensthal, la regista e fotografa vicina ad Hitler e all'estetica del regime nazista.
«Una mostra sulla Germania non significa voler dire tutto sulla Germania», ha replicato alle accuse Danièle Cohn, docente alla Sorbona e una delle curatici della mostra. «Volevamo — ha aggiunto — che il pubblico si facesse domande su un'arte che è tanto vicina ma ancora lontana da noi». In una lettera aperta a Die Zeit, il direttore uscente del Louvre, Henry Loyrette, si è detto «ferito» e «sorpreso» per le reazioni: è «totalmente infondato», ha sostenuto, che il lavoro degli esperti sia stato ispirato da una visione «sinistra» dell'arte tedesca. Ancora Danièle Cohn ha messo in rilievo che il termine fissato, il 1939, è una data importante per tutta l'Europa. Altro sarebbe stato, ha osservato, fermarsi al 1933, l'anno in cui Hitler prese il potere. L'ambasciatore tedesco a Parigi, Suzanne Wasum-Rainer, ha cercato di chiudere le ostilità dicendo che lo scandalo non ha ragione di essere ed elogiando l'impegno di chi è stato coinvolto nel progetto. Parole sagge. Perché Germania e Francia non dovrebbero litigare così spesso.

Repubblica 1.6.13
La solitudine dell’esperto
Così la bolla informativa annulla la conoscenza
L’allarme arriva da una ricerca curata da due professori dell’Università di Cardiff
Il numero delle pubblicazioni, è ormai fuori controllo
Non basta una vita per aggiornarsi
di Massimiano Bucchi


Il dottor Jones si occupa di diagnostica cardiologica per immagini, ha appena preso servizio ed è pieno di buone intenzioni.
Vuole informarsi sugli studi significativi ed essere aggiornato sui più recenti sviluppi del settore. Si mette subito al lavoro per consultare la letteratura rilevante. Dopo qualche giorno passato sulle principali riviste e database, lo assale un dubbio. Il dottor Jones fa qualche semplice calcolo, e il dubbio si trasforma in sconforto. Anche dedicando alla lettura otto ore al giorno per cinque giorni alla settimana, per cinquanta settimane all’anno — il che fa la bellezza di diecimila articoli letti ogni anno — gli ci vorrebbero più di undici anni a metabolizzare la letteratura rilevante. Nel frattempo però sarebbero stati pubblicati altri ottantamila studi, e per consultare questi ultimi il dottor Jones dovrebbe mettere in conto altri otto anni (a tempo pieno!). Di questo passo, prima di poter iniziare a leggere un articolo appena uscito, dovrebbe dedicare oltre quarant’anni a consultare la letteratura esistente, terminando appena in tempo per andare in pensione.
Il dottor Jones è ormai in preda alle vertigini e inizia a sentirsi come quel personaggio di Massimo Troisi che aveva rinunciato a imparare a leggere «perché io sono uno a leggere, e loro intanto sono milioni a scrivere, non li raggiungerò mai». Se anche riuscisse in qualche modo a completare questa titanica impresa, Jones ha calcolato che in seguito, solo per tenersi aggiornato sui nuovi risultati pubblicati dovrebbe leggere almeno trenta studi a settimana. E, è bene ripeterlo, stiamo parlando di un settore estremamente specifico. I calcoli li hanno fatti un professore di cardiologia e uno di statistica medica dell’Università di Cardiff e il titolo del loro studio, che ne riassume la conclusione categorica, ha il tono sinistro di un’opera di Damien Hirst: Sull’impossibilità di essere esperto.
Ma il discorso non sarebbe molto diverso in altri settori. Il problema, infatti, è generale e riguarda la continua crescita del numero di pubblicazioni scientifiche. Secondo la International Association of Scientific, Technical and Medical Publishers, attualmente sono attive nel mondo 28.100 riviste scientifiche specializzate sottoposte a peer review (cioè a una selezione dei contenuti da parte degli stessi studiosi), per un totale di circa un milione e ottocentomila articoli pubblicati ogni anno. Una cifra astronomica e che continua ad aumentare del 3 per cento ogni anno. Un vero e proprio sovraccarico informativo, o come si usa dire oggi, una “infobesity”, obesità informativa che sta schiacciando sotto il proprio peso il dottor Jones e i suoi colleghi (e se volete davvero farvi girare la testa, cercate su Google “information overload” e scoprirete che c’è un sovraccarico informativo sul sovraccarico informativo: oltre ventuno milioni di risultati).
Che cosa significa dunque essere un “esperto” in questo scenario magmatico? E soprattutto, ha ancora senso parlare di esperti? C’è davvero una differenza significativa — si chiedono provocatoriamente i due autori nello studio — tra ignorare il 100 per cento della letteratura in un settore specifico e ignorarne “solo” il 98 per cento, come sembra essere il destino del dottor Jones e di buona parte dei suoi colleghi?
D’accordo, si dirà: non tutte le riviste e gli studi pubblicati hanno la stessa rilevanza, e non tutti meritano la stessa attenzione da parte del dottor Jones. Ma in questa proliferazione di contenuti è sempre più difficile individuare quelli più importanti, e questa stessa scrematura richiede tempo. Per di più, è evidentemente irrealistica l’aspettativa che il dottor Jones legga riviste scientifiche dalla mattina alla sera: il suo ruolo di esperto richiede anche che visiti pazienti, che parli con i colleghi, che scriva rapporti e naturalmente che produca le proprie pubblicazioni, che andranno ad alimentare il sovraccarico di cui sopra.
Le conseguenze di questa proliferazione informativa sono profonde e ci riguardano tutti. La ricerca dell’Università di Cardiff stima che al ritmo tutt’altro che disprezzabile di un articolo letto al giorno (ovvero 250 articoli all’anno), la probabilità che il dottor Jones e un altro suo collega leggano lo stesso studio nello stesso anno è di 1 a 79. In altre parole, è sempre più difficile per gli esperti, anche in un settore specifico, trovare un terreno stabile, comune e condiviso di risultati; il risultato è una crescente frammentazione e divergenze che si manifestano sempre più frequentemente anche in ambito pubblico.
Diventa infatti sempre più agevole, pescando in questo inesausto e sempre più articolato serbatoio informativo, sfidare e mettere in discussione pareri e competenze espresse dagli esperti su questioni di rilevanza pubblica. Questo contribuisce ad alimentare quella “crisi degli esperti” che si esprime ormai a vari livelli e in molteplici forme: dalla critica alle previsioni meteorologiche da parte di esponenti del mondo politico e imprenditoriale, al complesso intreccio tra competenza e responsabilità, fino al recente “Excelgate” che su blog e siti web di tutto il mondo ha messo in discussione un influente studio sul rapporto tra indebitamento e crescita economica, attribuendogli un macroscopico errore di calcolo.
La portata del fenomeno appare tale da rendere difficile indicare una via d’uscita. Gli autori dello studio gallese si interrogano su come ridurre la quantità ed elevare la qualità delle pubblicazioni specialistiche, ipotizzando ad esempio nuove forme di diffusione dei risultati aperte e collaborative (“wiki”). Ma finché le carriere in questi campi saranno legate alle pubblicazioni, sarà difficile frenare questa “bolla informativa”. E poi, insomma, si tratta solo del parere di due esperti tra i tanti, anzi tantissimi. Il dottor Jones (almeno questo) lo sa bene.

Repubblica 1.6.13
Quel senso interno che ci dice: “sei vivo"
Il nuovo saggio di Daniel Heller-Roazen sulle radici del “Cogito ergo sum”
di Valerio Magrelli


Daniel Heller-Roazen, professore di letteratura comparata a Princeton e traduttore di Giorgio Agamben, è un autore piuttosto eterodosso, o meglio, come è stato affermato da Carlo Ginzburg, “eclettico”. Dopo aver pubblicato Ecolalie, un saggio sull’oblio delle lingue, e Il nemico di tutti, uno studio sulla figura del pirata, Quodlibet propone adesso
Il tatto interno. Archeologia di una sensazione.
Il primo titolo, spaziando fra mitologia, psicoanalisi, teologia, linguistica e letteratura (con Ovidio, Dante, Poe, Canetti), partiva da un punto di vista medico. Indagando l’ecolalia, cioè quel «disturbo che consiste nel ripetere involontariamente parole o frasi pronunciate da altre persone», le sue pagine ampliavano il senso di questa patologia, riconducendola alle origini del linguaggio stesso. Così facendo, dischiudeva nuove prospettive sul rapporto fra oralità e scrittura, memoria e l’oblio: «Ogni lingua è l’eco di quella babele infantile la cui cancellazione rende possibile la parola».
Con il secondo volume, la scena cambia radicalmente, passando dalla lallazione del bambino alla predazione del bandito. Qui Heller-Roazen muove da Cicerone, per ricordare che, se esistono nemici con i quali si può negoziare e stabilire una tregua, ne esistono altri con cui i trattati restano lettera morta e la guerra continua senza fine. Si tratta dei pirati, che gli antichi consideravano “i nemici di tutti”. Il pensiero giuridico e politico ha approfondito questa tema per secoli, ma mai come oggi, afferma l’autore, il pirata costituisce l’immagine dell’avversario universale. Dopo essere stato considerato un personaggio del lontano passato, il nemico di tutti è oggi più vicino a noi di quanto si possa pensare, anzi, forse non è mai stato così vicino. Siamo così al terzo volume, nel quale, tra “paradigma ecolalico” e al “paradigma piratico”, Heller-Roazen cambia ancora una volta paesaggio esperienziale.
Abbandonato l’universo linguistico, accantonata la dimensione bellica, adesso la sua indagine ruota attorno a una facoltà chiamata “senso comune”, e assimilata a una sorta di “tatto interiore, attraverso il quale percepiamo noi stessi”. Anche in questo caso ritroviamo una mescolanza di discipline, una predilezione per la letteratura, un rigore documentativo (cento pagine di note e bibliografia), che devono molto alla lezione di Walter Benjamin. Cominciando con un racconto di E.T.A. Hoffmann sul celebre gatto Murr e terminando con le ultime scoperte della neurologia, venticinque brevi capitoli passano in rassegna filosofi dell’Antichità, pensatori arabi, ebrei e latini del Medio Evo, Montaigne, Francis Bacon, Locke, Leibniz, Rousseau, Proust, fino agli psichiatri del XIX secolo. Al centro delle indagini sta il confronto fra natura umana e animale, da Crisippo a Plutarco, che all’intelligenza dei cani dedicò un celebre trattato.
Ma scendiamo nel vivo del testo, esaminando il quinto capitolo, arricchito da un sottotitolo che suona: «In cui Aristotele e i suoi antichi commentatori spiegano perché gli animali, lungo tutta la loro vita, non possono mancare di accorgersi di esistere ». Confrontato con il De anima del sommo filosofo greco, il suo De sensu appare un trattato più modesto. Eppure, gli studiosi novecenteschi sono rimasti colpiti dalla sua somiglianza con la famosa prova cartesiana, tesa a dimostrare come l’essere pensante non possa dubitare della propria esistenza: noi percepiamo sempre noi stessi, noi siamo sempre consci di esistere. Ma qui occorre introdurre una precisazione. Infatti, a differenza del Cogito ergo sum (“penso dunque sono”) di Cartesio, Aristotele, con il suo Sentio ergo sum (“sento dunque sono”), sposta l’accento dalla sfera razionale a quella percettiva. Inoltre, mentre il primo sostiene la continuità fra specie umana e animali, il secondo vede in queste ultime delle semplici macchine: basti citare l’aneddoto di un suo allievo che prese a calci una cagna incinta, ritenendola appunto nient’altro che un mero congegno organico. Distinguendolo quindi da Cartesio, Heller-Roazen preferisce avvicinare le posizioni di Aristotele al concetto di “continuum” in Leibniz.
Tornando all’oggetto di queste esplorazioni, ci si trova dunque ad affrontare la storia della percezione che ogni creatura ha della propria vita. Secondo Agamben, una simile archeologia della sensazione permetterà di porre un problema su cui filosofi e scienziati non potranno evitare di interrogarsi: qual è il senso col quale, al di qua o al di là della coscienza, sentiamo di esistere? Cosa vuol dire, cioè, sentirsi vivi? A tale domanda Heller-Roazen risponde analizzando un insieme di fenomeni che giocano un ruolo cruciale proprio nella definizione dell’esistenza animale. Ecco venire allora in primo piano alcuni argomenti sul rapporto che lega il corpo alla mente: sonno e veglia, percezione e anestesia, coscienza e incoscienza. Dopo l’apparizione di gatti e cani, lepri, cozze, granchi, ora è la volta dell’uomo, colto però nei suoi stati più labili e alterati. Quali disturbi avvengono al nostro risveglio? Oppure: cosa accade quando si verifica il fenomeno del cosiddetto “arto fantasma”? Lunga è la storia del nostro “tatto interno”, e questo testo la ricostruisce in maniera tanto rigorosa quanto avvincente.

IL LIBRO Tatto interno
di Daniel Heller-Roazen (Quodlibet trad. di G. Lucchesini pagg. 364 euro 26)