Il Prc: rete della Sinistra e consultazione di massa
di Romina Velchi
«Siamo usciti meglio di come siamo entrati. Sicuramente meglio di come veniamo rappresentati». Francesco Ferrara, al termine della due giorni del Prc a Segni, non nasconde la soddisfazione per la buona riuscita dell'appuntamento, giudicato «utile» praticamente all'unanimità. I giornali hanno parlato di «crisi di nervi», liti. Invece, nel tranquillo e appartato albergo della cittadina alle porte di Roma, si è svolta, a detta di tutti i partecipanti, una discussione sì intensa (e anche serrata) ma «unitaria», in cui le posizioni si sono confrontate apertamente cercando una sintesi. Un appunamento di cui, forse, si avvertiva il bisogno (dopo le prese di posizione a colpi di articoli anche su Liberazione ), come testimonia la quarantina di interventi che si sono succeduti e le ore e ore di dibattito quasi stakanovista (ieri si è cominciato alle otto e mezza del mattino).
Al segretario Franco Giordano l'arduo compito di riportare la dialettica interna alla maggioranza del gruppo dirigente su un binario di unità. E Giordano lo fa ribadendo che il processo unitario a sinistra è irreversibile; che va perseguito con modalità confederative che non siano meramente verticistiche, ma sappiano parlare al corpo sociale e che vedano la partecipazione «dei partiti, ma anche delle associazioni, delle esperienze di conflitto sociale, delle organizzazioni sindacali» (non un "tutti dentro", non un'idea statica, ma appunto un processo); e che, infine, Rifondazione non si scioglie, perché la sua esistenza «non è un ostacolo», così come non lo è la Sinistra europea; e perché non è che "gli altri" abbiano intenzione di farlo.
Al fondo c'è l'idea della «democrazia del pubblico», della partecipazione diretta e attiva delle persone, che fa il paio con la proposta (che sarà portata al Cpn di sabato e domenica prossimi) di una «consultazione vera» (non il referendum sulla Cosa rossa proposto da Folena) di tutto il popolo dell'Unione sul tema del programma del governo (si parla anche di questionari alle feste di partito); e che qualifica il sì di Giordano alla proposta di Mussi e Diliberto di una grande manifestazione in autunno: «Siamo senz'altro d'accordo, l'abbiamo proposta anche noi. Ma deve avere un'identità programmatica ben precisa, una piattaforma che tenga ben chiari i temi sociali e i diritti civili»: salari, lavoro, pace, precarietà. E questa piattaforma non potrà non essere frutto di un coinvolgimento-consultazione di altri soggetti: di nuovo «associazioni, sindacati, movimenti». Che poi è anche la via maestra per decidere le prossime mosse del Prc: alla domanda "quale rapporto con il governo?", Rifondazione risponderà serrando il legame con il proprio popolo, con i movimenti. Insomma, attraverso una "rete della sinistra" che rafforzi le sedi unitarie di azione ed elaborazione politica tra i soggetti a sinistra del Pd. Per contrastare il quale serve una innovazione nei contenuti teorici (culturali e politici). Ben sapendo che l'azione del governo va spostata a sinistra: il «mutamento di paradigma», di cui ha parlato il segretario nella relazione.
Con il che, Giordano incassa l'apprezzamento della linea sin qui tenuta dal partito nel rapporto con il governo e nel delicato passaggio della trattativa sulle pensioni. Oltre che una sostanziale riconferma alla segreteria, anche da parte dei possibili altri candidati. Quasi un plebiscito, a Segni, che sgombera il terreno dalle contrapposizioni e prefigura un clima di unità in vista del congresso (che la maggioranza, riunitasi in questi due giorni, proporrà che si svolga a fine gennaio). Valga per tutti l'appello a fare il «congresso presto» di Gennaro Migliore, il quale sottolinea di non avere «velleità di candidarsi. Chi lo pensa sbaglia». Il capogruppo alla Camera ha, anzi, proposto che la relazione di Giordano «diventi la base del documento con cui la maggioranza si presenterà al congresso. Ritengo necessario - precisa Migliore, correggendo l'interpretazione di Liberazione - che si proceda celermente nella costruzione dello spazio pubblico necessario per inventare un soggetto politico plurale, di cui Rifondazione comunista, nel suo complesso, sia parte indispensabile. Si tratta di un processo (magari, perché no, confederale) aperto, il cui esito sarà affidato ai protagonisti dell'impresa. Per questo proporre un nuovo partito sarebbe sbagliato. Noi, come partito, abbiamo l'onere di cominciare, con fiducia».
Questa è una delle due linee che, in tema di unità a sinistra, si sono confrontate a Segni: quella (si potrebbe dire "bertinottiana") che investe di più sul processo unitario, che non ritiene di deciderne gli sbocchi, ma neanche di scartarne a priori e che trova d'accordo, tra gli altri, i "giovani", Caprili, Gagliardi, Russo Spena e lo stesso Migliore. Dall'altra la linea più diffidente, preoccupata dell'identità di Rifondazione; che teme che il cantiere della sinistra finisca con lo spostare a destra l'asse complessivo, in un'operazione verticistica incapace di coinvolgere il corpo del partito; e che condivide l'impostazione di Giordano, secondo cui sarà il processo stesso a decidere che forma prendere, ma ribadendo in modo esplicito il no al partito unico. In questa linea si riconoscono, per esempio, il forum Donne, una parte della segreteria, Paolo Ferrero.
Ai due estremi Alfonso Gianni, che insiste sugli «stati generali della sinistra subito», e Ramon Mantovani, che resta fermo sul no a qualsiasi forma di unione con il resto delle forze a sinistra del Pd. Nel mezzo Giordano, che ha saputo mettere in campo argomenti nei quali le diverse posizioni si possono riconoscere. Applauso finale, ringraziamento ai compagni che hanno reso possibile la due giorni, arrivederci a Segni (dove Rifondazione conta 60 iscritti e da sette anni è al governo) e all'hotel "La pace", dove «si mangia bene». Se ne vanno i protagonisti. Li attendono mesi di fuoco.
Liberazione 7.7.07
Una proposta per uscire dalla stretta e ridar senso alla politica "partecipata"
Sulle pensioni consultiamo i cittadini
di Piero Sansonetti
Sulle pensioni si sta giocando una partita doppia. La prima è una partita strettamente politica. C'è una parte del centrosinistra e del mondo imprenditoriale italiano che vuole, attraverso le pensioni, sconfiggere la sinistra. Come avviene questo attacco? Cercando la demolizione del "blocco sociale" della sinistra. E per questa via minando anche la sua unità interna, e dunque bloccando la possibilità che cresca, che pesi, che condizioni il governo. Sulle pensioni, e sulla difesa dello scalone-Maroni (cioè dell'innalzamento del'età pensionabile) si sta realizzando in forme classiche, e persino molto antiche, un vero e proprio - e feroce - attacco antioperaio. Di stile "vallettiano" (sapete chi era Vittorio Valletta? Era il mitico "padrone" degli anni '50, il presidente della Fiat che inflisse epiche sconfitte ai sindacati e guidò la borghesia a una stagione di schiaccianti vittorie che furono fermate e rovesciate solo nel '68-69). I condottieri di questa offensiva contro la sinistra sono la Confindustria e settori non piccoli sia della destra sia del centrosinistra, in particolare una fetta considerevole del neonato partito democratico. Vedremo se Prodi saprà spezzare questa alleanza e in questo modo riaccreditarsi come leader del centrosinistra. Per Prodi questa è l'unica via possibile per fermare la crisi, ma non è detto che la imbocchi.
La seconda partita è meno politica e più economica. Ed è quasi segreta. I giornali non ne parlano, l'ordine è di tacere e negare. Proviamo a riassumere i termini di questa partita: lo scalone è visto come pietra miliare di una lunga battaglia che punta a devastare il sistema pensionistico italiano, per poi privatizzarlo. I grandi interessi, potentissimi, legati alle rendite finanziarie, sono in attesa famelica. Avviare in tempi medi o brevi la privatizzazione del sistema delle pensioni, può modificare tutta l'economia italiana. E' un affare di miliardi e miliardi, è uno spostamento gigantesco di capitali e di ricchezze e può segnare in modo irreversibile la prevalenza del capitalismo finanziario su quello produttivo. Se ancora non avete capito perché vari partiti politici di centrosinistra non assumono posizioni più avanzate sulle pensioni, questa è la spiegazione: non c'è - dietro le loro scelte - né ideologia, né vere ragioni di economia pubblica, né - tantomeno - buonsenso: c'è una immensa operazione di speculazione.
Perché Rifondazione - viceversa - ha assunto posizioni così rigorose. Perché non sembra disposta a trattare? Non solo perché non è coinvolta nel grande progetto finanziario della gracile borghesia italiana. Ma perché ha ben chiara una idea: che né la sinistra né il centrosinistra possono sacrificare alla realkpolitik gli interessi vitali del proprio blocco sociale. E ha ben chiara l'idea che nessuna coalizione di centrosinistra può cancellare dal proprio blocco sociale la classe operaia. Pena la propria fine, la fine della propria ragione di essere. E gli interessi vitali della classe operaia che vengono messi in discussione dagli stessi dirigenti del centrosinistra - con parole dolci da Veltroni, con grida un po' sguaiate da Rutelli, con arroganza borghese da Dini, con l'abituale freddezza cinica da D'Alema - sono davvero interessi vitali, nel senso che riguardano la sopravvivenza. Oggi gli operai vivono con salari bassissimi, le condizioni di lavoro stanno peggiorando, il tasso di sfruttamento negli ultimi quindici anni si è paurosamente innalzato. E proprio a loro viene detto: non ti do la pensione per il bene del paese. E se non lo capisci sei egoista. C'è solo un velo di moralità politica e intellettuale in questo? No, non c'è.
Che si può fare? Il Parlamento non è chiamato a votare ora sullo sclaone. Potrà votare a ottobre, o a novembre. Nel frattempo - l'idea si sta facendo largo tra i dirigenti di Rifondazione - si potrebbe aprire una consultazione seria tra i lavoratori e i cittadini. L'Unione potrebbe nominare un comitato serio, affidabile - di intettuali, sindacalisti, sociologi, economisti, giuristi - che si incarichi di un vero e proprio referendum su varie opzioni, che decida quale riforma delle pensioni sia la più seria e se l'età pensionabile vada o no innalzata. Non sarebbe una forma di democrazia partecipata più seria e utile persino delle primarie dell'Ulivo?
Repubblica 7.7.07
Croce, lettere su dio
In un epistolario curato da Giovanni Russo il filosofo affronta temi religiosi
di Nello Ajello
Sono gli anni in cui compare il saggio "Perché non possiamo non dirci cristiani"
Un fitto dialogo, durato un decennio con un´aristocratica napoletana
«Lettura di un libretto di versi religiosi della signora Maria Curtopassi», scriveva Benedetto Croce nei suoi Taccuini di lavoro il 2 gennaio 1942, «del quale farò un annunzio per La Critica». È il sostanziale preludio ad una frequentazione epistolare durata oltre dieci anni, fin quasi alla morte del filosofo. Ne dà conto il volume di Benedetto Croce e Maria Curtopassi, Dialogo su Dio. Carteggio 1941-52, che esce a giorni in edizione Archinto, a cura di Giovanni Russo (pagg. 180, euro 18, 50).
La corrispondente del pensatore settantaseienne è un´aristocratica napoletana che sfiora i cinquant´anni. «Una donna cristiana e cattolica», così la definirà Croce, capace di sentire la religione «nella forma di verità che è propria della poesia». Dalle Liriche della Curtopassi il filosofo è vivamente colpito, al punto da scrivere la prefazione al libretto, che ha letto ancora inedito. La Curtopassi, dal suo canto, non esita a professarsi sua allieva. Croce le fa spedire la Storia d´Italia e le preannunzia l´invio della Storia d´Europa. Così, l´epistolario prende i colori dell´amicizia.
Giovanni Russo, che questo carteggio ha trovato e ordinato, riassume con efficacia le intenzioni della poetessa: la vede «impegnata nel cercare le coincidenze tra la dottrina cattolica e la filosofia crociana». Il filosofo non si sottrae al confronto. Ne approfitta, anzi, per esporre i modi molto personali della sua vicinanza al Vangelo e, più in generale, alla religiosità giudaico-cristiana, e insieme i motivi di critica che lo oppongono alla corrente cultura cattolica.
L´inizio di questo «duello a distanza», così lo definisce lo stesso Russo, cade in un momento propizio. Nell´estate del ´42 - lo si rileva sempre dai suoi "taccuini" - Croce sta riflettendo su temi analoghi a quelli toccati nelle lettere, spesso molto lunghe, della sua interlocutrice. «Risvegliatomi dopo la mezzanotte», egli annota il 16 agosto, «sono andato a letto, ma non ho potuto riaddormentarmi presto, e non ho trovato di meglio da fare che venire meditando sul punto: perché non possiamo non chiamarci cristiani?. La mattina ho tracciato il disegno di un piccolo scritto sull´argomento». È il celebre saggio, che uscirà nella Critica il 20 novembre 1942 con il titolo, appunto, Perché non possiamo non dirci cristiani.
Le lettere di Croce che qui pubblichiamo, scegliendole fra le ventuno comprese nel volume, parlano da sole. È facile sciogliere qualche allusione in esse contenuta. Con ogni probabilità, nel «materialista storico» che si dice scandalizzato per la vicinanza politica di Croce a De Gasperi - se ne parla nella lettera del 21 dicembre ´47 - va individuato Palmiro Togliatti. L´articolo di Croce sul Mondo (egli vi accenna il 28 marzo ´49) era uscito dieci giorni prima con il titolo L´uomo vive nella verità. Notizie occasionali. Esse confermano, tuttavia, che il dialogo epistolare fra la poetessa e il filosofo, recuperato grazie a Giovanni Russo, non è una mera "trouvaille", ma si colloca in una zona vitale del pensiero crociano.
GLI INEDITI
"La civiltà moderna figlia di Cristo"
Nella religione delle anime elette c'è qualcosa di poetico
La Chiesa ha perduto la sua plasticità, si è irrigidita e può andare in pezzi
Napoli, 10.6.1941
Pregiatissima Signora, ho letto le sue lettere con la serietà che meritano, perché nascono da uno spirito nobile e severo, profondamente religioso, e da un animo sensibile (...). La ringrazio di avermi data l´occasione di incontrarmi - raro incontro ai nostri giorni - con qualcosa di umanamente gentile.
B.Croce
Napoli, 23.VI.´41
Pregiatissima Signora, (...). Puro filosofo quale sono, e, per sincerità verso me stesso, voglio restare, io stimo che il più profondo rivolgimento spirituale compiuto dall´umanità sia stato il cristianesimo, e il cristianesimo ho ricevuto e serbo, lievito perpetuo, nella mia anima. E godo perciò che il mio pensiero abbia trovato qualche risonanza in un così nobile spirito cristiano come il Suo. B.Croce
Napoli,
3 gennaio 1942
Pregiatissima Signora (...), mi giunge il dono del suo volumetto, che io sono ben lieto che lei si sia risoluta a pubblicare. Ne darò un annuncio e alcuni saggi nella Critica. Le farò avere le bozze di stampa, perché Ella mi dica se desidera che qualcosa sia modificato. C´è un fondo di fede umana in ciò che è superiore e solo ha valore, che io ho ritrovato nelle persone più da me diverse di concetti e di opere, e per il quale mi sono sentito congiunto intimamente con un prete e con un materialista, assai più che con altri che con me consentiva nelle idee e nell´azione pratica. Forse questo intimo e profondo consenso, questo fluido impalpabile, è ciò che Ella chiama, e anche a me piace chiamare, cristianesimo.
B. Croce
Pollone, 30 agosto 1942
Gentilissima Sig.ra e amica, La sua lettera ultima è stata da me letta, e anche riletta, con viva partecipazione, anche perché ho proseguito, e quasi terminato, in questi giorni il Nuovo Testamento. Le dirò che c´è nella religione delle anime elette qualcosa di poetico e amoroso al quale credo che io non potrò giungere, perché sono tutto pensiero ed azione, con la poesia e l´amore che questi placano e sottintendono. Ma, pure rendendomi conto di questo limite, sono profondamente convinto e persuaso che il pensiero e la civiltà moderna sono cristiani, prosecuzione dell´impulso dato da Gesù e da Paolo. Su di ciò ho scritto una breve nota, di carattere storico, che pubblicherò appena ne avrò lo spazio disponibile. Del resto, non sente Ella che in questa terribile guerra mondiale ciò che è in contrasto è una concezione ancora cristiana della vita con un´altra che vorrebbe risalire all´età precristiana, e anzi pre-ellenica e preorientale, e riattaccare quella anteriore alla civiltà, la barbarica violenza dell´orda? Portae inferi non praevalebunt. Spero bene (...).
B. Croce
Napoli, 21 dic. ´47
Stimatissima Signora ed amica (...), le religioni sono piene di filosofia, soprattutto la cristiana. Ma il mio dubbio è che il suo scritto non sarà accolto dalle riviste cattoliche, che non vanno per il sottile, e mentre credono grandi pensatori i meccanici ripetitori di vecchiumi, non tollerano chi parla in nome del pensiero umano e lo tiene umano-divino. Comunque, ho letto nei giornali, a proposito dell´appoggio che io col Partito Liberale ho dato alle postille di De Gasperi (il quale, ora come ora, mira a salvare la libertà italiana contro il bolscevismo russo) che il De Gasperi, cattolico, si è alleato col «capo degli atei internazionali, con B. C.»! Naturalmente questa sollecitudine per l´offesa recata a Dio veniva dalle labbra di un materialista storico per il quale non è altro Dio che materia, o più propriamente l´interesse economico. Io, modestamente, so di vivere in un continuo colloquio con Dio, così serio e intenso che molti cattolici e molti preti non hanno mai sentito nella loro anima.
B. Croce
Napoli, 29.X.´48
Stimatissima amica (.), ciò che mi scrive nells sua lettera mi conferma che Lei ha sentito e compreso la mia anima. Quanto alla teologia che ora si vuole di nuovo nelle nostre università, a me pare vietata dal Decalogo che vuole che il nome di Dio non sia pronunciato invano. E invano lo si pronuncia quando lo si prende in astratto e lo si separa dall´uomo. In questi casi persino fa sbadigliare. Mi ricordo l´aneddoto del direttore della Revue des deux mondes. Avendogli Pierre Leroux portato un articolo e domandato il direttore quale ne fosse l´argomento e dettogli dal Leroux: «Dieu», egli esclamò - «Dieu! Quel mauvais sujet!». Tanto per ridere talvolta, ora che così difficilmente si riesce a ridere.
B. Croce
Napoli, 1. febbraio ´49
Carissima amica (...), certo la cultura cattolica è ora inferiore assai a quella del mondo laico, e avrebbe bisogno di rinnovarsi e di autocriticarsi. Ma il male è che la Chiesa ha perduto da quattro secoli la sua plasticità, si è irrigidita e se tentasse di muoversi e progredire, correrebbe il rischio di andare in pezzi. E se affrontasse coraggiosamente questo rischio e andasse innanzi, che cos´altro poi troverebbe? Quel complesso di verità assodate che uomini cristiani ma laici hanno prodotto col loro lavoro: eredità che non si può rifiutare, si deve accrescere e correggerla, anche per accrescerla, ma col metodo stesso col quale è stata trovata, cioè col metodo antidommatico e critico, che non ammette verità che non nascano dal pensiero, il quale è esso stesso verità (...).
B. Croce
18. III. ´49
Gentile amica, grazie della sua lettera affettuosa. Non so se le sia venuto sott´occhio, nel Mondo (n. 4, mi sembra), un mio articolo, nel quale io affronto la fede, o, per meglio dire, la verità dell´esistenza di Dio, con argomenti non teologici. Ma forse non ne prenderà scandalo, perché, se mai, la mia dimostrazione non nega, ma integra la fede.
B. Croce
Repubblica 7.7.07
Sul saggio di Prem Shankar Jha
Capitalismo l'ultima crisi
L'India sarà il fulcro del xxi secolo
di Eric Hobsbawm
Anticipiamo parte dell´introduzione che ha scritto per Il caos prossimo venturo dell´economista indiano Prem Shankar Jha (Neri Pozza, pagg. 688, euro 25, traduzione di Andrea Grechi e Andrea Spilla)
In questi primi anni del XXI secolo si stenta a ricordare l´ottimismo, per non dire il trionfalismo, con cui il crollo del comunismo fu accolto nelle nazioni ricche del Nord del mondo. Dov´è la «fine della storia» teorizzata da Fukuyama? Oggi, anche i politici e gli ideologi di quei paesi sono molto cauti nelle loro previsioni di un futuro di pace e prosperità per un mondo che appare in evidente crisi. Il valore di un libro sull´attuale situazione del pianeta, tuttavia, non si misura nel suo essere speranzoso o disincantato, ma nell´aiutarci a capirla, ovvero nel fornire una comprensione storica della crisi presente. Il libro straordinariamente intelligente, lucido e problematico di Prem Shankar Jha supera questa prova a pieni voti. È una lettura fondamentale per la prima decade di questo terzo millennio.
L´autore considera la crisi attuale come l´ultima in ordine di tempo nello sviluppo secolare di un capitalismo per sua propria natura sempre più globalizzato. A suo giudizio, questa è la quarta volta che il capitalismo infrange il suo «contenitore» economico, politico e istituzionale, nel corso di una storia le cui origini egli fa risalire al Medioevo. Come nel passato, la fine di ciascuno di questi cicli di espansione ha segnato il crollo delle istituzioni e un prolungato conflitto tra gli stati e al loro interno, nonché quello che è stato definito «caos sistemico». (...)
Ciascuna delle precedenti fasi di espansione capitalistica, sostiene Jha, fu contrassegnata dall´egemonia di un centro economico predominante, e collegata sin dal XVII secolo a un´innovazione di portata storica: lo «stato-nazione» su base territoriale all´interno di un sistema di potere internazionale. Dopo quella che considera l´era delle città-stato medievali, dopo l´egemonia economica dei Paesi Bassi seguita da quella della Gran Bretagna, oggi siamo al termine del «secolo americano». Ma nel suo ritmo accelerato, la globalizzazione ha travalicato i limiti della cornice relativamente stabile e flessibile che il capitalismo aveva generato – nello specifico lo stato-nazione con le sue istituzioni e il suo sistema internazionale – e che aveva consentito ad esso di svilupparsi senza esplodere o implodere e di riprendersi dalle crisi della prima metà del XX secolo. Tale sistema non funziona più, e nessuna chiara alternativa è in vista. Bisogna prepararsi a una nuova fase di distruzione e a un caos più profondo, prima che le contraddizioni interne ed esterne della crisi attuale della globalizzazione siano superate.
Diversamente dalla gran parte delle opere sulla globalizzazione, in genere scritte in Europa o nel Nord America, la voce di Prem Shankar Jha ci arriva dall´India, la regione che probabilmente sarà il fulcro del mondo del XXI secolo, ma il cui spettacolare sviluppo coincide con il «caos sistemico» in cui l´economia globale si trova immersa sin dall´avvio dell´attuale epoca di crisi negli anni Settanta. (...)
Gli effetti negativi della globalizzazione sui paesi sviluppati, come anche le conseguenze della loro deindustrializzazione e l´erosione dei loro sistemi di welfare, sono concreti ma lenti, e mitigati dalla ricchezza accumulata in quelle società. I terremoti generati in quei paesi sono piccole scosse al fondo della scala Richter economica, ma nel mondo «in via di sviluppo» sono cataclismi. Quando politici e giornalisti dell´Unione Europea parlano di crisi economica, non si riferiscono a quello che Jha giustamente definisce il «tracollo» del 1997-98, delle cui manifestazioni nel sud-est asiatico fornisce un´acuta analisi; non si riferiscono alle esplosioni sismiche che hanno scosso Brasile, Messico e Argentina a partire dagli anni Ottanta, e che i commentatori occidentali in massima parte giudicarono come la riprova dell´immaturità degli imprenditori e dei governanti del Terzo mondo rispetto a quelli dei paesi Ocse.
Un osservatore appartenente a un paese come l´India, rispetto a quelli dei paesi ricchi, corre meno rischi di confondere gli effetti generalmente benefici dell´industrializzazione e del progresso tecnico-scientifico con le conseguenze assai più problematiche della globalizzazione capitalistica incontrollata, vale a dire il drammatico allargamento della forbice tra i redditi pro-capite dei paesi sviluppati e quelli della maggior parte degli altri paesi – e, all´interno di quasi tutti i paesi, il divario tra ricchi e poveri. Soprattutto, è difficile che non tenga costantemente presente che frasi come «ho fame» o «non ho lavoro» hanno un significato profondamente diverso in paesi con un Pil medio pro capite di 25.000 dollari rispetto a paesi in cui è di soli 500 dollari.
Repubblica 7.7.07
La famiglia che non c'è
"Il modello perfetto", dice lo studioso, "è un'invenzione delle classi conservatrici ed è sempre stato così"
«La famiglia felice è un´invenzione», sorride Salvador Minuchin, lo sguardo sapiente di chi da mezzo secolo studia le famiglie, ne osserva mutamenti profondi o impercettibili, si adopera per curarle, cucire strappi, sradicare relazioni sbagliate. Ottantaquattrenne ebreo russo cresciuto in Argentina, è un padre fondatore della terapia famigliare, l´ha aiutata a crescere con una pratica internazionale tra Israele e Stati Uniti e opere ormai classiche quali Quando la famiglia guarisce, Famiglie e terapie della famiglia, Famiglie psicosomatiche. «Quando incontro una famiglia sono con tutti i sensi all´erta, come un appassionato di enigmistica alle prese con l´edizione domenicale del Times». Ne ha conosciute di ogni genere, nei ghetti di New York, nei kibbutz israeliani o nei loft di Manhattan. «La famiglia ideale non esiste», ripete con convinzione, forte di un´antica dimestichezza con il sogno dell´americano medio, «il modello "marito di successo-moglie casalinga-due figli e mezzo", ancora così caro a molti politici». Per il suo lavoro questo modello non ha mai avuto rilevanza. «È vero che la composizione di una famiglia può dare degli indizi rispetto all´individuazione dei problemi. Se incontro una donna sola con un figlio unico, posso già presupporre un eccesso di investimento emotivo della madre e uno sviluppo precoce nel bambino. Ma gli elementi che cerco sono sempre la flessibilità, la competizione, l´empatia, la gerarchia, il caos».
Minuchin è venuto in Italia - su iniziativa del professor Luigi Onnis per un workshop delle scuole IEFCoS e IEFCoSTRE insieme al Dipartimento di Scienze Psichiatriche dell´Università di Roma - in un momento in cui la famiglia è diventata un tema di discussione politica e culturale, contesa tra chi ne difende la natura eterogenea e multiforme (dalle famiglie monogenitoriali a quelle allargate) e chi ne rivendica l´omologazione a una regola rigida, secondo i principi dell´ortodossia cattolica. «Il modello della famiglia perfetta è un´invenzione delle classi conservatrici», dice Minuchin. «È sempre stato così. Basterebbe il titolo d´un celebre saggio di Stephanie Coontz, The way we never were, American families and nostalgia trap, ovvero il modo in cui non siamo mai stati, un libro che demoliva il rimpianto di quell´eden perduto incarnato dagli anni Cinquanta. Non esiste un unico tipo di famiglia, ne esistono a centinaia, a seconda del contesto geografico, sociale e culturale. In Cina i bambini crescono con i nonni, nei paesi baschi gli uomini hanno due mogli: la propria consorte e gli amici. Quel che dobbiamo chiederci non è "qual è la famiglia ideale", piuttosto come riuscire a essere bravi genitori, indipendentemente dalla forma famigliare».
Ma cosa bisogna fare per essere un "bravo genitore"? «Al primo posto metterei il lavoro fatto insieme. Sia il padre che la madre sono responsabili dello sviluppo dei figli, condividono le responsabilità nel crescerli. In questo senso le famiglie moderne sono assai più progredite rispetto al passato, segnato dall´assenza della figura paterna. Oggi gli uomini sono più attenti dei loro padri e dei loro nonni. Naturalmente bisogna poi intendersi su cosa significhi amare i propri figli, e qui il lavoro dei genitori comincia a complicarsi: perché amare significa innanzitutto comprendere i bisogni, e i bisogni cambiano nel tempo. Il genitore capace sa cogliere questi mutamenti, e sa adattare al cambiamento anche quel suo ruolo inderogabile che consiste nel fissare le regole. Non bisogna mai dimenticarsi che un figlio ha la necessità di avere delle regole. Dall´età infantile all´adolescenza, i ragazzi hanno sempre bisogno di controllo, disciplina e guida. Non è pensabile alcuno sviluppo senza norme: in questo devo smentire Rousseau e il mito del buon selvaggio».
La famiglia è un´organizzazione sociale necessaria, ripete Minuchin. Può cambiare nel tempo, nella storia minima famigliare come nella storia d´una società. E la scommessa consiste proprio nel percepire i cambiamenti all´interno delle relazioni famigliari, cogliere il momento della crisi, adattandovisi di volta in volta. «Una mamma rigida dovrà necessariamente ammorbidire l´indole normativa con la figlia adolescente: il processo di crescita ha bisogno di contenimento, ma anche la regola si deve commisurare all´evoluzione dei rapporti. Un equivoco da evitare è quello del "genitore amico dei figli". I figli devono stare con i loro coetanei: ai genitori spetta un altro ruolo».
Di recente Minuchin ha messo a punto un nuovo metodo di valutazione delle coppie e delle famiglie articolato in quattro fasi (ne è testimonianza il libro ancora inedito in Italia Assessing families and couple: from symptom to system, editore Pearson, New York). Da quasi sessant´anni lo studioso vive negli Stati Uniti. È nato a San Salvador, in una zona rurale dell´Argentina, all´interno di una piccola enclave ebraica molto compatta: lì ha compreso cos´è una famiglia allargata. Padre commerciante di grano e madre casalinga, fin da piccolo percepisce tra i suoi genitori un legame di tipo assai tradizionale - il capofamiglia e la moglie devota - per poi più tardi imparare che nella vita adulta è difficile liberarsi dalla propria storia famigliare. Anticonformista per indole, a vent´anni finisce in galera per una manifestazione contro Perón, a venticinque va a combattere nel neonato esercito israeliano. Medico specializzato in neuropsichiatria infantile, sceglie gli Stati Uniti come terreno sperimentale, impegnandosi inizialmente con le famiglie portoricane dei ghetti newyorkesi. Da sempre gli piace venire in Italia, il «paese con il maggior numero di terapeuti famigliari», dice con un po´ di rimpianto per la stagione della "psichiatria democratica", Basaglia e gli anni Sessanta. «La terapia famigliare è figlia di quella storia, uno dei molti portati di quell´epoca di cambiamento. A pensarci adesso sembra strano che sia stata il prodotto di una cultura dove la famiglia era considerata una struttura di potere repressiva. Il concetto di madre "iperprotettiva" elaborato da David Levy negli anni Quaranta esercitò una notevole influenza per tutti gli anni Cinquanta. Bruno Bettelheim raccomandava la "genitorectomia", cioè l´asportazione dei genitori dalla vita dei figli».
Se c´è un testimonial vivente dei valori famigliari è proprio lui, Minuchin, sposato da cinquantasei anni con Pat, psicologa affermata. «Abbiamo avuto due figli, che mi hanno insegnato molte cose. Grazie a loro ho accettato le debolezze, le incertezze e gli inciampi della vita famigliare. Ancora oggi quando mi incontro con le famiglie, Pat e i miei figli sono parte di me».
l'Unità 7.7.07
Rifondazione soffia sulla crisi
Rilancio continuo: il programma parla chiaro. La rottura apre le porte alle elezioni. E allo scalone
di Wanda Marra
IRREMOVIBILE Così si definisce Rifondazione comunista sulle pensioni. E mentre da Palazzo Chigi si cominciano a delineare le linee generali di una proposta che dovrebbe arrivare al superamento dello scalone, attraverso una serie di scalini, da cui vengono esclusi i lavori usuranti, Rc continua a dire che non basta, portando avanti l’unica proposta di mediazione che ritiene possibile (va bene uno scalino a 58 anni, se vengono esclusi operai, turnisti e coloro che hanno pagato 40 anni di contributi). A questo punto è chiaro che la partita si gioca sulla definizione di lavori usuranti. E qui si apre un solco, tra il Prc e la Cgil. Sì perché se Rc non vuole assolutamente mediare sugli operai, il sindacato porta avanti l’idea che gli operai non sono tutti uguali. Anche se dallo staff di Bertinotti dichiarano che si tratta solo di un caso, sono di ieri due interviste, una al Presidente della Camera, Bertinotti su Repubblica, l’altra al Segretario della Cgil, Epifani sulla Stampa. «Nessuno vuole la crisi, ma questo non vuol dire che il rischio non ci sia...», dice Bertinotti. E poi rimarca: qualunque intervento sull'età pensionabile deve salvare i diritti acquisiti degli operai. Quindi si può ripetere una crisi del governo Prodi come nel '98? «Non si può escludere nulla», risponde. Poi ribadisce il punto della necessità di rispettare il programma dell’Unione, come Rifondazione ripete quasi ossessivamente: «Allora c'era solo un patto di desistenza. Oggi c'è invece un'alleanza organica e c'è un programma comune». Ribadendo l’appoggio della Cgil al “lodo Damiano” manda a dire a Rc Epifani: «Stai attenta è in gioco il governo. E se cade, una delle conseguenze è che i lavoratori si tengono lo scalone». Ma Rifondazione va avanti senza cedere di un millimetro sulle sue posizioni. Le interviste irrompono nel “ritiro” del partito a Segni, ai confini della Ciociaria. Con due effetti immediati: il rafforzamento della posizione assunta sulle pensioni e un certo spiazzamento di fronte alle parole di Epifani. Lapidario il capogruppo del partito alla Camera, Migliore: «Siamo sconcertati da quanto dice Epifani». E poi ci va giù duro: «I lavoratori usuranti sono pochi. Gli operai sono ben altra cosa». Ribadisce Russo Spena, capogruppo del Prc a Palazzo Madama: «La nostra posizione è irremovibile». La definizione di lavoratori usuranti «non basta» rimarca Alfonso Gianni, che sottolinea come la posizione espressa da Bertinotti sia l'unica «su cui vale la pena costruire un compromesso». In attesa di conoscere nel dettaglio la proposta del Premier, però, tutti si affrettano a dire che l’accordo «è possibile». Alla fine, a tirare le fila è il segretario del partito, Giordano che una volta fatte le conclusioni al “conclave” di Segni “si attacca” al telefono. «Sta facendo la trattativa sulle pensioni», dice qualcuno del partito rimasto ad aspettarlo. «Sono in attesa di conoscere la proposta del governo», dichiara E sulla Cgil: «Non voglio discutere con Epifani. Noi non facciamo concorrenza alla Cgil. ma facciamo parte di questa maggioranza. Se dunque il governo avanza una proposta sulle pensioni, vorremmo che fosse condivisa. Poi il sindacato fa il suo mestiere». E ancora ci tiene a sottolineare che la posizione di Rc rispecchia dettagliatamente il programma. L’intransigenza, dunque, viene ribadita. Pesa decisamente sul piatto della bilancia il fatto che le pensioni sono una bandiera alla quale il partito crede di non poter rinunciare. Non a caso dal “conclave” di Segni esce anche la proposta da presentare al Comitato nazionale di una consultazione di iscritti e elettori, aperta anche a chi è vicino agli altri soggetti della “costituenda” Cosa Rossa, sulla presenza di Rc nel governo, con domande precise su alcuni temi chiave, come le stesse pensioni. Nel tentativo di far legittimare le proprie scelte direttamente dalla “base”. A tali primarie si dovrebbe arrivare ad ottobre, con questionari però già distribuiti alle feste di partiti. Ma la trattativa sulle pensioni dovrebbe chiudersi prima. Non c’è il rischio che siano inutili? «Certo, se la realtà supera questo progetto....», si limita a una frase Giordano. Come dire, che il governo potrebbe non esserci più. Intanto, giudica «decisiva» per l’esecutivo la riforma della previdenziale anche il Ministro Ferrero. Avvertendo: «La posizione per noi è una sola - dice - quella del programma. Va bene quello che ha detto Prodi sull'abolizione dello scalone. La discussione di merito è ancora tutta in piedi».
il manifesto 7.7.07
Ragioni e dubbi sulla sinistra del terzo millennio
di Sandro Curzi
Caro Valentino, se praticassi ancora quotidianamente il giornalismo, come hai la fortuna di fare tu, se potessi scrivere l'editoriale di un giornale libero e riflessivo, come il manifesto, e se, naturalmente, fossi bravo a scrivere come te, avrei scritto esattamente le cose che hai scritto tu, con la tua solita, tenace onestà intellettuale, nell'editoriale di giovedì («Obiettivo a sinistra»). Dall'apertura, giustamente dedicata all'«appassionato intervento» di Bertinotti all'assemblea della Sinistra europea, alla disarmante e disarmata conclusione: o «il comunismo deve essere ancora l'orizzonte di una forza unitaria e plurale della sinistra» oppure «la difesa di un comunismo impossibile sarebbe inutile e dannosa, forse solo un trucco elettorale acchiappavoti per vecchi come me». Per vecchi, appunto, come me.
Anch'io ritengo che il dibattito in corso all'interno della stessa sinistra - fra i leader e i militanti interessati a opporre al nascente Partito democratico una forza autenticamente «comunista» o comunque «socialista» capace di mettere in campo un'adeguata «massa critica» - è troppo schiacciato sulla forma-partito, sul contenitore, quando non sui rapporti di forza tra i suoi confezionatori o, peggio, sulle collocazioni personali. Quello che manca è proprio, come efficacemente fai tu, un ragionamento sul contenuto. E trattandosi nientemeno che del «socialismo del XXI secolo», dell'«oltre» rispetto al comunismo di noi vecchi del XX secolo, non si può dire che sia una mancanza irrilevante.
Anch'io, con te, voglio invitare tutti quanti a interrogarsi pubblicamente e a confrontarsi proprio su questo, non accontentandosi delle ottime intenzioni di Bertinotti, dei tuoi editoriali e di interviste come quella rilasciata l'altro giorno a Liberazione dalla «ragazza del secolo scorso» Rossana Rossanda. Certo, premono le urgenze del governo del paese, della resistenza a una destra liberista e anti-politica sempre più arrogante e pericolosa, e della doppia crisi di fondo che tu individui: la crisi della politica e la crisi del nostro capitalismo. Nessuno può ragionevolmente sottovalutare l'articolazione e la complessità dei problemi che incombono in conseguenza di ciò sull'attuale generazione di dirigenti della sinistra, peraltro appena uscita dalla ingombrante autorevolezza della generazione che si oppose al fascismo, che partecipò alla costruzione della Repubblica e della democrazia italiana, che lottò nelle piazze e nelle fabbriche per guadagnare dignità e salari ai lavoratori e che fronteggiò il terrorismo. Si aggiunga poi che, a 20 anni dalla caduta del Muro, la sinistra deve registrare la deriva moderata, ai limiti del liberismo, del suo pezzo storicamente più importante. Detto tutto questo, si deve chiedere alla generazione dei Giordano, dei Mussi, dei Diliberto, dei Pecoraio Scanio e, se possibile, sino all'ultimo, anche dei Borselli di non perdere la consapevolezza dei forti legami fra le urgenze e le emergenze da un canto e, dall'altro, le ragioni profonde e i problemi strategici che solo qualificano l'essere di sinistra, il fare politica a sinistra, il lavorare per una uscita a sinistra della crisi del sistema politico, economico e sociale. Da vecchio, sono lacerato dagli stessi dubbi che fanno capolino fra le righe del tuo editoriale. Pur non avendo avuto noi, in qualche importante passaggio della nostra vita, un'identica risposta militante alle incertezze e alle tragedie che hanno accompagnato nel secolo scorso la storia del comunismo e in genere le ricadute delle ideologie, credo di condividere ormai da parecchio con te la stessissima posizione rispetto ai guai combinati da certi nostri ex-compagni e alle incognite che ci stanno davanti.
Sono d'accordo con te: partiamo dalla sintesi di Bertinotti (il «passaggio cruciale», l'«urgenza del fare», l'obiettivo del «socialismo del XXI secolo») e intanto discutiamo e, se possibile, precisiamo il «dove siamo» e il «dove vogliamo arrivare». Nessuno lo sa meglio di noi poveri vecchi: «Non si esce da una malattia senza una diagnosi». E' questo il lavoro che ci deve vedere tutti ugualmente impegnati noi vecchi e loro giovani. Bisogna resistere alla tentazione - nostra e loro - di una specie di divisione del lavoro, riservando la riflessione e la strategia alla generazione che ha la generosità di fare un passo indietro, e il fare e la tattica alla generazione che sta prendendo o ha già preso il nostro posto. Credo che anche sulla tattica (e sulla terapia) i Bertinotti e i Parlato hanno il dovere di dire la propria, e che soprattutto anche sulla strategia (e sulla diagnosi) si ha bisogno dell'apporto dei meno anziani, dei giovani e dei giovanissimi dirigenti e militanti destinati comunque a traghettare la sinistra reduce dal naufragio del XX secolo alla traversata del XXI secolo. Intanto, così come non abbiamo mai avuto problemi, da socialisti, a dichiararci comunisti, non avremmo oggi alcun problema, da comunisti, a dichiararci socialisti. Non abbiamo bisogno di scomodare Lenin o Gramsci per ribadire che il problema non è nominalistico. Del resto probabilmente anch'io, se fossi al manifesto, ogni tanto mi chiederei se conservare o meno la scritta «quotidiano comunista» e poi, «non scorgendo di meglio», me la terrei stretta.
Il problema è di sostanza e grosso assai. E niente si potrà costruire di solido e credibile se non si rispondesse prima alla domanda: il comunismo o socialismo che dir si voglia, deve essere ancora l'orizzonte di una forza unitaria e plurale della sinistra o siamo convinti che ci sia qualcosa «di meglio»? Io, detto chiaramente e sinceramente, credo che di questo qualcosa non si vede traccia.
Sandro Curzi consigliere Rai
il manifesto 7.7.07
Bertinotti minaccia la crisi: «Ma non è il '98»
Rifondazione nell'angolo sulla previdenza punta a «salvare» gli operai. Al conclave di Segni la maggioranza del partito si ricompatta su Giordano
di Alessandro Braga
«Speriamo che la crisi di governo non ci sia. Speriamo...». Ma chi non vede i rischi «fa male». Fausto Bertinotti torna, dopo l'intervista rilasciata a Repubblica, sulle tensioni nella maggioranza sulla riforma delle pensioni. E ribadisce il suo «non possumus». Ci sono 130mila persone che «hanno maturato il diritto di andare in pensione il prossimo anno - dice il presidente della camera - Negare questo diritto sarebbe un delitto sociale. Che non possiamo e non vogliamo commettere». Quindi, anche se è chiaro che «nessuno vuole la crisi, il rischio c'è».
Uno spauracchio sbandierato a piene mani che lascia però indifferente il ministro della giustizia Clemente Mastella: «Ho 30 anni di vita parlamentare alle spalle. Ne ho viste tante e le crisi non mi spaventano». Anche se, pure lui, si augura che non avvenga, «per il bene del paese». Dichiarazioni che lo stesso presidente della camera si è affrettato a definire «sagge e condivisibili pienamente», hanno fatto sapere da ambienti vicini a Montecitorio.
L'uscita pubblica di Bertinotti ha però rinvigorito Rifondazione comunista, o almeno la sua maggioranza, che all'ultimo congresso si era stretta attorno alla mozione dell'ex segretario. E che ieri, da Segni, dove era riunita per la seconda e ultima giornata del «conclave» che serviva a chiarirsi meglio in vista del prossimo congresso, previsto per i primi mesi del 2008, ha fatto quadrato intorno al presidente della camera.
«Le parole di Bertinotti lanciano al paese e alla sinistra un chiaro messaggio: l'idea dello scalone è una persecuzione», afferma il sottosegretario Alfonso Gianni. E il capogruppo al senato Giovanni Russo Spena ribadisce la «piena sintonia» con Bertinotti. «La nostra posizione è irremovibile - aggiunge - ora aspettiamo la proposta di Prodi». Che non dovrebbe tardare, dato che ieri mattina il premier ha affermato di essere «molto avanti nella trattativa, e presto ci sarà la proposta». Quale possa essere, e soprattutto come possa andare bene a Rifondazione, non è chiaro. Il presidente del consiglio potrebbe decidere di inserire la riforma delle pensioni nella finanziaria, in quel caso la discussione si protrarrebbe fino a fine anno, con la possibilità di porre la fiducia sul documento. Oppure presentare in tempi brevi la sua proposta al consiglio dei ministri, cercando unanimità fin da subito. Senza però la certezza di un voto favorevole del ministro del Prc Paolo Ferrero, che ha ribadito che la posizione del suo partito è «una sola: quella del programma». Con i punti fermi spiegati dal capogruppo alla camera Gennaro Migliore: esclusione dall'innalzamento dell'età pensionabile di alcune categorie, il lavoro operaio e i turnisti; abolizione dello scalone e non sostituzione con «scalini»; il non automatismo dell'introduzione dello scalone tra tre anni. Una soluzione, insomma, che «realizzi il programma dell'Unione». Ma che, con i malumori da sopire anche dei centristi della maggioranza, difficilmente potrà essere portata avanti, anche se Migliore si dice «fiducioso» in una risoluzione entro fine luglio.
Fermo restando che la caduta del governo Prodi non converrebbe a nessuno, tanto più che in quel modo si andrebbe a salvare l'odiato scalone, e che la proposta di consultazione della base del partito sull'opportunità o meno di restare legati all'esecutivo sembra difficilmente realizzabile, perlomeno prima di settembre, resta da capire quali possono essere «i punti di caduta» accettabili per il partito di Franco Giordano. Punti intoccabili sembrano essere l'esclusione del lavoro operaio dall'innalzamento dell'età pensionabile e l'automatismo sull'introduzione dello scalone nel 2010. Meno certa l'irriducibilità sui turnisti e la possibilità di verifica tra tre anni. Ma i turnisti sono un punto fermo della Cisl, dove ha la sua base più forte, e la verifica permetterebbe a chi avrà il compito di verificare di certificare la necessità di un innalzamento dell'età pensionabile.
il Riformista 7.7.07
Revisione della legge 40. La norma assurda
Caro direttore, «lo Stato si deve togliere di mezzo nei rapporti privati, addirittura intimi; in particolare nel rapporto uomo donna… La legge 40 è una legge assurda, razzista, di una violenza mostruosa, non solo sulle donne, ma sul rapporto uomo donna».
In questo periodo di crescente oscurantismo religioso, filosofico e politico, ripeterei come un mantra le parole di Massimo Fagioli, intervistato da Nuova Agenzia Radicale (26/05/05) in occasione del referendum sulla legge 40.
«Uno Stato non può operare in condizioni di sudditanza alla Chiesa, perché viene alterata persino la personalità giuridica.
Lo Stato si deve basare sul reato e soltanto in quel caso intervenire. Non può a priori dire come devi mangiare, come ti devi vestire, come devi far l’amore, come e quanti figli devi procreare».
Spero che le brave senatrici Cossutta e Franco, impegnate per conto del ministro Turco nella “revisione delle linee guida della legge 40”, tengano conto di questa chiave di lettura ampiamente condivisa.
Paolo Izzo