sabato 7 luglio 2007

Liberazione 7.7.07
Il Prc: rete della Sinistra e consultazione di massa
di Romina Velchi


«Siamo usciti meglio di come siamo entrati. Sicuramente meglio di come veniamo rappresentati». Francesco Ferrara, al termine della due giorni del Prc a Segni, non nasconde la soddisfazione per la buona riuscita dell'appuntamento, giudicato «utile» praticamente all'unanimità. I giornali hanno parlato di «crisi di nervi», liti. Invece, nel tranquillo e appartato albergo della cittadina alle porte di Roma, si è svolta, a detta di tutti i partecipanti, una discussione sì intensa (e anche serrata) ma «unitaria», in cui le posizioni si sono confrontate apertamente cercando una sintesi. Un appunamento di cui, forse, si avvertiva il bisogno (dopo le prese di posizione a colpi di articoli anche su Liberazione ), come testimonia la quarantina di interventi che si sono succeduti e le ore e ore di dibattito quasi stakanovista (ieri si è cominciato alle otto e mezza del mattino).
Al segretario Franco Giordano l'arduo compito di riportare la dialettica interna alla maggioranza del gruppo dirigente su un binario di unità. E Giordano lo fa ribadendo che il processo unitario a sinistra è irreversibile; che va perseguito con modalità confederative che non siano meramente verticistiche, ma sappiano parlare al corpo sociale e che vedano la partecipazione «dei partiti, ma anche delle associazioni, delle esperienze di conflitto sociale, delle organizzazioni sindacali» (non un "tutti dentro", non un'idea statica, ma appunto un processo); e che, infine, Rifondazione non si scioglie, perché la sua esistenza «non è un ostacolo», così come non lo è la Sinistra europea; e perché non è che "gli altri" abbiano intenzione di farlo.
Al fondo c'è l'idea della «democrazia del pubblico», della partecipazione diretta e attiva delle persone, che fa il paio con la proposta (che sarà portata al Cpn di sabato e domenica prossimi) di una «consultazione vera» (non il referendum sulla Cosa rossa proposto da Folena) di tutto il popolo dell'Unione sul tema del programma del governo (si parla anche di questionari alle feste di partito); e che qualifica il sì di Giordano alla proposta di Mussi e Diliberto di una grande manifestazione in autunno: «Siamo senz'altro d'accordo, l'abbiamo proposta anche noi. Ma deve avere un'identità programmatica ben precisa, una piattaforma che tenga ben chiari i temi sociali e i diritti civili»: salari, lavoro, pace, precarietà. E questa piattaforma non potrà non essere frutto di un coinvolgimento-consultazione di altri soggetti: di nuovo «associazioni, sindacati, movimenti». Che poi è anche la via maestra per decidere le prossime mosse del Prc: alla domanda "quale rapporto con il governo?", Rifondazione risponderà serrando il legame con il proprio popolo, con i movimenti. Insomma, attraverso una "rete della sinistra" che rafforzi le sedi unitarie di azione ed elaborazione politica tra i soggetti a sinistra del Pd. Per contrastare il quale serve una innovazione nei contenuti teorici (culturali e politici). Ben sapendo che l'azione del governo va spostata a sinistra: il «mutamento di paradigma», di cui ha parlato il segretario nella relazione.
Con il che, Giordano incassa l'apprezzamento della linea sin qui tenuta dal partito nel rapporto con il governo e nel delicato passaggio della trattativa sulle pensioni. Oltre che una sostanziale riconferma alla segreteria, anche da parte dei possibili altri candidati. Quasi un plebiscito, a Segni, che sgombera il terreno dalle contrapposizioni e prefigura un clima di unità in vista del congresso (che la maggioranza, riunitasi in questi due giorni, proporrà che si svolga a fine gennaio). Valga per tutti l'appello a fare il «congresso presto» di Gennaro Migliore, il quale sottolinea di non avere «velleità di candidarsi. Chi lo pensa sbaglia». Il capogruppo alla Camera ha, anzi, proposto che la relazione di Giordano «diventi la base del documento con cui la maggioranza si presenterà al congresso. Ritengo necessario - precisa Migliore, correggendo l'interpretazione di Liberazione - che si proceda celermente nella costruzione dello spazio pubblico necessario per inventare un soggetto politico plurale, di cui Rifondazione comunista, nel suo complesso, sia parte indispensabile. Si tratta di un processo (magari, perché no, confederale) aperto, il cui esito sarà affidato ai protagonisti dell'impresa. Per questo proporre un nuovo partito sarebbe sbagliato. Noi, come partito, abbiamo l'onere di cominciare, con fiducia».
Questa è una delle due linee che, in tema di unità a sinistra, si sono confrontate a Segni: quella (si potrebbe dire "bertinottiana") che investe di più sul processo unitario, che non ritiene di deciderne gli sbocchi, ma neanche di scartarne a priori e che trova d'accordo, tra gli altri, i "giovani", Caprili, Gagliardi, Russo Spena e lo stesso Migliore. Dall'altra la linea più diffidente, preoccupata dell'identità di Rifondazione; che teme che il cantiere della sinistra finisca con lo spostare a destra l'asse complessivo, in un'operazione verticistica incapace di coinvolgere il corpo del partito; e che condivide l'impostazione di Giordano, secondo cui sarà il processo stesso a decidere che forma prendere, ma ribadendo in modo esplicito il no al partito unico. In questa linea si riconoscono, per esempio, il forum Donne, una parte della segreteria, Paolo Ferrero.
Ai due estremi Alfonso Gianni, che insiste sugli «stati generali della sinistra subito», e Ramon Mantovani, che resta fermo sul no a qualsiasi forma di unione con il resto delle forze a sinistra del Pd. Nel mezzo Giordano, che ha saputo mettere in campo argomenti nei quali le diverse posizioni si possono riconoscere. Applauso finale, ringraziamento ai compagni che hanno reso possibile la due giorni, arrivederci a Segni (dove Rifondazione conta 60 iscritti e da sette anni è al governo) e all'hotel "La pace", dove «si mangia bene». Se ne vanno i protagonisti. Li attendono mesi di fuoco.

Liberazione 7.7.07
Una proposta per uscire dalla stretta e ridar senso alla politica "partecipata"
Sulle pensioni consultiamo i cittadini
di Piero Sansonetti


Sulle pensioni si sta giocando una partita doppia. La prima è una partita strettamente politica. C'è una parte del centrosinistra e del mondo imprenditoriale italiano che vuole, attraverso le pensioni, sconfiggere la sinistra. Come avviene questo attacco? Cercando la demolizione del "blocco sociale" della sinistra. E per questa via minando anche la sua unità interna, e dunque bloccando la possibilità che cresca, che pesi, che condizioni il governo. Sulle pensioni, e sulla difesa dello scalone-Maroni (cioè dell'innalzamento del'età pensionabile) si sta realizzando in forme classiche, e persino molto antiche, un vero e proprio - e feroce - attacco antioperaio. Di stile "vallettiano" (sapete chi era Vittorio Valletta? Era il mitico "padrone" degli anni '50, il presidente della Fiat che inflisse epiche sconfitte ai sindacati e guidò la borghesia a una stagione di schiaccianti vittorie che furono fermate e rovesciate solo nel '68-69). I condottieri di questa offensiva contro la sinistra sono la Confindustria e settori non piccoli sia della destra sia del centrosinistra, in particolare una fetta considerevole del neonato partito democratico. Vedremo se Prodi saprà spezzare questa alleanza e in questo modo riaccreditarsi come leader del centrosinistra. Per Prodi questa è l'unica via possibile per fermare la crisi, ma non è detto che la imbocchi.
La seconda partita è meno politica e più economica. Ed è quasi segreta. I giornali non ne parlano, l'ordine è di tacere e negare. Proviamo a riassumere i termini di questa partita: lo scalone è visto come pietra miliare di una lunga battaglia che punta a devastare il sistema pensionistico italiano, per poi privatizzarlo. I grandi interessi, potentissimi, legati alle rendite finanziarie, sono in attesa famelica. Avviare in tempi medi o brevi la privatizzazione del sistema delle pensioni, può modificare tutta l'economia italiana. E' un affare di miliardi e miliardi, è uno spostamento gigantesco di capitali e di ricchezze e può segnare in modo irreversibile la prevalenza del capitalismo finanziario su quello produttivo. Se ancora non avete capito perché vari partiti politici di centrosinistra non assumono posizioni più avanzate sulle pensioni, questa è la spiegazione: non c'è - dietro le loro scelte - né ideologia, né vere ragioni di economia pubblica, né - tantomeno - buonsenso: c'è una immensa operazione di speculazione.
Perché Rifondazione - viceversa - ha assunto posizioni così rigorose. Perché non sembra disposta a trattare? Non solo perché non è coinvolta nel grande progetto finanziario della gracile borghesia italiana. Ma perché ha ben chiara una idea: che né la sinistra né il centrosinistra possono sacrificare alla realkpolitik gli interessi vitali del proprio blocco sociale. E ha ben chiara l'idea che nessuna coalizione di centrosinistra può cancellare dal proprio blocco sociale la classe operaia. Pena la propria fine, la fine della propria ragione di essere. E gli interessi vitali della classe operaia che vengono messi in discussione dagli stessi dirigenti del centrosinistra - con parole dolci da Veltroni, con grida un po' sguaiate da Rutelli, con arroganza borghese da Dini, con l'abituale freddezza cinica da D'Alema - sono davvero interessi vitali, nel senso che riguardano la sopravvivenza. Oggi gli operai vivono con salari bassissimi, le condizioni di lavoro stanno peggiorando, il tasso di sfruttamento negli ultimi quindici anni si è paurosamente innalzato. E proprio a loro viene detto: non ti do la pensione per il bene del paese. E se non lo capisci sei egoista. C'è solo un velo di moralità politica e intellettuale in questo? No, non c'è.
Che si può fare? Il Parlamento non è chiamato a votare ora sullo sclaone. Potrà votare a ottobre, o a novembre. Nel frattempo - l'idea si sta facendo largo tra i dirigenti di Rifondazione - si potrebbe aprire una consultazione seria tra i lavoratori e i cittadini. L'Unione potrebbe nominare un comitato serio, affidabile - di intettuali, sindacalisti, sociologi, economisti, giuristi - che si incarichi di un vero e proprio referendum su varie opzioni, che decida quale riforma delle pensioni sia la più seria e se l'età pensionabile vada o no innalzata. Non sarebbe una forma di democrazia partecipata più seria e utile persino delle primarie dell'Ulivo?

Repubblica 7.7.07
Croce, lettere su dio
In un epistolario curato da Giovanni Russo il filosofo affronta temi religiosi
di Nello Ajello


Sono gli anni in cui compare il saggio "Perché non possiamo non dirci cristiani"
Un fitto dialogo, durato un decennio con un´aristocratica napoletana

«Lettura di un libretto di versi religiosi della signora Maria Curtopassi», scriveva Benedetto Croce nei suoi Taccuini di lavoro il 2 gennaio 1942, «del quale farò un annunzio per La Critica». È il sostanziale preludio ad una frequentazione epistolare durata oltre dieci anni, fin quasi alla morte del filosofo. Ne dà conto il volume di Benedetto Croce e Maria Curtopassi, Dialogo su Dio. Carteggio 1941-52, che esce a giorni in edizione Archinto, a cura di Giovanni Russo (pagg. 180, euro 18, 50).
La corrispondente del pensatore settantaseienne è un´aristocratica napoletana che sfiora i cinquant´anni. «Una donna cristiana e cattolica», così la definirà Croce, capace di sentire la religione «nella forma di verità che è propria della poesia». Dalle Liriche della Curtopassi il filosofo è vivamente colpito, al punto da scrivere la prefazione al libretto, che ha letto ancora inedito. La Curtopassi, dal suo canto, non esita a professarsi sua allieva. Croce le fa spedire la Storia d´Italia e le preannunzia l´invio della Storia d´Europa. Così, l´epistolario prende i colori dell´amicizia.
Giovanni Russo, che questo carteggio ha trovato e ordinato, riassume con efficacia le intenzioni della poetessa: la vede «impegnata nel cercare le coincidenze tra la dottrina cattolica e la filosofia crociana». Il filosofo non si sottrae al confronto. Ne approfitta, anzi, per esporre i modi molto personali della sua vicinanza al Vangelo e, più in generale, alla religiosità giudaico-cristiana, e insieme i motivi di critica che lo oppongono alla corrente cultura cattolica.
L´inizio di questo «duello a distanza», così lo definisce lo stesso Russo, cade in un momento propizio. Nell´estate del ´42 - lo si rileva sempre dai suoi "taccuini" - Croce sta riflettendo su temi analoghi a quelli toccati nelle lettere, spesso molto lunghe, della sua interlocutrice. «Risvegliatomi dopo la mezzanotte», egli annota il 16 agosto, «sono andato a letto, ma non ho potuto riaddormentarmi presto, e non ho trovato di meglio da fare che venire meditando sul punto: perché non possiamo non chiamarci cristiani?. La mattina ho tracciato il disegno di un piccolo scritto sull´argomento». È il celebre saggio, che uscirà nella Critica il 20 novembre 1942 con il titolo, appunto, Perché non possiamo non dirci cristiani.
Le lettere di Croce che qui pubblichiamo, scegliendole fra le ventuno comprese nel volume, parlano da sole. È facile sciogliere qualche allusione in esse contenuta. Con ogni probabilità, nel «materialista storico» che si dice scandalizzato per la vicinanza politica di Croce a De Gasperi - se ne parla nella lettera del 21 dicembre ´47 - va individuato Palmiro Togliatti. L´articolo di Croce sul Mondo (egli vi accenna il 28 marzo ´49) era uscito dieci giorni prima con il titolo L´uomo vive nella verità. Notizie occasionali. Esse confermano, tuttavia, che il dialogo epistolare fra la poetessa e il filosofo, recuperato grazie a Giovanni Russo, non è una mera "trouvaille", ma si colloca in una zona vitale del pensiero crociano.

GLI INEDITI
"La civiltà moderna figlia di Cristo"
Nella religione delle anime elette c'è qualcosa di poetico
La Chiesa ha perduto la sua plasticità, si è irrigidita e può andare in pezzi

Napoli, 10.6.1941
Pregiatissima Signora, ho letto le sue lettere con la serietà che meritano, perché nascono da uno spirito nobile e severo, profondamente religioso, e da un animo sensibile (...). La ringrazio di avermi data l´occasione di incontrarmi - raro incontro ai nostri giorni - con qualcosa di umanamente gentile.
B.Croce

Napoli, 23.VI.´41
Pregiatissima Signora, (...). Puro filosofo quale sono, e, per sincerità verso me stesso, voglio restare, io stimo che il più profondo rivolgimento spirituale compiuto dall´umanità sia stato il cristianesimo, e il cristianesimo ho ricevuto e serbo, lievito perpetuo, nella mia anima. E godo perciò che il mio pensiero abbia trovato qualche risonanza in un così nobile spirito cristiano come il Suo. B.Croce

Napoli,
3 gennaio 1942
Pregiatissima Signora (...), mi giunge il dono del suo volumetto, che io sono ben lieto che lei si sia risoluta a pubblicare. Ne darò un annuncio e alcuni saggi nella Critica. Le farò avere le bozze di stampa, perché Ella mi dica se desidera che qualcosa sia modificato. C´è un fondo di fede umana in ciò che è superiore e solo ha valore, che io ho ritrovato nelle persone più da me diverse di concetti e di opere, e per il quale mi sono sentito congiunto intimamente con un prete e con un materialista, assai più che con altri che con me consentiva nelle idee e nell´azione pratica. Forse questo intimo e profondo consenso, questo fluido impalpabile, è ciò che Ella chiama, e anche a me piace chiamare, cristianesimo.
B. Croce

Pollone, 30 agosto 1942
Gentilissima Sig.ra e amica, La sua lettera ultima è stata da me letta, e anche riletta, con viva partecipazione, anche perché ho proseguito, e quasi terminato, in questi giorni il Nuovo Testamento. Le dirò che c´è nella religione delle anime elette qualcosa di poetico e amoroso al quale credo che io non potrò giungere, perché sono tutto pensiero ed azione, con la poesia e l´amore che questi placano e sottintendono. Ma, pure rendendomi conto di questo limite, sono profondamente convinto e persuaso che il pensiero e la civiltà moderna sono cristiani, prosecuzione dell´impulso dato da Gesù e da Paolo. Su di ciò ho scritto una breve nota, di carattere storico, che pubblicherò appena ne avrò lo spazio disponibile. Del resto, non sente Ella che in questa terribile guerra mondiale ciò che è in contrasto è una concezione ancora cristiana della vita con un´altra che vorrebbe risalire all´età precristiana, e anzi pre-ellenica e preorientale, e riattaccare quella anteriore alla civiltà, la barbarica violenza dell´orda? Portae inferi non praevalebunt. Spero bene (...).
B. Croce

Napoli, 21 dic. ´47
Stimatissima Signora ed amica (...), le religioni sono piene di filosofia, soprattutto la cristiana. Ma il mio dubbio è che il suo scritto non sarà accolto dalle riviste cattoliche, che non vanno per il sottile, e mentre credono grandi pensatori i meccanici ripetitori di vecchiumi, non tollerano chi parla in nome del pensiero umano e lo tiene umano-divino. Comunque, ho letto nei giornali, a proposito dell´appoggio che io col Partito Liberale ho dato alle postille di De Gasperi (il quale, ora come ora, mira a salvare la libertà italiana contro il bolscevismo russo) che il De Gasperi, cattolico, si è alleato col «capo degli atei internazionali, con B. C.»! Naturalmente questa sollecitudine per l´offesa recata a Dio veniva dalle labbra di un materialista storico per il quale non è altro Dio che materia, o più propriamente l´interesse economico. Io, modestamente, so di vivere in un continuo colloquio con Dio, così serio e intenso che molti cattolici e molti preti non hanno mai sentito nella loro anima.
B. Croce

Napoli, 29.X.´48
Stimatissima amica (.), ciò che mi scrive nells sua lettera mi conferma che Lei ha sentito e compreso la mia anima. Quanto alla teologia che ora si vuole di nuovo nelle nostre università, a me pare vietata dal Decalogo che vuole che il nome di Dio non sia pronunciato invano. E invano lo si pronuncia quando lo si prende in astratto e lo si separa dall´uomo. In questi casi persino fa sbadigliare. Mi ricordo l´aneddoto del direttore della Revue des deux mondes. Avendogli Pierre Leroux portato un articolo e domandato il direttore quale ne fosse l´argomento e dettogli dal Leroux: «Dieu», egli esclamò - «Dieu! Quel mauvais sujet!». Tanto per ridere talvolta, ora che così difficilmente si riesce a ridere.
B. Croce

Napoli, 1. febbraio ´49
Carissima amica (...), certo la cultura cattolica è ora inferiore assai a quella del mondo laico, e avrebbe bisogno di rinnovarsi e di autocriticarsi. Ma il male è che la Chiesa ha perduto da quattro secoli la sua plasticità, si è irrigidita e se tentasse di muoversi e progredire, correrebbe il rischio di andare in pezzi. E se affrontasse coraggiosamente questo rischio e andasse innanzi, che cos´altro poi troverebbe? Quel complesso di verità assodate che uomini cristiani ma laici hanno prodotto col loro lavoro: eredità che non si può rifiutare, si deve accrescere e correggerla, anche per accrescerla, ma col metodo stesso col quale è stata trovata, cioè col metodo antidommatico e critico, che non ammette verità che non nascano dal pensiero, il quale è esso stesso verità (...).
B. Croce

18. III. ´49
Gentile amica, grazie della sua lettera affettuosa. Non so se le sia venuto sott´occhio, nel Mondo (n. 4, mi sembra), un mio articolo, nel quale io affronto la fede, o, per meglio dire, la verità dell´esistenza di Dio, con argomenti non teologici. Ma forse non ne prenderà scandalo, perché, se mai, la mia dimostrazione non nega, ma integra la fede.
B. Croce

Repubblica 7.7.07
Sul saggio di Prem Shankar Jha
Capitalismo l'ultima crisi
L'India sarà il fulcro del xxi secolo
di Eric Hobsbawm


Anticipiamo parte dell´introduzione che ha scritto per Il caos prossimo venturo dell´economista indiano Prem Shankar Jha (Neri Pozza, pagg. 688, euro 25, traduzione di Andrea Grechi e Andrea Spilla)

In questi primi anni del XXI secolo si stenta a ricordare l´ottimismo, per non dire il trionfalismo, con cui il crollo del comunismo fu accolto nelle nazioni ricche del Nord del mondo. Dov´è la «fine della storia» teorizzata da Fukuyama? Oggi, anche i politici e gli ideologi di quei paesi sono molto cauti nelle loro previsioni di un futuro di pace e prosperità per un mondo che appare in evidente crisi. Il valore di un libro sull´attuale situazione del pianeta, tuttavia, non si misura nel suo essere speranzoso o disincantato, ma nell´aiutarci a capirla, ovvero nel fornire una comprensione storica della crisi presente. Il libro straordinariamente intelligente, lucido e problematico di Prem Shankar Jha supera questa prova a pieni voti. È una lettura fondamentale per la prima decade di questo terzo millennio.
L´autore considera la crisi attuale come l´ultima in ordine di tempo nello sviluppo secolare di un capitalismo per sua propria natura sempre più globalizzato. A suo giudizio, questa è la quarta volta che il capitalismo infrange il suo «contenitore» economico, politico e istituzionale, nel corso di una storia le cui origini egli fa risalire al Medioevo. Come nel passato, la fine di ciascuno di questi cicli di espansione ha segnato il crollo delle istituzioni e un prolungato conflitto tra gli stati e al loro interno, nonché quello che è stato definito «caos sistemico». (...)
Ciascuna delle precedenti fasi di espansione capitalistica, sostiene Jha, fu contrassegnata dall´egemonia di un centro economico predominante, e collegata sin dal XVII secolo a un´innovazione di portata storica: lo «stato-nazione» su base territoriale all´interno di un sistema di potere internazionale. Dopo quella che considera l´era delle città-stato medievali, dopo l´egemonia economica dei Paesi Bassi seguita da quella della Gran Bretagna, oggi siamo al termine del «secolo americano». Ma nel suo ritmo accelerato, la globalizzazione ha travalicato i limiti della cornice relativamente stabile e flessibile che il capitalismo aveva generato – nello specifico lo stato-nazione con le sue istituzioni e il suo sistema internazionale – e che aveva consentito ad esso di svilupparsi senza esplodere o implodere e di riprendersi dalle crisi della prima metà del XX secolo. Tale sistema non funziona più, e nessuna chiara alternativa è in vista. Bisogna prepararsi a una nuova fase di distruzione e a un caos più profondo, prima che le contraddizioni interne ed esterne della crisi attuale della globalizzazione siano superate.
Diversamente dalla gran parte delle opere sulla globalizzazione, in genere scritte in Europa o nel Nord America, la voce di Prem Shankar Jha ci arriva dall´India, la regione che probabilmente sarà il fulcro del mondo del XXI secolo, ma il cui spettacolare sviluppo coincide con il «caos sistemico» in cui l´economia globale si trova immersa sin dall´avvio dell´attuale epoca di crisi negli anni Settanta. (...)
Gli effetti negativi della globalizzazione sui paesi sviluppati, come anche le conseguenze della loro deindustrializzazione e l´erosione dei loro sistemi di welfare, sono concreti ma lenti, e mitigati dalla ricchezza accumulata in quelle società. I terremoti generati in quei paesi sono piccole scosse al fondo della scala Richter economica, ma nel mondo «in via di sviluppo» sono cataclismi. Quando politici e giornalisti dell´Unione Europea parlano di crisi economica, non si riferiscono a quello che Jha giustamente definisce il «tracollo» del 1997-98, delle cui manifestazioni nel sud-est asiatico fornisce un´acuta analisi; non si riferiscono alle esplosioni sismiche che hanno scosso Brasile, Messico e Argentina a partire dagli anni Ottanta, e che i commentatori occidentali in massima parte giudicarono come la riprova dell´immaturità degli imprenditori e dei governanti del Terzo mondo rispetto a quelli dei paesi Ocse.
Un osservatore appartenente a un paese come l´India, rispetto a quelli dei paesi ricchi, corre meno rischi di confondere gli effetti generalmente benefici dell´industrializzazione e del progresso tecnico-scientifico con le conseguenze assai più problematiche della globalizzazione capitalistica incontrollata, vale a dire il drammatico allargamento della forbice tra i redditi pro-capite dei paesi sviluppati e quelli della maggior parte degli altri paesi – e, all´interno di quasi tutti i paesi, il divario tra ricchi e poveri. Soprattutto, è difficile che non tenga costantemente presente che frasi come «ho fame» o «non ho lavoro» hanno un significato profondamente diverso in paesi con un Pil medio pro capite di 25.000 dollari rispetto a paesi in cui è di soli 500 dollari.

Repubblica 7.7.07
La famiglia che non c'è
"Il modello perfetto", dice lo studioso, "è un'invenzione delle classi conservatrici ed è sempre stato così"


«La famiglia felice è un´invenzione», sorride Salvador Minuchin, lo sguardo sapiente di chi da mezzo secolo studia le famiglie, ne osserva mutamenti profondi o impercettibili, si adopera per curarle, cucire strappi, sradicare relazioni sbagliate. Ottantaquattrenne ebreo russo cresciuto in Argentina, è un padre fondatore della terapia famigliare, l´ha aiutata a crescere con una pratica internazionale tra Israele e Stati Uniti e opere ormai classiche quali Quando la famiglia guarisce, Famiglie e terapie della famiglia, Famiglie psicosomatiche. «Quando incontro una famiglia sono con tutti i sensi all´erta, come un appassionato di enigmistica alle prese con l´edizione domenicale del Times». Ne ha conosciute di ogni genere, nei ghetti di New York, nei kibbutz israeliani o nei loft di Manhattan. «La famiglia ideale non esiste», ripete con convinzione, forte di un´antica dimestichezza con il sogno dell´americano medio, «il modello "marito di successo-moglie casalinga-due figli e mezzo", ancora così caro a molti politici». Per il suo lavoro questo modello non ha mai avuto rilevanza. «È vero che la composizione di una famiglia può dare degli indizi rispetto all´individuazione dei problemi. Se incontro una donna sola con un figlio unico, posso già presupporre un eccesso di investimento emotivo della madre e uno sviluppo precoce nel bambino. Ma gli elementi che cerco sono sempre la flessibilità, la competizione, l´empatia, la gerarchia, il caos».
Minuchin è venuto in Italia - su iniziativa del professor Luigi Onnis per un workshop delle scuole IEFCoS e IEFCoSTRE insieme al Dipartimento di Scienze Psichiatriche dell´Università di Roma - in un momento in cui la famiglia è diventata un tema di discussione politica e culturale, contesa tra chi ne difende la natura eterogenea e multiforme (dalle famiglie monogenitoriali a quelle allargate) e chi ne rivendica l´omologazione a una regola rigida, secondo i principi dell´ortodossia cattolica. «Il modello della famiglia perfetta è un´invenzione delle classi conservatrici», dice Minuchin. «È sempre stato così. Basterebbe il titolo d´un celebre saggio di Stephanie Coontz, The way we never were, American families and nostalgia trap, ovvero il modo in cui non siamo mai stati, un libro che demoliva il rimpianto di quell´eden perduto incarnato dagli anni Cinquanta. Non esiste un unico tipo di famiglia, ne esistono a centinaia, a seconda del contesto geografico, sociale e culturale. In Cina i bambini crescono con i nonni, nei paesi baschi gli uomini hanno due mogli: la propria consorte e gli amici. Quel che dobbiamo chiederci non è "qual è la famiglia ideale", piuttosto come riuscire a essere bravi genitori, indipendentemente dalla forma famigliare».
Ma cosa bisogna fare per essere un "bravo genitore"? «Al primo posto metterei il lavoro fatto insieme. Sia il padre che la madre sono responsabili dello sviluppo dei figli, condividono le responsabilità nel crescerli. In questo senso le famiglie moderne sono assai più progredite rispetto al passato, segnato dall´assenza della figura paterna. Oggi gli uomini sono più attenti dei loro padri e dei loro nonni. Naturalmente bisogna poi intendersi su cosa significhi amare i propri figli, e qui il lavoro dei genitori comincia a complicarsi: perché amare significa innanzitutto comprendere i bisogni, e i bisogni cambiano nel tempo. Il genitore capace sa cogliere questi mutamenti, e sa adattare al cambiamento anche quel suo ruolo inderogabile che consiste nel fissare le regole. Non bisogna mai dimenticarsi che un figlio ha la necessità di avere delle regole. Dall´età infantile all´adolescenza, i ragazzi hanno sempre bisogno di controllo, disciplina e guida. Non è pensabile alcuno sviluppo senza norme: in questo devo smentire Rousseau e il mito del buon selvaggio».
La famiglia è un´organizzazione sociale necessaria, ripete Minuchin. Può cambiare nel tempo, nella storia minima famigliare come nella storia d´una società. E la scommessa consiste proprio nel percepire i cambiamenti all´interno delle relazioni famigliari, cogliere il momento della crisi, adattandovisi di volta in volta. «Una mamma rigida dovrà necessariamente ammorbidire l´indole normativa con la figlia adolescente: il processo di crescita ha bisogno di contenimento, ma anche la regola si deve commisurare all´evoluzione dei rapporti. Un equivoco da evitare è quello del "genitore amico dei figli". I figli devono stare con i loro coetanei: ai genitori spetta un altro ruolo».
Di recente Minuchin ha messo a punto un nuovo metodo di valutazione delle coppie e delle famiglie articolato in quattro fasi (ne è testimonianza il libro ancora inedito in Italia Assessing families and couple: from symptom to system, editore Pearson, New York). Da quasi sessant´anni lo studioso vive negli Stati Uniti. È nato a San Salvador, in una zona rurale dell´Argentina, all´interno di una piccola enclave ebraica molto compatta: lì ha compreso cos´è una famiglia allargata. Padre commerciante di grano e madre casalinga, fin da piccolo percepisce tra i suoi genitori un legame di tipo assai tradizionale - il capofamiglia e la moglie devota - per poi più tardi imparare che nella vita adulta è difficile liberarsi dalla propria storia famigliare. Anticonformista per indole, a vent´anni finisce in galera per una manifestazione contro Perón, a venticinque va a combattere nel neonato esercito israeliano. Medico specializzato in neuropsichiatria infantile, sceglie gli Stati Uniti come terreno sperimentale, impegnandosi inizialmente con le famiglie portoricane dei ghetti newyorkesi. Da sempre gli piace venire in Italia, il «paese con il maggior numero di terapeuti famigliari», dice con un po´ di rimpianto per la stagione della "psichiatria democratica", Basaglia e gli anni Sessanta. «La terapia famigliare è figlia di quella storia, uno dei molti portati di quell´epoca di cambiamento. A pensarci adesso sembra strano che sia stata il prodotto di una cultura dove la famiglia era considerata una struttura di potere repressiva. Il concetto di madre "iperprotettiva" elaborato da David Levy negli anni Quaranta esercitò una notevole influenza per tutti gli anni Cinquanta. Bruno Bettelheim raccomandava la "genitorectomia", cioè l´asportazione dei genitori dalla vita dei figli».
Se c´è un testimonial vivente dei valori famigliari è proprio lui, Minuchin, sposato da cinquantasei anni con Pat, psicologa affermata. «Abbiamo avuto due figli, che mi hanno insegnato molte cose. Grazie a loro ho accettato le debolezze, le incertezze e gli inciampi della vita famigliare. Ancora oggi quando mi incontro con le famiglie, Pat e i miei figli sono parte di me».

l'Unità 7.7.07
Rifondazione soffia sulla crisi
Rilancio continuo: il programma parla chiaro. La rottura apre le porte alle elezioni. E allo scalone
di Wanda Marra


IRREMOVIBILE Così si definisce Rifondazione comunista sulle pensioni. E mentre da Palazzo Chigi si cominciano a delineare le linee generali di una proposta che dovrebbe arrivare al superamento dello scalone, attraverso una serie di scalini, da cui vengono esclusi i lavori usuranti, Rc continua a dire che non basta, portando avanti l’unica proposta di mediazione che ritiene possibile (va bene uno scalino a 58 anni, se vengono esclusi operai, turnisti e coloro che hanno pagato 40 anni di contributi). A questo punto è chiaro che la partita si gioca sulla definizione di lavori usuranti. E qui si apre un solco, tra il Prc e la Cgil. Sì perché se Rc non vuole assolutamente mediare sugli operai, il sindacato porta avanti l’idea che gli operai non sono tutti uguali. Anche se dallo staff di Bertinotti dichiarano che si tratta solo di un caso, sono di ieri due interviste, una al Presidente della Camera, Bertinotti su Repubblica, l’altra al Segretario della Cgil, Epifani sulla Stampa. «Nessuno vuole la crisi, ma questo non vuol dire che il rischio non ci sia...», dice Bertinotti. E poi rimarca: qualunque intervento sull'età pensionabile deve salvare i diritti acquisiti degli operai. Quindi si può ripetere una crisi del governo Prodi come nel '98? «Non si può escludere nulla», risponde. Poi ribadisce il punto della necessità di rispettare il programma dell’Unione, come Rifondazione ripete quasi ossessivamente: «Allora c'era solo un patto di desistenza. Oggi c'è invece un'alleanza organica e c'è un programma comune». Ribadendo l’appoggio della Cgil al “lodo Damiano” manda a dire a Rc Epifani: «Stai attenta è in gioco il governo. E se cade, una delle conseguenze è che i lavoratori si tengono lo scalone». Ma Rifondazione va avanti senza cedere di un millimetro sulle sue posizioni. Le interviste irrompono nel “ritiro” del partito a Segni, ai confini della Ciociaria. Con due effetti immediati: il rafforzamento della posizione assunta sulle pensioni e un certo spiazzamento di fronte alle parole di Epifani. Lapidario il capogruppo del partito alla Camera, Migliore: «Siamo sconcertati da quanto dice Epifani». E poi ci va giù duro: «I lavoratori usuranti sono pochi. Gli operai sono ben altra cosa». Ribadisce Russo Spena, capogruppo del Prc a Palazzo Madama: «La nostra posizione è irremovibile». La definizione di lavoratori usuranti «non basta» rimarca Alfonso Gianni, che sottolinea come la posizione espressa da Bertinotti sia l'unica «su cui vale la pena costruire un compromesso». In attesa di conoscere nel dettaglio la proposta del Premier, però, tutti si affrettano a dire che l’accordo «è possibile». Alla fine, a tirare le fila è il segretario del partito, Giordano che una volta fatte le conclusioni al “conclave” di Segni “si attacca” al telefono. «Sta facendo la trattativa sulle pensioni», dice qualcuno del partito rimasto ad aspettarlo. «Sono in attesa di conoscere la proposta del governo», dichiara E sulla Cgil: «Non voglio discutere con Epifani. Noi non facciamo concorrenza alla Cgil. ma facciamo parte di questa maggioranza. Se dunque il governo avanza una proposta sulle pensioni, vorremmo che fosse condivisa. Poi il sindacato fa il suo mestiere». E ancora ci tiene a sottolineare che la posizione di Rc rispecchia dettagliatamente il programma. L’intransigenza, dunque, viene ribadita. Pesa decisamente sul piatto della bilancia il fatto che le pensioni sono una bandiera alla quale il partito crede di non poter rinunciare. Non a caso dal “conclave” di Segni esce anche la proposta da presentare al Comitato nazionale di una consultazione di iscritti e elettori, aperta anche a chi è vicino agli altri soggetti della “costituenda” Cosa Rossa, sulla presenza di Rc nel governo, con domande precise su alcuni temi chiave, come le stesse pensioni. Nel tentativo di far legittimare le proprie scelte direttamente dalla “base”. A tali primarie si dovrebbe arrivare ad ottobre, con questionari però già distribuiti alle feste di partiti. Ma la trattativa sulle pensioni dovrebbe chiudersi prima. Non c’è il rischio che siano inutili? «Certo, se la realtà supera questo progetto....», si limita a una frase Giordano. Come dire, che il governo potrebbe non esserci più. Intanto, giudica «decisiva» per l’esecutivo la riforma della previdenziale anche il Ministro Ferrero. Avvertendo: «La posizione per noi è una sola - dice - quella del programma. Va bene quello che ha detto Prodi sull'abolizione dello scalone. La discussione di merito è ancora tutta in piedi».

il manifesto 7.7.07
Ragioni e dubbi sulla sinistra del terzo millennio
di Sandro Curzi


Caro Valentino, se praticassi ancora quotidianamente il giornalismo, come hai la fortuna di fare tu, se potessi scrivere l'editoriale di un giornale libero e riflessivo, come il manifesto, e se, naturalmente, fossi bravo a scrivere come te, avrei scritto esattamente le cose che hai scritto tu, con la tua solita, tenace onestà intellettuale, nell'editoriale di giovedì («Obiettivo a sinistra»). Dall'apertura, giustamente dedicata all'«appassionato intervento» di Bertinotti all'assemblea della Sinistra europea, alla disarmante e disarmata conclusione: o «il comunismo deve essere ancora l'orizzonte di una forza unitaria e plurale della sinistra» oppure «la difesa di un comunismo impossibile sarebbe inutile e dannosa, forse solo un trucco elettorale acchiappavoti per vecchi come me». Per vecchi, appunto, come me.
Anch'io ritengo che il dibattito in corso all'interno della stessa sinistra - fra i leader e i militanti interessati a opporre al nascente Partito democratico una forza autenticamente «comunista» o comunque «socialista» capace di mettere in campo un'adeguata «massa critica» - è troppo schiacciato sulla forma-partito, sul contenitore, quando non sui rapporti di forza tra i suoi confezionatori o, peggio, sulle collocazioni personali. Quello che manca è proprio, come efficacemente fai tu, un ragionamento sul contenuto. E trattandosi nientemeno che del «socialismo del XXI secolo», dell'«oltre» rispetto al comunismo di noi vecchi del XX secolo, non si può dire che sia una mancanza irrilevante.
Anch'io, con te, voglio invitare tutti quanti a interrogarsi pubblicamente e a confrontarsi proprio su questo, non accontentandosi delle ottime intenzioni di Bertinotti, dei tuoi editoriali e di interviste come quella rilasciata l'altro giorno a Liberazione dalla «ragazza del secolo scorso» Rossana Rossanda. Certo, premono le urgenze del governo del paese, della resistenza a una destra liberista e anti-politica sempre più arrogante e pericolosa, e della doppia crisi di fondo che tu individui: la crisi della politica e la crisi del nostro capitalismo. Nessuno può ragionevolmente sottovalutare l'articolazione e la complessità dei problemi che incombono in conseguenza di ciò sull'attuale generazione di dirigenti della sinistra, peraltro appena uscita dalla ingombrante autorevolezza della generazione che si oppose al fascismo, che partecipò alla costruzione della Repubblica e della democrazia italiana, che lottò nelle piazze e nelle fabbriche per guadagnare dignità e salari ai lavoratori e che fronteggiò il terrorismo. Si aggiunga poi che, a 20 anni dalla caduta del Muro, la sinistra deve registrare la deriva moderata, ai limiti del liberismo, del suo pezzo storicamente più importante. Detto tutto questo, si deve chiedere alla generazione dei Giordano, dei Mussi, dei Diliberto, dei Pecoraio Scanio e, se possibile, sino all'ultimo, anche dei Borselli di non perdere la consapevolezza dei forti legami fra le urgenze e le emergenze da un canto e, dall'altro, le ragioni profonde e i problemi strategici che solo qualificano l'essere di sinistra, il fare politica a sinistra, il lavorare per una uscita a sinistra della crisi del sistema politico, economico e sociale. Da vecchio, sono lacerato dagli stessi dubbi che fanno capolino fra le righe del tuo editoriale. Pur non avendo avuto noi, in qualche importante passaggio della nostra vita, un'identica risposta militante alle incertezze e alle tragedie che hanno accompagnato nel secolo scorso la storia del comunismo e in genere le ricadute delle ideologie, credo di condividere ormai da parecchio con te la stessissima posizione rispetto ai guai combinati da certi nostri ex-compagni e alle incognite che ci stanno davanti.
Sono d'accordo con te: partiamo dalla sintesi di Bertinotti (il «passaggio cruciale», l'«urgenza del fare», l'obiettivo del «socialismo del XXI secolo») e intanto discutiamo e, se possibile, precisiamo il «dove siamo» e il «dove vogliamo arrivare». Nessuno lo sa meglio di noi poveri vecchi: «Non si esce da una malattia senza una diagnosi». E' questo il lavoro che ci deve vedere tutti ugualmente impegnati noi vecchi e loro giovani. Bisogna resistere alla tentazione - nostra e loro - di una specie di divisione del lavoro, riservando la riflessione e la strategia alla generazione che ha la generosità di fare un passo indietro, e il fare e la tattica alla generazione che sta prendendo o ha già preso il nostro posto. Credo che anche sulla tattica (e sulla terapia) i Bertinotti e i Parlato hanno il dovere di dire la propria, e che soprattutto anche sulla strategia (e sulla diagnosi) si ha bisogno dell'apporto dei meno anziani, dei giovani e dei giovanissimi dirigenti e militanti destinati comunque a traghettare la sinistra reduce dal naufragio del XX secolo alla traversata del XXI secolo. Intanto, così come non abbiamo mai avuto problemi, da socialisti, a dichiararci comunisti, non avremmo oggi alcun problema, da comunisti, a dichiararci socialisti. Non abbiamo bisogno di scomodare Lenin o Gramsci per ribadire che il problema non è nominalistico. Del resto probabilmente anch'io, se fossi al manifesto, ogni tanto mi chiederei se conservare o meno la scritta «quotidiano comunista» e poi, «non scorgendo di meglio», me la terrei stretta.
Il problema è di sostanza e grosso assai. E niente si potrà costruire di solido e credibile se non si rispondesse prima alla domanda: il comunismo o socialismo che dir si voglia, deve essere ancora l'orizzonte di una forza unitaria e plurale della sinistra o siamo convinti che ci sia qualcosa «di meglio»? Io, detto chiaramente e sinceramente, credo che di questo qualcosa non si vede traccia.
Sandro Curzi consigliere Rai

il manifesto 7.7.07
Bertinotti minaccia la crisi: «Ma non è il '98»
Rifondazione nell'angolo sulla previdenza punta a «salvare» gli operai. Al conclave di Segni la maggioranza del partito si ricompatta su Giordano
di Alessandro Braga


«Speriamo che la crisi di governo non ci sia. Speriamo...». Ma chi non vede i rischi «fa male». Fausto Bertinotti torna, dopo l'intervista rilasciata a Repubblica, sulle tensioni nella maggioranza sulla riforma delle pensioni. E ribadisce il suo «non possumus». Ci sono 130mila persone che «hanno maturato il diritto di andare in pensione il prossimo anno - dice il presidente della camera - Negare questo diritto sarebbe un delitto sociale. Che non possiamo e non vogliamo commettere». Quindi, anche se è chiaro che «nessuno vuole la crisi, il rischio c'è».
Uno spauracchio sbandierato a piene mani che lascia però indifferente il ministro della giustizia Clemente Mastella: «Ho 30 anni di vita parlamentare alle spalle. Ne ho viste tante e le crisi non mi spaventano». Anche se, pure lui, si augura che non avvenga, «per il bene del paese». Dichiarazioni che lo stesso presidente della camera si è affrettato a definire «sagge e condivisibili pienamente», hanno fatto sapere da ambienti vicini a Montecitorio.
L'uscita pubblica di Bertinotti ha però rinvigorito Rifondazione comunista, o almeno la sua maggioranza, che all'ultimo congresso si era stretta attorno alla mozione dell'ex segretario. E che ieri, da Segni, dove era riunita per la seconda e ultima giornata del «conclave» che serviva a chiarirsi meglio in vista del prossimo congresso, previsto per i primi mesi del 2008, ha fatto quadrato intorno al presidente della camera.
«Le parole di Bertinotti lanciano al paese e alla sinistra un chiaro messaggio: l'idea dello scalone è una persecuzione», afferma il sottosegretario Alfonso Gianni. E il capogruppo al senato Giovanni Russo Spena ribadisce la «piena sintonia» con Bertinotti. «La nostra posizione è irremovibile - aggiunge - ora aspettiamo la proposta di Prodi». Che non dovrebbe tardare, dato che ieri mattina il premier ha affermato di essere «molto avanti nella trattativa, e presto ci sarà la proposta». Quale possa essere, e soprattutto come possa andare bene a Rifondazione, non è chiaro. Il presidente del consiglio potrebbe decidere di inserire la riforma delle pensioni nella finanziaria, in quel caso la discussione si protrarrebbe fino a fine anno, con la possibilità di porre la fiducia sul documento. Oppure presentare in tempi brevi la sua proposta al consiglio dei ministri, cercando unanimità fin da subito. Senza però la certezza di un voto favorevole del ministro del Prc Paolo Ferrero, che ha ribadito che la posizione del suo partito è «una sola: quella del programma». Con i punti fermi spiegati dal capogruppo alla camera Gennaro Migliore: esclusione dall'innalzamento dell'età pensionabile di alcune categorie, il lavoro operaio e i turnisti; abolizione dello scalone e non sostituzione con «scalini»; il non automatismo dell'introduzione dello scalone tra tre anni. Una soluzione, insomma, che «realizzi il programma dell'Unione». Ma che, con i malumori da sopire anche dei centristi della maggioranza, difficilmente potrà essere portata avanti, anche se Migliore si dice «fiducioso» in una risoluzione entro fine luglio.
Fermo restando che la caduta del governo Prodi non converrebbe a nessuno, tanto più che in quel modo si andrebbe a salvare l'odiato scalone, e che la proposta di consultazione della base del partito sull'opportunità o meno di restare legati all'esecutivo sembra difficilmente realizzabile, perlomeno prima di settembre, resta da capire quali possono essere «i punti di caduta» accettabili per il partito di Franco Giordano. Punti intoccabili sembrano essere l'esclusione del lavoro operaio dall'innalzamento dell'età pensionabile e l'automatismo sull'introduzione dello scalone nel 2010. Meno certa l'irriducibilità sui turnisti e la possibilità di verifica tra tre anni. Ma i turnisti sono un punto fermo della Cisl, dove ha la sua base più forte, e la verifica permetterebbe a chi avrà il compito di verificare di certificare la necessità di un innalzamento dell'età pensionabile.

il Riformista 7.7.07
Revisione della legge 40. La norma assurda

Caro direttore, «lo Stato si deve togliere di mezzo nei rapporti privati, addirittura intimi; in particolare nel rapporto uomo donna… La legge 40 è una legge assurda, razzista, di una violenza mostruosa, non solo sulle donne, ma sul rapporto uomo donna».
In questo periodo di crescente oscurantismo religioso, filosofico e politico, ripeterei come un mantra le parole di Massimo Fagioli, intervistato da Nuova Agenzia Radicale (26/05/05) in occasione del referendum sulla legge 40.
«Uno Stato non può operare in condizioni di sudditanza alla Chiesa, perché viene alterata persino la personalità giuridica.
Lo Stato si deve basare sul reato e soltanto in quel caso intervenire. Non può a priori dire come devi mangiare, come ti devi vestire, come devi far l’amore, come e quanti figli devi procreare».
Spero che le brave senatrici Cossutta e Franco, impegnate per conto del ministro Turco nella “revisione delle linee guida della legge 40”, tengano conto di questa chiave di lettura ampiamente condivisa.
Paolo Izzo

venerdì 6 luglio 2007

un fotogramma da Le tentazioni del Dott.Antonio, di Federico Fellini (1962):






Repubblica 6.7.07
Il presidente della Camera avverte: "Sono in gioco le ragioni del nostro essere di sinistra"
"Non vogliamo la crisi, ma il rischio c'è"
Sradicamento. Il manifesto di Montezemolo vuole sradicare la sinistra dal Nord del Paese
Soggetto unitario. Accelerare la costituente della sinistra di alternativa
di Massimo Giannini


Il presidente della Camera avverte gli alleati: il programma di governo deve essere rispettato
"Sulle pensioni non voglio la crisi ma ammetto che il rischio esiste"
Bertinotti: socialmente intollerabile alzare l´età per gli operai
Il caso francese Anche Sarkozy pur con una soluzione sbagliata affronta il tema del lavoro

«Non possumus...». C´è un´indignazione vera, ma anche una sofferenza acuta, nelle parole di Bertinotti. Discutiamo da un´ora, nel suo studio a Montecitorio. Sulla riforma delle pensioni, oggi come nel 1998, il governo di centrosinistra rischia di cadere. E dopo un lungo colloquio con il presidente della Camera, si capisce che il pericolo è reale. Rifondazione comunista (di cui Fausto il Rosso resta il faro, nonostante il riserbo istituzionale che s´è imposto) non può accettare né lo «scalone» di Maroni, né lo «scalino» di Damiano. Non può accettare nessun innalzamento «in corsa» dell´età pensionabile per la categoria degli «ultimi nella moderna gerarchia sociale»: gli operai. Quelli che «hanno lavorato duro per una vita». Quelli ai quali, oggi, non puoi dire «lavora un altro anno». Su questo punto non c´è vincolo di coalizione che tenga. Ogni violazione del patto che lo Stato ha sottoscritto con queste persone «sarebbe socialmente intollerabile». Bertinotti usa la formula di Pio IX ai tempi della Questione Romana: «Non possumus».
Non è un monito a Prodi. Non è una minaccia al governo. Il presidente della Camera non vuole condizionare la trattativa, mettere veti alla maggioranza, imporre la linea al suo partito. Fa un ragionamento politico-culturale. Parte da lontano, e ripete quello che ha scritto nell´editoriale della rivista «Alternative del socialismo», in uscita nei prossimi giorni: «La sinistra si trova oggi di fronte a una sfida drammatica, forse la più difficile della sua storia: quella dell´esistenza politica. Quello che si affaccia è l´orizzonte di un vero e proprio declino». Di fronte alla ventata di «organicismo liberista» che attacca in radice la politica, «l´eredità del movimento operaio del ‘900 rischia di essere cancellata». «Io - aggiunge - resto ancorato al cleavage destra-sinistra, e resto affezionato all´idea di sinistra che ci ha insegnato Norberto Bobbio, con il suo discorso sull´uguaglianza».
«Vede - ragiona il leader - io capisco che la politica è sempre più lontana dalla gente. Ma non posso accettare che lo "straniamento" si spinga fino a questo punto. Non posso accettare che i politici non sappiano più cos´è la vita delle persone in carne ed ossa». Una volta, soprattutto a sinistra, le cose non andavano così. «Ricordo Giorgio Amendola, che veniva alla Quinta Lega di Mirafiori, guardava in faccia quelle persone, ci parlava. Poi il partito decideva a modo suo, ma c´era ascolto, c´era dialogo. Oggi no. Oggi il problema delle pensioni viene declinato in due soli modi. Si dice che l´età pensionabile va innalzata perché le aspettative di vita si sono allungate, e perché il sistema non è in equilibrio dal punto di vista finanziario». Sono risposte «agghiaccianti». «Dove sono le donne e gli uomini, dietro queste risposte?». C´è quasi rabbia, nelle parole del presidente della Camera: «Ci sono 130 mila persone che l´anno prossimo hanno maturato il diritto ad andare in pensione. Molte hanno lavorato 35 anni in fabbrica, 48 ore a settimana. Con salari minimi, con turni massacranti. Per loro andare in pensione è come raggiungere un´oasi. E se tu gli sposti l´oasi, anche solo di un metro, commetti un delitto sociale. Un delitto che noi non possiamo e non vogliamo commettere...».
Questo, dunque, è il paletto invalicabile della trattativa. Qualunque intervento sull´età pensionabile deve «salvare» i diritti acquisiti degli operai. «Sono pochi? Può darsi. Ma io voglio guardare negli occhi ed ascoltare le lavoratrici tessili del biellese, o i lavoratori metalmeccanici che non hanno avuto la fortuna di trovarsi un Marchionne come capo-azienda. Sono persone che hanno maturato un diritto sacrosanto, e noi abbiamo il dovere di garantirglielo. E sa perché? Non per ragioni "di classe", come qualcuno potrebbe pensare. Ma proprio per l´idea di sinistra che ci ha insegnato Bobbio, quella che ruota intorno all´uguaglianza. Nella nostra società questi sono gli "ultimi". Questi sono i "deboli". E io, che rifiuto l´idea di vederli contrapposti ai giovani in un presunto e per me insostenibile "conflitto generazionale", voglio difenderli. È esattamente questa la ragione per cui noi facciamo politica, e la ragione che nel secolo scorso ha consentito alla stessa politica di raggiungere il suo punto più alto, ponendosi l´obiettivo della trasformazione radicale della società».
Questa visione, che i suoi critici definiranno vetero-operaista, non lo spaventa: «Certo, diranno che sono classista, diranno che sono conservatore. Ma in realtà garantire i diritti acquisiti a quelle persone è una risposta doverosa persino nell´ottica del "capitalismo compassionevole"...». Quello che Fausto il Rosso non accetta è che il problema di quelle «persone in carne ed ossa» venga rimosso, come se non esistesse. «L´ho detto a Padoa-Schioppa, quando è stato qui da me: io capisco che il tuo vincolo è l´equilibrio finanziario. Ma tu cosa rispondi al mio vincolo, che invece è la tutela che dobbiamo a quei lavoratori?». Allo stesso modo, non sopporta che il problema venga aggirato, con quella che chiama «la formula ambigua dei lavori usuranti». «Che vuol dire lavori usuranti? C´è chi dice che è usurante fare la maestra d´asilo. E come dovremmo definire allora il lavoro di chi fa il turnista in un´azienda meccanica, o di chi passa la giornata davanti a una pressa? Sono pronto a sostenere il confronto in un´assemblea sindacale, di fronte ai lavoratori del pubblico impiego. Sono pronto a spiegare perché è legittimo chiedere a loro di andare in pensione più tardi. Durante la vita lavorativa, hanno beneficiato di condizioni che un operaio non raggiungerà mai: contratti, orari, disciplina normativa, livelli retributivi, garanzie occupazionali. Non è giusto difendere la disuguaglianza di condizioni mentre si lavora, e poi pretendere l´uguaglianza solo quando si va in pensione».
Come si può trovare l´intesa, al tavolo con le parti sociali, il presidente della Camera non può e non vuole dirlo. «Non sta a me indicare soluzioni. Le trovino loro...». Purchè le trovino. Ignorare il tema non si può: «Capisco un approccio alla Sarkozy, che brutalmente dice ai lavoratori "vi do più soldi, vi detasso gli straordinari, purchè lavoriate di più". Per me è una soluzione impraticabile. Ma è il segnale che si riconosce l´esistenza di un problema, anche se gli si dà una soluzione sbagliata». Qui, secondo Bertinotti, si rischia di dare una soluzione sbagliata proprio perché non si vuole vedere il problema. E la ragione, secondo le parole usate nell´editoriale per la sua rivista, sta anche e soprattutto «nell´insidia neo-borghese», cioè in quella tendenza di una certa classe dirigente, nel mezzo della transizione incompiuta, a voler «precludere alle sinistre critiche ogni possibilità di essere attive nei processi politici». Il «manifesto» di Montezemolo all´assemblea di Confindustria è «la punta dell´iceberg». E´ il paradigma di una strategia che mira innanzitutto a «sradicare la sinistra dal Nord del Paese», dove c´è «la frontiera dell´innovazione capitalistica europea», e dove «se sei a rischio come sinistra di alternativa, sei a rischio per il futuro». E in subordine, mira a «cancellare le categorie di sinistra e di destra», in nome di una presunta «neutralità» delle politiche e di una palese «inutilità» della politica. E punta a creare uno spazio in cui, alla fine, «tutto diventerebbe centro». Nelle sue diverse versioni e nelle sue possibili conformazioni.
Lui non lo dice espressamente. Ma c´è una sponda politica, per questo disegno tecnocratico. E non è solo quella di Casini. È anche quella di Dini. Stretta in questa tenaglia, secondo l´analisi di Bertinotti, la sinistra radicale ha due doveri. Il primo è accelerare al massimo «sulla costituente del soggetto unitario e plurale della sinistra di alternativa», che deve ambire alla «ricerca sul socialismo del XXI secolo». Il secondo è riaffermare con orgoglio il suo «non possumus» sulla previdenza. La domanda cruciale è: fino a che punto? Si può arrivare a una crisi del governo Prodi sulle pensioni, come accadde nel ´98? Il presidente della Camera pesa le parole: «Non si può escludere nulla. Certo oggi le condizioni sono diverse dal ´98. Allora facemmo una scelta politica dolorosa ma necessaria. Prodi scelse una strada che noi non potevamo imboccare, e decidemmo di riprenderci la nostra autonomia. Ma allora c´era solo un patto di desistenza. Oggi c´è invece un´alleanza organica, e c´è un programma comune che, piaccia o no, tutti gli alleati hanno sottoscritto. Oggi tutti, da Rifondazione al Pdci ai Verdi, capiscono che questo governo e questa maggioranza rappresentano l´equilibrio più avanzato possibile, per le forze della sinistra di alternativa. Dunque nessuno vuole la crisi. Ma questo non vuol dire che il rischio non c´è...».
Il quadro politico è così «sfarinato», si sarebbe detto ai tempi di Rino Formica, che Fausto il Rosso vede un pericolo diffuso, e annidato ovunque: «Le pensioni arriveranno al voto qui alla Camera in autunno. Ma prima avremo l´ordinamento giudiziario, con le tensioni tra Mastella e Di Pietro. Poi c´è un altro focolaio, tra conflitto d´interessi e riforma delle tv. Per non parlare della legge elettorale, che resta sullo sfondo, irrisolta...». Insomma, Bertinotti non lo dice, ma applica al governo la metafora del «vestito liso»: si sta logorando, e dunque si può strappare. In ogni momento, e in qualunque sua parte. Per evitarlo c´è un solo modo: una guida politica forte. Molto più forte, molto più incisiva. Che guidi i processi, e non si faccia travolgere. Ma questo è un problema che non si può porre al presidente della Camera, perché riguarda solo il presidente del Consiglio.

Repubblica 6.7.07
L'ipotesi al conclave in Ciociaria. Giordano parla di democrazia del pubblico e ricompatta la maggioranza del partito
"Primarie sull'uscita dal governo" Comunisti o no?
Rifondazione pensa di consultare la base. E non si scioglierà
di Goffredo De Marchis


ROMA - Democrazia del pubblico, partecipazione attiva. Franco Giordano propone il modello del rapporto diretto con gli elettori per le decisioni che attendono Rifondazione comunista. La svolta della Cosa rossa. La domanda fondamentale di Prc: come stare al governo e nella maggioranza. Il responsabile dell´organizzazione Francesco Ferrara lancia la sua proposta: consultazione degli iscritti e degli elettori sulla presenza del partito al governo. Vale a dire primarie sul sì o no all´uscita. Da tenere insieme con gli altri partiti della sinistra radicale (Sd, Pdci e Verdi) a un anno e mezzo dalle elezioni del 2006. Cioè alla fine del 2007, tra pochi mesi.
Così vuole procedere Rifondazione. Guardando in faccia il suo popolo, stringendo il legame con i protagonisti del conflitto sociale, con i no global e con i comitati e le associazioni della sinistra, ossia con i movimenti. E´ la linea indicata dal segretario Giordano al conclave di Segni, in Ciociaria, dove si sono riuniti i dirigenti della maggioranza. A porte chiuse. Oggi la discussione continua, ma già ieri Giordano ha incassato il sostegno dei vertici in vista del comitato politico di metà mese e del prossimo congresso fissato nel 2008. Il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore, dopo aver ascoltato l´intervento del leader, ha proposto di assumere la relazione come base del dibattito interno annunciando fin d´ora la conferma di Giordano alle assise del prossimo anno. Con Giovanni Russo Spena, il presidente dei senatori, l´asse intorno a Giordano viene confermato.
E´ il segnale che il segretario aspettava, quello che serve a presentare la maggioranza bertinottiana unita e a interrompere il gioco delle correnti dentro Prc. Giordano non vuole sciogliere Prc, ma invita il partito a proseguire sulla strada della Cosa rossa. Tanto più che nemmeno gli altri soggetti hanno intenzione di ammainare le bandiere. Non lo vuole Fabio Mussi per Sinistra democratica, non è intenzione di Oliviero Diliberto, per non parlare di Alfonso Pecoraro Scanio che il simbolo del Sole che ride lo difende con i denti. Da solo, si dice nei Verdi, vale uno zoccolo duro sufficiente a resistere nel panorama politico italiano. «In cosa l´esistenza di Rifondazione impedisce la costruzione di una sinistra unita?», è la domanda retorica di Giordano. In più Prc non vuole abbandonare l´esperienza di Sinistra europea. La linea piace anche a Fausto Bertinotti, che da una parte in questi giorni ha sollecitato il partito a non fare passi indietro sulla Cosa rossa e dall´altra lo ha pungolato a non perdere di vista il conflitto sociale.
Si è discusso anche di pensioni. Ed è alla trattativa sulla previdenza che Ferrara ha legato il suo discorso. In caso di un accordo adesso, gli elettori comunisti vanno assolutamente ascoltati. Sempre che non si vada verso un rinvio, che non dispiacerebbe a Rifondazione, ma sarebbe un guaio per Prodi. C´era anche il dissenso, a Segni. Il sottosegretario Alfonso Gianni chiede che Prc sia ancora più decisa sulla strada dell´unità a sinistra. «Non parlo di scioglimento, ma dobbiamo capire se la fase di Rifondazione comunista è finita e non è il momento invece di rifondare la sinistra». Contro la Cosa rossa va il documento delle donne. Ricalcando le posizioni di Ramon Mantovani. In quel testo vengono espressi tutti i dubbi sull´alleanza con gli altri partiti della sinistra alternativa. Ma Giordano, per tenere tutti dentro il suo processo, parla di tappe intermedie. E le garanzie sul non scioglimento vanno in questa direzione.

Repubblica 6.7.07
Il secolo dell'amore
La Fondazione Valla ripropone i classici medievali
di Nadia Fusini


Ci sono trattati rivolti ai monaci
il linguaggio si infiora di accese metafore
Tutti ricordano le figure di Tristano e Isotta o i versi di Maria di Francia
Fu un´epoca di grande rinnovamento spirituale e culturale con esperienze molto diverse

Forse bisognerebbe sempre mettere nel suo proprio contesto una lettura. O addirittura, forse il libro dovrebbe scegliere i suoi lettori tra coloro che su un certo tema sono i più avvertiti. D´altra parte, se fossero il contesto storico o concettuale o dottrinario a dirigere il traffico, rimarrebbero assai spopolati i sentieri che portano a certi libri; anzi, certi sentieri di lettura si richiuderebbero come quelli del bosco, che se non mantenuti dal passaggio di camminatori e cacciatori, semplicemente scompaiono.
In una memorabile impresa di ormai vent´anni fa, Robert Alter e Frank Kermode - l´uno biblista, l´altro critico letterario, fornirono una literary guide to the Bible, una «guida letteraria» al libro dei libri, alla Bibbia. L´idea era che a un libro si può arrivare, come a una radura, ognuno per il proprio sentiero interrotto, e nella radura ognuno può sostare a piacimento apprezzandone in modo personale le qualità - profumi, sapori, atmosfere.
Nel caso specifico, era sotto gli occhi di tutti che da secoli la Bibbia non raccoglieva i suoi lettori alla medesima condivisa meditazione. Altrettanto evidente che nelle sue forme moderne, quella stessa tradizione negava alla Bibbia l´importanza che essa aveva avuto nel passato. E tuttavia, nella nostra cultura, che nelle sue espressioni più alte ripudia ogni forma di fondamentalismo e considera anacronistica ogni interpretazione autorizzata e ritiene pericolosa e antiquata ogni accettazione acritica dell´autorità, c´è forse chi mai vorrà smettere di leggere la Bibbia? Ripudiare l´eredità biblica? Claro que no.
La verità è che - i più innocenti di noi senza saperlo, i più colti in piena consapevolezza - con la lingua e con l´immaginazione biblica convivono da secoli. Nei paesi anglosassoni più che in quelli mediterranei. Ma anche da noi è inimmaginabile espungere dalla nostra tradizione letteraria e di pensiero i grandi testi dell´Antico e Nuovo Testamento.
Tanto per fare un esempio: come faremmo a comprendere il discorso amoroso se non avessimo letto il Cantico dei Cantici?
Con relativi commenti? E le lettere di Paolo? O, se per questo, i Trattati d´amore cristiani del XII secolo, appena editi per la Fondazione Valla (pagg. 317, euro 279) per la cura di Federico Zambon, che di quelle letture sono farciti?
«Sotto il segno dell´amore si presenta quel rinnovamento spirituale e culturale» che avviene in Europa nel secolo XII, afferma Zambon, commentando in questo primo volume con impareggiabile eloquenza e sapienza La contemplazione di Dio e Natura e Dignità dell´amore di Guglielmo di Saint-Thierry; e L´Amore di Dio di Bernardo di Clairvaux.
Il secolo dell´amore, dunque. Già, ma quale amore? Conoscevamo quel tipo speciale di amore, la fin´amor, che all´alba del medesimo secolo nasce nelle corti occitane: un amore tra dame e cavalieri, che vagheggia un piacere sempre differito, vuoi perché la dama si nega, vuoi perché l´amante ama di lontano.
Sì che non v´è che godimento del fantasma. Conoscevamo le variazioni dei temi trobadorici quando si espandono nel nord della Francia e in altri paesi europei. Avevamo letto la storia di Tristano e Isotta, perla tra le perle del grande mito medievale dell´amore-passione; e i romanzi di Thomas e Béroul, di Chrétien de Troyes, i Lais di Maria di Francia e la poesia latina dei goliardi - godereccia, sensuale. E avevamo studiato la sintesi teorica che verso la fine del secolo tenterà Andrea Cappellano nel suo trattato De Amore, ispirandosi ai grandi modelli ovidiani dell´Ars Amatoria e dei Remedia amoris. E sapevamo che proprio all´interno di questo quadro sviluppa una riflessione monastica sull´amore; ma quanto ricco e profondo fosse l´intreccio e quanto grande il valore del contributo cristiano è Zambon a insegnarcelo, sottolineando con finezza le sfumature, le somiglianze e le particolarità e varianti tra le diverse esperienze.
Sono trattati rivolti ai monaci. Uomini che per aver fatto una scelta di castità non rinunciano ipso facto all´amore, al suo discorso. Anzi, questi monaci, quasi fossero dei piccoli Schreber, intessono una relazione erotica intensissima con Dio, del quale si fingono figli, spose, amanti, in una girandola strabiliante di immagini e metafore e figure che stravolgono la misera evidenza del corpo, segnato dalla miseria sessuale. A ribadire una legge che regola l´amore cortese; e cioè, che l´assenza evoca il desiderio, e il godimento dell´altro va messo sotto il segno della rinuncia, per essere vero amore.
(Ma un incontro con l´altro che mantenga il segno-meno, il segno-senza e conservi la traccia del nostro esilio qui, su questa terra, nel nostro proprio corpo, non sarà proprio questo il dramma dell´amore per chi secoli più avanti cercherà di analizzarlo dal punto di vista psichico? scientifico? mentale?) Questi trattati, ripeto, si rivolgono a uomini che hanno volontariamente scelto il celibato, eunuchi di Dio, asceti volontari, che si propongono come militi e martiri che custodiranno per i loro fratelli laici o addirittura atei la relazione amorosa con un Dio che ama tutte le sue creature, dalle quali non esige altro che una risposta d´amore. E se la risposta fosse naturale (e cioè, in accordo con la volontà divina) come altrimenti dovrebbe rispondere la creatura al dono d´amore del Padre suo, del suo Creatore? Se non riamandolo?
Il linguaggio s´infiora di accese metafore, fiammeggianti ossimori che dissolvono le comuni percezioni ed evidenze dei sensi e dei sessi, perché chi cerca l´amore di Dio accetta la femminilità come una condizione generosa, ricca, la sola che lega gli amanti nell´amore. Uno strano piacere è evocato, dalle tonalità intime, affettive. E si fantasticano modi di godimento, in cui l´amore passi all´atto senza degradarsi e il corpo si coniughi alla mente e la mente goda senza il corpo e provi piacere in purezza.
(Ora non v´è dubbio che qualora si sia convinti dell´esistenza di Dio, convenga amare più Lui di qualsiasi altro. Lo riconoscerà secoli dopo senza mezzi termini quella straordinaria mistica che fu Emily Dickinson. La quale confessa anche che ci vuole molto coraggio a sopportare la relazione - in sé e per sé intollerabile - con l´Essere Supremo, che a volte le appare come un grande ladro che le ruba l´esistenza. Epperò, ci sono altri amanti - preferiscono chiamarsi philoi - i quali scelgono Lui e ciò facendo si pongono hors-sexe, al di là, o al di qua del sesso. E perché sia vero, si convincono che bisogna che l´amor trapassi in caritatem, che si rivolga non a un uomo, o a una donna, ma a Dio. Di questo gregge, quali eccelsi pedagoghi nella schola caritatis Gregorio e Bernardo guidano l´ascesa).
Anche chi non creda che l´ascetismo medievale sia rifiuto del mondo, né celebrazione del dualismo materia-spirito, rimarrà colpito dal titanico sforzo di sublimazione messo in atto in questi trattati. Rispetto all´economia del piacere si tratta di cambiare oggetto e meta, di mirare non più alla scarica immediata della tensione, ma di rinviare la soddisfazione, di fatto sospendendo l´intero processo all´incertezza. Tutta una dinamica psichica si rinnova, o addirittura si inventa in questi trattati, da cui discenderanno non solo un diverso uso della sessualità, ma nuovi soggetti umani.
Misoginia? Repressione degli istinti? Non è questa la chiave di lettura che suggerisce Zambon; si perderebbe la complessità dell´orizzonte spirituale e filosofico dello sforzo "correttivo": disciplinare l´immaginazione dell´ardente giovane monaco in ordine alle fantasie erotiche non è l´equivalente di reprimere. Lo sanno anche i sassi che c´è differenza tra disciplina e repressione.
D´altra parte, non v´è dubbio che al monaco, e per estensione all´uomo e alla donna cristiani, si impone la mortificazione della carne. Ne rende testimonianza la storia d´amore più chiacchierata del secolo, quella tra Abelardo e Eloisa, dove una donna si dimostra degna di Dio rinunciando alla sua vita sessuale, e un uomo sacrificando il proprio organo.
Ora è chiaro che il diniego dell´umano può essere interpretato come la massima affermazione, l´essenza stessa dell´umano. V´è chi afferma che in ciò consiste il punto di vista cristiano.
V´è chi suggerisce che se Cristo si fa corpo è per nobilitare l´anima.
E torna alla mente l´osservazione di quel sapientissimo filosofo della vita quotidiana, che fu Michel de Montaigne, quando tra sé e sé commenta: «che animale mostruoso quello che ha orrore di se stesso, quello al quale pesano i propri piaceri!». Appunto.
E tuttavia, chi si dichiari contrario a ogni mortificazione della carne, e si disponga ad amare l´altro con la "a" minuscola, se sarà sincero dovrà riconoscere che non è affatto detto che gli basti. Così la domanda resta: perché l´altro - l´altro uomo, l´altra donna - non sono abbastanza per noi?
A mo´ di risposta, rileggete quell´inquietante Terza Meditazione di Cartesio, dove il filosofo confessa che c´è soltanto una ragione per non dubitare dell´esistenza di Dio: l´altro uguale a me non mi basta a non sentirmi solo.

Repubblica 6.7.07
Spinoza. Ripensò Dio e liberò l'uomo
Un meridiano con le opere complete
di Eugenio Scalfari


Un pensiero radicale e per questo molto avversato che cancellava ogni tentazione antropomorfica nella concezione del mondo e della sua creazione
Convivono nei suoi scritti un aspetto distruttivo e uno costruttivo, intrecciati l´uno con l´altro
Nietzsche si imbatté in lui negli anni 80 del suo secolo e ne rimase sconvolto: ecco il mio precursore
L´incontro decisivo che egli ebbe e che lo aiutò a definire il suo pensiero fu quello con Descartes

La pubblicazione avvenuta di recente nei "Meridiani" Mondadori dell´opera completa di Baruch Spinoza è un evento importante nella cultura italiana e non soltanto per la vastità degli apparati, la completezza critica dei testi, la qualità dei commenti e in particolare per le introduzioni alle singole opere e per quella generale, dovuta a Filippo Mignini.
L´evento sta nel fatto stesso della pubblicazione. Qui ed ora, viene in mente di dire. Perché qui ed ora la filosofia di Spinoza attraversa di nuovo una fase attraente, direi in sintonia con i modi di sentire dell´epoca in cui viviamo; ma sintonia però non consapevole e perciò inadeguata, neppure nella società dei colti e dei filosofi, con alcune importanti eccezioni tra le quali va segnalata quella di Emanuele Severino che di Spinoza è stato da sempre attento e acuto cultore.
Il crescere e il tramontare delle filosofie e dei filosofi che le hanno pensate è un attributo permanente è quasi il succedersi di una modalità alla quale sono stati soggetti anche i pensatori più significativi, da Descartes a Hobbes, a Kant, ad Hegel e Schopenhauer a Nietzsche e Heidegger, tanto per restare nel solco della nostra civiltà occidentale. Perfino Platone e Aristotele hanno avuto fasi di luminosità e altre di impallidimento nella memoria collettiva. Ma nessuno ne ha sofferto quanto Spinoza, costretto addirittura a non pubblicare la maggior parte dei suoi scritti che sarebbero comunque incorsi nel sequestro immediato e nell´immediata distruzione, come avvenne per i pochissimi che - lui vivente - videro la luce.
Nonostante questo suo silenzio obbligato, fioccarono su Spinoza scomuniche e dannazioni estreme, a cominciare dalla più terribile che gli fu inflitta dalla Sinagoga di Amsterdam, cui seguì l´ostilità dapprima blanda ma poi sempre più intensa fino a diventare furiosa dei circoli cattolici in Olanda, in Francia, in Germania e a Roma.
Infine, non meno violenta, la "damnatio" delle Chiese riformate, luterane e calviniste che fossero.
Così anche l´opera postuma ebbe scarsa diffusione e possibilità assai limitate di influire sull´evoluzione del pensiero filosofico, anche se fu conosciuta e tenuta in gran conto da alcuni degli illuministi (pochi in verità) la maggior parte di essi accettando semplicisticamente un teismo al cui approfondimento non dedicarono gran tempo.
La scoperta di Spinoza arrivò con l´Ottocento, ad un secolo e mezzo di distanza dall´opera sua. Illuminò quell´arco di anni con intensità ma poi di nuovo rientrò nel silenzio e soltanto di recente ricominciarono segni di attenzione.
Bisognerebbe domandarsi il perché di questo interesse così discontinuo e precario. La scrittura rocciosa e "geometrica" delle sue argomentazioni non è certo fatta per accattivare, ma non può esser quello il vero ostacolo se solo si pensa alle non minori difficoltà di lettura e di comprensione di filosofi che hanno tenuto a lungo la scena dell´opinione colta, a cominciare da Kant e a finire con Heidegger.
Non credo perciò che sia stato quello l´ostacolo, ma piuttosto un altro e cioè la radicalità del pensiero spinoziano nei confronti della salvezza, dell´antropomorfismo e della centralità dell´uomo nel mondo. Non c´è stata finora filosofia più lontana, più indifferente, anzi più impegnata nella dimostrazione che la nostra specie non può vantare alcun privilegio e alcuna posizione dominante nell´universo. Non solo: non può appellarsi né sperare in alcun Dio che possa assicurarci la salvezza e indicarne il percorso. Ma, nello stesso tempo, una filosofia dedicata alla dimostrazione che "Dio c´è" come si direbbe oggi, ed anzi è presente in tutto e dovunque, eterno e assoluto, unica sostanza esistente, della quale tutto l´universo è pervaso fin nelle sue più intime particelle; ma un Dio indifferente, privo di passioni e di affetti, non vendicativo ma neppure misericordioso; un Dio che nulla ha creato, che non conosce se stesso, che nulla vuole perché non ha volontà; un Dio infinito e assoluto, pura potenza che incessantemente si attua nelle infinite forme naturali. Infine un Dio che è "natura naturante" dal quale esplodono senza interruzione le forme della "natura naturata" ciascuna delle quali fondata sulla legge che scaturisce dal suo proprio fondamento.
«Questo tuo Dio è un mostro» gli scrisse uno tra i tanti suoi corrispondenti che cercavano di chiarire a loro stessi il suo pensiero sperando (per loro) che esso potesse almeno esser tollerato dalla Chiesa e dalle Università e quindi pubblicamente discusso e diffuso. «Questo tuo Dio è un mostro». Ma lui, a sua volta, non riusciva a comprendere reazioni così violente e rifiuti così totali. E si accaniva a rispondere, a chiarire il suo pensiero, a definire i soggetti e le idee.
La definizione era per lui una vera e propria legge.
«Questo è vero per definizione» diceva, e si stupiva che gli altri non capissero. La forza della definizione è opera di Spinoza ed assume con lui il valore del "Logos", del "Verbo", della "Parola" celebrati nel Vangelo di Giovanni quale "incipit" della Creazione. Solo che per Spinoza credere nella Creazione era una bestemmia intellettuale: il suo Dio non era creatore ma assoluta potenza necessaria; non manipolava una materia a lui esterna, ma attuava la sua potenza, la sua esplosiva potenza che non poteva che attuarsi. Il suo «tutto è Dio» non era concettualmente lontano dal più radicale ateismo. Anche se la parola ateismo non dovrebbe esser lasciata circolare senza una sua definizione.

* * *
Convivono nell´opera di Spinoza un aspetto distruttivo ed uno costruttivo, intrecciati l´uno con l´altro e necessari entrambi. L´uno non potrebbe darsi senza l´altro; la sua raffigurazione e dimostrazione del Dio come potenza infinita e assoluta, unica e pervasiva sostanza di tutte le cose, non potrebbe infatti procedere senza aver sgombrato il campo dalle raffigurazioni fallaci e «superstiziose» che ingombravano le religioni monoteistiche e in particolare quelle giudaica e cristiana. Secondo il suo pensiero queste raffigurazioni fallaci sono: il Dio incarnato, le attribuzioni a Dio di "affetti" propri della natura umana, i miracoli, la rivelazione nel suo complesso. Insomma le Scritture, a cominciare dal Genesi, i Vangeli e la figura di Gesù-Dio, morto e risorto; Mosè, Abramo e l´Alleanza intesa come percorso verso la salvezza. E comincia dal punto più sensibile, teologicamente e politicamente: quello del Dio fatto uomo.
Scrive ad uno dei suoi corrispondenti cattolici, Hugo Boxel: «Questo io so: che tra infinito e finito non si dà alcuna proporzione» e ad Albert Burgh: «Tu mi compiangi e chiami una chimera la mia filosofia. Oh giovane privo di mente. Chi ti ha incantato fino al punto di portarti a credere che tu possa divorare ed avere negli intestini quel Dio sommo ed eterno?».
Ma poiché i suoi interlocutori fingono di non capire e continuano ad incalzarlo con petulanti richieste di chiarimenti, alla fine spazientito risponde a Boxel:
«Quando dico che ti sfugge quale Dio io abbia se nego che l´atto di vedere, udire, osservare, volere non si danno in Dio, sospetto che tu creda che non esistano perfezioni maggiori di quelle che sono tipici attributi umani. Ma non mi meraviglio di questo perché credo che anche il triangolo, se avesse la facoltà di parlare, direbbe egualmente che Dio è triangolare e il cerchio direbbe che la divina natura è circolare in modo eminente. Così ognuno ascriverebbe a Dio i suoi attributi, si renderebbe simile a Dio e il resto gli sembrerebbe di forma diversa».
Questi pensieri assumeranno forma definitiva nell´Etica, la sua opera più completa dove Dio sarà descritto come «la sostanza eterna, infinita e assoluta che non opera con libera volontà né con intelligenza, non ha alcun rapporto personale e diretto con gli uomini né con alcuna altra specie, non è né misericordioso né vindice o giustiziere, non è affetto da gioia né da tristezza. Non vi è pregiudizio più misero di quello che subordina il presunto amore dell´essere infinito alla venerazione ricevuta da una natura finita. Altrettanto meschina è la convinzione di poter modificare i decreti di Dio per mezzo delle nostre preghiere, come si potrebbe fare con un padre un giudice e un re».
Dio - per dirla in breve - produce a getto continuo forme in sé perfette, una esplosione di forme, ciascuna determinata e quindi soggetta alla natura della propria forma. Forme moriture come tutto ciò che deriva da una nascita, ma non create da un Dio che abbia utilizzato «altro da sé» o che abbia ordinato un caos preesistente. Le forme prodotte da Dio sono un´eruzione continua il cui fondamento è Dio stesso il quale, attraverso quelle forme, è ovunque e tutto pervade con un´immanenza totale. Il mondo così descritto non contiene dunque una scintilla divina inserita dentro ad una materia altrimenti inerte o caotica ma, al contrario, il mondo è interamente divino e per questo stesso è infinito.
Così ragionava l´ebreo Baruch Spinoza, stupefatto di esser definito ateo e dissacratore, lui che descriveva e sentiva la divinità onnipotente, nel filo d´erba e nel serpente, nella stella e nell´uomo, senza colpe, senza peccati, senza necessità di salvezza né di individuale sopravvivenza, salvo sapere che ogni ente esistente e perituro non ha altra pulsione che la sopravvivenza della propria forma e quindi la paura della propria morte per quelle forme capaci di pensare se stesse e la propria mortalità.

* * *
L´incontro decisivo che egli ebbe e che contribuì a definire la struttura del suo pensiero fu quello con Descartes che, prima dell´arrivo in campo dell´autore dell´Etica aveva rappresentato la vetta più alta della speculazione filosofica aprendo la strada alla modernità.
Il Discorso sul metodo è stato il punto d´arrivo e insieme il punto di partenza della storia della filosofia che gli va tuttora debitrice per tre aspetti essenziali del suo pensiero: la scoperta dell´io quale punto di riferimento della conoscenza, la necessità di ancorare l´attività conoscitiva a certezze di assoluta evidenza, la distinzione tra la "res cogitans" e la "res extensa" che riassume in due polarità l´intera moltitudine degli enti recuperandone l´oggettività dopo aver affermato l´egemonia conoscitiva ed esistenziale del soggettivismo.
Con questo stipite del pensiero moderno si misurò Spinoza quindici anni dopo la pubblicazione dei Principi di filosofia e la scomparsa del loro autore.
In realtà quell´incontro fu inizialmente una sorta di tributo che Spinoza volle pagare alla grandezza innovativa di Descartes, curandone la traduzione dal latino in lingua olandese ed argomentandone le tesi da par suo. Cartesio in quegli anni era preso di mira dalla tradizionale dottrina della Chiesa. Tradurne i testi in una lingua "volgare" era già di per sé un modo di esporsi all´implacabile giudizio dell´Inquisizione; commentarli positivamente, sia pure con qualche timida riserva, significava addirittura sfidare l´ortodossia della Scolastica e attirare su di sé gli anatemi dei Tribunali ecclesiastici.
Il pur prudentissimo Spinoza corse questi rischi, anche se mise bene in chiaro che la sua era stata soltanto un´operazione editoriale e culturale e non già lo schierarsi e identificarsi con le tesi di Cartesio dalle quali anzi in più punti dissentiva.
Molti contemporanei attribuirono allora quella presa di distanza da Cartesio alla necessità di non approfondire il solco con la Chiesa e con la sua Inquisizione. Ma le cose non stavano così. Il riconoscimento spinoziano della grandezza di Cartesio era senza dubbio genuino, ma altrettanto genuine le sue riserve, in particolare dalla distinzione tra la cosa "estesa" e la cosa "pensante" che Descartes riteneva fossero due sostanze incomunicabili in tutto fuorché nell´essere entrambe una creazione di un Dio trascendente, mentre Spinoza le vedeva come due attributi di Dio riverberati nella nostra specie come "modalità" dell´unica sostanza divina e immanente a tutte le cose.
Quanto al "Cogito ergo sum" Spinoza non si è mai espresso in modo esplicito ma dall´insieme del suo pensiero quell´orgogliosa affermazione dell´autonomia dell´io risulterebbe esser stata fatta propria dall´autore del Tractatus. Per arrivare a questa conclusione occorre però forzare il pensiero di Spinoza su un punto assai delicato: quello dell´autonomia delle forme nelle quali si esplica la sostanza divina.
In verità Spinoza usa assai poco o per niente la parola "forma" e molto di più usa il termine "res" privilegiando l´estensione rispetto al pensiero. Se ne comprende la ragione: la "res extensa" coinvolge nella propria dimensione tutto l´universo inorganico oltre a quello organico. La "cogitans" invece si limita alle facoltà della nostra specie.
Ma questo è un aspetto soltanto quantitativo del problema e quindi non essenziale per le concezioni spinoziane. Per questa ragione io credo che il termine "forma" sia il più appropriato per designare la molteplicità immanente della "natura naturans" nelle sue infinite espressioni.
Ebbene: il fondamento di queste forme dell´immanenza sta appunto nelle "modalità" che le distinguono. La modalità è nata perfetta, senza difetti e senza peccato, come Dio l´ha emessa realizzando la sua potenzialità.
L´autonomia di quella forma nei suoi "modi" fa dunque parte della sua definizione e per Spinoza la definizione altro non è che legge di natura.
Questo ragionamento mi porta a concludere che il "Cogito ergo sum" fu accettato e inserito nel pensiero spinoziano. Semmai, ai suoi occhi, sarebbe bastato scandire il verbo "esse" con la prima persona singolare. L´uomo in quanto individuo era titolato a pronunciare questa affermazione, la sua pulsione di sopravvivenza lo portava a quell´orgoglioso "sum", l´evidenza del vero era interamente presente.
Aggiungo per la chiarezza di noi postumi che la distinzione cartesiana tra l´estensione e il pensiero è stata superata non soltanto per le ragioni esegetiche addotte da Spinoza, ma per altre ancor più decisive. La mente pensante altro non è che un´efflorescenza degli apparati cerebrali. Altre volte ho scritto che la mente sta alle mappe cerebrali come la musica sta al pianoforte e le sue "note" stanno ai tasti di quello strumento. Il funzionamento della mente non è mai lo stesso; come le note vanno rapportate di continuo alla tensione delle corde che le producono.
Ne segue che al funzionamento della mente, cioè del pensiero, cospirano tutti gli organi del corpo e non soltanto il cervello. Il quale riceve dagli altri organi, tramite i flussi sanguigni e i terminali nervosi, sensazioni ed elementi in misura diversa di tempo in tempo.
La quantità di ossigeno non è mai la stessa, le tossine provenienti dal fegato, dall´intestino, dai reni, non sono mai le stesse e mai gli stessi gli ormoni, gli enzimi, i flussi endocrini.
La mente insomma è parte integrata nel corpo, ne è determinata e a sua volta lo determina; sicché nel corpo individuale tutto è al tempo stesso esteso e cogitante, che è poi la stessa tesi spinoziana raggiunta attraverso la fisiologia moderna anziché attraverso le tesi filosofiche dell´immanenza della natura divina.

* * *
Non è certo questa la sede per rivisitare compiutamente la filosofia di Baruch Spinoza, per la quale si può adottare la conclusione di Filippo Mignini a chiusura della sua introduzione generale: «È stato uno dei rari spiriti che nella storia del mondo hanno ideato per qualunque uomo di ogni religione e cultura un percorso di illuminazione e di libertà».
Mi sembra invece interessante mettere in luce i nessi tra lui e il principale tra i pensatori che l´hanno scelto come compagno e maestro. Parlo di Federico Nietzsche, il filosofo che chiude il ciclo della filosofia moderna smantellando il platonismo e le religioni, decostruendo e anzi capovolgendo la scala tradizionale dei valori ed elaborando una visione del mondo, della conoscenza e della civiltà che approda al superamento dell´io e di ogni assoluto.
Nietzsche fu più un artista e una «voce» che un filosofo nel senso tradizionale della parola. Raccontò il suo pensiero. Parlò per enigmi, per aforismi, per frammenti, per simboli. Dopo di lui sarebbe impossibile scrivere un trattato o un manuale di filosofia. I pochi che hanno tentato ancora di farlo hanno solo dimostrato la loro irrilevanza.
Ma Nietzsche non può esser compreso se non si risale a Spinoza. L´autore del Tractatus e dell´Etica può apparire, se si bada alla forma della sua scrittura, esattamente agli antipodi dell´autore di Zarathustra.
Invece basta ascoltare lo stesso Nietzsche per comprendere di quale spessore fosse la consonanza dei loro pensieri.
Nietzsche s´imbatté (è il caso di usare questa parola che contiene un elemento fortuito) in Spinoza negli anni Ottanta del suo secolo, ne rimase sconvolto e così ne scrisse all´amico Overbeck: «Sono pieno di meraviglia e di giubilo: ho un precursore, e che precursore! Io non conoscevo quasi Spinoza. Per "istinto" ho desiderato di leggerlo. Questo pensatore, il più abnorme e solitario che sia mai esistito, è il più vicino a me in queste cinque argomentazioni: egli nega il libero arbitrio, la finalità, l´assetto morale del mondo, il non-egoismo, il male. Anche se tra Spinoza e me restano enormi differenze, queste sono da attribuire soprattutto alla differenza dei tempi, della cultura, della scienza. Insomma la mia solitudine - che come capita in montagna alle grandi altitudini, spesso mi toglieva il fiato e mi faceva trasudare sangue dai pori - è ormai una solitudine in due».
Non ci poteva essere elogio maggiore e più lucida identificazione. Ma resta, al di là delle differenze dovute ai diversi contesti storici dei tempi, della cultura e della scienza, che l´autore di Zarathustra chiaramente individua, un approccio che pone Nietzsche in una prospettiva diversa anche nei confronti di Spinoza, rispetto alla intera storia della filosofia occidentale da Platone in poi, ed è il rapporto con l´assoluto. Con la verità assoluta. Con la divinità assoluta.
Spinoza è infatti il più radicale assertore dell´assolutezza della verità e della divinità dell´immanenza, "sive natura". Dell´essere parmenideo, presente in tutti gli enti che da quell´essere scaturiscono. E della conoscenza che l´intelletto individuale può averne.
Per Nietzsche al contrario il solo approccio valido alla conoscenza ha il suo fondamento nell´interpretazione.
L´interpretazione è il suo Logos, il suo Verbo, la sola ed unica realtà. L´essere nietzscheano non è quello di Parmenide ma quello di Eraclito per quel tanto che sappiamo di lui; non è lo stare, ma il divenire, il flusso, la rappresentazione prismatica dell´universo.
Quando, nella lettera a Overbeck, Nietzsche enumera le cinque argomentazioni di Spinoza nelle quali egli si riconosce interamente, compie a mio avviso un errore auto-interpretativo: afferma, come Spinoza, di negare il valore morale del mondo. Ma sbaglia. Il mondo nietzscheano è un mondo morale proprio perché ogni interpretazione contiene la sua propria moralità. Proprio perché il relativismo nietzscheano nega l´assoluto ma rifiuta il nichilismo.
Diciamo dunque che neppure Spinoza riesce a liberarsi dalla metafisica come - dopo Nietzsche - recuperano una sorta di metafisica tutti quei pensatori che riproposero l´essere alla base della loro concezione.
Nietzsche è stato il vero solitario in questo punto capitale del pensiero, è stato l´unico ad aver descritto la realtà come una polifonia interpretativa il cui fondamento risiede nello sguardo dell´interprete.
Dopo Nietzsche resta in piedi una sola domanda: può l´interprete interpretare anche se stesso?
Domanda fondamentale, cui non si può dare risposta se, prima, non si definisca la parola interpretazione e il soggetto che la pronuncia.
Una definizione. Ecco che ancora torna in scena Spinoza e il valore che egli attribuisce alla definizione.
Vedete? Il Logos, il Verbo, la Parola, la parola-chiave, l´Interpretazione, l´Interprete....
Scrive Giovanni all´inizio del suo Vangelo: «All´inizio ci fu il Logos e il Logos era accanto a Dio, il Logos era Dio». Se non ci fosse il relativismo nietzscheano, saremmo di nuovo in piena metafisica.


Corriere della Sera 6.7.07
Lo scrittore israeliano rilegge un classico
Kafka e il suo doppio
Il segreto della «Metamorfosi»
di Abraham B. Yehoshua


Il 25 ottobre del 1915 Kafka scrive al suo editore Kurt Wolff una lettera in merito alla copertina del racconto La metamorfosi,
in corso di pubblicazione. Questo il tenore della lettera: «Egregio signore, ultimamente Lei mi scrisse che Ottomar Starke avrebbe disegnato la copertina de La metamorfosi. Mi sono preso un piccolo, probabilmente inutile spavento. Inutile stando a ciò che conosco di quell'artista in Napoleone. Mi è venuto in mente, siccome Starke è un vero illustratore, che forse potrebbe voler disegnare l'insetto. Questo no, per favore, questo no! Non voglio limitare la sua libertà d'azione, voglio soltanto avanzare una preghiera derivante dalla mia conoscenza, ovviamente migliore, della storia. L'insetto non può essere disegnato. Ma non può neppure essere mostrato da lontano. Se questa intenzione non sussiste, se, dunque, la mia richiesta è ridicola, tanto meglio. A Lei sarei grato se volesse trasmettere il mio desiderio. Se potessi fare una proposta per una illustrazione, sceglierei scene come: i genitori e il procuratore dinanzi alla porta chiusa o, ancor meglio, i genitori e la sorella nella stanza illuminata, mentre la porta che dà nella stanza attigua, totalmente oscura, è aperta…». Allora, io proverò qui a delineare lo scarafaggio e capire di conseguenza come mai Kafka fosse così spaventato dall'idea che qualcuno lo raffigurasse.
Non è neppure il caso di cominciare ad addentrarsi nell'immensa ricchezza di significati attribuiti a questo racconto di Kafka. Qui, infatti, la proverbiale ambivalenza ontologica di Kafka giunge all'apice, e non è sbagliato dire che siamo di fronte a uno fra i racconti più studiati nella letteratura del XX secolo, se non il più studiato di tutti. Nella selva di significati spicca ovviamente quello psicoanalitico, che non di rado suscita opposizione proprio per la sua ambizione ad essere totale, e perché presenta la propria interpretazione come ultima, definitiva. In effetti, un'interpretazione psicoanalitica non ha bisogno di alcun supporto storico, sociologico o filologico, è persino autonoma dai dati biografici dell'autore. I personaggi delle tragedie di Sofocle, Shakespeare o Molière sono, in tale contesto, presi per quello che sono, e sotto questo profilo è lecito analizzare loro e i loro complessi come se vivessero qui, accanto a noi.
Kafka per parte sua è ben noto alla psicoanalisi. In un certo senso l'ha ispirata, perché tutto ciò che scriveva poteva essere interpretato in un senso psicoanalitico. Tenterò qui soltanto una delle possibili interpretazioni psicoanalitiche, che si fonderà esclusivamente sul testo, senza alcun rapporto con i dati biografici di Kafka, osservando solo l'agente di commercio Gregor Samsa e la sua famiglia così come compaiono nel racconto.
La domanda che mi guida è la seguente: che cosa è esattamente l'insetto descritto nella storia? Dobbiamo prenderlo solo come una metafora, come un oggetto allegorico, o è possibile conferirgli una qualche pregnanza, per lo meno nella stessa misura in cui diamo concretezza alle cose nei sogni, che hanno magari un'alta carica simbolica ma anche una nitida concretezza? Se questo insetto viene interpretato esclusivamente come simbolo metaforico o allegorico, un simbolo generale di disumanizzazione, allora perdiamo secondo me qualcosa di importante in questo racconto, che, al di là di tutto ciò che riguarda l'insetto, tiene bene testa a un approccio realistico generale.
Kafka aveva evidentemente in mente qualcosa di molto concreto, non soltanto un simbolo metaforico. Così scrive a Yanok a proposito di questo racconto: «È un sogno terribile, è una concezione terribile. Il sogno svela la realtà, mentre l'idea ne è una risultanza. È la mostruosità della vita, la natura terrifica dell'arte». Torneremo su queste parole di Kafka a proposito del racconto; quanto a me, m'incoraggiano lungo la via che cerco.
Gregor viene da una famiglia borghese, dove troviamo un padre forte (in primo luogo fisicamente, ma la sua forza si rivela assai più sostanziale, generale). Questo padre ha avuto guai finanziari, forse a causa dei suoi istinti prepotenti. Gregor ha deciso di tirare fuori suo padre dalle avversità economiche andando a fare l'agente di commercio nella ditta in cui suo padre aveva fallito. Il fatto che il figlio vada a risollevare le sorti del padre nello stesso luogo in cui questi aveva fallito, e non altrove, ha un significato particolare: con ciò si enfatizza e intensifica il dato della «sostituzione» del padre, e se ne svela ulteriormente il fallimento. Quel posto di lavoro Gregor non lo ama, e in ditta nessuno nutre particolare simpatia per lui. La gente lo tratta con somma diffidenza e in una certa misura lo umilia, memore com'è del fallimento paterno. Il duro lavoro del figlio non serve solo per pagare il debito del padre: se questo fosse l'unico scopo, la durata del lavoro sarebbe stata assai più breve, e anche il padre sarebbe stato in una certa forma mobilitato, per collaborare alla restituzione del debito. Ma il fallimento del padre serve a creare la dipendenza della famiglia da Gregor, a fargli prendere il posto del padre stesso. Prima di tutto il padre smette di lavorare, senza una ragione precisa. Sta di fatto che dopo la metamorfosi di Gregor in scarafaggio il padre torna al lavoro e dimostra che ne sarebbe stato capace, in tutti quegli anni di ozio. Gregor per parte sua mantiene la famiglia non certo al livello di ristrettezze di chi si trova sommerso dai debiti: vivono in una casa grande che richiede molte spese (dopo la morte di Gregor la famiglia decide di trasferirsi in un appartamento più piccolo ed economico). Durante tutti quegli anni di lavoro per restituire il debito, i genitori mettono da parte del denaro. In altre parole, Gregor ha trasformato il fallimento del padre in un pretesto per ereditare il suo posto (un motivo analogo si trova, fra l'altro, nel racconto Il verdetto,
scritto prima de La metamorfosi), e ha impedito al padre di partecipare allo sforzo di risanamento della famiglia, perché egli vuole sostituirsi a lui e con ciò rendere ancora più profondo il suo fallimento. Così il padre si indebolisce (benché questa debolezza si sveli in seguito come fittizia, e temporanea), e la scena classica che si evidenzia è più o meno questa: «Le stoviglie della colazione coprivano il tavolo in gran quantità, perché la colazione era per il padre il pasto più importante della giornata, che egli protraeva per ore leggendo diversi giornali». L'immagine del padre fannullone che prolunga la prima colazione, di fronte a quella del figlio sottotenente con la spada e la divisa, bene esemplifica il tipo di relazioni che vigeva in famiglia. Con la maschera della sollecitudine per i propri cari, con la risoluta decisione che il fallimento del padre non può intaccare il processo di riabilitazione della vita familiare, Gregor finisce (consapevolmente o meno) per asservire a sé la famiglia.
In effetti, malgrado sia un agente di commercio, Gregor non pare minimamente interessato al mondo esterno, e sono proprio i suoi frequenti viaggi a esprimere il profondo legame libidico che intrattiene con la famiglia. Il suo vero interesse emotivo è rivolto esclusivamente verso la casa. Quando in uno dei suoi lunghi viaggi riceve le lettere della sorella, in cui lei parla del padre che legge il giornale a voce alta (che notizia sconvolgente!), Gregor ha la sensazione che la casa sia piena di gioia e allegria. Anche la madre descrive al procuratore l'attrazione di suo figlio per la casa e la sua assoluta fedeltà alla famiglia, in questi termini: «Quel ragazzo non ha in testa altro che la ditta. Io mi arrabbio quasi, perché alla sera non esce mai; ora è stato otto giorni in città, ma è rimasto a casa tutte le sere. Sta seduto con noi al tavolo e legge in silenzio il giornale, oppure studia gli orari ferroviari». Non è la famiglia a pretendere che lui stia lì, piuttosto è lui che è attratto dalla famiglia come una specie di padre privo di interessi libidici al di fuori di essa. In effetti, facendo l'agente di commercio, Gregor avrebbe l'opportunità di una vita eccitante, fuori. Invece è vero il contrario: tutto il mondo esterno in cui passa gran parte del suo tempo si riassume conseguentemente in «due, tre amici di altre ditte, una cameriera di un albergo di provincia, un dolce, fuggevole ricordo, la cassiera di un negozio di cappelli, alla quale — seriamente, ma con troppa lentezza — aveva fatto la corte ». Tutti i suoi impulsi libidici si concentrano infine sull'immagine di una donna impellicciata che egli ha ritagliato da una rivista illustrata, come un timido sbocco della libido: e per serbare questa innocente immagine lotterà anche quando sarà ormai un insetto.

l'Unità 6.7.07
Rc: «Va bene, ma ancora non basta»
Giordano incassa e rilancia: «L’unica proposta possibile sulle pensioni è quella illustrata da me»
di Wanda Marra


QUANDO ARRIVA la dichiarazione di Prodi che «è doveroso» abolire lo scalone, Rifondazione tira un sospiro di sollievo. Che però si affievolisce davanti alle precisazioni di Palazzo Chigi («lo scalone pensionistico potrà essere abolito istituendo un percorso con norme più graduali ed eque«). La trattativa sulle pensioni, d’altra parte, è un passaggio cruciale per il partito. Che ancora una volta prova a dettare al governo le sue condizioni. Con tutte le intenzioni di non recedere dalla posizione che illustra il segretario, Giordano: va bene uno scalino a 58 anni dal 2008, ma lasciando fuori gli operai, i turnisti, e chi ha versato 40 anni di contributi. Non a caso, proprio nel clou della discussione sulle pensioni, Rc ha organizzato un seminario di 2 giorni. La direzione, l’esecutivo, la segreteria, i parlamentari e la delegazione di governo si sono riuniti in una sorta di ritiro di riflessione in un paesino della provincia di Frosinone, Segni. Scegliendo un albergo in mezzo alle montagne della Ciociaria, con un nome significativo, «La Pace».
Un «conclave» rigorosamente chiuso alla stampa, in un posto insolito, volutamente lontano dai circuiti, nel tentativo evidente di ricompattarsi. E dunque da una parte «tenere» la base del partito dentro alle scelte fatte al governo, trovando un punto d’incontro sulle stesse pensioni, dall’altra delineare un percorso il più possibile condiviso verso il soggetto della sinistra-sinistra in fase di costruzione. Per affrontare la fase congressuale ormai imminente, visto che di congresso ormai si parla insistentemente per gennaio-febbraio. Tutto ancora interlocutorio, ma stando ai commenti positivi del primo giorno, anche se le divergenze restano, sembrerebbe ad ora un’operazione riuscita. Effetto della cornice un po’ straniante di Segni (sono in molti a guardarsi intorno, con l’aria di «Che ci facciamo qui?»), ma forse soprattutto del fatto che la vera discussione e le decisioni restano rimandate al Cpn del 14 e del 15, dove la maggioranza si confronterà anche con le minoranze. Giordano, introducendo i lavori, parla per più di un’ora e mezzo. Ci tiene a sottolineare che la sua è stata una relazione politica «densa», nell’intenzione di fornire una cornice teorica di riferimento. «Trovo assai positivo che Prodi ribadisca con forza quel che abbiamo scritto nel programma dell’Unione ­ commenta così l’affermazione del Premier ­ sono fiducioso, ma prudente, perché credo che sulle pensioni debba essere tradotto alla lettera il programma dell’Unione». Poi, quando arriva la nota di Palazzo Chigi, riafferma che l’unica mediazione possibile è la proposta da lui illustrata. Ci tiene a puntualizzare il capogruppo in Senato, Russo Spena: «Non siamo noi che vogliamo far cadere il governo, è il governo che, se segue altre strade, perde consenso nella società». E rimarca anche la minor radicalità del partito rispetto alla Fiom. Una via d’uscita, sempre all’interno dei contorni definiti da Giordano, la offre Alfonso Gianni, Sottosegretario all’Economia: rinviare tutto di un anno al 2009, lasciando andare in pensione nel 2008 chi ne ha diritto secondo le vecchie norme, e lavorare nel frattempo per trovare una via d'uscita alla questione dello scalone. Si limita a mettere sul piatto una problematica il ministro Ferrero (che però, arrivando si lascia scappare la battuta «Se il governo cade? Non ancora») : «Non possiamo produrre risultati se non coinvolgiamo i soggetti sociali».
Toni pacati ma posizioni ancora distanti sul processo che deve condurre all’unità della sinistra. Solo qualche settimana fa c’è stato uno scontro molto duro tra il quotidiano del partito, Liberazione, che, seppure con un punto di domanda, parlava di superamento di Rc e il coordinatore della segreteria del partito, Ciccio Ferrara, che contestava questa linea. Con Bertinotti che alla fine aveva dato ragione al giornale. Giordano ribadisce il no allo scioglimento del partito e ripropone «una aggregazione confederativa in cui ci sono soggetti politici e sociali». Sulla stessa linea Russo Spena, che però spinge per una lista unitaria alle amministrative del 2009. Alfonso Gianni parla di un «soggetto unitario e plurale», e pur dicendosi contrario allo scioglimento di Rc, di fatto ne propone il superamento. Per la confederazione anche Ferrero.