sabato 22 maggio 2010

Repubblica Lettere 22.5.10
La lezione di Riccardo Lombardi
di Carlo Patrignani

Roma. È impossibile far politica senza la bramosia di arricchirsi, far carriera e acquisire visibilità e potere? Le vicende degli ultimi giorni direbbero no: poco importa se il "metodo" di oggi (l'arricchimento personale) sia simile a quello di ieri che portò a Tangentopoli (rubare per il partito). Sempre di corruzione e appropriazione indebita si tratta. Ha mai pensato di avere più soldi? «Non avrei saputo che farne. Non ho neanche una casa. A me basta poter comperare libri». Cosa le ha insegnato la vita? «Ad essere onesto, anzitutto». Cos'è l'onestà? «Coerenza tra dire e fare, rigore, intransigenza con se stessi». Così la pensava uno dei protagonisti della Repubblica, nata il 2 giugno 1946, Riccardo Lombardi, l'ingegnere "acomunista" che anzitempo (il 30 giugno 1984) previde la sparizione del suo partito.

l’Unità 22.5.10
Intervista a Stefano Rodota
«La privacy? Alibi del disegno eversivo»
L’ex garante «Il Parlamento è immobile, la stampa sarà imbavagliata e la magistratura è già intimidita»
di Andrea Carugati

Mi accusavano di essere troppo pessimista e invece ecco qui, e bisogna usare le parole giuste: siamo davanti a un cambiamento di regime». La pacatezza del professor Stefano Rodotà non nasconde la durezza dei concetti. «La libertà di espressione è un elemento fondativo delle democrazie e se viene toccata c’è oggettivamente un cambiamento di regime. Anche perché non è il solo pilastro che scricchiola». Rodotà è al sit in del popolo viola in piazza Montecitorio e indica con la mano il portone della Camera. «Il Parlamento è
ormai chiuso, come ha ammesso lo stesso Fini, la magistratura intimidita, l’Università come fucina di sapere critico è sotto attacco. C’è un’insofferenza verso tutti i controlli, si vuole zittire l’opinione pubblica. Neppure ai tempi di Craxi...». Perché torna a quel periodo? «Anche allora c’era questa insofferenza, ma non si arrivò mai all’ attacco frontale contro tutte le istituzioni di garanzia».
Lei che è stato Garante dovrebbe essere il più sensibile alla privacy violata dalle intercettazioni... «E infatti già molti anni fa con altri giuristi abbiamo scritto una proposta di legge per porre riparo agli eccessi nella pubblicazione, in particolare per quanto riguarda persone estranee alle indagini o aspetti non inerenti, come le abitudini sessuali. Per evitare questi rischi basta che i magistrati convochino le parti per eliminare tutto ciò che non è rilevante per le indagini. Si fa la ripulitura e le intercettazioni “dubbie” devono essere inserite in un archivio riservato, coperte dal segreto e sotto la responsabilità del magistrato. Mentre ciò che è rilevante, una volta conosciuto dalle parti è pubblicabile. Così si tutela la privacy e il diritto all’informazione».
E allora perché non viene fatto?
«Perché l’argomento della privacy è solo un pretesto per forzare la mano sull’informazione, un argomento usato in perfetta malafede. Si dovrebbe fare uno stralcio per le norme che tutelano la privacy, e passerebbero all’unanimità. E invece sono partiti dalle intercettazioni per arrivare al divieto di pubblicazione di tutti gli atti di indagine, ma ormai lo scarto tra l’obiettivo dichiarato e quello reale è sotto gli occhi di tutti...con questa legge avremmo conosciuto gli atti della strage di Ustica, avvenuta nel 1980, solo nel 2000. Per non parlare del caso Scajola e dei furbetti delle banche».
Alcuni manifestanti lo fermano: “Perché in piazza non c’è il Pd?” «Non dovete chiederlo a me, dal 1994 non ho più avuto nulla a che fare. Ma non mi sono ritirato a vita privata, sono un militante».
Come valuta il lavoro delle opposizioni su questo tema? «È stato un buon lavoro, una vera opposizione parlamentare. Però insomma, nel passato non solo il Pci ma anche la Dc e l’Msi quando c’era una battaglia parlamentare campale la sostenevano con iniziative nel Paese, anche in piazza. È anche un modo per dare una mano a chi sta in Parlamento, per farlo sentire meno solo. E invece tutto questo non è avvenuto».
Non c’è adeguata consapevolezza dei rischi per la democrazia? «Questa legge è coerente con un disegno eversivo di attacco ai poteri di garanzia. Se si vuole fermare non si può andare in vacanza. Vogliono coprire la nuova ondata di corruzione, diversa rispetto ai tempi di Tangentopoli: questa è concimata istituzionalmente, a partire dalle ordinanze di protezione civile costruite per agire fuori dai controlli». Crede che nel Paese ci siano le energie per una reazione? «Certamente sì, e lo dimostrano le 540mila firme raccolte in un mese sul referendum per l’acqua. Altrimenti non avrei promosso un appello...».
Pensa che il ddl sia incostituzionale?
«C’è una palese violazione dell’articolo 21 della Costituzione, e anche dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come dimostra il caso dei due cronisti francesi condannati dalla magistratura e “assolti” dalla Corte perché anche atti segreti possono essere pubblicati se coinvolgono figure pubbliche e rispondono all’interesse generale alla conoscenza. Credo che la Corte europea, se interpellata, farà vergognare i nostri parlamentari».
Come valuta la retromarcia del Pdl sul carcere per i giornalisti? «È solo una finzione, perché restano il divieto di pubblicazione e le maxi multe per gli editori, una sorta di “censura di mercato”, che spingerà gli editori a condizionare i giornalisti per evitare sanzioni». Le divisioni nel Pdl porteranno ad altre correzioni del ddl?
«Dico che non bisogna arretrare di un millimetro. Più cresce la mobilitazione, più tutti saranno obbligati a un supplemento di riflessione».

Corriere della Sera 22.5.10
Gli Usa. intercettazioni essenziali alle indagini
di Dino Martirano
qui
http://www.scribd.com/doc/31773284/Intercettazioni-Essenziali-Alle-Indagini-22-Mag-2010-Page-1

«Non c’è solo Veltroni… C’è Nichi Vendola che continua la sua marcia e che non ha nessuna intenzione di mollare la presa: “Mi candiderò alle primarie” ha detto a più d’uno… Nel frattempo Bersani non trascura di intessere rapporti anche alla sua sinistra, per esempio con … Paolo Ferrero, che avrebbe un buon motivo per schierarsi con Bersani. Quel motivo ha un nome e un cognome: Nichi Vendola con cui il numero uno del Prc ha rotto fin dai tempi dell’ultimo congresso del partito»

il Fatto 22.5.10
Vendola invoca De Magistris
di Vincenzo Iurillo

Napoli. Chiamatelo Cantiere per la Sinistra, Cantiere Futuro, Laboratorio Sud o come vi pare. E’ il tandem Nichi Vendola-Luigi De Magistris, e questo conta. Si è messo in viaggio ieri sera da un convegno alla Città della Scienza di Bagnoli e punta dritto al Comune di Napoli, che tornerà alle urne la prossima primavera. L’accoppiata tra il governatore della Puglia e l’eurodeputato Idv è la vetrina di un costituendo patto tra Sinistra e Libertà, Idv, movimenti e associazioni, pezzi di Rifondazione e ambienti del Pd campano scontenti dell’eterno scontro tra bassoliniani e deluchiani e del filotto di sconfitte racimolate in Campania dal 2009 (perse la Regione e quattro province su cinque). L’accoppiata ha un obiettivo dichiarato e uno nascosto. Il primo è quello di imporre le primarie di coalizione per il candidato sindaco di Napoli, possibilmente con ampio anticipo sul voto. Il secondo è quello di sfruttare le indecisioni del Pd e farlo trovare spiazzato su un nome esterno alle logiche spartitorie democrat, manovra in qualche modo già riuscita in Puglia con Vendola e nel Lazio con Emma Bonino. Va da sé che il nome ideale sarebbe quello di De Magistris. Solo che l’ex pm di Why Not non ha sciolto la riserva, e chi si aspettava ieri qualche parola risolutiva sulla questione è rimasto deluso. Non è arrivato un sì, ma nemmeno un no. “La questione non si pone – afferma De Magistris sono uno dei tanti candidati possibili che potrà mettersi in gioco. A Napoli si rischia di avere Mara Carfagna sindaco, per cui c’è bisogno di una candidatura forte, espressione di un’area politica molto vasta”. Vendola prima di arrivare alla Città della Scienza è stato a Bitetto, ai funerali di uno dei militari uccisi in Afghanistan. “De Magistris sindaco? Tutto ciò che spariglia i giochi tradizionali nel Palazzo del centrosinistra mi va bene”, dice il governatore. E qui sono in tanti ad augurarsi anche la discesa in campo di Michele Santoro.


l’Unità 22.5.10
La cellula e la Chiesa
La vita artificiale secondo Bagnasco
di Maurizio Mori

La notizia della “cellula artificiale” ha suscitato sgomento e confusione. Di fatto non si è creato nulla, tantomeno la vita, ma si è riprogrammato un batterio, che è diverso. Quel che interessa, tuttavia, sono le reazioni. Alcuni vescovi come Domenico Mogavero, presidente del consiglio Cei per gli affari pontifici hanno subito preso le distanze dagli «scenari della vita artificiale, dall’uomo bionico creato in laboratorio», sottolineando che «l’incubo da scongiurare è la manipolazione della vita, l’eugenetica. E chi fa scienza non dovrebbe mai dimenticare che esiste un solo creatore: Dio». Modificare in modo tanto profondo la vita porta a far sì che siano «chiamati in causa sia il futuro dell’uomo sia il senso dell'umano», chiedendo così di porre «uno stop immediato all'anarchia della scienza».
Dall’altra parte, però, sia Angelo Bagnasco, presidente della Cei, sia monsignor Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, hanno preso posizioni diverse: il primo ha rilevato che nella nuova scoperta «si vede l’intelligenza dell’uomo, che è un grande dono di Dio», precisando poi che «l’intelligenza non è mai senza responsabilità» e che tutte le forme di intelligenza come di acquisizione scientifica «pur se valide in sé devono essere sempre commisurate ad un’etica che ha al suo centro sempre la dignità umana nella prospettiva del Creato». L’altro ha sottolineto che ogni scoperta scientifica «è sempre un bene per l’umanità» e che dobbiamo «capire l’uso che verrà fatta della scoperta ... Per ora si tratta di una scoperta teorica di cui bisognerà poi verificare l’utilizzo: se sarà per il bene dell’uomo, cioè per curare le patologie» o se si ricorrerà a un suo uso «discriminatorio».
Mentre rileviamo questa forte discrepanza all’interno della stessa Chiesa cattolica, fa piacere rilevare come due autorevoli vescovi cerchino di evitare condanne sommarie che potrebbero dar luogo a casi simili a quello di Galileo. Tuttavia emergono alcune domande: se la vita artificiale è segno dell’intelligenza come grande dono di Dio, perché non lo è anche l’artificialità nella vita? Perché non dire lo stesso delle tecniche di fecondazione assistita, artificiali anch’esse. E se vanno apprezzati gli eventuali risvolti terapeutici di questa scoperta, perché rifiutare quelli legati alle staminali embrionali?
Il vero problema è che stiamo sempre più capendo i meccanismi della vita e acquisendo il suo controllo: si dissolve cioé quella sacralità della vita che valeva quando essa era avvolta nel mistero. In passato il passaggio della cometa di Halley era era segno di sventura: quando si è calcolata la sua orbita, la stessa cometa ha cessato di terrorizzare le coscienze. Ora qualcosa di analogo sta avvenendo coi processi della vita, ed è giunto il tempo che si cambi paradigma. Almeno speriamo.

Corriere della Sera 22.5.10
La Bibbia i Greci la creazione e il mistero del nulla
La parola usata dalla Genesi in origine voleva dire separazione
di Armando Torno
qui
http://www.scribd.com/doc/31773097/Corriere-Della-Sera-La-Bibbia-i-Greci-e-La-Creazione-22-Mag-2010-Page-1

l’Unità 22.5.10
Vietato parlare con la stampa
Bavaglio a presidi e professori

di Chiara Affronte

Emilia Romagna. L’Ufficio scolastico regionale impone il divieto di parola al personale scolastico
Gelmini applaude. «Non si usa l’istruzione per fare propaganda. Chi vuol fare politica, si candidi»
Il coordinamento docenti modenese rende pubblica una circolare in cui l’Usr impone ai lavoratori della scuola di non avere contatti con la stampa. La Cgil chiede le dimissioni del dirigente. La Gelmini lo difende.

Bavaglio agli insegnanti che parlano con la stampa o dissentono dalle linee del governo. Se non si “ubbidisce” via alle sanzioni disciplinari. È quello che accade in questi giorni in Emilia-Romagna, dove il dirigente dell’Ufficio scolastico regionale Marcello Limina invia ai presidi una circolare «riservata» (si legge in alto nel documento, ndr) in cui manifesta la volontà di porre uno stop a «dichiarazioni rese da personale della scuola con le quali si esprimono posizioni critiche con toni talvolta esasperati e denigratori dell’immagine dell’amministrazione di cui lo stesso personale fa parte». Toni che prosegue la nota vengono inviati sotto forma di documenti ad autorità politiche, fatti circolare a scuola o distribuiti alle famiglie. Nella circolare Limina “invita” quindi ad «astenersi da dichiarazioni o enunciazioni che in qualche modo possano ledere l’immagine dell’Amministrazione pubblica».
Si scatena il putiferio quando il coordinamento degli insegnanti modenesi Politeia viene a conoscenza dell’esistenza di questa circolare, non ancora resa pubblica da nessun preside, ma datata 27 aprile. La Cgil insorge: «Ritiro immediato della nota e dimissioni del direttore dell’Usr», la richiesta del segretario generale Flc-Cgil Mimmo Pantaleo. Immediata la difesa del ministro Mariastella Gelmini: «Condivido e sostengo pienamente l’operato del direttore Limina che ha invitato tutto il personale della scuola a osservare un comportamento istituzionale afferma il ministro È lecito avere qualsiasi opinione ed esprimerla nei luoghi deputati al confronto e al dibattito. Quello che non è consentito è usare il mondo dell’istruzione per fini di propaganda politica: chi desidera fare politica si candidi alle elezioni e non strumentalizzi le istituzioni».
PRESIDI SCERIFFI
Tutto parte da Modena, dove alcuni insegnanti vengono a conoscenza dell’esistenza della circolare. «Qualche dirigente troppo zelante l’ha messa tra quelle visibili a tutti», riferisce un insegnante. Presa la palla al balzo di una manifestazione contro i tagli della riforma Gelmini che si è svolta a Modena giovedì, i docenti
hanno reso pubblica la notizia e firmato una mozione per denunciare il «carattere intimidatorio e lo spirito antidemocratico della circolare che cerca di reprimere le legittime proteste del mondo della scuola». Fatto altrettanto grave, per i “prof” modenesi, quello di «far passare l’idea che i dirigenti, destinatari del documento, siano soggetti superiori di grado, quando in realtà, nel collegio docente, sono figure inter pares. Poi, vuoi per l’avidità di qualcuno, vuoi per il clima autoritario generale, passa l’idea di un ruolo diverso». La scuola, insomma, non è quella che dipingono Limina e il governo anche per Bruno Moretto della cellula bolognese del comitato Scuola e Costituzione: «Gli insegnanti sono autonomi: lo spirito dell’articolo 33 della Costituzione è quello di creare nella scuola un clima di confronto di posizioni». Meglio per il comitato che «Limina si occupi di ciò che gli compete e risponda ad esempio ai 600 bambini che a Bologna e provincia non avranno posto alla scuola materna l’anno prossimo».


l’Unità 22.5.10
Santa Maria della Pietà oggi
Dieci anni dopo il manicomio

di Paola Natalicchio

Festa ieri a Roma per i dieci anni dalla chiusura dell’ex manicomio di Santa Maria della Pietà. «Quando iniziammo a cambiare le cose ci dissero che i pazzi eravamo noi». La giornata organizzata dalla Cgil-Fp.

Nel 2000 la chiusura della struttura. Ora ospita uffici e associazioni
La Basaglia Fu uno dei laboratori del movimento anti-istituzionale

«La forchetta e il coltello ai pazienti. Se devo scegliere un’immagine della nostra battaglia contro le regole del manicomio a Roma mi viene in mente questa. I malati potevano mangiare solo con il cucchiaio. Che senso aveva? Nessuno. E allora noi ci battemmo. Non solo perché cadessero le reti di recinzione e si aprissero le porte chiuse a chiave. Non solo per denunciare l’elettroshock, la disperazione, i suicidi». Adriano Pallotta è un anziano signore di 76 anni, con gli occhi chiari e la voce gentile. Dell’ex manicomio Santa Maria della Pietà di Roma è la memoria storica. Ha lavorato qui come infermiere per una vita intera: ci è entrato che aveva 24 anni, alla fine degli anni Cinquanta; ci è uscito nel 1996, per la pensione, che ancora la chiusura del manicomio non si era totalmente compiuta. «Non hai idea di cosa fosse questo posto prima che Franco Basaglia cambiasse il corso degli eventi. Poi negli anni Settanta le cose iniziarono a cambiare e fu nel 1974 che creammo, a Roma, il primo movimento anti-istituzionale del manicomio: eravamo una trentina di infermieri del padiglione 16. Iniziammo a proporre delle modiche al modo di trattare i pazienti, anche agli altri ottocento e più infermieri che lavoravano negli altri 33 padiglioni. Non fu facile, qualcuno ci disse che eravamo noi i veri folli del manicomio e forse aveva ragione». Adriano parla e con lo sguardo cerca Alfredo, un suo ex paziente ultrasettantenne: «Si è fatto 40 anni al Santa Maria della Pietà, come me. Lo avevano rinchiuso solo perché era orfano, pensa. Ora abita in una casa-famiglia qua vicino con altri due ex pazienti. Io ci vado ogni tanto per fare volontariato. Oggi siamo venuti qui insieme, solo che non so bene dove sia finito». Sorride, Adriano, senza preoccupazione, Alfredo sarà in mezzo alla gente (tanta, almeno 300 persone) che passeggia, disegna e beve birra a sorsi dai bicchieri plastica nei giardini davanti all’ex Lavanderia, invasi pacificamente, ieri pomeriggio, dalle bandiere della Cgil Funzione Pubblica, che ha organizzato una festa per celebrare i dieci anni dalla chiusura dell’istituto-lager romano.
OGGI È UN LUOGO APERTO
Al posto del manicomio, oggi, questo complesso ospita molte cose diverse: i locali del municipio, dell’Asl, del Museo della Mente, di alcune cooperative sociali e di un’associazione, e l’associazione ex Lavanderia, appunto, che da anni si batte per la riqualificazione sociale e culturale dell’ex complesso para-carcerario. «Non vogliamo solo festeggiare la chiusura del manicomio e celebrare la legge 180. Vogliamo riflettere su come attualizzarla e rilanciarla, sostenendo i servizi territoriali come le case famiglia e i centri pubblici per la salute mentale, in un momento in cui sembrano essere tornati in discussione a favore del rilancio dei servizi sanitari privati», spiega Lorenzo Mazzoli, segretario generale della Fp Cgil del Lazio, che ha organizzato l’evento. Tutt’attorno la gente continua ad arrivare: arrivano anche Furio e Giancarlo, comici del Trio Medusa che hanno svolto, dieci anni fa, il servizio civile in una casa-famiglia legata all’ex manicomio. Arriva anche Ascanio Celestini che su questo posto ha fatto uno spettacolo teatrale e sta girando un film.

venerdì 21 maggio 2010

Ansa.it
Salone Libro: “Ru486, non tutte le streghe sono state bruciate”
Spazio anche al volume “La pillola del giorno dopo”

TORINO, 10 MAG - Al Salone del Libro si parlera' anche di un tema caldo dell'agenda legislativa italiana, l'uso della RU486 per le donne che scelgono l'aborto farmacologico. Con la presentazione di due libri dedicati alle donne e agli operatori sanitari, 'RU486 Non tutte le streghe sono state bruciate' e 'La pillola del giorno dopo', scritti da due ginecologi di fama, Carlo Flamigni e Corrado Melega, e pubblicati da L'asino d'Oro. Due piccoli libri, agili, con l'intento di svelare tutti i 'segreti' della RU486 e della pillola del giorno dopo nonche' le differenze tra un aborto farmacologico (RU486) e una modalita' di contraccezione di emergenza (pillola del giorno dopo). Viene spiegato il loro funzionamento, quali sono le modalita' di somministrazione, quali gli effetti collaterali, le complicanze, ma anche le distorsioni ideologiche che in Italia ne hanno accompagnato l'impiego. Verranno presentati domani nello spazio autori A, presenti numerosi esperti tra cui il prof. Maurizio Mori, docente di Bioetica Universita' di Torino, e Anna Pompili, ginecologa dell'Universita' La Sapienza di Roma. Per quanto riguarda la RU486, il volume, corredato da dati aggiornati e confronti statistici, evidenzia i rapporti con la legge 194, l'iter che ne ha introdotto l'uso negli ospedali italiani e indica in appendice la documentazione per accedere a questa tecnica farmacologica di interruzione di gravidanza, entro le prime 7 settimane, ''utilizzata fino ad oggi da milioni di donne'', in molti paesi d'Europa e del mondo, tra i quali gli Stati Uniti e la Cina.

Repubblica 21.5.10

Giocare ad essere Dio
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza

Così Craig Venter ce l´ha fatta. Ha mantenuto la promessa fatta poco più di due anni fa, di fabbricare in laboratorio un organismo vivente.
Le agenzie di stampa battono la notizia che Venter, in collaborazione con Hamilton Smith, è riuscito a realizzare cellule artificiali capaci di vivere e riprodursi grazie a un genoma artificiale, un cromosoma costruito dai ricercatori a partire da composti chimici, con l´ausilio di un computer e di un sintetizzatore di Dna. Il Dna di un batterio, il Mycoplasma mycoides, è stato modificato e trasferito in un altro batterio, il Mycoplasma capricolum, privato del suo Dna, dando origine a un nuovo essere vivente, mai esistito finora in natura.
È solo il primo passo, non è una forma di vita completamente sintetica (un Mycoplasma laboratorium) ma è una svolta fondamentale, che arriva al termine di un percorso iniziato oltre cinquant´anni fa, quando Arthur Kornberg scoprì l´enzima che opera la duplicazione del Dna e riuscì a produrla in laboratorio. Era il 1956 e la struttura del Dna era stata descritta da Watson e Crick appena tre anni prima. Nelle ultime tappe di questo percorso ha fatto la parte del leone lo stesso Venter, arrivando per primo a sequenziare il genoma umano nel 2000 e costruendo, due anni fa, il primo cromosoma sintetico.
Non è la creazione della vita dal nulla, ma certo è la fabbricazione della vita. In fondo, i ricercatori hanno agito come agisce la vita stessa, per tentativi ed errori, con operazioni di bricolage, come le definì François Jacob. Hanno assemblato in laboratorio un milione di nucleotidi di Dna, procurandosi frammenti di Dna da genomi batterici e combinandoli fino a trovare un assetto funzionante, costruendo così una cellula che è in tutto una cellula naturale (non potrebbe vivere e riprodursi altrimenti), tranne per il fatto che il suo patrimonio ereditario non è stata costruito dalla natura ma da uno dei suoi prodotti, l´uomo.
Gli obiettivi che Venter si è ripromesso fin dall´inizio di questa ricerca sono sempre stati chiarissimi: giungere a fabbricare batteri artificiali da impiegare per bonificare acque e terreni contaminati da petrolio o da altre sostanze inquinanti, piuttosto che per la produzione di idrogeno o biogas o vaccini, oppure alghe in grado di assorbire anidride carbonica in eccesso o di produrre biocarburanti. Ora questi obiettivi sono assai più vicini. Potrebbero rivelarsi strumenti importantissimi per combattere il degrado ambientale.
Si stanno aprendo le porte su quella che potrà rivelarsi la prima grande rivoluzione di questo millennio: la generazione di vita artificiale. «Si gioca ad essere Dio», diceva scherzosamente Craig Venter. Le prospettive sono effettivamente straordinarie e le applicazioni virtualmente illimitate. Per tranquillizzare chi teme ciò che può nascere alle frontiere della scienza, forse è bene precisare che la produzione di organismi superiori non è all´orizzonte, né lo sarà, con ogni evidenza, per parecchie generazioni a venire.
Il segreto della vita, la sua caratteristica unica ed essenziale, è la capacità di produrre copia di se stessa. Nel corso dell´evoluzione, tutte le forme di vita che sono via via comparse e poi scomparse lo hanno fatto perché erano in grado di utilizzare le fonti di energia presenti nell´ambiente per crescere e riprodursi. Come ogni altro organismo vivente, anche i batteri artificiali saranno sottoposti al vaglio della selezione naturale. È un´avventura appassionante, che promette sviluppi importanti negli anni a venire. In molti sensi, la sfida più grande che si apra in questo momento davanti all´uomo: bisogna vedere cosa sapremo farne, come sapremo utilizzare questo nuovo potere.
Si potrebbe dire, parafrasando la Bibbia, che ora che l´uomo ha assaggiato il frutto dell´albero della vita, sarà bene che assaggi anche il frutto dell´albero della conoscenza del bene e del male, così da diventare abbastanza discriminante da sapersi prendere piena responsabilità delle sue azioni.
Stanno diventando possibili anche altri esperimenti di grande interesse. Oggi sappiamo come è fatto il Dna di Neandertal, un tipo di uomo estinto da 30.000 anni, che era ritenuto nostro antenato ma oggi è considerato piuttosto come un lontano cugino. C´è grande curiosità di vederlo in vita, invece che ridotto a uno scheletro, per sapere come si comporta. Potremmo riprodurre un Neandertal artificiale usando quel Dna? Forse sì, in un lontano futuro. Ma programmi simili non sarebbero compatibili con nessuna etica rispettabile. Ricerche recentissime mostrano, fra l´altro, che vi sono stati incroci fra i Neandertal e uomini come noi, quindi siamo chiaramente su terreno pericoloso. Si è anche detto che potremmo ricostruire dei mammut o altri grandi e piccoli animali estinti: un terreno forse meno scivoloso, ma che pure si presterebbe ad obiezioni.
Venter insiste sulla biologia sintetica resa possibile da questa scoperta e sulle numerosissime applicazioni che se ne potranno sviluppare, non solo sul terreno ecologico ma per creare nuove piante e animali, che possano superare i problemi odierni di disponibilità di cibo. E per risolvere problemi di genetica medica attualmente insolubili.

Repubblica 21.5.10
Né un miracolo né un mostro combattiamo euforie e paure
di Umberto Veronesi

La notizia era attesa nel mondo scientifico. Questo non toglie nulla al valore. Non dobbiamo né osannare al miracolo, né evocare spettri di mostri artificiali. Il Dna sintetico non ci porterà vantaggi immediati né danni catastrofici. Il perché ce lo spiega la scienza stessa, che ci ha svelato che il Dna è all´origine della vita, ma da solo è impotente. Per questo il cromosoma sintetico di Vender è inserito in una cellula vivente. Ma il trasferimento di Dna da un organismo all´altro, non è una novità. Oggi già trasferiamo geni da un organismo all´altro, scomponiamo e rimettiamo insieme frammenti di Dna e già possiamo ottenere nuove sostanze e organismi. Il tema è, oltre che scientifico, soprattutto filosofico e ideologico: parliamo per la prima volta della possibilità di costruire la vita umana. La scienza avanza e la cultura resta indietro. La prima cosa da fare è combattere l´ignoranza che crea false paure e false euforie.

Repubblica 21.5.10
Pensiamo alla grande conquista e non alle possibili perversioni
di Massimo Piattelli Palmarini

«È una formidabile conquista. Scientificamente non sorprende: conoscevamo già tutti i componenti. Ma, una volta scomposti, la novità sta nel riuscire a ricomporli. Il prossimo passo? Creare qualcosa di simile a un uovo, per esempio, di ranocchio, e fecondarlo. Scandalo? Per carità: non vedo attentati a nulla. Certo i rischi ci sono sempre: ma perché dobbiamo guardare alle possibili perversioni invece di compiacerci del risultato raggiunto? Sì, Venter è scienziato e imprenditore perché oggi la biologia ha bisogno di investimenti considerevoli. Ed è inutile nasconderci anche i ritorni considerevoli: nelle terapie, nei farmaci. Il mio sogno? Vedere un giorno appesa nelle aule scolastiche, dove oggi c´è la tavola degli elementi di Mendeleev, la tabella che spieghi quali geni si attivano e quale combinazione algebrica scatta per dare vita agli esseri viventi».

Repubblica 21.5.10
La psicanalista Roudinesco attacca il filosofo per le sue critiche a Freud
"Caro Onfray tu sei di destra"
"Un testo pieno di errori e frutto di antichi pregiudizi contro il fondatore della psicanalisi"

PARIGI. Il ciclone Michel Onfray continua a scuotere il mondo della cultura francese. Da quando un mese fa il suo violento saggio contro Freud Le crépuscule d´une idole (Grasset), è arrivato nelle librerie, il filosofo iconoclasta è al centro di una violentissima polemica, fatta di accuse e contraccuse, invettive e anatemi. Non passa giorno senza nuove prese di posizione attorno alle 600 pagine del suo libro tutto teso a presentare l´inventore della psicanalisi come un borghese reazionario, fallocrate, omofobo e ammiratore di Mussolini. Nel paese di Jacques Lacan e Françoise Dolto, dove la psicanalisi è una vera e propria istituzione, tali attacchi sono sembrati una provocazione intenzionale. Motivo per cui in molti – da Alain Badiou a Julia Kristeva – hanno condannato un´opera tanto politicamente scorretta.
Tra le voci levatesi contro Onfray, c´è anche quella di Elisabeth Roudinesco, la storica della psicanalisi autrice di molti saggi, tra cui anche una biografia di Lacan. La studiosa, che ha già stroncato Le crépuscule d´une idole dalle pagine di Le Monde, sta ora per mandare in libreria Mais pourquoi tant de haine? (da Seuil, giovedì 27 maggio), un pamphlet di un centinaio di pagine contro il volume di Onfray. Pur riconoscendo la necessità di criticare «il dogmatismo degli analisti dell´inconscio e delle loro scuole, e perfino la teoria freudiana, che non deve mai essere considerata un corpus sacro», Elisabeth Roudinesco non mostra alcuna indulgenza per Onfray, accusato di aver scritto un testo «zeppo d´errori e dicerie», impregnato d´odio allo stato puro e fondato solamente sulla negazione della realtà».
L´autore de Le crépuscule d´une idole, secondo la Roudinesco, «attribuisce al fondatore della psicanalisi le proprie ossessioni», riducendone la riflessione «all´odio dei padri e all´ammirazione delle madri, per poterle sedurre sessualmente» e riabiliterebbe di fatto «il discorso dell´estrema destra francese». Come proverebbe anche la sua insistenza nel volersi contrapporre alle élite intellettuali parigine, di cui gli psicanalisti sarebbero la quintessenza.
Accuse naturalmente respinte dall´interessato, il cui volume, grazie anche alle polemiche, ha già venduto quasi 150.000 copie ed è da tre settimane al primo posto delle classifiche. E per continuare ad opporsi ai suoi detrattori, Onfray pubblica ora un libretto fuori commercio, Freud, une chronologie sans légende, in cui condensa le discusse tesi del suo libro. Insomma, la battaglia attorno a Le crépuscule d´une idole, che in Italia verrà tradotto da Ponte alle Grazie, sembra destinata a durare ancora a lungo.

il Riformista 21.5.10
Vescovi inquisiti
Il Vaticano va informato delle indagin
di Francesco Peloso

Ha fatto scalpore nei giorni scorsi l’approvazione di un articolo del disegno di legge sulle intercettazio ni nel quale si afferma che l’autorità giudiziaria dovrà informare il Segretario di Stato vaticano «quando risulta indagato o imputato un ve scovo». La novità è stata interpre tata come l’ennesima limitazione posta alla magistratura in materia di indagini, questa volta in riferimento al personale ecclesiastico. «Niente di tutto questo», afferma il professor Carlo Cardia, docente di Diritto ecclesiastico, che ha contribuito alla stesura della norma nella sua fase preparatoria. «È un equivoco che va chiarito subito: non c’è nessuna limitazione ai magistrati in materia di intercettazioni sui vescovi; non è di questo che si tratta». Il provvedimento, spiega Cardia, stabilisce un’altra cosa: e cioè che la Segreteria di Stato viene avvertita, «non nella prima fase riservata del le indagini, ma quando il vescovo in questione deve, per esempio, di fendersi in giudizio. Per altro non si fa riferimento a eventuali interruzioni dell’indagine». Tuttavia una novità c’è, ed è il fatto che viene chia mata in causa il Segretario di Stato. Per altro nello stesso ddl si afferma, in linea con il Concordato, che quando «risulta indagato o imputato» un sacerdote deve esserne data comunicazione al vescovo locale. Nel caso in cui sia sottoposto a in chiesta un vescovo, invece, nel testo all’esame del Senato, si stabilisce che il suo diretto superiore è il Segretario di Stato «cui il Pontefice spiega Cardia delega una serie di poteri per il governo della Chiesa universale». Da parte dell’opinione pubblica il sospetto avanzato è che l’avvertimento dato dai giudici alla Segreteria di Stato abbia in realtà come unica conseguenza l’intervento da parte vaticana per scongiurare o limitare un’inchiesta giudiziaria. Secondo Cardia, non è questo il rischio che si corre, anzi il provvedi mento potrebbe indurre il Papa a prendere provvedimenti cautelari verso quei vescovi imputati di reati gravi, fermo restando il principio del la “presunzione d’innocenza”.
Sotto il profilo generale, osserva ancora il giurista, «il vescovo dipende in un rapporto organico dalla Santa Se de, nel senso che il vescovo è nomi nato dal Papa e solo quest’ultimo ha poteri su di lui. Non va però dimenticato che ogni vescovo, insieme al Papa, è un successore degli apostoli, solo che il Papa è il successore di Pietro e questo gli dà delle prerogative in più». «Il Segretario di Stato aggiunge il professore va considerato invece come una sorta di primo ministro della Chiesa universale». In questo contesto, la norma approvata in commissione al Senato intende di re che la comunicazione arriva alla Segreteria di Stato «quando l’atto giudiziario si ufficializza, quando c’è un avviso di garanzia». Insomma, spiega Cardia, non c’è nessun tentativo di porre un freno alle indagini. Ma se il vescovo ha un superiore nel Segretario di Stato e quindi nel Papa, c’è il rischio che la nuova normativa italiana apra una falla Oltreoceano nella difesa che il Vaticano ha messo in campo contro i tentativi di coinvolgere il Vaticano e il Pontefice quali responsabili ultimi nella copertura degli abusi sessuali dei preti da parte dei vescovi. Gli avvocati delle associazioni delle vittime americane, infatti, hanno chiesto che il giudizio si estendesse alle alte gerarchie romane Papa compreso in virtù di un principio gerarchico di responsabilità. Gli avvocati del Vaticano hanno risposto che la Chiesa non è un’azienda o una multinazionale e dunque non la si può giudicare in quei termini. Il professor Cardia conferma, dal suo punto di vista, la validità di questa tesi. «Fra vescovo e Papa afferma non c’è un rapporto di dipendenza di tipo civile, negli Stati Uniti in vece l’accusa dice: il vescovo di pende dal Vaticano che è uno Stato assoluto governato da un monarca che è il Papa, quindi lui è responsabile. Ma nella Chiesa, fra vescovi e Pontefice esiste piuttosto il rapporto organico che dicevo pri ma, non c’è un tipo di responsabilità gerarchica aziendale. Altrimenti, se il Papa fosse responsabile per tutti i vescovi del mondo, altro che infallibilità!». Ancora diversa è la questione se a essere chiamate in causa sono le singole congrega zioni vaticane, per esempio quella per i Vescovi o per la Dottrina della fede, in ragione del ruolo che han no svolto in determinate vicende: «Su questo bisogna vedere i sin goli casi, non si può esprimere un criterio generale; io credo però che quando si parla di abusi bisogna sempre seguire la strada della giustizia civile, cioè penale».

«in Puglia Nichi Vendola è stato il più votato anche tra i cattolici praticanti»
Il Sole 24Ore 21.5.10
Letta rilancia Bersani, ma Vendola è il più amato

«Bersani è il nostro leader, abbiamo uno statuto chiaro, il nostro leader lo candideremo alla presidenza del Consiglio». A rilanciare la premiership del segretario del Pd è stato ieri Enrico Letta. Ma non sarà certo la questione della premiership a occupare i lavori dell’assemblea dei mille del partito che si riunisce domani e sabato: nelle intenzioni di Bersani oggi parte la «sfida» al governo con un attacco a politiche inadeguate che causeranno una manovra «lacrime e sangue», ma anche con le proposte dell’alternativa, dal lavoro alle riforme istituzionali. 
Anche “Area democratica"sembra orientata a mettere da parte le polemiche interne a favore dei contenuti e l’incontro avvenuto ieri tra Bersani e Franceschini confermerebbe la volontà comune in tal senso. Insomma, per due giorni il tentativo sarà quello di lasciare sullo sfondo questioni che dividono come appunto la premiership. Eppure l’argomento continua a far discutere: ieri una ricerca Swg commissionata dai cristiano sociali di Mimmo De Luca ha evidenziato che, se nel resto d’Italia il centro-sinistra ha tra i cattolici una distanza di quasi 14 punti dal Pdl (da qui la sconfitta di candidate come Mercedes Bresso ed Emma Bonino), in Puglia Nichi Vendola è stato il più votato anche tra i praticanti.

«il quadro che i nostri cineasti hanno voluto offrire è troppo nero per non convincere chi vuole già essere convinto. Ieri Luchetti, mercoledì Marco Bellocchio (ma lo psichiatra che l’assiste da 30 anni non gli ha insegnato che il torto o la ragione non stanno tutti da una parte?)»
Libero 21.5.10
La brutta Italia di Cannes
di Giorgio Carbone

Premetto che il discorso dei panni sporchi che si debbono lavare in famiglia io non l’ho mai digerito.
Specie riferito al cinema. Con la scusa della famiglia, i panni non venivano mai lavati. E quindi bravi i registi che parlavano delle magagne del nostro Paese senza paura che a causa loro l’Italia venisse considerata un immenso immondezzaio. E bravi anche i governanti che non mettevano i paletti. Ero ragazzino quando Rosi presentò "Le mani sulla città" (che non era certo tenero con le classi dirigenti) ma mi gonfiai d’italico orgoglio quando il regista volle sottolineare: «L’Italia è oggi un Paese dove è possibile lavorare e lottare per le proprie idee». Sono passati quasi 50 anni. E oggi i nostri prodi lottano per una sola idea: l’Italia berlusconiana fa schifo. Ieri sulla Croisette era il turno di Daniele Luchetti che ha mostrato le mutande sporche con "La nostra vita". Che vogliamo premettere è un film ben fatto, ben recitato (ben lontano dai rutti della Guzzanti) ma che non rinuncia all’idea dell’Italia immondezzaio.
Soprattutto a causa della sceneggiatura (dei rossissimi Rulli e Petraglia) ognuno esce dal cinema con l’idea che qualsiasi povero italiano, per uscire dal guano, non ha altra possibilità che imbrogliare e ricattare.
Quello che il pubblico francese (e inglese, e spagnolo) voleva sentirsi dire. Gli spagnoli segano gli stipendi degli statali, i francesi hanno le banlieu in fiamme, gli inglesi hanno una crisi politica che non si vedeva dai tempi di Oliver Cromwell. Ma la cantina d’Europa è l’Italia. L’unica sacca d’inciviltà del Vecchio Continente. Anche se qualche francese nutre dei dubbi (ma i francesi nutrono con difficoltà, il loro complesso di superiorità nei nostri riguardi ha radici multisecolari), il quadro che i nostri cineasti hanno voluto offrire è troppo nero per non convincere chi vuole già essere convinto. Ieri Luchetti, mercoledì Marco Bellocchio (ma lo psichiatra che l’assiste da 30 anni non gli ha insegnato che il torto o la ragione non stanno tutti da una parte?). La scorsa settimana, Sabina Guzzanti che col folle fascennino ha guadagnato sulla Croisette il titolo di Michael Moore italiana (chiedo scusa al Michael per tutto il male che ho scritto di lui negli ultimi sei anni). Qualcuno obietterà: ma avranno pur diritto poveracci di esprimere il loro dissenso su questo Paese. Certamente, come ha diritto il sottoscritto di dissentire da questo cinema. Perché non assomiglia a quello di Rosi. E nemmeno a quello di Verdone, per cui feci le prime recensioni da titolare di rubrica. Ieri il Carlo ha voluto unirsi al coro, sparando, all’università di Roma, bordate contro Bondi e persino contro il cardinale Bagnasco, reo di non aver fatto vincere la Bonino. Caro Carlo, vuoi sapere perché eri così simpatico ai tempi di “Bianco rosso e Verdone"? Perché l’unico coro che conoscevi era quello dei chierichetti.
Mentre Cannes piange, Venezia ride. Proprio così, nell’anno di grazia 2010, la Mostra italiana smette ufficialmente il ruolo di Cenerentola dei festival e si assesta autorevolmente sulla cima. Che non occupava da circa 40 anni. Che vuol dire, da sempre, essere in cima? Avere i film migliori. E gli ospiti più prestigiosi (dive, divi e superstar della regia).Venezia, dopo sette lustri di egemonia (la mostra era nata nel lontano 1933) perse il primato appena iniziarono gli annidi piombo e perse ti itto (cioè entrò in coma profondo) dal 1974 al 1979. Poi si risvegliò a nuova vita. Che però non fu più la stessa. Per in tenderci, dal Milan
di Gullitte Van Basten a quello costretto a lottare per il terzo posto. Ma stavolta vince il campionato. Mentre Cannes vivacchia, la mostra 2010, la numero sette dell’era Marco Muller, s’annuncia "straordinarissima" (per usare l’eloquio di qualche famoso presidente milanista). 11 programma fa venire l’acquolina in bocca a tanti probabili festival ieri. Tutto il meglio del cinema americano e italiano. I nostri pro di presenti a Cannes in versione dimessa ("La nostra vita" di Luchetti) oppure sconcia (la Guzzanti) irromperanno a Venezia amò di fiumana. Fu annunciato Nanni Moretti ("Habemus papam"). E annunciatissimo Mario Marione con il suo kolossal sul Risorgimento "Noi credevano". È arcisicuro Pupi Avati con "Una sconfinata giovinezza" e pressoché inevitabile "Vallanzasca" di Michele Placido (con Kim Rossi Stuart). E poi l’ultimo di Castellitto, e "Il gioiellino" di Molaîolo ("la ragazza del lago") sul crack della Parmalat.
E ora sentite cosa arriva dall’America. Nientepopodimeno (come si diceva in Tv mezzo secolo fa) "The tree oflife" del regista-mito Terrence Malick con Sean Penn e Brad Pitt. Un’opera corteggiatissima da Cannes (il mito, all’ultimo, ha voluto optare per il Lido). Poi c’è "The american" di Anton Corbjin con George Clooney alla testa di un cast molto italiano (Violante Placido, Filippo Timi).
E l’inglese Iulian Schnabel (Oscar 2008) che porta "li itirai" che ha ricavato dal romanzo scritto dalla sua signora, che poi sarebbe Bula "bella gnocca senza cervello" Jebreal (mica scemo Schnabel, oltre che bravo regista). Questi i primi film sicuri del cartellone veneziano. Che già da soli garantiscono un’orgia divistica che in queste settimane Cannes non s’è manco sognata.
Quindi Brad Pitt e George Clooney, Sean Penn (sempre che a settembre non sia ricoverato in qualche clinica) e Freida Pinto (la ragazza di "The millionaire" ora protagonista con Sdnlabel), Valeria Solario e Paz Vega, Luca Barbareschi e Claudia Cardinale (nel francese "Le balcon sur le mer’), John Turturro e Fiorello (ma sì, Turturro è impazzito per l’ormai cinquantenne entertainer e l’ha voluto nel suo "Passione", omaggio molto americano alla canzone napoletana).

il Riformista lettere 21.5.10
IL SOGNO DEI NEONATI. Caro direttore, per una volta uno studio sul cervello umano ci ha davvero emozionati. Non è la solita “scoperta” dell’enzima che ci fa commuovere o tra dire o quella di una sostanza che ci fa innamorare. Siamo finalmente nella realtà umana: l’attività cerebrale incosciente dei neonati è instancabile e comincia già dai primi giorni di vita. Ed è forse anche superiore a quella degli adulti, perché semplicemente i neonati hanno la «capacità di immaginare» ancora intatta. Lo studio del l’Università della Florida sul pensiero dei bambini piccolissimi nel sonno, riconferma ove ce ne fosse bisogno, la Teoria della nascita di Massimo Fa gioli. Dall’istante in cui veniamo alla luce, sogniamo. E i nostri sogni sono «pensiero per immagini».
di Flore Murard Yovanovitch e Paolo Izzo

giovedì 20 maggio 2010

l'Unità 20.5.10
Intervista Marco Bellocchio

«In questa povera Italia
la dittatura è ormai interna alla stessa democrazia»
Il regista Dopo la sua «Lezione di cinema» non riesce a non parlare di politica e tagli alla cultura. E racconta anche del suo nuovo film familiare «Sorelle»
di Gabriella Gallozzi

La crisi. «Chiedono ancora sacrifici alle classi più deboli mentre loro si tolgono il 5%: ridicolo, dovrebbero togliersi il 50%»
I progetti. «La cronaca offre infiniti spunti: il caso Englaro, i finti ciechi che chiedono la licenza per il taxi, il museo con una sola visitatrice...»

Guardate la finanziaria: chiedono ancora sacrifici alle classi più deboli mentre loro si tolgono il 5%. È quasi più ridicolo che vergognoso. E tutto questo di fronte agli operai in cassa integrazione. Ma come? Viviamo nella società dell’immagine, no?! Allora dicessero: eccovi il 50% dei nostri stipendi così guadagnerebbero almeno un po’ di dignità...». Neanche da Cannes è facile parlare di cinema per Marco Bellocchio. Le «urgenze italiane» travolgono tutto. Soprattutto qui sulla Croisette dove ancora risuona l’eco delle polemche di Bondi sul caso Draquila. A distanza di un anno da Vincere, Bellocchio fa ritorno al festival per tenere la sua lezione di cinema davanti ad una platea osannante. Forse un «risarcimento», commenta, o meglio «un riconoscimento» per il suo film su Mussolini che, l’anno passato, uscì a bocca asciutta dal concorso. Ma che la sua rivincita l’ha avuta in seguito nelle sale francesi, nelle critiche entusiaste, nelle vendite in tutto il mondo e, l’ultima, nella vittoria a sorpresa dei David di Donatello.
Il tema del suo film, del resto, è ancora così attuale non solo nell’Italia di Berlusconi, ma anche nell’Europa che svolta sempre più verso l’autoritarismo. «Certo dice Bellocchio la situazione di smarrimento di oggi non è paragonabile a quella del ’22, ma è vero che l’attuale maggioranza lavora molto sulla paura, alla quale contrappone l’uomo forte, decisionista, autoritario. Berlusconi con la tv arriva dappertutto. È il grande fratello. A questo punto non c’è bisogno della dittatura militare: è interna alla stessa democrazia». Come spiegare tutto questo all’estero?
«Gli stranieri si stupiscono della situazione italiana continua Bellocchio -. Eppure Silvio Berlusconi non è un usurpatore, ma è stato votato dalla maggioranza del Paese. Bisognerebbe, piuttosto riflettere sull’atteggiamento della sinistra nei suoi confronti, su questo costante attacco frontale... Se l’obiettivo era scavalcare il cavaliere il tentativo è fallito completamente. Se il mio Vincere l’avessi intitolato Perdere sono sicuro che la sinistra sarebbe stata più contenta».
Il problema dell’opposizione, prosegue il regista, «è l’incapacità di articolare delle alternative. Siamo stati delusi dalla destra e pure dalla sinistra. Ma soprattutto da quest’ultima. Da Bondi certe cose me l’aspetto, non mi offende neanche, è semplicemente inadeguato al suo ruolo. La sinistra però... Penso alla riconferma di Alberoni al Centro sperimentale, per esempio. Non ho niente contro di lui, ma certamente non è uomo di cinema.
Eppure è stato Rutelli a rinnovare il suo mandato. Ecco, ho come l’impressione che, al di là della politica, tutto sia deciso tra amici». Si è toccato davvero il fondo rincara Bellocchio. «E seppure non credo che la Lega conquisterà l’Italia, penso che sia vera la frase tanto di moda «il Pd non ha più la capacità di stare sul territorio». Dovrebbe piuttosto sforzarsi di cambiare davvero al suo interno: per gli ex non c’è futuro. Ci vuole una classe dirigente nuova che col Pci non abbia più niente a che vedere».
Invece ci si continua dividere. Mentre gli attacchi, dall’altra parte si fanno sempre più pesanti. «Brunetta insulta dandoci dei ladri, dei parassiti, convincendo le persone che la cultura non serve a nulla. Nei confronti del cinema, poi, ancora peggio: pensano che quello italiano sia comunista e quindi via, lo rigettano completamente», coi drastici tagli al Fus che sappiamo. Da soli, però «non si va da nessuna parte», dice Bellocchio. «Serve unità, per ricompattare tutto il mondo della cultura, senza ricorrere agli slogan di un tempo che non hanno portato a nulla. Per questo ho aderito al movimento dei Centoautori. Non è piu tempo di barricate, ma come dice Carla Fracci solo l’unione fa la forza. Bisogna rafforzare l’unità nel rispetto delle diseguaglianze e trovare un punto comune».
Puntando ciascuno sulla qualità del proprio lavoro. Come Bellocchio ha sempre fatto, del resto. «A me prosegue non mi interessa l’invettiva, la polemica diretta, la derisione ad personam. Si può fare, certamente, contro Berlusconi, Scajola... figurarsi. Quello che cerco io però è l’approfondimento. Per questo sto pensando ad un film a partire dall’Italia di oggi. Il caso Englaro, per esempio, mi ha colpito come sintesi della disperazione e dell’ipocrisia di questa classe politica che pur di non perdere l’appoggio della chiesa è stata disposta a fare leggi incredibili che poi si sono perse chissà dove». La cronaca di spunti ne offre infiniti. «Penso ancora ai finti ciechi che hanno richiesto la licenza per i taxi. Al museo in Sicilia con una sola visitatrice, al concerto interrotto al Pantheon perché i guardiani avevano finito il turno. Sono tutti casi fra il tragico e il grottesco che potrebbero costituire uno spunto. Al momento però, quello che più lo interessa è Sorelle, «un piccolo film familiare in sei episodi», che racconta il ritorno del regista a Bobbio, nella casa dei Pugni in tasca, insieme ai figli Pier Giorgio e la piccola Elena. E che probabilmente vedremo a Venezia.

Repubblica 20.5.10
Marco Bellocchio accusa l´Italia "Mai eravamo scesi così in basso"
Lo sfogo:"I politici pensano che il cinema è comunista"
Bondi si doveva distinguere e venire al festival: non c´è solo "Draquila", ci sono Luchetti, io...
di Maria Pia Fusco

CANNES. Se il ministro Bondi fosse venuto, avrebbe visto la "sala Buñuel" affollata, soprattutto di giovani, intenti ad ascoltare con grande attenzione la lezioni di cinema di Marco Bellocchio. Avrebbe sentito il calore e gli applausi alle immagini di titoli importanti nel storia del nostro cinema, I pugni in tasca, Nel nome del padre, Salto nel vuoto, L´ora di religione, Buongiorno, notte, Vincere. «Non posso offendermi per la sua assenza, ma si poteva distinguere. Qui non c´è solo Draquila, ci sono io, c´è il film di Luchetti e quello di Frammartino, che, da quanto ho letto, è stato accolto molto bene», dice Bellocchio. Il fatto è che «loro pensano ancora che il cinema sia comunista, che la cultura sia comunista».
Doppio appuntamento ieri a Cannes per il regista. Nella sua lezione, condotta da Michel Ciment, si sofferma sulla fellatio di Diavolo in corpo per illustrare «quanto sia delicato il rapporto tra quello che deve accadere e la sua rappresentazione», spiega la necessità narrativa della sequenza tra padre e figlio in L´ora di religione... Poi nell´incontro con la stampa italiana, il cinema e la politica si intrecciano. «Forse perché mai in Italia la classe politica era scesa così in basso», accusa.
L´essere stato invitato e la presenza in giuria di Giovanna Mezzogiorno «potrebbe essere non un risarcimento ma un riconoscimento per Vincere, che l´anno scorso non ebbe premi, poi è stato un grande successo in Francia, ha avuto critiche positive in America, è uscito e sta ancora uscendo in tanti paesi. Proprio dalla stampa straniera è venuto il paragone Mussolini-Berlusconi. In una situazione di smarrimento c´è la necessità di rifarsi a figure forti, l´attuale maggioranza lavora molto sull´ansia e sulla paura e non vuole intralci. "Lasciateci lavorare", come diceva Tambroni negli anni Sessanta. Mi ha stupito questa nuova finanziaria che chiede sacrifici alle classi più indifese. E poi dicono che loro si taglieranno il 5%. Non hanno il senso del ridicolo? Dite il 50%, oppure "ci toglieremo una mensilità", ma fatelo. In questa società delle immagini sarebbe un segno».
Per Bellocchio «non c´è pericolo di una dittatura in Italia, è diversa l´epoca e sono diversi Berlusconi e Mussolini, che seduceva nobildonne e giornaliste, non aveva bisogno di escort. E non c´è bisogno della dittatura, la televisione arriva ovunque, si può esercitare il controllo anche in democrazia», dice e, alla domanda "come liberarsi di Berlusconi?", risponde: «Mi riconosco il diritto di non saperlo. So che l´opposizione, al di là di rivendicazioni generiche, non fornisce un´alternativa reale. Io sono arrabbiato con la destra e con la sinistra, ma più con la sinistra, perché Bondi so chi è. Non credo che la Lega conquisterà l´Italia, ma è vero che il Pd ha perso il contatto con il territorio. Perché non si sforza di ritrovarlo? Forse per gli ex non c´è futuro, bisogna aspettare una classe dirigente nuova di dirigenti che non siano ex del Pci».

Corriere della Sera 20.5.10
Bellocchio: su Berlusconi la sinistra ha sbagliato tutto
di G.Ma.
qui

il Riformista 20.5.10
Perdere titolo giusto…
Lago ai biopic, da Ceausescu a Carlos
Programma. Giornata all’insegna della politica. Il regista fa lezione: «Per gli ex Pci non c’è futuro tranne Vendola»
Panahi conferma lo sciopero
di Giacomo Visco Comandini
qui

Repubblica 20.5.10
La stampa nemica
di Giorgio Bocca

A differenza di altri sultani che nascondono la spada con cui feriscono i nemici, l´estroverso Cavaliere vuole che lo si sappia che è stato lui a usare i suoi soldi e i suoi poteri per sbarazzare il campo dai critici e da quelli di diverso parere. È stata la sua voce isterica e cattiva a lanciare gli anatemi contro giornalisti e opinionisti che osavano contraddirlo.
A chiedere apertis verbis ai dirigenti della Rai di toglierglieli dai piedi, a non sopportare la presenza dei Montanelli, dei Biagi e di chiunque mettesse in discussione il suo sovrano potere sultanesco. Non stupisce quindi che ora voglia addirittura imbavagliare la libertà di stampa tout-court, chiudere la bocca ai giornali e alla verità.
Si è detto spesso che Berlusconi, a differenza di altri padroni, è un buono, uno che corre al capezzale dei dipendenti ammalati, che li manda in crociera per le vacanze e gli telefona: «Siete belli, siete abbronzati, al vostro ritorno troverete una gratifica, la prossima volta ci sarò anch´io, ho già pronto lo smoking». Certo, è un imprenditore non un gangster, uno che usa le parole più che la violenza, ma non è uno che perdona chi si mette sulla sua strada, prima o poi cerca di eliminarlo. Non lo nasconde, vuole che tutti sappiano che l´incauto ha avuto la sua giusta punizione.
Un intercalare solito del Cavaliere è il «se lei mi consente», come a dire: io sono straricco, strapotente ma profondamente democratico fin dalla nascita: chiedo il permesso anche di sbadigliare, anche di respirare, sorrido sempre anche quando metto alla porta un mio dipendente, anche quando licenzio un allenatore del Milan. Il cavaliere di Arcore è buono, generoso, magnanimo ma i direttori di giornali che non gli piacciono escono dalla comune, si chiamino Montanelli o Biagi. Ci pensano i maestri di cerimonia a congedarli. I maestri delle cerimonie, uomini di mondo educati a corte, in questi giorni compaiono sui teleschermi o sui giornali per smentire affabilmente i catastrofisti, i profeti di sventure autoritarie che denunciano l´attacco alla libertà di stampa, come di fatto è il «nuovo ordine» sulle intercettazioni telefoniche.
Ma che dite, di che vi lamentate? Vieteremo solo quelle che fanno danno agli innocenti, che ledono la privacy dei cittadini, che servono solo alle diffamazioni ingiuste, alla maldicenza, al pettegolezzo. Davvero? Le cose stanno diversamente. Senza le intercettazioni telefoniche fatte dalla magistratura e pubblicate dai giornali nessuno avrebbe saputo che un ministro era stato aiutato «a sua insaputa» ad acquistare «un mezzanino» da duecento metri quadrati con vista sul Colosseo da un generoso costruttore edile.
Berlusconi è fisicamente e mentalmente il contrario dei dittatori del secolo scorso. Paragonarlo nei modi di parlare, di fare, di atteggiarsi ai Mussolini, Hitler, Stalin non reggerebbe neppure alla bassezza dell´avanspettacolo. Anche il suo impero televisivo è stato costruito legalmente, con i privilegi e le prepotenze legali in cui i grandi costruttori sono maestri. Ma chi si è opposto a questo sistema, chi si è messo di traverso con le buone o con le cattive è stato cacciato. Si tratta di quella che noi chiamiamo la democrazia autoritaria o la dittatura della maggioranza o l´assolutismo elettorale per cui chi ha più voti, chi ha il maggior consenso popolare può far tutto ciò che gli comoda, anche violare le leggi della Costituzione.
Ma perché questa democrazia autoritaria non è stata denunciata e contrastata in passato, quando i grandi partiti storici, il democristiano e il comunista, si spartivano i poteri uno della politica l´altro del mercato del lavoro? Credo perché quei partiti erano nati dalla guerra di liberazione, erano fondati sui valori della Resistenza, davano garanzie di non arrivare mai alla limitazione se non alla soppressione dei diritti democratici. I dubbi, i timori sul cavaliere di Arcore, su cui i suoi portavoce teatralmente ironizzano, sono autorizzati dal suo sistema di continuo attacco ai baluardi della democrazia, ora alla libertà di stampa come prima alla magistratura e all´opposizione in genere, genericamente definita come comunista, di un comunismo morto e sepolto ma sempre intento a ostacolarlo e danneggiarlo.
Forse, anzi certamente Berlusconi non se ne rende conto, forse come tutti gli «uomini fatali» è convinto di aver sempre ragione, che tutti congiurino ai suoi danni, ma da quando è entrato in politica, da quando ha detto al suo amico Dell´Utri «fare un partito? Lo fanno tutti, lo facciamo anche noi» non ha fatto altro che attaccare, deridere, osteggiare la democrazia, il «teatrino della politica» come la chiama lui. La magistratura, con l´ipocrita distinzione fra quella buona che lo lascia in pace e quella «politicizzata» che lo perseguita, la stampa che concepisce solo, a quanto pare, come mezzo di intimidazione degli avversari.
L´ultimo dei suoi allenatori del Milan è stato licenziato come Santoro: «Consensualmente». Ha detto che c´era «incompatibilità di carattere». Chiamiamola così: fra Berlusconi e la democrazia parlamentare nata dalla guerra di liberazione c´è incompatibilità di carattere.

Corriere della Sera 20.5.10
Pansa e la «querelle»
«De Benedetti? Vuole fare politica»
«Con D’Alema è andato oltre. Agnelli non lo fece mai»
di Aldo Cazzullo
qui

Corriere della Sera 20.5.10
Università primo sì alla riforma
I ricercatori scendono in piazza
di Giulio Benedetti
qui

mercoledì 19 maggio 2010

l’Unità 19.5.10
La Regione Toscana chiederà la verifica di costituzionalità del provvedimento
I Teatri lirici Intanto proseguono gli scioperi delle prime, mentre le sale aprono al pubblico
Fondazioni, il decreto Bondi finisce alla Corte costituzionale
Mentre è ancora forte la eco dell’epico scontro tra Carla Fracci e Gianni Alemanno sindaco di Roma, i grandi teatri lirici italiani continuano la loro opposizione al decreto del ministro dei Beni e delle Attività Culturali Sandro Bondi.
di Luca Dal Frà

I grandi teatri lirici inventano nuove forme di protesta, e le regioni e le città italiane si stringono intorno ai lavoratori della lirica, promettendo anche un ricorso sulla costituzionalità del provvedimento. Da anni non c’era un clima così vivace nella lirica italiana ed è straordinario che sia dovuto a un ministro come Bondi e al suo entourage: naturalmente non era nelle loro intenzioni, anzi è una schifata reazione ai piani di dismissione della lirica e al tentativo di una cricca di mettere le mani sui teatri.
Della situazione è emblematico lo scontro Fracci-Alemanno avvenuto nella platea dell’Opera di Roma durante la manifestazione contro il decreto di lunedì: il sindaco di Roma è appeso ai pantaloni del governo poiché come lui stesso dice il bilancio della capitale è al «dissesto» e attende nuovi fondi dalla arcigna mano tremontiana. Così, con coraggio peloso, alla manifestazione si era schierato non contro il decreto del governo ma per una sua correzione offrendosi come eroico mediatore: contestatissimo dalla sala, l’impavido sindaco s’è beccato pure la scenata di Fracci: «Vergognati, farabutto! Buffone!» – lo ha epitetato l’étoile. Molti, tra cui l’ineffabile sovrintendente dell’Opera di Roma Catello De Martino, ritengono Fracci fosse infuriata poiché non le è stato rinnovato il contratto come direttore del Corpo di Ballo. In realtà nei dieci anni in cui ha ricoperto questo ruolo la signora della danza italiana ha portato i ballerini del lirico capitolino a diventare la compagine di balletto più importante e produttiva della penisola – quest’anno le recite di danza superano quelle della lirica all’Opera di Roma. Forse anche delusa
dalla mancata riconferma, Fracci aveva chiesto due anni fa un incontro ad Alemanno perché preoccupata del futuro della squadra che con fatica aveva cresciuto e amalgamato. Solo oggi Alemanno si dice disposto a incontrarla, ma il punto è che il sindaco se ne infischia del lato artistico della vicenda e ha puntato le sue carte sull’arrivo di Riccardo Muti, atteso non già come il musicista di grandissimo livello quale è in realtà, ma come evento mediatico con cui coprire notevoli magagne. C’è poi il lato comico della vicenda: Alemanno afferma di voler un nuovo ciclo aprendo ai giovani e il teatro assume per il corpo di ballo Micha van Hoecke, anni 66, appena 4 in meno di Fracci.
PRODUZIONE CIRCUITAZIONE
Genova, Bologna, Roma continuano lo sciopero delle prime contro il decreto, ma nel frattempo sono sbocciate nuove iniziative: la Scala e il Maggio e altri teatri aprono le loro prove al pubblico. E bisognava vederli i milanesi interessati, sorpresi e spiazzati sui palchi della Scala a osservare i ballerini che costruivano il loro spettacolo Trittico del Novecento. Perché tolte le generali, le prove non è che siano proprio un divertimento per il pubblico: è difficile capire cosa stia avvenendo. Ma aprendo le porte e coinvolgendo il pubblico si mostra come, a differenza di quanto sostengo Brunetta, Bondi e altri, nei teatri si lavora: un lavoro lungo, fatto di nervi, sfibrante. E il decreto con i suoi tagli indiscriminati e il blocco di turn-over e integrativi colpisce proprio la produttività dei teatri, a favore della logica degli eventi, come ha scelto di fare Alemanno. Per far questo il provvedimento dà un immenso potere a un’equipe di liquidatori: Bondi stesso – poco interessato all’argomento – e il suo entourage ministeriale. Con principesco distacco e lucidità intellettuale Gioacchino Lanza Tomasi ha definito questa nuova generazione di “ministeriales”: «Funzionari manager (...), con ampio potere discrezionale, il cui orgoglio primario non è quello del servitore dello stato ma dell’imprenditore politico» (Sole 24 Ore 16 maggio). Così mentre i nomi degli alti papaveri del Ministero compaiono nell’elenco delle ristrutturazioni gratuite dell’impresa di Anemone, i boiardi di stato si dilettano a produrre eventi, per lo più circuitando spettacoli affidati ad agenzie di parenti, fidanzate e amici: da L’Aquila, città piegata dal terremoto che invece di un progetto di ricostruzione fin’ora ha ricevuto una profluvie di spettacolini, a Pompei e via così.
ANTI E INCOSTITUZIONALE
Per la prima volta nell’universo della lirica fatto di rivalità, teatri e sindacati hanno prodotto un documento unitario: il decreto è inemendabile. L’opposizione e in particolare il Pd si prepara a fare l’ostruzionismo nelle aule parlamentari. Ancora più interessante sono le iniziative che stanno prendendo alcune regioni ed enti locali, in testa la Toscana: la verifica di costituzionalità del decreto. Infatti la legislazione sulle attività culturali dovrebbe essere decisa nel concorso tra regioni e stato, ma il ministro Bondi per il suo decreto non ha consultato nessuno. Se il provvedimento fosse bloccato per incostituzionalità non sarebbe una sorpresa: tra annullamenti di concorsi, appalti e altre vicende penose, da qualche tempo il ministero dei Beni e delle Attività Culturali non sembra imbroccarne una.

l’Unità 19.5.10
Laici furiosi? No, laici
di Bruno Gravagnuolo

È polemica tra Il Mulino e Reset tra «laici furiosi» e «laici accomodanti», a partire dal pamphlet Rizzoli di Giancarlo Bosetti su Il fallimento dei laici furiosi. Da un lato Bosetti, direttore di Reset, ha accusato gli intellettuali ossessionati dalla «minaccia clericale», colpevoli di non comprendere la società «post-secolare» e di restare inchiodati a un conflitto vetero-liberale tra Stato e Chiesa. Dall’altro al Mulino, con Piero Ignazi, Gian Enrico Rusconi e Mauro Barberis, si replica che la laicità è sul serio in pericolo con questo Papato. E che la proliferazione diffusa della «religiosità» non autorizza cedimenti «post-secolari», dinanzi alle invadenze della gerarchia. Replica poi Bosetti: guardate Obama, da laico non teme cedimenti e fa compromessi sull’aborto. Chi ha ragione? Vediamo. Senz’altro il «post-secolare» è un dato: dalle sette evangeliche, ai fondamentalismi, al nuovo ruolo egemonico della Chiesa cattolica. Dopo la crisi delle ideologie. La secolarizzazione ha al suo interno anche il post-secolare: esigenze di senso esistenziale, appartenenza, identità e tutela psicologica di massa. Giusto quindi capire, dialogare e riassumere nel registro civile anche ispirazioni valoriali religiose. Un filtro laico questo teorizzato dall’ultimo Habermas. Che però ha da essere filtro vero, non colabrodo. Sicché il tema di una laicità forte, e in grado di fare da filtro razional-democratico esiste, nella «Comunicazione universale libera da dominio», per dirla sempre con Habermas. Perciò ci sono cose indisponibili e invalicabili, in senso laico. Il pluralismo di tutte le fedi religiose e senza privilegi. La libertà degli stili di vita. Le unioni civili. Il diritto a scegliere la migliore tecnica fecondativa. La facoltatività dell’insegnamento religioso, senza superiorità curricolari del cattolicesimo a scuola. Infine la difesa da ingerenze clericali, come quella che ha colpito la Bonino. Dialogo? Sì, ma con regole e valori laici. Forti. Anche per salvare la pluralità del «religioso». Obama? Fa compromessi, ma la sua è una religione civile. Laicissima.

il Fatto 19.5.10
Le tegole pugliesi e il momentaccio di D’Alema
di Luca Telese

È vero, l’uomo ci ha abituato a repentini cambiamenti di rotta, infiniti colpi di scena, sorprendenti cadute e spettacolari resurrezioni. Ma, di sicuro, quello che Massimo D’Alema sta passando in questi giorni è davvero “un momentaccio”, un’ennesima prova, un passaggio politico cruciale in cui si intravede un bivio: o un cambio di marcia netto, o il lento logoramento che alla fine erode tutte le leadership forti della politica italiana fino a consumarle. Lo scenario è noto: uomini a lui vicini che cadono nelle maglie delle inchieste, contese polemiche senza rete, offensive interne che mettono in discussione la sua egemonia dentro il Partito democratico, sentenze di condanna comminate senza appello da editori di riferimento della sinistra riformista un tempo vicini. L’ultima tegola, però, ha un nome e un cognome: quella di Flavio Fasano, ex sindaco di Gallipoli, ex assessore provinciale ai Lavori pubblici, da sempre considerato uomo-ombra del Líder Maximo nel tacco d’Italia. L’arresto di Fasano. Due giorni fa, alla porta di Fasano bussano i carabinieri. Per lui scatta l'arresto (assieme ad altri quattro), con un repertorio di accuse che vanno dal concorso in “turbata libertà degli incanti e violazione del segreto d'ufficio”, al “falso per induzione in errore determinato dall'altrui inganno”, dalla “corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio” all’“abuso d'ufficio”. Nella giornata di ieri lo stillicidio di intercettazioni che rimbalzavano sui giornali online era impressionante. Fasano si ritrovava impelagato in intercettazioni come questa, sugli appalti della cartellonistica: “Allora – diceva l'ex sindaco – io qua ti sto dando un quadro economico... di rimozione di 7000 cartelli. Il 75% con un introito medio di 200 euro, un introito di 874.000 euro dalla rimozione. Alla Provincia va a trovare il 5%, appena 45.000 euro”. E ancora: “Io ho detto, a Gino (Siciliano) fai il capogruppo!Midaiil3%,chenoisiamo...”.Certo, i frammenti possono essere interpretati; le accuse devono essere provate, il quadro accusatorio è complesso, ma quello che emerge è perlomeno una incredibile disinvoltura, un tono medio che lascia di stucco, una lingua brutale, un fenomeno che attraversa una intera classe dirigente legata all'ex premier e al Pd. Ieri su Il Giornale, Gian Marco Chiocci riassumeva così un vero e proprio bollettino di guerra: “Dopo le dimissioni dell'indagato segretario organizzativo del Pd, Michele Mazzarano, suo fedelissimo nel Salento (in rapporti con l'imprenditore Tarantini, quello della D'Addario a Palazzo Grazioli); dopo il coinvolgimento nelle inchieste baresi del suo amico-factotum Roberto De Angelis (quello degli incontri fra D'Alema e Tarantini); dopo l'iscrizione sul registro degli indagati dell'imprenditore Enrico Intini, suo intimo amico (nel medesimo filone sesso-sanitario); dopo tutte queste faccende disgraziate, insomma, un altro pesce pregiato del branco dalemiano finisce nella rete giudiziaria”. I dalemiani non esistono. Certo, ha buon gioco D’Alema a ricordare che “i dalemiani non esistono”, e che molti hanno usufruito con molta generosità di questa qualifica. Ed è sicuramente brillante la battuta coniata dalla sua portavoce, Daniela Reggiani, per spiegare che le appartenenze dentro il Pd in questi anni si sono confuse e talvolta ribaltate: “Fatemi capire. Quando Fasano votava la mozione Franceschini, all’ultimo congresso, i giornali scrivevano: ‘È uno schiaffo a D’Alema’. Quando Fasano faceva sapere che votava per Nichi Vendola, commentavano: ‘È uno schiaffo a D’Alema’. È possibile che ora che lo arrestano – ironizza con tono amaro la Reggiani – i giornali scrivano: ‘È uno schiaffo a D’Alema?’”. I “pugliologi” ricordano anche che i rapporti fra il lìder maximo e il dirigente pugliese del Pd (dopo i fasti dei tempi in cui D’Alema lo aveva addirittura sposato) si erano già raffreddati nel 2004, quando Fasano sperava in una candidatura che non arrivò. Ma allo stesso tempo colpisce che il minimo comune fra tutte le storie che abbiamo ricordato sia quello della “Questione morale”.
Il duello sulle signorine. Già nel duello televisivo all’arma bianca con Alessandro Sallusti, a ridosso di uno spot, il condirettore de Il giornale tirò fuori l’argomento tabù. D’Alema: “Adesso le manderanno qualche signorina...”. E Sallusti: “Veramente le signorine in Puglia hanno frequentato i dalemiani!”. Per non parlare delle frasi senza appello di De Benedetti. “Stimo moltissimo Bersani: è stato un eccellente ministro e di lui come persona e uomo di governo posso soltanto dir bene. Ma come leader? È totalmente inadeguato. Lui e D'Alema – dice l’ingegnere in un libro intervista che esce questa settimana ma che è stato già anticipato – stanno ammazzando il Pd”. E ieri a Londra in una lezione alla London Schol of Economics è andato anche oltre: “D’Alema? Un problema umano?”. Si, è vero, è un momentaccio: ma a Ballarò D’Alema ha perso le staffe perché non aveva elaborato una riflessione compiuta sulle vicende pugliesi, e – forse – persino sulla storia della sua casa. Se vuole tornare a “volare alto”, dovrà dirci qualcosa di netto e chiaro su quello che succede “in basso”, sull’abisso in cui sono precipitati uomini che lui conosce come le proprie tasche. O che almeno
credeva di conoscere...

Corriere della Sera 19.5.10
De Benedetti e il caso «berluschini»
«D’Alema? È un problema umano
di Paolo Conti

il Riformista 19.5.10
D’Alema, la fede e il no ai matrimoni gay
Laicità inclusiva. L’ex premier sul dialogo tra Chiesa, politica e scienza. Legge sul fine vita? «Non ce n’è bisogno»
di Jacopo Matano
qui
http://www.scribd.com/documents/31608102/il-Riformista-19-5-10-p10

il Fatto 19.5.10
Povera scuola
Il governo studia il blocco degli scatti di anzianità ma i docenti italiani sono già i meno pagati d’Europa
di Caterina Perniconi

Da anni si parla del taglio allo stipendio dei parlamentari, ma per ora di questa riforma non c’è traccia. Chi vede invece di anno in anno svalutarsi lo stipendio sono gli insegnanti, messi nuovamente nel mirino del ministro dell’Economia. Infatti nella manovra di quest’anno è previsto un prelievo dalle tasche degli statali, compresi i lavoratori della scuola, con il congelamento degli scatti d’anzianità.
I soldi raccolti da questo tipo di operazione sono molti solo grazie alla quantità di docenti su cui si abbatte il taglio, più di un milione. Perché gli scatti sono irrisori, vanno dai 30 euro ai 100 euro lordi ognuno, e si verificano mediamente ogni 4 anni. Un’insegnante di scuola media romana, Rossella Ciardullo, ci ha mostrato la sua busta paga, dopo 35 anni di carriera, al massimo degli scatti d’anzianità e “gonfiata” dagli straordinari: 1.924 euro. Un laureato e specializzato SISS, che oggi si appresta a fare il docente, non può sperare nella sua vita di guadagnare più di 1500 euro. A fronte, peraltro, di un maggior carico di lavoro dovuto alla riforma del maestro unico, e al taglio degli insegnanti precari. Ovviamente l’Europa sta a un altro livello: un maestro francese guadagna il 33% di stipendio in più, un professore di scuola media spagnolo circa il 25% in più e i tedeschi dall’80% al 100% in più.
PRIMARIA
“Io guadagno 1.667 euro al mese dopo 33 anni di lavoro –raccontaFranca Campana, insegnante di scuola primaria – andrò in pensione con meno di 1.300 euro e lasciando una scuola in cui manca tutto. Pensate che i genitori si fanno carico anche della carta igienica. E prima della ripresa delle lezioni vengono persino a pitturare le classi”. Gli istituti, che non sono mai stati ricchi, risentono dei tagli della Finanziaria 2008, e da due anni non ricevono più i fondi di gestione ordinaria per coprire le spese didattiche. Sulle famiglie gravano quindi oneri statali e contributi volontari, anche per le attività integrative pomeridiane. Inoltre è stato ridotto del 78% il fondo per le supplenze brevi, ragione per cui ibambini a cui manca un’insegnante vengono spesso divisi in gruppi e accorpati ad altre classi, magari di età e con programmi di studio diversi. Quindi i precari, oltre 140 mila, restano a casa. Secondo i Cobas il prossimo anno scolastico spariranno 26 mila posti di lavoro tra i docenti e circa 15 mila tra gli ATA. Eppure il problema più grande che stanno portando i tagli, facendo insorgere migliaia di genitori in tutt’Italia, è la riduzione del tempo pieno. “Le classi consolidate che non si riformeranno quest’anno sono 800 – spiega Piero Castello dell’esecutivo provinciale di Roma dei Cobas – senza contare le oltre 2000 nuovechenonnasceranno.Il tempo pieno è stato una conquista degli operai e oggi è diventato il modello pedagogico più ricco ed elaborato”. Per non parlare dell’affollamento delle classi con maestro unico e senza compresenza, metodo efficace per recuperare gli alunni in difficoltà, che spesso superano i 25 bambini, anche disabili, contro la legge che ne permetterebbe al massimo 20.
SECONDARIA
Non se la passano meglio i docenti delle scuole secondarie. “Quest’anno i miei ragazzi hanno fatto uno scambio culturale con Copenaghen – racconta Graziella Graziani, professoressa di lettere al liceo scientifico Morgagni di Roma – appena hanno messo piede in quella scuola mi hanno chiesto: ‘Professore’, ma che stiamo alla privata?’. E io ho dovuto spiegargli che era semplicemente una scuola pubblica funzionante, con i computer per chi non ne possiede e attrezzature moderne”. Secondo la Graziani “quelle che arrivano dal ministero sono indicazioni contraddittorie. Ci chiedono didattica più qualificata e tagliano insegnanti, supplenti e ore. E come possiamo fare allora a lavorare sui singoli e finire i programmi?”. Il problema delle scuole superiori è anche quello dei corsi di recupero. I fondi per farli non ci sono più e le famiglie sono costrette a pagare le ripetizioni a casa. SICUREZZA
Le province toscane sono mobilitate per protestare contro i limiti del patto di stabilità a cui sono sottoposte le amministrazioni locali, che impediscono l'impegno delle risorse per l’edilizia scolastica. “Il fatto che tutte le Province si mobilitino all'unisono – ha spiegato Andrea Pieroni, presidente di Upi Toscana – mostra quanto grave sia la situazione e come venga percepita allo stesso modo ovunque. La nostra protesta non ha colore politico e rappresenta solo l’ultimo sforzo di chi ha a cuore le nuove generazioni e la loro sicurezza. Una nazione con le scuole pericolanti è una nazione pericolante”.

il Fatto 19.5.10
La riforma uccide la ricerca. Gelmini: “Gli studenti sono con me”

È più utile per l’Italia comprare aerei da combattimento per 17 miliardi di euro o investire nell’università e nella ricerca?”. La provocazione arriva per bocca del governatore della Regione Puglia, Nichi Vendola, ma rispecchia l’interrogativo che si pongono in molti all’interno degli Atenei: a che punto delle priorità di questo governo arriva la cultura? Evidentemente è molto in basso nella lista. Di anno in anno i finanziamenti calano, non ci sono posti di lavoro, né risorse per fare ricerca, e i cervelli continuano a fuggire all’estero. La nuova riforma dell’Università procede in Parlamento e non è certo ciò che gli atenei si aspettavano. Non scontenta solo studenti e ricercatori (i primi hanno occupato ieri la maggior parte dei rettorati in tutt’Italia, da Milano, a Trieste, da Roma a Palermo, i secondi protestano oggi alle 10 davanti al Senato a Roma dove si discute la nuova legge) ma anche docenti e rettori.
Luigi Frati, rettore della Sapienza tradizionalmente vicino alla maggioranza, ha dichiarato che il ddl Gelmini presenta “illogicità manifeste” che vanno cambiate. “Durante la discussione al Senato – ha detto Frati – sono state corrette alcune questioni. Ad esempio erano sorti dei dubbi sulla composizione del Consiglio di amministrazione che ora, con le modifiche, avrà una minoranza esterna”. Poi il problema dei ricercatori: “Mentre si progetta un nuovo sistema di reclutamento dei ricercatori, con contratti a termine che precedono la possibile assunzione come professori associati – ha spiegato Frati – non si sa se ci saranno le risorse perché poi ci siano effettivamente i posti. E con quali soldi? E che sarà degli altri 20 mila ricercatori che ci sono già nell’università? C’è un problema tecnico evidente”. Ma il ministro è convinto del suo operato: “Il ddl sostiene la Gelmini riforma completamente il sistema universitario italiano; elimina sprechi e privilegi, rivede la governance degli atenei, punta sul merito, apre le porte ai giovani. La stragrande maggioranza degli studenti, come dimostrano le recenti elezioni universitarie, ha voglia di cambiare e non ha nessuna intenzione di seguire chi cerca di strumentalizzarli”. Secondo gli studenti la titolare del dicastero dell’Istruzione “dà i numeri. Citare a suo favore le elezioni studentesche, in cui ha votato una percentuale ridicola degli studenti, significa mentire spudoratamente. E’ un patetico tentativo di nascondere la contrarietà delle università al suo ddl”. La Sapienza di Roma, infatti, ha proclamato ieri, durante l’assemblea di ateneo, “lo stato di agitazione generale dell’intera comunità universitaria per il prossimo anno accademico”.
E le proteste più forti arrivano da Napoli, da Bari e da Palermo. Un Mezzogiorno che ha bisogno di ripartire dalla cultura e dall’innovazione. “Il disegno di legge sulla riforma dell’università è una minaccia per il futuro degli atenei e quindi per lo sviluppo del Paese” spiegano i ricercatori della Seconda università di Napoli, riuniti in un presidio simbolico di protesta. “Ci siamo rallegrati – spiega il rappresentante dei 510 ricercatori della Sun in senato accademico, Vincenzo Paolo Senese – quando è stato annunciato un provvedimento che garantiva il merito. Purtroppo di questo criterio non vi è traccia nel disegno di legge, che invece mira a ridurre il personale, abbassare le retribuzioni, bloccare la possibilità di progressione delle carriere e incentivare quei contratti a tempo determinato che raramente vengono rinnovati”. Ciò a cui vanno incontro infatti i futuri studenti che si affacceranno alla carriera universitaria sono tre anni di contratto a termine come ricercatore, rinnovabili di altri tre, e poi un fantomatico concorso che dovrebbe farli diventare associati. Ma come chiede il rettore Frati, con quali soldi? Nel frattempo i 20 mila ricercatori già presenti negli atenei
vengono schiacciati da questo meccanismo. Eppure la soluzione esiste, non è un’impresa impossibile. “Abbiamo elaborato una proposta a costo zero per far diventare oggi professori i ricercatori che insegnano da anni degli atenei – ha spiegato Marco Merafina, a capo del Coordinamento nazionale dei ricercatori universitari – il problema si può risolvere senza spendere un euro”. Ma per ora nessuno li ascolta.
“Mentre in Parlamento si discute, il malato muore – dichiara Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil – tanti atenei nei prossimi mesi rischiano il collasso finanziario, altri sono dovuti ricorrere all’esercizio provvisorio. Il ddl mina l’autonomia dell’università, la sottopone, nei fatti, al controllo del ministero dell’Economia, nel meccanismo di governance abolisce la partecipazione democratica, compromette il diritto allo studio istituendo un fondo per il merito privo di risorse. Insomma tutto viene fatto per piegare l’università a una logica aziendalistica con l’unico vero obiettivo di recuperare risorse”. (c. pe.)

Corriere della Sera 19.5.10
Intercettazioni, spunta la norma pro Vaticano
La cheisa va avvisata se il pm ascolta un religioso
di Dino Martirano

Corriere della Sera 19.5.10
Pannella e gli amori
«Ne ho avuti 400»

Corriere della Sera 19.5.10
Juliette Binoche in lacrime per il dramma di Panahi
Kiarostami, mobilitazione generale sull’Iran
di Giovanna Grassi

il Riformista 19.5.10
La vittoria di Bonanni nel Congresso della Cgil
di Giorgio Cremaschi
qui
http://www.scribd.com/documents/31608108/il-Riformista-19-5-10-p6

martedì 18 maggio 2010

l’Unità 18.5.10
Il regno dei barbari
L’era moderna in Italia è finita, dice Scalfari Ma la vera domanda è un altra: sono gli invasori incolti ad aver vinto o è la sinistra ad aver perso?
di
Nicola Tranfaglia

Eugenio Scalfari, ospite in una trasmissione televisiva per il suo ultimo libro, ha detto che in Italia l’era moderna è finita e che siamo in un’età contemporanea abitata e dominata dai barbari. Constatazione condivisibile ma fino a un certo punto. Chi ha vissuto con strumenti storici la crisi del vecchio sistema politico del ’92-94 e l’ascesa di Berlusconi non può dimenticare che sono stati proprio molti “moderni”, di cui parla Scalfari, a favorire l’arrivo dei barbari con i loro gravi errori a sinistra come, altrettanto, a destra. E ancora, mentre i barbari ormai impazzano, assistiamo ai soliti scontri tra moderni che assomigliano ai barbari e ripetono all’infinito le vecchie lotte di potere, sempre le stesse.
Affronta la contraddizione di questo periodo con armi più leggere, ma per certi versi più efficaci, un giornalista colto come Piero Dorfles, immaginando di essere un dinosauro di fronte ai barbari di oggi e scrivendo un saggio assai godibile che si intitola Il ritorno del dinosauro. Una difesa della cultura (Garzanti, pp.205, 18 euro) e che mette in luce l’atteggiamento molto negativo delle classi dirigenti, soprattutto di governo, sull’istruzione, sull’università e sulla ricerca, quindi sulla cultura degli italiani.
Da questo punto di vista, vale la pena parlare di un documento straordinario come il Carteggio Pannunzio-Salvemini 1949-1957 (pp 190) edito dall’Archivio Storico della Camera dei Deputati, che rievoca l’incontro felice che si realizza in un periodo difficile, come quello del dopoguerra caratterizzato da un’aspra guerra fredda in cui è immersa l’Italia, tra lo storico pugliese Salvemini, appena tornato dal lungo esilio americano per sfuggire al fascismo, e il giornalista italiano Mario Pannunzio che aveva ripudiato il passato fascista e credeva a una repubblica democratica come quella costruita dall’Italia con la Costituzione del 1948.
Le diffidenze iniziali, che pure c’erano state nel primo incontro, erano state fugate dalla comune volontà delle due personalità che avevano una fede comune nella democrazia occidentale dopo lo scoppio della guerra fredda e Salvemini decide di collaborare al Mondo, il nuovo settimanale fondato da Pannunzio che rappresenta, come osserva a ragione Massimo Teodori nel suo saggio introduttivo, «la reazione alla crisi della forze di democrazia laica emarginate nel 1948» dal governo De Gasperi che si preparava a sostenere, con la cosiddetta “legge truffa” una battaglia mortale il 18 aprile 1948 con i partiti socialista e comunista costretti dalla guerra fredda a passare all’opposizione anche per la loro vicinanza all’Unione Sovietica.
In quello scontro la Democrazia Cristiana non vinse, perché la legge truffa non scattò, ma riuscì a tenere all’opposizione i partiti della sinistra e si aprì un scontro a lungo termine tra le esigenze costituzionali dell’opposizione e le ragioni della democrazia repubblicana.
Il settimanale di Pannunzio, a sua volta, tenne diritta la barra tra la battaglia per i diritti civili e una democrazia avanzata, continuando peraltro a difendere le ragioni dell’alleanza occidentale contro il blocco orientale e filosovietico.
Il carteggio è ricco di notizie sulle grandi campagne giornalistiche condotte dal settimanale per un’Italia consapevole della sua migliore tradizione democratica e furono alla base di quei convegni del Mondo sulla libera concorrenza, sui monopoli, sullo Stato imprenditore, sulla corruzione, sulle interferenze del Vaticano, che avrebbero preparato, assai meglio di altri dibattiti, la nascita del centro-sinistra e di quella che negli anni sessanta sarebbe stata, pur con le sue inevitabili contraddizioni, la stagione delle riforme possibili nella difficile situazione internazionale.
Furono l’espressione di una mentalità illuministica (su cui sono preziose le Lezioni illuministiche di Enzo Ferrone edite da Laterza (200 pagine, 22 euro) che oggi manca nelle classi dirigenti e che è all’origine, non soltanto del fanatismo e degli scontri feroci all’interno della classe politica, ma anche di un tatticismo esasperato che ha sostituito, grazie al tramonto delle grandi ideologie palingenetiche, il modo di agire dei governi e dei partiti.
Capita spesso anche a chi scrive di aver nostalgia di quella grande stagione di tre secoli fa in cui un gruppo di illuministi in Francia, ma anche in Italia, superò l’epoca feudale e l’ancien regime e aprì la strada alla modernità e alla democrazia. Ma possiamo sperare, oggi, in un ritorno dell’illuminismo?

l’Unità 18.5.10
D’Alema liquida il governo d’emergenza: discussione prematura
Prosegue la polemica con De Benedetti per il libro-intervista «Anche a sinistra disprezzo per la politica, sono dei berluschini»
di Simone Collini

In questa decina di giorni in cui Massimo D’Alema ha girato il Brasile per convegni e conferenze, sono successe le seguenti cose: Dario Franceschini, che l’ha più volte attaccato per la mano tesa all’Udc e per il considerare Fini un «interlocutore», ha aperto al governo d’emergenza (e ieri ha anche avuto col presidente della Camera un lungo colloquio a quattr’occhi); Walter Veltroni, che da segretario Pd non ha mai visto di buon occhio Italianieuropei e Red, ha varato la Fondazione Democratica rispondendo con un evasivo «vedremo cosa succede tra tre anni» a chi gli domandava se intenda candidarsi per la premiership; l’editore del gruppo l’Espresso Carlo De Benedetti ha accusato in un libro il presidente del Copasir, insieme a Bersani, di star «ammazzando» il Pd, nonché di essere peggiore di Berlusconi perché «almeno Silvio ha fatto qualcosa, D’Alema e quelli come lui non hanno fatto niente».
Il presidente di Italianieuropei rientra a Roma e prima ancora di riprendersi dal cambio di fuso orario partecipa alla presentazione dell’ultimo libro del professor Michele Prospero («Il comico della politica», casa editrice Ediesse) e in una mezz’ora di intervento a ognuno dà il suo. Il governo d’emergenza «senza e oltre Berlusconi»? «Al governo c’è Berlusconi e non mi pare intenzionato a sgombrare il campo», dice D’Alema definendo quella che si è aperta «una discussione abbastanza prematura», anzi, di più, «dibattiti che apriamo tra di noi allo scopo di creare problemi tra di noi, scopo sempre perseguito con successo pieno». Perché se pure il periodo di solidarietà nazionale diede frutti mai visti nella Seconda Repubblica e se pure con i governi tecnici dei primi anni ‘90 «il paese è stato governato» meglio che negli ultimi 16 anni, oggi non c’è nulla di simile in campo: «La situazione del Paese è grave, c’è una crisi morale della classe dirigente, e un grande partito di opposizione deve prendersi le proprie responsabilità, ma non almanaccando soluzioni che non esistono. Ora questi dibattiti non servono a niente».
E allora cosa può fare il centrosinistra per battere il centrodestra? D’Alema parte da quello che non deve fare, ovvero «accettare l’ideologia dell’avversario», fare come chi ha «teorizzato il nuovismo andando incontro ad esiti catastrofici», puntare alla «investitura diretta del capo da parte del popolo cancellando tutte le mediazioni», pensare che basti trovare un leader «come Berlusconi, solo più giovane e con un più bel sorriso». L’attacco più evidente, anche se non ne cita il nome, è a De Benedetti: «In nessun paese del mondo si oserebbe dire di un uomo politico che non ha combinato niente perché ha fatto solo politica. In Francia nessuno lo direbbe di Sarkozy». E allora non solo Berlusconi ha operato in «un campo abbondantemente destrutturato», «arato» da una «borghesia intellettuale» sedicente di sinistra che ha profuso un pari «disprezzo per la politica e un’esaltazione acritica della società civile»: «Ci sono anche nel nostro campo imprenditori che vogliono condizionare la politica, dei Berlusconi di serie B, dei berluschini, visti i risultati». Negativi, nel senso. E non potrebbe essere altrimenti: «Per battere Berlusconi serve una battaglia culturale che muova dalla rivalutazione della politica. Il nuovismo, il populismo, la cultura padronale, se accetti l’ideologia dell’avversario hai perso prima di cominciare».

Repubblica 18.5.10
D´Alema
"In Italia ci sono Berluschini di sinistra"

ROMA - Massimo D´Alema risponde a Carlo De Benedetti. L´Ingegnere aveva parlato dell´ex premier in un libro intervista accusandolo di molti errori, di aver fatto solo politica nella sua vita e di «ammazzare il Pd» con la sua strategia. D´Alema non cita mai espressamente l´editore di Repubblica, ma a lui si riferisce quando parla di un populismo diffuso anche a sinistra: «In nessun paese si potrebbe dire che un politico non ha combinato nulla perché ha fatto solo politica. Nessuno lo direbbe a Sarkozy. Nel nostro campo - aggiunge - tanti imprenditori vogliono fare i Berlusconi di sinistra. Ma sono dei Berlusconi di serie B, dei berluschini. Lui almeno fa le cose in grande».

l’Unità 18.5.10
I migranti che lavorano nel paese respingente
Uno scambio ineguale

L 'Italia sta mutando: e ciò accade nonostante tutti gli ostacoli, palesi eocculti, posti in essere dall'attuale legislazione che rende difficilel'integrazione dei migranti nella società italiana.Secondo l'Istat, tra il 2006 e il 2009 la percentuale di lavoratoristranieri è aumentata del 165% (da 85mila a 225mila nuove unità l'anno) etra il primo e il 4 ̊ trimestre 2009, la percentuale è aumentata del 13%. Aun simile incremento contribuisce anche il fatto che gli stranieri sonodisposti ad accettare qualunque compromesso pur di non perdere il posto dilavoro e con esso il permesso di soggiorno.Ma non è tutto. Secondo i dati di Unioncamere, nel 2009 sono nate 14mila nuove partite Iva con titolare straniero e sono stati 600 mila gli stranieri che hanno ricoperto una carica aziendale (titolare, socio,amministratore).Al 31 dicembre 2009 risultavano iscritte 324.749 partite Iva straniere,con un aumento del 4,5% in più rispetto all'anno precedente e su centoimprese individuali, nel 2009, 77 risultano guidate da extracomunitari. Un ulteriore dato significativo è rappresentato dalla presenza femminile tra le partite Iva straniere, una su cinque è infatti intestata ad una donna. Sono tutti dati che meritano di essere meditati con attenzione. Secondo le stime disponibili (dati del 2007), gli stranieri contribuisconoal PIL nazionale con un contributo pari al 9.1%, garantiscono un gettito fiscale non indifferente e contribuiscono in modo significativo anche alle casse previdenziali dell'INPS, alle quali versano un contributo pari al 4% a fronte di un'erogazione di prestazioni pensionistiche a proprio favore pari all'1%. Quel che si dice uno scambio
ineguale.

il Fatto 18.5.10
In piazza dal papa ma guai a parlare di problemi (veri)
In 150 mila ad abbracciare una Chiesa in crisi di credibilità per gli scandali I numerosi casi di pedofilia e gli scarsi interventi del Vaticano stanno allontanando i fedeli
di Marco Politi

Centocinquantamila in piazza San Pietro per gridare Viva Benedetto XVI! Un Papal-Day al posto di una giornata di iniziativa per le vittime. Ma due terzi degli italiani accusano la Chiesa di insabbiamenti e le vittime si organizzano. Come in America, Irlanda e tante altre parti del mondo sta per nascere anche in Italia un coordinamento tra gli abusati. A Verona, il 25 settembre, si terrà la prima riunione nazionale delle vittime per sensibilizzare l’opinione pubblica e gettare le basi di una rete di collegamento. Il recapito è lacolpa@libero.it e il referente Fiorenzo Bugatti racconta che in pochi giorni “già hanno trovato il coraggio di parlare una dozzina di vittime, che avevano sempre taciuto”.
Promossa dai vertici della Cei, la manifestazione di “affetto e sostegno” a Benedetto XVI ha realizzato un paradossale slittamento. Invece di focalizzare l’attenzione sulle vittime si è scelta la rappresentazione vittimistica di un Papa e di una Chiesa “sotto attacco”. E tra striscioni, palloncini, pullman riempiti di aderenti a Comunione e liberazione, Coldiretti e tante altre sigle, si è rimosso l’imperativo scandito dallo stesso Benedetto XVI: il pentimento non basta, “è necessaria la giustizia”. Ma per fare giustizia bisogna prendere iniziative concrete come è stato fatto altrove. Negli Stati Uniti l’episcopato ha proclamato la tolleranza zero. In Irlanda si sono dimessi vescovi omertosi. In Germania i presuli hanno elaborato “linee guida”. In Austria il cardinale Schönborn ha celebrato nel duomo di Vienna una messa di riparazione per le vittime e ha istituito una commissione di inchiesta, guidata da una personalità indipendente. In Italia la Cei ha promesso “collaborazione” alla magistratura, ma sinora – si attende l’assemblea plenaria del 24 maggio – non ha annunciato pubblicamente misure speciali né ha esortato le diocesi a cercare negli archivi per rintracciare denunce inascoltate. Mentre in altre nazioni sono in azione referenti nazionali e locali, numeri verdi e indirizzi mail per segnaare abusi, l’Italia ecclesiastica sembra dormire il sonno di Biancaneve. Peraltro né l’Osservatore né l’Avvenire hanno mai pubblicato il racconto di una vittima. Eppure dai microfoni di Radio Vaticana il prete anti-pedofilia don Fortunato Di Noto ha informato che dal 2000 al 2010 sono già emersi 80 casi di pedofilia del clero. Altre stime indicano il doppio. Ma ciò che vittime ed esperti sanno perfettamente è che per ogni prete colpevole c’è ben più di un minore abusato. Non a caso il procuratore generale del Sant’Uffizio mons. Scicluna ha mandato dalle colonne di Avvenire un larvato avvertimento ai vescovi d’Italia: “Mi preoccupa una certa cultura del silenzio, che vedo ancora troppo diffusa nella Penisola”. Gli italiani condividono questa diffidenza nei confronti dell’inerzia delle gerarchie. Il 62 per cento della popolazione (sondaggio Demos&Pi-La Repubblica) è convinto che la Chiesa ha “cercato di minimizzare o nascondere i casi di pedofilia”.
D’altronde da anni, su molte questioni, tra ripetute interferenze sul piano legislativo – dai veti sulla regolamentazione delle coppie di fatto all’opposizione al testamento biologico – la gerarchia ecclesiastica si è allontanata dal senso comune degli italiani. Di conseguenza la fiducia nella Chiesa, assestata ancora all’inizio del 2000 su soglie superiori al 60 per cento, crolla ora al 47 per cento.
Lo stesso sondaggio testimonia che, parallelamente, la fiducia nell’azione di Benedetto XVI è calata a minimi storici: 46,6 per cento. C’era stata un’avvisaglia negli anni scorsi. Rispetto al primo biennio di pontificato l’affluenza alle udienze e agli eventi pubblici di papa Ratzinger a Roma era diminuita di un milione di persone. Il sondaggio odierno sancisce un giudizio di delusione per il pontificato e rivela che dal 2007 papa Ratzinger riesce a convincere la metà scarsa dei cattolici (un 53 per cento fino al 2009). Ancora più catastrofica è la disaffezione della gioventù. Nel 2004 il 66 per cento dei giovani (indagine Iard) si proclamava cattolico, adesso solo il 52.
Il paradosso è che – a differenza di altre crisi da lui personalmente provocate nell’ultimo quinquennio – nello scandalo della pedofilia Benedetto XVI ha tracciato una via di assoluto rigore, riconoscendo la centralità dell’attenzione alle vittime, intimando la denuncia dei colpevoli ai tribunali di Stato, affermando che le “peggiori persecuzioni” vengono dall’interno della Chiesa, chiedendo di combattere il peccato nelle file della comunità cristiana.
Invece, trasformata in “giornata dell’orgoglio cattolico” la manifestazione di domenica, con largo concorso di esponenti del centrodestra fra cui Letta, Schifani, Alfano (perché si tratta di farsi perdonare con il bacio dell’anello le vicende imbarazzanti di escort presidenziali e ruberie milionarie della “cricca”, cresciuta all’ombra del governo berlusconiano), ha riservato poca attenzione alla preghiera dei fedeli, guidata dal cardinale Bagnasco: “Ascolta, Signore, il grido di coloro che sono nel dolore. Perché trovino giustizia e conforto”. Il timbro dell’evento è risultato auto-celebrativo. Sintomatico uno degli animatori dell’evento, il leader di “Rinnovamento nello Spirito” Martinez: “La fede conosce anche le cadute del peccato, ma la Chiesa è viva, la Chiesa sta in piedi”. Formalmente l’adunata è stata organizzata dalla Consulta nazionale, dalle aggregazioni laicali cui aderiscono associazioni e movimenti dall’Azione cattolica a Sant’Egidio, dalle Acli ai Focolarini a Cl. Ma fa riflettere un fenomeno. La gerarchia chiama sempre le organizzazioni cattoliche a mobilitarsi, a votare (o astenersi) ai referendum su temi etici, a manifestare contro leggi dello Stato (vedi il famoso Family Day, fatto per sabotare i Dico di Prodi). Mai che in questi anni la Consulta si sia riunita per far sentire ai vertici ecclesiastici che cosa i fedeli cattolici pensano realmente di coppie di fatto, unioni gay, testamento biologico, fecondazione e malattie ereditarie.

Repubblica 18.5.10
La corruzione dimenticata
di Guido Crainz

C´è qualcosa che colpisce più ancora della ampiezza dei fenomeni di corruzione venuti alla luce o della pervasività del «sistema», per dirla con l´onorevole Denis Verdini. Colpisce soprattutto che il «sistema» abbia potuto rimodellarsi negli ultimi quindici anni in un silenzio quasi assoluto.
Per molto tempo la politica e la società italiana avevano rappresentato – in primo luogo a se stesse – i guasti degli anni ottanta e novanta come un´anomalia sostanzialmente conclusa. E, progressivamente, come una vicenda ampiamente esagerata dalla faziosità dei giudici e da una cultura moralistica arcaica. In questo modo alla fine del 2008, di fronte al moltiplicarsi di nuove indagini che coinvolgevano anche il centrosinistra, sembrarono prevalere le reazioni che un titolo sintetizzò: Mani Pulite 2? No, grazie. Soprattutto, continuò una forte sottovalutazione della corruzione presente nel paese. Eppure in quello stesso periodo la Corte dei Conti valutava che la sua entità sfiorasse i 60 miliardi di euro, cifra molto più alta rispetto agli anni di Tangentopoli. Nel 2009, poi, le denunce per corruzione aumentarono del 230% e quelle per concussione del 150%: sono ancora dati della Corte dei Conti, resi pubblici il 17 febbraio di quest´anno. Cioè a 18 anni esatti dall´arresto di Mario Chiesa e dall´avvio di Tangentopoli, e mentre già le cronache e le intercettazioni stavano disegnando un panorama inquietante. Caratterizzato però da tratti nuovi rispetto al passato, anche se ad esso ci ha riportati la mazzetta di un politico milanese nascosta in un pacchetto di sigarette.
C´è dunque da interrogarsi meglio sulla coltre di silenzio che ha velato per anni il rimodellarsi del fenomeno, e anche sulle caratteristiche dei processi in corso. Già nel dicembre del 2008 Roberto Saviano rifletteva su La corruzione inconsapevole che affonda il paese e ne coglieva un tratto di fondo: nessuna delle persone indagate «aveva la percezione dell´errore, tantomeno del crimine (…). Cosa potrà mai cambiare in una prassi quando nessuno ci scorge più nulla di sbagliato o di anomalo»? Ne coglieva al tempo stesso il terreno di coltura: la corruzione si estende «quando la politica si accontenta di razzolare nell´esistente e rinuncia a farsi progetto e guida». In altri termini, come annotava poco dopo Piero Ottone ancora su questo giornale, quando viene a mancare la «religione civile»: che può nutrirsi di ideali di progresso o di conservazione ma è, appunto, concezione alta della politica.
Sono passati poi altri mesi e sono venuti alla luce contorni ancor più laceranti di un fenomeno che si è rimodellato sostanzialmente attorno a due cardini: da un lato la sostituzione del «rubare (soprattutto) per il partito» degli anni di Tangentopoli con il «rubare per sé»; dall´altro una eversione delle regole che non si è radicata solo in pratiche anomale o marginali ma all´interno di quella «pratica dell´emergenza» e di quella «politica del fare» che sono state erette a bussola e a bandiera.
Sul primo versante i dibattiti degli anni novanta sono ormai un ricordo sbiadito. Certo, continua ad apparirci indecente il tentativo di assolvere chi almeno «rubava per il partito» (ignorando che in questo modo la corruzione metteva a rischio lo stato di salute della democrazia) ma lo squallore che le intercettazioni portano oggi a galla non ha forse paragoni con il passato. Esse rivelano in realtà un rovesciamento più generale: il «rubare per sé» è così diffuso perché il «primato del sé» ha sostituito «il primato del partito» in una cultura che si è diffusa ben oltre la vita pubblica. Il degrado attuale della politica ci appare dunque non solo causa – come avvenne negli anni ottanta – ma in qualche modo anche conseguenza del trionfo dell´antipolitica. Una antipolitica che è andata al potere.
A questo stesso nodo rimanda un altro corposo «slittamento» rispetto agli anni di Tangentopoli. Allora ci si illuse – ci si volle illudere – che i guasti fossero annidati solo in un degenere ceto politico e che una virtuosa società civile ne fosse del tutto immune. In taluni interventi di oggi, all´opposto, sembra trasparire la tentazione di considerare il Palazzo come corrispettivo quasi inevitabile di una società civile irrimediabilmente perversa. Obbligato in qualche modo ad assecondare il flusso per non perdere consensi. Appaiono così fastidiose «anime belle» coloro che segnalano le responsabilità specifiche della politica: l´abdicazione a una selezione reale della classe dirigente, l´assenza di adeguate misure correttive, la delegittimazione della magistratura, le scelte relative a esenzioni, prescrizioni e condoni, le leggi ad personam, e così via.
Il secondo aspetto centrale dello scenario che si è delineato sta poi nel suo rapporto con alcuni cardini dell´azione del governo. Com´è noto, nulla di ciò che è stato pubblicato sarebbe venuto alla luce se fossero stati già approvati i vincoli alle intercettazioni voluti dalla maggioranza. E solo lo scandalo ha affossato una legge che avrebbe regalato alla Protezione civile una specialissima immunità. Era il corollario minore ma simbolico di un progetto di presidenzialismo che si accompagna all´indebolimento drastico dei controlli, delle regole e delle garanzie: questa è la reale posta in gioco, e i tempi della partita si stanno accorciando.
Negli anni di Tangentopoli un intellettuale e poeta civilmente impegnato come Giovanni Raboni scriveva: c´è qualcosa che mi impedisce di esultare per la giustizia finalmente all´opera, ed è «un pensiero sordo e odioso come certi dolori: e noi, nel frattempo, dove eravamo?». Forse il centrosinistra nel suo insieme dovrebbe porsi oggi la stessa domanda.

Repubblica 18.5.10
La giustizia
Così Amartya sen ci insegna a pensare una società più equa
di Bernardo Valli

È fondamentale considerare le possibilità effettive degli individui
La ricchezza non dice nulla sul benessere di un paese

Amartya Sen si è seccato, anzi infuriato, quando un cronista del Guardian, pensando di fargli un complimento, lo ha definito "Madre Teresa dell´economia". Il paragone non calza, ha protestato con ragione. Anzitutto perché lui lo giudica, con spirito cavalleresco, irrispettoso nei confronti di Madre Teresa di Calcutta; e poi perché le attività di un economista, per quanto impegnative, non hanno nulla in comune con quelle di una religiosa che si sacrificava per il mondo dei poveri. Inoltre lui, ha aggiunto, ama i buoni vini e la buona tavola, insomma desidera campare nel migliore dei modi. Non nella sofferenza.
È vero, il cronista inglese ha scritto uno sproposito. Ma è altrettanto vero che dalle opere del professor Sen, senz´altro uno dei pensatori del nostro tempo, affiora, a volte esplode, un´umanità insolita, un´attenzione piuttosto rara per le calamità che affliggono gli abitanti della Terra, dalle carestie alla povertà, ed anche per il raggiungimento del benessere, non dall´esclusivo punto di vista economico. Di solito la gente della sua casta si esprime, nel migliore dei casi, con arida erudizione. Ma Amartya Sen non vuole che nei suoi scritti si prenda per caritatevole quel che è razionale. Una razionalità espressa con eleganza e, a tratti, non senza ironia. Il professor Sen è un umanista, qualifica che non si addice a tutti i cultori di scienze economiche. Sono ormai anni che le sue idee di economista-filosofo riscaldano i numeri della glaciale aritmetica attraverso i quali interpretiamo il mondo in cui viviamo.
Quando infuriava la tesi dello scontro di civiltà, tutt´altro che defunta, Sen disse che l´idea secondo la quale le persone possono essere classificate soltanto sulla base della religione o della cultura è una pericolosa fonte di conflitto potenziale. La convinzione implicita di una classificazione unica può incendiare il mondo intero. Questo, secondo Sen, non contrasta soltanto con il fatto che noi esseri umani siamo tutti più o meno uguali, ma anche con l´idea, molto più fondata, che siamo diversamente differenti. Se si considera l´umanità soltanto un insieme di religioni, o di civiltà o di culture, si ignorano le altre identità, legate alla classe sociale, al genere, alla professione, alla lingua, alla scienza, alla morale, alla politica, alle abitudini alimentari, agli interessi sportivi, ai gusti musicali, e ad altre cose ancora.
È stata un´impresa audace, per un economista, ridisegnare la figura dell´homo economicus, vale a dire il concetto utilizzato nella scuola neoclassica della teoria economica per modellare il comportamento umano. Insieme al pakistano Mahbub ul Haq, Amartya Sen ha creato per le Nazioni Unite un nuovo indicatore di sviluppo umano (Idh), basato sul principio che la ricchezza misurata soltanto sul prodotto interno lordo non rappresenta un punto di riferimento soddisfacente. È molto limitato. È un disastro. Gli indici della produzione o del commercio non dicono granché sulla libertà e sul benessere, che dipendono dall´organizzazione della società. Né l´economia di mercato né il funzionamento di una società sono processi che si regolano da soli. Hanno bisogno dell´intervento razionale dell´essere umano. La democrazia è fatta per questo: per discutere del mondo che vogliamo. Nel loro Idh, Amartya Sen e Mahbub ul Haq tengono conto di tanti dati, oltre a quelli economici: ad esempio della speranza di vita alla nascita, del tasso di alfabetismo degli adulti, dell´accesso all´educazione e all´assistenza sanitaria. E tra i criteri di misurazione è compresa la situazione della donna, la cui emancipazione è un elemento centrale per lo sviluppo di una società.
Nell´ultima opera (L´Idea di Giustizia, in uscita da Mondadori) si ritrova raccolto il pensiero disperso nei tanti altri scritti di Amartya Sen. Non a caso è dedicata a John Rawls, l´amico americano morto nel novembre 2002. John Rawls ha raggiunto una fama mondiale quando sull´onda delle agitazioni sociali degli anni Sessanta tentò una sintesi tra libertà e uguaglianza, esprimendo il concetto secondo il quale la democrazia liberale può essere giusta, può raggiungere la giustizia sociale. «La giustizia – diceva Rawls – è la prima virtù delle istituzioni sociali come la verità è quella dei sistemi del pensiero».
Amartya Sen rende omaggio a Rawls, riconosce, sottolinea che il suo pensiero è stato tra i più influenti del Ventesimo secolo, ma lo critica, contestando in larga parte Teoria della Giustizia, il libro di Rawls, apparso nel 1971. Il quale ha influenzato, forse più di qualsiasi altro testo del nostro tempo, la filosofia politica, l´etica, il diritto e le scienze sociali. Il pensiero dominante oggi, influenzato da Rawls, identifica dei dispositivi istituzionali giusti e ritenuti tali per qualsiasi società. Sen non è d´accordo. Invece di precisare quel che è giusto di per sé, cerca dei criteri che consentano di affermare se un´opzione è meno ingiusta di un´altra, stabilisce paragoni tra società, e cerca di determinare se una riforma sociale particolare crea giustizia o ingiustizia, nel contesto in cui viene applicata.
Insomma, per Amartya Sen, invece di concentrarsi sulla natura delle istituzioni, l´analisi della giustizia deve tener conto delle condizioni di vita delle persone.
La condizione di un individuo, in termini di opportunità, è giudicata inferiore a quella di un altro se egli ha meno possibilità reali ("capability" parola chiave nel pensiero di Sen) di realizzare quello cui attribuisce valore, e meno libertà di usare i propri beni per scegliere un modo di vita.
Immaginiamo tre bambini e un flauto. Anna sostiene che il flauto le deve essere dato essendo lei la sola in grado di suonarlo. Bob basa la sua richiesta sul fatto che è povero e non ha altri giocattoli. Carla sul fatto che ha speso mesi per fabbricarlo. Come far giustizia di fronte a queste tre rivendicazioni? I partigiani delle teorie oggi dominanti (utilitarismo, egualitarismo, scuola libertaria) peroreranno ognuno per una soluzione diversa, riferendosi al valore che danno alla ricerca del libero, naturale sviluppo umano, all´eliminazione della povertà o al diritto di usufruire del prodotto del proprio lavoro. Ma Amartya Sen fa notare che non c´è istituzione, né procedura capace di aiutarci a risolvere la controversia in un modo universalmente accettato come giusto. Per questo Sen si discosta dalle teorie sulla giustizia che tendono a definire le regole e i principi di istituzioni giuste in un mondo ideale.
(Egli gira, consapevole, le spalle alla tradizione di Hobbes, Rousseau, Locke e Kant, ripresa dall´amico John Rawls. E si iscrive, come precisa, in un´altra tradizione: quella di Adam Smith, Condorcet, Jeremy Bentham, Mary Wollstonecraft, Marx, o John Stuart Mill).
Il Premio Nobel fu attribuito ad Amartya Sen (nel 1998) per avere introdotto la dimensione etica nella ricerca economica. La motivazione spinge a dare uno sguardo all´esistenza del settantasettenne indiano nato nel Bengala, a Santiniketan, nel campus universitario creato da Rabindranath Tagore. Là suo nonno insegnava il sanscrito e la civiltà indiana, e da quel campus Amartya Sen, figlio di un professore di chimica, è partito per un interminabile periplo che lo ha condotto, prima come studente e poi come professore, a Calcutta, al Trinity College di Cambridge, all´università di Delhi, alla London School of Economics, a Oxford, a Harvard, al Mit, a Stanford, a Berkeley.
Ma non è soltanto durante queste tappe prestigiose che è nata la sua idea di giustizia. Quando aveva dieci anni, nel 1943, il Bengala in cui viveva subì una carestia che fece più di un milione di vittime. E poi ha assistito alle violenze della partition tra l´India e il Pakistan. Ogni sei mesi il professor Sen abbandona i campus universitari occidentali, perché sente il bisogno di ritornare in India, terra che ha ispirato tante sue opere. Ed egli ha un legame particolare con l´Italia. Sua moglie, l´economista Eva Colorni, morta nel 1985, era figlia di Eugenio Colorni, il filosofo antifascista ucciso durante la resistenza, ed era cresciuta nella famiglia di Altiero Spinelli.


Repubblica 18.5.10
Carla Fracci contro Alemanno "Vergogna, mi ha snobbato"
L´assemblea all´Opera boccia la riforma Bondi
di Anna Bandettini

In una assemblea strapiena, partecipata e surriscaldata al Teatro dell´Opera di Roma, dove pareva di essere tornati al Sessantotto, tra urla tenorili e striscioni politici i lavoratori e tutti i sindacati (di destra e di sinistra) chiedono che il decreto Bondi sulla riforma delle fondazioni liriche venga ritirato punto e basta, anche una ferrea, pacata signora come Carla Fracci perde la testa e s´infuria: «Buffone!», «Vergogna!, vergogna», urla con l´indice puntato sul sindaco capitolino Gianni Alemanno, impietrito nella sua poltrona mentre gli oltre mille lavoratori in sala inneggiano «Fracci, Fracci...».
La baraonda, imprevista, fuori programma, si scatena nella prima assemblea pubblica sulla riforma delle fondazioni liriche, un attimo dopo la conclusione, tra fischi e applausi, dell´intervento del sindaco capitolino, che bocciando anch´egli, e a sorpresa, il decreto del suo collega di partito, si propone come «mediatore per fare modifiche, perché non devono essere i lavoratori a pagare il prezzo della riforma», dice Alemanno dal palco. Tornato in platea, l´étoile della danza italiana gli si avvicina ma lui reagisce con un evidente gesto di stizza. A quel punto, rossa in volto, gonfia di rabbia, la Fracci è incontenibile: «Sono due anni che chiedo un appuntamento. Nemmeno una risposta. Vergogna! Buffone!». La trascinano via, ma lei urla: «Lui e Muti non si permettano di dire che l´Opera di Roma è un teatro traballante, qui ho dato dieci anni della mia vita. Vergogna».
Più tardi l´étoile dirà pubblicamente: «Gli interventi violenti non sono nel mio stile ma mi sono sentita offesa. Sono solidale con voi lavoratori, sono un´operaia dell´arte». Alemanno, lasciando la sala, liquiderà la faccenda: «Sì, Carla Fracci mi chiede da tempo un incontro, ora glielo darò, ma lei vuole il rinnovo del contratto che dura ormai da troppi anni e per il Teatro dell´Opera è giusto cercare forze più fresche con tutto il rispetto per lei».
L´antipatico siparietto è stata una parentesi nella unanime bocciatura del decreto Bondi ieri al Teatro dell´Opera, zeppo di delegazioni dei lavoratori delle 14 Fondazioni liriche, di politici e sindaci (sono i presidenti delle Fondazioni) tra cui fa notizia, appunto, Alemanno che si è dichiarato "contro Bondi". «Mi auguro che da questa assemblea vengano fuori controproposte - ha detto - da presentare al governo per cambiare la riforma». «Per noi questo decreto va ritirato e basta», dice Silvano Conti della Slc-Cgil all´unisono con la sala dei lavoratori che ha acclamato come un leader il sindaco di Bari Michele Emiliano quando asserisce: «È tutto da rifare». Lo dicono anche i politici, dall´Italia dei Valori all´Udc. Il senatore Pd Vincenzo Vita lancia l´idea di «una manifestazione in difesa della cultura come quella di piazza del Popolo per la libertà di stampa». Intanto, in Senato prosegue l´ostruzionismo al decreto che il 9 giugno arriva in aula, con scarso margine prima della scadenza, il 28. «Bondi farebbe prima a ritirarlo e a dare disponibilità per un disegno di legge di riforma condiviso», dicono nel Pd. E i sindacati: «Noi siamo pronti a occupare i teatri». Dal clima di ieri, c´è da crederci.