sabato 19 maggio 2018

Repubblica 19.5.18
Silvia Ronchey: “Greco e latino sono il nostro diritto al riscatto
”La grande Bizantinista e il futuro del liceo classico
di Raffaella De Santis


Sul piatto c’è la sopravvivenza del liceo classico, in costante calo di iscrizioni ormai da anni. Nel dibattito ospitato sulle pagine di Repubblica, c’è forse un aspetto che non è ancora venuto fuori. Un punto molto caro a Silvia Ronchey, ordinario di Civiltà bizantina all’università di Roma Tre, che risponde all’intervista mentre è in classe trasformando l’intervista in una lezione in viva voce: «Siamo di fronte a un nuovo oscurantismo. La lotta ai saperi del passato non inizia oggi, è una lotta antidemocratica che fa leva sul nozionismo per lasciare i cittadini nell’ignoranza e togliere spessore e valore all’istruzione pubblica». Ronchey, prima di diventare una grande studiosa della civiltà bizantina, autrice di saggi eruditi e appassionanti come Lo Stato Bizantino, L’enigma di Piero, Ipazia o il più recente La cattedrale sommersa, racconta di essere stata testimone da liceale della decadenza degli studi classici.
Siamo di fronte a un fenomeno di erosione del sapere che non inizia oggi?
«È da tempo che assistiamo a uno svuotamento progressivo della nostra istruzione. Ho frequentato prima il liceo classico D’Azeglio a Torino e poi il Visconti a Roma e posso dire che già allora, negli anni Settanta, si assisteva a una specie di gara al ribasso tra Dc e Pci per svilire la cultura del passato, considerata borghese».
Pensa che la contestazione giovanile o il Sessantotto siano responsabili di una perdita di serietà negli studi?
«Non la contestazione in sé, ma la strumentalizzazione che n’è stata fatta. Ricordo che negli anni del Visconti la professoressa di latino approfittò dei continui scioperi e assemblee per chiedere un maxi congedo pagato. Un altro professore sosteneva invece che il greco era borghese ed era meglio ascoltare la musica psichedelica.
Salvo poi dirci che Pindaro in fondo era già psichedelico. Resistevano i licei di provincia, mentre quelli delle grandi città cedevano».
Lei però si è appassionata ugualmente alle lingue antiche?
«Andavo da sola a studiare alla biblioteca Casanatense e all’Angelica. In quegli anni il nozionismo diventava una parola chiave. Con il risultato che da cinquant’anni i cittadini sono ridotti a vivere in uno stato di ludica ignoranza, mentre i titoli di studio sono più vuoti dei derivati tossici che hanno fatto cadere Wall Street».
Crede ci sia una volontà politica dietro questo
svilimento?
«Non penso a una strategia, né a una cospirazione. È il potere stesso che risponde in modo inerziale a un meccanismo entropico per soggiogare il popolo, tenerlo nell’ignoranza e poterlo controllare. Le lingue classiche sono al contrario la base della conoscenza del passato, senza la quale non possiamo guardare avanti né capire il presente. Sono le fondamenta di uno stato democratico che garantisca a tutti il diritto al sapere».
Cancellarle dal curriculum o depotenziarle sarebbe un gesto eticamente grave?
«Privare le persone dello studio di queste lingue vuol dire chiudere le porte al passato, quindi alla conoscenza. È un’operazione antidemocratica. La consapevolezza politica di un cittadino affonda le radici nella memoria. Non è il liceo classico ad essere classista, ma è classista privare i ragazzi del greco e latino. Il classico non è uno status symbol ma uno status culturale. Sono d’accordo in questo con quanto ha affermato nel suo intervento Federico Condello, il più lucido nel fotografare la situazione».
Più che cancellare questi insegnamenti si discuteva però con Maurizio Bettini e Nicola Gardini della possibilità di riformare il modo di insegnarli…
«Perché tante delicatezze nei confronti dello studente? Negli Stati Uniti ci sono università in cui il greco e il latino vengono insegnati con una tale durezza che a confronto il nostro nozionismo è niente. La cultura non si fa giocando, né illudendo le persone di sapere quando non sanno».
Si riferisce agli esperimenti di teatro di Bettini?
«Sono stata allieva di Bettini. Era il 1976-77, frequentavo la sua prima classe all’università di Pisa. Le assicuro le sue lezioni facevano tremare i polsi. Ci faceva tradurre all’impronta testi difficilissimi. Ma ne eravamo affascinati. Credo che la sua proposta di cancellare la prova di lingua alla maturità sia una sorta di paradosso».
Propone d’integrarla con un test di comprensione critica.
«Certo, la prova di traduzione potrebbe essere formulata meglio ma il problema principale a mio avviso è un altro, sono i professori».
Crede che siano poco preparati?
«Per molti anni non c’è stata selettività nella classe docente.
Bisognerebbe trovare buoni professori più che riformare le materie. Una risorsa per i licei sono oggi i docenti che hanno avuto l’idoneità come professori universitari ma non hanno ancora trovato una collocazione negli atenei. Ho una collega bravissima che insegna ad Albano Laziale i cui studenti recitano le tragedie antiche in latino e greco».
I professori come arma contro l’oscurantismo?
«Servono docenti preparati e entusiasti. La fake news prosperano lì dove non ci sono più nozioni per distinguere il falso dal vero».
Corriere 19.5.18
Jani, l’orgoglio per la scuola trasmesso alla madre
Sette anni, maliana, accolta da una task force dell’alfabetizzazione
di Antonella De Gregorio


Jani, sette anni, è arrivata dal Mali a settembre. Lei e la giovane mamma hanno affrontato un viaggio difficile, dalle città di sabbia attraverso il deserto, poi il mare, e su, fino a Milano. Qui hanno trovato l’accoglienza di Casa Suraya, una delle strutture che ospita i migranti che hanno fatto richiesta di asilo. E la scuola: l’istituto comprensivo Riccardo Massa di via Quarenghi, periferia Nord-Ovest della città, avamposto di accoglienza e integrazione delle molte fragilità che possono convergere in una metropoli. «Era silenziosa, impaurita», dice la dirigente, Milena Piscozzo, che ricorda il primo incontro. «Al di là dell’impossibilità di capire quello che dicevamo, negli occhi neri e vivaci si intuiva il desiderio di iniziare una nuova avventura». Non è stato facile, non lo è mai. «Però tutto è incominciato con un sorriso, quando ha preso tra le mani, orgogliosa, il diario della scuola», racconta la dirigente.
Il papà e un fratello della bambina sono ancora lontani, in Libia. La mamma, analfabeta, «ha molto rispetto dell’istituzione scolastica, saluta gli insegnanti quasi con un inchino, ci tiene che la figlia impari e vuole che frequenti sempre». Anche se in Mali una ragazzina su due non accede ad alcuna forma di istruzione, il 66% abbandona gli studi prima del dovuto, una su cinque è costretta a sposarsi prima dei 15 anni.
«La piccola è sempre presente in classe e la madre segue come può, informandosi con il suo italiano stentato. Questo ha aiutato Jani a fare progressi. Per lei e altri bambini neo-arrivati, la scuola ha organizzato corsi di alfabetizzazione nei quali gli alunni si esercitano in brevi dialoghi, scenette, giochi di movimento e percorsi anche nel quartiere, per imparare “toccando” oggetti, persone, mestieri, luoghi». Coinvolgimento e interesse: così lei e gli altri stanno al passo.
Piccoli miracoli quotidiani, in una delle tante scuole di un Paese dove siedono tra i banchi 826mila alunni di 200 nazionalità diverse. E dove le sforbiciate alle spese hanno ferito il tessuto sottilissimo e delicato della formazione degli insegnanti e dell’orientamento dei ragazzi e delle famiglie. La Riccardo Massa lavora sull’inclusione a 360°: tra i piccoli utenti ci sono disabili, bambini con bisogni speciali, o provenienti da case famiglia. Uno su dieci non è nato in Italia. «Abbiamo avuto momenti in cui i numeri erano ben più alti. C’era un campo Rom vicino alla scuola; c’è una comunità per minori non accompagnati — racconta la dirigente, 44 anni, da quattro alla guida del plesso che conta 1.400 studenti divisi tra tre primarie e una secondaria di I grado —. Le geografie delle periferie cambiano, le esigenze anche. Grazie al numero per ora relativamente basso, abbiamo lavorato per strutturare un percorso che potrà essere utile anche in situazioni di maggior affollamento».
Orgogliosa dei risultati, «sempre molto buoni», alle prove Invalsi, Piscozzo riassume così la formula vincente: il buon clima che si respira tra le mura scolastiche. L’approccio personalizzato. L’attenzione «ossessiva» a che i bambini stiano bene. «Questo viene prima di tutto: solo in un secondo momento si passa all’alfabetizzazione», spiega. Conta, certo, il contesto di lavoro. «Qui c’è anche una scuola Montessori che ha creato un circolo virtuoso di metodologia attiva e cura delle relazioni. Oltre alla formazione specifica, i nostri insegnanti hanno competenze empatiche che maturano con i colleghi. A prescindere dalla cultura o dalla provenienza, se un bambino sta bene a scuola si impegna e lavora».
Corriere 19.5.18
Il domani della scuola Dialogo Floris-Gabanelli


Un manifesto per il futuro, un atto di fiducia nei confronti del domani. La scuola italiana, così fragile, spesso abbandonata, trascurata, ma ancora ricca di eroici esempi, di modelli per la società, di risorse inaspettate. Ultimo banco. Perché insegnanti e studenti possono salvare l’italia è il libro di Giovanni Floris edito da Solferino (pagine 208, e 15 in libreria, e 13 in edicola con il «Corriere»). Con lo stesso titolo si è tenuto ieri pomeriggio, nella sala Buzzati del «Corriere della Sera», un dialogo tra l’autore del saggio (foto) e la giornalista Milena Gabanelli, coordinato dal vicedirettore del «Corriere» Venanzio Postiglione. Sala gremita, oltre 250 persone e la diretta streaming: l’incontro di ieri, nell’ambito della serie «Buona scuola?» promossa dalla Fondazione Corriere della Sera, ha radunato addetti ai lavori, genitori, ragazzi. Accusa e difesa, Floris e Gabanelli in un confronto serrato su licei e istituti tecnici, sull’alternanza scuola-lavoro, sul ruolo degli insegnanti, sul web. Sui giovani e le loro aspettative. Tra i presenti anche Urbano Cairo, presidente e amministratore delegato di Rcs: «La nostra nuova casa editrice — ha detto — è un investimento importante sulla cultura e sulla scuola, noi ci crediamo».
Repubblica 19.5.18
Le nozze di Harry e Meghan
Il fascino indiscreto dei prìncipi
di Marino Niola


Più di un terzo della popolazione mondiale oggi è di matrimonio.
Le nozze di Harry e Meghan promettono di stracciare tutti i record di popolarità.
Trecentocinquantamila persone stanno assediando gioiosamente il Castello di Windsor. Mentre la bellezza di 2460 invitati hanno il privilegio di calpestare la leggendaria erba dei giardini reali.
Ma tutto questo è niente di fronte allo share planetario dell’evento, che promette di superare il matrimonio social di Kate e William e di surclassare quello televisivo di Diana e Carlo. Una platea di oltre due miliardi di cittadini globali seguirà la cerimonia con tutti i media possibili e immaginabili. Tv, radio, streaming, siti. Senza contare le dirette Facebook e i reportage Instagram postati dalla folla oceanica assiepata davanti ai cancelli e lungo il percorso del corteo.
In un modo o nell’altro queste nozze che hanno YouTube e Twitter come paggetti virtuali sono da Guinness.
Ma perché in un mondo dove il matrimonio è diventato interinale come il lavoro, dove gli sposi comuni sembrano co.co.pro. dell’amore, dove il numero di fiori d’arancio è in calo verticale, principi e cenerentole fanno ancora sognare? Più di cantanti, stelle del grande schermo e campioni di calcio che, nel quotidiano, sono più popolari degli sposi coronati.
Il fatto è che la regalità è tutto fuorché popolare. E per questa sua distanza siderale dai comuni mortali buca l’immaginario di ieri come quello di oggi.
Perché regine e sovrani sono la materia prima del potere e l’essenza stessa della fiaba. Che inizia sempre con il fatidico “c’era una volta un re”. E perfino la satira, come quella di Iannacci quando cantava Ho visto un re, apparentemente sconsacra scettri e troni, ma in realtà ne riafferma la differenza, una sorta di privilegio di natura, prima ancora che di investitura.
Lo dicono le parole con cui ancora adesso ci si rivolge ai monarchi. Altezza, grazia, maestà. Parole che hanno come primo significato la grandezza, la bellezza, lo splendore. Lo stesso termine rex, da cui viene il nostro re, nonché l’indiano raja, derivano da una medesima radice indoeuropea che ha a che fare con il reggere, con il dominare, ma anche con il bagliore, con la luccicanza. Come dire che il simbolo supremo emana uno shining che ha qualcosa di soprannaturale. E lo sposalizio con il principe azzurro rappresenta da sempre l’archetipo dell’amore felice, il coronamento di una voglia di favola capace di una straordinaria resilienza.
Che la fa galleggiare nell’immaginario tradizionale come in quello digitale.
È anche vero che non tutte le corone sono uguali. Ci sono monarchie che hanno scelto di scomparire, di vivere sottotraccia, di sciogliersi nel sociale come quelle scandinave, olandese, belga.
Che non sembrano nemmeno dei reami.
Ma la corona inglese tiene banco alla grande. Anche perché è capitanata dalla iconicissima Elisabetta II, erede di una linea di regine che, dalla mitica Elisabetta I Tudor alla indomabile Vittoria, hanno riempito i libri di storia. Diceva Faruk, il re d’Egitto deposto dal generale Nasser nel 1952, che un giorno al mondo sarebbero rimasti solo cinque re. Quelli di fiori, di quadri, di cuori e di picche. E quello d’Inghilterra, of course.
E adesso il teatro dei re accende i riflettori sui figli di Diana, la principessa triste che aveva colpito al cuore l’immaginario globale. Harry e Meghan, William e Kate, si sono già guadagnati il titolo di Fab Four. Proprio come i Beatles. Così mentre la nonna regna ancora sul popolo, i quattro già regnano sul pop.
Corriere 19.5.188
Acheologia
Le mura romane scoperte in Slovenia


Esperti del Museo Nazionale sloveno e dell’Istituto per la protezione dei Beni Culturali hanno scoperto, nei pressi di Lubiana, oltre 200 metri di mura romane e tre torri riconducibili alle mura di Aidussina del Claustra Alpium Iuliarum, un sistema di fortificazioni a protezione dei passi alpini orientali. Con la scoperta resa nota ieri, le mura di Aidussina, che secondo le ricostruzioni degli archeologi dovrebbero estendersi per oltre 10 chilometri, sono state ricostruite per una lunghezza di 6,7 chilometri. Le Claustra Alpium Iuliarum risalgono al IV secolo e rappresentano la più grande reliquia architettonica della presenza romana in Slovenia.
Corriere 19.5.18
La caducità «eroica» della rosa che unisce i sentimenti di ogni epoca
I versi di Petrarca, Tasso e Luzi, il ritratto con «discrezione» di de Chirico
Proust la collega al tempo perduto. E il letto di petali è un’icona del cinema
di Roberta Scorranese


Uno dei cardini del pensiero di Ludwig Wittgenstein è racchiuso in una frase del tutto corretta sul piano grammaticale, però priva di senso logico: «una rosa non ha denti». Verso la metà degli anni Sessanta questa espressione così spiazzante fulminò un (allora) giovane artista, Bruce Nauman, oggi tra i maggiori esponenti di una poetica multiforme, oscillante tra il concettuale e il pop. Nauman incise quella frase su una targa di bronzo per poi applicarla a un tronco giovane, in modo che — crescendo — fosse divorata da un lento, continuo divenire.
Perché la rosa è così bella che va nascosta, più che esibita. La discrezione è il suo vestito migliore, come intuì Giorgio de Chirico, nel suo Autoritratto con rosa (1923): il fiore è in secondo piano e sovrastato dalla figura elefantiaca dell’autore, il fiore è un ornamento un po’ appassito di un libro antico.
Già, una rosa non ha denti: non deve spiegare il suo splendore così caduco. E a volte ci pensa una strana alleanza tra scienza e destino. Si è scoperto che le Rose Bianche di Van Gogh (oggi alla National Gallery di Washington) non erano bianche, ma rosse e rosa. Si sono scolorite. Importa? No perché Van Gogh le aveva già dipinte un poco sfatte, con petali cadenti. È la linea di confine tra la pittura introspettiva e l’esplosione di mistica che ha attraversato i secoli, da Botticelli fino alle Rose di Eliogabalo (1888) di Lawrence Alma-Tadema. D’amore e di morte: il dipinto rappresenta la storia dell’eccentrico imperatore romano che, durante una cena, volle aprire un finto soffitto carico di petali di rosa sulla testa dei suoi commensali. Centinaia di migliaia di piccole unghie tenerissime e profumate che finirono per soffocare alcuni invitati, morti nel nome della rosa, come nel giallo più famoso del mondo.
Ancora l’ambiguità. Forse le rose vere sono quelle che non si vedono se non in un’ombra di precarietà. «Vivete, date ascolto, diman non attendete:/ cogliete fin da oggi le rose della vita», scriveva il poeta cinquecentesco Pierre de Ronsard — peraltro, oggi la rosa più bella porta il suo nome. E il maggior poeta italiano del Novecento maturo, Mario Luzi, rintracciò proprio nelle rose ronsardiane (con la sua vasta opera di traduzione) una matrice petrarchesca che ha inoculato il concetto di fragilità e caducità umana nella cultura europea.
In fondo, «Ne l’età sua più bella et più fiorita,/ quando aver suol Amor in noi più forza,/ lasciando in terra la terrena scorza,/ è l’aura mia vital da me partita», recita il Canzoniere.
Ma attenzione: la caducità qui non è l’effimero. È una vanitas che appassiona, è calore crepuscolare da cogliere al pari di un atto eroico, un po’ come nei versi della Gerusalemme Liberata: «Cogliam la rosa in sul mattino adorno / di questo dì, che tosto il seren perde; / cogliam d’amor la rosa; amiamo or quando / esser si puote riamati amando». L’effimero è un’altra cosa. È quello, alto, del Ciclo della Rosa di Gabriele d’Annunzio — che amava così tanto il fiore da inventare un profumo ad hoc. È quello, color rosso intenso, che punteggia il film di Sam Mendes «American Beauty», dove la bellezza in fiore di Angela (Mena Suvari) si distende su un letto di petali e quella cadente di Carolyn (Annette Bening) si conforta con l’ossessione per le rose pulite, ben tagliate, sistemate nei vasi giusti in un confortevole quanto tragico ordine sociale borghese.
Rosso, appunto. La rosa non è più solo color rosa, però lo è stata per secoli. «Ciò che noi chiamiamo rosa anche con un altro nome avrebbe sempre il suo dolce profumo», diceva la Giulietta di Shakespeare. E il «rosa Tiepolo», spina dorsale del libro di Roberto Calasso, è di più: la tonalità prossima al ciliegio che il pittore settecentesco utilizzava per creare le sue riconoscibili atmosfere, sospese tra mondi onirici e mitologici. Questo color rosa sarà il... filo rosso (scusate) che unirà diversi personaggi della Recherche proustiana, finendo per diventare un canale della memoria di Swann. Un colore è un colore è un colore.
Corriere 19.5.18
Violazione della privacy
Il Garante contesta l’Istat: il censimento è una schedatura
di Fiorenza Sarzanini


La raccolta dei dati dei cittadini fatta dall’Istat per stilare censimenti e statistiche attraverso il «codice unico chiamato Sim, determina una vera e propria schedatura permanente di ogni individuo, nel tempo e nello spazio, con gravi rischi per i diritti e le libertà degli interessati». È questa la gravissima accusa del garante della Privacy Antonello Soro sull’attività dell’istituto contenute in un parere pubblicato ieri sera. La relazione riguarda le informazioni che l’Istat mira a ottenere attraverso il «sistema integrato dei registri» .
Nelle otto pagine dedicate all’attività dell’Istat viene evidenziato come «nel corso degli ultimi anni è emersa la progressiva tendenza dell’Istituto a rafforzare l’utilizzo dei dati amministrativi a fini statistici, dotandosi di una vera e propria infrastruttura centralizzata per la loro gestione, che contiene la duplicazione di numerose decine di archivi amministrativi e statistici relativi alla totalità dei cittadini». E si sottolineano le «criticità» del «codice Sim attribuito a ogni individuo attraverso i codici fiscali delle persone fisiche censite nelle diverse banche dati». Ne deriva una sorta di «Grande fratello» che raccoglie notizie anche riservate sulla popolazione senza le necessarie garanzie. E dunque il Garante esprime parere «non favorevole» sui lavori che l’Istituto aveva già programmato per il prossimo triennio. Compreso quello sui Big Data che prevede «la sperimentazione dell’utilizzo di dati di telefonia mobile, contenuti social media, scanner della grande distribuzione, smart meters relativi al consumo di energia elettrica delle famiglie, e-commerce».
Il nuovo Censimento
L’Istat ha annunciato di voler effettuare la rilevazione «con cadenza annuale, classificando l’intera popolazione in relazione alla probabilità di ciascun individuo (e della sua famiglia) “di presenza/assenza in un dato ambito territoriale” anche al fine di comunicare alle competenti amministrazioni comunali i nominativi degli stessi per la successiva revisione delle anagrafi». Questo deve però prevedere «l’introduzione di uno specifico quadro di garanzie a tutela degli interessati». E invece, è la contestazione «i prospetti non consentono di comprendere la finalità e le modalità di trattamento, né il processo decisionale automatizzato (profilazione) e la logica utilizzati per l’individuazione del campione di interessati». Inoltre, le notizie ottenute attraverso «Acquirente unico spa» contengono tra gli altri «i dati sui consumi individuali, per fascia oraria di energia e gas e, quindi, informazioni idonee a rivelare, in determinati casi, anche lo stato di salute delle persone interessate (come quelle riferite a macchinari salvavita)».
Minori e disabili
Una delle «statistiche da indagine» già pianificata «prevede il coinvolgimento di soggetti minori di età, anche infra-quattordicenni, in qualità di “unità di rilevazione” per analizzare “comportamenti, atteggiamenti e progetti futuri”». Ebbene, secondo Soro «la realizzazione di tali progetti prevede che minori, anche giovanissimi, siano chiamati a rispondere (talvolta obbligatoriamente, tramite la compilazione di appositi questionari, anche online, o diari) a numerosi quesiti, spesso connessi ad aspetti molto delicati della vita quotidiana che, oltre a rivelare informazioni, anche sensibili, sono comunque idonee a creare situazioni di forte disagio e imbarazzo. Tra le variabili si rilevano, in particolare, le difficoltà nelle attività quotidiane (cura della persona, attività domestiche), la contraccezione e la vita sessuale, i determinanti della salute (abitudine al fumo, problemi di peso, attività fisica, consumo di alcol, consumo di frutta e verdura) e la storia migratoria». Senza contare le «criticità» del progetto, realizzato con Unicef «in relazione alla conservazione dei dati identificativi» per creare «non meglio specificati database sui giovani e un data set-integrato sull’integrazione dei cittadini stranieri». È negativo il giudizio anche rispetto al nuovo «Archivio disabilità» prendendo dati «da ben 7 archivi di Inps e Agenzia delle Entrate senza specificare le finalità».
Corriere 19.5.18
Il diritto nello specchio di Sofocle
Edipo e Antigone: dilemmi della giustizia ancora attuali nei capolavori dell’autore greco
Confronti Marta Cartabia e Luciano Violante si misurano su questioni di grande respiro come la dialettica tra governo dello Stato e libertà individuali (il Mulino)
di Sabino Cassese


In tre tragedie di Sofocle (Edipo re, Edipo a Colono, Antigone, nell’ordine degli eventi narrati) sono intessuti i maggiori problemi giuridici del mondo antico e di quello moderno: tensione tra legge eterna o divina e legge positiva, transitoria; opposizione della legge al diritto; conflitto tra legge non scritta e legge scritta; rapporto tra morale e legge; dialettica tra governo della polis e diritti individuali; equilibrio tra responsabilità e colpevolezza; limite dell’accertamento giudiziale della verità. Questi problemi, dal V secolo avanti Cristo sono giunti ai nostri giorni attraverso migliaia di reinterpretazioni, analisi, reinvenzioni, tra cui fondamentali quelle del periodo illuministico, quando, nel 1773, Diderot si chiedeva se vi fossero leggi per il saggio, perché, essendo tutte soggette ad eccezioni, spetta a lui giudicare in quali casi sottomettersi ad esse, e giungendo alla conclusione che «non mi dispiacerebbe che vi fossero uno o due cittadini che la pensassero così, ma non vivrei in una città in cui tutti volessero mettersi al di sopra delle leggi» (Colloquio d’un padre con i suoi figli, o del pericolo di mettersi al di sopra delle leggi) o, solo tre anni più tardi, la Dichiarazione di indipendenza americana disponeva che tutti gli uomini sono dotati di diritti inalienabili, quali la vita, la libertà e la ricerca della felicità, e prevedeva che i governi fossero costituiti per assicurare tali diritti, consentendo poi al popolo di modificare o rovesciare i governi che non li garantissero.
Due dei maggiori giuristi italiani, il cui ruolo anche nello spazio pubblico è ben noto, Marta Cartabia e Luciano Violante, si sono uniti per discutere questi problemi alla luce di due delle tre tragedie sofoclee nel libro Giustizia e mito (il Mulino), sapientemente costruito come un mosaico: una breve introduzione scritta a quattro mani, due saggi, dedicati a Edipo (di Cartabia) e ad Antigone (di Violante) e una conversazione, innescata da intelligenti domande di due giovani ricercatori.
La vicenda è nota. Edipo inconsapevolmente uccide il padre Laio e sposa la madre Giocasta, dalla quale ha quattro figli. Scoperte le sue colpe, si acceca e autoesilia. Va in giro come un mendicante, aiutato da sua figlia Antigone, fino alla morte. I due suoi figli si uccidono a vicenda, ma Creonte dispone che il corpo di uno dei due, colpevole di aver voluto prendere il posto dell’altro, rimanga insepolto. La sorella Antigone dando sepoltura al fratello, viola questo comando di Creonte, che la condanna, provocando così anche il suicidio del suo proprio figlio, che voleva sposare Antigone. In primo piano vi sono le orrende colpe di Edipo, sullo sfondo l’assenza del limite al potere (sia Edipo, sia Creonte peccano di hybris) e la concentrazione di potere nelle mani di entrambi (sono legislatori, inquisitori, giudici).
Nelle loro sapienti reinterpretazioni di questa antica storia, Cartabia e Violante mettono l’accento su aspetti diversi. La prima esalta il diritto ragionevole, la giustizia prudente, anche se imperfetta, il senso del limite, ragionevolezza e proporzionalità, il contraddittorio (Antigone: «non chiuderti nella convinzione incondivisa»; «concediti di cambiare idea»). Violante sottolinea che Creonte è il portatore del diritto nuovo, che fa funzionare la polis, mentre Antigone è testimone del passato, del diritto immutabile, e quindi contesta la legge degli uomini in nome del diritto degli dèi. Ma poi ricorda che vi sono valori morali superiori alla legge positiva e meccanismi moderni per regolare i conflitti (obiezione di coscienza, giustizia costituzionale, negoziazione e trattativa con i dissenzienti).
Per un verso, i problemi di ieri sono problemi di oggi. Ad esempio, se non vi fosse un diritto più alto, Norimberga non sarebbe stata possibile (un aspetto dimenticato dai critici della globalizzazione). D’altra parte, se le leggi dello Stato non venissero rispettate, le società sarebbero un campo di conflitti. Per altro verso, i nostri problemi d’oggi sono diversi. Era l’oracolo di Delfi che aveva predetto a Laio che il figlio l’avrebbe ucciso, così come più tardi avrebbe predetto a Edipo che avrebbe ucciso il padre e sposato la madre. Prima Laio e poi Edipo, proprio perché avvertiti dal vaticinio, per evitarlo metteranno in opera una serie di azioni che lo realizzeranno. A noi Seneca, in un passo delle Epistulae morales ad Lucilium (libro XVI, 98), molto amato dal grande maestro della modernità Montaigne, ha insegnato che calamitosus est animus futuri anxius. Abbiamo imparato ad aver meno paura degli «eventi della sorte, senza alcuna chiara conoscenza del futuro», come dice ad un certo punto dell’Edipo re, Giocasta. Interroghiamo quindi meno gli oracoli.
Corriere 19.5.18
«Una legge per fermare sessismo, omofobia e squadrismo digitale»
Boldrini: sui diritti civili l’Italia è indietro
di Monica Guerzoni


Laura Boldrini, ex presidente della Camera, ha iniziato la sua legislatura da deputata di Leu presentando — tra le altre — una proposta di legge contro l’omofobia. Oggi sarà alla manifestazione di Milano, assieme al gruppo dei Sentinelli: «Voglio esserci, per portare la mia solidarietà a Luca Paladini e alla sua organizzazione, che si batte contro l’odio e le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e per liberare la rete dallo squadrismo digitale».
Il suo slogan?
«Basta odio, basta sessismo, basta omofobia. Nonostante il passaggio storico della legge sulle unioni civili, l’Italia è ancora molto indietro rispetto ad altri Paesi europei sull’attuazione delle politiche di uguaglianza che proteggano le persone LGBT. Un Paese civile non può rimanere senza una legge contro l’omofobia».
In un Parlamento spostato verso destra, ci saranno i numeri per approvare la sua proposta?
«Nel 2007 il Parlamento europeo invitava tutti gli stati membri a fare leggi che superassero le discriminazioni. Quella che io ho presentato il primo giorno di legislatura sanziona proprio le condotte finalizzate alla discriminazione in base all’identità sessuale delle persone».
Come giudica il contratto di governo sul piano dei diritti civili?
«Non c’è traccia dei temi che mobiliteranno le persone oggi a Milano. Una grave e colpevole sottovalutazione. Se mai M5S e Lega riusciranno a fare questo governo io temo una deriva oscurantista sui diritti. La legge che introduce il divieto di omofobia, transfobia e altre discriminazioni riferite all’identità sessuale deve essere una bandiera di tutte le persone libere e democratiche, per la quale fare una battaglia in Parlamento, ma anche sulla rete e nelle piazze».
Con quale animo aspetta la nascita del governo Di Maio-Salvini?
«Con preoccupazione, ho timore che possano fare danni. Temo che questa compagine non sia all’altezza di un Paese del G7. Temo anche una campagna elettorale permanente, nel loro stile. E, non da ultimo, non so verso quale orizzonte internazionale ci porteranno. Questa Europa ha tanti difetti, va rinnovata e cambiata ma in modo costruttivo, per renderla migliore, più vicina ai bisogni delle persone. Mentre il loro atteggiamento confuso e ondivago rischia di metterci all’angolo nei tavoli dove si decide».
Da dove riparte la sinistra?
«Si riparte laddove la sinistra dovrebbe essere più presente, cioè dalle periferie. Coinvolgendo tutti quei mondi che nelle ultime elezioni non si sono sentiti rappresentati. Parlo dei giovani, delle associazioni, della rete dei sindaci, del mondo femminista, ecologista e LGBT».
Nuovo centrosinistra, con Partito democratico e Leu uniti?
«È un rinnovamento autentico, reale, concreto di tutto l’arco progressista. Per riconquistare fiducia ed entusiasmo non basta mettere insieme chi ha perso. In questo tempo in cui si consolida un bipolarismo 5Stelle-Lega, il mondo progressista non si salva se va alla spicciolata».
Ha sbagliato Renzi a stoppare il tentativo di un governo Pd, M5S e Leu?
«Il dialogo va sempre tenuto aperto. Però ritengo giusto, dal punto di vista istituzionale, che chi ha avuto più voti pur non vincendo le elezioni provi a fare il governo».
Roberto Fico farà bene il presidente della Camera?
«Spero che Fico garantisca imparzialità e che sappia valorizzare l’istituzione. La Camera non è una scatoletta di tonno da aprire, ma è il cuore della democrazia italiana».
Il Fatto 19.5.18
Pd, ultimo scontro al buio. E Renzi, nella conta, rischia
L’ex premier cerca di evitare il voto che può mandarlo sotto. Martina vuole la conferma fino alla data del Congresso
Pd, ultimo scontro al buio. E Renzi, nella conta, rischia
di Wanda Marra


“Ciao, domani ce l’abbiamo il tuo voto?”. Matteo Renzi ieri ha chiamato i deputati, che sulla carta sarebbero suoi, ma che non è sicuro di controllare. In tutto, i suoi sarebbero 45 (su 67), mentre i senatori sono 33 (su 52). Stamattina all’Ergife il Pd si riunisce per l’Assemblea rimandata per 75 giorni, dopo le elezioni del 4 marzo. E per tutto il giorno si sono riunite le correnti e i caminetti, si sono incontrati gli sherpa (ovvero Lorenzo Guerini e Graziano Delrio, per Matteo Renzi con Dario Franceschini e Maurizio Martina) alla ricerca di una mediazione, che per l’ennesima volta permettesse al partito di non decidere e di andare avanti con una diarchia: Renzi da una parte, Martina, con dietro Franceschini, Orlando, Emiliano, dall’altra. Ciascuna fazione ha consultato il suo pallottoliere. Incerto. L’Assemblea è stata eletta un anno fa, si è riunita da allora una sola volta (il 7 maggio 2017) e poi mai più. In origine, la maggioranza del segretario eletto, ovvero Renzi, era schiacciante e in gran parte composta di fedelissimi. Per eleggere un Segretario in Assemblea – anche di transizione – servono i 2/3 dei componenti.
E nessuno sa davvero su chi può contare. A partire dai 300 eletti dalle Assemblee regionali: soprattutto sui territori, Renzi dopo la frattura dovuta alla composizione delle liste, non sa più se tiene il partito. E così, per tutto il giorno tutti hanno cercato una mediazione per potersi consentire di “non decidere”. Il segretario dimissionario ha fatto sapere di essere pronto a rinunciare ad aprire la riunione (nonostante avesse già scritto un intervento) e di lasciare la scena a Martina. In cambio di un rinvio: il voto, la prossima volta. In un’altra Assemblea da fare a luglio. In questa, solo una discussione politica. La motivazione ufficiale: nessuno avrebbe capito un Pd occupato a litigare, mentre Lega e Cinque Stelle fanno il governo. D’accordo con lui erano anche Paolo Gentiloni, Graziano Delrio, Marco Minniti. Ma Martina, riunito con Orlando, Franceschini e i suoi dalla mattina, voleva una legittimazione. Non sicuro dei numeri si sarebbe accontentato anche di una legittimazione a metà: e dunque, un ordine del giorno che gli conferisse il mandato di convocare il congresso entro l’anno e lo confermasse Reggente come vice segretario. Troppo per Renzi, che Martina non vuole legittimarlo. Anche perché sullo sfondo, c’è un fatto: chi regge il partito fa le liste. Il governo sembra stia proprio per nascere, allontanando le elezioni, ma non si sa mai. Il rischio è troppo alto. E dunque, in serata ha detto di no.
Nel frattempo, Lorenzo Guerini continua a mediare. Ma Renzi in prima battuta proverà a far convocare a Matteo Orfini direttamente il congresso. Peccato che lo stesso Orfini, l’ultima volta che ci furono dimissioni di un segretario, disse che a norma di Statuto prima di convocare le assise bisognava verificare la possibilità di eleggere un segretario. I martiniani, dunque, chiederanno lo stesso trattamento e presenteranno Martina. A quel punto, Renzi potrebbe schierare Guerini. Tutto diventa possibile. Potrebbe, insomma, finire oggi la situazione di confusione che va avanti dalle elezioni. Che vede un Renzi dimesso, ma non formalmente, e tuttora segretario ombra. Tanto che 24 intellettuali cattolici vicini al Pd hanno firmato una lettera per chiedere al proprio partito di riferimento: “Ora decidi chi sei”.
Riavvolgiamo il film e torniamo al 4 marzo. “Renzi si dimette domani”. “Matteo ci sta pensando”, si rincorrevano le voci durante la notte. “Nel primo pomeriggio annuncerà le dimissioni”. Le voci si rincorrevano, continue. Mentre l’allora segretario era riunito con il Giglio magico. Maria Elena Boschi e Francesco Bonifazi in prima fila a chiedergli di non lasciare. “Ovvio che mi dimetto”, ma “solo dopo la formazione del governo”, diceva quando alla fine appariva di fronte alle telecamere, nervoso e sbrigativo. E poi, il giorno dopo, costretto dai colleghi di partito, faceva sapere: “Non ci sono. Ho consegnato le mie dimissioni a Orfini. Faccio il senatore di Scandicci”. In questa presenza/assenza ha continuato a mantenere il Pd in (semi) pugno, riuscendo più che altro a bloccare le iniziative altrui (come il dialogo con i Cinque Stelle). Da parte loro, tutti gli altri non sono mai voluti arrivare alla conta definitiva e risolutrice. Tanto è vero che la prima Assemblea, prevista il 20 aprile, è stata rimandata per volere di Renzi.
L’ex premier dunque oggi aprirà. Un intervento battagliero, in cui accuserà gli altri di aver vissuto in questi anni alle sue spalle. Poi, si potrebbe votare. Sarebbe la prima volta nel Pd dell’era Renzi che si arriva allo scontro frontale.
Il Fatto 19.5.18
Scrisse: “Di Matteo complice di Riina”. Sgarbi dovrà pagare 40 mila euro
Diffamazione - Sei mesi senza condizionale al critico, tre a Sallusti
Scrisse: “Di Matteo complice di Riina”. Sgarbi dovrà pagare 40 mila euro
di G.L.B e S.R.


Definire sul Giornale il pm Nino Di Matteo “complice di Totò Riina’’ è costato una condanna a sei mesi di carcere a Vittorio Sgarbi, ex assessore regionale alla Cultura in Sicilia ed oggi deputato di Forza Italia, accusato di diffamazione, e tre mesi al direttore Alessandro Sallusti per omesso controllo: entrambi sono stati condannati dal giudice monocratico di Monza Francesca Bianchetti anche a pagare 40 mila euro di provvisionale “immediatamente esecutiva’’ al magistrato del pool Stato-mafia, difeso dall’avvocata Roberta Pezzano. E nella sentenza questa volta il giudice non ha concesso loro la sospensione della pena, probabilmente per l’attitudine dei due imputati, entrambi pluri-pregiudicati, a diffamare.
In questo caso le frasi ritenute ingiuriose erano state pubblicate nella rubrica “Sgarbi quotidiani’’, sotto il titolo “Quando la mafia si combatte solo a parole”, nel gennaio 2014: “Gli unici complici che ha Riina sono i magistrati che diffondono i suoi pensieri – scriveva il critico d’arte –. Se Riina è reso inoffensivo dallo Stato che lo ha arrestato, perché dobbiamo ritenerlo pericoloso e potente anche in carcere? Perché dobbiamo alimentarne la leggenda? Riina non è, se non nelle intenzioni, nemico di Di Matteo. Nei fatti è suo complice. Ne garantisce il peso e la considerazione”. E alla fine, ignorando i rischi corsi dal pm per il suo lavoro, sosteneva: “C’è qualcosa di inquietante nella vocazione al martirio (del pm, ndr)”.
La rubrica era stata pubblicata in coincidenza con le frasi di Riina, che nel carcere di Opera, parlando con il suo compagno di cella Alberto Lorusso, aveva minacciato di morte Di Matteo: “Questo pubblico ministero di questo processo, che mi sta facendo uscire pazzo – diceva il boss – per dire, come non ti verrei ad ammazzare a te, come non te la farei venire a pescare, a prendere tonni. Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono. Ancora ci insisti? Minchia… perché me lo sono tolto il vizio? Me lo toglierei il vizio? Inizierei domani mattina”. E poi ancora. “E allora organizziamola questa cosa. Facciamola grossa e dico e non ne parliamo più”.
Per Sgarbi “Di Matteo ha tratto beneficio dalle minacce di morte ricevute dal carcere da Totò Riina. Ha cavalcato l’onda per fare il martire”; il deputato si spinge ad attaccare tutti i pm del processo della Trattativa sostenendo che !il Tribunale di Palermo non può processare lo Stato” e che nel loro comportamento “ci sono profili eversivi”. È finito, in primo grado, con la condanna degli imputati.
Il Fatto 19.5.18
Cacciari
“Non sono barbari, ma rischiamo il default”
Il filosofo e il contratto gialloverde: “Programma basato sulla mancia di papà” “Non sono barbari, ma rischiamo il default”
di Gianluca Roselli


 “Sono curioso, ma anche preoccupatissimo, perché l’Italia non può scherzare col fuoco. Dopo aver assaggiato pessime minestre, è comprensibile che gli italiani avessero voglia di provare una pietanza nuova”. Massimo Cacciari – filosofo, esponente di sinistra, ex sindaco di Venezia – guarda al nascituro governo Di Maio-Salvini senza pregiudizi, ma con notevole scetticismo.  Lega e M5S hanno chiuso il contratto. Cosa ne pensa?  Non voglio entrare nel merito dei singoli provvedimenti (guardo con favore al reddito di cittadinanza, sono contrario alla flat tax), ma in generale mi sembra una presa in giro. Si tratta di provvedimenti realizzabili solo con un mutamento radicale delle politiche economiche e finanziarie dell’Ue. Salvini e Di Maio hanno fatto un programma basato sulla mancia che ti dà il papà. Ma se poi i soldi che arrivano sono di meno o non ci sono per nulla? È un programma puramente elettorale, mentre ora bisognerebbe cercare di trovare soluzioni sic stantibus rebus.  Ci sarà un comitato di conciliazione in cui i leader risolveranno eventuali problemi.  I caminetti e le cabine di regia ci sono sempre stati, metterlo o no nel programma è indifferente. Il problema è un altro: realizzare progetti fattibili, non scrivere il libro dei sogni. Se perseguissero solo il 10% di ciò che prevede il contratto, finiremmo in default tipo Grecia nel giro di due settimane.  Cosa pensa delle reazioni internazionali, come quella di Macron?  L’Europa è preoccupata e ne ha motivo. Ma in Italia non stanno arrivando i barbari. E, nel caso, non mi dispiacciono le parole di Salvini: meglio barbari che servi. Un po’ di populismo è positivo, anche se per governare è inutile.  Dovremmo farci sentire di più?  Possiamo farlo solo se ci dimostriamo seri e affidabili. Poi sulle questioni internazionali, ad esempio i rapporti Usa-Russia, non contiamo nulla. Più stiamo zitti, meglio è.  Nascerà questo governo?  Sì, perché Di Maio e Salvini non vogliono suicidarsi. Però una cosa è conquistare il principato, altro è farlo durare. Su quanto possano andare avanti mi permetto di essere scettico.  Che idea si è fatto sui nomi in circolazione per la squadra?  Dei leader posso avere anche una certa stima, gli altri mi sembrano illustri sconosciuti. Chi sono, che storia hanno? Se non conoscono il funzionamento della macchina dello Stato finiranno per essere stritolati, come è successo a Renzi. Non ne faccio un problema di età: un leader può essere giovane, ma deve dotarsi di una squadra esperta e competente.  Tra Di Maio e Salvini chi sta vincendo la partita?  Senza dubbio Salvini, che ha dietro un partito vero, strutturato sul territorio, che governa in tante amministrazioni. Poi perché Salvini ha un piano B: se gli va male, tra un anno si presenterà alle elezioni alla guida del centrodestra. I 5 Stelle, invece, si giocano tutto. E hanno un elettorato volatile, molto sensibile ai temi etico-morali e ai compromessi della politica. Fossi Salvini non farei il ministro: starei fuori e lascerei fare il premier a Di Maio.
Repubblica 19.5.18
Passione e potere nel partito contro la casta

Pablo Iglesias è il leader e il segretario di Podemos. Irene Montero è la capogruppo del partito al Congresso dei deputati. I due si sono conosciuti durante le manifestazioni degli Indignados: la coppia è considerata uno dei simboli della nuova sinistra spagnola, che nel 2011 si è ritrovata nelle piazze grazie nella grande mobilitazione popolare contro la casta. Da quel movimento è poi nato Podemos
Repubblica 19.5.18
Spagna
Sinistra radicale nel mirino
La villa con piscina che imbarazza i coniugi Podemos
Una casa da ricchi per Iglesias e signora paladini della politica anti borghese
di Alessandro Oppes


Il prezzo è sulla bocca di tutti, seppure avvolto nell’incertezza: tra i 600 e i 680mila euro. Da pagare in comode rate da 1600 euro mensili per i prossimi trent’anni, il tempo necessario per la restituzione di un mutuo da 540mila euro acceso presso la Caja de Ingenieros, una cooperativa finanziaria catalana legata al movimento indipendentista. Quel che resta da chiarire, a questo punto, è il prezzo – politico, forse elettorale – che finirà per pagare Podemos a seguito della sorprendente operazione immobiliare conclusa dal fondatore e segretario generale, Pablo Iglesias, insieme alla sua compagna Irene Montero, capogruppo del partito alle Cortes. Alla vigilia della nascita, prevista per l’inizio dell’autunno, di due gemelli, la coppia ha acquistato un’elegante villetta a Galapagar, esclusiva urbanizzazione a 40 chilometri da Madrid. Abitazione dotata di ogni confort: 250 metri quadri a cui bisogna aggiungere i duemila metri di terreno, con piscina e una casetta autonoma per gli ospiti.
Roba da autentici borghesi, in chiaro contrasto con il discorso politico su cui si è retta in questi anni (dalla fondazione, nel 2014) l’ascesa della formazione “viola”. Che si schierava “con la gente” contro “la casta” e con “quelli di sotto” contro “quelli di sopra”.
La coerenza tra le parole e i fatti sembrava rispettata finché Iglesias viveva nel suo appartamentino di 50 metri (ereditato dalla nonna) a Vallecas, quartiere operaio a forte tasso di immigrazione, alla periferia di Madrid. Ma ora, la villetta di Galapagar, oasi di pace e aria frizzante sulle falde della Sierra de Guadarrama, non solo scatena l’ironia e i commenti taglienti dei rivali politici, ma crea forti imbarazzi persino all’interno di Podemos e nei gruppi affini. Il governo Rajoy, per bocca del portavoce Íñigo Méndez de Vigo, ironizza sul fatto che la ripresa economica garantita dalla politica del Partido Popular abbia consentito a «una giovane coppia» di impegnarsi per i prossimi 30 anni per l’acquisto di una casa. Il leader socialista Pedro Sánchez invita i seguaci di Podemos a valutare se ci sia coerenza «tra ciò che Iglesias dice e ciò che fa». Il presidente di Ciudadanos, Albert Rivera, affibbia al politico l’etichetta di «populista».
Ma le critiche che fanno più male sono quelle interne al movimento. «La gente di sinistra dovrebbe guardarsi nello specchio di Pepe Mujica o Julio Anguita. Sembra che Irene e Pablo abbiano scelto lo specchio degli Aznar-Botella», dicono gli attivisti della Coordinadora 25-S, il gruppo conosciuto per avere promosso in passato l’assedio delle Cortes in polemica con le scelte politiche della destra. Iglesias e Montero spiegano che l’acquisto della casa è legato al loro «progetto di futuro»: secondo fonti di Podemos, hanno scelto Galapagar perché c’è una scuola pubblica con un sistema di insegnamento innovativo. E pensano già che sarebbe l’ideale per i gemelli in arrivo. Chissà se l’elettorato della nuova sinistra si mostrerà comprensivo con la coppia. Il guaio è che, tempo fa, Iglesias aveva criticato pesantemente il ministro dell’Economia, Luis de Guindos, per aver acquistato «un attico di lusso da 600mila euro». Guarda caso, una cifra molto simile a quella spesa dalla “famiglia Podemos” per la villetta dei suoi sogni.
il manifesto 19.5.18
«Fake news? La ricerca storica è la risposta»
Intervista. Parla il giornalista e documentarista francese Jean-Christophe Brisard, autore di «L’ultimo mistero di Hitler», oggi a Gorizia per il festival «èStoria»
di Guido Caldiron


Come indagare e raccontare la Storia nell’epoca delle fake news, quando vicende note sono non tanto soggette a nuove analisi, come è proprio della ricerca stessa, ma finiscono al centro di manipolazioni e falsificazioni di ogni sorta? È questa la sfida che ha accompagnato l’inchiesta firmata dal giornalista e regista francese Jean-Christophe Brisard e dalla documentarista russa Lana Parshina, L’ultimo mistero di Hiltler (Ponte alle Grazie, pp. 412, euro 19).
Un libro che attraverso un minuzioso lavoro di indagine, condotto in gran parte negli ex archivi moscoviti del Kgb, dove gli autori hanno potuto esaminare materiali, foto e documenti, spesso fin qui inediti, e un’ampia rilettura del modo in cui la morte di Adolf Hitler è stata oggetto di ricostruzioni interessate da parte dell’intelligence occidentale come del blocco sovietico, contribuisce a scrivere la parola finale su quella vicenda, facendo chiarezza anche su dettagli rimasti fin qui senza risposta.
Tra gli ospiti della XIV edizione del festival internazionale «èStoria», in corso fino a domenica a Gorizia – questo pomeriggio alle 18 si confronterà con lo storico tedesco Thomas Weber, uno dei più noti specialisti della Seconda guerra mondiale -, prima di indagare la fine del capo del nazismo, Jean-Christophe Brisard si è occupato dei «figli dei dittatori» con un volume uscito in Francia nel 2014 e ha lavorato come giornalista d’inchiesta, sia per i magazine francesi che per la televisione, su diverse aree di crisi, dall’America Latina all’Africa, fino alle Coree.
«Quello che a prima vista potrebbe apparire come un paradosso è in realtà una necessità sia del giornalismo investigativo che della ricerca storica», spiega Brisard alla vigilia della sua partenza per l’Italia. «Anche verità storiche che appaiono consolidate, come quelle relative alla fine di Hitler – sottolinea il reporter -, dopo aver subito negli anni scorsi l’offensiva del revisionismo storico e del negazionismo, sono oggi oggetto di ogni sorta di tentativo di manipolazione all’insegna delle teorie complottiste. Tutti sanno che Hitler si è tolto la vita a Berlino, nel bunker della Cancelleria nell’aprile del 1945, ma credo fosse necessario documentarlo concretamente, fornire ulteriori prove per cercare di fermare le speculazioni di ogni genere di cui è piena ad esempio la rete». Per Brisard, un’indagine su un capitolo apparentemente noto del passato, sembra così assumere una sconcertante attualità.
Il giornalista Jean-Cristophe Brisard
«Tra coloro che hanno messo fin qui in discussione la morte di Hitler, non ci sono solo i complottisti, ma anche quanti, estremisti di destra di tutte le tendenze, cercano in qualche modo di riabilitare il nazismo e vorrebbero sia negare che Hitler mise volontariamente fine ai suoi giorni, sia far passare l’idea che sia stato eliminato dall’Armata Rossa o dagli americani : di fronte a queste follie, siamo voluti entrare metaforicamente in qual bunker per ribadire come andarono davvero le cose. Ciò significa infatti fare giustizia dell’alone di supereroismo del quale si ammantava il Terzo Reich e che celava in realtà meschinità personali, una vera mafia al potere e un tragico delirio. Soprattutto ai più giovani, si deve continuare a spiegare fino a che punto quello fu soltanto un regime abbietto e criminale».
Al di là della diffusione del neonazismo o di atteggiamenti nostalgici, l’attenzione per quella tragica stagione della storia europea è però rimasta costante nell’opinione pubblica, come illustra il recente successo di La scomparsa di Josef Mengele, di Olivier Guez (Neri Pozza). «L’Europa sta facendo ancora i conti con i suoi fantasmi», segnala il giornalista, che aggiunge «si cerca di comprendere come possa aver preso forma quel regime e perciò se ne indaga da un lato il consenso popolare, e dall’altro le figure più note che lo caratterizzarono. C’è una certa attrazione morbosa per il male assoluto, ma anche la preoccupazione di non essere mai davvero al riparo da una simile sciagura». Per questo, conclude Brisard, «ho capito che la Storia non può essere lasciata all’Accademia, ma deve scendere in campo per condurre questa battaglia che guarda al futuro, raccontando il passato».
Repubblica 19.5.18
Lo scandalo pedofilia
La resa dei vescovi cileni
di Alberto Melloni


L’episcopato cileno ha preso una decisione senza precedenti: l’intera conferenza dei vescovi ha consegnato ieri a papa Francesco le proprie dimissioni. Un gesto clamoroso di auto- decapitazione di una chiesa, che segna una tappa drammatica nella vicenda che ha visto denunziare i crimini dei pedofili preti e l’omertà dei vescovi.
Esplosa un quarto di secolo fa, la crisi dei pedofili in talare ha visto cadere a fatica i tentativi di minimizzare la cosa o di ridurla a casi confinabili alla procedura penale canonica. È venuta poi la stagione della “vergogna” e della “tolleranza zero”, affidata alla voce ferma e alle capacità di empatia del papa: il che ha aiutato a scoperchiare un male, anche a rischio di dare ansa a denigrazioni, che ha colpito diocesi, ordini, movimenti. Solo in un caso, nel 2010, Ratzinger si scostò da questa linea scrivendo una lettera alla chiesa di Irlanda che aveva come tema la pedofilia. Fedele alla sua teologia, Benedetto XVI aveva indicato nella presunta cedevolezza della chiesa irlandese davanti alla secolarizzazione una delle ragioni di tanto vasta e inconfessata tragedia. Un atto di accusa collettivo giustamente duro, ma che puntava l’indice contro un episcopato che non si era nominato da solo, contro una chiesa che non aveva mai domandato l’indipendenza da Roma.
Recentemente la vicenda di un vescovo cileno ha riportato in discussione non solo il comportamento di singoli religiosi, ma di un’intera chiesa nazionale. Dove le violenze sessuali perpetrate da un religioso molto amato da preti e presuli — padre Fernando Karadima — erano state denunciate all’autorità ecclesiastica, che non aveva creduto alle vittime. Per le coperture e le sordità, era stato sostituito l’arcivescovo di Santiago; e Karadima fu condannato dalla giustizia canonica all’ergastolo canonico perpetuo.
Nel frattempo l’ombra si allungava sui suoi più intimi collaboratori: di uno di questi, monsignor Juan Barros — fatto vescovo da Giovanni Paolo II e trasferito da Francesco a Osorio nel 2015 — sono state chieste le dimissioni dalle vittime del prete-santone, che hanno accusato Barros di aver saputo o di aver assistito agli stupri. Francesco, convinto della sua innocenza, ha respinto le dimissioni offertegli da Barros e ha domandato di fornirgli “le prove”. Una richiesta che aveva sconvolto i sopravvissuti, che sanno benissimo che lo stupratore scommette sempre sulla certezza che nessuno crederà alla vittima.
Bacchettato dal cardinale O’Malley, resosi conto dell’errore, Francesco ha chiesto il perdono delle vittime, ha ascoltato gli esiti di un’inchiesta guidata da monsignor Scicluna, ha convocato i vescovi del Cile per un incontro singolare, a metà fra il processo e il ritiro, al termine del quale ha posto il nodo ecclesiologico della questione in una densa lettera piena di citazioni. Non è una chiesa più “rigida” o più “severa” o più “disciplinata” quella che può evitare i delitti che hanno devastato persone e comunità: ma, sostiene Francesco, solo una “ chiesa profetica” capace di rifiutare le “spiritualità narcisiste”, di liberarsi dalla autoreferenzialità chiesastica e di cercare la compagnia dei poveri.
Le dimissioni collettive sono state la risposta dei vescovi. Un gesto mai visto. Un autodafé con il quale un episcopato intero compie sì un atto di sottomissione al vangelo così come Francesco lo ha personalmente predicato, ma in parte anche un atto di sfida: perché potrebbe postulare una riconferma altrettanto massiva, salva la sanzione di coloro che fossero platealmente compromessi coi delitti. A Francesco il compito di decidere. Anzi discernere; la cosa che un gesuita fa più spesso in vita sua; un atto mai infallibile, mai sterile.
Il Papa spazza via i vescovi colpevoli del silenzio
Cile, dimissioni in blocco per aver coperto gli abusi sessuali. Primo passo della Santa Sede verso una nuova politica contro gli scandali
Il Papa spazza via i vescovi colpevoli del silenzio
di Guido Gazzoli


I 34 vescovi che formano la Conferenza episcopale cilena hanno presentato giovedì in blocco in Vaticano le loro dimissioni affinché Papa Francesco “possa decidere liberamente di ognuno di noi” . Questo dopo un incontro durato ben tre giorni con il Santo Padre, convocati a seguito dello scandalo di abusi sessuali che è stato il motivo principale del fallimento della visita di Bergoglio due mesi fa nel Paese andino.
Difatti dopo aver attaccato duramente quanti gli contestavano la convocazione di vescovi implicati nel caso alle funzioni ufficiali celebrate nell’evento, già durante il viaggio di ritorno a Roma il Papa aveva chiesto perdono alle vittime degli abusi, promettendo di indagare a fondo sulla questione. Anche perché le ripercussioni dello scandalo sono costate alla Chiesa la perdita di moltissimi fedeli.
Viene immediatamente inviata in Cile una commissione di inchiesta di cui fanno parte l’arcivescovo di Malta, monsignor Scicluna e il notaio ecclesiastico della dottrina della fede, monsignor Jorde Bartomeu, che alla fine delle loro indagini producono un documento di 2.300 pagine, contenente 66 interviste che in pratica confermano non solo la copertura degli abusi ma anche una serie di complicità e protezione di cui hanno goduto i responsabili , minimizzando le accuse e trasferendoli in altre diocesi nelle quali avevano un contatto quotidiano e diretto con minori. Insomma un rimedio peggiore del male.
I 4 vescovi che hanno presentato la loro rinuncia sono considerati discepoli di Padre Fernando Karadima, autore come altri degli abusi, e vengono accusati di aver coperto i crimini: primo fra tutti l’arcivescovo di Osorno Juan Barros, accusato di essere presente agli abusi, poi Horacio Venezuela, arcivescovo di Talca, Tomislav Koljatic, di arcivescovo di Linares e l’ausiliare Santiago Andrés Arteaga.
A seguito delle indagini Francesco ha prodotto una lettera, diffusa tre giorni fa, che costituisce non solo il più duro attacco prodotto dalla Chiesa nei confronti del fenomeno, ma promette sanzioni mai attuate in precedenza.
Fonti vaticane interpellate dal Fatto hanno confermato quanto la misura sia colma e soprattutto di come Bergoglio si sia sentito preso in giro da prelati di cui nutriva la più profonda fiducia.
Dopo il clamoroso gesto delle dimissioni di massa, Papa Francesco ha deciso di operare una profonda riforma nell’episcopato cileno, misura che, con ogni probabilità , comporterà l’allontanamento di altri 12 vescovi.
Il terremoto sulla questione, di cui secondo molti osservatori è ancora agli inizi, dovrà produrre un cambiamento non solo facendo riferimento e indagando su episodi simili accaduti in altri Paesi (ricordiamo che nel mondo occidentale un minore ogni 5 sarebbe vittima di abusi) ma anche instaurando una fattiva collaborazione tra la Chiesa e le varie organizzazioni create da vittime di questo fenomeno che chiedono a gran voce di poter unire le proprie forze per sconfiggere una piaga che investe non solo il clero ma la società intera.
Corriere 19.5.18
Hans Zollner, gesuita tedesco
«Fatto storico così vogliono andare alla radice»
G. G. V.


«È una cosa storica…». Padre Hans Zollner, gesuita tedesco, fa parte della Commissione vaticana contro la pedofilia ed è presidente del Centro di protezione dei minori della Gregoriana.
Perché storica, padre?
«Nella storia della Chiesa non era mai successo che un’intera conferenza episcopale rimettesse il proprio incarico nelle mani del Santo Padre. Non si tratta solo di una o più persone, ma di un’intera Chiesa locale che accetta la sfida per andare al fondo della questione».
Che cosa accadrà, ora?
«La cosa notevole è ciò che il Papa ha scritto ai vescovi: non basta rimuovere qualcuno, si tratta di andare a scoprire le radici».
Dice che il problema è «il sistema», denuncia elitismo e clericalismo...
«Coglie il legame logico che c’è tra questo tipo di mentalità e una “cultura” di copertura, di omertà, di autoprotezione».
E come si fa a cambiare?
«Si rimette tutto in discussione. Bisogna avere le persone adatte a guidare un sistema più evangelico e trasparente. Non si tratta solo di seguire le indicazioni della Santa Sede. Bisogna avere senso di responsabilità e giustizia nei confronti di tutta la società».
In concreto?
«Educazione, educazione, educazione. Conoscere la gravità dei crimini. Migliorare le condizioni di sicurezza dei bambini, allargare la rete di prevenzione e protezione. Porre sempre al primo posto le persone più vulnerabili. E quindi, anzitutto, ascoltare le vittime. Come ha fatto il Papa mandando monsignor Scicluna in Cile: è stato le sue orecchie, ha ascoltato 64 persone. E questo cambia le cose, l’atteggiamento».
C’è un problema di selezione nei seminari?
«Anche, ma non è il primo. Gli studi hanno dimostrato che i sacerdoti pedofili commettono i primi abusi, in media, a 39 anni. Gli altri pedofili, dagli insegnanti ai padri di famiglia, cominciano in media a 25».
E quindi?
«Una parte importante del problema è accompagnare i sacerdoti. I vescovi devono stare attenti allo stile di vita dei preti, non lasciarli soli».
Francesco ha ammesso di aver sbagliato…
«È l’atteggiamento di un uomo sincero e umile. Chi tra i leader politici chiederebbe scusa con tanta franchezza? Indica la sua volontà di andare a fondo, perché si è reso conto di essere stato ingannato dalle informazioni che ha ricevuto».
Corriere 19.5.18
Il caso dopo l’incontro con il papa
Lo scandalo abusi e l’ira del Papa: i vescovi cileni si dimettono in massa
Francesco: «Negligenze, perversioni e pressioni». Le vittime: non si torna indietro
Chiesa e pedofilia Si dimettono i vescovi del Cile
di Gian Guido Vecchi


«Tutti noi vescovi abbiamo rimesso i nostri incarichi nelle mani del Santo Padre». L’intera conferenza episcopale del Cile ha presentato al Papa la rinuncia. Ora sarà il Pontefice a stabilire se e chi confermare. La decisione è stata comunicata ieri. Francesco aveva concluso giovedì sera l’ultimo dei quattro incontri con i 34 vescovi convocati a Roma dopo lo scandalo pedofilia che ha travolto la Chiesa in Cile: insabbiamenti, coperture, vittime inascoltate e calunniate. Fin dal primo giorno i monsignori avevano dichiarato — anche perché non avevano scelta — di rimettersi in tutto e per tutto alle decisioni del Papa. Il gesuita Zollner: «Un fatto storico».

CITTÀ DEL VATICANO «Sono molto emozionato. Fa bene al nostro amato Paese, a tanta gente che ha sofferto per vescovi corrotti e falsi, a tutti i sopravvissuti ignorati nel mondo intero. Non si torna indietro. La storia è cambiata…». Juan Carlos Cruz, una delle vittime del prete pedofilo Fernando Karadima, lo aveva scritto su Twitter poco prima: «Che rinuncino tutti!». A fine aprile aveva parlato per tre ore con Francesco, «io voglio che nessuna vittima si senta più sola». Ed ora, a metà giornata, ci sono due vescovi cileni che nella sala Pio X sillabano un comunicato inaudito, alle spalle una riproduzione della Madonna di Guadalupe che schiaccia il Male: «Tutti noi vescovi presenti a Roma, per iscritto, abbiamo rimesso i nostri incarichi nelle mani del Santo Padre».
Francesco aveva concluso giovedì l’ultimo dei quattro incontri con i 34 vescovi convocati a Roma dopo lo scandalo pedofilia che ha travolto la Chiesa in Cile: insabbiamenti, vittime inascoltate e calunniate. Fin dal primo giorno i monsignori avevano dichiarato — anche perché non avevano scelta — di rimettersi alle decisioni del Papa. Sarà il pontefice a decidere se e chi confermare. Del resto, in una lettera riservata ai vescovi, Bergoglio parla di un problema che non si risolve «solo con la rimozione di persone, che pure bisogna fare»: non è che «muerto el perro se acabó la rabia» , la rabbia non finisce perché muore il cane, «il problema è il sistema».
In dieci cartelle, Francesco scrive di «negazione di ascolto e giustizia», denunce e «gravi indizi qualificati come inverosimili», «gravissime negligenze nella protezione dei bambini», sacerdoti «sospettati di praticare l’omosessualità» e messi alla guida di seminari, pedofili spostati e «accolti in altre diocesi», «documenti distrutti» per occultare prove, «pressioni» su chi doveva istruire processi. Una Chiesa «narcisistica e autoritaria», «elitarismo e clericalismo» come «sinonimi di perversione ecclesiale».
Tutto nasce dal caso Barros, il vescovo accusato di aver coperto Karadima, ora 87 anni, potente fin dagli anni della dittatura di Pinochet. In Cile, a gennaio, il Papa aveva difeso Barros: «Sono calunnie, per due volte ho respinto le sue dimissioni, non ci sono evidenze». Ma poi ha disposto un’indagine affidata in febbraio all’arcivescovo Charles Scicluna: 64 testimoni sentiti a Santiago del Cile, 2300 pagine. Prima dei vescovi, ha ricevuto le vittime. Cruz, James Hamilton e José Murillo hanno accusato in particolare i cardinali Ricardo Ezzati, arcivescovo di Santiago e Francisco Javier Errázuriz, l’emerito che fa parte del «C9» del Papa: «Sono criminali». Errázuriz non ha presentato rinuncia perché è in pensione e a Roma si è mostrato indignato, «mi diffamano, il Papa ha detto che l’ho informato bene».
Francesco tuttavia aveva chiesto perdono alle vittime e ammesso i suoi errori «specie per mancanza di informazioni veritiere ed equilibrate». È solo l’inizio. Marie Collins, la vittima che abbandonò polemica la Commissione vaticana, non si fida: «Nessun vescovo rimosso, solo disposti a dimettersi. Niente in realtà cambia».
La Stampa 19.5.18
I vescovi cileni si dimettono  dopo l’inchiesta
sulla pedofilia
di Andrea Tornielli


Non ci sono precedenti di decisioni simili nella storia della Chiesa: i vescovi di un’intera nazione, il Cile, si sono dimessi rimettendo il mandato nelle mani del Papa. È l’esito clamoroso avvenuto dopo i quattro incontri dei 34 pastori cileni, convocati in Vaticano dal Pontefice, per discutere dello scandalo degli abusi sui minori e delle coperture e insabbiamenti che li hanno accompagnati. Ciò non si significa che ora la Chiesa cilena non ha più vescovi in carica: per diventare effettiva, ogni rinuncia deve essere accettata da Francesco, che ora ha la possibilità di rinnovare un episcopato ammalato di clericalismo e autoreferenzialità, che fino all’ultimo è sembrato non comprendere la gravità di quanto accaduto e il discredito per una Chiesa un tempo popolarissima per il suo coraggio contro la dittatura.
«Chiediamo perdono»
«Vogliamo chiedere perdono per il dolore causato alle vittime, al Papa al popolo di Dio e al nostro paese per i nostri gravi errori e omissioni commesse», hanno scritto i vescovi cileni. «Per iscritto abbiamo rimesso i nostri incarichi nelle mani del Santo Padre – hanno dichiarato - perché decida liberamente per ciascuno di noi». A ciascuno dei 34 vescovi, chiamati a Roma per un ritiro spirituale, era stato consegnato dal Papa un documento riservato molto duro, di dieci cartelle, con l’esito documentato dell’inchiesta dei mesi scorsi su mandato di Francesco dall’arcivescovo maltese Charles Scicluna. Ne è emerso un quadro impietoso, di una Chiesa da decenni non più vicina al popolo, e di superiori più interessati a salvare se stessi che a pensare alle vittime.
Questi i punti più gravi segnalati nel documento del Pontefice, non destinato alla pubblicazione ma reso noto dal canale cileno TV13: in primo luogo, una situazione così grave da non poter essere risolta semplicemente «con la rimozione» di alcuni vescovi, perché è ormai «un sistema». Le evidenze sul fatto che i casi di abuso sessuale su minori, abuso di coscienza e di potere, sono stati coperti e insabbiati, i colpevoli trasferiti e rimessi a contatto con bambini. Sono state anche fatte pressioni indebite su chi indagava e si sono distrutti documenti. Il fatto che i vescovi non hanno accolto e assistito le vittime denuncianti: non hanno creduto loro bollando come «inverosimili» accuse tremende poi risultate fondate.
il manifesto 19.5.18
Venezuela al voto, Maduro sfida gli Usa e l’astensione
Domenica la sfida presidenziale. Il presidente «Nico» insidiato dall'ex chavista Henri Falcón. Le opposizioni riunite nella Mud boicottano le urne. In agguato Casa bianca e destre latinoamericane
di Roberto Livi


Gli ultimi a esprimersi per la sospensione delle presidenziali in Venezuela – per «mancanza di garanzie democratiche» – sono stati all’inizio della settimana i vescovi venezuelani. Prima di loro mezzo mondo lo aveva già fatto. L’Occidente – Usa, Ue , destre latinoamericane, ovvero quello che conta e che pretende di mantenere il «suo» ordine – le ha bollate con un marchio di fuoco: «Sono una farsa, una frode».
Nonostante il fuoco di sbarramento internazionale e un’opposizione trincerata sulla linea del boicottaggio, domenica avranno luogo le elezioni presidenziali anticipate. 22 milioni di venezuelani sono chiamati alle urne per decidere chi tra i candidati che sono in lizza – l’attuale presidente Nicolás Maduro in rappresentanza di dieci formazioni riunite nel Fronte amplio della patria, l’ex governatore dello stato di Lara, Henri Falcón (sostenuto da quattro partiti), l’ex pastore presbiteriano Javier Bertucci e l’indipendente Reinaldo Quijada – sarà il prossimo capo di Stato.
Chiusura della campagna elettorale in Venezuela di Henri Falcón a Barquisimeto (foto Afp)
I candidati hanno concluso le rispettive campagne elettorali mercoledì e giovedi. Falcón e Bertucci, entrambi di fronte a una grande folla di sostenitori, hanno esposto i loro programmi sui temi più urgenti in un paese che negli ultimi anni vive in una grave crisi politico-economica e sociale: riconciliazione di tutti i venezuelani, trattative internazionali – specie con gli Usa – per mettere fine alle sanzioni anti governo bolivariano, ricostruire l’economia (il primo con una dollarizzazione). Quijada ha chiuso come in pratica ha condotto la sua campagna: con tweet insistenti sulla crisi morale del Venezuela.
Maduro – dopo aver girato tutto il paese – ha chiuso la sua campagna a Caracas con un gran bagno di folla – otto avenidas della capitale sono state bloccate per contenere i partecipanti. Il suo programma coincide col Plan del Patria 2025, con quattro priorità: il 100% di scolarizzazione (pubblica), raggiungere i cinque milioni di case consegnate ai cittadini dalla Missione casa, rafforzare il Carnet de la Patria per assicurare cibo alla popolazione con prezzi calmierati e «mantenere in marcia la rivoluzione economica» per far fronte «alla guerra economico-finanziaria internazionale».
Due delle più note società di indagine sociale – Ics e Consultores 30.11- danno Maduro in testa (59% e 48,4%) su Falcón (24,45% e 36,3%) e Bertucci (16,2% e 11,7%). Una terza, Datanálisis, dava Falcón di poco avanti a Maduro. Ma «data l’atipicità di queste elezioni, con l’opposizione assente, è difficile fare previsioni accurate».
Grandi folle in camicia rossa – simbolo della rivoluzione bolivariana – che inneggiano al presidente «Nico» (Maduro) e alla continuità del chavismo e foto di cittadini massacrati da un’inflazione a cinque cifre che frugano nell’immondizia per recuperare qualcosa da mangiare. O che fanno la fila al confine col Brasile o la Colombia per lasciare il paese. Due immagini antitetiche e manichee del Venezuela. L’una mostrata dalla tv progovernativa Telesur le altre dai mass media di mezzo mondo oltre che dall’opposizione interna. Riflesso di due politiche – il socialismo del XXI secolo inaugurato dall’ex presidente Chávez e il neoliberismo professato dai vari gruppi dell’opposizione riuniti nella Mud – che sono schierate l’un contro l’altra armate (specie la seconda). E che non sono intenzionate a trovare – ammesso sia possibile – una mediazione. Così, Il probabile successo di Maduro non avrà il riconoscimento del fronte di opposizione Mud e dunque di gran parte dell’America latina oltre che dell’Europa e degli Stati uniti.
L’Amministrazione Trump, dove ai posti di comando sono ex – o attuali – uomini (e donne) della Cia, ha già delegato a Juan Cruz – responsabile della sicurezza per l’Emisfero occidentale – e al suo sponsor nel Congresso, il senatore cubanoamericano Marco Rubio, di tracciare una politica chiaramente intenzionata a cambiare il governo di Caracas. Con maggiori sanzioni e con un intervento diretto – anche militare – in Venezuela. «Dovremo turarci il naso. E trattare con chi preferiremmo castigare» ha affermato l’ex agente Cruz. In chiaro, cercare una sponda tra i militari venezuelani per abbattere Maduro.
L’attuale presidente sembra avere solo una possibilità di costruire un governo abbastanza forte per affrontare l’aggressività di Trump e l’ostilità delle destre latinoamericane e dell’Ue: un’alta affluenza alle urne, ovvero attorno al 70%. Per questa ragione il presidente ha insistito in tutta la sua campagna soprattutto sul tasto della partecipazione al voto: «Scegliete chi volete, ma votate» è stato il refrain di Maduro.
Dall’altro lato l’opposizione ha lanciato un forte campagna per l’astensione e l’Occidente si è detto intenzionato a non riconoscere i risultati dell’«elezione truffa». Se l’astensione raggiungerà –o supererà- il 40% come pronostica l’opposizione per Maduro si annuncia una vittoria di Pirro. Se invece –come affermano le previsioni delle tre società di indagine- l’affluenza supererà il 67% l’attuale presidente potrà, in caso di vittoria, a buona ragione sostenere di fronte al mondo la «legittimità» del suo nuovo mandato. E prepararsi all’offensiva degli Usa e alleati. Come afferma lo scrittore venezuelano Roberto Duque. «Il 20 maggio eleggeremo la possibilità di costruire un altro mondo e un’altra forma di navigare negli incendi della storia (perché è un incendio quello che ci aspetta)».
Repubblica 19.5.18
La mobilitazione degli ultraconservatori
Il network anti-aborto
di Maria Novella De Luca


Di certo i partecipanti non saranno “centomila, tanti quanti gli aborti eseguiti ogni anno in Italia” come invece auspicherebbero (gonfiando le cifre) gli organizzatori pro-life della “Marcia per la vita”, Eppure questa edizione 2018 che precede di tre giorni l’anniversario dell’approvazione della legge sull’aborto — era il 22 maggio del 1978, quarant’anni fa — ha un significato che va ben al di là della manciata di attivisti che oggi sfileranno per le strade di Roma. Con tutto il corollario grottesco di croci, stendardi, immagini di feti uccisi e gigantografie di gravidanze avanzate con scritte shock come quelle apparse ( e spesso rimosse) ovunque in Italia. La novità è che l’anniversario della 194 non soltanto ha inasprito i toni dei movimenti antiabortisti, ma ha svelato l’esistenza, anche nel nostro paese, di un vero e proprio network di organizzazioni ultraconservatrici decise a “ripristinare l’ordine naturale” della famiglia.
Un network mondiale però, i cui obiettivi, alcuni dichiarati altri segreti, sono la lotta senza quartiere non soltanto all’aborto, ma anche al divorzio, alle tecniche di riproduzione assistita, all’eutanasia, al testamento biologico e naturalmente alle unioni civili ma soprattutto alle “ famiglie gay”, viste come l’attacco più violento all’”ordine naturale”. Chi sono? Alcuni gruppi sono noti, il “Comitato difendiamo i nostri figli” di Massimo Gandolfini o “Generazione Famiglia”, “Manif pour tous” o la onlus “ Pro Vita” di Toni Brandi, che vanta stretta amicizia con il leader di Forza Nuova, Roberto Fiore. Da poco è sbarcata da noi l’agguerritissima “Citizengo” ricca multinazionale prolife, fondata in Spagna da Ignacio Arsuaga, nipote di un generale franchista, il cui portavoce italiano è Filippo Savarese. Dietro di loro il “ Movimento per la vita”, l’armata bianca del “Cammino catecumenale” fondato da Kiko Arguello e tutta la galassia dei cattolici italiani integralisti. C’è un disegno assai più vasto. Gli esponenti di questi movimenti, i cui fari sono Orbán, Putin e Trump, si riuniscono ciclicamente in consessi internazionali in cui mettono a punto strategie concordate per “ ripristinare l’ordine naturale” della famiglia. Agendo come falangi organizzate ovunque ce ne sia bisogno. Basta pensare alle storie del piccolo Charlie Gard o Alfie Evans, bambini condannati da malattie atroci e per i quali l’Inghilterra aveva deciso di interrompere le cure. Nel caso di Alfie, tra gli altri, a orchestrare il “climax” emotivo sul destino del piccolo, c’erano gli italiani di ProVita. Esiste in particolare un progetto, “Agenda Europa” rivelato da un libro bianco scritto da Neil Datta, segretario dell’Eppf, (European Parlamentary Forum on Population and Development). “Agenda Europa” di cui fa parte l’Udc Luca Volontè, è esattamente un network di associazioni integraliste, appoggiato dai movimenti di estrema destra, in Italia come in Ungheria, in Russia, in Polonia.
La strategia di “ Agenda Europa”, mira pubblicamente a fare “ lobby contro il genocidio dell’aborto, l’eutanasia, le famiglie omosessuali dove le vere vittime sono i bambini”. In termini concreti, il sogno di queste organizzazioni teocon, ( i cui estremisti negli States uccidevano i medici abortisti), foraggiate da oligarchi e finanzieri ultracattolici, è quello di abolire, prima di tutto, l’interruzione di gravidanza legale. Alcuni loro esponenti sono oggi in Parlamento, Simone Pillon eletto con la Lega, ma possono contare sul sostegno di Fratelli d’Italia e di un pezzo di Forza Italia. Considerano un successo la nuova legge polacca che ha quasi reso l’aborto illegale, puntano al fallimento del referendum in Irlanda. Adesso mirano all’Italia, culla della Chiesa sì, ma “pericolosamente” aperta oggi ai diritti civili. E dove la legge 194 è comunque ancora ben salda seppure assai male applicata.
il manifesto 19.5.18
In Austria il raduno degli ustascia
Diecimila fascisti croati si incontrano in Carinzia per ricordare l’uccisione di 45 mila filo-nazisti da parte dei partigiani avvenuta nel 1945. E le autorità austriache fingono di non vedere
di Angela Mayr


Una valle verde placida, il Loibacher Feld adiacente a Bleiburg-Pliberk a dieci chilometri dal confine sloveno in Carinzia. Lì in mezzo agli abeti una roccia di commemorazione che richiama ogni anno in pellegrinaggio in Austria migliaia di croati. Per una celebrazione religiosa in memoria dei caduti, così recita la versione ufficiale. E’ noto invece che si tratta di ben altro, di un raduno fascista con tanto di bandiere e simboli apertamente esibiti. Un incontro cresciuto negli anni diventando il più grande raduno di questo genere in Europa. Rivelatrice la stessa roccia commemorativa, con la scritta in due lingue: reca la data 1945, in croato glorifica l’esercito, vale a dire gli ustascia alleati dei nazisti mentre la traduzione tedesca, volutamente non fedele rievoca solo i caduti croati, persone dunque e non organizzazioni, evitando così di violare la legge austriaca che vieta la celebrazione del nazismo e l’esibizione di suoi simboli.
Ciò nonostante ogni anno fin dal 1951 in forme sempre più esplicite e vistose si celebrano a Bleiburg le milizie croate che come si sa non sono state seconde ai nazisti come crudeltà e crimini contro l’umanità. Le autorità austriache che hanno sempre guardato dall’altra parte si sono giustificate sostenendo che la simbologia croata non è vietata dalla legge. Quest’anno però il raduno di Bleiburg è stato oggetto di forti polemiche. Tre parlamentari europei austriaci, il socialdemocratico Josef Weidenholzer , Othmar Karas del partito popolare e Angelika Mlinar dei Neos hanno chiesto una legge europea di divieto della propaganda fascista e nazista. Il governatore della Carinzia Peter Kaiser si è detto contrario alla manifestazione ma impossibilitato a vietarla, così il sindaco di Bleiburg entrambi socialdemocratici. La manifestazione si svolge su un terreno privato del «Bleiburger Ehrenzug» – corteo d’onore di Bleiburg organizzatore insieme alla chiesa cattolica croata dell’evento che ha bisogno solo, pare, dell’autorizzazione del clero che è stato concesso dalla diocesi di Gurk (e che solo la chiesa di Roma avrebbe il potere di censurare). Stavolta imponendo ai partecipanti condizioni più rigide: niente divise, canzoni bandiere e distintivi degli ustascia, niente gazebo che vendono simboli nazisti, niente discorsi politici, niente alcool.
Non è servito a molto. Sabato scorso sono arrivati in 10mila di ogni età dalla Croazia, emigrati dalla Germania, veterani della guerra nella ex Jugoslavia degli anni 90. Circa la metà degli autobus erano di croati dalla Bosnia Herzegovina. Ingente presenza di polizia, un magistrato sul campo, telecamere diffuse. Sette gli arresti, nove le denunce per violazione della legge di divieto di riorganizzazione nazista. Le violazioni però sono state di massa come hanno documentato il quotidiano viennese der standard e numerosi siti con tanto di foto come no-ustasa.at che fornisce anche dettagliata informazione sul revisionismo storico croato. Magliette col ritratto di Ante Pavlevic, capo dello stato fantoccio croato Ndh filonazista, bandiere a scacchiera bianco rosso, quella degli ustascia, magliette con la scritta Hos (forza di difesa croata, ala paramilitare del partito croato dei diritti durante la guerra degli anni 90). Presenti alla cerimonia sul Loibacher Feld il presidente del parlamento croato Goran Jamdrokovic, (il suo predecessore aveva tolto il patrocinio rifiutando l’invito al «party degli ustascia») i ministri della difesa e delle proprietà statali.
Nel 1945 a fine guerra le milizie ustascia inquadrate nella tredicesima divisione di montagna della SS fuggirono verso la Carinzia per non essere catturati dai partigiani, con l’intento di arrendersi agli inglesi alcuni, altri combattendo fino all’ultimo. Gli inglesi stazionati in Carinzia li consegnarano ai partigiani dell’esercito jugoslavo. A migliaia allora sulla strada del ritorno furono giustiziati, secondo lo storico croato Slavko Goldstein si tratta di circa 45mila persone. Bleiberg è diventato così il simbolo del massacro, della «via crucis croata», rimuovendo il fatto che le vittime non erano civili comuni ma massacratori. Infatti Zelimir Puljic arcivescovo di Zadar che patrocina dal 2003 la manifestazione di Bleiburg nel suo discorso non fa nessun cenno ai crimini nazisti, come se la storia iniziasse nel 1945. Non stupisce, nel dibattito croato sull’uso pubblico del saluto fascista «Za dom spremni», per la patria pronti, Puljic ha difeso il diritto dell’esercito croato di poterlo usare. Una lapide con inciso «Za dom spremni» era stato affisso persino in un luogo come Jasenovac – in seguito rimosso- dove gli ustascia croati crearono e gestirono un campo di sterminio, l’unico non gestito da tedeschi o austriaci. Lì uccisero tra 80-100mila persone, a maggioranza ebrei e serbi come documenta uno studio presentato inizio maggio a Zagabria. Globalmente, secondo fonti americane gli ustascia avrebbero assassinate tra le 700-800mila persone a maggioranza serbi.
«Za dom spremni» sabato campeggiava ovunque, leggermente modificato, solo «za dom», per la patria, o solo le iniziali zds per evadere la legge di divieto. Per la prima volta quest’anno vi è stato anche una contro manifestazione. Circa 150 attivisti antifascisti da Austria, Croazia, Slovenia e Italia (Antonia Romana di transform Italia) hanno creato una preziosa rete.
La Stampa 19.5.18
La polizia insegue un furgone di migranti
Uccisa una bimba
di Emanuele Bonini


Tanti punti oscuri e poche, pochissime, certezze che scuotono il Belgio. La morte di una bambina di due anni di origini curde tutta da chiarire, il timore che le forze dell’ordine possano aver commesso errori, due ministri del governo federale a cui sono state chieste pubbliche dimissioni. Il dibattito sull’immigrazione si riaccende dopo un’operazione della polizia sulle autostrade belghe finita come peggio non si potrebbe, e che rischia di agitare gli animi degli altri Paesi dell’Ue, divisi da sempre su un tema politicamente scottante.
L’ultimo viaggio di Mawda
Mawda, tre anni ancora da compiere, un viaggio in un furgone stipato di rifugiati alla ricerca di nuove prospettive in Europa. Le trenta persone a bordo del mezzo però non sono in regola. Lo sa bene chi è alla guida, che forza il check point organizzato sull’autostrada E42, all’altezza di Mons, città a sud del Belgio. Ne nasce un inseguimento dall’esito tragico. Mawda rimane ferita e muore durante il trasporto all’ospedale per un pallottola che l’ha colpita in pieno volto.
L’autopsia smentisce il sostituto procuratore di Mons, Frederic Bariseu, che all’inizio esclude errori da parte delle forze dell’ordine. Il responso medico mette sul piede di guerra le associazioni per i diritti civili, che accusano la polizia per un uso «sproporzionato» della forza. Manifestazioni sono organizzate a Mons e Bruxelles per chiedere le dimissioni di Jan Jambon e Theo Francken, i ministri degli Interni e per l’Asilo del Belgio, entrambi esponenti del partito fiammingo N-Va che fa parte della coalizione di governo. Per il primo ministro, il liberale Charles Michel, chiedere ai due di farsi da parte potrebbe voler dire il rischio di una crisi di governo, che il premier vuole ovviamente evitare.
Il Paese prende tempo. Dopo gli esiti dell’autopsia, riconosce il sostituto procuratore di Mons, c’è da capire «chi ha sparato, se solo la polizia o se invece c’è stato uno scontro a fuoco» con chi trasportava i migranti, provenienti dalla Germania. Al vaglio degli inquirenti anche l’ipotesi che la piccola Mawda possa essere stata usata come scudo umano. Il comitato permanente di controllo dei servizi di polizia ha aperto un’inchiesta. I partiti di opposizione non aspettano ad attaccare il governo. Per la co-presidente dell’Ecolo (i Verdi), Zakia Khattabi, «lo slogan di una politica ferma e umana sull’immigrazione non regge più».
il manifesto 19.5.18
La polizia spara su furgone, uccisa bimba rifugiata

Ventiquattr’ore dopo la sparatoria che ieri in Belgio ha coinvolto pattuglie della polizia e un furgone di migranti, emergono i primi elementi: Mawda, la bambina di due anni curdo-irachena morta giovedì mattina, è stata colpita al volto da una pallottola.
Tutto è cominciato all’alba di giovedì: un furgone, con a bordo trenta migranti – tra cui la famiglia della piccola e altri due bambini – è stato intercettato dalla polizia belga nel sud del paese. Un inseguimento cominciato sull’autostrada E42, vicino a Namur, dopo il mancato stop all’alt intimato dagli agenti, e terminato a Mons, per una collisione con un altro veicolo. In un primo momento la morte della piccola era stata attribuita dalle autorità locali a un trauma cranico. Così non è: Mawda è stata centrata al volto da un proiettile.
«L’autopsia ha determinato che la causa della morte è stata una pallottola entrata nella guancia», ha detto ieri alla stampa il sostituto procuratore di Mons, Frederic Bariseau. Che aggiunge: «Voglio essere cauto sul fatto che il proiettile provenisse dalla polizia – ha detto Bariseau – Dobbiamo confrontare i risultati, un’inchiesta è stata aperta dall’organo di controllo della polizia belga su richiesta del giudice».
La polizia, da parte sua, non dà elementi in più e non indica responsabilità da parte di uno dei suoi agenti. Di certo si sa solo che i poliziotti hanno trovato nel furgone 26 adulti, tre bambini e Mawda, in fin di vita. Viaggiava sul retro del veicolo, con i genitori e il fratellino di tre anni, tutti illesi. È morta in ambulanza.
Qualcosa emerge da testimonianze anonime: la polizia ha aperto il fuoco per fermare la corsa del veicolo. Diversamente, sarebbe difficile spiegare la morte della piccola. E se è stata aperta un’inchiesta, per ora a finire in manette sono stati i migranti presenti a bordo, accusati di immigrazione clandestina. Al momento si trovano in una stazione di polizia sotto interrogatorio.
Secondo altre fonti, migranti residenti nella zona che conoscevano la famiglia, i due genitori con i figli erano fuggiti dal Kurdistan iracheno e da poco erano stati deportati dalle autorità di Bruxelles in Germania. Erano però riusciti a rientrare in Belgio nel tentativo di raggiungere la Gran Bretagna.
Il furgone, aggiungono, stava trasportando altri migranti, tutti in cerca di una via di fuga fuori dal territorio belga e probabilmente verso quello britannico, meta di tantissimi richiedenti asilo che di fronte si trovano i muri eretti dal Trattato di Dublino. Che ora sconta l’ennesima morte violenta in Europa di un richiedente asilo. «Un tragico evento con conseguenze drammatiche», il conciso tweet che il ministro dell’Interno di Bruxelles, Jan Jambon, ha dedicato alla morte della piccola Mawda.
«Jambon difende la sua polizia. Prova empatia verso le vittime, ma anche per i poliziotti che hanno fatto il proprio lavoro», ha aggiunto il suo portavoce. Ma nel paese crescono le polemiche: una manifestazione di protesta si è tenuta fuori dal ministero dell’Interno.
il manifesto 19.5.18
Richard Falk: «Un massacro per dire ai palestinesi: la vostra è una resistenza impossibile»
Gaza. Intervista al giurista ed ex relatore speciale delle Nazioni unite: «Tel Aviv vuole convincere il mondo che non esista una soluzione. Ma i popoli ora sanno che la resistenza popolare può supplire all’inferiorità militare: dalla loro parte hanno la superiorità morale e un fine più alto, l’autodeterminazione»
di Chiara Cruciati


La brutalità della risposta israeliana alla Marcia del Ritorno palestinese di Gaza ha generato uno sdegno che non si vedeva da tempo. Centinaia di manifestazioni in tutto il mondo e inusuali condanne da parte di molti governi. La Lega Araba si è risvegliata dal torpore e chiesto un’indagine internazionale; il Consiglio per i diritti umani dell’Onu ha votato per il lancio di un’inchiesta.
Ne abbiamo discusso con Richard Falk, professore emerito di diritto internazionale alla Princeton University e dal 2008 al 2014 relatore speciale per le Nazioni unite sulla questione palestinese.
In un suo articolo, scritto dopo la strage di Gaza di lunedì scorso, parla di un «nuovo livello di degradazione morale, politica e legale» israeliana. Un “salto di qualità” nell’uso della forza?
Siamo di fronte a un nuovo livello di quella che chiamo alienazione morale, visibile nella normalizzazione dell’uccisione a sangue freddo di manifestanti disarmati, senza nemmeno tentare di usare metodi alternativi per la messa in sicurezza dei confini. Quello di Gaza ha i contorni di un massacro calcolato, confermato dalle dichiarazioni della leadership israeliana. Parte dello sviluppo di questa alienazione morale è la luce verde data dalla presidenza Trump: qualsiasi cosa Israele voglia fare, può farlo. Sono due le dimensioni del massacro: la motivazione interna israeliana nell’affrontare la questione palestinese e la tolleranza esterna. Richard Falk
Dice massacro calcolato: qual è l’obiettivo politico?
Le ragioni ufficiali, Hamas e la sicurezza dei confini, non sono quelle reali. Quello che Israele vuol fare è convincere i palestinesi di essere impegnati in una resistenza impossibile. E mandare un messaggio all’Iran e agli altri avversari nella regione: Israele non ha limiti nell’uso della forza, questa sarà la reazione verso chiunque.
La legalità internazionale esiste ancora?
Le regole ci sono, quel che manca è la volontà politica di applicarle. Oggi prevalgono i fattori geopolitici. La questione palestinese è l’esempio più ovvio di questo «veto geopolitico», che annulla qualsiasi sforzo di far rispettare la legalità internazionale e di prendere misure nel caso di violazioni. A ciò si aggiunge un altro elemento: Israele sta provando a far passare l’idea che i palestinesi hanno perso la battaglia della soluzione politica e che dunque non c’è ragione di usare strumenti politici per proteggerli dalle politiche israeliane. Israele vuole convincere il mondo che questo tipo di lotta non abbia più significato e valore. La conseguenza è visibile: il veto geopolitico protegge Israele e lega le mani all’Onu, incapace di offrire protezione. Così si indebolisce l’intero sistema.
È dunque esercizio futile pensare a procedimenti legali per i crimini commessi da Israele?
Il diritto penale internazionale è sempre stato un sistema imperfetto perché non si applica agli Stati che godono di un certo livello di impunità. Dopo la seconda guerra mondiale, i tribunali di Norimberga e Tokyo giudicarono solo i crimini commessi dagli sconfitti, non quelli commessi dai vincitori, penso alle atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Quei crimini non furono perseguiti, ma «legalizzati»: l’atomica si è tradotta nella proliferazione di armi nucleari. La struttura del diritto penale internazionale si basa su un doppio standard che si esprime sul piano istituzionale nel potere di veto riconosciuto ai vincitori della guerra, veto che li esenta dall’obbligo di rispondere delle proprie azioni e che si estende ai paesi amici.
Possiamo chiederci da cosa derivi l’impunità israeliana attuale: da una parte dai paesi arabi preoccupati da quella che percepiscono come la minaccia iraniana e che li spinge a normalizzare i rapporti con Israele; dall’altra dall’amministrazione Usa che sta ringraziando i sostenitori interni della campagna di Trump. Su questi altari si sacrifica la visione degli ebrei liberali che vogliono una soluzione politica.
Lei ha spesso parlato di regime di apartheid, nei Territori Occupati ma anche dentro Israele. Un sistema unico: il palestinese è discriminato ovunque si trovi (che risieda nei Territori o sia cittadino israeliano), l’israeliano gode di privilegi ovunque esso viva, a Tel Aviv come in una colonia.
Il cuore del conflitto non è la terra, ma i popoli. L’intera idea di uno Stato ebraico implica lo svuotamento della Palestina storica dai non ebrei. Ma a differenza del Sudafrica, Israele intende anche porsi come democrazia. L’apartheid israeliana, dunque, non passa per la negazione della cittadinanza ai palestinesi che vivono nel territorio dello Stato, ma in una serie di leggi che distinguono tra chi è ebreo e chi non lo è, dal diritto al ritorno fino alla proprietà della terra. A ciò si aggiunge l’elemento della frammentazione del popolo palestinese: l’apartheid passa per la divisione dei palestinesi in territori separati e dunque in diversi status giuridici.
Vede all’orizzonte un cambiamento positivo? L’ultimo secolo ha dimostrato che l’impossibile a volte è possibile. Penso alla fine dell’apartheid in Sudafrica o più recentemente alle primavere arabe. Lì a prevalere non sono state le parti più forti ma quelle deboli. Dopo l’epoca coloniale una delle trasformazioni a cui abbiamo assistito è la ridefinizione dei rapporti di forza: non sempre la forza militare vince su quella politica. Pensate al Vietnam. I popoli hanno imparato che la resistenza popolare può supplire all’inferiorità militare perché dalla loro parte hanno la superiorità morale e la capacità di elaborare le perdite per un fine più alto, l’autodeterminazione. Condividi:
Facebook Google+ LinkedIn Twitter Email
Scarica in: Pdf ePub mobi
il manifesto 19.5.18
Consiglio Diritti Umani: subito inchiesta su strage a Gaza
Striscia di Gaza. La risoluzione, contro la quale hanno votato solo Usa e Australia, è stata respinta da Israele. Anche l'Organizzazione della conferenza islamica condanna Washington e Tel Aviv. Ieri proteste meno intense al venerdì della Marcia del Ritorno, forse per una intesa tra Hamas ed Egitto
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ieri ha dato via libera a una ‎commissione d’inchiesta chiamata ad indagare sulle uccisioni di oltre cento ‎palestinesi compiute dal 30 marzo dall’esercito israeliano sulle linee tra Gaza e ‎Israele e sulle violazioni dei diritti umani nei Territori occupati. Ad approvarla sono ‎stati 29 dei 47 Paesi membri. Scontato il voto contrario degli Stati uniti così come ‎quello dell’Australia uno dei Paesi più allineati alla politica di Washington in Medio ‎oriente. Quattordici le astensioni, due Paesi erano assenti al momento del voto. ‎Rabbiosa la reazione di Israele. ‎«Nulla di nuovo sotto il sole. L’organismo che si ‎autodefinisce Consiglio dei diritti umani ha di nuovo dato prova di sè come ‎organizzazione ipocrita e deplorevole il cui unico obiettivo è attaccare Israele e ‎sostenere il terrorismo», ha commentato Benyamin Netanyahu. Il voto è giunto ‎mentre alcune migliaia di palestinesi hanno di nuovo raggiunto le linee di ‎demarcazione con Israele per il “Venerdì dei martiri” della Grande Marcia del ‎Ritorno. Le proteste sono state meno intense e partecipate del solito, in ogni caso ‎ieri sera si parlava di alcune decine di palestinesi feriti dai proieittili e dai ‎lacrimogeni sparati dai soldati israeliani.‎
 È dura l’accusa lanciata ieri dall’Alto commissario per i diritti umani, Zeid Raad ‎al Hussein, in apertura della sessione del Consiglio. Israele ha ‎«ingabbiato 1,9 ‎milioni di abitanti nella Striscia di Gaza in una baraccopoli tossica dalla nascita alla ‎morte‎», ha denunciato. L’inviata israeliana a Ginevra, Aviva Raz Shechter, ha ‎replicato accusando i Paesi membri di voler ‎«potenziare Hamas e premiare la sua ‎strategia terroristica‎». Secondo la diplomatica, Israele avrebbe addirittura fatto ‎«uno ‎sforzo reale per evitare le vittime tra i civili palestinesi‎». Due giorni fa il ministro ‎della difesa Lieberman, anticipando il voto a Ginevra, aveva chiesto l’uscita del suo ‎Paese dal Consiglio Onu – dimenticando che Israele non ne fa parte – e sollecitato ‎gli Stati uniti a fare altrettanto, come è avvenuto con l’Unesco. Una condanna ‎esplicita di Israele e Usa, per i morti di Gaza e per il trasferismento dell’ambasciata ‎Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, è stata pronunciata anche a Istanbul dove ieri si è ‎svolta una riunione straordinaria dei 57 Paesi dell’Organizzazione per la ‎cooperazione islamica (Oci) convocata dal presidente turco Erdogan che nel suo ‎discorso ha detto che ‎«Gerusalemme non può essere lasciata nelle mani sporche di ‎sangue dello Stato terrorista di Israele». L’Oci ed Erdogan, almeno nei toni, sono ‎stati più duri della Lega araba che due giorni fa al Cairo ha condannato la decisione ‎degli Usa di spostare l’ambasciata a Gerusalemme ma non ha accolto la richiesta ‎palestinese per il richiamo in patria degli ambasciatori arabi a Washington.
 I limitati “successi” diplomatici ottenuti dai palestinesi non bloccano la Marcia ‎del Ritorno. Si fanno però insistenti le voci di un accordo non scritto tra Hamas e ‎l’Egitto per affievolire le proteste lungo le barriere con Israele, malgrado il leader ‎del movimento islamico, Ismail Haniyeh, abbia smentito qualsiasi intesa con il ‎Cairo e promesso che le manifestazioni continueranno. ‎«Andremo tutti, e io prima ‎di voi, al confine di Gaza. Le marce non si fermeranno sino a quando l’assedio non ‎sarà completamente rimoss‎o», ha proclamato ieri durante un sermone. Gli abitanti ‎di Gaza comunque hanno compreso che l’improvvisa generosità del presidente ‎egiziano Abdel Fattah al-Sisi, che terrà aperto per tutto il mese del Ramadan il ‎valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto – l’anno scorso in totale è rimasto aperto solo ‎per 35 giorni – è una contropartita per l’ammorbidimento delle proteste. Ne scriveva ‎ieri anche il sempre ben informato giornale libanese al Akhbar, secondo il quale ‎l’accordo prevede il divieto di sfondare la barriera di separazione e di azioni armate, ‎in cambio di aiuti umanitari. Hamas, aggiungeva al Akhbar, avrebbe accettato di far ‎partecipare alle manifestazioni un numero minore di persone e di diminuire i punti ‎di maggior frizione con i soldati israeliani. L’Egitto da parte sua si impegnerà per ‎ottenere uno scambio di prigionieri tra Israele e Hamas. ‎