sabato 8 settembre 2007

Repubblica 8.9.07
Gianrico Carofiglio, scrittore e magistrato antimafia: "Raptus psicotici"
"Uccidono e dimenticano ecco le mamme killer"
di Giuliano Foschini


I protagonisti di questa storia sono tutti belli: per questo c´è tanta attenzione dei media europei

BARI - Non lo dice da scrittore. Ma da magistrato. «Una mamma può uccidere il proprio figlio. Lo provano le statistiche, gli studi dei criminologi, il lavoro degli investigatori». Gianrico Carofiglio dopo anni passati da pubblico ministero alla Dda di Bari, oggi è consulente della commissione parlamentare antimafia. È soprattutto lo scrittore italiano del momento: tre romanzi in classifica, il 15 settembre sarà in libreria il suo ultimo lavoro "Cacciatori nelle tenebre" (Rizzoli), un graphic novel (qualcosa di più di un fumetto) realizzato insieme con suo fratello Francesco. Si racconta di bambini scomparsi e di un gruppo di investigatori cocciuti che li inseguono.
«I bambini sono sempre più protagonisti di casi atroci di cronaca. La storia di Maddie e dei suoi genitori la conosco per quello che ha raccontato la stampa, difficile dare giudizi. Suona un po´ strano che una bambina scompare, scatti una caccia all´uomo di quelle dimensioni e né salti fuori uno squilibrato che la rilasci. E né si scopra il corpo. È già successo, penso a Denise Pipitone o ad Angela Celentano. Ma si tratta di un´anomalia».
La polizia portoghese sospetta che i genitori non volessero uccidere la bambina. Ma soltanto sedarla.
«Dare dei tranquillanti a una bambina è un atto di aggressività soltanto mascherata. Ma altrettanto grave».
Possibile che un genitore regga la pressione e, se colpevole, non confessi?
«Certamente si, per ragioni diverse. Nei casi di delitti commessi in quadro psicotico è possibile che la gente non ricordi quello che ha fatto. Negli altri casi, più banalmente, il genitore responsabile si difende e tenta di allontanare un´accusa insopportabile».
Del caso Maddie parlano giornali e televisioni di tutta Europa. Eppure scompaiono bambini ogni giorno, ovunque nel mondo. Perché tanto clamore?
«In questo caso c´è un´alchimia che ha accelerato la diffusione della storia: i protagonisti sono tutti belli. Se fossero stati bruttini probabilmente non ci sarebbe stata tanta attenzione. La gente, poi, quando viene toccata in alcuni punti si carica e ha bisogno di partecipare a questo circo. In buona fede possono vedere cose che non esistono o manipolare la percezione di cose insignificanti per l´indagine. Come racconta un proverbio cinese, i due terzi di quello che vediamo è dietro i nostri occhi».

Repubblica 8.9.07
Lo psichiatra Nivoli: le madri possono mentire come qualsiasi assassino
"Così l'incidente può nascondere una strategia omicida inconscia"
È difficile pensare che il carnefice sia in casa, ma accade ed è sempre accaduto


ROMA - Professor Giancarlo Nivoli, presidente dell´Associazione di psichiatria forense, autore di un libro sulle madri assassine, "Medea tra noi", Carocci editore. Una madre può uccidere e nascondere, simulare in questo modo? E´ plausibile?
«Parliamo in generale: sì, certo, non dobbiamo stupirci, anche le madri possono mentire come qualsiasi altro assassino, non sono poi così diverse».
Eppure siamo abituati a pensare che le madri uccidano solo in un momento di follia, preda di un raptus, o per errore, e che dopo siano sempre pronte a confessare travolte da un peso insostenibile.
«Pensare questo è uno sbaglio, molte confessano ma altre no, anche di fronte a prove schiaccianti. Possono negare e mettere in atto qualsiasi scenario pur di apparire innocenti. Il fatto è che noi non vogliamo accettare che le madri uccidano. Questa idea è insostenibile e pensiamo sempre ad un caso di follia. È difficile pensare che il carnefice sia in casa ed è quello ci culla. Pensiamo che una madre sia pazza perché non siamo culturalmente in grado di accettare, di ammettere che una madre uccida il figlio, il figlio a cui lei stessa ha dato la vita. Ma accade ed è sempre accaduto».
Ci sono poi anche gli incidenti, le distrazioni colpevoli.
«Ma a volte anche drammi apparentemente naturali, incidenti, sono strategie inconsce messe in atto dalle madri. Però voglio precisare che i casi sono sempre complessi e c´è sempre un insieme di fattori. Da una recente ricerca sono risultati molto importanti i disturbi dell´umore, l´instabilità, questo fattore insieme alla depressione e alla psicosi, può diventare una causa scatenante, soprattutto se non c´è una adeguata maturità genitoriale».
Ci sono più genitori immaturi di un tempo?
«Sì ma anche perché come su molte altre cose, abbiamo una diversa sensibilità. Un tempo il pater familias poteva gettare il neonato nella spazzatura, lasciarlo morire o esporlo sul marciapiede lasciando che chiunque lo prendesse e nessuno si stupiva, oggi è naturalmente inaccettabile».
La cultura del tempo glielo permetteva.
«Già, questo dimostra che la cultura è più forte della genetica. Oggi ci indigniamo, giustamente, per questi delitti ma non dobbiamo stupirci soprattutto se non seguono lo schema ideale che ci siamo costruiti».
(m.c.)

Repubblica 8.9.07
Un nuovo studio: in mancanza di tele usò canovacci da cucinA
Gli stracci di Van Gogh
Isabel Ferrer


Era ricoverato in una clinica psichiatrica a Saint-Rémy

Qualsiasi superficie è buona quando si ha l´ispirazione per dipingere e Vincent van Gogh, il prolifico e tormentato artista olandese, fece suo come nessun altro questo principio. Nel 1889 e 1890, gli ultimi anni della sia vita, giunse a creare un quadro al giorno. E quando la consegna delle tele inviate da suo fratello Theo tardavano, si accontentò di tovaglie e perfino di stracci da cucina per dipingere campi di grano, fiori e giardini. L´uso di tele così singolari è stato constatato da Louis van Tilborgh, conservatore del museo che porta il nome del pittore ad Amsterdam, che ha trovato opere di questo tipo in Olanda, in collezioni private e nel Museo d´Arte di Cleveland, negli Stati Uniti.
Van Gogh si trovava nel 1889 nella località francese di Saint-Rémy, ricoverato di sua volontà in una clinica psichiatrica. Vi era giunto proveniente da Arles, dove si era tagliato un pezzo di orecchio in un attacco di psicosi. Incapace di mettere su uno studio per paura di una ricaduta, entrò in un istituto psichiatrico.
La rigidità dell´ambiente e delle sue norme forse lo calmarono, perché in un solo anno dipinse 150 quadri. In una lettera indirizzata a Theo, mercante d´arte a Parigi, gli chiede un rotolo di tela di 10 metri che tarda tre settimane ad arrivare. «Durante lo studio realizzato con il mio collega Meta Chavannes, del Museo di Belle Arti di Boston, sull´opera Dirupo, dipinta da van Gogh su un´altra intitolata Vegetazione selvatica, abbiamo scoperto che almeno altri cinque quadri furono finiti su stracci da cucina o su tovaglie. Sapevamo che aveva usato cartone e carta quando non aveva soldi, ma adesso è chiaro che cercò anche materiali ancor meno convenzionali» dice Van Tilborgh. È il caso di Grandi platani, conservato nel Museo d´Arte di Cleveland; Campi di grano in un paesaggio di montagna, del Museo Kröller-Müller, nel nord dell´Olanda, e Angolo del giardino di Daubigny, del Museo van Gogh di Amsterdam.
«Entrambi hanno i fili incrociati e intrecciati a quadratini nel modo tipico degli stracci domestici», spiega Van Tilborgh. Dato che l´artista non poté uscire dall´istituto psichiatrico di Saint-Rémy e quando gli aprirono la porta fu solo perché potesse andare in giardino, «si deve trattare degli stracci da cucina dell´ospedale stesso», fa notare.
Nel 1890, dopo essersi abbastanza ripreso, van Gogh si trasferisce a Auvers-sur-Oise, località nelle vicinanze di Parigi. Il posto era molto adeguato per continuare a curarsi all´ombra dei circoli artistici parigini senza sottoporsi alle loro tensioni. A Auvers dipingerà capolavori come Cipressi, Gigli e Notte stellata. Theo, sempre attento, gli scrisse lodando «un colore che non aveva mai raggiunto prima». Anche se non riuscì mai a vendere nemmeno un quadro in vita sua, il suo talento non sfuggì al critico Albert Aurier, che lo paragonò ai simbolisti e ai post-impressionisti. Espose anche nel gruppo d´avanguardia belga Les Vingt e nel salone parigino degli Indipendenti.
La tranquillità del 1890 si incrinò poco dopo una visita di suo fratello che lo informava di essere rimasto senza lavoro e pensava di stabilirsi per conto suo. Il 27 luglio, forse preoccupato per il futuro di entrambi, Vincent van Gogh si sparò un colpo di rivoltella al petto. Sarebbe morto due giorni dopo tra le braccia di Theo, al quale lasciò una collezione che oggi è quasi impossibile assicurare dato il suo valore. «Un vero peccato. Pensate che a parte l´aspetto romantico di una morte tragica e prematura, nel 1901 c´erano già opere sue nei musei europei», dice il conservatore.
Si dice che gli artisti hanno bisogno di un decennio per diventare famosi e van Gogh considerava buone solo le opere dell´ultimo periodo. Per quanto possa sembrare strano, forse ebbe più paura del trionfo che del fallimento.

(Copyright "El País", Traduzione di Luis E. Moriones)

il Riformista 8.9.07
Quanti luoghi comuni sempre tra i soliti noti
di Alberto Abruzzese


Una volta mi è accaduto - in una di quelle occasioni istituzionali che navigano nel vuoto - di ascoltare il pensiero di Galli della Loggia sui media televisivi e i new media. Per quanto lui stesso avvertisse molto generosamente di capirne assai poco, le cose che gli ho udito dire erano davvero scoraggianti. Al più, pre-catodiche. Mi ricordò il caso in cui un ministro, per altri versi rispettabilissimo, di fronte ai miei studenti aveva esordito dicendo che i linguaggi tecnologici della comunicazione non erano il suo campo. Strabiliante: come se nel passato un preposto al governo della nazione avesse detto che la scrittura non lo aveva mai riguardato e mai aveva creduto di doversene occupare o almeno servire.
Una competenza, semmai, da affidare tutta ai ministri strettamente deputati al settore (presupposto che i ministri vengano scelti per specifiche competenze invece che come esperti al massimo nel gioco serio della politica…ed ecco perché essa oggi si trova svuotata e sempre meno seria).
Fatto sta che il Galli si è sentito chiamato a parlare di cinema. Guarda caso, proprio quando le agende dei grandi quotidiani di informazione parlano di cinema per promuovere il Festival di Venezia e da questo essere promosse. Ne è venuto fuori il tradizionale dibattito tra “i soli noti”. Pieno di buon senso. Ma tanto fitto di luoghi comuni da potere mettere in linea personalità così distanti tra loro quali sono Lizzani, Bellocchio, Olmi. E chissà quanti altri. Pieno di buon senso, purtroppo, anche l’intervento compilato da Scalfari sulla Repubblica. Se tuttavia guardiamo con più attenzione dentro l’apparente uniformità delle posizioni assunte da tutti costoro nei confronti della questione “cinema italiano”, non è difficile vedere le stratificazioni ideologiche che vi si intrecciano e spesso confondono. Un florilegio di stereotipi che vincono sulla “bontà” dei loro portatori.
Innanzitutto l’evocazione nostalgica del neorealismo, fatta in termini di cultura e vita nazionale piuttosto che di linguaggio, e per questo confondendo le questioni del linguaggio cinematografico con le sorti dell’identità italiana al guado tra resistenza e repubblica, comunismo e democrazia. Trascurando quindi di dire che il neorealismo fu un lampo rigeneratore del cinema anche e forse soprattutto di quello internazionale, imponendo ai consolidati modelli meta-nazionali e americano-centrici degli anni trenta una prima grande frattura estetica: la rappresentazione di una catastrofe dal basso invece che dall’alto del capitalismo, la messa in scena delle macerie invece che dei simulacri della realtà, il bricolage artigianale invece che la fabbrica hollywoodiana, il piccolo commercio quotidiano invece che i cieli della finanza. Era il primo “terzo mondo” - innaturale e provvisorio come fu in una Italia presto rientrata bene o male nella ricchezza dell’occidente - ad affacciarsi sui porosi immaginari delle grandi potenze della mondializzazione. Scorsese se ne serve ancora oggi. Coppola li ricorda. Bellocchio ha cominciato così. Olmi ne ha assorbito e tradotto a suo modo la sapienza.
Ma, soprattutto, l’enfasi sul neorealismo oscura da sempre - e così è ancora questa volta - la eccezionale perizia tecnica e professionale di un cinema italiano medio i cui margini si spingono di molto prima che la commedia italiana si solidificasse nella sua grande perizia sociale. Eccola la cinematografia nazionale che ha dato il meglio di sé e non è stato certo per i valori che la animavano, ma perché nel territorio che produceva questo cinema - i suoi attori, registi, sceneggiatori, tecnici - le dinamiche di produzione e consumo avevano trovato un loro equilibrio. Quello era non un cinema degli autori ma un cinema che produceva la sua qualità grazie ai consumi ai quali attingeva. Quando le regole di mercato del cinema prodotto dai modelli di consumo internazionali si sono imposte al localismo delle economie-politiche del cinema italiano, ecco che ne sono scaturite le sue due tipiche forme, ancora oggi in discussione: il cinema d’autore e il cinema di cassetta. Limitati l’uno e l’altro all’asfissia di una cultura audiovisiva che mancava e manca della competenza di mondo comunque necessaria a dare ai propri prodotti un pieno senso invece che fiacco e marginale. I volti, i set e le storie italiane non rimandano agli scenari, alle narrazioni e agli attori sociali del pianeta. Non toccano né i suoi vertici, i suoi territori del privilegio, né i suoi precipizi, le sue terre desolate. A far percepire il mondo - vi piaccia o non vi piaccia - è stata la televisione. È la carne televisiva a far palpitare i consumi. Il cinema italiano rispetto ad essa è una scheggia.
E tuttavia, anche posta così, la questione rischia di portarci fuori strada. È strano che, per parlare di cinema, un giornalista e uomo di cultura come Scalfari - almeno lui tra tanti improvvisatori - non faccia quanto evidentemente è costretto a fare quando pubblica i suoi tomi filosofici. Certo, gli è forse di impedimento quella sua formula - dignità artistica - su cui basa la logica delle proprie argomentazioni. E qui si fa sospetta l’attrazione che i potenti hanno per il cinema in un’epoca che forse ha da mettere in discussione una volta per tutte l’autorità dell’arte, dell’umanesimo e via dicendo. Ragionare di cinema a partire dall’arte e dalle estetiche è molto utile ma a patto di liberarsene. Sarebbe comunque interessante discutere con lui del perché non abbia cercato qualche traccia bibliografica per ragionare in modo più appropriato sulla questione. Non era tenuto a farlo, mi direte, perché il suo è - come spesso gli accade - un appello da cittadino-intellettuale, e che guaio sarebbe mettersi a studiare ogni volta prima di parlare. Buon senso, si è detto. Ma non di un uomo qualunque. Infatti, se di una cosa è esperto, questa è il sentire della classe dirigente alla quale appartiene. Ed è qui che il suo discorso è ancor più significativo.
Dice che non c’è relazione tra la qualità dei valori di una società e il cinema che essa produce. Ha ragione. Ma ha davvero torto nel non mettere al centro del problema dei valori le classi dirigenti, quindi non solo i colti ma le reti di potere che essi attraversano e dalle quali sono attraversate. I grandi autori della letteratura o dell’arte che egli colloca nelle fasi di maggiore degrado sociale e ideale dei contesti che li hanno prodotti, appartenevano tuttavia a micro-aree di classi dirigenti, capaci di interpretare, rappresentare e rilanciare il mondo, la sua ricchezza, anche quando mortificata e avvilita dalle sue ferite e catastrofi. Le loro opere nascevano da un rapporto vivo non tanto tra produzione e consumo, quanto piuttosto, almeno in una porzione anche minima ma effervescente, tra diverse e coese relazioni socio-culturali, dotate di responsabilità civile: ed era la capacità di mondo realizzata da questo rapporto a dare fortuna alle loro opere nello spazio (allargando il loro pubblico di consumatori) e nel tempo (diventando dei classici).
Abbiano altrettanto oggi in Italia? E forse la stessa domanda - cosa che Scalfari ha colto ma non sviluppato - potremmo estenderla altrove, perché il cinema italiano che giudichiamo in tutti i suoi limiti è forse allo stesso stadio terminale delle altre cinematografie occidentali. Solo che lì la ricchezza dei consumi è ancora in grado di soddisfare anche il nostro gusto e, godendo di bacini così ricchi, sa trovare nuove formule (le serie della Fox, il cinema degli effetti speciali, ecc.). Qui, al massimo si potrebbe riuscire a vincere la scommessa di un cinema di nicchia per nicchie di spettatori. Sarebbe un grande progetto. Ma realizzabile solo attraverso un totale ricambio dei ceti culturali che producono aspiranti scrittori e registi; aspiranti funzionari pubblici; aspiranti imprenditori; aspiranti giornalisti.

Corriere della Sera 8.9.07
Il vertice / I leader di Prc, Sd, Pdci e Verdi trovano l'intesa: lista unitaria alle prossime Amministrative
La Cosa rossa avanza: si chiamerà «La sinistra», debutto nel 2008
di Maria Teresa Meli


Chiuse le tensioni sul 20 ottobre: obiettivo 250 mila persone

ROMA — Con assai minor clamore del Pd — ma con difficoltà non meno trascurabili — la Cosa rossa va avanti. Tanto che in una riunione riservata tra i leader dei quattro partiti che dovranno costruirla si è deciso il nuovo nome del soggetto politico che verrà: «La sinistra». Il segretario del Pdci, Oliviero Diliberto, avrebbe preferito «Le sinistre», al plurale, per salvaguardare le diverse identità. Ma con tutta probabilità è questo il nome con cui Rifondazione, comunisti italiani, Verdi e Sinistra democratica si presenteranno insieme già alle elezioni amministrative del 2008. E si sta studiando anche il simbolo. Richiamerà quello dell'Unione, anche se il rosso sarà più evidente.
Sembrano dunque riassorbite le divisioni esplose dopo che il Prc aveva appoggiato la manifestazione del 20 ottobre. Fabio Mussi e gli altri transfughi della Quercia, che avevano deciso di disertare l'iniziativa, ora, dopo che la piattaforma è stata riscritta, hanno fatto rientrare il loro dissenso. Ci saranno anche i «fuggitivi» Ds al corteo autunnale (magari non Mussi, ma solo in omaggio al compromesso individuato nell'Unione per cui i ministri non scendono in piazza e tutti gli altri sì). E al vertice del centrosinistra di ieri Mussi è stato uno dei più sparati, dopo Franco Giordano, naturalmente. E non solo sulla finanziaria. Anche sulla sicurezza: «Se voi andate avanti ognuno si assumerà le proprie responsabilità ». Come a dire: noi votiamo contro, governo o non governo.
Dunque si va avanti, anche se i dubbi, sulla manifestazione, rimangono. Ma non sull'opportunità di tenerla, perché per Giordano, «quell'appuntamento è irrinunciabile». Le preoccupazioni riguardano la partecipazione. La Cosa rossa punta ad avere almeno 250 mila persone, altrimenti, sarà un flop, come quello della manifestazione anti-Bush. Per questa ragione non è stato ancora scelto il luogo dell'iniziativa: rischiare piazza San Giovanni, sembra avventato, meglio la più rassicurante — e piccola — piazza del Popolo.
Difficoltà, quindi, ce ne sono ancora. Ma la Cosa rossa non è esplosa, cosa di cui tutti i leader del Pd (da Veltroni a Prodi) sembravano convinti, e questo, inevitabilmente, riapre i giochi nel centrosinistra. Tanto che, alla fine, il sindaco di Roma ha dovuto frenare sulla sicurezza, mentre il premier, nel vertice dell'Unione sulla finanziaria, si è speso a difendere la sinistra radicale attaccata da Di Pietro.

Corriere della Sera 8.9.07
Embrioni congelati: aperta un'inchiesta
Legge 40 aggirata nei centri di fecondazione
di Simona Ravizza


MILANO — Indagine della Procura sul ritorno al congelamento degli embrioni e nuova bufera politica sull'applicazione della legge 40 che disciplina la fecondazione assistita. La normativa finisce ancora nell'occhio del ciclone perché le donne si stanno ribellando con un escamotage giuridico all'obbligo di impianto di tutti gli embrioni (con il relativo aumento delle possibilità di gravidanze plurigemellari). Ma la scappatoia rischia di non tutelare i medici che potrebbero incappare in un reato punito con la reclusione fino a 3 anni e una multa da 50 mila a 150 mila euro per non avere applicato uno degli articoli clou della legge, il 14. È la convinzione dei magistrati di Torino che hanno aperto un'inchiesta sul caso sollevato ieri dal Corriere della Sera.
Negli ultimi mesi i principali ospedali italiani si stanno confrontando, infatti, con lettere di diffida delle pazienti contrarie al triplice impianto. Adesso il procuratore aggiunto Raffaele Guariniello, esperto di reati contro la salute, vuole fare chiarezza soprattutto sul congelamento degli embrioni, vietato dalle norme del 2004, ma diretta conseguenza dello stop delle donne all'impianto di tutti gli ovociti fecondati. Le sanzioni per i ginecologi sono previste dal comma 6 dell'articolo 14.
Ma non finisce qui. L'aggiramento della legge 40 scatena ancora una volta un duro scontro tra sostenitori e oppositori della normativa approvata tre anni fa. Per il presidente della Commissione Sanità del Senato, Ignazio Marino, è arrivato il momento di risolvere le incongruenze delle norme con una revisione delle loro linee guida. «Il fenomeno cui siamo di fronte oggi è inquietante — dice Marino —. Invece di cercare compromessi ideologici bisogna seguire la strada delle scienza che offre nuove soluzioni in grado di rispettare il desiderio legittimo di tutelare gli embrioni». Il presidente della commissione Sanità pensa a un possibile congelamento degli ootidi al posto di quello degli embrioni. «La differenza è sostanziale — spiega —. In questo caso non c'è stata ancora una fusione dei patrimoni genetici maschile e femminile. Non siamo, dunque, in presenza di un nuovo Dna». Rincara la dose il farmacologo Silvio Garattini: «Quanto accade denota i limiti della 40, sulla quale è necessario intervenire».
È contrario, invece, a rimettere mano alle norme Giancarlo Cesana, medico e leader laico di Comunione e Liberazione: «Le leggi si fanno per essere applicate — osserva —. Tra l'altro questa non è una normativa cattolica, ma una soluzione di compromesso approvata da una maggioranza trasversale. È probabile, tra l'altro, che il moltiplicarsi di interventi artificiosi sulla nascita dell'uomo conduca a nuovi disastri. E non è da escludere neppure la nascita di nuove banche di embrioni orfani o di un nuovo businness della provetta».
Sullo sfondo del dibattito, una certezza. Una parte degli embrioni che si trovano nei centri italiani di fecondazione assistita è stata congelata degli ultimi tre anni. «Dopo essersi consultati con i giuristi, sia gli ospedali sia le donne si sono accorti della possibilità di non trasferire tutti e tre gli ovociti fecondati — ammette Andrea Borini, presidente dei Cecos Italia, l'associazione che raggruppa 24 centri privati specializzati nella fecondazione in vitro —. Le pazienti non sono sanzionabili e non possono essere obbligate a subire un triplice impianto». Per il giudice Amedeo Santosuosso, tra i fondatori della Consulta di bioetica, siamo davanti al fai-da-te giuridico: «Per fortuna le donne hanno la possibilità di rifiutare — dice —. Ma ci troviamo davanti a una tipica ipocrisia giuridica da risolvere». La revisione delle linee guida da parte del ministero della Salute è attesa entro fine settembre.

Il caso delle diffide
La legge 40 sulla procreazione assistita vacilla su un punto: si torna a congelare embrioni. È l'effetto dell'iniziativa di alcune coppie che hanno iniziato a presentare diffide legali ai medici per evitare gravidanze plurigemellari e rifiutano l'obbligo delle norme sul triplice impianto
IL TESTO. Le lettere di «dissenso informato» sono state presentate ad alcuni dei principali centri di fecondazione assistita. Per lo più scritte a mano, contengono frasi di questo tipo: «I sottoscritti diffidano il direttore sanitario a trasferire tutti gli embrioni ottenuti. Con la presente si impegnano anche a tornare al Centro... per il trasferimento dell'embrione congelato»

Corriere della Sera 8.9.07
Stefania Prestigiacomo
«Ora molti ovociti fecondati vengono gettati nel lavandino»
di Margherita De Bac

ROMA — «La mia sensazione è che molti embrioni finiscano nel lavandino. Vengono buttati per evitare il congelamento perché lo vieta la legge. Del resto i controlli sono impossibili. Quando queste norme sono state approvate tutti erano consapevoli di quanto fossero ipocrite», accusa l'ex ministro delle Pari Opportunità Stefania Prestigiacomo, oggi deputato di Forza Italia, da sempre nemica acerrima del testo sulla fecondazione artificiale.
Non si sorprende che per aggirare l'obbligo di impiantare i tre embrioni e poter congelare quelli che non vengono utilizzati freschi, in un'unica soluzione, alcune coppie abbiano deciso di ricorrere alla magistratura.
Secondo lei questi ricorsi si moltiplicheranno?
«Certamente e sono sicura, e ne ho avuto conferma parlando con alcuni esperti dei centri, che la legge viene violata. I controlli sono impossibili. L'applicazione pratica ha evidenziato tutti i limiti di norme sbagliate, scritte su base ideologica, senza preoccuparsi che venga tutelata la salute delle pazienti».
Quali sono i limiti più vistosi della legge?
«Non si può costringere la donna a subire un atto medico. Il trasferimento di tre embrioni è un rischio per le più giovani perché possono avere la conseguenza di parti gemellari. Che infatti secondo i dati trasmessi al Parlamento sui primi due anni di attività con la nuova legge, sono aumentati. È un obbligo mortificante anche per i medici che invece devono avere la libertà di poter decidere caso per caso».
La legge 40 è quindi da rifare?
«No, l'ossatura va bene. Andrebbero cambiati alcuni divieti come quello della diagnosi preimpianto. Ma io non ci credo».
Perché?
«La sinistra ha rinunciato alle modifiche e anche la Turco non vuole impegnarsi. Bisognerebbe avere coraggio riaprendo la discussione in Parlamento, l'unica sede dove i problemi potrebbero essere risolti. Ma non c'è speranza.
Non c'è la maggioranza per approvare regole meno ingiuste. E l'eventuale modifica delle linee guida è uno strumento inefficace per correggere gli errori».

il manifesto 8.9.07
La potenza redentrice di un pensiero
«Giordano Bruno» di Michele Ciliberto per Mondadori. L'avventura esistenziale di un pensatore «maledetto» dove vita e filosofia coincidevano
di Alberto Burgio


La vita come filosofia, la filosofia come autobiografia e come esperienza teatrale. I pensieri come fatti vissuti, i fatti come figure concettuali da rappresentare sulla scena del mondo. Tutto questo è Giordano Bruno. Qui sorgono, nello stesso tempo, il suo programma teorico e la sua idea di sé e dell'esistenza. A cominciare dalla propria, per destino straordinaria.
Non è una novità. Chi legga Bruno sa di dover fare i conti, sempre, con una connessione indissolubile di vita, filosofia e autobiografia. Con una vita che si fa, consapevolmente, sostanza teorica e che come tale si comprende e si narra. Pensiamo, per fare solo un esempio, alla dialettica dei contrari. Dove il contrasto tra le diverse dimensioni della propria personalità diviene principio di comprensione del mondo e delle sue trasformazioni. E dove il conflitto, la contraddizione, si rovescia, da motivo di disgregazione, in ragione di forza. Da fonte di scomposizione, in fattore di unità e di coerenza dinamica.
Corpo a corpo col Cristo
Non è una novità, è un fatto acquisito. Ma è un fatto che si può subire o, invece, assumere e far proprio, magari traendone linfa per nuove e più penetranti forme dell'impresa ermeneutica. La poderosa ricostruzione della vita di Bruno che ora Michele Ciliberto ci consegna (Giordano Bruno. Il teatro della vita, Mondadori, pp. 555, euro 30) lo dimostra in maniera esemplare. È una biografia a modo suo unica precisamente per come raccoglie la sfida di ripercorrere e narrare una vita in se stessa filosofica: trasfigurata - resa pensiero, concetto e testo - nel momento stesso in cui fu vissuta e, appunto, rappresentata. Messa in scena.
Ciliberto coglie qui un risultato inseguito da tempo. Questo stesso intreccio fondava già le sue precedenti letture bruniane (ricordiamo le più note soltanto, da La ruota del tempo, 1986, al Giordano Bruno laterziano del '90, a L'occhio di Atteone, 2002). Ma ora il crogiolo si direbbe raggiungere la completa fusione. E offrire un riuscito gioco di specchi grazie al quale l'indagine sul pensiero rischiara la vita e la vicenda esistenziale illumina a sua volta la filosofia, svelandone le riposte intenzioni, l'immanente necessità: un gioco perfetto, grazie al quale davvero il profilo di Bruno sfuma nel ritratto di Teofilo.
Valga, per tutti, il riferimento al rapporto con la figura del Cristo, asse portante dell'intera ricostruzione perché punto focale verso cui tende l'incoercibile pulsione bruniana alla propria «eroica» autotrasfigurazione. Che cosa fu questo rapporto, questa sconvolgente competizione, questa inesausta sfida che celebrò i propri fasti sul rogo di Campo de' Fiori? Fu vita o filosofia? Teatro o pensiero? Passione o polemica teologica? O fu piuttosto incalzante contenzioso sui mali del mondo, sulle colpe della religione e della Chiesa, sull'«impostura» e sul peccato di chi si pretese figlio di Dio ma non ebbe nemmeno la forza di una morte dignitosa?
La sapienza mondana
Fu tutto questo e altro ancora, risponde Ciliberto. Fu anche (si pensi allo Spaccio) il fondamento di una lettura della crisi del mondo alle soglie della modernità. E fu la base di un progetto di rinnovamento filosofico, religioso e politico capace di restituire giustizia al merito e di instaurare un rapporto diretto con la natura attraverso la sapienza mondana che Bruno chiama «magia».
Ma certo la vita rivendica, nell'aspro corpo a corpo col Cristo, un primato che il pensiero non saprebbe contenderle. Anche per questo lo studio biografico si rivela strumento principe. L'ingiustizia del mondo è, in primo luogo, dolore dell'uomo. Ferita aperta nel costato di chi, dapprima, nella divinità e nella potenza redentrice del Cristo, che di quella ingiustizia è complice e reo, credette. Sino a farne il proprio ossessivo modello. Per questo l'ingiustizia diviene offesa intollerabile. Per questo il peccato non conosce redenzione e scatena una violenza rabbiosa, che sempre di nuovo sorprende. Ciliberto sostiene che vi è «qualcosa di personale e persino di inquietante» in questa scandalosa reazione («Christo è un cane becco fottuto can»), in questo disprezzo inaudito. Scrive di un «risentimento troppo acuto e profondo» perché non si pensi al tramonto di una fervida speranza, financo alla caduta di un «amore tradito».
Di certo c'è che la rilettura di questo tema dà finalmente ordine a un magma di pensieri e di immagini altrimenti non padroneggiabile. Grazie a questo filo narrativo la vita di Bruno e il suo pensiero traggono forma nello scambio reciproco di motivi e ragioni. Fino all'ultima scena - scena, poiché qui davvero trionfa la dimensione teatrale del vivere e del pensare - della morte sul rogo. È come un'apoteosi, come il compiersi glorioso di un temerario progetto di potenza che riscrive, rovesciandolo, il racconto evangelico.
Il Golgota di un uomo
Una morte decisa, scrive con forza Ciliberto. Voluta, non subìta. Accolta e praticata come strumento di autoaffermazione, di riscatto e di libertà. Come tragica rappresentazione della propria dignità. Il teatro della vita si chiude nell'ultima recita che il condannato tiene da «grande attore». Il suo epilogo non si risolve in una perdita, si ribalta in un sovvertimento. Campo de' Fiori è il Golgota di un uomo - quindi dell'uomo - restituito alla piena consapevolezza delle proprie ragioni. Nel momento della morte, la vita vince. E vince la filosofia, che della vita è stata anima e sostanza: ispiratrice di una riflessione teologica e di una riforma spirituale tese ad affermare l'avvento di una prassi laica.
Questo libro è una ben strana cosa. Non sapremmo collocarlo: non ha un genere, travalica molti confini. Avremmo potuto concludere dicendo, ragionevolmente, che è il coronamento di una feconda stagione di studi, di una Bruno Renaissance che in questi anni ha prodotto preziose edizioni e sofisticati strumenti filologici. E dischiuso nuove prospettive d'indagine che hanno complicato l'idolo Rinascimento restituendone un volto moderno ma liberandolo, ad un tempo, dal compito improprio di «anticipare» temi e tempi di poi. È certamente anche tutto questo. Ma è soprattutto altro. È la definitiva autobiografia che Giordano Bruno ci consegna, inaspettata, quattro secoli dopo la propria estrema e «suprema rappresentazione».

Liberazione 8.9.07
Presidente Napolitano, intervenga
troppi politici incitano al razzismo
di Piero Sansonetti


Signor Presidente della Repubblica,
stanno succedendo delle cose gravissime nel nostro paese. Credo che ci sia bisogno del suo intervento. Ieri su "Liberazione" abbiamo pubblicato il reportage di Laura Eduati, che è stata a Pieve Porto Morone, in provincia di Pavia, dove in un centro di accoglienza cattolico sono ospitati, in condizioni terribili, 48 persone, rom, tra i quali molti bambini. Mi permetto di suggerirle di leggere quell'articolo - bellissimo e agghiacciante - che ci fa fare una corsa indietro di molti decenni, ci fa tornare, col pensiero, agli anni truci dell'America razzista - in Alabama o in Mississippi - o addirittura a quelli funesti del fascismo e del nazismo. Una folla linciante ha circondato la cascina nella quale queste povere 48 persone sono rifugiate, ha ricoperto di insulti irripetibili i nostri amici rom, ha invocato per loro i forni- i forni, presidente: i forni crematori - cioè ha inneggiato a Hitler, ad Eichman. Gridavano: «Vi bruceremo tutti, zingari, vi bruceremo» e tiravano i sassi contro le finestre, le porte. I nostri 48 amici rom erano terrorizzati, i bambini piangevano.
Presidente, questo piccolo esercito di linciatori pavesi non era lì per caso. Alcune organizzazioni politiche li avevano incitati, aiutati, e quasi nessuno, invece, li aveva scoraggiati. Sindaci, amministratori, politici, partiti, si sono affrettati a dire sui giornali che quello dei rom è un gran problema, che i rom sono fastidiosi, rubano. Nessuno ha voluto dire che il gran problema, invece, è l'orrore di alcune centinaia di cittadini che si riuniscono per chiedere il linciaggio dei rappresentanti di un popolo che già fu in gran parte sterminato dai nazisti. Possibile che la memoria sia svanita in tutti noi?
Possibile che la luce della civiltà - cristiana, o illuminista, o liberale - si sia spenta? Non le fa orrore questo, presidente? Credo di sì, perché la conosco bene, conosco la sua storia, la sua cultura forte, la sua sensibilità. So che più di mezzo secolo fa ha iniziato a fare politica - e ha scelto questo mestiere invece di un altro mestiere più facile - perché non sopportava l'orrore del fascismo, della dittatura, del razzismo. Ed è sempre stato coerente con questo suo impegno, con questi principi, dagli anni della militanza clandestina fino all'incarico al Quirinale.
Per questo mi rivolgo a lei, perché spero davvero che riesca a fare qualcosa. Io credo che noi non possiamo pensare di fermare queste pulsioni naziste ignorandole, sottovalutandole, o peggio ancora accarezzandole. Non crede? Io sento tanta gente che in modo autorevole e paternalistico ci spiega che questi orrori sono solo sentimenti popolari, e sono diffusi, e non possono essere stroncati, ci dice che vanno capiti, che pongono problemi reali e noi dobbiamo affrontarli - questi problemi - con serietà e senza buonismi. Io non c'ero all'epoca delle leggi razziali; lei, credo, le ricorda: non vi dicevano così? «Gli ebrei sono una mala pianta, accaparrano ricchezze, complottano, è bene isolarli, levarli dalle nostre scuole, portarli lontani dalle nostre città, dalle famiglie, dai matrimoni misti...». E dov'è la differenza? Adesso ci dicono che gli zingari e i lavavetri rubano, che portano via i bambini, che bisogna tenerli fuori dal raccordo anulare, lontani dai centri abitati, che bisogna sbatterli in galera se chiedono le elemosina o disturbano al semaforo. Cosa ci dicevano i fascisti, allora? «C'è l'emergenza ebraica». Erano in malafede, preparavano l'assassinio di massa. E cosa ci dicono, oggi, tanti nostri sindaci? «C'è l'emergenza lavavetri, c'è l'emergenza rom». Presidente, lei lo sa benissimo: anche loro sono in malafede, in realtà l'unica emergenza che vedono è di tipo elettorale, e in nome di qualche pezzetto di consenso non hanno nessun problema a gettare nella disperazione tanta povera gente, a violare i principi più forti della democrazia, a ignorare la propria stessa storia e le proprie tradizioni, e finiscono per assomigliare tanto alla destra xenofoba, razzista, di molti paesi europei, che però in quei paesi è considerata "impresentabile" anche dai partiti e dagli uomini della destra.
Caro Presidente Napolitano,
lei lo sa benissimo che l'orgia forcaiola, legalista e xenofoba sostenuta da molti esponenti politici è pericolosissima. Che produce fatti abominevoli come l'assalto ai rom di Pieve Porto Morone. Non crede che sia giusto fare qualcosa per fermarla questa ondata reazionaria, che rischia di intaccare davvero le basi della nostra civiltà e l'immagine dell'Italia? Io penso che una sua parola, un suo impegno, potrebbe valere molto e davvero confido in una sua iniziativa.

venerdì 7 settembre 2007

l’Unità 7.9.07
La Cosa Rossa insiste: meno tasse
Avviso al premier: no a una manovra dominata dal Pd, vogliamo contare
di Laura Matteucci


PROPOSTE Potrebbe essere presentato già oggi, nel corso della riunione di Romano Prodi con i leader dell’Unione per tracciare le prime linee della Finanziaria, il documento comune della sinistra del governo, caratterizzato dalla «riduzione delle tasse per lavoratori e pensionati, delle spese militari, e dagli “assegni sociali” agli incapienti». La sinistra radicale non vuole ridursi stavolta a fare solo la battaglia in Parlamento, presentando emendamenti alla Finanziaria.
Al di là della definizione dei dettagli, Prc, Verdi, Sd e Pdci hanno già chiare le linee guida. Il documento avrà una premessa politica sulla direzione che, secondo i partiti della «Cosa Rossa», dovrà imboccare la politica economica. Leit motiv sarà l’idea che la manovra 2008 debba puntare su innovazione e giustizia sociale, invece che su nuovi tagli alla spesa. La seconda parte del documento indicherà le proposte di intervento. Allo studio c’è l’ipotesi di riduzione dell’Ici per la prima casa entro una certa metratura. Una possibilità che, però, deve essere prevista anche per chi è in affitto con un’analoga detrazione dell’Irpef.
Prc, Pdci, Sd e Verdi ragionano inoltre sull’innalzamento della no tax area per i pensionati nella stessa misura prevista per i dipendenti.
Tra gli interventi, anche la richiesta di redistribuire le risorse ricavate dalla lotta all’evasione fiscale a vantaggio di chi le tasse le paga (lavoratori dipendenti, pensionati) e degli incapienti. Tra le richieste, anche quella di ridurre le spese militari e di ridiscutere, di conseguenza, i relativi trattati internazionali.
Il capitolo lavoro sarà tenuto fuori dal testo, su questo tema verrà presentato in Parlamento un disegno di legge ad hoc.
Discorso a parte, invece, sulla riforma delle pensioni: le proposte in tema saranno inserite nel documento.
Quanto alle risorse per finanziare gli interventi, tra le proposte c’è quella di usare le riserve auree della Banca d’Italia come hanno fatto altri Paesi europei.
Si chiederà inoltre l’aumento della tassazione delle rendite finanziarie in linea con l’Unione europea, e di continuare nella lotta all’evasione fiscale.
Infine, il taglio dei costi della politica potrebbe portare un risparmio che, per il capogruppo di Sd al Senato Cesare Salvi, andrebbe «dai 2 ai 6 miliardi di euro l’anno».

l’Unità 7.9.07
Arriva Ratzinger ma Vienna è gelida, l’82% «non è interessato alla visita»
di Roberto Monteforte


Il Papa in Austria dove i cattolici sono una minoranza che si assottiglia sempre di più. La crisi degli anni 90 sull’onda dello scandalo dei preti pedofili. Le critiche delle comunità di base

È già inverno a Vienna. Sarà una città fredda e grigia ad accogliere oggi papa Benedetto XVI nel suo pellegrinaggio al cuore della vecchia Europa per l’850° anniversario della fondazione del santuario mariano di Mariazell. Fredda e forse indifferente, almeno stando all’inchiesta pubblicata dal settimanale austriaco Profil per il quale ben l’82 per cento degli austriaci non si sente interessato a questa visita. Effetto della secolarizzazione che ha portato anche in Austria i cattolici ad essere una minoranza che si assottiglia sempre più. Lo dicono le cifre. Nel 2006 erano poco più di 5 milioni i cattolici «registrati», pari al 70 per cento della popolazione, ma di questi solo il 14 per cento, circa 800mila, erano coloro che frequentano regolarmente la messa domenicale. Calano le vocazioni. Lo scorso anno si sono contati soltanto 28 ordinazioni. L’età media dei sacerdoti è 64 anni. Tutti segni evidenti di una difficoltà che è anche difficoltà nel rapporto con la Chiesa di Roma.
Ma sul tappeto vi è anche altro. La crisi di credibilità vissuta dalla Chiesa austriaca negli anni ’90 per lo scandalo degli abusi sessuali che hanno visto protagonista il cardinale Hans Hermann Groer. Sono tempi non così lontani. Vi è stata una riflessione critica all’interno della Chiesa è da li che nel 1995 è nato proprio in Austria il movimento ecclesiale internazionale «Noi siamo Chiesa» con la sua piattaforma per una rinascita dal basso della Chiesa. La messa in discussione del celibato obbligatorio dei sacerdoti, l’ordinazione delle donne, il ruolo del laicato nella vita della Chiesa, l’ecumenismo. Una discussione aperta nella Chiesa austriaca che Roma ha voluto chiudere. Normalizzare: è stata la via imposta dall’allora cardinale Joseph Ratzinger. Ora torna a Vienna da Papa. «Sarà distante dalla gente» osserva il portavoce austriaco di Noi siamo Chiesa, Hans Peter Hurha. Come altre realtà ecclesiali di base aveva chiesto un confronto con il pontefice. Non vi saranno incontri. Al pontefice sarà consegnato un loro documento.

l’Unità 7.9.07
Embrioni e bioetica, la lezione inglese
di Carlo Flamigni


Sulla ricerca scientifica inglese siamo oramai alla diffamazione: si dice che dietro ci sono «enormi interessi economici». E se, invece, servisse a curare la leucemia dei bambini?

Vivo nell’illusione che il Paese in cui vivo sia laico e laici siano il partito al quale sono iscritto, il Comitato di Bioetica nel quale lavoro, gli amici che frequento, i lettori di questo giornale. So per certo che solo questi ultimi non tradiscono le mie attese, ma mentire a se stessi è l’unico atto di disonestà del quale non ci si deve vergognare, e del resto non faccio male a nessuno, lasciatemi vivere in pace. Questa premessa mi serve per giustificare quanto leggerete in questo articolo, che non avrei mai scritto, per esempio, se avessi la consapevolezza di vivere in un paese che è costretto a legiferare sotto l’influenza di una ideologia religiosa o per le pressioni di una potente agenzia illiberale .
Dunque, ci sono due luoghi comuni molto saggi che vengono generalmente usati quando si parla di libertà della scienza: il primo afferma che non tutto quello che è tecnicamente possibile è moralmente accettabile; il secondo asserisce che non tutto ciò che la natura cerca di ammannirci è compatibile con la nostra umanità. La conclusione è che è necessario stabilire regole e limiti per la scienza e per la ricerca scientifica, soprattutto quando questa cessa di essere un occhio che scruta per diventare una mano che fruga. Una ulteriore conclusione riguarda il fatto che la nostra società è consapevole di vivere nel disordine naturale, un disordine che è causa di dolore e di sofferenza e che chiede alla conoscenza di mettere ordine: perché questo è lo scopo ultimo della ricerca scientifica, conoscere per mettere ordine, per diminuire la sofferenza, per migliorare la qualità di vita degli uomini. La scienza è dunque un grande investimento sociale e gli scienziati hanno obblighi precisi nei confronti di chi ha tanto investito in loro. Si tratta di stabilire insieme che deve dettare le regole.
Per prima cosa mi viene in mente chi proprio non deve dettare queste regole: le religioni, per esempio, ideologie ossificate e obsolete, costruite sulla base di libri che hanno accumulato sciocchezze mitiche fin dal tempo in cui il fulmine era l’arma preferita dagli dei per percuotere i peccatori.
Penso invece alla morale di senso comune, una morale collettiva che si forma per l’influenza di molte differenti sollecitazioni, ma nella quale ha peso prevalente il buon senso. Una morale rigida, scettica, sospettosa, ma che può modificarsi se le vengono sottoposti con chiarezza e onestà i vantaggi che possono derivare dalle conoscenze possibili e dal loro uso controllato. Una morale, come potete capire, che ha bisogno soprattutto di conoscenza.
Ebbene, questo è quanto è successo in Inghilterra a proposito della formazione di embrioni ibridi (uomo-animale) allo scopo di ricerca. L’Autorità per la fertilizzazione umana e l’embriologia (HFEA) ha affrontato pubblicamente il problema, non inviando carte da compilare, ma organizzando dibattiti, sollecitando un dialogo intenso e proficuo al quale hanno partecipato migliaia di cittadini e centinaia di ricercatori e di studiosi, attuando pienamente quello che dovrebbe essere uno degli impegni primari degli scienziati, che è la promozione della cultura tra i cittadini: perché è impensabile chiedere a qualcuno di prendere una decisione se prima non gli si consegnano gli indispensabili strumenti di conoscenza. Quando l’Autorità ha registrato il 61% di consensi alla sua proposta, ha sollecitato il Governo inglese a farla propria. Laico, civile, intelligente, onesto.
Leggo, tra le prime reazioni apparse nei giornali italiani, due commenti che mi indignano. Il primo riguarda una supposta manipolazione dell’opinione pubblica, una critica che ci giunge da un onorevole rappresentante della Chiesa cattolica (che pulpito!). La seconda (stessa origine) afferma che dietro a queste iniziative pseudo-scientifiche ci sono immensi interessi economici. Credo di avere il diritto di chiedere spiegazioni, dettagli: anzi spero che li chiedano i miei amici inglesi. Perché se queste spiegazioni - diciamo pure, queste prove - non dovessero arrivare, avremmo tutti il diritto di dichiarare che questi due signori (anzi, un signore e un monsignore) sono due cialtroni. Anzi, due cialtroni bugiardi. Mi viene in mente un titolone dell’Avvenire un paio di giorni dopo l’annuncio della nascita della prima bambina nata concepita in vitro: «enormi e squallidi interessi dietro alla nuova tecnica», o qualcosa del genere. Ma la diffamazione come strumento di propaganda religiosa ha origini antiche.
Invito invece tutte le persone di buon senso a considerare con attenzione questo metodo inaugurato, non da ieri, dagli inglesi e di paragonarlo con quanto accade di solito: comportamenti - moralmente inaccettabili - imposti dalle ideologie politiche; comportamenti - altrettanto inaccettabili - imposti dalle ideologie religiose; e poi ipocrisie, compromessi, menzogne di ogni genere. Poiché vivo in una Paese laico e sono iscritto a un partito laico mi piacerebbe molto se questo metodo di dettare le regole diventasse anche il nostro.
Alcune osservazioni, non marginali. Leggo da varie parti che Monsignor Sgreccia ha dichiarato che si tratta di una scelta «mostruosa». Per carità, Monsignor Sgreccia dice quello che gli pare, viviamo in un Paese democratico (e laico), mi chiedo solo se non gli converrebbe fare un uso un po’ più cauto degli aggettivi. Poiché nella vita il peggio non ha mai fine, potremmo sbattere il naso (lo so, è poco probabile) in eventi ancora più esecrabili.
Poiché non mi vengono esempi concreti, ne scelgo uno di fantasia: come definirebbe il Monsignore un uomo che sodomizza i bambini? Cattivo? Brutale? Riprovevole? Un uomo nero? Lo so, è improbabile, ma è sempre bene essere preparati al peggio.
Il secondo punto che desidero trattare è abbastanza simile, riguarda l’intensità delle critiche rivolte a una ricerca scientifica che, a dire il vero, non mi sembra poi così «mostruosa». Ripensateci, amici cattolici: un esperimento in vitro, dal quale non nascerà mai altro che conoscenza, conoscenza che potrà rivelarsi estremamente utile in un settore di studi al quale tutti (anche voi, amici cattolici) guardate con grande speranza. E adesso rileggetevi le dichiarazioni, i titoli dei vostri giornali, le interviste dei vostri rappresentanti politici (senatrice Binetti, potrebbe star zitta, almeno una volta?). Non vi sembra tutto un po’ sopra le righe? Siete sicuri che la storia, domani, non riderà di voi?
Faccio un esempio. Ammettiamo che questa ricerca produca realmente nuove conoscenze (è possibile, anche soltanto perché Vescovi ha previsto il contrario); e ammettiamo che, anche grazie a queste nuove conoscenze, la ricerca sulle cellule staminali somatiche, quelle sulla cui moralità nessuno eccepisce, riesca a mettere a punto una terapia che guarisce la leucemia dei bambini. Sapete bene che, secondo il vostro Magistero, questa terapia sarebbe inquinata dalla cosiddetta complicità indiretta, la cooperatio ad malum, e che pertanto nessuno la dovrebbe utilizzare. Glielo dite voi al vostro confratello che non sta più nella pelle per la gioia, che purtroppo il suo bambino deve morire lo stesso perché la cooperatio ad malum... Gliele asciugate voi le lacrime che gli scenderanno inevitabilmente a rigargli il volto dal gran ridere?
È troppo audace raccomandarvi un po’ di buon senso?
Ultima precisazione. In Italia abbiamo un gran numero di oociti congelati e vitrificati che diventano inutili non appena le coppie sono riuscite a ottenere la loro gravidanza e vengono gettati via. Ce ne sono e ce ne saranno sempre perché il divieto di congelare embrioni ha sollecitato un grande numero di centri a prendere questa strada, che quasi nessun altro Paese percorre. Non sarebbe molto nobile offrirli ai ricercatori inglesi, che così non avrebbero bisogno di ricorrere alle mucche o alle coniglie? Potrebbe essere una iniziativa del Ministro Turco, o del Comitato di Bioetica, o dello stesso Monsignor Sgreccia. No, non voglio essere ringraziato.

Repubblica 7.9.07
Il ministro della solidarietà sociale: Prodi ha promesso collegialità ma resto preoccupato
"La ricetta di Amato è sbagliata ormai è succube della Lega"
Ferrero: la sicurezza non è decoro urbano
di Liana Milella


Due provvedimenti. Chiederò a Prodi di distinguere il tema della criminalità da quello della vivibilità delle città. Servono due provvedimenti distinti e separati
Giuliani. Mai avrei pensato che il centrosinistra italiano adottasse come modello l´ex sindaco di New York Giuliani. Così si insegue la destra

ROMA - Boccia la richiesta dei sindaci sui poteri di polizia («Chi dev´essere rieletto può cedere a pressioni arbitrarie»); accusa il Pd di subire, sulla sicurezza, «l´egemonia della Lega»; di Prodi si fida («Ha promesso di coinvolgermi»), ma il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero fa una proposta che può non piacere ad Amato: «Facciamo provvedimenti distinti per criminalità e vivibilità urbana».
Ha visto che i sindaci vogliono le funzioni di polizia giudiziaria?
«È una richiesta molto sbagliata perché l´ordine pubblico deve essere gestito dallo Stato in modo omogeneo. Affidare a chi viene eletto su un territorio un simile potere può alimentare un esercizio arbitrario per favorire interessi di parte in vista di una nuova candidatura. Non a caso in Usa la struttura degli sceriffi non fu estranea al mantenimento negli stati del Sud di forme di razzismo contro i neri quando già c´erano le norme sulla parità dei diritti».
È un caso che la Lega si batta per la polizia locale?
«Purtroppo stiamo assistendo a un fenomeno preoccupantissimo di egemonia culturale e politica dell´estremismo della Lega su una parte significativa del Pd. Da un lato, si fa di tutt´erba un fascio, e si mettono assieme il contrasto alle rapine violente nelle ville e agli omicidi della ‘ndrangheta con la lotta ai lavavetri, criminalizzando la marginalità sociale e suggerendo soluzioni penali. Dall´altro, ha la meglio l´egemonia della destra per cui all´insicurezza dei cittadini, che è un fenomeno vero, si risponde solo sul terreno del decoro urbano e si vogliono togliere di mezzo lavavetri, accattoni, graffitari. Senza tener conto che l´insicurezza deriva soprattutto dalla precarietà e dalla rottura dei legami sociali».
Se passasse il piano Amato non cambierebbe niente?
«È dimostrato che la percezione d´insicurezza cresce anche quando calano i reati. Ma i sindaci e Amato cadono nella logica del capro espiatorio, con cui si dà un nome a una paura che ha cause diversificate. Quel nome è "immigrato". Così il centrosinistra rischia di adottare il modello usato per anni dalla destra. Ma l´insicurezza non scende e si creano emarginazioni urbane ancora più distruttive».
Cofferati si vanta di aver aperto un dialogo con An.
«Ciò aumenta le mie preoccupazioni perché conferma il rischio della subalternità del centrosinistra alla destra e la possibile produzione di veleni nel corpo sociale che impiegheremo anni a bonificare».
Da giorni il suo segretario Giordano diffida Prodi dal rincorrere la destra sulla sicurezza. Ma non si rischia il permissivismo?
«La sicurezza è un problema per tutti, ma se la destra criminalizza la marginalità sociale, la sinistra è tenuta a distinguere bene tra criminalità e marginalità, deve reprimere la prima e intervenire sulla seconda per recuperarla. Per questo la sinistra ha inventato il Welfare. I poveri non vanno messi in galera, ma aiutati a uscire dalla povertà. Com´è avvenuto a Pisa dove c´è una giunta di sinistra ma senza Rifondazione: 12 anni fa c´erano alcune centinaia di rom e solo due ragazzini andavano a scuola. Ora tutti i bambini rom frequentano la scuola dell´obbligo e qualcuno prosegue, la maggioranza dei 470 rom abita in casa e non più nei campi, e una buona fetta lavora».
Amato teme la deriva fascista se non protegge la moglie aggredita dal lavavetro.
«Il lavavetri che aggredisce va perseguito penalmente, ma ciò non giustifica il prendersela con tutti i lavavetri. Condivido la proposta di Chiamparino, se si regolarizza la loro attività la si controlla. Ma se centinaia di persone che vivono pulendo i vetri vengono cacciati non si rischiano guai peggiori per la sicurezza?».
Amato dice basta alla «sociologia d´accatto».
«È fuori bersaglio. Propongo soluzioni diverse da quelle annunciate perché sono convinto che siano sbagliate e controproducenti anche in termini di sicurezza».
E Mastella che parla della vecchietta scippata, senza pensione, e della gente che «non ne può più»?
«Bisogna commisurare tutto alla gravità del reato. Un omicidio è un omicidio, uno scippo è uno scippo. Da un lato ci sono la certezza della pena e il potenziamento dell´attività investigativa, dall´altro il recupero sociale. Molti furti in casa impuniti fanno sentire la gente in balia dei criminali quasi che la giustizia non ci fosse. Occorre intervenire qui, con nettezza, all´interno dell´ambito costituzionale. Ma non si può sbattere la gente in galera e basta, anche perché il carcere ha uno scarsissimo potere rieducativo».
A Roma la task force voluta da Veltroni vanta il sequestro di tonnellate di merci contraffatte. È di sinistra?
«Che ci sia anche questo nel capitolo sicurezza è indice dell´imbarbarimento. Non mi pare un´emergenza sociale, semmai ha a che fare con la tutela delle griffe, ma di fronte a un´evasione fiscale così alta lo stesso dispendio di forze potrebbe essere indirizzato lì e otterremo un maggiore risultato».
Entrando nel governo pensava che l´ex sindaco Giuliani sarebbe diventato un riferimento per palazzo Chigi?
«Francamente no».
Crede a Prodi che promette di coinvolgerla?
«Aspetto di essere convocato alla prossima riunione, anche se non nascondo di essere molto pessimista e molto preoccupato. Ma una cosa, per me, è decisiva: chiederò che i provvedimenti sulla criminalità e sul vivere urbano siano due cose ben distinte».

Liberazione 7.9.07
Cofferati e Domenici: "Vogliamo armarci"
Nascono le prime giunte militari...
di Davide Varì


Non si ferma la deriva di destra di alcuni rappresentanti del Piddì. I sindaci di Bologna e Firenze chiedono i "poteri di polizia" per poter controllare,
cacciare dalle loro città «le persone indesiderate». Ferrero: «Il controllo dell'ordine pubblico è una prerogativa dello Stato nazionale»

Tutto il potere ai sindaci. Timoroso di venir superato dal collega Domenici e dal di lui fedele vicesceriffo Cioni - gli ideatori della famigerata ordinanza antilavavetri - Sergio Cofferati ha rotto ogni indugio e spostato ancora più avanti la campagna per il decoro delle città del belPaese: «Ai sindaci - ha detto ieri - devono essere assegnate funzioni di polizia giudiziaria». «Una misura indispensabile - ha fatto eco lo stesso Domenici - per allontanare alcune presenze indesiderate». Tradotto: dateci subito nuovi poteri per cacciare senza troppe storie lavavetri, mendicati, zingari e poveracci d'ogni fatta.
Stavolta, seppur nella sua solita furia securitaria, bisogna almeno dar atto al sindaco di Bologna di averci risparmiato nuove esegesi del pensiero di Lenin e Gramsci, branditi come clave da Giuliano Amato e da Domenici stesso per legittimare e giustificare - giustificare da sinistra - la nuova caccia agli ultimi. Un po' come se Erode citasse Maria Montessori per spiegare la strage degli innocenti.
No, Cofferati non scomoda nessuno degli avi della sinistra, si limita a citare Tex Willer - «ricordo che Tex è amico degli indiani...», e non dei romeni verrebbe da aggiungere - ma trova comunque il tempo di scagliarsi contro la sinistra «benoltrista e benaltrista». Quella che, sempre secondo l'ex leader della Cgil, non ha la forza ed il coraggio di affrontare i problemi più scottanti. Emergenza writer e lavavetri per primi.
E mentre il primo cittadino di Bologna vagheggiava la nuova figura del sindaco-sceriffo del nuovo millennio, quello di Firenze annuiva e visibilmente soddisfatto aggiungeva: «Non sono contrario a interventi di polizia giudiziaria. Bisogna indicare i casi in cui la polizia municipale può intervenire con poteri analoghi a quelli delle forze dell'ordine».
Insomma, Firenze chiama e Bologna risponde. Del resto i due sindaci erano impegnati in un Forum organizzato in fretta e furia, l'emergenza incalza, sul tema del momento: sicurezza e degrado urbano. Un'occasione da non perdere per marcare ancor di più la distanza dagli atteggiamenti lassisti, o benaltrisi come direbbe Cofferati, di «certa sinistra».
Quella sinistra che ieri, per voce del ministro della solidarietà Paolo Ferrero, ha immediatamente rispedito ai mittenti la proposta dei sindaci-poliziotti: «Sono assolutamente contrario alla proposta avanzata oggi dal sindaco di Bologna Cofferati. Il controllo dell'ordine pubblico - ha spiegato il ministro - è una prerogativa dello Stato nazionale e credo sia bene che rimanga tale. Se dipendesse da chi viene eletto per amministrare una città si potrebbe rischiare che venga utilizzato a fini propagandistici o elettorali».
Ed ancora: «La gestione dell'ordine pubblico da parte degli sceriffi - ha chiuso duro Ferrero - ha avuto un ruolo determinante nel mantenimento del razzismo nel sud degli Stati Uniti».
Altrettanto netto il giudizio che arriva da Giovanni Russo Spena, capogruppo al Senato di Rifondazione: «C'è un tentativo di inseguire la destra sul suo terreno che sarà pure dettato, come assicura il ministro Amato, dall'intenzione di evitare una deriva a destra, ma purtroppo sortisce invece proprio quell'effetto. La proposta Cofferati - conclude Russo Spena - somiglia pericolosamente alle formule leghiste».
Ed è proprio la Lega ad uscire rafforzata, e legittimità nei suoi atteggiamenti più intolleranti, da questa storia. Una Lega, a dirla tutta, che se la ride nel vedersi superata a destra dai futuri piddini e apprendisti sarkozisti: «Cofferati, Penati, Domenici - ha commentato sarcastico il padano Maroni - sono tutti sceriffini, cioè discepoli di Gentilini. Noi abbiamo la primogenitura - ha aggiunto il deputato leghista - con la differenza che quando lo dicevamo noi eravamo scomunicati e accusati di essere razzisti».
Nel frattempo, dopo il vespaio sollevato da Giuliano Amato che ha liquidato come «sociologia d'accatto» ogni atteggiamento diverso dal tanto invocato pugno duro, è arrivato D'Alema a cercare di mettere una pezza: «Il ministro Amato è un grande giurista, un garantista, non è un forcaiolo nè un reazionario». (Bruto è uomo d'onore, diceva Marco Antonio). Sarà per questo che da Marco Minniti, delfino storico del ministro degli Esteri, arriva un tiepido dietrofront: «Non solo la sicurezza non è nè di destra nè di sinistra, ma non lasciamo questo tema alla destra perchè il centrosinistra ha più mezzi per affrontarlo perchè sicurezza significa politica sociale e politica dell'integrazione».
Ma la proposta Cofferati, almeno stavolta, non convince nè il sindaco di Torino Sergio Chiamparino - «Bisogna evitare di trasformare i Sindaci in Prefetti o in Questori» - nè gli uomini immagine di Veltroni che per bocca di Pino Battaglia fanno sapere che l'ipotesi sindaci-sceriffi va contro la Costituzione e le leggi che assegnano a Governo e Magistratura la competenza esclusiva dell' ordine pubblica e dell'attività giudiziaria». Infine Rosi Bindi, una delle poche voci critiche del piddì: «La sicurezza è un valore che va assolutamente perseguito con misure di ordine pubblico - ha detto il ministro a Mestre - ma anche con misure di solidarietà e integrazione sociale perchè sempre con persone abbiamo a che fare, che siano lavavetri, prostitute o clandestini. È necessario far applicare la legge e pretendere il rispetto dei doveri - ha aggiunto - ma al tempo stesso dobbiamo interessarci del loro destini. Ci liberiamo dai lavavetri se liberiamo i lavavetri dal fare i lavavetri».

Liberazione 7.9.07
Mastella: «Gli assassini di Gorgo al Monticano non erano indultati».
E Beppe Grillo lo attacca


Il comico genovese si adegua alla campagna scatenata dai giornali di destra contro il provvedimento arrivando ad offrire «i suoi legali» ai familiari delle vittime perché querelino il Guardasigilli

Poco importa che le cose non stanno esattamente come le raccontano. Poco importa che - se proprio si vuole andare a fare i pignoli - le responsabilità vanno cercate, ma non sembra fra le fila dei legislatori. Perché anche se i giornali di destra sono piene di dichiarazioni di anonimi «difensori dell'ordine» che sparano a zero contro l'indulto, ieri si è venuto a sapere che uno degli indagati per l'atroce delitto di Gorgo al Monticano - dove due custodi di una villa sono stati barbaramente uccisi -, quello che era fuori dal carcere grazie al provvedimento di clemenza, era stato consegnato alla polizia di Palermo. Perché lo estradasse nel suo paese, l'Albania. Provvedimento mai eseguito e non si sa bene perché.
Tutto questo, però, conta poco, perché la campagna di destra contro l'indulto è proseguita come se nulla fosse. E da qualche giorno a dar manforte a queste voci, si è unito anche il blog di Beppe Grillo. Da sempre paladino dei diritti degli utenti, ora dal suo blog tuona contro il provvedimento legislativo.
Al punto che l'altro giorno Beppe Grillo, nella sua home page, ha pubblicato la foto segnaletica di due delle persone coinvolte nell'omicidio accostandole a quella del Ministro di Giustizia, Mastella. Con un titolo che diceva "foto segnaletiche". Il contenuto era in sintonia con questa premessa: Grillo arriva ad offrire ai familiari delle vittime i suoi avvocati per far causa al Guardasigilli. «Il responsabile vero dell'indulto».
La replica è arrivata con lo stesso strumento, il blog. Questa volta quello del Ministro. Che interviene anche nel merito della questione. Ricordando a Beppe Grillo - che «evidentemente ha scarse nozioni legislative« - che il provvedimento di indulto non è di competenza del dicastero ma deve essere approvato da due terzi del Parlamento.
Ma tutto ciò per Mastella viene dopo. Al ministro, nel suo blog, interessa soprattutto spiegare qual è la filosofia che è dietro il provvedimento. Lo ha fatto ricordando le parole di Roberto Benigni che durante il suo tour ha fatto tappa anche alla Festa dell'Udeur, a Telese, pochi giorni fa. E qui, l'attore toscano ha ringraziato questo Parlamento «per essere riuscito a portare fino in fondo il provvedimento dell'indulto. Portando avanti un discorso di pietà che rende una società più giusta e più forte».
Una tesi che il ministro sposa appieno. Secondo Mastella, Beppe Grillo «non sa o finge di non sapere, cosa ancor più grave, che non è l'indulto che fa delinquere un delinquente. Non sa, ma è bene che sappia, che lo sciacallaggio qualunquista delle sue invettive non mi tange».
Non lo tocca, dice, ma la sfiora. Questo sì. Ed è qui che Mastella cita una parabola. Questa: «Un giorno che tre militari romani stavano picchiando un poveraccio per strada Gesù fermò il centurione che si accaniva e gli disse: "Fermati! Che cosa fai?" E quello gli rispose: "Ma che ti frega di questo disgraziato... questo è ...l'ultimo". "No-rispose Gesù - l'ultimo sei tu! Questo è il primo!"».
Fin qui lo scambio di battute fra il ministro e il popolare comico. Sulla cultura, sulla «filosofia» che ha ispirato il provvedimento di clemenza. Sullo sfondo restano però i problemi veri della giustizia. Problemi seri, drammatici come quelli evidenziati dal confronto tra i sistemi giudiziari, condotto dal Consiglio d'Europa e riportato dal Libro Verde del Tesoro sulla spesa pubblica italiana. Qui si sottolinea come proprio la giustizia sia stata nello scorso decennio «una delle voci in maggior crescita del bilancio dello Stato». E «tuttavia il nostro Paese arranca in termini di lunghezza dei processi, trascinati per anni». Servono 582 giorni per un divorzio, 1.210 per concludere un procedimento relativo ad un inadempimento contrattuale: in tutti e tre gli esempi l'Italia conquista il primo posto delle lungaggini.

Liberazione 7.9.07
De Oliveira, che tesi: Colombo era portoghese
A 99 anni presenta "O enigma"
di Davide Turrini


Alla veneranda età di quasi novantanove anni, alla mostra del cinema di Venezia è salito in cattedra Manoel De Oliveira. Lezione di storia, peraltro. Provoca: Cristoforo Colombo è nato a Cuba, un paese dell'Alentejo portoghese. Tanto che, sostiene De Oliveira, appena il navigatore ha messo piede sulla terraferma delle americhe, ha battezzato il suolo calpestato con il nome di Cuba. Ironia della sorte: più che colpire il fiacco e inutile nazionalismo italiota, la rivelazione deoliveriana rende piuttosto imbarazzante il Columbus Day statunitense con tanto di relativo gigantesco tacchino farcito. Fidel Castro riderà sotto baffi e barba.
Intanto, al Lido, De Oliveira e signora si sono premurati di accompagnare di persona i settanta minuti più intensi e struggenti della cinematografia del nostro. Cristovao Colombo. O enigma fonde mirabilmente pacatezza dell'esposizione di una roboante tesi storica, con l'epica del viaggio e della scoperta. In mezzo a tanti giovinetti che dietro la macchina da presa stanno fingendo di rischiare carriera e attributi nel Concorso veneziano, De Oliveira (di diritto nel Fuori Concorso, sezione Maestri) sembra il più agguerrito e lucido dei realizzatori. Dietro e davanti la macchina da presa il regista portoghese mette in scena la scoperta del nuovo mondo in versione riveduta, corretta e personalissima.
Una New York notturna e nebbiosa, meta negli anni '50 di Manuel Luciano (Ricardo Trepa, il Tom Cruise lusitano), che ha seguito il padre emigrato in Usa. Dopo la laurea in medicina a Coimbra ha ripreso conferenze e professione medica nell'est coast, mantenendo sempre la sua passione: la storia delle scoperte marittime portoghesi. Balzo temporale in avanti ed ecco Manuel Luciano e Silvia nel 1960, appena sposati, in viaggio di nozze verso il sud del Portogallo con relativa visita a quelle città costiere da dove sono salpati numerosi navigatori portoghesi. Altro salto in avanti fino ai giorni nostri dove Manuel e Silvia (interpretati teneramente da De Oliveira e dalla moglie Isabel) viaggiano negli Stati Uniti rintracciando monumenti statunitensi che statunitensi non sono (tra cui la statua della libertà) e la torre di Newport ritenuta opera di artisti portoghesi. La chiosa è nella casa di Porto Santo, nell'arcipelago di Madeira dove Colombo visse per molto tempo dopo i viaggi atlantici.
La storia, pare dirci De Oliveira, è scritta da presunti, prepotenti, maleducati vincitori. Ma nulla è spiegato: tutto è suggerito. Cristovao Colombo. O enigma non è quindi un pamphlet storico-scientifico, ma un resoconto romanzato delle magnifiche imprese e scoperte degli esploratori portoghesi (Colombo le Americhe, De Gama le Indie, Cabral il Brasile, Pinto il Giappone, Magellano il giro del mondo). Con in aggiunta una grazia. Sul finale la signora Isabel guarda il mare e dice: «il divenire è nostalgia». Arrivederci al prossimo film, maestro.

Liberazione 7.9.07
Embrioni uomo-animale, alcune verità e molte promesse avventate
di Sabina Morandi


Il via libera in Gran Bretagna di dare il via libera alla ricerca ha sollevato
molto clamore ma la realtà scentifica è più complessa e difficile

La decisione dell'Autorità britannica per la fertilizzazione e l'embriologia (Hfea) di dare il via libera all'utilizzo dei cosiddetti "embrioni-chimera", riservandosi però di valutare caso per caso, ha provocato la solita levata di scudi. Anche in questo caso la polarizzazione fra fautori della libertà di ricerca e difensori dell'embrione - il presidente della Pontificia accademia per la vita si è affrettato a definirlo un «atto mostruoso» - è stata occasione per sparare una raffica di stupidaggini, prima fra tutte il fatto che la creazione di un organismo ibrido con le tecniche di manipolazione genetica, sia una prima assoluta. In realtà il primo "organismo-chimera", definizione che richiama la figura mitologica con corpo di capra, testa di leone e coda di serpente, risale addirittura al 1973, quando alla Stanford University School of Medicine venne clonato un gene di rana all'interno di un batterio. Poi arrivò Dolly, la cui clonazione serviva proprio a inserire geni umani per ottenere una proteina necessaria alla coagulazione per gli emofiliaci.
Negli anni recenti la pratica di fabbricare organismi-chimera a scopo di ricerca si è così estesa che ormai i ricercatori non possono fare più a meno delle cavie con geni umani per le loro ricerche - basti citare l'"oncotopo" ingegnerizzato per sviluppare il cancro che è stato brevettato e commercializzato con successo dalla Du Pont e sul quale sono stati testati molti nuovi farmaci. Nel caso attualmente in discussione gli embrioni-chimera verrebbero creati trasferendo materiale genetico umano dentro un ovulo di bovino o di coniglio privato del suo Dna, allo scopo di ottenere cellule staminali per la ricerca. Inutile dire che la precisazione riportata da alcuni giornali nazionali, sul fatto che non sarà consentito «impiantare in utero tali embrioni» è una follia: nessun ricercatore ha mai manifestato l'intenzione di impiantare in un utero umano un ovulo di bovino o di coniglio... Dovrebbe far riflettere invece la motivazione che ha spinto l'Hfea ad autorizzare questo tipo di pratica ovvero la scarsità di ovuli umani da utilizzare per la ricerca, che in Gran Bretagna normalmente provengono dai trattamenti di fertilizzazione in vitro. La qualcosa dovrebbe spingere a interrogarsi sulle possibilità che una terapia basata sulle staminali possa venire utilizzata su larga scala visto che, appunto, non ci sono abbastanza ovuli nemmeno per la ricerca pura.
Ma cosa sono le cellule staminali di cui tanto si parla? Ogni cellula del nostro corpo proviene da un'unica cellula fecondata, l'ovocita, e contiene in sé lo stesso materiale genetico presente in origine. Nell'adulto ogni cellula si è differenziata per eseguire un compito preciso, segno che a un certo punto dello sviluppo dell'organismo ha imparato a "leggere" solo un certo frammento del genoma complessivo. Con i primi esperimenti di trasferimento del nucleo di una cellula adulta in un embrione, che furono condotti sugli anfibi negli anni '50, si è cominciato a indagare sul meccanismo della differenziazione e, soprattutto, sulle possibilità della riprogrammazione. La riprogrammazione del nucleo apre, almeno a livello teorico, possibilità infinite nella produzione dei tessuti, delle cellule e di organi interi. Cinquant'anni e migliaia di esperimenti dopo, però, il meccanismo di differenziazione cellulare non è ancora chiaro e le sorprese sono state talmente numerose da mettere in crisi alcuni dogmi fondamentali della genetica e della biologia.
Allo stato attuale si è dimostrato che molte cellule staminali possono essere coltivate e venire indotte a differenziarsi, ma le uniche applicazioni che hanno avuto un certo successo sono quelle relative al trapianto della cornea, dove le staminali vengono utilizzate quasi di routine. Ma le domande senza risposta sono ancora moltissime: perché solo alcune staminali si convertono nel tessuto desiderato? Perché quello che funziona con un organismo non funziona con un altro? E perché, a volte, le cellule trasformate non attecchiscono nell'organismo adulto? Se la ricerca deve fare ancora molta strada siamo anni luce lontani dalla definizione di una terapia standard, che richiederebbe milioni di cellule staminali per curare ogni singolo paziente e quindi, milioni di ovuli. Proprio per questo ci si chiede se la terapia con le staminali potrà mai diventare un intervento terapeutico riproducibile a basso costo, ovvero sostenibile nell'ambito di un sistema sanitario nazionale, oppure tutta la tecnologia - prelievo e coltura delle cellule staminali dal paziente, differenziazione e reimpianto - è talmente costosa che non è pensabile di riprodurla su larga scala.
E' raro che si discuta di questi problemi quando si affronta l'aspetto etico della questione, monopolizzato dal pesante veto dei cattolici sull'utilizzazione per la ricerca degli embrioni sovrannumerari, cioè quelli avanzati dalla fecondazione artificiale, veto tanto più inaccettabile in quanto gli embrioni sono destinati a morire in ogni caso. Viene fuori però che in Gran Bretagna, dove i soprannumerari possono venire utilizzati a scopo di ricerca (così come in molti altri paesi) non sono sufficienti nemmeno per la ricerca. Non ha senso quindi nemmeno gridare alla cura miracolosa perché siamo all'inizio della comprensione di questo tipo di meccanismi, ed è davvero crudele strumentalizzare la comprensibile angoscia dei malati per rispondere alle strumentalizzazioni della Santa Sede. Il problema è che, sulle biotecnologie, i giornalisti hanno la memoria davvero corta se riescono ancora a prendere sul serio un avventuriero come Craig Venter, che si rese famoso per aver più volte annunciato di avere vinto la corsa alla mappatura del genoma umano e ha mantenuto gli onori della cronaca veleggiando verso le Galapagos con l'intenzione di brevettare ogni organismo incontrato sulla sua strada. E' di ieri l'ennesima boutade: lo scienziato-manager avrebbe decifrato un intero genoma - il proprio - e sarebbe già in grado di mettere in circolazione un apposito test che, alla modica spesa di mille dollari, può leggerti il futuro nei tuoi cromosomi. Alla faccia della scienza.

Liberazione 7.9.07
Cortocircuito Italia sugli schermi della Mostra


Fischi e proteste accolgono "L'ora di punta" di Vincenzo Marra, dopo Porporati e Franchi ultimo dei nostri registi in concorso
Tre film, tre buchi nell'acqua. Quali sono i criteri di scelta del festival? Certo è che il cinema italiano migliore non corre per il Leone

Vincenzo Marra ieri era a Venezia, ultimo italiano in concorso. Vincenzo Marra, e i titoli dei giornali già da giorni gridavano all'ultima spiaggia, dopo le delusioni di Franchi e Porporati. Vincenzo Marra, bella speranza del nostro cinema migliore.
In queste ultime ore il regista napoletano di Tornando a casa e Vento di terra ha avuto un bel peso sulle spalle, non c'è dubbio. I fischi e le risate (non richieste dalla sceneggiatura) con cui è stato accolto il suo L'ora di punta (da oggi in sala con 100 copie, 01 Distribution) lo hanno comprensibilmente infastidito. Ma anche noi - critici e spettatori - abbiamo ricevuto una bella botta. I selezionatori, mettendo ben tre film italiani in concorso, ci avevano riempito di aspettative, andate una alla volta tutte e tre in fumo.
Cose che possono succedere, ma che avrebbero bisogno anche di qualche spiegazione. Perché qui a Venezia, di cinema italiano buono ne abbiamo visto (il Molaioli della Settimana della Critica, Zanasi e Guzzanti delle Giornate degli Autori, il giovanissimo Pietro Marcello e Barbara Cupisti degli Orizzonti doc), ma fuori dal circuito principale del concorso. Dove invece sono arrivati tre film che, per ragioni anche simili, non sono riusciti.
L'ora di punta di Vincenzo Marra soffre degli stessi errori di fondo del Il dolce e l'amaro di Andrea Porporati. La parabola del giovane picciotto del secondo, nel primo si traduce nella discesa agli inferi di un giovane finanziere, che per compiere la sua scalata sociale svende mutande e anima.
Il problema però non sono i temi scelti, quanto gli svolgimenti. Marra, come Porporati, cade in uno stile di racconto tra la fiction tv e il fotoromanzo d'epoca. Zoomate sulle facce dei cattivi con gli occhi serrati e il sopracciglio alzato, battute di imbarazzante banalità, trame da Reader's Digest, attori trasformati in macchiette. Protagonista, nel caso specifico di Marra, un attore quasi sconosciuto (e fin qui niente di male), Michele Lastella, che mastica e male le battute e una co-protagonista, la bella Fanny Ardant, trasformata dal trucco in una specie di strega di Biancaneve. Il pubblico non ha potuto fare a meno di ridere davanti a salti di montaggio (del pure bravissimo Luca Benedetti) che ci scaraventano da una stretta di mano a una scopata e a riprese (del pure bravissimo Luca Bigazzi. Ma che è successo?) di imbarazzante piattezza televisiva. Marra pensa che la critica lo accusi di aver fatto un film troppo sgradevole nei confronti della Guardia di Finanza. Lo vogliamo dissuadere dal prendere questo abbaglio: la critica lo accusa solo di aver fatto un brutto film.
Sono parole dure, lo sappiamo, da rivolgere a qualcuno che ha passato tre anni della propria vita a lavorare ad un progetto in cui crede. E gli auguriamo che la sala e gli spettatori gli diano comunque più soddisfazione di quanto non gliene daremo noi. Ma i festival si nutrono di questa brutalità: vedo il film e ne do un giudizio. Tento - da critico e da spettatore - di tenere in conto il lavoro duro di tutti, ma non mi tiro indietro. Se è necessario, se sono in grado di motivartelo, se ho la passione per dirtelo, lo dico: hai fatto un film non riuscito.
Ma qui a Venezia, luogo deputato alla scarnificazione del prodotto cinematografico, ci poniamo anche altre domande: chi sono i responsabili delle scelte del concorso? I selezionatori, il direttore Müller, i distributori che gestiscono il mercato? Ognuno ha una parte in commedia? E quale?
Sono domande rese legittime da un evidente cortocircuito, che ha fatto deflagrare la presenza italiana al più importante festival nazionale e non solo. E ancora più legittimate dalla discussione in atto su giornali e televisioni sulla qualità del nostro cinema, la sua capacità di rappresentare la realtà e di fare un buon prodotto. Venezia mette sul piatto la contraddizione: il cinema italiano buono c'è, ma non sta in prima fila.
E magari non riesce nemmeno ad arrivare in sala. Speriamo non sia il caso de Il passaggio della linea , piccolo documentario di Pietro Marcello, un ragazzo che non arriverà nemmeno a 25 anni, che in una sessantina di minuti ci racconta un'Italia che nessuno vede più. L'Italia dei treni espressi, quelli che percorrono centinaia di chilometri nella notte, quelli che non conoscono l'alta velocità ma solo un lento degrado, che sferragliano, cadono a pezzi, distruggono l'udito dei passeggeri con i loro maledetti cigolii. Quelli che ancora oggi trasportano centinaia di uomini da sud a nord, da nord a sud, maghrebini e operai interinali, senza più sogni da costruire in un altrove lontano da casa, ma solo alla ricerca di qualche ora di lavoro da qualche parte. Tra loro, Pietro Marcello scopre Arturo Nicolodi, uno che cinquanta anni fa fondò il partito della Nuova Europa a Bolzano, uno dei firmatari del manifesto di Ventotene, un anarchico cittadino del mondo che un giorno viene cacciato dal lavoro perché non sta alle regole. Uno che gli avvocati in tribunale dichiarano pazzo e lasciano senza uno straccio di rimborso. Arturo allora fa il suo "passaggio della linea" e decide di farsi barbone, viandante notturno di treni. L'espresso Bolzano-Roma per trent'anni è la sua casa. Fiero della sua assoluta libertà, forte solo delle sue convinzioni, Arturo è il re del mondo degli abissi, notturni e oscuri, in cui vive un'Italia che nessuno vede mai. E che vecchi treni accolgono e proteggono come antiche e acciaccate mamme.
Senza nessuna concessione televisiva, con rigore di immagine e di sguardo, Pietro Marcello (prodotto dalla coraggiosa Indigo film) ci dice del nostro paese più di quanto non facciano i tre film in concorso messi insieme. Speriamo che questo giovanissimo autore abbia in futuro lo spazio per crescere e sperimentare. Ma non è detto.

Corriere della Sera 7.9.07
Diffide legali ai medici: così le coppie aggirano la legge 40 e l'obbligo del triplice impianto
Fecondazione, si torna a congelare gli embrioni
di Simona Ravizza e Monica Ricci Sargentini


In tutta Italia casi di coppie che rifiutano l'obbligo delle norme sul triplice impianto
Fecondazione, legge aggirata: si torna a congelare embrioni
Diffide legali ai medici per evitare gravidanze plurigemellari

MILANO — Coppie in rivolta contro la normativa sulla fecondazione assistita. Sono sempre più numerosi, infatti, i rifiuti (notificati per iscritto ai direttori sanitari dei più importanti ospedali italiani) all'impianto di tutti gli embrioni ottenuti. L'obiettivo è di evitare gravidanze plurigemellari che aumentano del 40% i rischi di aborti prematuri e gravi malformazioni dei neonati. Sta crollando così nei fatti uno dei cardini della legge 40. Cresce l'imbarazzo nel mondo medico, stretto fra il rispetto della normativa e quello del volere della donna.
Crolla di fatto uno dei punti cardine della legge 40 sulla procreazione assistita. L'obbligo di mettere nell'utero tutti gli embrioni — parificati dalle norme del 2004 a vite umane — adesso vacilla sotto i colpi delle lettere di rifiuto che le coppie cominciano a presentare nei più importanti ospedali d'Italia. Testi, per lo più scritti a mano, con frasi del tipo: «I sottoscritti (...) diffidano il direttore sanitario dal trasferire tutti gli embrioni ottenuti». Quelli che rimangono tornano, dunque, a essere congelati.
«L'utero è mio e me lo gestisco io», era lo slogan ai tempi della battaglia per la legalizzazione dell'aborto: paradossalmente, a tre anni di distanza dalle normative sulla fecondazione in vitro, la musica è la stessa. Chi ricorre alla diffida vuole evitare gravidanze plurigemellari che, secondo le stime dei medici, aumentano del 40% il pericolo di aborti prematuri o di malformazioni dei neonati. Le donne che rifiutano di farsi impiantare tutti gli ovociti fertilizzati svuotano di significato uno degli articoli
clou della legge 40, il 14, comma 2: «Le tecniche di produzione (...) non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario a un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre». È la norma, per intendersi, approvata con l'intento dei sostenitori della «vita umana anche se ancora in provetta», ma da subito duramente contestata dai promotori del referendum del giugno 2005 per i suoi rischi. Non solo: la crioconservazione degli embrioni è tassativamente vietata, nello stesso articolo, al comma 1.
La rivolta contro il trasferimento degli embrioni a tutti i costi fa leva sull'articolo 13 delle linee guida approvate dal ministero della Salute nel giugno 2004 («Il transfer non è coercibile »).
Ma i medici sono in difficoltà. Ammette Guido Ragni, direttore del Centro di sterilità della Mangiagalli: «Noi dobbiamo rispettare il volere della donna che non può essere obbligata a un triplice impianto. Il problema è che la legge 40 prescrive il contrario ». Per cautelarsi, la Mangiagalli si è impegnata — caso per caso — ad avvisare la magistratura. «Il problema è serio — conferma Guglielmo Ragusa, responsabile del Centro di riproduzione assistita dell'ospedale San Paolo —. Il transfer di solo due ovociti fecondati è offerto, comunque, in situazioni particolari, soprattutto per pazienti sui 30 anni. Per il terzo embrione si procede, poi, a un programma di congelamento ovocitario». Nelle ultime settimane il Cecos, che raggruppa 28 centri privati specializzati nella fecondazione in vitro, ha diffuso un questionario per sondare l'applicazione dei punti controversi della legge 40. Tra questi il segretario nazionale dell'associazione Claudia Livi ha inserito l'articolo 14.
Ci sono donne che rifiutano anche l'impianto di un embrione che presenta gravi anomalie. «All'inizio la coppia dichiara che si farà trasferire tutti gli ovociti fertilizzati, come dice la legge — spiega Emanuele Levi Setti, primario di Medicina della riproduzione all'Humanitas di Rozzano —. Ma nessuno, poi, vieta loro di cambiare idea, anche perché non sono sanzionabili. In questo caso scatta il congelamento. Da noi non ci sono ancora stati casi del genere, ma sappiamo che ci troveremmo davanti a un vizio di legge». Allarga le braccia il ginecologo Stefano Venturoli, tra gli autori delle linee guida, direttore dell'unità operativa di fisiopatologia della riproduzione dell'ospedale Sant'Orsola di Bologna: «Non c'è dubbio che il regolamento attuativo sul punto in questione modifichi lo spirito della legge. Però è stato approvato da una commissione con membri di diverso orientamento politico. Alla fine siamo stati tutti d'accordo sul fatto che nessuno può fare un atto di violenza contro la donna». Il risultato è una legge considerata in contraddizione con se stessa.

LA TESTIMONIANZA
Daria: così ho costretto i dottori a trasgredire la regola dei 3 ovociti
«Temevo le complicazioni di una gravidanza trigemina»

MILANO — Il 2007 era appena arrivato quando Daria (il nome è di fantasia) ha preso carta e penna per impedire che i medici di un noto centro pubblico milanese le trasferissero tre embrioni nell'utero. «L'ho scritto a mano — racconta al Corriere —, furibonda e spaventata. "Noi sottoscritti diffidiamo il direttore sanitario ecc.". Sono stata fortunata perché il medico che mi seguiva mi ha fatto capire che c'era questa possibilità. E ora vorrei che lo sapessero anche tutte le altre donne». Daria ha 27 anni e un marito gravemente infertile. Il suo sogno è una famiglia numerosa. Per coronarlo l'unica strada è la Icsi, la tecnica di fecondazione assistita in cui un singolo spermatozoo viene iniettato direttamente nell'ovocita. Così lei e suo marito, qualche mese fa, decidono di compiere il grande passo. Dopo gli esami di rito lei inizia la stimolazione. «È stato allora, durante un controllo ecografico, che mi è venuto il dubbio — racconta —. Stavo producendo molti follicoli e, come un incubo, ho pensato ai tre embrioni. Sapevo che non volevo correre quel rischio. Una mia amica aveva appena avuto una gravidanza trigemina sfociata in un parto prematuro. Un bimbo era morto, due erano stati per mesi in rianimazione e non si sa ancora se abbiano ritardi mentali».
La ragazza esprime i suoi dubbi al medico. «Lui ha ammesso subito che poteva essere un problema e mi ha detto che alcune pazienti lo avevano risolto scrivendo una lettera. Non mi ha proposto di fecondare solo due ovociti in modo da non produrre tre embrioni perché le mie possibilità di rimanere incinta sarebbero diminuite drasticamente». Ma il centro non fornisce dettagli sulla lettera e trovare informazioni non è facile. Daria è un architetto, come suo marito, e naviga quotidianamente su Internet. «È stata la mia salvezza. Mi hanno aiutata i siti delle associazioni dei pazienti come Mamme online o Cerco un bimbo.
Lì nei forum ho potuto comunicare in via privata con varie donne che l'avevano fatto». Quando il centro le ha comunicato i risultati del pick up (il prelievo degli ovociti), Daria era già pronta. «Mi hanno detto che si erano formati tre embrioni belli e vitali. Sono corsa al centro con la diffida in mano. I medici ne hanno preso atto, anzi sembravano quasi sollevati, e mi hanno trasferito solo due embrioni. L'altro è stato congelato». Purtroppo poi è arrivata la delusione. «Non sono rimasta incinta — spiega la ragazza — ma non mi pento della mia scelta. Ho preferito così piuttosto che correre il rischio. So di gente che in questi casi ricorre all'aborto selettivo. Ora sapere di avere un embrione che mi aspetta mi dà tranquillità. Spero di andare a riprendermelo entro l'anno».

Corriere della Sera 7.9.07
Canfora contro Holland sulla idea di «guerra santa»


MANTOVA Non uno scontro, come forse qualcuno si aspettava, ma neppure un dibattito: a un certo punto Luciano Canfora ha paragonato Tom Holland a un «anacoreta nel deserto», per evidenziare una certa attitudine dello scrittore inglese a lunghi monologhi che non favorivano il contraddittorio («faccio un piccolo intervento per vivacizzare un po' questa densa dottrina» ha detto ironicamente lo storico a sottolineare una certa stanchezza del pubblico). In ogni caso l'incontro (che soffriva della mancanza di un moderatore) sul tema della «guerra infinita», evento numero 20 ieri al Festivaletteratura, ha rivelato l'inconciliabilità delle interpretazioni storiche dei due protagonisti. Canfora, che mercoledì sera con Gian Antonio Stella e Giovanni Sartori aveva tenuto desta l'attenzione di circa mille persone sul tema della democrazia, ieri ha faticato non poco a trascinare Holland in quello che doveva essere il cuore della discussione e cioè se, come sostiene lo scrittore inglese nel suo libro «Fuoco persiano» (Il Saggiatore), il primo scontro di civiltà tra Oriente e Occidente sia avvenuto 2500 anni fa con le guerre persiane («Il re Dario che incita a distruggere i nemici è il primo esempio di guerra santa», ha esemplificato Holland).
Una tesi che Canfora ha ribadito di non condividere, perché basata su «concetti senza fondamento» come il fatto che la tirannide sia un modello politico tipico dell'Oriente «invece l'hanno inventata i Greci, e Sparta per Hitler era lo Stato razziale perfetto »). A Holland, che ammette di rielaborare le fonti storiche per vivacizzare il racconto, Canfora ha rimproverato una certa genericità, contraddicendo quasi ogni sua affermazione. «A me piace citare gli episodi storici, le date, i luoghi. Invece si torna sempre su quella dicotomia perché funziona da un punto di vista ideologico. Lo sforzo da compiere è liberarsi dai cliché».

Repubblica Firenze 7.9.07
Il desiderio ultima scoperta
di Luce Irigaray


La filosofa e psicanalista, pioniera delle pari opportunità, sarà domani a Carrara al festival "Con-vivere". I temi di questo intervento sono sviluppati nel libro "Oltre i propri confini" che uscirà il 2 ottobre per Baldini Castoldi Dalai

Ci troviamo oggi, come all´origine della nostra cultura, a doverci misurare con l´impegno di ripensare che cos´è l´umanità in quanto tale. Dobbiamo ormai considerare l´umanità come una specie vivente capace di desiderio. Dobbiamo dunque preoccuparci di sopravvivenza dell´umanità - in particolare preoccupandoci dello squilibrio del nostro ambito vivente, del nostro pianeta - e dobbiamo entrare in un´epoca storica in cui non sono solo i bisogni che regolano i rapporti fra cittadini, fra cittadini e cittadine, ma il desiderio.
Provvedere a una cittadinanza basata non solo sui bisogni, ma sui desideri, significa pensarla a partire dalla stessa umanità e con la sua crescita in vista. L´umanità si distingue da altri regni, in particolare dall´animalità, grazie a un certo modo di entrare in relazione che non è determinato solo dall´istinto, tutte le forme d´istinto: sessuale in senso stretto, ma anche di riproduzione, di possessione, di dominazione o sottomissione. Dobbiamo scoprire un modo di essere in relazione che non sia basato sulla soddisfazione dell´istinto, né su un piacere perverso.
Rispettare l´altro in quanto altro dovrebbe rappresentare il primo impegno per compiere la stessa umanità. Non voglio dire con questo che dobbiamo tornare a una sorta di dovere astratto imposto a noi da una morale universale. In questo caso restiamo senza relazioni vive fra di noi, ubbidendo ad una legge, civile o religiosa, imposta a noi dall´esterno. Parlo piuttosto della scoperta di un divenire umano come relazione all´altro in cui si mantiene il due che diviene così fonte di una nuova cultura e di una nuova cittadinanza, di una nuova fonte di vita per l´umanità. Ripartire sempre da due, nel rispetto l´uno dell´altro, è un modo di cominciare a risolvere concretamente i problemi di coesistenza fra le culture, le generazioni, i sessi. Certo si può pensare direttamente qui alla differenza fra i sessi, perché sono solo due, questi due rappresentano la sola differenza realmente universale, che ci costringe ogni momento ad articolare le relazioni fra natura e cultura, naturalezza e civiltà. Quando ho dedicato il mio libro "Amo a te" a Renzo Imbeni, e quando, tante volte, l´ho presentato con lui ad un pubblico misto, la mia intenzione era di offrire alla gente l´esperienza di un nuovo paradigma democratico.
Ho voluto non solo parlare di questa possibilità, ma praticarla pubblicamente attraverso sia la pubblicazione di un libro, sia la messinscena della sua presentazione in due, nel rispetto della nostra differenza. Questa differenza non era solo sessuale, e non era solo una. Eravamo differenti per via della nostra appartenenza nazionale e linguistica, per via della nostra formazione intellettuale e anche delle nostre scelte politiche.
La reazione della gente ha confermato che la differenza sessuale era la più fondamentale, quella a cui la gente era più attenta. Ma molti e molte si sono sbagliati quando hanno considerato la mia relazione con Renzo Imbeni come una tradizionale relazione amorosa. Certo, esistevano rispetto, amicizia e stima fra di noi, ma la dimensione che regolava la nostra relazione era prima di tutto una coesistenza civile rispettosa delle nostre differenze. Non siamo mai stati l´uno per l´altro individui neutri e astratti, e nemmeno individui sottoposti soltanto a differenze secondarie come sono l´appartenenza ad un paese, una lingua, un partito, eccetera. Questa verità della nostra relazione è servita sia al suo lavoro sia al mio, ma ci ha anche resi più fecondi verso il pubblico, in particolare il pubblico giovanile. La differenza fra i sessi è il cardine fra la vita privata e la vita pubblica e ne assicura il collegamento. A partire da essa possiamo cambiare sia l´una che l´altra allo scopo di raggiungere una nuova tappa del nostro divenire umano, verso una maggiore giustizia e felicità. La differenza sessuale non concerne solo aspetti un po´ vergognosi del nostro essere umani, da nascondere nella casa di famiglia e da riscattare grazie alla riproduzione dei figli. E´ tutt´altro. Essa è la base reale, vivente e dinamica di ogni relazione umana. Oltre al fatto che la differenza sessuale ci permette di compiere una nuova tappa nella conquista della nostra identità umana. Una tappa orizzontale in cui uomo e donna si aiutano a proseguire nella loro individuazione grazie alla loro relazione nella differenza. Rimanendo fedeli ciascuno e ciascuna a se stessi, e rispettando la differenza dell´altro, uomini e donne acquistano poco a poco la propria identità, un´identità ormai differenziata dalla semplice genealogia: da parte dell´uomo rispetto alla madre, da parte della donna rispetto al figlio (per alludere in modo un po´ caricaturale alle rispettive posizioni). E´ una nuova tappa nel compimento dell´umanità in rapporto a culture e regimi politici, di fatto basati sull´istinto, sessuale o procreativo, e i loro sostituti. Questa tappa necessita che esista una cultura del desiderio. Abbiamo bisogno di questa tappa per proseguire nel divenire della nostra umanità. La soluzione dell´individuo neutro e astratto non può essere d´aiuto per questo compito e la soluzione del separatismo fra i sessi neppure. Forse esse hanno rappresentato un periodo di transizione, di ripiegamento su se stessi, utile per potersi confrontare con l´impegno di entrare in relazione con l´altro/a nel rispetto della differenza fra i due, in particolare della differenza sessuale - sessuata - che è allo stesso tempo naturale e culturale. Questo atteggiamento richiede una crescita nel rapporto con noi stessi e con l´altro, gli altri. Richiede pure un cambiamento del nostro essere, dei nostri valori.
Una simile crescita ci è imposta oggi per diversi motivi. Certo l´uscita della donna dall´ambito familiare, la sua emancipazione dalla tutela statale, religiosa, familiare è uno di questi. Ma ci sono anche altri motivi: solo grazie al nostro desiderio nella differenza potremo usare tecnologie senza diventare loro schiavi. Abbiamo bisogno di disporre di una logica diversa rispetto a quella delle macchine, compreso il computer. Abbiamo bisogno di una logica che non sia definita fuori da noi, ma che si crei nella stessa relazione fra di noi. Una logica, un linguaggio in cui entrino il mistero, il silenzio, la creazione, l´imprevisto. Una logica e un linguaggio in cui l´arte sia più importante delle regole, comprese le regole morali, imposte dall´esterno. Una logica che ci regali energia invece di prendercene. Oltre al fatto di assicurare la nostra sopravvivenza, il desiderio ci dà un supplemento di vitalità che possiamo utilizzare per fare un passo di più nella conquista della nostra umanità al posto di scaricarla in un fare l´amore tanto più irrispettoso delle persone, del due, quanto infelice, e il cui unico scopo valido diviene fare figli e non quello di entrare in relazioni più intime, direi più personali e umane con l´altro.
Abbiamo bisogno di una cultura del desiderio anche per accedere a una società multiculturale democratica. Questo non può realizzarsi solo grazie a congressi fra i politici. Dipende innanzitutto da nostri gesti quotidiani nei confronti di ogni altro che incontriamo ad ogni momento della giornata, e anche della notte. Dipende dalla nostra capacità di rispettare il due, cioè di essere attenti alla differenza dell´altro rimanendo pure fedeli a noi stessi. A poco a poco creiamo così fra di noi un nuovo mondo, una nuova cittadinanza e cultura, un nuovo essere umani.
Come strumento a nostra disposizione abbiamo il nostro desiderio. Il desiderio nasce nella e dalla differenza. Dobbiamo coltivarcela con ogni altro per sostenere il nostro desiderio. E´ un modo nuovo di con-vivere di cui necessitiamo oggi.