sabato 24 ottobre 2015

Repubblica 24.10.15
Poesia e psicoanalisi quei versi che aiutano a guardare il mondo e a contenere il dolore
di Natalia Aspesi


Vittorio Lingiardi presenta “Alterazioni del ritmo” e spiega il suo amore per le parole domani a BookCity. Con letture di Fabrizio Gifuni
Poi alla fine non c’è altro modo per dire amore o dolore con appassionato, incancellato distacco se non chiudendo quei sentimenti del corpo e della mente in pochi versi, brevi come aforismi. Non ci sono altre strade per essere se stessi al di là della professione che definisce una persona, oltre le parole quotidiane, che raggiungerne altre, segrete, per arrivare alla verità profonda di sé. Vittorio Lingiardi è psichiatra, psicoanalista, docente alla Sapienza. Ha scritto una montagna di saggi sapienti e due libriccini di poesie, un minuscolo segmento della sua vita, che è in realtà la sua vita. Li ha pubblicati nottetempo, La confusione è precisa in amore nel 2012 e ora Alterazioni del ritmo , che viene presentato a BookCity. In tre giorni su 800 libri presentati a Milano, 60 sono di poesie.
Perché la poesia che sembrava luminosamente avviata all’estinzione sta tornando in modo prepotente?
«La poesia non parte e non torna, c’è. Perché come dice Cocteau, è indispensabile. Non so se è cresciuto l’interesse per la poesia, ma se sì, forse è anche merito del livello scadente di molta narrativa».
Lei psicanalista che bisogno ha di esprimersi in poesia?
«Io sono innamorato del linguaggio e non so comporre musica. E sono convinto che ci vogliono parecchi luoghi dentro di sé per avere qualche speranza di essere se stessi. La costruzione del verso è diventata il mio modo di osservare il mondo. Questo a volte mi aiuta anche nel lavoro di analista. Facilita il compito di stare a contatto con la memoria, i ricordi, i sogni».
Quindi c’è un legame tra psicoanalisi e poesia?
«Stando ai “ruoli”, l’analista ascolta e il poeta parla. Ma quello che unisce le due figure è la ricerca di una verità personale, propria o dell’altro. La ricerca dell’idioma, dell’origine di sé».
Le neuroscienze si interessano alla poesia?
«Hillman parla di una “base poetica della mente”. Neuroscienziati e psicologi cognitivi, che studiano il rapporto tra cervello e linguaggio, considerano la poesia uno degli eventi del cervello che “costruisce” la realtà in cui viviamo. I versi sono righe brevi, la poesia si serve della rima e di figure formali che permettono letture del mondo immediate, profonde, ritmiche. In questo senso la poesia ha più a che fare con la musica che con la letteratura.
C’è un momento in cui, forse tutti, almeno una poesia la scrivono. Lei non ha mai smesso, ma come ha cominciato?
«Agli inizi degli anni ’80, nella sala d’aspetto dell’Istituto dei Tumori di Milano, dove mia madre era ricoverata. Senza sapere perché ho preso un foglio e ho scritto una poesia, un modo spontaneo di dare forma al dolore. Per contenerlo e anche per guardarlo. Il poeta americano Frost dice che una poesia è “un arresto del disordine, una sosta contro la confusione”. La poesia si nutre di “disordine”. Senza movimento amoroso, senza desiderio, paura, abbandono, non arriva un verso. Ma quando arriva, quel disordine si arresta. Forse le mie brevissime poesie sono “esercizi spirituali”.
Chi l’ha incoraggiata?
«Giovanni Testori, dopo aver letto le mie poesie di ventenne. Fondamentale è stato Piero Bertolucci, che mi disse “usa la lima sulle parole”. Patrizia Cavalli che mi ha spiegato come si leggono a voce alta le proprie poesie».
Le sue poesie, spesso molto ironiche, sono autobiografiche?
«In parte. Dichiararmi poeta a cinquant’anni è stato quasi più difficile del primo coming-out. Rispetto alla precedente raccolta, queste sono una registrazione quasi in diretta di alcune trasformazioni della mezza età».
La parola cuore appare spesso nei suoi versi.
«Quasi mai come metafora dell’amore, sempre come muscolo cardiaco. Essere medico è fondamentale per la mia poesia. “Fibrillazioni, sincopi, aritmie/ tutto quello che fa quando non muore/ eccola è lei, l’altra metà del cuore”. E anche: “Holter. Il cuore si è ammalato,/ era l’unico organo/che non ho trascurato” ».
La Stampa 24.10.15
Michelle Bachelet
“L’America Latina è cambiata grazie a noi donne al potere”
“Fra Cile e Italia legami forti. Abbiamo fatto riforme sociali responsabili, siamo un Paese solido dove investire”
intervista di Fabio Martini


La presidente del Cile Michelle Bachelet, originale figura di socialista-riformista in un continente nel quale prevalgono i populismi di destra e di sinistra, è anche parte di un fenomeno sorprendente: i tre Paesi-guida del Sudamerica, Brasile, Argentina e Cile, sono guidati da donne. Un traguardo che per grandi Paesi europei, come Francia e Italia, è ancora una chimera.
Presidente, come spiega questa «coincidenza» in Paesi altrove considerati maschilisti?
«L’America Latina sta cambiando con ritmo molto accelerato, non solo nelle sue economie, ma soprattutto nelle sue culture. Le donne sono state un fattore chiave di questo cambiamento: hanno combattuto per la loro uguaglianza, sono state un fattore di cambiamento in postazioni chiave: nell’istruzione, nella campo della scienza, nei movimenti sociali, nelle piccole imprese, nei media. È normale che questo fenomeno si sia riflesso recentemente in una maggiore presenza nelle alte sfere dello Stato. Questo va riconosciuto e festeggiato».
C’è un valore aggiunto nelle donne al potere?
«Non bisogna accontentarsi: ci sono ancora molte aree in cui la nuova leadership delle donne non viene riconosciuta: nella direzione delle aziende private, nei partiti, in Parlamento. Penso che sia fondamentale che le nostre società abbiano in posizioni decisionali donne e uomini in modo equilibrato, per una migliore rappresentazione della società e per consentire alle donne di contribuire col loro punto di vista alle decisioni importanti».
Il Cile è guidato da una donna, l’Italia da un leader giovane: in una leadership quanto contano la giovinezza e il genere? O contano di più altre qualità?
«Oggi ciò che conta in politica è saper affrontare la crescente sfiducia dell’opinione pubblica verso le istituzioni. È in gioco la qualità della democrazia. Ci vogliono coraggio, nuovi paradigmi, molta libertà dai gruppi tradizionali di potere e la vicinanza alla vita quotidiana dei cittadini. Avere come leader una donna o un giovane non risolve automaticamente i problemi. Sono importanti i programmi, la forza di volontà e le alleanze. Ma credo che, di fronte a sistemi politici con residui di pratiche del passato, spesso patriarcali, essere giovani o donna può essere di grande aiuto per guidare i cambiamenti».
In Cile state preparando una riforma delle pensioni in controtendenza rispetto a quelle che si fanno in Europa: voi quale obiettivo vi proponete?
«Io non credo che si possa confrontare la situazione del Cile, che viene da una protezione sociale molto debole e discriminatoria, con quella europea, dove è vero il contrario. In Cile, nel corso degli ultimi due decenni i governi democratici hanno fatto grandi sforzi per rendere la protezione sociale un diritto effettivo. Questo è stato il sigillo del mio primo mandato e ora stiamo approfondendo la questione. È vero: è stato un processo lungo, ma abbiamo voluto essere responsabili, avanzando fino a dove le risorse fiscali ci permettono di espandere i diritti in modo sostenibile. Quest’anno, è finito il boom delle materie prime, le nostre capacità fiscali sono state limitate, eppure non abbiamo tagliato la spesa sociale e abbiamo aumentato i diritti. Una società di diritti effettivi per tutti richiede una politica economica per la crescita, una politica fiscale che promuova la sostenibilità dei benefici».
Generazioni di italiani non hanno dimenticato gli eventi degli Anni Settanta e molti hanno mantenuto un rapporto sentimentale verso il Cile. Nell’immaginario collettivo dei cileni, l’Italia cosa rappresenta?
«L’immagine che noi cileni abbiamo dell’Italia è molto positiva. La migrazione italiana, circa un secolo fa, fu importante e lasciò la sua impronta in diversi luoghi. E manteniamo un ricordo indelebile dell’Italia generosa che seppe accogliere migliaia di esiliati cileni nel periodo doloroso della dittatura, oltre a sostenere il processo di transizione verso la democrazia».
Lei ha incontrato Matteo Renzi, arrivato con imprenditori interessati a investire in Cile: cosa possono aspettarsi?
«Siamo molto lieti di ricevere il Presidente Renzi in Cile e la delegazione economica, che lo accompagna. Le aziende italiane sanno che siamo un paese serio con istituzioni solide e l’Italia è un importante partner commerciale per il Cile, il secondo nell’Unione europea».
Lei è stata rieletta con un grande suffragio popolare: che consiglio si sente di dare a Renzi, atteso entro il 2018 dalle sue prime elezioni politiche?
«Ogni Paese ha la sua tradizione, le sua cultura, le sue esigenze politiche e sarebbe sbagliato proiettare i modelli. I leader sono obbligati a pensare globalmente, ma per definizione è sbagliato dare consigli ai governanti di altri paesi. Preferisco ascoltare le loro esperienze».
Il Cile, come l’Italia dopo il fascismo, ha avuto un periodo di rinascita: la fine delle dittature danno una marcia in più ai Paesi feriti?
«Nel caso del Cile, ma anche in altri Paesi latino-americani, le transizioni sono state certamente stagioni di rinnovamento. Per l’autocritica di settori progressisti su alcuni atteggiamenti. che potevano aver contribuito al deterioramento della convivenza democratica. Perché il ritorno degli esuli ha portato un contributo cosmopolita. I cileni che ritornarono dall’esilio in Italia hanno prodotto tante trasformazioni in letteratura, nella musica, nella gastronomia. E hanno anche aiutato a riscoprire i nostri artisti, come Pablo Neruda e Roberto Matta».
Repubblica 24.10.15
La Cina taglia i tassi per la sesta volta e i mercati esultano
di Giampaolo Visetti


PECHINO. Per la sesta volta in meno di un anno la Cina ha tagliato i tassi d’interesse e la mossa, sommata all’effetto Bce sul quantitative easing, ha fatto tornare l’euforia sui mercati mondiali, tutti positivi in chiusura di settimana. La Banca centrale di Pechino ha ridotto il costo del denaro di 25 punti base (0,25%), tagliando anche per la quarta volta da novembre 2014 il coefficiente di deposito delle banche di 50 punti, portandolo al 17,50%, più altri 50 per alcuni istituti. Il tasso sui prestiti a un anno in Cina è sceso dal 4,6% al 4,35%, mentre il tasso riconosciuto sui depositi è calato dal 1,75% all’1,50%. Tre anni fa, quando per la prima volta le autorità monetarie cinesi tagliarono i tassi dopo il crack Lehman del 2008, il tasso sui finanziamenti a un anno era al 6,56%. Tra le misure adottate da Pechino per rallentare il calo della crescita e centrare l’obbiettivo di un Pil 2015 a più 7%, anche la rimozione del tetto ai tassi praticati sui depositi bancari. La speranza che il denaro a basso costo durerà a lungo, e che in Cina l’iniezione di liquidità dia nuovo slancio ai consumi ha fatto subito salire le Borse. Tokyo ha chiuso a più 2,1%. Shanghai è salita dell’1,17, Hong Kong dell’1,4%. Ancora più forti i balzi dei mercati europei e americani, convinti che Mario Draghi rafforzerà il QE entro fine anno . A giustificare l’ottimismo generale c’è anche il rialzo del prezzo degli immobili in Cina. In settembre il valore delle case è salito dello 0,3% rispetto ad agosto, dello 0,9% da inizio anno. Il settore vale il 15% del Pil cinese: nonostante nei primi nove mesi del 2015 gli investimenti nel mattone rimangano ai minimi dal 2009, settembre ha fatto registrare un balzo annuale del 15,3% nell’acquisto di alloggi nuovi. La reazione alle misure e ai dati di Pechino, dopo l’estate nera delle Borse e dello yuan, conferma l’impatto globale dell’economia cinese. A inizio settimana era bastata la conferma del rallentamento della crescita, nel terzo trimestre a più 6,9%, per far scattare l’allarme. I mercati avevano tenuto, dopo che gli analisti avevano previsto una frenata al 6,7%, ma nella zona euro e negli Usa erano risalite le voci sull’inaffidabilità dell’Ufficio statistiche cinese, accusato di occultare dati ben più pesanti. Rispetto all’estate il clima è però nettamente migliorato e gli investitori riconoscono che un Pil cinese a più 6,9% vale ancora il 30% della crescita mondiale. Il premier Li Keqiang ha assicurato ieri che la Cina farà «un uso ragionevole » del taglio dei tassi e che lo yuan «resterà stabile», non aprendo la corsa alla svalutazione competitiva. Gli stimoli accompagnano l’offensiva economica cinese in Europa con la firma in Gran Bretagna di contratti per 46 miliardi di dollari e con la visita di una delegazione di ricchi uomini d’affari del Dragone in Italia e Germania. La settimana prossima a Pechino è attesa la cancelliera tedesca Merkel, poi toccherà al collega francese Hollande.
Il Sole 24.10.15
Varsavia
La destra nazionalista si presenta in netto vantaggio sui liberali europeisti
Nelle urne le due anime della Polonia
di Luca Veronese


VARSAVIA Sono due donne a sfidarsi per guidare il prossimo governo in Polonia. Da una parte Ewa Kopacz, di Piattaforma civica, premier da poco più di un anno, conservatrice e liberale. Dall’altra Beata Szydlo, di Diritto e Giustizia, nuovo volto della destra nazionalista e populista.
Ma le elezioni generali di domani mettono i 30 milioni di elettori polacchi di fronte a una scelta che va oltre i candidati, oltre questa campagna abbastanza grigia e spesso indecifrabile. Il voto di domani mostra la contrapposizione tra due visioni della Polonia democratica che ha saputo rialzarsi dopo 45 anni di regime comunista. E che da quando è entrata nell’Unione, nel 2004, ha gestito al meglio i miliardi di fondi europei ricevuti e gli investimenti arrivati dall’estero riuscendo a fare raddoppiare il Pil.
Il premier uscente Ewa Kopacz, 59 anni, rappresenta una visione moderna, liberale, pro-business, di un Paese pienamente parte dell’Unione europea, ispirato da valori laici e meno legato alla tradizione religiosa: è la Polonia di Donald Tusk, leader carismatico di Piattaforma civica (in polacco Platforma Obywatelska, PO), oggi presidente del Consiglio europeo, dopo aver guidato il governo di Varsavia dal 2007 al 2014.
La sfidante Beata Szydlo, 52 anni, si propone come la paladina della identità nazionale, della tradizione cattolica più conservatrice, dei valori di una destra quasi sociale, favorevole all’intervento dello Stato nell’economia oltre che al sostegno delle famiglie e delle piccole imprese: è la Polonia di Jaroslaw Kaczynski, leader indiscusso di Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwosc, abbreviato in PiS), già premier indigesto all’Unione europea, oggi più che mai grande capo del fronte nazional-populista polacco nonostante abbia fatto, con arguzia, un passo fuori dalla luce dei riflettori cedendo la scena a facce più giovani e gradite agli elettori.
I sondaggi faticano a cogliere le intenzioni di voto di elettori indecisi come non accadeva da anni ma sempre poco partecipi con l’affluenza alle urne che anche in questa tornata dovrebbe restare sotto il 50 per cento. La destra ultra-conservatrice di Diritto e Giustizia viene data in testa con una percentuale di consensi che oscilla dal 30% fino al 37 per cento. I liberali di Piattaforma civica potrebbero conquistare dal 20% al 26% dei voti validi. «Diritto e Giustizia ha condotto una campagna elettorale più efficace. La vittoria inaspettata di maggio con l’elezione alla presidenza del loro candidato Andrzej Duda ha dato forza al programma della destra più conservatrice. E allo stesso tempo gli otto anni consecutivi al governo sembrano aver fiaccato Piattaforma civica e di certo hanno alimentato la voglia di cambiamento dei polacchi», dice nel suo ufficio di Varsavia, Donato Di Gilio, presidente e ceo di Core, società di consulenza per le imprese in Polonia.
Anche la frammentazione non aiuta le previsioni. Il nuovo Parlamento, sempre secondo i sondaggi, potrebbe vedere l’ingresso di altre nuove formazioni: Kukiz’15 il movimento anti-casta fondato dal musicista, attore e attivista Pawel Kukiz; il Partito popolare, attuale alleato di Piattaforma civica al governo; l’Unione delle sinistre; e Nowoczesna, il partito liberal-democratico dell’economista Ryszard Petru.
«Non serve fare tanti calcoli per capire che per Diritto e Giustizia sarà un trionfo», spiega Anna Materska-Sosnowska, politologa dell’Università di Varsavia. «Anche se dovessero mancare la maggioranza assoluta - aggiunge - potrebbero formare il nuovo governo con l’appoggio di altri piccoli partiti». E tuttavia, anche per la politologa polacca, nessuno può dire oggi se Diritto e Giustizia avrà i numeri per formare un governo con una maggioranza solida in Parlamento o se invece dovrà aggrapparsi a una coalizione eterogenea. Sarà la forza dell’esecutivo guidato da Beata Szydlo anche se comandato da Jaroslaw Kaczynski a dire infatti come la Polonia proseguirà sulla linea dello sviluppo degli ultimi anni, se l’incertezza prenderà il sopravvento o se ci sarà un’inversione delle politiche sociali ed economiche e una revisione delle relazioni con la comunità internazionale, e soprattutto con la vicina Germania e con le istituzioni di Bruxelles.
Nei comizi delle ultime settimane Beata Szydlo ha dichiarato di voler «cancellare il disastro combinato da Piattaforma civica negli ultimi anni di governo». Il programma annunciato dagli esponenti di Diritto e Giustizia mette in discussione anche le politiche economiche dell’attuale governo che comunque permetteranno al Pil polacco di crescere del 4% anche quest’anno dopo aver superato indenne la grande crisi internazionale. Ma che hanno probabilmente lasciato indietro una parte troppo ampia di popolazione, soprattutto tra i giovani e nelle aree rurali.
La deriva populista, simile a quella dell’Ungheria di Viktor Orban, è quindi perseguita con intenzione per cavalcare la disillusione. L’abbassamento dell’età pensionabile, le tasse per le catene della grande distribuzione e per le banche straniere, la volontà di controllare anche la Banca centrale si aggiungono così alla chiusura totale verso i migranti e alla condanna senza appelli delle donne che si sottopongono a fecondazione in vitro. «Non credo che il nuovo governo, qualunque esso sia, possa far crollare i pilastri sui quali la Polonia ha costruito la sua crescita. Vedo piuttosto il rischio - dice Di Gilio - che venga intaccata la credibilità che questo Paese ha conquistato con fatica tra gli investitori internazionali».
Corriere 24.10.15
I focolai del populismo dal villaggio all’Europa
Il caso di Erpatak, il piccolo centro ungherese dove il sindaco ha diviso i cittadini fra «costruttori» xenofobi e «distruttori» favorevoli all’integrazione. Un virus che contagia il continente da Sud a Nord, dalla Grecia all’Olanda e alla Francia, il Paese di Marine Le Pen che nei sondaggi arriva al 30 per cento
di Massimo Nava


Erpatak è una cittadina ungherese in cui il sindaco ha diviso gli abitanti in «costruttori e distruttori». I primi sono bravi cittadini che amano l’ordine, la giustizia, la patria. Gli altri sono i disoccupati, gli immigrati, gli zingari, gli emissari di una «congiura internazionale ebraica» interessata alla distruzione della Nazione e dei valori nazionali.
Fra questi valori c’è la memoria. Il sindaco celebra i volontari che combatterono con le SS contro i sovietici (altro nemico, sono naturalmente i comunisti), organizza cerimonie in cui si cantano le strofe in disuso dell’inno tedesco e si fanno saluti con il braccio teso.
Questo modello di razzismo, xenofobia e nazionalismo, con proclami antisemiti, è stato attuato in Ungheria, uno Stato che fa parte dell’Europa, lo stesso che oggi alza muri e fili spinati per respingere profughi e migranti che comunque non resterebbero sul suo territorio.
Il sindaco organizza processi pubblici per togliere sussidi ai disoccupati che non spalano «bene» la neve o che «rubano» la legna nei boschi. Quanto ai rom, se si attaccano alla linea elettrica sono visitati a casa dalla polizia e considerati criminali. E se non educano bene i propri figli, questi sono sottratti e dati in adozione per farne buoni ungheresi. La scuola è maestra di vita ungherese, i bambini cantano in girotondo i principi della Nazione.
Tutto questo lo abbiamo visto nel film di Benny Brunner, al Festival dei diritti umani di Lugano. È seguito un dibattito sui nuovi populismi. L’Europa, attenta a bacchettare una finanziaria o la vendita di vongole che misurano due millimetri in più, è raramente in prima linea per difendere l’identità di comunità democratica, senza distinzioni di razza e religione.
Il caso Erpatak, con il suo sindaco, Zoltan Orosz, personaggio ridicolo nel suo abbigliamento da «schutzen» tirolese (senza offesa per il Tirolo), virilizzato da stivaloni di cuoio neri e cinturone borchiato, è un caso estremo.
Al confronto, i populisti di casa nostra sembrano usciti da una scuola di tolleranza e buon senso. Però gli slogan razzisti continuiamo a sentirli. Il virus si diffonde, dentro e fuori l’Ungheria. I partiti xenofobi, nazionalisti, populisti si stanno affermando ovunque, dall’Olanda ricca e multietnica alla povera Grecia. In Francia, Marine Le Pen veleggia al trenta per cento nei sondaggi: un elettorato che forse sarà recuperato da Sarkozy, il quale non disdegna di «recuperarne» anche bisogni e posizioni.
È un atteggiamento che diventa trasversale ai partiti, sinistra compresa, dentro un’opinione pubblica che chiede ordine, sicurezza, protezione sociale. I buoni sentimenti e la saldezza di principi vacillano, se il virus si propaga laddove il terreno è più fertile e le cause più comprensibili: periferie, ceti popolari, quartieri difficili, fra immigrati di prima e seconda generazione, in competizione con gli ultimi arrivati.
La discriminante non è più fra partiti di destra e di sinistra, ma fra chi vuole stare in questa Europa per migliorarla, e farne una casa comune di progresso sociale e crescita economica, e chi ne vuole uscire considerandola l’origine e la causa dei problemi. Fra «uscire» nel senso di andare via dall’Europa e «buttare fuori» il confine è sottile, ambiguo, proprio come avviene nell’Ungheria di oggi.
Il Paese che per primo è uscito dal comunismo, aprendo la «cortina di ferro», che è entrato in Europa prendendone più vantaggi che svantaggi, adesso propaga un discorso antieuropeo, chiude frontiere e butta fuori gli altri. L’ideologia dominante è nazionalista e razzista. Ma Orban, il premier, fa parte dei Popolari europei.
Buttare fuori, significa cercare capri espiatori. La storia tragica dell’Europa potrebbe ripetersi. È un rischio concreto se si distruggono le basi di un modello sociale, se il welfare non garantisce nemmeno più i ceti medi, se la guerra è fra poveri, se il nemico diventa l’altro. Ieri gli ebrei. Domani a chi toccherà?
Repubblica 24.10.15
Il successo delle canzoni militanti che incitano a “opporre resistenza e armarsi”
“Pugnala, pugnala” Il rap dell’Intifada divide i palestinesi
di Jodi Rudoren, Rami Nizzal


RAMALLAH. Gli adolescenti palestinesi che entrano nel negozio di musica “True Love” hanno tutti la stessa richiesta: vogliono canzoni militanti. Quelle nuove. Il proprietario ha venduto pile intere di cd come “Gerusalemme sanguina”, nel quale compare il brano “It’an, It’an” (“Pugnala, pugnala”) con il suo martellante ritornello. «Quando ascolto queste canzoni mi sento ribollire dentro», dice Khader Abu Leil, 15 anni, spiegando che questa musica lo aiuta a caricarsi in vista delle dimostrazioni in cui scaglia pietre contro i soldati israeliani.
Ispirati dall’ondata di aggressioni e dagli scontri letali con le forze di sicurezza israeliane, i compositori della Cisgiordania occupata e di altri territori hanno iniziato a sfornare brani militanti spesso violenti. Condivisi su YouTube e Facebook, formano una colonna sonora dell’Intifada. In uno di essi si sente: «Pugnala il sionista e proclama che Dio è grande». In un altro: «Lascia che i coltelli infilzino il tuo nemico». Un terzo si intitola “Continua l’intifada”: in un filmato su YouTube si vede la giovane palestinese che ha estratto un coltello alla fermata dell’autobus di Afula e viene circondata da israeliani che le puntano contro le armi. La canzone incita a «opporre resistenza e armarsi, andando incontro al martirio». Adnan Balaweneh, autore di “Continua l’intifada”, dice: «Quando ho visto in tv i soldati aprire il fuoco contro la ragazza di Afula, ho sentito la necessità di scrivere un brano che fosse di ispirazione per l’intero popolo palestinese».
La tradizione palestinese di brani musicali di protesta risale alle rivolte degli anni Trenta contro i britannici. Ma parecchi esperti di musica palestinese affermano che le dimensioni del fenomeno di questi giorni sono insolite, alimentate da social media sempre più a ruota libera.
«Per me scagliare pietre nella prima intifada fu un modo per esprimermi», dice Ramzi Aburedwan, fotografato nel 1988 mentre da bambino lanciava sassi. Oggi dirige alcune scuole di musica nei campi profughi palestinesi. «Nella prima intifada lo strumento furono le pietre. Oggi sono i brani musicali. Musica e parole riflettono la situazione che stiamo vivendo. Non sono capace di scrivere una canzone che parli di natura, di bellezza, di pace: ogni giorno vedo filmati con l’esecuzione di giovani».
Basel Zayed, però, musicista e musico-terapeuta di Gerusalemme est, critica le parole delle canzoni che «non sono molto espressive, dato che ripetono per lo più gli stessi concetti: uccidi, colpisci, lancia bombe o fatti esplodere ».
Online spuntano nuove canzoni quasi tutti i giorni: il video su YouTube per “L’intifada dei coltelli” è un collage nel quale si vedono la Cupola della Roccia in fiamme e un uomo con la kefiah: mette in mostra prima una fionda, poi un pugnale ricoperto di sangue. Poi c’è “Investi, investi il colono”, brano nato durante una serie di attentati in automobile, un anno fa, e ripostato il 10 ottobre col filmato di un incidente ve-rificatosi lo stesso giorno in cui un palestinese sedicenne è stato ucciso dopo aver tagliato la gola a un israeliano a Gerusalemme.
«Le nostre canzoni non incitano la gente a compiere aggressioni », dice Balaweneh che ha scritto “Continua l’intifada” e scrive per un gruppo di strumentisti dell’Autorità Palestinese. «Le nostre canzoni vogliono invitare il popolo a farsi avanti per i suoi diritti. Adesso, le nostre canzoni devono parlare di azione, così che il sangue ribolla nelle vene».
Moltiplicatore di questa musica sono i social media, ma anche le radio e le tv palestinesi trasmettono queste canzoni. I cd sono quasi esauriti: si vendono a 10 shekel, circa 2,50 dollari, agli angoli delle strade di Ramallah e in negozi come “True Love”. Il proprietario, Abu Al Arayas, dice che prima gli chiedevano musica militante una volta al mese, mentre ora vende di continuo copie di “Gerusalemme sanguina”, sulla cui copertina la Cupola della Roccia, protetta da filo spinato, gronda sangue.
(© 2015 New York Times News Service Traduzione di Anna Bissanti)
Corriere 24.10.15
Lo spionaggio incrociato tra Usa e Israele
di Guido Olimpio


Alleati storici. Amici. Uniti dall’esigenza di affrontare spesso nemici comuni. Ma pronti a sorvegliarsi reciprocamente. E non da oggi, anche perché come spesso si dice fare la spia è il secondo mestiere più vecchio del mondo. L’ultima rivelazione sui rapporti non proprio facili tra Israele e Usa sotto l’amministrazione Obama è apparsa sul Wall Street Journal. Un articolo dettagliato, e potremmo anche affermare ben ispirato, dove si racconta come nel 2012 la Casa Bianca abbia mobilitato l’intelligence nel timore che gli israeliani lanciassero un blitz contro i siti nucleari iraniani. I satelliti e altre fonti hanno osservato ripetuti voli da parte dei caccia, incursioni simulate, manovre che non lasciavano dubbi su una possibile operazione. Un timore così fondato che gli Stati Uniti, all’epoca, decisero di spostare una seconda portaerei nella zona del Golfo nel caso esplodesse una crisi dalle conseguenze imprevedibili. Nei contatti con gli americani, il governo Netanyahu ha sempre chiesto azioni più energiche per rallentare il programma atomico degli ayatollah. E dunque sabotaggi con virus cibernetici (come è stato con lo Stuxnet), pressioni, iniziative che mettessero nell’angolo Teheran. Inoltre ha chiesto la fornitura di velivoli speciali — gli Osprey — adatti per missioni da commandos e superbombe in grado di bucare i bunker sotterranei creati dall’Iran. Ma la Casa Bianca aveva altre idee, ossia quella del negoziato, e riteneva che quello di Israele potesse essere anche un bluff. Allora c’è stata sì una collaborazione in questo campo, però «di livello basso» mentre la richiesta di armi è stata in parte respinta. Questo per non compromettere il dialogo con i mullah. Non solo. Gli Usa hanno cercato di tenere nascosta la trattativa iniziale all’alleato. Con loro sorpresa però un emissario israeliano in visita alla Casa Bianca ha rivelato che gli 007 avevano individuato la vettura usata dai diplomatici statunitensi impegnati nei contatti con la controparte in Oman. Da quelle parti nessuno si fida. Neppure del migliore amico .
Repubblica 24.10.15
Migranti e lavoro, le sfide dell’Europa
di Andrea Manzella


NELLE “conclusioni” dell’ultimo Consiglio europeo, alla questione istituzionale sono state dedicate 5 righe; alla questione profughi, 5 pagine. È giusto così. Ma l’emergenza rifugiati non deve fare dimenticare che nell’Unione c’è anche un’emergenza istituzionale: che si rischia cioè la dis-unione se non si riesce a costruire una efficiente architettura di governo, mentre le crisi si accavallano. Per giungere a questo risultato non occorre cambiare i Trattati. Bastano quelli che ci sono e, in più, basta razionalizzare e coordinare le regole e i nuclei istituzionali che negli ultimi anni si sono utilizzati per far fronte ai disordini finanziari e alle tragedie umanitarie.
Ma governo “efficiente” non significa ricorso al solo metodo verticale, intergovernativo, tagliando fuori i parlamenti. Al contrario, la natura stessa delle crisi da superare: quella umanitaria dei profughi di massa, quella economica della disoccupazione, ci dice che governo efficiente significa un governo che abbia una forte base parlamentare. Vale per gli Stati, vale per l’Unione.
Non è solo questione astratta di osservare i “principi democratici” che i Trattati pongono a fondamento di tutto. Il fatto è che crisi dell’accoglienza e crisi del lavoro richiedono risposte, non solo efficaci ma anche rispettose delle molteplici condizioni sociali e “coscienze di luogo”. E questo implica la trasparenza delle misure adottate e la responsabilità per esse davanti ai parlamenti.
Basti pensare ai tanti aspetti conflittuali che marcano la questione dei profughi. Da un lato, il diritto all’accoglienza in base alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e delle stesse Costituzioni degli Stati-rifugio. Dall’altro, il diritto delle comunità di destinazione di conservare la loro identità civica, i tratti essenziali della loro vita normale: nei servizi, nella sicurezza, nel welfare. È difficile perciò che la questione dei profughi sia componibile con le misure — pur necessarie, pur urgenti — decise solo nella cittadella di Bruxelles. È questione troppo percorsa da paure, tradizioni, umori che richiedono, per essere conciliati, l’intera forza rappresentativa di tutti i parlamenti dell’Unione: quello europeo e quelli nazionali insieme. È una esigenza non solo di legittimazione di quel che si fa e si vuol fare. È la necessità di disporre di valutazioni di prossimità, di filtri delle pubbliche opinioni, di conoscenza dell’ humus in cui le misure di accoglienza dovranno radicarsi.
Sono decisioni che riguardano temi ipersensibili come la collocazione e il regime dei campi d’accoglienza, la polizia di frontiera, i ricongiungimenti familiari, le penose — e pur indispensabili — distinzioni tra profughi economici e politici, il diritto d’asilo e i provvedimenti di rimpatrio. È difficile arrivare a soluzioni condivise senza una cooperazione interparlamentare profonda.
Nell’ambito dei Trattati, già sono istituite conferenze interparlamentari: per la governance economica, per la politica estera e di difesa. In una materia ancor più delicata, sarebbe ragionevole che il nostro governo prendesse l’iniziativa di una conferenza interparlamentare per le questioni dell’immigrazione. Una sede legittimata al controllo e all’indirizzo di tutto il complesso amministrativo necessario per dare un ordine, di civiltà giuridica e umanitaria, all’odissea dei migranti.
La stessa necessità di cooperazione interparlamentare si avverte per l’altra grande crisi europea: quella del lavoro. C’è una concreta proposta del governo italiano per una assicurazione europea contro la disoccupazione. Si chiede la istituzione di un Fondo comune salva- lavoro nei Paesi dell’euro colpiti da gravi crisi occupazionali. Uno scudo di base per l’integrazione temporanea degli esistenti fondi nazionali contro la disoccupazione, alimentato da risorse comunitarie. Esso renderebbe l’economia reale dell’Unione capace di reagire alle crisi, senza la distruzione, spesso irreparabile, di forze di lavoro.
E non è solo rimedio per i Paesi, come il nostro, ad alto livello di disoccupazione. Il meccanismo potrebbe essere usato, contro il rischio di ondate di licenziamenti, anche da Paesi che hanno attualmente un basso tasso di disoccupazione. Muovendosi così, l’Unione disporrebbe di una “arma assoluta”, il simbolo di una concretissima e popolarissima solidarietà politica e sociale. Di essa vi è estremo bisogno contro la marea euro-ostile, provocata proprio dalla disoccupazione di massa dei senza speranza, che non credono più all’utilità dell’Unione.
Il nostro ministro dell’Economia, Padoan, l’ha avanzata nell’ultima riunione dei ministri finanziari. Ma al livello intergovernativo non c’è stata finora risposta. Una urgenza di tale importanza sarebbe certamente meglio avvertita dalla cooperazione, dall’alleanza tra i parlamenti d’Europa, strutturalmente in grado di vedere più lontano.
Come per il problema dei profughi, così per il problema della disoccupazione, la sensibilità dei parlamenti e dei loro corpi elettorali — così vulnerabili dai populismi antieuropei — è molto più acuta di quella dei governi, frenati da tecnicismi che nascondono spesso chiusure sovraniste. Insomma, crisi di questa natura, tanto legate al comune sentire popolare, non si governano senza coinvolgere, in composizione organica tra loro, i parlamenti: europeo e nazionali. Sparpagliati, ciascuno per sé, sono un problema moltiplicato per 28. In cooperazione, potrebbero essere invece la soluzione.
Corriere 24.10.15
Il convegno
I ritorni di Marx e la riscoperta (consapevole) nell’era della crisi


«Con la crisi economica globale incominciata nel 2008, il vecchio Marx è tornato di moda. La vendita dei suoi testi, gli studi del suo pensiero, i convegni a lui dedicati si sono moltiplicati in tutto il mondo. Sono nati movimenti che direttamente o indirettamente ripropongono analisi classiste della società».
Aldo Tortorella, direttore di «Critica Marxista», ha aperto con questa premessa giovedì 22 ottobre il convegno internazionale «I ritorni di Marx», organizzato dalla rivista insieme con la Fondazione Luigi Longo presieduta da Guido Ratti. I lavori, che si concludono stamattina, si svolgono ad Alessandria, all’Hotel Diamante di Spinetta Marengo. Tra i tanti «ritorni di Marx», sostiene Tortorella, «la riscoperta di oggi è diversa da tutte le altre del secolo scorso. È una ripresa a occhi aperti». Cioè dopo il crollo sovietico, il trionfo del neoliberismo e la sua fine.
Molte le relazioni, tra cui quella di Stefano Petrucciani («Marx e la critica del neoliberismo»), Emiliano Brancaccio («Centralizzazione del capitale e internazionalismo del lavoro»), Enrico Donaggio («Ideologia e nuovo spirito del capitalismo»), Lia Cigarini, della Libreria delle Donne di Milano («Se Marx avesse capito») e Roberto Finelli («Mitologie e deficit antropologici nel pensiero di Marx e dei marxismi»). Finelli ha sostenuto che «la libertà comunista e l’antropologia comunista concepita originariamente da Marx non possono non evidenziare un deficit teorico radicale rispetto a temi come quello dell’individuazione e del diritto di ognuno a star dentro di sé come a casa propria». Il limite è nel vedere «l’individualità del singolo come luogo della regressione privata, del disvalore».
Il Sole 24.10.15
Il nuovo statuto. A gennaio l’assemblea nazionale per l’ok
Niente più file di cinesi ai gazebo: così cambiano le primarie del Pd
di Emilia Patta


Niente più file di cinesi davanti ai gazebo e regole più stringenti per l’iscrizione al costituendo albo degli elettori del Pd. Le primarie per la scelta dei candidati sindaci nelle grandi città si avvicinano e anche la commissione per le modifiche allo statuto del Pd presieduta dal presidente del partito Matteo Orfini nonché neo confermato commissario del partito a Roma sta per concludere i suoi lavori: la prima settimana di novembre, dopo il via libera del segretario e premier Matteo Renzi atteso dal Sud America (il rientro è previsto per il 30 ottobre), le proposte della commissione saranno presentate ufficialmente e sottoposte al dibattito dei circoli. Dibattito che durerà un mese e mezzo, in tempo per l’assemblea nazionale che a gennaio del nuovo anno dovrà votare le novità. In tempo, appunto, per vedere un altro film alle primarie che - come ha confermato lo stesso Renzi - si terranno tra febbraio e marzo nelle grandi città chiamate al voto a giugno. In primis Milano, Napoli, Bologna e ora anche Roma.
La prima novità è proprio l’istituzione dell’albo degli elettori del Pd, sul modello americano: il lavoro di incrocio dei dati delle precedenti primarie - sia nazionali sia locali - svolto in questi mesi ha certificato una base sicura di un milione e 400mila elettori circa. Base che ad ogni consultazione popolare potrà naturalmente allargarsi. L’iscrizione all’albo potrà avvenire come finora è stato anche al momento del voto, è l’orientamento prevalente della commissione. Presieduta da Orfini, la commissione è coordinata dal vice del Pd Lorenzo Guerini e ne fanno parte tra gli altri Fabrizio Barca, l’esponente della minoranza bersaniana Nico Stumpo, la prodiana Sandra Zampa, il responsabile formazione politica del partito Andrea De Maria (cuperliano), il segretario della Lombardia Alessandro Alfieri e il segretario del circolo di Trastevere (a Roma) Alberto Bitonti.
Iscrizione anche al momento del voto, dunque, che come si ricorderà fu una battaglia dello stesso Renzi già alle prime primarie per la premiership contro Bersani del 2012. Tuttavia le modalità saranno più stringenti ed è prevedibile un calo della platea rispetto ai numeri storici: l’elenco sarà pubblico, e questo fatto di per sé respinge i simpatizzanti meno convinti e determinati; e soprattutto sarà stabilito che avranno i requisiti per partecipare alle primarie solo i cittadini che li hanno anche per votare alle secondarie, ossia alle amministrative e alle politiche vere. Tradotto, niente cittadini extracomunitari come si è visto da ultimo alle primarie liguri (quelle che hanno suscitato l’indignazione e l’uscita dal partito di Sergio Cofferati), e niente minorenni. Quanto ai cittadini comunitari come ad esempio sono i numerosi rumeni che vivono nel nostro Paese, dal momento che possono votare per le elezioni comunali (non per le regionali e le politiche) se registrati all’anagrafe della popolazione residente, potranno partecipare anche alle primarie del Pd sempre se già registratisi in quell’anagrafe. Insomma, si va verso una base più ristretta e sicuramente più controllabile da parte degli organismi dirigenti locali. Per evitare “infiltrazioni” e pasticci di vario tipo come negli ultimi anni si è visto a Napoli e appunto in Liguria.
Ma non solo di albo degli elettori si occuperà l’assemblea nazionale di gennaio. Lo statuto verrà modificato in un punto importante, che è la scelta dei segretari regionali: non saranno più eletti con primarie aperte come quelle per il segretario bensì con consultazioni riservate ai soli iscritti al partito in una data diversa da quella delle primarie per il segretario. Una modifica ben voluta dalla minoranza dem perché lascia alle dinamiche territoriali una selezione strategica, evitando che i 20 segretari regionali siano gli “sceriffi” del leader nazionale sul territorio. Novità anche sul fronte dei circoli, che saranno da una parte potenziati e dall’altra trasformati di volta in volta in circoli tematici, anche on line, in modo da diventare luoghi di iniziativa politica sul modello dei circoli obamiani.
Repubblica 24.10.15
La spina di Marino nel fianco del Pd
Sui dem la spada di Damocle di Marino
Nel Pd non potranno restare a lungo inerti. Il rischio è che tra i dem prenda il via un’agonia piena di ricatti
di Stefano Folli


NELLO STRANO caso di Ignazio Marino quasi nulla è come appare. A cominciare dal sindaco dimissionario che non è affatto quel personaggio ingenuo capitato per caso nella fossa dei leoni. Marino segue una sua logica fatta di passaggi imprevedibili e scarti improvvisi, ma all’interno di uno schema a suo modo coerente. Viceversa, a chi segue uno schema classico, per esempio il Pd romano, il comportamento del personaggio sembra indecifrabile, l’agire inconsulto di un uomo che ha perso la testa.
Non è proprio così. Nell’intervista data a questo giornale, Marino non dà mai l’impressione di essere fuori controllo. Al contrario, ogni frase contiene parole pesate una a una. L’obiettivo sembra chiaro: è il suo ex partito, reo di averlo abbandonato a un destino amaro, fatto di discredito personale come premessa dell’oblio. Al Pd il sindaco vuol far pagare tutto con gli interessi. Ha capito di avere in mano alcune carte rilevanti, poiché le dimissioni in teoria si possono ritirare e alle primarie del centrosinistra ci si può presentare con l’intento di creare la massima confusione. Quanto meno lo si può minacciare per vedere l’effetto che fa. Non solo. È evidente che il Pd vuole evitare a tutti i costi di dover sfiduciare il “suo” sindaco con un voto nell’assemblea capitolina. Vorrebbe dire trovarsi in compagnia dei partiti che di lì a poco saranno gli avversari nella campagna elettorale, dalla destra della Meloni ai Cinque Stelle. Già oggi i sondaggi danno il partito di Renzi e Orfini in grande affanno. Un pubblico suicidio indotto dalla resistenza di Marino sarebbe il colpo di grazia alle speranze, peraltro assai esigue, di risalire la china.
Il sindaco dimissionario è, sì, un “impolitico”, ma non è uno sprovveduto. Dispone di una certa astuzia e se ne serve all’occorrenza. Le sue uscite sono temerarie, ma non superano mai l’invisibile confine che le trasformerebbero in vuoto vaneggiare. Sono tipiche di un uomo che non ha più un futuro davanti, almeno nel mondo della politica, ma ha ancora l’energia per vendicarsi. Nessuno gli ha offerto un paracadute o quanto meno l’onore delle armi. Nessuno ha blandito il suo egocentrismo fuori del comune. Al tempo stesso, egli è diventato suo malgrado — e non si sa per quanto tempo — il beniamino di una fetta di elettorato che vede in lui la vittima di un gioco di palazzo.
È un mondo che detesta il Pd romano ed è probabilmente pronto a votare i Cinque Stelle fra sei mesi. Ma intanto sostiene Marino e gli chiede di “non mollare” perché ha ben compreso, come del resto il sindaco, che questo è il modo più crudele per tenere aperta la ferita del centrosinistra. Sulla carta, questi sostenitori costituiscono la base elettorale del supposto ribelle, benché sul piano pratico per lui presentarsi alle primarie sarà più facile a dirsi che a farsi. Ma il solo parlarne genera ulteriori conflitti e manda in affanno il piccolo “establishment” di un partito che oggi non è in grado nemmeno di garantire la rielezione dei consiglieri comunali.
SULLO SFONDO si staglia l’insidia peggiore, benché allo stato poco verosimile: escluso dalle primarie, Marino potrebbe presentarsi da solo alle elezioni. Raccoglierebbe quel tanto di voti sufficienti a rendere clamorosa la disfatta del Pd. Per ottenere lo scopo, il dimissionario deve continuare sulla linea inaugurata ormai da mesi: presentarsi come la vittima dei poteri criminali, lo sceriffo solitario che ha liberato Roma dalla mafia e poi è stato tradito dal suo partito. Un messaggio obliquo tutt’altro che oscuro benché poco consistente, dal momento che tutti conoscono le inchieste del procuratore Pignatone e sanno bene chi e come ha debellato la rete dei Carminati e dei Buzzi. Resta il fatto che il Marino degli ultimi giorni, in apparenza prigioniero dei suoi rancori, sta mostrando un’abilità comunicativa superiore ai suoi nemici, specie quelli del centrosinistra. Non avendo più niente da perdere, il sindaco galoppa. Ma nel Pd non potranno ancora a lungo restare inerti. Ormai il dado è tratto e Marino dovrà uscire di scena, quale che sia il prezzo politico ed elettorale che nel partito di Renzi si dovrà pagare. Tutto è meglio di un’agonia costellata di ricatti.
Corriere 24.10.15
Non votare il bilancio, l’arma finale del Nazareno
I timori che il sindaco dimissionario possa correre con una sua lista
di Maria Teresa Meli


ROMA È una resa senza condizioni quella che il Partito democratico chiede a Ignazio Marino. Se il sindaco di Roma, ventilando l’ipotesi di ritirare le proprie dimissioni, pensava di andare in pressing su Matteo Renzi ha dovuto ricredersi. «Niente trattative», è la parola d’ordine che si sente sussurrare nel quartier generale del Pd.
Il presidente del Consiglio, del resto, considera questa giunta un capitolo già chiuso. Prima di partire, con i suoi, è stato netto: «Il tema per noi è Roma, non Marino. Concentriamoci sulla Capitale e lasciamo perdere il passato».
I renziani sono quindi inamovibili e hanno interrotto i contatti con il primo cittadino. Nessuno parla più con Marino. Il premier non lo faceva già da tempo. Il suo braccio destro e sinistro, Luca Lotti, è sulla stessa linea. Anche il vicesegretario Lorenzo Guerini, che pure in un primo momento aveva cercato di mediare, non alza più il telefono per sentire il sindaco. Matteo Orfini, commissario del partito romano, fresco di proroga, ha interrotto tutti i contatti poco dopo la vicenda degli scontrini. Marco Causi, assessore al Bilancio dimissionario, è l’unico ufficiale di collegamento tra il Pd e il Campidoglio, ma anche lui ieri si è spazientito con il sindaco.
Insomma, quello che il primo cittadino della Capitale sperava di ottenere, ossia un abboccamento con il presidente del Consiglio, non c’è stato. E difficilmente ci sarà. Dicono che ora Marino punti sulla mediazione di Graziano Delrio per ottenere quell’uscita con l’onore delle armi che gli sta tanto a cuore.
A Palazzo Chigi come al Nazareno sono convinti che, alla fine, il sindaco non ritirerà le dimissioni: «Senza il Partito democratico non c’è una maggioranza nel consiglio comunale, quindi Marino non potrà andare avanti», è la spiegazione che viene data.
Ma è anche vero che, dopo i tira e molla del primo cittadino della Capitale, nessuno è più disposto a mettere la mano sul fuoco sul fatto che il sindaco lascerà il Campidoglio. Perciò, nel frattempo, si studiano tutte le possibili contromosse. Fino all’arma estrema: quella di non votare il bilancio preventivo che va approvato entro fine anno, nel caso in cui Marino non si dimetta. In questo modo scatterebbero delle procedure che porterebbero al commissariamento. Ma è chiaro che si tratta di una extrema ratio , perché quello che vorrebbe veramente il premier è chiudere questa storia al più presto, limitando, per quanto è possibile, i danni che sono già stati fatti all’immagine del Pd, e buttandosi a capo fitto sull’operazione Giubileo.
Ma anche se tutto filasse liscio, se questo tormentone romano avesse fine entro il due novembre e Marino confermasse le dimissioni, potrebbero ancora esserci dei problemi. Non tanto quelli legati all’annuncio del sindaco che non esclude di partecipare alle primarie, perché non è affatto detto che a Roma si tengano quelle consultazioni. Infatti, se si trovasse un nome di peso, su cui tutti o quasi si trovassero d’accordo, le primarie potrebbero diventare superflue.
I timori di una parte del Pd riguardano invece la possibilità che Marino decida di presentasi in proprio, con una lista civica, anche se gli uomini a lui più vicini negano che il sindaco abbia intenzione di ingaggiare una battaglia elettorale contro il proprio partito. E, per esempio, la stessa Sel è divisa. Un pezzo di quel movimento immagina di poter costruire una «Cosa rossa» attorno alla candidatura di Marino. Ma il capogruppo di Sel alla Camera Arturo Scotto lo esclude: «Non possiamo andare alle elezioni con lui, è bruciato».
Corriere 24.10.15
Roma, la conta dei pd pronti a dimettersi
I tormenti dei consiglieri dem di fronte a questa ipotesi. «Vediamo come va, un passo alla volta» Marino ai sostenitori: «Mi dicono tutti di resistere, e allora resistiamo. Non molliamo»
di Giovanna Cavalli e Valeria Costantini


ROMA La fa troppo facile Valeria Baglio, speranzosa presidente dell’assemblea capitolina: «Mollare tutti in blocco? Ma no, al momento l’ipotesi non sussiste, valuteremo». In realtà in casa Pd si valuta eccome e già da un pezzo: che fare se il sindaco Marino davvero dovesse ripensarci e restare? Un’opzione, benché difficile da praticare, è che lascino gli altri, la maggioranza più uno dei 48 consiglieri di Palazzo Senatorio. Prima di arrivare a una sfiducia in Aula.
Eh, perché il sindaco che ex non è ancora, invece persevera: «Mi dicono tutti resisti, resisti. E allora resistiamo, nella vita non bisogna mai mollare». E intanto prepara «un capodanno speciale, straordinario», contando di festeggiarlo tutti insieme in Campidoglio.
Per farlo cadere ci vorrebbero le dimissioni in simultanea di 25 consiglieri. E quelli di maggioranza sono comunque solo 19. I ligi dem dovrebbero adeguarsi, però con entusiasmo variegato. «Beh, vediamo come va, un passo alla volta», temporeggia Erica Battaglia. «Ditemi dove devo firmare e corro, sono pronto da due anni», si prenota invece Orlando Corsetti «anche se butto a mare 25 anni di carriera, ma Ignazio non riesce proprio a governare». A Marco Palumbo la prospettiva dà l’orticaria per la possibile compagnia: «Dovevamo mandarlo a casa mesi fa, ora ci toccherà dimetterci in massa con quelli di Alemanno». Athos De Luca si adegua: «Decidiamo insieme al partito per il bene della città». Quindi se gli dicono sì, sarà sì.
Soffre Michela De Biase: «Chiuderla qui sarà comunque un dramma per noi». Alfredo Ferrari rimanda: «Se Marino ritira le sue dimissioni vedrò che fare». Cecilia Fannunza è prontissima: «La fiducia del partito in lui è finita, io seguo la linea». Quindi una firma e arrivederci.
Antonio Stampete ha qualche rimpianto in più: «Mi dispiace, sono stato eletto dal popolo, però così non si può continuare». Giulia Tempesta ancora non crede al possibile evento «surreale» del dietro-front mariniano. «Per ora si è dimesso». Nel caso però, se il Pd chiede, avrà il suo sì. «Ma di che state parlando? La questione non sussiste» si inalbera Giovanni Paris. «Finora nessuno mi ha mai chiesto di dimettermi». E se poi invece bussano? «Mmm... lo faccio».
In casa Sel non ci sono travagli interiori, quattro sono, e in quattro dicono di no alle dimissioni cumulative. «Noi con i fascisti non ci votiamo», proclama Gianluca Peciola. Gemma Azuni non si schioda dallo scranno: «Marino è stato eletto dalla maggioranza, torni con un programma di bene comune. Sarà stato ingenuo e anche se ci fosse stata qualche sottrazione... beh... comunque i diktat sono vergognosi». Annamaria Proietti Cesaretti è quasi materna: «Nessuno vuole che venga mandato via così». Per Imma Battaglia prevale la riconoscenza: «Caso unico e raro, ha fatto tanto per i diritti degli omosessuali, non mi dimetto per farlo cadere».
Dalla sua lista civica, va da sé, c’è sostegno. «Totale», specifica il capogruppo Franco Marino, che non è un parente. «Gli errori magari ci sono stati, la comunicazione dei successi ottenuti non è stata perfetta, ma la stima è intatta». Rimanda all’aula Rita Paris: «Ma dimissioni prima, no». Riccardo Magi, radicale, è quasi divertito: «Spero proprio che ritiri le dimissioni e venga in aula, noi siamo per il dibattito». Con punta sadica: «Voglio proprio sentirli, quelli del Pd, votargli la sfiducia per gli scontrini. O forse ci spiegheranno davvero perché vogliono farlo fuori».
Repubblica 24.10.15
’altolà del Pd “Marino la smetta ormai è finita” Ma lui: “Io resto”
No all’ipotesi di una giunta a termine. L’idea di “ricompensare”il sindaco
di Goffredo De Marchis


ROMA Un premio a risultato ottenuto. Quale premio e quando è ancora tutto da decidere, ma Ignazio Marino ha solo questa via d’uscita: lasciare definitivamente il Campidoglio confermando le dimissioni e aspettare che, calmate le acque, dal segretario del Pd Matteo Renzi arrivi una forma di riconoscimento per il suo lavoro. Difficilmente, si concretizzerà in una candidatura alle prossime politiche, nel mezzo però possono esistere tante forme di compensazione. La “trattativa” con il Pd si muove lungo questa linea, che è vaga, indefinita, una mezza promessa. Nessuno si sente di spingersi oltre. Renzi, così come il sottosegretario alla presidenza Luca Lotti, non vogliono comparire in prima persona. Non hanno contatti con il sindaco dimissionario, non sentono quelli del suo staff. Matteo Orfini ha un mandato pieno dalla segreteria democratica: far uscire Roma dalla situazione di incertezza e poi si vede. Se Marino si ritira in buon ordine, il dialogo tra il chirurgo e il partito verrà riallacciato in seguito.
Il presidente del Pd Orfini procede dunque per tappe. Prima tappa: strappare le vere dimissioni del sindaco. Seconda tappa: preparare il Giubileo con il commissario e varare la squadra che dovrebbe rilanciare il Pd in vista delle elezioni. Di Marino non vuole più sentire parlare, sebbene il primo cittadino faccia di tutto per mandare in crisi il piano del Pd. Ai suoi interlocutori dice che «ormai Marino è una storia chiusa. Non è Marino, è Roma per parafrasare il suo vecchio slogan. E Ignazio, con l’intervista a Repubblica, dimostra ancora una volta che a lui della città interessa poco o niente. I suoi problemi sono altri». Sicuramente il sindaco non fa sconti a chi lo ha silurato. «Mi dicono tutti resisti, resisti e allora resistiamo. Non molliamo. Nella vita non bisogna mai mollare. Come ho già detto sto riflettendo, come prevede la legge», dice ai suoi sostenitori. Vuole fare ballare tutti fino alla fine. Non esclude una candidatura al momento del voto amministrativo. Pensa alle primarie del centrosinistra che Renzi ha garantito. La politica dei like, dice il commissario del Pd romano, non dovrebbe guidare il sindaco nella sua resistenza. Un sondaggio Ixe riporta infatti che più del 70 per cento dei romani spera che Marino firmi in maniera definitiva il suo addio. Significa che Roma vuole voltare pagina.
All’indifferenza apparente con cui i vertici dem seguono il caso, Marino oppone la guerra di nervi. Nei giorni scorsi ha fatto sapere alla presidente del consiglio comunale Valeria Baglio (Pd) di voler fare un discorso pubblico nell’assemblea capitolina. Prima del 2 novembre, ovvero la prossima settimana. Prima del termine in cui le dimissioni diventeranno esecutive. Sarebbe il momento in cui effettuare sul campo la verifica della maggioranza. Il canto del cigno o un tentativo concreto di rimanere nel Palazzo Senatorio? Un discorso di addio o il rilancio della sua giunta, magari a termine? Orfini fa spallucce: «Vediamo che ascolto trovo nei consiglieri del Pd...». Non ha dubbi che tutti e 19 i dem del comune siano pronti a presentare le loro dimissioni per arrivare allo scioglimento dell’amministrazione. Ma i numeri non bastano. Servono altri consiglieri dimissionari. Si possono pescare nella lista Marchini o nei 5stelle, in coerenza con ciò che sostengono da parecchi mesi, cioè l’uscita di Marino e nuove elezioni. Se davvero vogliono raggiunge- re l’obiettivo, non potranno tirarsi indietro. Ma le maggioranze in consiglio comunale sono variabili, ballerine e il colpo di coda del chirurgo costringerebbe soprattutto il Pd ad affrontare una nuova crisi, un nuovo possibile confronto interno. Insomma, il percorso è accidentato. Ma la sicurezza è che indietro non si torna, non lo potrà fare nemmeno il sindaco, che impuntandosi rinuncerebbe anche alla vaga offerta di Largo del Nazareno, senza peraltro avere alcuna chance di salvarsi. «Ogni giorno ne salta fuori una nuova - è il commento di Orfini - . Ora la storia dell’assicurazione in extremis contro il risarcimento danni... Davvero io le ho provate tutte per salvarlo, Ignazio lo sa. Quando è arrivato il momento delle bugie, qualcosa si è rotto». Le primarie o le elezioni sono questioni del futuro. Il Pd non esclude la possibilità per il sindaco di candidarsi alla consultazione interna visto che le primarie saranno di coalizione. Ovvero, non sarà il candidato del Pd ma di un suo movimento. Ma siamo nel campo delle ipotesi. Ora si attendono solo le dimissioni, poi Renzi, forse, tornerà a parlare di e con Marino
La Stampa 24.10.15
Per Renzi il caso Marino è chiuso
E il sindaco prepara lo scontro finale
Minaccia di correre alle primarie e domani sarà in piazza coi suoi fan. Ma è pronto a cambiare idea in caso di un forte riconoscimento del premier
di Fabio Martini


Appena atterrato a Santiago del Cile, prima di sei tappe in America Latina, Matteo Renzi si è aggiornato sulle ultimissime dall’Italia, ma sul caso-Roma non ha perso tempo, il suo giudizio (informale) è stato lapidario: il caso è chiuso, restiamo in attesa che Ignazio Marino confermi le sue dimissioni entro la data formale del primo novembre. Stop. Certo, le ultimissime esternazioni del sindaco («la città sta con me, potrei correre alle Primarie del Pd») hanno fatto capire a Renzi che la fase finale del divorzio tra Marino e il Pd potrebbe risolversi in un «bagno di sangue» politico, ma oramai a palazzo Chigi si è messa nel conto una conclusione cruenta. Tanto è vero che, sottovoce, si comincia a pensare che serva un miracolo per riconquistare Roma da parte del Pd in occasione delle elezioni amministrative previste per il prossimo anno.
Anche perché lo scenario adombrato da Marino è di gran lunga il più lacerante: una volta sciolto il Consiglio comunale, l’ex sindaco provocherebbe più problemi se si candidasse alle Primarie del Pd (col «rischio» di vincerle), anziché con una Lista contrapposta, destinata all’opposizione. Uno scenario talmente preoccupante che al Pd romano hanno cercato di capire se almeno dal punto di vista formale, Marino potrebbe candidarsi alle Primarie interne. E qui è spuntata una sorpresa: il sindaco non risulta iscritto al suo Circolo nel 2015 e neppure nel 2014. Mentre per l’anno in corso si può ancora rimediare, quello dell’anno scorso rappresenta un vuoto curioso, un segno di disaffezione e di allontanamento del Pd. L’entourage di Marino però smentisce: nel 2014 il sindaco, non solo ha richiesto la tessera, ma ha anche versato un assegno di centinaia di euro. A chi? Perché non nel suo Circolo? Questo non è dato saperlo, ma sempre dal Campidoglio si preoccupano di ricordare che Marino fa parte della Direzione del Pd e non sembrano dar credito ad una «espulsione» dalle Primarie. Un piccolo «giallo» in una storia che non sembra finire più.
L’unica possibilità che i due treni in corsa si fermino prima dello scontro è affidata ad un evento al momento inimmaginabile: un chiarimento diretto tra Renzi e Marino. Attualmente tutti i canali tra Campidoglio e palazzo Chigi sono ostruiti e non si parlano più neppure Marino e Orfini, il commissario del Pd. Eppure il sindaco ha fatto sapere per vie informali di essere pronto a confermare le dimissioni nel caso in cui il presidente del Consiglio riconoscesse in modo chiaro i risultati conseguiti in due anni dall’amministrazione capitolina. Ma Renzi non ne vuol sapere. E non soltanto perché apparire uno che fa marcia indietro è contrario alla sua «deontologia». Ma Renzi non si fida più di Marino, personaggio che ha già dimostrato diverse volte di essere imprevedibile.
Tanto più che domani mattina è in programma un evento che potrebbe cambiare questa vicenda: i sostenitori di Marino si sono dati appuntamento a piazza del Campidoglio e la mobilitazione, nata spontaneamente, sta raccogliendo una quantità inattesa di adesioni. Una manifestazione della quale si misurerà la quantità, ma anche la qualità: quanti militanti ed elettori del Pd ci saranno? Di sicuro in piazza ci sarà anche lui, Ignazio Marino.
Repubblica 24.10.15
Michele Emiliano, governatore della Puglia
“Aumentare le tasse regionali significa beffare gli elettori. Lo Stato sostenga la sanità”
intervista di Lello Parise


BARI «Ancora non conosciamo il testo definitivo della legge di stabilità. Ecco perché non vorrei che litigassimo per nulla».
Col governo, presidente della Regione Puglia Michele Emiliano?
«A Matteo Renzi non voglio dire neanche una parolaccia».
Però, dal Nord al Sud d’Italia, avete alzato la voce perché i quattrini per l’assistenza sanitaria non sono poi così tanti. O no?
«Se ricordo bene, ci avevano promesso 3 miliardi di euro in più; nel migliore dei casi, ne spunterà soltanto 1, forse».
Il rischio è quello di continuare a fare le nozze coi fichi secchi.
Tant’è che proprio Emiliano strilla: come stanno le cose, «riprendetevi gli ospedali».
«Era un’iperbole, quella. Lo Stato ci metterebbe almeno dieci anni a riprendere il controllo degli ospedali».
Nel frattempo, per fare quadrare i conti, potreste applicare la “soluzione Zanetti”: secondo il sottosegretario all’Economia, per ripianare i disavanzi sanitari nessuno vi impedirebbe di aumentare le addizionali regionali.
«Questo, per niente al mondo. Accade una cosa bizzarra: a Roma suonano la grancassa perché raccontano di volere cancellare le tasse sulla prima casa, ma poi costringono le Regioni a fare impennare le imposte locali. La verità è che la pressione fiscale non è mai cambiata. Non possiamo ancora prendere in giro la gente. Devi essere corretto col cittadino: se ti abbasso i tributi, poi non vado a riprendermeli da un’altra parte».
Rimedi?
«Un territorio virtuoso come quello della Toscana o la Puglia, prima in Italia per produttività lungo il fronte sanitario, hanno bisogno di denaro per acquistare nuove attrezzature e fare assunzioni: più investimenti significa, in prospettiva, abbassare i costi».
È la classica missione impossibile?
«Se non si dovesse seguire questa strada, siamo al collasso. O si fa il decreto salva-regioni, a cui erano state concesse anticipazioni per pagare i fornitori, o a partire dal 2016 andiamo in default».
Non è che ha ragione il ministro Lorenzin nel momento in cui considerava un errore l’assegnazione della sanità alle Regioni?
«Quella dichiarazione è irricevibile ».
La titolare della Salute avrebbe corretto il tiro.
«Se lo ha fatto, siamo tutti più contenti. Il problema è semplice: definanziare la sanità sarebbe l’abbandono del modello universalistico, uguale per tutti. Se lo scopo del gioco è questo, allora è meglio seguire la via maestra: andare in Parlamento e chiedere l’eliminazione delle Regioni».
Presidente Emiliano, alla fine di questo braccio di ferro salterà fuori il coniglio dal cilindro?
«Io spero che quella di Stabilità sia una legge light: non provochi guai particolari. È la ragione per cui non vale la pena accapigliarsi su questa finanziaria. Me lo auguro, almeno. Tuttavia...».
Tuttavia?
«Lo Stato centrale, anche questa volta, non fa spending review. Sì, insomma, non ci sono tagli a livello centrale, di sprechi e quant’altro. Non va bene».
La Stampa 24.10.15
Ecco i veri numeri della manovra
Aumentano i tagli alle Regioni
Nel 2016 i governatori dovranno risparmiare 3,6 miliardi, solo 200 milioni sugli acquisti A gennaio il commissariamento per chi non riorganizza il personale delle Province
di Alessandro Barbera


Dall’approvazione - ormai una settimana fa - della prima bozza della legge di Stabilità erano rimasti due grossi punti interrogativi: come verranno ripartiti gli oltre cinque miliardi di tagli della cosiddetta «revisione della spesa»? E da dove sarebbero arrivati gli ulteriori tre della voce «maggiori efficientamenti»? Non è una questione per iniziati, né un dettaglio tecnico, perché quegli otto miliardi rappresentano l’unica copertura importante di una manovra che per due terzi sarà in deficit. In assenza di un testo definitivo, per giorni si sono rincorse voci, bozze smentite, numeri che contraddicevano quelli precedenti. Ora il quadro è chiaro: basta leggere la tabella allegata al «documento programmatico di bilancio» spedito dal Tesoro a Bruxelles il 15 ottobre. Non il testo pubblicato sul sito del ministero del Tesoro, dove compare una pagina bianca accompagnata da un laconico «omissis», bensì il documento apparso ieri sulle pagine web della Commissione europea insieme a quello degli altri partner.
Superate le premesse, molte tabelle, il cronoprogramma delle riforme e una lunga spiegazione su come il governo riuscirà a ridurre il debito pubblico, a pagina 40 si trovano un paio di sorprese. La prima smentisce la composizione della revisione della spesa così come finora ipotizzata: la gran parte dei risparmi - circa 3,4 miliardi - dovranno essere garantiti dai ministeri, circa 1,8 dalla riduzione della spesa tendenziale nella sanità, e solo 218 milioni dalla minor spesa per gli acquisti di beni e servizi. In sintesi, la tabella dimostra che dei tagli chirurgici ipotizzati dai commissari Gutgeld e Perotti non è rimasto quasi nulla, sostituiti da tagli lineari vecchia maniera. Basti dire che rispetto alle prime indiscrezioni sono raddoppiati quelli da suddividere nei ministeri (da 2 a 3,4) e ridotti a un decimo quelli da attribuire al miglioramento delle gare per l’acquisto di sedie, computer, matite.
L’altra sorpresa riguarda le Regioni le quali, oltre a rinunciare ai già citati 1,8 miliardi per la sanità (per inciso: il fondo per la salute aumenta comunque di un miliardo) dovranno risparmiare altrettanto attraverso il rispetto del pareggio di bilancio. In questo caso starà ad ogni governatore decidere se risparmiare in uffici, sedi e consulenze, oppure se tagliare ancora la sanità. Si dirà: in ogni caso una stangata. Fino all’ultimo il governo ha cercato di non dare enfasi ad una decisione che spiega in parte le dimissioni di Sergio Chiamparino da presidente della conferenza Stato-Regioni. Ma è pur vero che le Regioni hanno molto da farsi perdonare. Come spiegare diversamente la decisione, contenuta nell’ultima bozza della legge, che prevede il commissariamento delle Regioni che entro gennaio non avranno dato seguito al riordino amministrativo imposto dalla legge Delrio che abolisce le Province. E che dire del decreto che risolverà il pasticcio nel quale sono incappate molte amministrazioni per via della decisione di spendere diversamente parte dei fondi garantiti dal governo Monti per il pagamento degli arretrati dei fornitori. Quel decreto, con una complessa partita di giro, vale per il solo Piemonte una riduzione del passivo di quest’anno da quasi sei miliardi a 1,7. Una grossa ciambella di salvataggio per evitare il dissesto finanziario.
La Stampa 24.10.15
Le slides e i conti che non tornano
di Francesco Manacorda


C’è qualcosa di poco stabile nella Legge di Stabilità che ha trovato - con qualche fatica - la sua via verso l’esame del Quirinale. A dieci giorni dalla presentazione fatta a suon di slides dal presidente del Consiglio Matteo Renzi e mentre si attende ancora il testo definitivo sul quale dovrà pronunciarsi il Parlamento, si materializza il rischio che le Regioni debbano aumentare i tickets delle prestazioni sanitarie per far fronte al taglio di trasferimenti da parte dello Stato.
Se così fosse la riduzione delle tasse che il premier assicura di aver avviato con decisione risulterebbe in qualche modo inficiata, anche se ad aumentare per i cittadini non sarebbero le tasse, ma appunto il costo delle prestazioni sanitarie per chi ne dovesse avere bisogno.
Colpa di qualcuno o di qualcosa?
Forse della voglia del governo di non rischiare in proprio misure impopolari, trasferendone invece l’onere finanziario e politico sulle Regioni. Anche per questo la spending review che sembrava dover essere uno dei cardini della politica economica di Renzi è stata in realtà battuta dal partito della spesa pubblica che prima ha tagliato - quelli sì - gli esperti chiamata a rivedere la spesa, da Carlo Cottarelli a Roberto Perotti, e poi ha ridotto alla miseria di 200 milioni i tagli agli acquisti di beni e servizi previsti per il 2016. Così almeno dicono i documenti inviati dall’esecutivo a Bruxelles, di cui si occupa oggi sul nostro giornale Alessandro Barbera. E i miliardi di tagli, 5,8 miliardi per la precisione, che apparivano invece nelle slides di Palazzo Chigi? Quelli vengono scaricati in gran parte proprio sulle Regioni.
Non è il solo aspetto di una manovra finanziaria - nel complesso positiva e orientata alla crescita - che rivela l’approccio poco organico del governo e il rischio che quando agli slogan bisogna sostituire le scelte concrete i conti non tornino. È accaduto in qualche misura con la riduzione dell’Ires per le aziende, che partirà solo nel 2017, a meno che l’improbabile approvazione di una «clausola migranti» da parte della Commissione europea consenta all’Italia di aumentare il deficit di un altro 0,2% del Pil; o con le misure per l’uscita anticipata dei pensionati, anch’esse rimandate. Renzi non sembra poter ammettere, nel suo racconto dell’azione di governo, che ci siano delle misure che ha scelto di non prendere o che gli è impossibile prendere per i vincoli di bilancio. Le slides per spiegare a tutti, senza troppi tecnicismi, che cosa cambia vanno benissimo. Ma in inglese la parola slide ha almeno due significati: un’immagine che scorre o uno scivolo non voluto.
Repubblica 24.10.15
Denis Verdini
“Sarò presentabile anche per il Pd”
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA Tre Marlboro rosse di fila, praticamente senza respirare. Poi Denis Verdini si lascia andare, in un angolo del cortile del tribunale: «Che fatica questo interrogatorio, ma combatto. In questo processo non c’è davvero un cavolo, mi creda. Però mi devo difendere, l’ho sempre fatto. E d’ora in poi lo farò su tutto». In effetti l’ex coordinatore berlusconiano ha bisogno di uscire indenne da questo corpo a corpo con la giustizia. Inevitabile, per chi bussa alla porta del Pd, ha un piede e mezzo nella maggioranza di Matteo Renzi e sogna un posto al sole nel partito della Nazione: «Certo che lo faccio anche per una questione di “presentabilità” politica, come la chiama lei. Ed è ovvio che in questa fase sono esposto. Ma, mi creda, lo faccio soprattutto per una questione di onorabilità personale». Bisogna rientrare in aula, la prima pausa concessa dal tribunale è già finita. «Non mi sono mai sottratto ai giudici. Politica e giustizia restano, per me, due binari separati».
È arrivato a piazzale Clodio poco dopo le nove. Completo blu, cravatta tendente al viola, bretelle nere. Tra i suoi legali c’è il professor Coppi, a cui indirizza lo sguardo con ostentata noncuranza prima di rispondere ai quesiti più delicati. A un certo punto incrocia il faccendiere Flavio Carboni, anche lui imputato per la P3, descritto come un simpatico guascone: «Scusi, signor capo del governo»..., scherza il faccendiere. E Verdini: «Se lo dici di nuovo — sorride — ci arrestano a tutti e due...».
Vuole conquistare i giudici. Come? «Spiego la politica, che è il mio lavoro». Racconta la dura attività da Mister Wolf di Fivizzano. Sangue e merda, diceva Rino Formica. «Fare il politico è una cosa tosta, c’ho sempre la gente addosso... Godo negativamente dell’immagine dell’uomo dal carattere forte, che manda a quel paese e si fa rispettare. È il mio linguaggio, non lo filtro. Parlavo con tutti, bastava una telefonata. Tutti avevano bisogno di me». Costruisce l’immagine di un potente spregiudicato che decide e magari calpesta, ma che non ha certo bisogno di una banda di millantatori: «Non per fare l’arrogante, ma è il mio mestiere scontentare qualcuno. Sa, lui diceva di sì a tutti, poi intervenivo io». E alza il dito verso l’alto, tanto che i giudici domandano: «Lui chi?». «Lui, Berlusconi».
A pranzo siede al ristorante con Coppi. Poi torna di fronte ai giudici. Gesticola molto, studia i tempi come fosse a un talk: «Visto che in sala ci sono giornalisti mi lasci dire... ». «Si rivolga a me!», lo riprende il pm. Per smorzare la tensione il neorenziano cita il “Quarto potere” di Orson Welles, poi Guicciardini. Ogni tanto la discussione vira verso altri dossier. La premessa è standard: «Di questo sto discutendo in un altro processo». Una, due, tre volte. Quattro, come i suoi guai giudiziari.
La Stampa 24.10.15
Cantone: “Lo Stato deve cacciare subito i dipendenti corrotti”
Affondo del magistrato: in certi casi non è possibile aspettare l’esito dei processi Serracchiani: lavoriamo dall’inizio sulla corruzione, serve tempo per i risultati
di Francesco Maesano


È il secondo affondo di Raffaele Cantone in pochi giorni. La settimana scorsa aveva definito «sbagliatissima» l’ipotesi di innalzare il tetto per l’utilizzo del denaro contante a tremila euro. Ieri, a poche ore dalla notizia degli arresti all’Anas, ha preso la parola durante un convegno organizzato dalla Rai e dall’Università di Tor Vergata sulla “cultura del whistleblowing”. «L’inchiesta sulle false assunzioni? Insieme a quella sull’Anas e sull’assenteismo al comune di Sanremo mi sembrano una storia già nota uno spaccato veramente inquietante dello stato della Pubblica amministrazione. Qui – ha spiegato – serve un cambio di cultura, un senso di responsabilità nelle scelte da parte delle pubbliche amministrazioni, di chi si occupa di certi ruoli e compiti».
E per il presidente dell’autorità nazionale anti-corruzione la ricetta è chiara: «Tutto questo pone la questione principale: la necessità di intervenire da parte della Pubblica amministrazione per stabilire chi non è degno di ricoprire certe cariche, così come prevede la Costituzione. Vi sono casi che richiedono interventi veloci. Ed è forse questo il meccanismo per prevenire – ha proposto Cantone – dimostrare che chi sbaglia paga davvero. E pagare nel modo più significativo, per un pubblico ufficiale, significa perdere il posto».
Matteo Renzi, dal suo viaggio in sudamerica, ha preso in prestito le parole di Pablo Neruda per invitare i giovani «a non perdere la speranza e a credere nella politica anche quando vedono questi casi di cattiva gestione della cosa pubblica» che accadono in Italia come in Cile e che i nostri governi cercano di combattere. Potranno recidere tutti i fiori ma non fermare la primavera».
Un paio d’ore dopo le sue dichiarazioni del presidente dell’Anac, Beppe Grillo ha pubblicato un post sul suo blog nel quale ha definito la serie di indagini come una «catena di Sant’Antonio di indagati, arresti, rinvii a giudizio di politici che occupano cariche pubbliche che si allunga di giorno in giorno. Viene la nausea. Il Pd primeggia, è senza confronti, in fuga, maglia rosa e maglia gialla allo stesso tempo, ma gli altri partiti cercano di stargli al passo, anche se è onestamente difficile. Nell’Anas le tangenti per gli appalti erano come le ciliegie, l’Anas aveva al suo interno un ufficio tangenti molto ben organizzato».
Dal Pd ha risposto, sia a Cantone che indirettamente a Grillo, la vicesegretaria Debora Serracchiani. «Sulla lotta alla corruzione ci stiamo lavorando dall’inizio, è anche e innanzitutto un’operazione culturale. Richiederà del tempo, ma richiederà anche delle regole semplici e chiare da poter applicare. Intanto – ha rivendicato – quest’anno c’è stato un picco delle entrate di recupero dell’evasione molto importante».
Poi, tornando sulla questione del tetto all’utilizzo del contante, ha spiegato che per lei «non c’è una relazione statistica tra questo tetto per il contante e la corruzione e l’evasione, se vuoi evadere, evadi a prescindere dal tetto che hai. Noi abbiamo cercato di fare altre operazioni ma intanto c’è un’aggressione all’evasione, non solo applicando sanzioni, ma anche facendo accordi, ad esempio con il Lichtenstein, lo Stato del Vaticano e la Svizzera»
Corriere 24.10.15
I giudici: vogliono delegittimarci
Un nuovo fronte con il governo
di Giovanni Bianconi


BARI Cambiano le stagioni e i protagonisti, ma la contrapposizione tra giustizia e politica resta. Anche nell’era del leader del Pd entrato a Palazzo Chigi. E così, quando nella relazione d’apertura al XXXII congresso dell’Associazione nazionale magistrati, il presidente Rodolfo Sabelli dice che «il tema delle intercettazioni ha finito con l’assumere una centralità perfino maggiore dell’attenzione dedicata ai problemi strutturali del processo e a fenomeni criminali endemici», è inevitabile leggere un attacco a Parlamento e governo; tutti concentrati a regolare l’uso e la diffusione delle registrazioni telefoniche — sembra sostenere il leader del sindacato dei giudici — mentre mafia, ‘ndrangheta e camorra continuano a condizionare la vita pubblica. E quando Sabelli si ribella alla «immagine facile e falsa di un’Associazione magistrati raffigurata come espressione di una corporazione rivendicativa, volta alla rivendicazione dei propri privilegi, in una consapevole strategia di delegittimazione», tutti pensano alle polemiche con Matteo Renzi e la sua maggioranza dopo alcune scelte di governo e Parlamento: dal taglio delle ferie dei giudici alla riforma della loro responsabilità civile.
Ecco dunque rinfocolarsi «lo scontro», grazie a qualche frase pronunciata alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella. Probabilmente l’intenzione dell’Anm e del suo presidente era diversa, ma l’esito è quello. Tanto che subito arrivano le reazioni. Il responsabile Giustizia del Pd David Ermini considera «ingenerose alcune frasi sulla politica non attenta»; il ministro della Giustizia Andrea Orlando punta il dito contro «un po’ di sommarietà nei rilievi fatti alla riforma della giustizia, con una individuazione di priorità che non corrisponde al vero»; il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini — che si sforza di fare da ponte tra i due mondi — spiega di «condividere largamente» l’analisi di Sabelli, ma di essere «in disaccordo sulla scarsa attenzione della lotta alla mafia, visto che abbiamo strumenti normativi, organizzativi e capacità giurisdizionale di contrasto alle mafie di primordine».
I rilievi dell’Anm alla politica del governo spaziano su vari fronti, e riguardano molti punti della riforma del processo penale. Il tema centrale del congresso vorrebbe però essere quello del «rapporto tra giustizia ed economia», e secondo Sabelli politica e magistratura dovrebbero stare dalla stessa parte, a difesa dei diritti costituzionali: «Va respinta l’idea strisciante che a minori garanzie e a minori controlli possa corrispondere una maggiore crescita, come se il problema consistesse nella regola e non piuttosto nella sua violazione. L’approdo di una tale impostazione sarebbe la subordinazione della politica e della giurisdizione al potere economico, in una pericolosa prospettiva tecnocratica, sostanzialmente antipolitica».
Dopo di lui, il vicepresidente dell’Anm Valerio Savio riconosce che «una Magistratura tecnicamente preparata e consapevole delle proprie responsabilità culturali e sociali debba sempre seriamente considerare anche gli effetti extraprocessuali, o “collaterali”, delle proprie decisioni»; tuttavia, aggiunge, «il problema non è l’intervento della giurisdizione nell’economia, ma quello del crimine».
Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, invitato a un dibattito con due giudici, un avvocato e un costituzionalista, invita a ricercare «sinergie positive tra politica economia e diritto». Alla domanda «se una fabbrica inquina ma dà lavoro lei che fa, la chiude?», il presidente della Corte d’appello di Milano, Giovanni Canzio, risponde: «Messa così non posso che dire sì, perché la gerarchia dei valori costituzionali è chiara», e la platea applaude convinta. Poi arrivano i distinguo: «Nella realtà l’alternativa non è così rigida», ma quel battimano ha espresso l’opinione d ei magistrati italiani.
Repubblica 24.10.15
Magistrati in trincea: “Governo debole contro i corrotti”
L’ira di Renzi: “Non possono trattarmi come Berlusconi”
Dalla riforma dei codici al taglio delle ferie, il rapporto tra l’esecutivo a guida dem e la magistratura si è ormai ridotto ai minimi termini
di Liana Milella


BARI Renzi furibondo con l’Anm. «Non possono parlare di noi come se si trattasse di Berlusconi » avrebbe confidato il prenier ai suoi. Orlando idem. All’opposto, la platea dei colleghi di Sabelli, appena lui chiude l’intervento tra gli stucchi dorati del teatro Petruzzelli, appare stupita per «l’eccessivo aplomb istituzionale del nostro presidente» che, in verità, strappa il primo applauso sulla mancanza dei cancellieri. Lo avrebbero voluto ben più guerrafondaio.
Incredibile, ma vero. Due facce dello stesso intervento. La collera del governo, un pizzico di delusione a Bari. Le parole di Sabelli lasciano l’amaro in bocca al Guardasigilli che le giudica «del tutto ingenerose» ed è già pronto, oggi, a recitare davanti ai giudici l’elenco delle cose fatte. Chi gli ha parlato descrive l’irritazione per via di quel paragone tra intercettazioni e mafia. «A me dicono una cosa del genere, a me che mi sono battuto per rafforzare il 416 bis e adesso per fare una commissione per le intercettazioni? Sono matti?». Parole che producono soprattutto la decisa irritazione di Renzi che, da quando è al governo, non ha mai risparmiato frecciate ai giudici.
«Renzi? Io non l’ho mai incontrato di persona, a palazzo Chigi non mi ha mai invitato» dice adesso Rodolfo Maria Sabelli. Per questa “lesa maestà”, allora, lo attacca e definisce «timide, deludenti e disorganiche» le sue riforme? Sabelli: «E dov’è la novità? Sono mesi che diciamo le stesse cose». Forse non gli perdona quel «brr....che paura» pronunciato da Renzi nel salotto di Vespa quando lo stesso Sabelli reagì duramente per le ferie tagliate da 45 a 30 giorni. Sabelli: «Non s’è mai visto che si fa un intervento del genere senza neppure ascoltare preventivamente la categoria».
Raccontano a Roma che ieri, da palazzo Chigi, alcuni emissari abbiano chiamato pure il vice presidente del Csm Giovanni Legnini per difendere il governo e le sue leggi e rimettere le carte a posto. Tant’è che Legnini prontamente dichiara sull’impegno del governo contro mafia e corruzione.
Ma non basta per parare il colpo della «consapevole strategia di delegittimazione», l’accusa più grave lanciata da Sabelli. Lui, prima del concerto serale, sfoglia le agenzie che gli ha messo in fila la sua portavoce e giura: «Non ce l’avevo col governo, ma con i tanti che parlano contro di noi, Raffaele Cantone che polemizza con me per le ferie, il Foglio che ci attacca, la stampa di destra che fa altrettanto ». Ma vicino a lui il segretario dell’Anm Maurizio Carbone, battagliero pm di Taranto del caso Ilva, sorride sornione. Ha letto e riletto più volte la relazione di Sabelli, l’ha sottoscritta e condivisa, soprattutto nei punti più critici contro il governo e le sue mosse.
Non c’era bisogno di Bari e del trentaduesimo congresso dell’Anm per certificare la rottura definitiva del feeling tra il Pd e i magistrati. I segnali c’erano già tutti. L’uomo che Renzi ha scelto per occuparsi di giustizia, David Ermini, ovviamente toscano (di Figline Valdarno), per giunta avvocato, non perdona Sabelli. «Ma come si fa a paragonarci a Berlusconi? Quando mai noi abbiamo anche solo pensato di ridurre il potere dei magistrati di fare intercettazioni? ». Un attacco proditorio dunque, nella testa di Ermini, quello di Sabelli. Ma alle sue parole le toghe reagiscono con un alzata di spalle. «Dov’era il Pd quando hanno cambiato la legge sulla responsabilità civile? Si rendono conto di che cosa hanno fatto? Perché non hanno ascoltato le nostre raccomandazioni? » dice un giudice che chiede l’anonimato. Tanti altri, qui a Bari, parlano come lui. Lì, proprio sulla responsabilità civile, s’è infranto il residuo di comprensione che c’era tra il Pd e le toghe. Pure quello faticosamente costruito da un tessitore professionista come il ministro Orlando, sin dai tempi in cui era responsabile Giustizia del Pd. Un filo che aveva cominciato a strapparsi quando Orlando, al
Foglio , disse che l’obbligatorietà dell’azione penale poteva anche non essere più considerata un tabù intoccabile.
Poi, certo, ci sono le inchieste giudiziarie. Quelle che potrebbero anche lambire uomini di governo, di cui si continua a vociferare. Un attacco concentrico contro Renzi e il suo governo. «Ma scherziamo? Di una cosa simile non voglio neppure sentire parlare» dice Sabelli. Che ha lavorato per giorni e giorni alla sua relazione, limando ogni parola, ben sapendo di parlare davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Relazione discussa dalla sua giunta, un prodotto collettivo dunque. In cui resta il passaggio della «consapevole strategia di delegittimazione». Sabelli potrà pure negare, ma tutti ricordano la polemica, proprio con Renzi, sul taglio degli stipendi. «Ma come si fa a parlare così di noi?» disse allora con la delusione di uno la cui famiglia, come ricordava ieri la madre, elegante signora presente in sala, «dal ‘700 a oggi ha dato uomini alla magistratura».
Il Sole 24.10.15
Giustizia e politica, scontro Anm-governo
Le toghe: più attenzione a intercettazioni che a mafia - Il Pd: frasi ingenerose
di Donatella Stasio


Bari Il primo applauso della platea arriva alle parole: «Va respinta l’idea strisciante che a minori garanzie e a minori controlli possa corrispondere una maggiore crescita economica, come se il problema consistesse nella regola e non piuttosto nella sua violazione». Il tono del presidente dell’Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli è tutt’altro che bellicoso ma le sue parole per introdurre il 32mo Congresso nazionale dell’Anm su «Giustizia, economia, tutela dei diritti» - in corso a Bari da ieri e fino a domenica - sono esplicite nel prendere le distanze da chi vorrebbe fare della magistratura una sorta di Ogm - per dirla con il vicepresidente Valerio Savio - «orientata in primo luogo al rispetto delle esigenze economico-finanziarie dello Stato e delle imprese». Così come esplicita è la denuncia di «una consapevole strategia di delegittimazione» della magistratura sia attraverso misure «discutibili nel merito, nel metodo e nei tempi» (dalle ferie alla responsabilità civile) sia attraverso la sua rappresentazione come «gruppo di potere elitario e oligarchico». Esplicite anche le accuse al governo per le carenze di personale (manca il 70% dei cancellieri) e per una politica penale «incoerente e disorganica», «timida» nel contrasto alla corruzione, «deludente» sulla prescrizione, «più attenta» alle intercettazioni che alla mafia, «diffusa ormai in ogni ambito», nonché «alle forme di pesante devianza infiltrate nel settore pubblico e in quello dell’economia».
Sabelli parla dal palco del teatro Petruzzelli, di fronte ai politici locali, al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a centinaia di magistrati che lo applaudono a più riprese. Nelle sue parole non ci sono toni bellicosi - non è nel suo stile - ma tanto basta a suscitare reazioni politiche dure, anzitutto nella maggioranza. «Frasi ingenerose», dirà il responsabile giustizia del Pd David Ermini. «Non credo che la critica sia rivolta a governo e Parlamento perché sarebbe cronologicamente infondata visto che su corruzione e criminalità organizzata siamo molto più avanti che sulle intercettazioni», osserva il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che sarà oggi a Bari.«Sono largamente d’accordo con Sabelli ma sono in disaccordo con lui sulla disattenzione del legislatore su corruzione e mafia» commenta infine Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm, seduto in prima fila nel teatro Petruzzelli.
Ma il clou della giornata è stata la tavola rotonda pomeridiana sui rapporti tra giustizia ed economia, con il ministro dell’Economia Piercarlo Padoan che ha insistito sulla «necessità di un giusto equilibrio tra regole, giustizia ed economia» e su «una politica economica che dia una prospettiva di lungo termine e perciò sia percepita come credibile. Perché le misure a lungo termine - ha detto - producono anche effetti di breve termine». A confrontarsi con Padoan, il presidente della Corte d’appello di Milano Gianni Canzio, il presidente di sezione della Cassazione Renato Rordorf, l’ex ministro della Giustizia Paola Severino e il costituzionalista Michele Ainis. Confronto moderato da Giovanni Floris ma introdotto da una serie di interrogativi inquietanti di Savio: siamo sicuri - si è chiesto - che possiamo permetterci «il lusso» di parlare di questi temi in un Paese che vede «parti del suo territorio e interi settori dell’economia (se non sotto il controllo) con la pervasiva presenza della criminalità organizzata, dell’impresa criminale e del capitale illegalmente acquisito? Che vede il 15-20% del suo Pil derivante dall’economia sommersa e “in nero” quando non illegale? Che presenta un preoccupante degrado dell’etica pubblica in ogni ambito della vita civile e un livello di corruzione nelle pubbliche amministrazioni che ha superato il livello di guardia?». Siamo sicuri - ha continuato - di non dover prima «restaurare un minimo di legalità basica?». Sicuri che il conflitto tra giustizia ed economia non sia «vecchio come il mondo» e cioè «conflitto tra “diritto” e “impresa”, tra regole e libero dispiegarsi di quelli che tuttora ideologicamente vengono chiamati gli animal spirits dell’agire economico?». Siamo sicuri «che alle parole scritte nella pietra della Costituzione si crede ancora?».
Padoan definisce «sedicente» il conflitto politica-giustizia. Incalzato sull’aumento a 3mila euro del limite del contante, ribadisce che «non c’è alcuna correlazione tra questo aumento e l’evasione fiscale» che è, invece, un problema di «regole diverse» e di «fiducia» tra il cittadino e l’Amministrazione tributaria; rivendica di sentirsi «parte di una squadra che ha una strategia di cambiamento del Paese: le tasse devono scendere, la pubblica amministrazione dev’essere più semplice, la giustizia più rapida e efficiente, il quadro istituzionale deve dare più certezza rispetto alla durata dei governi passati perché tutto questo impatta sull’economia. Se si mandano messaggi chiari - ha concluso - aumenta la fiducia e migliorano i comportamenti». Sulla «fiducia» converge Canzio, secondo cui è indispensabile una sorta di «contaminazione» affinché vi siano «colti giuristi e colti economisti». «Alla giustizia e all’economia fa male l’instabilità delle regole», dice Severino e concorda Rordorf, ricordando che il sistema normativo è «molto più complesso di 40 anni fa», il che ha ampliato gli «spazi del giudice» e dato rilievo al «diritto vivente», ma con tutti i problemi di «prevedibilità» e di «incertezza» che ne derivano. Al legislatore chiede «coerenza sistematica» rispetto a una giungla di regole fatta, ha ricordato Ainis, di 21mila leggi dello Stato, 30mila regionali, migliaia leggiprovinciali e regolamenti, 35mila reati e 63mila norme di deroga: il trionfo dell’eccezione alla regola...

venerdì 23 ottobre 2015

Repubblica 23.10.15
Il romanzo scomodo del Pinocchio nichilista
“Il popolo di legno”di Emanuele Trevi ha come protagonista un uomo deciso a demolire il politicamente corretto. Attraverso una rilettura dell’eroe di Collodi
di Massimo Recalcati


L’ultimo romanzo di Emanuele Trevi è una pietra scagliata con forza contro il muro (di gomma?) della retorica umanistica. Il suo personaggio principale, detto il Topo («diretto discendente del Nulla»), è un uomo che la vita ha segnato con più ferite e che però rivendica con orgoglio la propria libertà. Già il suo nomignolo è «una goccia
di fiele ingoiata tra tutte quelle che tocca ingoiare a un bambino», «un vessillo, un tatuaggio». Il nome del Topo assomiglia a una ingiuria. Il Topo (è lui il protagonista di Il popolo di legno ) non è forse un animale che vive nelle fogne? Fuori o sotto la città, un animale sudicio, per la psicoanalisi il simbolo dell’escremento, dell’oggetto- scarto. Il suo nome è, dunque, un destino: il Topo pensa he la vita vera non sia la vita che si vede.
Noi vediamo il sasso, ma non la vipera acquattata di sotto; vediamo lo splendore dei valori morali, ma non i «desideri inconfessati, i piani di vendetta, le verità mortali». Il Topo è un allievo estremista di Nietzsche nel decretare la morte di ogni valore che possa dare significato alla vita. La vita non ha un senso, come dichiarava Nietzsche; è un rotolare «tra due nulla», quello della nascita e quello della morte. Il Topo è come Sisifo: tutti noi siamo costretti a risalire «continuamente il fiume dell’irreparabile». La vita assomiglia al destino di una pila: «Perdita di energie, perdita di senso... puro e semplice scorrere del tempo unito all’impercettibile deteriorarsi di tutto ciò che si ripete, sempre più marcio ma identico a se stesso».
Il Topo vive in provincia di Reggio Calabria. Il suo mondo è «senza eroi, senza santi, senza sapienti». Come la vipera che sta sotto il sasso, esso è «popolato di poveri stronzi e figli di puttana, tutti appesi a una ruota che trasforma i primi nei secondi e viceversa». La Calabria di Trevi è una Calabria bekettiana; il deserto senza Dio di Finale di partita. Non è solo una regione dell’Italia abbandonata a se stessa, ma acquista in Trevi la dignità di una cifra della nostra condizione pensata al di là di ogni consolazione e di ogni promessa di redenzione e di riscatto. Come l’Aci Trezza di Giovanni Verga, la Sicilia di Vittorini o le Langhe di Pavese, ma senza che sussista più alcun afflato lirico, alcun segno di resistenza. Essa è perciò più simile alle periferie romane descritte da Pasolini: popolo lasciato fuori, scartato, senza più lingua, senza speranza, senza identità, vittima di uno sviluppo cieco, senza progresso.
I calabresi sono il “popolo di legno”, il popolo che fa esperienza dell’abbandono, dell’insensatezza della vita, della vita che può non valere nulla, che non ha orizzonte, destinata a incenerirsi nel vuoto. Eppure in questo mondo fuori dal mondo prende improvvisamente corpo l’idea di una impresa: dal pulpito di una piccola rete televisiva il Topo conduce una serie di trasmissioni titolate Le avventure di Pinocchio il calabrese.
In questa Calabria senza scampo, il Topo osa prendere la parola. Lo fa sfiorando ogni volta la farneticazione e la visione allucinata, ma da essa si sprigiona una forza nuova e imprevista. La parola di un figlio di nessuno raduna il popolo di legno. Se l’Uomo è morto allora viva il burattino di legno! La tesi del Topo è radicale: c’è più verità nella vita come non-senso che nell’idea umanistica della vita come dono. Le sue prediche sono un inno all’anima di legno, all’anima senza Io, all’anima infima, disincantata che non crede più a nessuna illusione. «Noi non siamo i figli della realtà, e non siamo fratelli di nessuno. Noi siamo figli di noi stessi. I figli del falegname. Come Gesù, come Pinocchio». Il Topo non crede né a Dio — la religione è ai suoi occhi solo un rituale superstizioso —, né all’Uomo, ma solo al legno; non crede al bambino di carne che risorge dal burattino ribelle, ma a quel burattino in preda della vita e alla sua danza sull’abisso. «Chiunque desideri liberare se stesso e gli altri — si chiede —, deve contemplare e desiderare la morte? Come se per liberare una casa da un’antica maledizione fosse necessario raderla al suolo».
Il Topo non ha incontrato nessuna testimonianza incarnata del desiderio. La sua vita è stata popolata solo da derelitti, morti viventi, predoni. Suo padre e sua madre («tristi spaventapasseri»)se ne vanno presto dalla sua vita per morire di droga in un sobborgo di Sydney. Il Topo non è figlio di un re, non è un principe a cui spetta la trasmissione del trono. A lui solo l’eredità di «una corona di ciglia lunghissime», quella che gli occhi scuri della madre gli lasciano prima di scomparire per sempre dalla sua vita. Si può conferire un significato alla nostra esistenza se l’esistenza è alla sua origine priva di senso? È questa la domanda che incalza assillante in tutte le pagine del romanzo e che attraversa la vita stessa del Topo. Senza eredità, orfano assoluto, egli può accedere solo furiosamente alla libertà.
La verità è nel legno o nella carne? Il Topo capovolge provocatoriamente lo schema umanistico: Pinocchio non acquista la sua libertà liberandosi dal legno per divenire carne, ma la perde perché perde la forza ostinata del legno. Egli denuncia come l’assoluto male coloro che vogliono fare il nostro bene. La sua lettura di Pinocchio è anarchica; il racconto di Collodi è quello di una repressione organizzata: la vita selvatica del legno deve essere abbandonata per lasciare il posto a carne addomesticata. Il Topo ribalta le leggi dell’evoluzione: meglio il legno della carne, meglio la libertà della mera sopravvivenza della vita. Il polo di legno è un popolo che resiste? Anche il fuoco acceso dalla parola del Topo è destinato a spegnersi.
Come l’alone magico che la presenza della fatina lascia ogni volta che appare prima di scomparire. «Non c’è nessuna opera umana che possa davvero dirsi compiuta, rifletté il Topo, è così che facciamo le cose, con quel residuo di imperfezione che è come un amuleto cementato nel muro, il sigillo della vita che continua».
IL LIBRO Il popolo di legno di Emanuele Trevi (Einaudi pagg. 192 euro 18)
il manifesto 23.10.15
«Gramsci, i partiti e la crisi della democrazia» con Guido Liguori
La prassi vivente ostaggio del partito della nazione
L’eredità del teorico e dirigente politico comunista in un recente convegno
Populismo, crisi della democrazia, la comunicazione su Facebook
I temi dell’incontro. La polemica sull’uso di Gramsci a sostegno della necessaria disciplina imposta dai mercati alla politica
di Leonardo Paggi


È un luogo comune sottolineare con stupore il contrasto tra la caduta degli interessi per l’opera di Antonio Gramsci in Italia (anche se fa eccezione un vero boom di pubblicazioni sulle vicende carcerarie) e il fiorire degli studi nel mondo. Si finge così di dimenticare, con un po’ di filisteismo, che c’è di mezzo la sconfitta subita dallo schieramento politico che nella sua opera si era riconosciuto. Gramsci potrà tornare ad essere parte della cultura italiana solo se riuscirà ad essere nuovamente intrecciato con una lettura del presente.
Sta qui l’interesse del seminario organizzato recentemente a Lecce da un gruppo di giovanissimi studiosi pugliesi, organizzati da Enrico Consoli e Alfredo Ferrara, su «Gramsci, i partiti e la crisi della democrazia» , con la presenza di Guido Liguori in rappresentanza della International Gramsci Society. Mettendo da parte una lettura un po’ circolare e ripetitiva tutta interna ai Quaderni, i pezzi costitutivi della teoria politica gramsciana sono stati messi direttamene a confronto con gli scenari della nostra vita quotidiana: da facebook e la rete (relazioni di Marco Zanantoni e Riccardo Cavallo) all’antipolitica, dai populismi (analizzati da Giuseppe Montalbano) alla nuove tendenze autoritarie che avanzano con la crisi della costituzione, alla domanda canonica (di cui si è fatto carico Alfredo Ferrara): quale nuovo blocco storico?
In nome della nazione
Vero è che i giovani pugliesi non sono soli in questa ricerca. Ci si è misurato di recente anche il presidente della Fondazione Gramsci e della Edizione Nazionale dell’Opera di Gramsci, Giuseppe Vacca, in una intervista alla nuova Unità di Renzi del 21 agosto: «Gli elettori del Pd si riconoscono nelle riforme del governo». Vacca come Verdini è un fervente sostenitore del partito della nazione, ma rispetto al parlamentare ex berlusconiano il presidente della Edizione Nazionale ha una marcia in più: si è piegato a lungo sugli scritti di Gramsci. Se Verdini porta i voti, Vacca porta la teoria del moderno principe. Il partito della nazione «risponde a un concetto forte di partito emancipato dalle povere riduzioni sociologiche più o meno inconsapevolmente introiettate, in seguito all’egemonia culturale economicista impostasi nel dibattito sulla crisi della democrazia… Cos’è un partito politico se non un punto di vista sulla storia e il destino di una nazione?»
Qui la teoria di Gramsci entra in presa diretta con la politica fino a diventare propaganda. Con un rispetto maggiore della filologia i giovani pugliesi si sono avvalsi delle sollecitazioni del presente per rimettere in evidenza un dato ermeneutico a mio avviso estremamente importante, ossia che tutta la teoria politica gramsciana è centrata sulla lettura dei processi involutivi che dopo la prima guerra mondiale colpiscono le democrazie liberali, in modo più precoce in Italia, e poi con vari gradi di intensità nel resto d’Europa.
Si è osservato che nei Quaderni del carcere non c’è una descrizione del regime fascista, analoga a quella contenuta nelle Lezioni di Palmiro Togliatti del 1935. Ma non è colpa della censura. La ricerca di Gramsci è orientata da un diverso interrogativo forse così riassumibile: per quali vie si estingue la rappresentazione politica del conflitto sociale? In effetti la crisi della democrazia passa tutta, per Gramsci, attraverso l’entropia del politico. Qui sta la sua rinnovata attualità. La rottura tra rappresentanti e rappresentati, con cui si apre sempre una crisi organica, lascia spazio ai poteri che si sottraggono, egli dice, al controllo dell’opinione pubblica.
Sul filo di una geniale attualizzazione del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte di Karl Marx, Gramsci vede assai precocemente( già nell’autunno del 1920 con la crisi fiumana) la possibilità del colpo di stato inteso non nella sua tradizionale teatralità ma come processo di sostituzione dello Stato/burocrazia allo Stato/ sistema politico. Nel carcere la tensione tra il burocratico e il politico diventa anche il filo conduttore della analisi della esperienza sovietica, in questo senso tutta segnata dalla involuzione statolatrica.
Legittimità perdute
Nel convegno di Lecce l’attualità delle analisi sul cesarismo, che può avanzare dice Gramsci anche senza solenni forme cesaree, e anche nella permanenza di istituti parlamentari, è stata finemente proposta da Francesca Antonini. Gaetano Bucci si è invece avvalso di categorie gramsciane per descrivere come, sempre nella logica della entropia del politico, la crisi della democrazia si sviluppi oggi in Europa parallelamente al consolidamento del potere sovranazionale rappresentato dalla moneta unica. La governance è il politico senza stato che, non creando nuove istituzioni, ma avvalendosi di «tecnologie» e «dispositivi» di potere, aggira gli stati nazionali e li sottomette, trasformandoli, con la sussidiarietà, in strumenti esecutivi dei propri indirizzi.
Politica dell’austerità e crisi della democrazia avanzano mano nella mano, non solo per i contenuti sociali ma anche per la introduzione di nuove procedure di potere, che aggirano il politico e che sembrano voler prefigurare una legalità sempre più sganciata e autonoma da ogni forma di legittimità. Insomma, il presidente della Edizione Nazionale dovrebbe spiegare come il presunto nuovo principe di Renzi possa convivere con la piena sottomissione alla «dittatura fiscale» della Bce, che non è in alcun modo interessata a «regnare», ma vuole invece sorvegliare e punire, avvalendosi di quella che Jens Weidmann presidente della Bundesbank con linguaggio inconsapevolmente foucaultiano chiama la «disciplina del mercati». Per altro verso i movimenti populisti ripropongono l’entropia del politico a partire della sua rinascita caricaturale nella forma di un carisma sempre più inventato e di carta pesta.
Non ho più spazio a disposizione. Concludo accennando a un tema strategico degno a mio avviso di riflessione: la grande superiorità teorica che nella raffigurazione del moderno il politico ribelle Antonio Gramsci ha nei confronti del professor Max Weber (la Sardegna versus Heidelberg), sta nella capacità di sostituire il «disincanto» con la ricerca costante dei contro movimenti, muovendo dall’assunto di natura ontologica che la vita, la prassi, finirà sempre per scompaginare i piani predisposti dalle tecnologie e dai dispositivi.