sabato 8 giugno 2019

Il Fatto 8.6.19
Emanuele Severino
“Come fu che Martin Heidegger studiò la mia tesi di laurea”
Nella foto, Heidegger con il nipote – il reverendo Heinrich Heidegger – in una foto di famiglia. A destra, Martin e sua moglie Elfriede. Le due immagini sono tratte dal volume “Martin Heidegger – Fritz Heidegger. Carteggio 1930-1949”, a cura di Francesco Alfieri e Friedrich Wilhelm von Herrmann (Morcelliana, 2018) – LaPresse e Friedrich Wilhelm von Herrmann (Morcelliana, 2018) – LaPresse
di Silvia Truzzi


Nei Pensieri Leopardi – che in questa casa è così di casa da avere una stanza a lui solo dedicata – spiega: “Quasi tutti i grandi uomini sono modesti, perché si paragonano continuamente, non cogli altri, ma con quell’idea del perfetto che hanno dinnanzi allo spirito”. L’infinito compie 200 anni, splendidamente portati; il nostro ospite, che tanto si è occupato di eterno, non è da meno, avendo da poco oltrepassato il ragguardevole traguardo dei 90 anni. Per festeggiare Emanuele Severino alcuni dei suoi allievi, tra cui Ines Testoni e Giulio Goggi, hanno organizzato un convegno a Brescia (dal 13 al 15 giugno) sui rapporti tra il filosofo bresciano e Martin Heidegger. Il padre di Essere e tempo ha riflettuto sul pensiero di Severino dalla fine degli anni Cinquanta: una prima nota reca la data 1958, altre risalgono alla fine degli anni Sessanta. Ma tutto comincia nel 1948 quando il giovanissimo Emanuele mette mano alla sua tesi di laurea. Titolo: Heidegger e la metafisica. Lavoro che viene subito pubblicato e che il “il pastore dell’essere” leggerà anni dopo: ed è qui che ci mette lo zampino la leopardiana modestia di cui sopra.
Professore, perché non ha mandato a Heidegger la sua tesi?
Ero un ragazzo, per carattere non sono uno che si promuove. Erano anche altri tempi, non usava.
A quei tempi il filosofo tedesco era poco conosciuto in Italia.
Non conosciuto come meritava. A 19 anni ho dovuto fare i conti con Sein und Zeit. Il tedesco lo conoscevo perché al liceo andavo a lezione di tedesco da un gesuita: Padre Auer. E Padre Auer conosceva Hitler. Ricordo che mi raccontava i contorcimenti di Hitler quando le cose non andavano come voleva lui.
Come ha fatto a prendere la libera docenza a 21 anni?
Mi sono laureato giovane, avevo saltato la prima liceo. Dopo la guerra c’era voglia di fare tutto subito. Nell’inverno del 1950 Esterina, che l’anno dopo sarebbe diventata mia moglie, vide sul Corriere una noticina in cui si diceva che quell’anno poteva partecipare al concorso di libera docenza anche chi era laureato da meno di cinque anni. Io avevo pubblicato il libro su Heidegger e durante l’università anche Note sul Problematicismo italiano. E quel peccato di gioventù che era La coscienza. Pensieri per un’Antifilosofia…
Stiamo sempre parlando di un ragazzo di diciannove anni…
No, lì ne avevo tre di meno, ne avevo sedici e mezzo.
Quando ha deciso di studiare filosofia?
Mio fratello, morto alpino nell’ultima guerra, era normalista a Pisa e aveva come docenti Gentile, Carlini Russo e Calogero. A casa parlava dei suoi studi, io lo adoravo. Quindi direi che il mio primo contatto con la filosofia è stato con quanto mio fratello diceva di Gentile e che mi sembrava estremamente intelligente, anche se capivo poco.
Era un bimbo!
Sì, sì, ero un bimbo. Intuivo che poi, quando sarei andato al liceo, avrei capito di più. Ma quando dovetti decidere cosa fare ero indeciso tra fisica, matematica e filosofia.
Si sa com’è andata… Torniamo a Heidegger: come sappiamo che legge la sua tesi nel ‘58?
In occasione del convegno di Brescia mi ha scritto Friedrich-Wilhelm von Herrmann, illustre cattedratico dell’Università di Friburgo, e di cui è assistente il professor Francesco Alfieri dell’Università lateranense, che possiede le chiavi dell’archivio e di queste note inedite di Heidegger che saranno pubblicate. In questa lettera spiega – le leggo – che il mio nome era “costantemente presente nella mente di Martin Heidegger”, quando negli anni Sessanta lui era l’assistente di Eugen Fink prima e dello stesso Heidegger poi. “Durante i suoi incontri con il fratello Fritz, Heidegger parlava spesso di Emanuele Severino e anche il figlio di Fritz, il reverendo Heinrich Heidegger, ricorda molto precisamente quelle menzioni, perché partecipava spesso agli incontri tra i due fratelli”.
Nella lettera von Herrmann le scrive: “La sua lettura autonoma di Heidegger e la fluidità del percorso delle sue ricerche fanno di lei un maestro”.
Molto lusinghiero.
Decisamente: al convegno le consegneranno perfino la traduzione di una sua opera in cinese. Ma andiamo avanti: anche il nipote di Heidegger le ha scritto una lettera molto affettuosa in cui racconta di come zio Martin parlava di lei, di quanto era impressionato dal modo in cui lei interpretava i suoi testi.
Dice che anche il padre Fritz, che aiutava il fratello trascrivendo a macchina i suoi manoscritti, ripeteva spesso il mio nome.
“Spero – aggiunge il reverendo Heidegger – che Lei un giorno verrà a trovarmi qui a Meßkirch”. Ci andrà?
No: io ho appena compiuto 90 anni, e lui ha la mia stessa età. Gli ho risposto così: “Caro reverendo, grazie per l’invito ma credo che sarà difficile, comunque ci incontreremo… in quella che io chiamo Gioia”. Gioia è quello che si apre con la morte, morire vuol dire entrare nella Gioia.
Si è fatto un’idea del perché Heidegger è stato colpito dalla Sua interpretazione?
Ho studiato a Pavia, con un grande maestro, Gustavo Bontadini. Il quale aveva interpretato Gentile non come chiusura alla metafisica classica, ma come un pensatore che indipendentemente dalle sue convinzioni apriva la porta a tale metafisica. Ho creduto in quel periodo che lo si dovesse dire in modo ancora più adeguato di Heidegger; cioè che anche Heidegger non fosse da intendere come un filosofo che, alla Nietzsche, afferma la morte di Dio, ma come un filosofo che – lo dice esplicitamente, ad esempio, in Essere e Tempo – intende indagare la base a partire dalla quale si può costruire una metafisica.
Torniamo a Gentile, un filosofo che l’ha influenzata moltissimo: quanto lo ha danneggiato l’adesione al fascismo?
Immensamente, è stata un pretesto per non studiarlo. Intanto diciamo che era il fascismo a essere gentiliano: quando pensava, il fascismo, pensava attraverso Gentile. Faceva, anche, e purtroppo faceva male. Ma quando si metteva sul piano culturale, l’orizzonte era Gentile. È Gentile che ha scritto la voce “Fascismo” sulla Treccani. Gentile è pressoché ignoto nel mondo anglosassone: c’è un motivo. Abbiamo perduto una guerra in un modo indecente. Abbiamo avuto il Partito Comunista più forte dell’Occidente, infastidendo notevolmente il mondo capitalistico. Tutti questi sono fattori che ci hanno resi antipatici al resto del mondo.
Anche su Heidegger ha pesato la macchia dell’antisemitismo e del nazionalsocialismo.
Il fascismo è stato un pretesto per non studiare all’estero l’italiano Gentile, ma non ha impedito l’affermazione internazionale del tedesco Heidegger. Era un tedesco e i tedeschi contano di più all’estero degli italiani.
La “moda” politicamente corretta per cui non bisogna studiare un filosofo perché fascista, o non leggere Céline per le stesse ragioni, che fondamento ha?
Mi sembra una sciocchezza. Quando Heidegger scrive quelle frasi antisemite, le scrive nel contesto di una critica all’intero atteggiamento metafisico quale si è andato di fatto realizzando, e che invece egli vuole ripensare. Le critiche che rivolge agli ebrei son le stesse che rivolge al cristianesimo, ad Aristotele, alla tecnica moderna, alla dimenticanza dell’“Essere”. E quindi non è che sia caratterizzato dal suo antisemitismo. Così come nel mio discorso filosofico non è che l’avversario sia il cristianesimo: il cristianesimo appartiene a una dimensione in cui i vari protagonisti hanno in comune qualche cosa di essenziale, cioè la fede nel diventare altro delle cose, la fede nella storicità delle cose del mondo.
Secondo lei perché questi tabù si ripresentano periodicamente come stigma? Volersi rifare una verginità storica, facendo finta per esempio che tutta la colpa sia stata del duce e del re, è un modo per non fare i conti con il passato e per legittimare il “fascismo eterno” di Eco. Ma non ogni forma di intolleranza è fascismo.
Certo. Ma non parlerei di periodicità. Il nostro è un tempo interessante anche perché è un unicum. Stiamo abbandonando la tradizione. Ma la tecnica destinata al dominio non si è ancora fatta innanzi. In questa fase intermedia anche il livello di intelligenza della gente ne risente. Nel Settecento i servi origliavano alla porta delle sale dei padroni dove si eseguivano Mozart e Haydn. Stavano lì a sentire. Se adesso pensiamo che il corrispettivo di Mozart e di Haydn è la musica pop e che la gente va in estasi per la musica pop, ecco, è accaduto qualcosa di profondo. Certo, le condizioni di vita del servo del Settecento erano pessime, ma allora anche i re, se avevano mal di denti, non se la passavano bene. Però l’abbandono della tradizione, di quella tradizione che può dire alla tecnica “guarda che tu non puoi fare tutto quello che sei capace di fare”, provoca uno stato di decadenza e di smarrimento che giustifica anche i fenomeni di cui parlava lei. La superficialità del nostro tempo ha ragioni profonde.
Resta il fatto che una parte di opinione pubblica ritiene che si prospetti un regime parafascista. Ma un fenomeno storico può essere utilizzato come contenitore di tutte le malvagità? Qualunque, anche eventuale, restrizione di libertà si può dire fascismo?
Ha detto una cosa molto interessante. Vorrei osservare che il mondo diventa sempre più pericoloso per i popoli ricchi perché i poveri vogliono vivere, vogliono mangiare e quindi tendono ad andare dove ci sono risorse e benessere. Questo è in qualche modo inevitabile dal punto di vista dei popoli poveri, ma è altrettanto inevitabile che i popoli ricchi si sentano minacciati nei loro privilegi e che mettano sbarramenti, e quindi limitazioni alle libertà che, per esempio, renderebbero più agevole un fenomeno come l’immigrazione. È inevitabile che si vada verso una restrizione della libertà. È però inevitabile che non si vada verso una restrizione di tipo politico ma verso una restrizione di tipo tecnico-razionale della libertà; e altro è un dittatore politico, altro è una dittatura della ragione scientifica, la quale pensa soprattutto all’incremento della potenza come tale, e non al potenziamento di una casta o di un’ideologia .
La domanda riguardava i fenomeni storici: si ripresentano, sono reiterabili, semplicemente perché se ne ravvisano alcune tracce? Lei vede similitudini con la Germania di Weimar o l’Italia pre-mussoliniana?
Anch’io parlavo di un grande fenomeno storico, che è il contenitore di quelli più particolari e per il quale è fuori luogo parlare di analogie con la Germania di Weimar o con l’Italia pre-mussoliniana. Ho scritto da qualche parte che la politica vincente è quella che si rende conto della fine della politica. Ora una delle forme più invasive della politica, in cui la politica è strapotente rispetto a una politica di tipo democratico, è proprio la politica delle dittature, come quella fascista o nazionalsocialista. Se e poiché si sta andando verso il tempo della dominazione della tecnica, allora un atteggiamento politico che non veda questa destinazione della tecnica al dominio e invece rafforzi il carattere politico del proprio agire è destinato al fallimento. Sarebbe come se ci si trovasse su un treno che va a Roma e sul treno ci fossero dei passeggeri che credono di stare andando a Berlino. Credo di essere uno dei pochi, oggi, che considera criticamente la politica, perché in genere prevale un’ansia di rivendicare il carattere autenticamente politico rispetto alle sue degenerazioni totalitarie. Laddove no, è la politica in quanto tale a esser destinata al tramonto.
Lei ha detto al premier Conte, che è venuto qui a trovarla, “io ritengo che il suo governo sia di fatto un governo tecnico”. Lui non era molto d’accordo, in effetti.
Ma dopo il suo messaggio alla stampa del 4 giugno si è abbondantemente parlato del carattere tecnico della sua presidenza! Quando ci incontrammo qui a casa mia, egli per “governo tecnico” intendeva un governo come quelli che ci sono stati in Europa e in Italia (cioè governi pur sempre inscritti nel sistema capitalistico), mentre io intendevo che quei governi erano e sono un vago presagio della gestione tecno-scientifica della società. In altri termini, quando parlo di destinazione della tecnica al dominio non mi riferisco alla necessità che in futuro vi siano governi alla Monti. La tecnica del futuro destinata a prevalere è una tecnica che sente la voce della filosofia del nostro tempo, la quale dice: non esistono assoluti, dimensioni eterne, quindi non esistono limiti all’azione, e pertanto tu, tecnica, puoi andare avanti senza inchinarti alla saggezza tradizionale, che invece mette in guardia ammonendo che non tutto quello che si può fare è lecito fare. Oggi, invece, la tecnica domina ancora soltanto di fatto, non di diritto: la sua potenza è soltanto una pre-potenza.
La scienza triste, l’economia, ha un’importanza enorme nelle nostre vite e nel dibattito pubblico. Le nozioni economiche sono un nuovo vangelo e spesso sono utilizzate come una clava sul cittadino che non ha strumenti. Forse è già successo che la tecnica domina.
Oggi non è la tecnica a dominare, ma, come dicevo, è l’economia capitalistica che si serve della tecnica. La tecnica destinata al dominio è invece quella che, avendo come scopo l’aumento indefinito della potenza, si serve dell’economia, e può servirsi anche dell’economia capitalistica. In Cina si sono incamminati in questa direzione. Ma attenzione: nemmeno l’autentica dominazione della tecnica ha l’ultima parola.

Repubblica 8.6.19
Intervista al regista
Bellocchio “Il film più bello è la nostra Storia”

Le sfide mi danno energia
Anche se i critici possono trovare elementi ricorrenti in ogni lavoro ho cercato di cambiare

di Arianna Finos

Bellocchio batte Godzilla. Il traditore supera i tre milioni d’incassi, scavalca il kolossal sul mostro atomico giapponese e diventa il quinto miglior risultato italiano di quest’ anno. Il regista piacentino continua infaticabile ad accompagnare per l’Italia il suo film su Tommaso Buscetta, candidato a 11 Nastri d’argento, che a Palermo e in molti luoghi della Sicilia continua a registrare il tutto esaurito.
Oggi il cineasta sarà a Bologna, a Repubblica delle idee, sul palco con Liana Milella, ospite dell’appuntamento “La mafia in tasca”, alle 19.30 alla Cappella Farnese.
S’aspettava un pubblico così vasto per “Il traditore”?
«No, anche perché è qualcosa di cui non sono minimamente competente. Ovviamente me ne rallegro perché è un risultato che svela che c’è un pubblico attratto da questa storia e probabilmente anche dal modo in cui viene raccontata. Poi i film, quando vanno bene, danno soprattutto una maggiore libertà di farne degli altri...».
Sarà il suo film più visto?
«Ho avuto una lunga carriera, ricordo un periodo in cui c’erano un cinema e un pubblico molto diversi. Guardando agli ultimi decenni questo risultato somiglia un po’ a quello di Buongiorno, notte , ma ho l’impressione che questo film lo supererà. A regalare un valore aggiunto credo sia l’aver affrontato una pagina di storia italiana. È successo con Vincere e soprattutto con Buongiorno, notte : pur essendo passato molto tempo dalla tragedia di Aldo Moro, in molti restavano coinvolti emotivamente. Io, e credo anche il pubblico, siamo molto affascinati dalla storia. Non capisco perché addirittura vorrebbero ridimensionarne l’insegnamento nelle scuole: il risultato del film dimostra che c’è grande interesse.
È chiaro però che il mio non è un documentario ma un romanzo».
Nel quale però ci sono i nomi veri dei protagonisti e una serie di riferimenti storici reali.
«Qualcuno, anche tra la stampa straniera, accosta Il traditore a Il padrino . Che è un bellissimo film ma di totale finzione: c’è una storia della mafia ma i personaggi sono immaginari. Noi invece, pur essendoci permessi di inventare, partiamo da fatti e personaggi reali: Buscetta è Buscetta, Riina è Riina».
Sono arrivate reazioni da qualcuna delle persone coinvoltenelle vicende vere?
«Non per ora. Ma non dimentichiamo lo spirito mafioso del silenzio. Per Buongiorno, notte incontrai personaggi che avevano vissuto quelle vicende, sia sul fronte della legge che su quello dei terroristi. Penso che anche stavolta le testimonianze arriveranno».
Si è trovato di fronte alle sue prime scene d’azione, sparatorie, esecuzioni... Si è divertito?
«Le sfide mi danno energia. Anche se i critici possono trovare una serie di temi ricorrenti nel mio cinema, in ogni film io ho cercato di cambiare. Dopo il grande esordio avrei potuto fare I pugni in tasca 2, il 3... no, ho lasciato subito. Fa parte del mio carattere, non ripetermi o appoggiarmi a valori e immagini collaudati. A una certa età in genere uno cerca di realizzare storie che abbiano una loro precisa riconoscibilità, anche per il pubblico. E invece mi sono lanciato in questa avventura rischiosa e i produttori hanno accettato di seguirmi».
Pierfrancesco Favino racconta di averla convinta con il secondo provino. Il primo era andato così male?
«Bisogna essere sinceri: avevo fatto altri provini e volevo avere più tempo per pensare. Ma non mi ha convinto con il secondo provino, che è meno bello del primo. Era stato subito splendido. Il provino è anche un modo per conoscere le persone, gli attori, gli esseri umani. Al primo incontro, nel mio ufficio, Pierfrancesco mi ha detto: “Voglio fare questo personaggio”, io ho ribattuto che era troppo giovane e lui “sono convinto di poter lasciare il segno”. La sua determinazione non era una sbruffonata, in realtà è un grande attore. Ha veramente impegnato se stesso con un’attenzione, uno studio, un lavoro che vanno oltre il puro professionismo. Temevo che diventasse troppo perfetto, invece è andato oltre».
La nuova sfida ora è “Esterno notte”, la serie sul rapimento di Aldo Moro.
«Vedremo. Anche quella è un’avventura nuova, nel bene o nel male. L’idea è un ribaltamento rispetto a Buongiorno, notte : la prigionia vista dall’esterno. Moro ci sarà poco, si vedranno i familiari e figure politiche dell’epoca: Cossiga, Andreotti, Fanfani, Zaccagnini, papa Paolo VI. E ancora i servizi segreti, i brigatisti in libertà e in galera, perfino i mafiosi e gli infiltrati. Dai tentativi di quelli che cercavano di salvarlo o di far finta di salvarlo, fino al tragico grottesco delle sedute spiritiche e dei viaggi all’estero per consultare sensitivi. E poi il grande teatro televisivo di quei cinquantacinque giorni, milioni di italiani incollati allo schermo. Tutti facevano pronostici in pubblico o in cuor loro, si pregava nelle chiese per la salvezza del presidente, si facevano appelli per colui che, come Cristo, doveva morire, perché nulla potesse cambiare in politica e soprattutto nella mente degli italiani».

Corriere 8.6.19
Mappe
Cresce il peso dei cattolici che votano Lega
Alla vigilia delle Europee il 27 per cento si diceva intenzionato a dare il proprio consenso al Capitano, che esibisce simboli religiosi
di Ilvo Diamanti


Negli ultimi mesi, Matteo Salvini, leader della Lega (e del governo), ha esibito in più occasioni atteggiamenti e simboli religiosi. Ha baciato la corona del Rosario, invocato la Madonna. Mentre in alcune foto, sulle mensole di librerie, dietro a lui, si scorge un’icona di Gesù, sotto al santino di Putin e al cappellino di Trump. Accanto alla foto di Baresi e al berretto dei carabinieri. Le passioni del vice(?) premier. Che combinano sacro e profano. In modo apparentemente casuale. Perché, così, sacro e profano si contaminano reciprocamente. E non ci sorprenderebbe se, prossimamente, i personaggi religiosi venissero abbigliati con la maglietta rossonera e il berretto dei carabinieri. Salvini, d’altronde, è attento alla comunicazione. Assistito da uno staff di consulenti di grande competenza.
Così, non sorprende la combinazione di sacro e profano. Perché evoca sentimenti diversi. Espressi da pubblici diversi. In particolare: la domanda di sicurezza. Di rassicurazione. Ma anche di “fede”. In fondo, come abbiamo sostenuto in altre occasioni, la maglia e la bandiera della squadra di football attraggono più di altri soggetti e ambienti. Politici, territoriali…religiosi. Generano “fedeltà”. Cioè: “fede”. Per questo Salvini li ostenta e li propone insieme. In “dis-ordine” apparentemente “casuale”. Ma, a mio avviso, ben “organizzato”. Perché “dialogano” con diversi pubblici. Con diversi settori di mercato elettorale. Altrettante componenti di un popolo “fedele”. Animato dalla “fede”. D’altra parte, il collegamento fra religione e politica, in Italia, ha una storia lunga. Il partito che ha governato in Italia per quarant’anni si chiamava Democrazia “Cristiana”. Appunto. Il suo simbolo era lo Scudo-Crociato. Dunque: la Croce. Un vero partito “nazionale”. Ma radicato e forte, soprattutto, nel Nord Est. E nelle province del Nord. Territorio di piccole città e di piccole imprese. Dove ha (stra)vinto la Lega, alle Europee. Ma anche alle Politiche di un anno fa. La Pedemontania, assai più della Padania, è la vera patria originaria della Lega. Dagli anni Ottanta, il tempo delle Leghe regionaliste, per proseguire, nei decenni successivi, quando si è imposta la Lega Nord. la Lega Padana di Umberto Bossi e, in seguito, di Maroni. Fino alla crisi profonda dell’ultimo decennio, quando Matteo Salvini ha superato l’identità politica marcata dal territorio. Salvini: ha scavalcato il Po. Verso Sud. E oltre le Alpi. Ha incontrato Marine Le Pen. A destra. La sua Lega è “Nazionale”. Non solo perché ha allargato il suo territorio all’Italia. Ma perché, guardando anzitutto alla Francia (poi agli altri partiti sovranisti dell’Europa post-sovietica) ha costruito una vera “Ligue Nationale”. L’ho definita così nel 2014. Per assonanza, non solo lessicale, con il “Front (oggi Rassemblement) National”. Guidato da Marine Le Pen.
Il richiamo alla religione, ai cattolici, dunque, appare un tentativo di radicarsi in un terreno dove le Leghe, che hanno preceduto la Lega di Salvini, sono sorte e cresciute. Sulle tracce della DC. La Lega di Salvini: è ripartita dal “Forza-leghismo” degli anni Novanta. Ma è andata molto oltre. Tuttavia, le radici sono importanti. Perché forniscono una base di valori. Fondata sulla tradizione. Così, nell’iconografia e nel discorso di Salvini sono apparsi la Madonna e Gesù. Al di là di valutazioni politiche e, prima ancora, etiche, già espresse dagli ambienti della Chiesa e del mondo cattolico, in modo talora aspro, questa scelta strategica e comunicativa ha prodotto effetti visibili.
Nel corso dell’ultimo anno, infatti, il peso elettorale della Lega presso l’elettorato “cattolico” è cresciuto notevolmente. Com’è avvenuto fra gli elettori nell’insieme. Ma in misura superiore. (Lo ha rilevato anche Nando Pagnoncelli).
Fra i praticanti assidui – che dichiarano di andare a messa regolarmente tutte le domeniche (o quasi) – alla vigilia delle ultime Europee, il 27% si diceva intenzionato a votare per la Lega di Salvini. Un dato di poco inferiore alla “media” del partito, che a due settimane dalla consultazione si fermava intorno al 32% (nel sondaggio di Demos per Repubblica). E sarebbe salito di due punti al momento del voto. Va, tuttavia, considerato che, poco più di un anno prima, alle Politiche 2018, solo i1 12% dei cattolici affermava di votare per la Lega, contro una media del 17%, tra gli elettori in generale. Il voto dei cattolici praticanti, dunque, nel corso degli ultimi mesi, appare cresciuto nell’elettorato leghista. Mentre, parallelamente, è diminuito tra gli elettori degli altri partiti principali. In particolare, fra quelli hanno ceduto maggiormente consensi verso la Lega: Forza Italia e Movimento 5 stelle. Per contro, il voto al PD alle Europee, tra i cattolici praticanti è sceso di poco rispetto alle Politiche: dal 26 al 24%. In una certa misura, si tratta di un allineamento demografico, visto che la base del PD, come quella dei cattolici praticanti, appare sempre più anziana. Il peso di FI, fra i cattolici, invece, è calato sensibilmente: dal 17 al 12%. Ma il M5s è “caduto”: dal 28 al 17%. (Un partito, peraltro, particolarmente penalizzato dal voto europeo).
Tuttavia, fra gli italiani, leghisti e no, solo il 20% ritiene “importante” l’insegnamento della Chiesa, sul piano etico e personale. La maggioranza (relativa: il 41%) lo valuta “utile”. Ma poi “ciascuno si deve poi regolare secondo coscienza”. Tutti gli altri lo guardano con distacco. La Chiesa, dunque, oggi più di ieri, fornisce un sistema di riferimenti. Un retro- terra. Che i cittadini utilizzano “a modo loro”. Secondo una logica “bricolage”. Coerente con questi tempi di “voto liquido”. Veicolato dai leader, più che dai partiti. L’altro ieri, Berlusconi. Ieri, Renzi. Oggi, Salvini. Domani: chissà.
MATTEO BAZZI/ANSA Il leader
Il vicepremier Matteo Salvini, 46 anni, bacia il rosario durante uno dei suoi recenti comizi tra Europee e ballottaggi

Il Fatto 8.6.19
La linea dura sui migranti nuova strategia di sinistra
Tornata al governo dopo 4 anni, la leader Frederiksen punta sullo stato sociale
di Giampiero Gramaglia


Un giro di vite all’immigrazione e un colpo d’acceleratore al welfare: con questo mix di programmi, i socialdemocratici danesi hanno vinto le elezioni politiche, riconquistando la guida del governo. È la terza volta in nove mesi che gli europei del Nord bocciano il populismo: gli svedesi a settembre 2018, poi i finlandesi ad aprile, ora i danesi. Una tendenza avallata dai risultati delle elezioni europee: nei Paesi Nordici, la marea populista è calante; in Danimarca, hanno perso più della metà dei voti.
La giovane leader socialdemocratica Mette Frederiksen, 41 anni e mezzo, potrebbe però avere difficoltà a formare una coalizione: nel Folketing, il Parlamento, il ‘blocco rosso’ ha 91 seggi su 179 e sarebbe, quindi, maggioritario; il ‘blocco blu’ di centro-destra, coagulato intorno ai liberali del premier uscente Lars Lokke Rasmussen, ha solo 75 seggi.
Ma la Frederiksen intende formare un governo di minoranza che ottenga di volta in volta sostegno dall’uno o dall’altro partito su provvedimenti specifici. L’estrema sinistra le contesta, infatti, la virata sui migranti e non sarebbe un partner di governo docile. La leader socialdemocratica respinge anche l’offerta di Rasmussen di formare una ‘grande coalizione’ fra i due maggiori partiti, che da soli avrebbero la maggioranza. I risultati dicono che i socialdemocratici si confermano primo partito con il 26%, pur con un calo dello 0,3% rispetto alle elezioni del 2015. Ma le altre forze di sinistra crescono e danno quindi loro una potenziale maggioranza parlamentare. Invece, il Partito liberale, sconfitto, guadagna suffragi e arriva al 23,4%, quasi quattro punti in più di quattro anni or sono, ma i suoi alleati del ‘blocco blu’ arretrano: il Partito dell’Alleanza liberale ottiene appena il 2,3%. I populisti xenofobi del Partito del Popolo danese precipitano dal 21,1% all’8,8% (e scendono da 37 a 16 seggi). Entra in Parlamento con quattro seggi la Nuova Destra, fondata da Pernille Vermund, un’architetta. Anche sommando i voti dei due movimenti, ne manca sempre la metà rispetto al 2015. Rasmussen riconosce la sconfitta e s’appresta a rassegnare le dimissioni. Frederiksen assapora la riconquista del potere: “Rimetteremo il Welfare al primo posto in Danimarca, il Welfare, il clima, l’educazione, i bambini, il futuro. Pensiamo a quel che possiamo fare insieme”. La leader socialdemocratica, già ministro del Lavoro e della Giustizia, prima di succedere alla guida del partito all’ex premier Helle Thorning-Schmidt sostiene, inoltre, che queste sono state le prime elezioni danesi nel segno del riscaldamento globale, alla Greta. I socialdemocratici hanno centrato tutta la loro campagna sulla difesa dell’ambiente e del Welfare, un sistema di garanzie sociali molto apprezzato dai cittadini, promettendo di rovesciare il trend degli ultimi anni (tagli della spesa per l’educazione e la salute) e di mantenere un approccio non permissivo sull’immigrazione.
Secondo molti osservatori, questa mossa è stata decisiva per ridurre drasticamente l’impatto elettorale di xenofobi e islamofobi. Per molto tempo un termine di riferimento per tutta l’Europa, il modello sociale nordico è da anni posto sotto crescente pressione dall’invecchiamento della popolazione. In Danimarca, le riforme introdotte dal centro-destra hanno condotto a una crescita economica superiore alla media dell’Ue, ma i tagli imposti alla spesa pubblica hanno avuto come corollario che molti devono ora pagare servizi che erano prima gratis. La difesa del welfare e del modello sociale connesso è il minimo comune denominatore dei successi delle socialdemocrazie nordiche. Il centro-sinistra svedese ha conservato il potere propugnando una riforma che garantisca le tutele sociali. E i socialdemocratici finlandesi hanno vinto di stretta misura impegnandosi ad aumentare le tasse per aumentare i livelli di spesa sociale.

il manifesto 8.6.19
Tagli alla sanità: Giulia Grillo pronta alle dimissioni
La ministra della Salute Giulia Grillo (M5S) si è detta pronta a «dimettersi» se saranno confermati i tagli alla sanità contenuti nella «bozza» del «patto per la salute». È scontro con il ministero dell’economia su una clausola di salvaguardia: «L’hanno inserita gli uffici, politicamente è irricevibile»
di Roberto Ciccarelli


Un’altra manina ha turbato i rapporti tra il ministero dell’economia e finanze (Mef) e il resto del governo. Si è introdotta nel ministero della Salute della cinque stelle Giulia Grillo che dovrà affrontare le conseguenze delle clausole di salvaguardia approvate dal suo governo nella legge di stabilità approvata sei mesi fa.
NEL PRIMO ARTICOLO della «bozza» per il «patto per la salute» sul quale il governo e le regioni si stanno confrontando è stata recepita la clausola che taglia gli aumenti annunciati al fondo sanitario (2 miliardi) nel 2020 e 1,5 miliardi l’anno successivo. Tale ipotesi scatterebbe anche nella sanità per permettere al governo di raggiungere «gli obiettivi di finanza pubblica» e le «variazioni del quadro macroeconomico». Dopo l’avvio della procedura per eccesso di debito da parte della Commissione Ue, e l’inizio delle trattative sul nuovo bilancio, questo scenario può rivelarsi riduttivo: il governo ha pensato di «bloccare» automaticamente 2 miliardi di euro. È anche possibile che ne serviranno molti di più per coprire un «buco» che, tra il 2018 e il 2019, ammonterebbe a nove miliardi.
SULLA SANITÀ questo scenario ha già fatto esplodere il fronte delle regioni che hanno annunciato «ritorsioni» contro il governo (Il Manifesto, 7 giugno). Ieri è stato il turno della ministra Grillo che ha denunciato la clausola «inserita nella bozza per espressa richiesta degli uffici del Mef – ha detto Grillo in un video pubblicato sulla sua pagina Facebook – È politicamente irricevibile e non viene dal ministero della salute. La sanità ha dato tutti i contributi che poteva dare ai tagli che sono stati fatti sulla finanza pubblica. Non è possibile prendere un centesimo». In una dichiarazione successiva ieri Grillo ha corretto il tiro. Ha ridefinito la «bozza» come un «canovaccio». Nella commedia dell’arte il canovaccio è la traccia sulla quale si sviluppa l’improvvisazione degli attori. Nella scienza triste del bilancio è un modo di calciare il pallone in tribuna e dire che è colpa dell’arbitro. O della «manina» di cui parlò Di Maio nel memorabile scontro con i «tecnici» dell’Inps, allora presieduto da Tito Boeri, a proposito di tabelle galeotte inserite nel «decreto dignità». In ogni caso Grillo ha assicurato di essere pronta a «dimettersi: non parteciperò a questa nuova mannaia».
L’IRA DELLA MINISTRA è giustificata. La Sanità rischia di dovere rinunciare ad alcune delle misure alle quali ha lavorato negli ultimi mesi: il taglio del superticket di 10 euro oppure le nuove assunzioni degli infermieri e medici necessari per evitare ricorrere il personale in pensione com’è accaduto caduto in Molise, oppure imporre l’esercizio di alcune funzioni mediche a personale non specializzato. La situazione è talmente grave che nel recente «decreto Calabria» deciso dal governo ad aprile, e approvato dalla Camera la settimana scorsa, per salvare la sanità calabrese è stato proposto di mettere al lavoro i medici specializzandi. Ipotesi incostituzionale che ha fatto scoppiare un pandemonio. Secondo l’Anaao Assomed nel 2018 mancavano all’appello 10 mila medici. Nel 2025 ne mancheranno 16.700. Anni di austerità e blocchi del turn-over, a cui si aggiungono gli effetti dei pensionamenti «quota 100», rendono esplosiva la situazione.
LA SINGOLARE PROTESTA di Grillo, in fondo i tagli sono stati previsti dal suo stesso governo, è l’anticipo dello scontro che provocherà la stretta pentaleghista sui conti pubblici. Se non sarà sulla Sanità, il taglio si abbatterà altrove. Oppure sarà spalmato, provocando effetti diffusi. Una situazione che rischia di rompere il gioco illusionistico realizzato dal governo attraverso l’uso di una neolingua orwelliana: i «tagli» sono chiamati «risparmi di spesa», ad esempio. È il caso del «reddito di cittadinanza» e «quota 100». Il governo «risparmierebbe» 1,3 miliardi di euro, per un errore di valutazione sulla platea delle misure bandiera di Cinque Stelle e Lega. Secondo il presidente dell’Inps Pasquale Tridico solo dal «reddito» arriverebbe un miliardo. Invece di reinvestirlo su questa misura, estendendo i criteri a chi non è povero abbastanza per fare domanda, Di Maio lo destinerà a una non precisabile misura per le «famiglie». Potrebbe finire così: la Lega ha chiesto di usare le risorse per colmare il «buco» dei conti. Lo scontro è all’inizio.
IN VIAGGIO NEL VIETNAM il premier Conte ha sentito la necessità di fare sapere che si tratta di «accantonamenti» e non di «tagli». «Le misure saranno attuate integralmente» ha detto. I tagli – pardon: i «risparmi» – ci saranno, ma con un altro nome. Li chiameranno: canovaccio.

il manifesto 8.6.19
Xi Jinping: «Pronti a condividere la tecnologia 5G con i nostri partner»
di Simone Pieranni


In Cina è iniziata ufficialmente l’era del 5G. Anche a causa dei problemi riscontrati di recente da Huawei, via Washington, Pechino ha accelerato le procedure e da un paio di giorni il ministero dell’Industria e dell’Informazione tecnologica cinese (Miit) ha concesso le licenze commerciali agli operatori per le nuove connessioni ultraveloci (previste in un primo tempo nella seconda parte dell’anno). China Mobile, China Telecom, China Unicom sono le aziende che potranno cominciare a commercializzare il 5G.
Huawei (fresca di accordo con la Russia sancito da Xi Jinping in visita da Putin) e Zte – l’altra grande telco cinese, ma di proprietà statale) si sono dette pronte. Il giro d’affari previsto cambia leggermente a seconda di chi produce le stime, ma si parla di quasi un miliardo di dollari e milioni di posti di lavoro (in aree limitate il 5G è già offerto in Gran Bretagna, Usa e Corea del Sud, i primi in assoluto).
Ma il viaggio di Xi Jinping in Russia ha portato un’ulteriore novità: il presidente ha specificato che «La Cina espanderà costantemente la propria apertura, in particolare l’accesso al mercato, creerà un ambiente favorevole alla concorrenza e saremo un forte sostenitore della globalizzazione economica.
    La Cina è pronta a condividere le sue invenzioni tecnologiche e il know-how, in particolare la tecnologia 5G, con tutti i partner».
Naturalmente bisognerà capire a quali partner pensa Xi Jinping. Come ha riportato Reuters, Huawei ha fatto sapere di avere attivato già 46 contratti commerciali 5G in 30 paesi fino ad oggi; analogamente China Mobile ha annunciato di voler offrire servizi 5G in più di 40 città cinesi entro la fine di settembre.
Ma la velocizzazione delle procedure ha scatenato molti commenti e articoli sui media cinesi: la novità era attesa da tempo ma ugualmente si sono sottolineati gli aspetti rilevanti di questa mossa di Pechino.
La stampa cinese è impegnata in primo luogo a esplorare le potenzialità che il 5G permette: da tutto quanto è «internet delle cose» alla medicina, fino ai servizi bancari e amministrativi (sottolineati dall’Economic Observer). La velocità della connessione, la minor latenza, permetterà agli algoritmi di elaborare dati e fornire risposte in tempi rapidissimi, permettendo il pieno sviluppo di potenzialità fino ad ora solo immaginate.
E la mossa di Pechino, con il corollario delle dichiarazioni di Xi, riaccende il vero scontro con gli Usa di Trump.

il manifesto 8.6.19
La biografia partigiana di Otello «Battagliero» Palmieri
«Qualcosa di meglio», un libro-intervista a cura di Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri


Non è la vita di uno degli uomini ex, come li ha definiti Giuseppe Fiori nell’omonimo romanzo ispirato alle gesta di alcuni esuli politici italiani nella Cecoslovacchia dell’immediato dopoguerra. La vita del partigiano bolognese espatriato «Battagliero», al secolo Otello Palmieri, ricostruita da Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri nel libro-intervista Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri (Pendragon, pp. 222, euro 15), infatti, ha ben poco dei tratti tipici delle vicende degli ex-partigiani «sconfitti anzitempo dalla storia» e costretti all’emigrazione oltrecortina per scampare ai processi politici cui venivano sottoposti nell’Italia degli anni ’50 per azioni commesse durante i venti mesi di resistenza o dopo la liberazione. La vita dell’esule Palmieri, infatti, vede intrecciarsi e rimanere attive tre componenti apparentemente inconciliabili e che solo parzialmente si spiegano l’un l’altra: la lotta armata partigiana, l’esilio in Cecoslovacchia e la successiva emigrazione in Svizzera. Tutto appare concatenato ma al contempo frutto di scelte autonome: dall’emergere di una forte identità antifascista legata alla repressione squadrista dei movimenti bracciantili nella comunità d’origine, al tramonto di un’ipotesi rivoluzionaria dilatata e proiettata sino alle manifestazioni seguenti all’attentato a Togliatti del 1948.
DALL’ESILIO FORZATO in un paese che non rispettava le aspettative di «paradiso comunista» e che, specie dopo l’impiccagione di Rudolph Slánský, si mostrava sempre più sottoposto alla grigia cappa di repressione staliniana, alla scuola di politica che, a differenza di quanto previsto da Otello, «non insegnava la rivoluzione», ma formava quadri scevri da qualunque «tendenza partigiana»; dal rientro in Italia dopo il proscioglimento delle accuse, all’emigrazione in Svizzera con la fidanzata di sempre, ormai divenuta sposa. Tutte vicende non riconducibili a quella singola scelta iniziale che nella primavera del 1944 lo aveva condotto alla lotta armata contro il fascismo e che appare il palo da cui gli uomini ex, giusto o sbagliato che fosse, non riuscirono a muoversi. Quella scelta e quegli ideali, considerati «traditi, non sbagliati» vennero continuamente sfidati dagli eventi della vita di Palmieri e dal suo riuscire a conciliare, anche in maniera dialettica, le anime di Battagliero, Enrico Grassi, identità fittizia fornitagli dal partito una volta espatriato, e Otti, nomignolo affibbiatogli dai colleghi della fabbrica in Svizzera.
A CONGEDARE Otello dal leitmotiv dell’instancabile ricerca delle «motivazioni sufficienti a continuare, a fare ciò che c’era da fare» e dal costoso barattare le proprie concrete esigenze con quelle di una «comunità virtualmente estesa al mondo intero» fu la delusione per una politica che si allontanò dalla verità, per abbracciare una ritualità di partito sempre meno tesa alla modifica dell’esistente. È dunque in questo contesto che la densità di significati delle tensioni e delle pulsioni vissute prima di emigrare finì per schiacciare la concezione di azione e immaginazione politica sull’etica del lavoro e sullo sforzo creativo, sulla ricerca di «qualcosa di meglio», unica via per contrastare una disillusione sempre più differita ma sempre più foriera di lacerazioni solo apparentemente pacificabili.
Se l’esperienza è infatti il passato che vive nel presente di Otello, contribuendo a modellarlo, anche il futuro ha vissuto nel presente e nel passato modificandoli, sebbene sotto forma di aspettativa tradita. E ora, «di fronte alla fine», in un mondo che ha visto il trionfo degli avversari, il «vocabolario che strutturava quelle speranze sembra essersi perduto» e il racconto di un’aspettativa finisce per sovrapporsi a quello di un’esperienza.

Il Fatto 8.6.19
“Putin si crede Stalin, ma non sono gli anni 30”
Il “troll” Aleksandr Gorbunov e il presidente russo Vladimir Putin
di Michela A. G. Iaccarino


Lo ripete dall’inizio alla fine dell’intervista: “Non posso rimanere in silenzio”. Aleksandr Gorbunov, il “troll” anti-Cremlino che ha nascosto la sua identità dietro l’avatar di “Stalin Gulag” fino a poche settimane fa, dà questa stessa risposta a domande diverse. Lo schermo di uno smartphone, una sedia a rotelle dove è costretto dall’atrofia muscolare spinale, i commenti sardonici alle scelte del governo che distruggono le vite di milioni di cittadini: lui è tutto questo. Con il solo dito che riesce a muovere, Gorbunov ha conquistato oltre un milione di russi.
Aleksandr, allora Stalin Gulag è lei. Perché questo nome di battaglia?
È una caricatura. Le autorità oggi amano proiettare un’immagine di sé che assomiglia a quella degli anni sovietici, ma questa è la Russia moderna, loro sono dei commercianti che pensano solo al proprio arricchimento. Anche loro sono una caricatura dei tempi di Stalin, ma non siamo più negli anni 30.
Prima che svelasse la sua identità, per alcuni Stalin Gulag era un troll della Cia o di Kiev. Come è cominciata?
Dieci anni fa ho aperto un account Twitter, nel 2013 mi sono iscritto a Telegram. Alla gente piaceva quello che scrivevo e condividevano i link. I lettori mi scrivono come è la loro vita, cosa accade nelle regioni in cui abitano.
Dal 2013 il flusso dell’account non si è mai interrotto, uno scacco matto digitale alle autorità che lei critica. Ha oltre un milione di follower, una cifra che non può vantare nemmeno la redattrice capo del colosso mediatico del Cremlino, Margherita Simonyan. Poi ha deciso di uscire dall’anonimato digitale ed è finito su “Esquire” e “New York Times”.
Ho deciso di dire a tutti chi ero quando la polizia ad aprile scorso ha bussato alla porta dei miei genitori chiedendo informazioni su di me e parlando di ‘terrorismo telefonico’. Al momento non è stato ancora aperto un fascicolo su di me.
Alla luce dell’accaduto, lo rifarebbe?
Ja ne mogu malchat, non posso rimanere in silenzio.
Ultimamente molti russi non lo fanno più, lo dimostra la protesta di Ekaterinburg.
Per ora sono conflitti locali, da un momento all’altro possono diventare politici.
Lei abita in un Paese in cui i giornalisti vengono uccisi, gli attivisti incarcerati. I suoi genitori e sua moglie temono per la sua vita.
Se tutti stanno zitti, la situazione diventa senza soluzione. La cosa giusta è raccontare, io sono solo un ragazzo che scrive. Si tratta di svoboda slova, libertà di parola.
Il governo sta limitando la libertà anche su Internet.
Per il momento esiste la nuova legge che riguarda il web, repressiva come tutte quelle emesse negli ultimi anni. Se la Russia passerà a una rete di internet domestico, l’operazione costerà miliardi, se funzionerà.
Dalle sanzioni alla riforma delle pensioni, fino allo scandalo del talent “The Voice”, dove ha vinto la figlia di un oligarca. Lei commenta tutto provocando sorrisi amari. Il suo sarcasmo corrosivo deriva dai grandi maestri della letteratura russa?
Il sarcasmo è un’arma, la reazione a quello che vedo. I miei scrittori preferiti sono Chekov e Nabokov.
I russi sono narcotizzati dalle notizie sempre favorevoli della propaganda o qualcuno cerca ancora la verità?
Esiste la realtà parallela della propaganda e la realtà che i russi vedono tutti i giorni nei negozi, dove i prezzi diventano sempre più alti. Corruzione diffusa, pensioni basse, arresti arbitrari della polizia. La situazione è peggiorata. Io sogno un futuro in cui in Russia ci saranno democrazia, diritti umani, libertà di parola.
E il suo, di futuro?
Loro non possono mostrarsi deboli con chi li critica, è difficile prevedere cosa mi accadrà. Sono qui e aspetto.
Lei ha 27 anni. Quando ne aveva 7 Putin è arrivato al potere. Se potesse fare una domanda ai suoi giornalisti “cheerleader”, ai politici a lui vicini o al presidente stesso, quale sarebbe?
Chiederei… ma voi davvero non vi siete ancora stancati?

La Stampa 8.7.19
Putin a fianco di Xi nel duello su Huawei: no ai diktat degli Usa
di Giuseppe Agliastro


Vladimir Putin e Xi Jinping uniti nella «prima guerra tecnologica» della storia: quella tra l’America di Donald Trump e il colosso cinese Huawei. È questo il messaggio che arriva dal palco del Forum economico internazionale di San Pietroburgo, dove ieri i leader di Russia e Cina hanno dato prova di coesione e affiatamento. L’asse Mosca-Pechino è ormai una realtà consolidata, a tutto tondo, e in questo momento i due protagonisti dell’alleanza hanno un avversario comune: Washington e il suo «sfrenato egoismo commerciale».
Il primo conflitto digitale
Putin ha subito alzato i toni. Ci sono - ha denunciato - dei tentativi di «spingere Huawei fuori dal mercato globale senza tante cerimonie» e «per alcuni circoli si tratta della prima guerra tecnologica dell’imminente epoca digitale». Il presidente russo si riferisce ai provvedimenti con cui l’amministrazione Trump sta colpendo il gigante di Shenzhen accusandolo di essere uno strumento nelle mani dell’intelligence di Pechino. L’approccio di Putin è ovviamente del tutto diverso. Huawei sta affrontando mille difficoltà, ma in Russia è sempre la benvenuta. Tra i 30 accordi dal valore di 20 miliardi di dollari siglati mercoledì al Cremlino alla presenza di Putin e Xi, ce n’è uno che affida all’azienda cinese lo sviluppo della rete 5G in Russia. Molti Paesi occidentali hanno invece escluso Huawei dalla creazione del loro 5G temendo i presunti legami tra il gigante cinese e i servizi di Pechino. Sono scelte su cui pesano anche la geopolitica e le pressioni statunitensi. Trump considera Huawei una minaccia alla sicurezza nazionale e a maggio ha ordinato alle aziende Usa di non venderle più software e tecnologie varie. Il provvedimento entra in vigore fra tre mesi e promette di essere una batosta per la compagnia cinese, che usa i software americani per far girare i suoi cellulari.
Google critica la Casa Bianca
Facebook sta già obbedendo. Secondo la Reuters, i futuri smartphone Huawei saranno venduti nei negozi senza le app del «gruppo blu»: Facebook, WhatsApp, Instagram e Messenger. Dovranno essere gli utenti a installarle. Google invece cerca di portare acqua al suo mulino remando in direzione opposta. Stando al Financial Times, il colosso californiano insiste con la Casa Bianca per essere esonerata dal divieto di fare affari con Huawei. Il ragionamento di Google è lineare: se la società cinese non potrà avere gli aggiornamenti di Android, svilupperà una sua versione del sistema operativo che renderà i cellulari facili prede dell’intelligence del Dragone.
Mentre tra Pechino e Washington infuria la «guerra dei dazi» e Huawei viene trascinata sul fronte, Putin si schiera decisamente dalla parte del suo alleato cinese e del suo «caro amico» Xi. Gli Usa - ha tuonato da San Pietroburgo - vogliono solo «diffondere la loro autorità sul mondo intero» e per questo hanno imboccato «un sentiero che porta a conflitti senza fine e guerre commerciali, e forse non solo commerciali». Xi ha invece usato toni più concilianti.
«La totale rottura dei rapporti fra la Cina e gli Usa - ha sottolineato il leader di Pechino - non è nei nostri interessi e neppure in quelli degli Usa. Trump è mio amico - ha aggiunto - e non credo che voglia arrivare a una rottura». Il rapporto privilegiato è però quello con Mosca, che riguarda tutte le principali questioni geopolitiche, la cooperazione militare e, naturalmente, il commercio. «Il progetto cinese della Nuova Via della Seta e quello dell’Unione Eurasiatica guidata da Mosca - ha detto Xi - sono complementari e io e Putin abbiamo deciso di svilupparli in parallelo». L’interscambio tra Russia e Cina è in continuo aumento. L’anno scorso è cresciuto del 25% toccando i 108 miliardi di dollari. Ma Mosca a Pechino vende principalmente idrocarburi e ha bisogno delle tecnologie cinesi per sopperire a quelle che non può acquistare dall’Occidente a causa delle sanzioni per la crisi ucraina. Ciò fa della Russia il partner debole dell’alleanza. L’Ue inoltre supera comunque sia gli Usa sia la Cina nella classifica degli investitori in Russia. L’asse Mosca-Pechino in realtà è prima di tutto un’alleanza politica.

Il Fatto 8.7.19
La strana coppia Orbán-San Suu Kyi
Pro-muri - L’ex lady dei diritti, isolata in Occidente, si allea con il premier xenofobo
di Roberta Zunini


La leader birmana Aung San Suu Kyi, controverso premio Nobel per la Pace, è tornata in Europa per la prima volta dopo aver sostenuto la pulizia etnica della minoranza islamica Rohingya perpetrata dell’esercito due anni fa. Da allora l’icona della libertà è stata retrocessa al rango di paria dalla maggior parte dei Paesi occidentali, tranne due: l’Ungheria e la Repubblica Ceca che fanno parte del gruppo di Visegrad, la combriccola sovranista di destra e islamofoba dell’Unione europea.
La stretta di mano più calorosa, non appena atterrata a Budapest dopo essere stata a Praga, The Lady l’ha ricevuta dal primo ministro in persona, quel Viktor Orbán che per primo ha fatto erigere un muro di filo spinato per impedire agli immigrati in fuga di entrare in Ungheria. La consigliera di Stato del Myanmar – per 15 anni ai domiciliari per volere dell’allora giunta militare – è andata in visita di Stato nel Paese magiaro non solo per rinsaldare gli accordi economici ma anche per “discutere dell’aumento dei migranti musulmani”. Un tema del tutto strumentale visto che in entrambi i Paesi ormai di musulmani ne sono rimasti ben pochi, ma che ha consentito a Orbán di stravincere le recenti elezioni europee e prima ancora di essere riconfermato premier.
La reputazione di Aung San Suu Kyi in Occidente ha subito un ulteriore colpo in seguito alla mancata difesa dei giornalisti birmani incarcerati per mesi a causa dei loro reportage sulle terribili vessazioni subìte dai rohingya. Stupri e omicidi che hanno provocato una fuga di massa dei sopravvissuti nel confinante Bangladesh dove ancora vivono in condizioni disastrose nei campi profughi di fortuna a ridosso del confine. La donna più potente del Myanmar ha però trovato, guarda caso, un nuovo alleato nel primo ministro ungherese ed è subito corsa a omaggiarlo nel tentativo di riaccreditarsi agli occhi di almeno una parte dell’Europa.
I due leader hanno sottolineato che “una delle maggiori sfide attuali per entrambi i Paesi e le loro rispettive regioni – il sud-est asiatico e l’Europa – è la migrazione”, si legge in una dichiarazione rilasciata dopo il loro incontro. Durante una conferenza stampa congiunta hanno spiegato di “aver notato che entrambe le regioni hanno visto emergere il problema della convivenza con popolazioni musulmane in continua crescita”. Il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa di recente ha accusato il governo di Orbán di “usare la retorica anti-migrante per scatenare xenofobia, paura e odio”. Aung San Suu Kyi, da quando è stata eletta nel 2015, ha criticato in molte occasioni “l’imposizione di idee e principi occidentali in Myanmar”. Questa accusa è stata subito raccolta da Orbán che nella dichiarazione rilasciata dopo il loro incontro ha enfatizzato anche il proprio rifiuto “della esportazione di democrazia”.
Secondo Phil Roberton, vicedirettore per l’Asia Human Rights Watch, “Aung San Suu Kyi è ormai talmente isolata in Occidente che può contare solo sul sodalizio con Orbán. Dopo aver vergognosamente aiutato i militari del Myanmar a coprire il loro genocidio contro i musulmani rohingya, ora può solo stringere rapporti di amicizia con i leader più xenofobi e antidemocratici d’Europa”.

La Stampa 8.7.19
Dora Maar senza Pablo
Mostra a Parigi sulla fotografa Al di là del legame con il maestro
di Leonardo Martinelli


S’incontrarono al Deux Magots, caffè di artisti, davanti alla chiesa di Saint-Germain-des-Prés. Nell’inverno tra il 1935 e il ‘36 Pablo Picasso la vide a un tavolino. Dora Maar, di una bellezza misteriosa, aveva 29 anni ma era già una fotografa conosciuta. Giocava con un temperino, lo piantava tra un dito e l’altro. Alla fine i suoi guanti erano macchiati di sangue e Pablo Picasso, affascinato, li prese e se li portò via. Si amarono anche, per una decina d’anni. «Dora è famosa come la modella e la musa del maestro – sottolinea Damarice Amao -: noi, invece, abbiamo voluto restituirle la sua identità d’artista».
La Amao è una delle curatrici di una mostra appena inaugurata al Centre Georges-Pompidou, che andrà avanti fino al 28 luglio. E che riunisce più di quattrocento opere e testimonianze di una lunga vita (la Maar morì a novant’anni, nel 1997), soprattutto le foto degli anni Trenta e poi i dipinti del resto della sua vita. Si chiamava in realtà Henriette Dora Markovitch, nata da un architetto croato, mentre la madre aveva una boutique di moda. Per vari anni, quando Dora era piccola, si trasferirono a Buenos Aires. Al suo ritorno a Parigi la ragazza si tagliò i capelli corti. Era libera e indipendente. Studiò arte e foto. «La Maar fa parte di una generazione di donne – continua la Amao – che scelsero la fotografia per emanciparsi e diventare economicamente indipendenti». Ne faceva di moda (con giochi di luci speciali: sono esposte immagini di donne con abiti di stilisti famosi che posano accanto a modelli Fiat luccicanti). Lavorava per la pubblicità e scattava perfino foto erotiche. Poi, con la sua macchina iniziò a scendere per strada. E ad avventurarsi in quella che allora si chiamava «la Zona», le baraccopoli alle porte di Parigi: splendidi i suoi ritratti di gente emarginata, avvicinata da Dora, ragazza di buona famiglia, ma che per quelle persone provava un’incredibile empatia.
Nel 1933 la donna entrò in contatto con i surrealisti. «La Maar era una «surrealista nata», cresciuta da adolescente leggendo i poeti di quel movimento», prosegue la curatrice. Diventò famosa per i fotomontaggi, come il Simulatore, esposto al Georges-Pompidou, dove inserì un ragazzino fotografato per le strade di Barcellona, che spingeva il suo corpo all’indietro, nelle volte (ma ribaltate) dell’Orangerie del castello di Versailles. «Rispetto agli altri surrealisti – spiega la Amao – i fotomontaggi della Maar sono puliti, senza stacchi, molto tecnici: sembrano una foto unica». Il periodo fondamentale dell’esistenza di Dora (nel bene e nel male) furono comunque i dieci anni trascorsi con Picasso, il genio egoista: una felicità allo stato puro, anche veemente. Non l’ebbe solo per lei ma ne diventò la modella prediletta, vedi quella Donna che piange.
Ma pure qui, basta con le interpretazioni riduttive. «Fu lei per prima a fotografarlo – aggiunge la curatrice -. E gli insegnò pure una tecnica fotografica, il cliché-verre». È l’incisione di un’immagine su un pezzo di vetro. Dora accompagnerà Pablo in Guernica, scattando delle foto utilizzate dall’artista per la composizione dell’opera. Non solo: lui dipingeva lei ma anche lei iniziò a dipingere lui.
Prima Paul Eluard e poi lo stesso Picasso la incoraggiarono a dedicarsi alla pittura. Inizialmente le sue tele ricordavano quelle del maestro. Poi anche lì conquistò progressivamente un’indipendenza. Le nature morte si fecero scarne durante la Seconda guerra mondiale. E un suo autoritratto del 1945 è glaciale. Picasso l’aveva lasciata. Era caduta in depressione. Se ne occupò Jacques Lacan. E il suo verdetto fu implacabile: Dio o il manicomio. Dora si salvò con una fede appassionata.
«Per il resto della vita ogni giorno pregherà, andrà a messa (abbiamo ritrovato blocchi dove ritraeva le vetrate della chiesa durante le funzioni) – conclude la Amao – e dipingerà». Picasso, anche per allontanarla, le comprò una casetta nel Sud, in Provenza, a Ménerbes. Visse, in una relativa solitudine, tra quelle terre e Parigi, dove nessuno più sapeva che fine avesse fatto. Ma Dora continuava nelle sue sperimentazioni, scivolando verso l’astrattismo. O riprendendo vecchi suoi negativi, graffiandoli e reinventandoli. Alla ricerca, sempre.

La Stampa 8.6.19
San Francesco e il sultano
Un incontro di 8 secoli fa che non smette di insegnare
di Cesare Nosiglia e Yahya Pallavicini


Nella casa torinese della convivenza e del dialogo per eccellenza, l’Arsenale della Pace, un seminario dedicato agli 800 anni dall’incontro di San Francesco con il sultano d’Egitto Malik al-Kamil Muhammad bin Ayyub ha sottolineato ancora una volta la tradizione di impegno per la reciproca conoscenza presente nella nostra città. L’appuntamento promosso dalla Coreis, Comunità religiosa islamica italiana, coordinato dal direttore de La Stampa Maurizio Molinari, ha riunito l’arcivescovo, monsignor Cesare Nosiglia, l’imam Yahya Pallavicini, presidente della Coreis, lo storico Alessandro Barbero e frate Francesco Mazzon, invitati a riflettere sullo straordinario “incontro al vertice” avvenuto a Damietta, Egitto, durante la quinta crociata. Un incontro anche leggendario, ma certo ricco di reali effetti positivi lungo i secoli.
Il professor Barbero ha ammesso che gli storici sono in difficoltà nel delineare la figura di Francesco, «un uomo che ha avuto un enorme impatto, che ha creato l’ordine francescano che ha attraversato tutta la storia del cristianesimo cattolico, che ha fatto un’enorme impressione ai suoi contemporanei. Ma tutto ciò che crediamo di sapere su di lui in realtà ci è stato raccontato da altri. Cosa è successo davvero nel 1219? Non abbiamo un racconto di Francesco durante quell’incontro. Le versioni giunte fino a noi ci dicono cose legate alla mentalità dell’epoca. Ma quel che oggi ci colpisce moltissimo è che mentre una crociata è in corso, il frate parta quasi per criticare quelli che sono andati dai musulmani con la spada in mano. E lui vada invece a parlare con loro».
La responsabilità
Dialogo, il valore eterno, quello che ha ispirato Abu Dhabi, l’incontro tra Papa Francesco e il grande Imam di Al Azhar. «Sono trascorsi ottocento anni dall’incontro tra San Francesco di Assisi e il Sultano al-Malik al-Kamil. Ricordare questo evento nel nostro tempo - ha osservato monsignor Nosiglia - significa rendere grazie a Dio misericordioso e onnipotente perché grazie a lui il rapporto e la collaborazione tra la Chiesa cattolica e i seguaci dell’Islam hanno raggiunto un traguardo importante di cui dobbiamo essere fieri, ma anche sentirci sempre più responsabili». Sono stati otto secoli con rapporti altalenanti e spesso critici. «Ma c’è stato sempre un tentativo di riprendere quel dialogo che San Francesco aveva avviato in modo così concreto e ricco di speranza», ha proseguito Nosiglia, che domenica scorsa ha visitato tre moschee e come ogni anno ha inviato gli auguri ai concittadini musulmani per la fine del Ramadan. Poi, ha ricordato l’eredità più recente. I viaggi di Giovanni Paolo II nei Paesi musulmani, l’incontro di Assisi in piena guerra del Golfo e la riscoperta della preghiera, «come via privilegiata per operare tutti insieme per la pace tra i popoli: la preghiera che implora da Dio la conversione del cuore di ogni cristiano e musulmano». Infine, lo storico documento firmato nel febbraio scorso dal Papa e dall’Imam sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza, con l’impegno delle religioni a non incitare mai alla guerra, a non sollecitare sentimenti di odio.
Spiritualità e potere
Per l’imam Yahya Pallavicini, «a differenza di Abu Dhabi, l’incontro di Francesco e il Sultano a Damietta non è tra due religiosi, lo è anche, ma da un punto di vista esteriore. È piuttosto l’incontro di due rappresentanze: una è la declinazione della spiritualità del cristianesimo cattolico con una lettura monastico contemplativa, l’altra è un governatore, un politico, una persona che deve cercare di amministrare forze e giurisdizioni per articolare la responsabilità temporale all’interno del califfato islamico. Quello di Francesco e del Sultano è l’incontro tra autorità spirituale e potere temporale. Entrambi sono uomini di fede, ma il Santo scopre come si gestisce il potere, da un punto di vista religioso non cristiano. E il sultano come si possa essere uomini spirituali, devoti, con una particolare dimensione di contemplazione e ricerca della santità non in forma islamica. C’è, in loro, apertura e scoperta l’uno dell’altro».
Nel tempo presente
Frate Francesco Mazzon, ricordando gli otto secoli di presenza francescana in Terra Santa, «la custodia dei luoghi Santi e anche la ’custodia’ dei cristiani», ha sottolineato con alcuni esempi come oggi i francescani siano impegnati con i musulmani per portare avanti quel dialogo interreligioso per il bene comune avviato dal fondatore. Uno per tutti, il più toccante: «Ad Aleppo - ha detto Mazzon - siamo impegnati per dare un futuro ai ’bambini invisibili’ i figli, nin riconosciuti, avuti dalle donne siriane dopo gli stupri dei jihadisti. Questi bambini sono duemila ad Aleppo e diecimila in Siria. Per loro, cristiani e musulmani sono uniti in un progetto».

Nei Pensieri Leopardi – che in questa casa è così di casa da avere una stanza a lui solo dedicata – spiega: “Quasi tutti i grandi uomini sono modesti, perché si paragonano continuamente, non cogli altri, ma con quell’idea del perfetto che hanno dinnanzi allo spirito”. L’infinito compie 200 anni, splendidamente portati; il nostro ospite, che tanto si è occupato di eterno, non è da meno, avendo da poco oltrepassato il ragguardevole traguardo dei 90 anni. Per festeggiare Emanuele Severino alcuni dei suoi allievi, tra cui Ines Testoni e Giulio Goggi, hanno organizzato un convegno a Brescia (dal 13 al 15 giugno) sui rapporti tra il filosofo bresciano e Martin Heidegger. Il padre di Essere e tempo ha riflettuto sul pensiero di Severino dalla fine degli anni Cinquanta: una prima nota reca la data 1958, altre risalgono alla fine degli anni Sessanta. Ma tutto comincia nel 1948 quando il giovanissimo Emanuele mette mano alla sua tesi di laurea. Titolo: Heidegger e la metafisica. Lavoro che viene subito pubblicato e che il “il pastore dell’essere” leggerà anni dopo: ed è qui che ci mette lo zampino la leopardiana modestia di cui sopra.
Professore, perché non ha mandato a Heidegger la sua tesi?
Ero un ragazzo, per carattere non sono uno che si promuove. Erano anche altri tempi, non usava.
A quei tempi il filosofo tedesco era poco conosciuto in Italia.
Non conosciuto come meritava. A 19 anni ho dovuto fare i conti con Sein und Zeit. Il tedesco lo conoscevo perché al liceo andavo a lezione di tedesco da un gesuita: Padre Auer. E Padre Auer conosceva Hitler. Ricordo che mi raccontava i contorcimenti di Hitler quando le cose non andavano come voleva lui.
Come ha fatto a prendere la libera docenza a 21 anni?
Mi sono laureato giovane, avevo saltato la prima liceo. Dopo la guerra c’era voglia di fare tutto subito. Nell’inverno del 1950 Esterina, che l’anno dopo sarebbe diventata mia moglie, vide sul Corriere una noticina in cui si diceva che quell’anno poteva partecipare al concorso di libera docenza anche chi era laureato da meno di cinque anni. Io avevo pubblicato il libro su Heidegger e durante l’università anche Note sul Problematicismo italiano. E quel peccato di gioventù che era La coscienza. Pensieri per un’Antifilosofia…
Stiamo sempre parlando di un ragazzo di diciannove anni…
No, lì ne avevo tre di meno, ne avevo sedici e mezzo.
Quando ha deciso di studiare filosofia?
Mio fratello, morto alpino nell’ultima guerra, era normalista a Pisa e aveva come docenti Gentile, Carlini Russo e Calogero. A casa parlava dei suoi studi, io lo adoravo. Quindi direi che il mio primo contatto con la filosofia è stato con quanto mio fratello diceva di Gentile e che mi sembrava estremamente intelligente, anche se capivo poco.
Era un bimbo!
Sì, sì, ero un bimbo. Intuivo che poi, quando sarei andato al liceo, avrei capito di più. Ma quando dovetti decidere cosa fare ero indeciso tra fisica, matematica e filosofia.
Si sa com’è andata… Torniamo a Heidegger: come sappiamo che legge la sua tesi nel ‘58?
In occasione del convegno di Brescia mi ha scritto Friedrich-Wilhelm von Herrmann, illustre cattedratico dell’Università di Friburgo, e di cui è assistente il professor Francesco Alfieri dell’Università lateranense, che possiede le chiavi dell’archivio e di queste note inedite di Heidegger che saranno pubblicate. In questa lettera spiega – le leggo – che il mio nome era “costantemente presente nella mente di Martin Heidegger”, quando negli anni Sessanta lui era l’assistente di Eugen Fink prima e dello stesso Heidegger poi. “Durante i suoi incontri con il fratello Fritz, Heidegger parlava spesso di Emanuele Severino e anche il figlio di Fritz, il reverendo Heinrich Heidegger, ricorda molto precisamente quelle menzioni, perché partecipava spesso agli incontri tra i due fratelli”.
Nella lettera von Herrmann le scrive: “La sua lettura autonoma di Heidegger e la fluidità del percorso delle sue ricerche fanno di lei un maestro”.
Molto lusinghiero.
Decisamente: al convegno le consegneranno perfino la traduzione di una sua opera in cinese. Ma andiamo avanti: anche il nipote di Heidegger le ha scritto una lettera molto affettuosa in cui racconta di come zio Martin parlava di lei, di quanto era impressionato dal modo in cui lei interpretava i suoi testi.
Dice che anche il padre Fritz, che aiutava il fratello trascrivendo a macchina i suoi manoscritti, ripeteva spesso il mio nome.
“Spero – aggiunge il reverendo Heidegger – che Lei un giorno verrà a trovarmi qui a Meßkirch”. Ci andrà?
No: io ho appena compiuto 90 anni, e lui ha la mia stessa età. Gli ho risposto così: “Caro reverendo, grazie per l’invito ma credo che sarà difficile, comunque ci incontreremo… in quella che io chiamo Gioia”. Gioia è quello che si apre con la morte, morire vuol dire entrare nella Gioia.
Si è fatto un’idea del perché Heidegger è stato colpito dalla Sua interpretazione?
Ho studiato a Pavia, con un grande maestro, Gustavo Bontadini. Il quale aveva interpretato Gentile non come chiusura alla metafisica classica, ma come un pensatore che indipendentemente dalle sue convinzioni apriva la porta a tale metafisica. Ho creduto in quel periodo che lo si dovesse dire in modo ancora più adeguato di Heidegger; cioè che anche Heidegger non fosse da intendere come un filosofo che, alla Nietzsche, afferma la morte di Dio, ma come un filosofo che – lo dice esplicitamente, ad esempio, in Essere e Tempo – intende indagare la base a partire dalla quale si può costruire una metafisica.
Torniamo a Gentile, un filosofo che l’ha influenzata moltissimo: quanto lo ha danneggiato l’adesione al fascismo?
Immensamente, è stata un pretesto per non studiarlo. Intanto diciamo che era il fascismo a essere gentiliano: quando pensava, il fascismo, pensava attraverso Gentile. Faceva, anche, e purtroppo faceva male. Ma quando si metteva sul piano culturale, l’orizzonte era Gentile. È Gentile che ha scritto la voce “Fascismo” sulla Treccani. Gentile è pressoché ignoto nel mondo anglosassone: c’è un motivo. Abbiamo perduto una guerra in un modo indecente. Abbiamo avuto il Partito Comunista più forte dell’Occidente, infastidendo notevolmente il mondo capitalistico. Tutti questi sono fattori che ci hanno resi antipatici al resto del mondo.
Anche su Heidegger ha pesato la macchia dell’antisemitismo e del nazionalsocialismo.
Il fascismo è stato un pretesto per non studiare all’estero l’italiano Gentile, ma non ha impedito l’affermazione internazionale del tedesco Heidegger. Era un tedesco e i tedeschi contano di più all’estero degli italiani.
La “moda” politicamente corretta per cui non bisogna studiare un filosofo perché fascista, o non leggere Céline per le stesse ragioni, che fondamento ha?
Mi sembra una sciocchezza. Quando Heidegger scrive quelle frasi antisemite, le scrive nel contesto di una critica all’intero atteggiamento metafisico quale si è andato di fatto realizzando, e che invece egli vuole ripensare. Le critiche che rivolge agli ebrei son le stesse che rivolge al cristianesimo, ad Aristotele, alla tecnica moderna, alla dimenticanza dell’“Essere”. E quindi non è che sia caratterizzato dal suo antisemitismo. Così come nel mio discorso filosofico non è che l’avversario sia il cristianesimo: il cristianesimo appartiene a una dimensione in cui i vari protagonisti hanno in comune qualche cosa di essenziale, cioè la fede nel diventare altro delle cose, la fede nella storicità delle cose del mondo.
Secondo lei perché questi tabù si ripresentano periodicamente come stigma? Volersi rifare una verginità storica, facendo finta per esempio che tutta la colpa sia stata del duce e del re, è un modo per non fare i conti con il passato e per legittimare il “fascismo eterno” di Eco. Ma non ogni forma di intolleranza è fascismo.
Certo. Ma non parlerei di periodicità. Il nostro è un tempo interessante anche perché è un unicum. Stiamo abbandonando la tradizione. Ma la tecnica destinata al dominio non si è ancora fatta innanzi. In questa fase intermedia anche il livello di intelligenza della gente ne risente. Nel Settecento i servi origliavano alla porta delle sale dei padroni dove si eseguivano Mozart e Haydn. Stavano lì a sentire. Se adesso pensiamo che il corrispettivo di Mozart e di Haydn è la musica pop e che la gente va in estasi per la musica pop, ecco, è accaduto qualcosa di profondo. Certo, le condizioni di vita del servo del Settecento erano pessime, ma allora anche i re, se avevano mal di denti, non se la passavano bene. Però l’abbandono della tradizione, di quella tradizione che può dire alla tecnica “guarda che tu non puoi fare tutto quello che sei capace di fare”, provoca uno stato di decadenza e di smarrimento che giustifica anche i fenomeni di cui parlava lei. La superficialità del nostro tempo ha ragioni profonde.
Resta il fatto che una parte di opinione pubblica ritiene che si prospetti un regime parafascista. Ma un fenomeno storico può essere utilizzato come contenitore di tutte le malvagità? Qualunque, anche eventuale, restrizione di libertà si può dire fascismo?
Ha detto una cosa molto interessante. Vorrei osservare che il mondo diventa sempre più pericoloso per i popoli ricchi perché i poveri vogliono vivere, vogliono mangiare e quindi tendono ad andare dove ci sono risorse e benessere. Questo è in qualche modo inevitabile dal punto di vista dei popoli poveri, ma è altrettanto inevitabile che i popoli ricchi si sentano minacciati nei loro privilegi e che mettano sbarramenti, e quindi limitazioni alle libertà che, per esempio, renderebbero più agevole un fenomeno come l’immigrazione. È inevitabile che si vada verso una restrizione della libertà. È però inevitabile che non si vada verso una restrizione di tipo politico ma verso una restrizione di tipo tecnico-razionale della libertà; e altro è un dittatore politico, altro è una dittatura della ragione scientifica, la quale pensa soprattutto all’incremento della potenza come tale, e non al potenziamento di una casta o di un’ideologia .
La domanda riguardava i fenomeni storici: si ripresentano, sono reiterabili, semplicemente perché se ne ravvisano alcune tracce? Lei vede similitudini con la Germania di Weimar o l’Italia pre-mussoliniana?
Anch’io parlavo di un grande fenomeno storico, che è il contenitore di quelli più particolari e per il quale è fuori luogo parlare di analogie con la Germania di Weimar o con l’Italia pre-mussoliniana. Ho scritto da qualche parte che la politica vincente è quella che si rende conto della fine della politica. Ora una delle forme più invasive della politica, in cui la politica è strapotente rispetto a una politica di tipo democratico, è proprio la politica delle dittature, come quella fascista o nazionalsocialista. Se e poiché si sta andando verso il tempo della dominazione della tecnica, allora un atteggiamento politico che non veda questa destinazione della tecnica al dominio e invece rafforzi il carattere politico del proprio agire è destinato al fallimento. Sarebbe come se ci si trovasse su un treno che va a Roma e sul treno ci fossero dei passeggeri che credono di stare andando a Berlino. Credo di essere uno dei pochi, oggi, che considera criticamente la politica, perché in genere prevale un’ansia di rivendicare il carattere autenticamente politico rispetto alle sue degenerazioni totalitarie. Laddove no, è la politica in quanto tale a esser destinata al tramonto.
Lei ha detto al premier Conte, che è venuto qui a trovarla, “io ritengo che il suo governo sia di fatto un governo tecnico”. Lui non era molto d’accordo, in effetti.
Ma dopo il suo messaggio alla stampa del 4 giugno si è abbondantemente parlato del carattere tecnico della sua presidenza! Quando ci incontrammo qui a casa mia, egli per “governo tecnico” intendeva un governo come quelli che ci sono stati in Europa e in Italia (cioè governi pur sempre inscritti nel sistema capitalistico), mentre io intendevo che quei governi erano e sono un vago presagio della gestione tecno-scientifica della società. In altri termini, quando parlo di destinazione della tecnica al dominio non mi riferisco alla necessità che in futuro vi siano governi alla Monti. La tecnica del futuro destinata a prevalere è una tecnica che sente la voce della filosofia del nostro tempo, la quale dice: non esistono assoluti, dimensioni eterne, quindi non esistono limiti all’azione, e pertanto tu, tecnica, puoi andare avanti senza inchinarti alla saggezza tradizionale, che invece mette in guardia ammonendo che non tutto quello che si può fare è lecito fare. Oggi, invece, la tecnica domina ancora soltanto di fatto, non di diritto: la sua potenza è soltanto una pre-potenza.
La scienza triste, l’economia, ha un’importanza enorme nelle nostre vite e nel dibattito pubblico. Le nozioni economiche sono un nuovo vangelo e spesso sono utilizzate come una clava sul cittadino che non ha strumenti. Forse è già successo che la tecnica domina.
Oggi non è la tecnica a dominare, ma, come dicevo, è l’economia capitalistica che si serve della tecnica. La tecnica destinata al dominio è invece quella che, avendo come scopo l’aumento indefinito della potenza, si serve dell’economia, e può servirsi anche dell’economia capitalistica. In Cina si sono incamminati in questa direzione. Ma attenzione: nemmeno l’autentica dominazione della tecnica ha l’ultima parola.

Repubblica 8.6.19
Intervista al regista
Bellocchio “Il film più bello è la nostra Storia

Le sfide mi danno energia
Anche se i critici possono trovare elementi ricorrenti in ogni lavoro ho cercato di cambiaredi Arianna Finos


Bellocchio batte Godzilla. Il traditore supera i tre milioni d’incassi, scavalca il kolossal sul mostro atomico giapponese e diventa il quinto miglior risultato italiano di quest’ anno. Il regista piacentino continua infaticabile ad accompagnare per l’Italia il suo film su Tommaso Buscetta, candidato a 11 Nastri d’argento, che a Palermo e in molti luoghi della Sicilia continua a registrare il tutto esaurito.
Oggi il cineasta sarà a Bologna, a Repubblica delle idee, sul palco con Liana Milella, ospite dell’appuntamento “La mafia in tasca”, alle 19.30 alla Cappella Farnese.
S’aspettava un pubblico così vasto per “Il traditore”?
«No, anche perché è qualcosa di cui non sono minimamente competente. Ovviamente me ne rallegro perché è un risultato che svela che c’è un pubblico attratto da questa storia e probabilmente anche dal modo in cui viene raccontata. Poi i film, quando vanno bene, danno soprattutto una maggiore libertà di farne degli altri...».
Sarà il suo film più visto?
«Ho avuto una lunga carriera, ricordo un periodo in cui c’erano un cinema e un pubblico molto diversi. Guardando agli ultimi decenni questo risultato somiglia un po’ a quello di Buongiorno, notte , ma ho l’impressione che questo film lo supererà. A regalare un valore aggiunto credo sia l’aver affrontato una pagina di storia italiana. È successo con Vincere e soprattutto con Buongiorno, notte : pur essendo passato molto tempo dalla tragedia di Aldo Moro, in molti restavano coinvolti emotivamente. Io, e credo anche il pubblico, siamo molto affascinati dalla storia. Non capisco perché addirittura vorrebbero ridimensionarne l’insegnamento nelle scuole: il risultato del film dimostra che c’è grande interesse.
È chiaro però che il mio non è un documentario ma un romanzo».
Nel quale però ci sono i nomi veri dei protagonisti e una serie di riferimenti storici reali.
«Qualcuno, anche tra la stampa straniera, accosta Il traditore a Il padrino . Che è un bellissimo film ma di totale finzione: c’è una storia della mafia ma i personaggi sono immaginari. Noi invece, pur essendoci permessi di inventare, partiamo da fatti e personaggi reali: Buscetta è Buscetta, Riina è Riina».
Sono arrivate reazioni da qualcuna delle persone coinvoltenelle vicende vere?
«Non per ora. Ma non dimentichiamo lo spirito mafioso del silenzio. Per Buongiorno, notte incontrai personaggi che avevano vissuto quelle vicende, sia sul fronte della legge che su quello dei terroristi. Penso che anche stavolta le testimonianze arriveranno».
Si è trovato di fronte alle sue prime scene d’azione, sparatorie, esecuzioni... Si è divertito?
«Le sfide mi danno energia. Anche se i critici possono trovare una serie di temi ricorrenti nel mio cinema, in ogni film io ho cercato di cambiare. Dopo il grande esordio avrei potuto fare I pugni in tasca 2, il 3... no, ho lasciato subito. Fa parte del mio carattere, non ripetermi o appoggiarmi a valori e immagini collaudati. A una certa età in genere uno cerca di realizzare storie che abbiano una loro precisa riconoscibilità, anche per il pubblico. E invece mi sono lanciato in questa avventura rischiosa e i produttori hanno accettato di seguirmi».
Pierfrancesco Favino racconta di averla convinta con il secondo provino. Il primo era andato così male?
«Bisogna essere sinceri: avevo fatto altri provini e volevo avere più tempo per pensare. Ma non mi ha convinto con il secondo provino, che è meno bello del primo. Era stato subito splendido. Il provino è anche un modo per conoscere le persone, gli attori, gli esseri umani. Al primo incontro, nel mio ufficio, Pierfrancesco mi ha detto: “Voglio fare questo personaggio”, io ho ribattuto che era troppo giovane e lui “sono convinto di poter lasciare il segno”. La sua determinazione non era una sbruffonata, in realtà è un grande attore. Ha veramente impegnato se stesso con un’attenzione, uno studio, un lavoro che vanno oltre il puro professionismo. Temevo che diventasse troppo perfetto, invece è andato oltre».
La nuova sfida ora è “Esterno notte”, la serie sul rapimento di Aldo Moro.
«Vedremo. Anche quella è un’avventura nuova, nel bene o nel male. L’idea è un ribaltamento rispetto a Buongiorno, notte : la prigionia vista dall’esterno. Moro ci sarà poco, si vedranno i familiari e figure politiche dell’epoca: Cossiga, Andreotti, Fanfani, Zaccagnini, papa Paolo VI. E ancora i servizi segreti, i brigatisti in libertà e in galera, perfino i mafiosi e gli infiltrati. Dai tentativi di quelli che cercavano di salvarlo o di far finta di salvarlo, fino al tragico grottesco delle sedute spiritiche e dei viaggi all’estero per consultare sensitivi. E poi il grande teatro televisivo di quei cinquantacinque giorni, milioni di italiani incollati allo schermo. Tutti facevano pronostici in pubblico o in cuor loro, si pregava nelle chiese per la salvezza del presidente, si facevano appelli per colui che, come Cristo, doveva morire, perché nulla potesse cambiare in politica e soprattutto nella mente degli italiani».

Corriere 8.6.19
Mappe
Cresce il peso dei cattolici che votano Lega
Alla vigilia delle Europee il 27 per cento si diceva intenzionato a dare il proprio consenso al Capitano, che esibisce simboli religiosi
di Ilvo Diamanti


Negli ultimi mesi, Matteo Salvini, leader della Lega (e del governo), ha esibito in più occasioni atteggiamenti e simboli religiosi. Ha baciato la corona del Rosario, invocato la Madonna. Mentre in alcune foto, sulle mensole di librerie, dietro a lui, si scorge un’icona di Gesù, sotto al santino di Putin e al cappellino di Trump. Accanto alla foto di Baresi e al berretto dei carabinieri. Le passioni del vice(?) premier. Che combinano sacro e profano. In modo apparentemente casuale. Perché, così, sacro e profano si contaminano reciprocamente. E non ci sorprenderebbe se, prossimamente, i personaggi religiosi venissero abbigliati con la maglietta rossonera e il berretto dei carabinieri. Salvini, d’altronde, è attento alla comunicazione. Assistito da uno staff di consulenti di grande competenza.
Così, non sorprende la combinazione di sacro e profano. Perché evoca sentimenti diversi. Espressi da pubblici diversi. In particolare: la domanda di sicurezza. Di rassicurazione. Ma anche di “fede”. In fondo, come abbiamo sostenuto in altre occasioni, la maglia e la bandiera della squadra di football attraggono più di altri soggetti e ambienti. Politici, territoriali…religiosi. Generano “fedeltà”. Cioè: “fede”. Per questo Salvini li ostenta e li propone insieme. In “dis-ordine” apparentemente “casuale”. Ma, a mio avviso, ben “organizzato”. Perché “dialogano” con diversi pubblici. Con diversi settori di mercato elettorale. Altrettante componenti di un popolo “fedele”. Animato dalla “fede”. D’altra parte, il collegamento fra religione e politica, in Italia, ha una storia lunga. Il partito che ha governato in Italia per quarant’anni si chiamava Democrazia “Cristiana”. Appunto. Il suo simbolo era lo Scudo-Crociato. Dunque: la Croce. Un vero partito “nazionale”. Ma radicato e forte, soprattutto, nel Nord Est. E nelle province del Nord. Territorio di piccole città e di piccole imprese. Dove ha (stra)vinto la Lega, alle Europee. Ma anche alle Politiche di un anno fa. La Pedemontania, assai più della Padania, è la vera patria originaria della Lega. Dagli anni Ottanta, il tempo delle Leghe regionaliste, per proseguire, nei decenni successivi, quando si è imposta la Lega Nord. la Lega Padana di Umberto Bossi e, in seguito, di Maroni. Fino alla crisi profonda dell’ultimo decennio, quando Matteo Salvini ha superato l’identità politica marcata dal territorio. Salvini: ha scavalcato il Po. Verso Sud. E oltre le Alpi. Ha incontrato Marine Le Pen. A destra. La sua Lega è “Nazionale”. Non solo perché ha allargato il suo territorio all’Italia. Ma perché, guardando anzitutto alla Francia (poi agli altri partiti sovranisti dell’Europa post-sovietica) ha costruito una vera “Ligue Nationale”. L’ho definita così nel 2014. Per assonanza, non solo lessicale, con il “Front (oggi Rassemblement) National”. Guidato da Marine Le Pen.
Il richiamo alla religione, ai cattolici, dunque, appare un tentativo di radicarsi in un terreno dove le Leghe, che hanno preceduto la Lega di Salvini, sono sorte e cresciute. Sulle tracce della DC. La Lega di Salvini: è ripartita dal “Forza-leghismo” degli anni Novanta. Ma è andata molto oltre. Tuttavia, le radici sono importanti. Perché forniscono una base di valori. Fondata sulla tradizione. Così, nell’iconografia e nel discorso di Salvini sono apparsi la Madonna e Gesù. Al di là di valutazioni politiche e, prima ancora, etiche, già espresse dagli ambienti della Chiesa e del mondo cattolico, in modo talora aspro, questa scelta strategica e comunicativa ha prodotto effetti visibili.
Nel corso dell’ultimo anno, infatti, il peso elettorale della Lega presso l’elettorato “cattolico” è cresciuto notevolmente. Com’è avvenuto fra gli elettori nell’insieme. Ma in misura superiore. (Lo ha rilevato anche Nando Pagnoncelli).
Fra i praticanti assidui – che dichiarano di andare a messa regolarmente tutte le domeniche (o quasi) – alla vigilia delle ultime Europee, il 27% si diceva intenzionato a votare per la Lega di Salvini. Un dato di poco inferiore alla “media” del partito, che a due settimane dalla consultazione si fermava intorno al 32% (nel sondaggio di Demos per Repubblica). E sarebbe salito di due punti al momento del voto. Va, tuttavia, considerato che, poco più di un anno prima, alle Politiche 2018, solo i1 12% dei cattolici affermava di votare per la Lega, contro una media del 17%, tra gli elettori in generale. Il voto dei cattolici praticanti, dunque, nel corso degli ultimi mesi, appare cresciuto nell’elettorato leghista. Mentre, parallelamente, è diminuito tra gli elettori degli altri partiti principali. In particolare, fra quelli hanno ceduto maggiormente consensi verso la Lega: Forza Italia e Movimento 5 stelle. Per contro, il voto al PD alle Europee, tra i cattolici praticanti è sceso di poco rispetto alle Politiche: dal 26 al 24%. In una certa misura, si tratta di un allineamento demografico, visto che la base del PD, come quella dei cattolici praticanti, appare sempre più anziana. Il peso di FI, fra i cattolici, invece, è calato sensibilmente: dal 17 al 12%. Ma il M5s è “caduto”: dal 28 al 17%. (Un partito, peraltro, particolarmente penalizzato dal voto europeo).
Tuttavia, fra gli italiani, leghisti e no, solo il 20% ritiene “importante” l’insegnamento della Chiesa, sul piano etico e personale. La maggioranza (relativa: il 41%) lo valuta “utile”. Ma poi “ciascuno si deve poi regolare secondo coscienza”. Tutti gli altri lo guardano con distacco. La Chiesa, dunque, oggi più di ieri, fornisce un sistema di riferimenti. Un retro- terra. Che i cittadini utilizzano “a modo loro”. Secondo una logica “bricolage”. Coerente con questi tempi di “voto liquido”. Veicolato dai leader, più che dai partiti. L’altro ieri, Berlusconi. Ieri, Renzi. Oggi, Salvini. Domani: chissà.
MATTEO BAZZI/ANSA Il leader
Il vicepremier Matteo Salvini, 46 anni, bacia il rosario durante uno dei suoi recenti comizi tra Europee e ballottaggi

Il Fatto 8.6.19
La linea dura sui migranti nuova strategia di sinistra
Tornata al governo dopo 4 anni, la leader Frederiksen punta sullo stato sociale
di Giampiero Gramaglia


Un giro di vite all’immigrazione e un colpo d’acceleratore al welfare: con questo mix di programmi, i socialdemocratici danesi hanno vinto le elezioni politiche, riconquistando la guida del governo. È la terza volta in nove mesi che gli europei del Nord bocciano il populismo: gli svedesi a settembre 2018, poi i finlandesi ad aprile, ora i danesi. Una tendenza avallata dai risultati delle elezioni europee: nei Paesi Nordici, la marea populista è calante; in Danimarca, hanno perso più della metà dei voti.
La giovane leader socialdemocratica Mette Frederiksen, 41 anni e mezzo, potrebbe però avere difficoltà a formare una coalizione: nel Folketing, il Parlamento, il ‘blocco rosso’ ha 91 seggi su 179 e sarebbe, quindi, maggioritario; il ‘blocco blu’ di centro-destra, coagulato intorno ai liberali del premier uscente Lars Lokke Rasmussen, ha solo 75 seggi.
Ma la Frederiksen intende formare un governo di minoranza che ottenga di volta in volta sostegno dall’uno o dall’altro partito su provvedimenti specifici. L’estrema sinistra le contesta, infatti, la virata sui migranti e non sarebbe un partner di governo docile. La leader socialdemocratica respinge anche l’offerta di Rasmussen di formare una ‘grande coalizione’ fra i due maggiori partiti, che da soli avrebbero la maggioranza. I risultati dicono che i socialdemocratici si confermano primo partito con il 26%, pur con un calo dello 0,3% rispetto alle elezioni del 2015. Ma le altre forze di sinistra crescono e danno quindi loro una potenziale maggioranza parlamentare. Invece, il Partito liberale, sconfitto, guadagna suffragi e arriva al 23,4%, quasi quattro punti in più di quattro anni or sono, ma i suoi alleati del ‘blocco blu’ arretrano: il Partito dell’Alleanza liberale ottiene appena il 2,3%. I populisti xenofobi del Partito del Popolo danese precipitano dal 21,1% all’8,8% (e scendono da 37 a 16 seggi). Entra in Parlamento con quattro seggi la Nuova Destra, fondata da Pernille Vermund, un’architetta. Anche sommando i voti dei due movimenti, ne manca sempre la metà rispetto al 2015. Rasmussen riconosce la sconfitta e s’appresta a rassegnare le dimissioni. Frederiksen assapora la riconquista del potere: “Rimetteremo il Welfare al primo posto in Danimarca, il Welfare, il clima, l’educazione, i bambini, il futuro. Pensiamo a quel che possiamo fare insieme”. La leader socialdemocratica, già ministro del Lavoro e della Giustizia, prima di succedere alla guida del partito all’ex premier Helle Thorning-Schmidt sostiene, inoltre, che queste sono state le prime elezioni danesi nel segno del riscaldamento globale, alla Greta. I socialdemocratici hanno centrato tutta la loro campagna sulla difesa dell’ambiente e del Welfare, un sistema di garanzie sociali molto apprezzato dai cittadini, promettendo di rovesciare il trend degli ultimi anni (tagli della spesa per l’educazione e la salute) e di mantenere un approccio non permissivo sull’immigrazione.
Secondo molti osservatori, questa mossa è stata decisiva per ridurre drasticamente l’impatto elettorale di xenofobi e islamofobi. Per molto tempo un termine di riferimento per tutta l’Europa, il modello sociale nordico è da anni posto sotto crescente pressione dall’invecchiamento della popolazione. In Danimarca, le riforme introdotte dal centro-destra hanno condotto a una crescita economica superiore alla media dell’Ue, ma i tagli imposti alla spesa pubblica hanno avuto come corollario che molti devono ora pagare servizi che erano prima gratis. La difesa del welfare e del modello sociale connesso è il minimo comune denominatore dei successi delle socialdemocrazie nordiche. Il centro-sinistra svedese ha conservato il potere propugnando una riforma che garantisca le tutele sociali. E i socialdemocratici finlandesi hanno vinto di stretta misura impegnandosi ad aumentare le tasse per aumentare i livelli di spesa sociale.

il manifesto 8.6.19
Tagli alla sanità: Giulia Grillo pronta alle dimissioni
La ministra della Salute Giulia Grillo (M5S) si è detta pronta a «dimettersi» se saranno confermati i tagli alla sanità contenuti nella «bozza» del «patto per la salute». È scontro con il ministero dell’economia su una clausola di salvaguardia: «L’hanno inserita gli uffici, politicamente è irricevibile»
di Roberto Ciccarelli


Un’altra manina ha turbato i rapporti tra il ministero dell’economia e finanze (Mef) e il resto del governo. Si è introdotta nel ministero della Salute della cinque stelle Giulia Grillo che dovrà affrontare le conseguenze delle clausole di salvaguardia approvate dal suo governo nella legge di stabilità approvata sei mesi fa.
NEL PRIMO ARTICOLO della «bozza» per il «patto per la salute» sul quale il governo e le regioni si stanno confrontando è stata recepita la clausola che taglia gli aumenti annunciati al fondo sanitario (2 miliardi) nel 2020 e 1,5 miliardi l’anno successivo. Tale ipotesi scatterebbe anche nella sanità per permettere al governo di raggiungere «gli obiettivi di finanza pubblica» e le «variazioni del quadro macroeconomico». Dopo l’avvio della procedura per eccesso di debito da parte della Commissione Ue, e l’inizio delle trattative sul nuovo bilancio, questo scenario può rivelarsi riduttivo: il governo ha pensato di «bloccare» automaticamente 2 miliardi di euro. È anche possibile che ne serviranno molti di più per coprire un «buco» che, tra il 2018 e il 2019, ammonterebbe a nove miliardi.
SULLA SANITÀ questo scenario ha già fatto esplodere il fronte delle regioni che hanno annunciato «ritorsioni» contro il governo (Il Manifesto, 7 giugno). Ieri è stato il turno della ministra Grillo che ha denunciato la clausola «inserita nella bozza per espressa richiesta degli uffici del Mef – ha detto Grillo in un video pubblicato sulla sua pagina Facebook – È politicamente irricevibile e non viene dal ministero della salute. La sanità ha dato tutti i contributi che poteva dare ai tagli che sono stati fatti sulla finanza pubblica. Non è possibile prendere un centesimo». In una dichiarazione successiva ieri Grillo ha corretto il tiro. Ha ridefinito la «bozza» come un «canovaccio». Nella commedia dell’arte il canovaccio è la traccia sulla quale si sviluppa l’improvvisazione degli attori. Nella scienza triste del bilancio è un modo di calciare il pallone in tribuna e dire che è colpa dell’arbitro. O della «manina» di cui parlò Di Maio nel memorabile scontro con i «tecnici» dell’Inps, allora presieduto da Tito Boeri, a proposito di tabelle galeotte inserite nel «decreto dignità». In ogni caso Grillo ha assicurato di essere pronta a «dimettersi: non parteciperò a questa nuova mannaia».
L’IRA DELLA MINISTRA è giustificata. La Sanità rischia di dovere rinunciare ad alcune delle misure alle quali ha lavorato negli ultimi mesi: il taglio del superticket di 10 euro oppure le nuove assunzioni degli infermieri e medici necessari per evitare ricorrere il personale in pensione com’è accaduto caduto in Molise, oppure imporre l’esercizio di alcune funzioni mediche a personale non specializzato. La situazione è talmente grave che nel recente «decreto Calabria» deciso dal governo ad aprile, e approvato dalla Camera la settimana scorsa, per salvare la sanità calabrese è stato proposto di mettere al lavoro i medici specializzandi. Ipotesi incostituzionale che ha fatto scoppiare un pandemonio. Secondo l’Anaao Assomed nel 2018 mancavano all’appello 10 mila medici. Nel 2025 ne mancheranno 16.700. Anni di austerità e blocchi del turn-over, a cui si aggiungono gli effetti dei pensionamenti «quota 100», rendono esplosiva la situazione.
LA SINGOLARE PROTESTA di Grillo, in fondo i tagli sono stati previsti dal suo stesso governo, è l’anticipo dello scontro che provocherà la stretta pentaleghista sui conti pubblici. Se non sarà sulla Sanità, il taglio si abbatterà altrove. Oppure sarà spalmato, provocando effetti diffusi. Una situazione che rischia di rompere il gioco illusionistico realizzato dal governo attraverso l’uso di una neolingua orwelliana: i «tagli» sono chiamati «risparmi di spesa», ad esempio. È il caso del «reddito di cittadinanza» e «quota 100». Il governo «risparmierebbe» 1,3 miliardi di euro, per un errore di valutazione sulla platea delle misure bandiera di Cinque Stelle e Lega. Secondo il presidente dell’Inps Pasquale Tridico solo dal «reddito» arriverebbe un miliardo. Invece di reinvestirlo su questa misura, estendendo i criteri a chi non è povero abbastanza per fare domanda, Di Maio lo destinerà a una non precisabile misura per le «famiglie». Potrebbe finire così: la Lega ha chiesto di usare le risorse per colmare il «buco» dei conti. Lo scontro è all’inizio.
IN VIAGGIO NEL VIETNAM il premier Conte ha sentito la necessità di fare sapere che si tratta di «accantonamenti» e non di «tagli». «Le misure saranno attuate integralmente» ha detto. I tagli – pardon: i «risparmi» – ci saranno, ma con un altro nome. Li chiameranno: canovaccio.

il manifesto 8.6.19
Xi Jinping: «Pronti a condividere la tecnologia 5G con i nostri partner»
di Simone Pieranni


In Cina è iniziata ufficialmente l’era del 5G. Anche a causa dei problemi riscontrati di recente da Huawei, via Washington, Pechino ha accelerato le procedure e da un paio di giorni il ministero dell’Industria e dell’Informazione tecnologica cinese (Miit) ha concesso le licenze commerciali agli operatori per le nuove connessioni ultraveloci (previste in un primo tempo nella seconda parte dell’anno). China Mobile, China Telecom, China Unicom sono le aziende che potranno cominciare a commercializzare il 5G.
Huawei (fresca di accordo con la Russia sancito da Xi Jinping in visita da Putin) e Zte – l’altra grande telco cinese, ma di proprietà statale) si sono dette pronte. Il giro d’affari previsto cambia leggermente a seconda di chi produce le stime, ma si parla di quasi un miliardo di dollari e milioni di posti di lavoro (in aree limitate il 5G è già offerto in Gran Bretagna, Usa e Corea del Sud, i primi in assoluto).
Ma il viaggio di Xi Jinping in Russia ha portato un’ulteriore novità: il presidente ha specificato che «La Cina espanderà costantemente la propria apertura, in particolare l’accesso al mercato, creerà un ambiente favorevole alla concorrenza e saremo un forte sostenitore della globalizzazione economica.
    La Cina è pronta a condividere le sue invenzioni tecnologiche e il know-how, in particolare la tecnologia 5G, con tutti i partner».
Naturalmente bisognerà capire a quali partner pensa Xi Jinping. Come ha riportato Reuters, Huawei ha fatto sapere di avere attivato già 46 contratti commerciali 5G in 30 paesi fino ad oggi; analogamente China Mobile ha annunciato di voler offrire servizi 5G in più di 40 città cinesi entro la fine di settembre.
Ma la velocizzazione delle procedure ha scatenato molti commenti e articoli sui media cinesi: la novità era attesa da tempo ma ugualmente si sono sottolineati gli aspetti rilevanti di questa mossa di Pechino.
La stampa cinese è impegnata in primo luogo a esplorare le potenzialità che il 5G permette: da tutto quanto è «internet delle cose» alla medicina, fino ai servizi bancari e amministrativi (sottolineati dall’Economic Observer). La velocità della connessione, la minor latenza, permetterà agli algoritmi di elaborare dati e fornire risposte in tempi rapidissimi, permettendo il pieno sviluppo di potenzialità fino ad ora solo immaginate.
E la mossa di Pechino, con il corollario delle dichiarazioni di Xi, riaccende il vero scontro con gli Usa di Trump.

il manifesto 8.6.19
La biografia partigiana di Otello «Battagliero» Palmieri
«Qualcosa di meglio», un libro-intervista a cura di Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri


Non è la vita di uno degli uomini ex, come li ha definiti Giuseppe Fiori nell’omonimo romanzo ispirato alle gesta di alcuni esuli politici italiani nella Cecoslovacchia dell’immediato dopoguerra. La vita del partigiano bolognese espatriato «Battagliero», al secolo Otello Palmieri, ricostruita da Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri nel libro-intervista Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri (Pendragon, pp. 222, euro 15), infatti, ha ben poco dei tratti tipici delle vicende degli ex-partigiani «sconfitti anzitempo dalla storia» e costretti all’emigrazione oltrecortina per scampare ai processi politici cui venivano sottoposti nell’Italia degli anni ’50 per azioni commesse durante i venti mesi di resistenza o dopo la liberazione. La vita dell’esule Palmieri, infatti, vede intrecciarsi e rimanere attive tre componenti apparentemente inconciliabili e che solo parzialmente si spiegano l’un l’altra: la lotta armata partigiana, l’esilio in Cecoslovacchia e la successiva emigrazione in Svizzera. Tutto appare concatenato ma al contempo frutto di scelte autonome: dall’emergere di una forte identità antifascista legata alla repressione squadrista dei movimenti bracciantili nella comunità d’origine, al tramonto di un’ipotesi rivoluzionaria dilatata e proiettata sino alle manifestazioni seguenti all’attentato a Togliatti del 1948.
DALL’ESILIO FORZATO in un paese che non rispettava le aspettative di «paradiso comunista» e che, specie dopo l’impiccagione di Rudolph Slánský, si mostrava sempre più sottoposto alla grigia cappa di repressione staliniana, alla scuola di politica che, a differenza di quanto previsto da Otello, «non insegnava la rivoluzione», ma formava quadri scevri da qualunque «tendenza partigiana»; dal rientro in Italia dopo il proscioglimento delle accuse, all’emigrazione in Svizzera con la fidanzata di sempre, ormai divenuta sposa. Tutte vicende non riconducibili a quella singola scelta iniziale che nella primavera del 1944 lo aveva condotto alla lotta armata contro il fascismo e che appare il palo da cui gli uomini ex, giusto o sbagliato che fosse, non riuscirono a muoversi. Quella scelta e quegli ideali, considerati «traditi, non sbagliati» vennero continuamente sfidati dagli eventi della vita di Palmieri e dal suo riuscire a conciliare, anche in maniera dialettica, le anime di Battagliero, Enrico Grassi, identità fittizia fornitagli dal partito una volta espatriato, e Otti, nomignolo affibbiatogli dai colleghi della fabbrica in Svizzera.
A CONGEDARE Otello dal leitmotiv dell’instancabile ricerca delle «motivazioni sufficienti a continuare, a fare ciò che c’era da fare» e dal costoso barattare le proprie concrete esigenze con quelle di una «comunità virtualmente estesa al mondo intero» fu la delusione per una politica che si allontanò dalla verità, per abbracciare una ritualità di partito sempre meno tesa alla modifica dell’esistente. È dunque in questo contesto che la densità di significati delle tensioni e delle pulsioni vissute prima di emigrare finì per schiacciare la concezione di azione e immaginazione politica sull’etica del lavoro e sullo sforzo creativo, sulla ricerca di «qualcosa di meglio», unica via per contrastare una disillusione sempre più differita ma sempre più foriera di lacerazioni solo apparentemente pacificabili.
Se l’esperienza è infatti il passato che vive nel presente di Otello, contribuendo a modellarlo, anche il futuro ha vissuto nel presente e nel passato modificandoli, sebbene sotto forma di aspettativa tradita. E ora, «di fronte alla fine», in un mondo che ha visto il trionfo degli avversari, il «vocabolario che strutturava quelle speranze sembra essersi perduto» e il racconto di un’aspettativa finisce per sovrapporsi a quello di un’esperienza.

Il Fatto 8.6.19
“Putin si crede Stalin, ma non sono gli anni 30”
Il “troll” Aleksandr Gorbunov e il presidente russo Vladimir Putin
di Michela A. G. Iaccarino


Lo ripete dall’inizio alla fine dell’intervista: “Non posso rimanere in silenzio”. Aleksandr Gorbunov, il “troll” anti-Cremlino che ha nascosto la sua identità dietro l’avatar di “Stalin Gulag” fino a poche settimane fa, dà questa stessa risposta a domande diverse. Lo schermo di uno smartphone, una sedia a rotelle dove è costretto dall’atrofia muscolare spinale, i commenti sardonici alle scelte del governo che distruggono le vite di milioni di cittadini: lui è tutto questo. Con il solo dito che riesce a muovere, Gorbunov ha conquistato oltre un milione di russi.
Aleksandr, allora Stalin Gulag è lei. Perché questo nome di battaglia?
È una caricatura. Le autorità oggi amano proiettare un’immagine di sé che assomiglia a quella degli anni sovietici, ma questa è la Russia moderna, loro sono dei commercianti che pensano solo al proprio arricchimento. Anche loro sono una caricatura dei tempi di Stalin, ma non siamo più negli anni 30.
Prima che svelasse la sua identità, per alcuni Stalin Gulag era un troll della Cia o di Kiev. Come è cominciata?
Dieci anni fa ho aperto un account Twitter, nel 2013 mi sono iscritto a Telegram. Alla gente piaceva quello che scrivevo e condividevano i link. I lettori mi scrivono come è la loro vita, cosa accade nelle regioni in cui abitano.
Dal 2013 il flusso dell’account non si è mai interrotto, uno scacco matto digitale alle autorità che lei critica. Ha oltre un milione di follower, una cifra che non può vantare nemmeno la redattrice capo del colosso mediatico del Cremlino, Margherita Simonyan. Poi ha deciso di uscire dall’anonimato digitale ed è finito su “Esquire” e “New York Times”.
Ho deciso di dire a tutti chi ero quando la polizia ad aprile scorso ha bussato alla porta dei miei genitori chiedendo informazioni su di me e parlando di ‘terrorismo telefonico’. Al momento non è stato ancora aperto un fascicolo su di me.
Alla luce dell’accaduto, lo rifarebbe?
Ja ne mogu malchat, non posso rimanere in silenzio.
Ultimamente molti russi non lo fanno più, lo dimostra la protesta di Ekaterinburg.
Per ora sono conflitti locali, da un momento all’altro possono diventare politici.
Lei abita in un Paese in cui i giornalisti vengono uccisi, gli attivisti incarcerati. I suoi genitori e sua moglie temono per la sua vita.
Se tutti stanno zitti, la situazione diventa senza soluzione. La cosa giusta è raccontare, io sono solo un ragazzo che scrive. Si tratta di svoboda slova, libertà di parola.
Il governo sta limitando la libertà anche su Internet.
Per il momento esiste la nuova legge che riguarda il web, repressiva come tutte quelle emesse negli ultimi anni. Se la Russia passerà a una rete di internet domestico, l’operazione costerà miliardi, se funzionerà.
Dalle sanzioni alla riforma delle pensioni, fino allo scandalo del talent “The Voice”, dove ha vinto la figlia di un oligarca. Lei commenta tutto provocando sorrisi amari. Il suo sarcasmo corrosivo deriva dai grandi maestri della letteratura russa?
Il sarcasmo è un’arma, la reazione a quello che vedo. I miei scrittori preferiti sono Chekov e Nabokov.
I russi sono narcotizzati dalle notizie sempre favorevoli della propaganda o qualcuno cerca ancora la verità?
Esiste la realtà parallela della propaganda e la realtà che i russi vedono tutti i giorni nei negozi, dove i prezzi diventano sempre più alti. Corruzione diffusa, pensioni basse, arresti arbitrari della polizia. La situazione è peggiorata. Io sogno un futuro in cui in Russia ci saranno democrazia, diritti umani, libertà di parola.
E il suo, di futuro?
Loro non possono mostrarsi deboli con chi li critica, è difficile prevedere cosa mi accadrà. Sono qui e aspetto.
Lei ha 27 anni. Quando ne aveva 7 Putin è arrivato al potere. Se potesse fare una domanda ai suoi giornalisti “cheerleader”, ai politici a lui vicini o al presidente stesso, quale sarebbe?
Chiederei… ma voi davvero non vi siete ancora stancati?

La Stampa 8.7.19
Putin a fianco di Xi nel duello su Huawei: no ai diktat degli Usa
di Giuseppe Agliastro


Vladimir Putin e Xi Jinping uniti nella «prima guerra tecnologica» della storia: quella tra l’America di Donald Trump e il colosso cinese Huawei. È questo il messaggio che arriva dal palco del Forum economico internazionale di San Pietroburgo, dove ieri i leader di Russia e Cina hanno dato prova di coesione e affiatamento. L’asse Mosca-Pechino è ormai una realtà consolidata, a tutto tondo, e in questo momento i due protagonisti dell’alleanza hanno un avversario comune: Washington e il suo «sfrenato egoismo commerciale».
Il primo conflitto digitale
Putin ha subito alzato i toni. Ci sono - ha denunciato - dei tentativi di «spingere Huawei fuori dal mercato globale senza tante cerimonie» e «per alcuni circoli si tratta della prima guerra tecnologica dell’imminente epoca digitale». Il presidente russo si riferisce ai provvedimenti con cui l’amministrazione Trump sta colpendo il gigante di Shenzhen accusandolo di essere uno strumento nelle mani dell’intelligence di Pechino. L’approccio di Putin è ovviamente del tutto diverso. Huawei sta affrontando mille difficoltà, ma in Russia è sempre la benvenuta. Tra i 30 accordi dal valore di 20 miliardi di dollari siglati mercoledì al Cremlino alla presenza di Putin e Xi, ce n’è uno che affida all’azienda cinese lo sviluppo della rete 5G in Russia. Molti Paesi occidentali hanno invece escluso Huawei dalla creazione del loro 5G temendo i presunti legami tra il gigante cinese e i servizi di Pechino. Sono scelte su cui pesano anche la geopolitica e le pressioni statunitensi. Trump considera Huawei una minaccia alla sicurezza nazionale e a maggio ha ordinato alle aziende Usa di non venderle più software e tecnologie varie. Il provvedimento entra in vigore fra tre mesi e promette di essere una batosta per la compagnia cinese, che usa i software americani per far girare i suoi cellulari.
Google critica la Casa Bianca
Facebook sta già obbedendo. Secondo la Reuters, i futuri smartphone Huawei saranno venduti nei negozi senza le app del «gruppo blu»: Facebook, WhatsApp, Instagram e Messenger. Dovranno essere gli utenti a installarle. Google invece cerca di portare acqua al suo mulino remando in direzione opposta. Stando al Financial Times, il colosso californiano insiste con la Casa Bianca per essere esonerata dal divieto di fare affari con Huawei. Il ragionamento di Google è lineare: se la società cinese non potrà avere gli aggiornamenti di Android, svilupperà una sua versione del sistema operativo che renderà i cellulari facili prede dell’intelligence del Dragone.
Mentre tra Pechino e Washington infuria la «guerra dei dazi» e Huawei viene trascinata sul fronte, Putin si schiera decisamente dalla parte del suo alleato cinese e del suo «caro amico» Xi. Gli Usa - ha tuonato da San Pietroburgo - vogliono solo «diffondere la loro autorità sul mondo intero» e per questo hanno imboccato «un sentiero che porta a conflitti senza fine e guerre commerciali, e forse non solo commerciali». Xi ha invece usato toni più concilianti.
«La totale rottura dei rapporti fra la Cina e gli Usa - ha sottolineato il leader di Pechino - non è nei nostri interessi e neppure in quelli degli Usa. Trump è mio amico - ha aggiunto - e non credo che voglia arrivare a una rottura». Il rapporto privilegiato è però quello con Mosca, che riguarda tutte le principali questioni geopolitiche, la cooperazione militare e, naturalmente, il commercio. «Il progetto cinese della Nuova Via della Seta e quello dell’Unione Eurasiatica guidata da Mosca - ha detto Xi - sono complementari e io e Putin abbiamo deciso di svilupparli in parallelo». L’interscambio tra Russia e Cina è in continuo aumento. L’anno scorso è cresciuto del 25% toccando i 108 miliardi di dollari. Ma Mosca a Pechino vende principalmente idrocarburi e ha bisogno delle tecnologie cinesi per sopperire a quelle che non può acquistare dall’Occidente a causa delle sanzioni per la crisi ucraina. Ciò fa della Russia il partner debole dell’alleanza. L’Ue inoltre supera comunque sia gli Usa sia la Cina nella classifica degli investitori in Russia. L’asse Mosca-Pechino in realtà è prima di tutto un’alleanza politica.

Il Fatto 8.7.19
La strana coppia Orbán-San Suu Kyi
Pro-muri - L’ex lady dei diritti, isolata in Occidente, si allea con il premier xenofobo
di Roberta Zunini


La leader birmana Aung San Suu Kyi, controverso premio Nobel per la Pace, è tornata in Europa per la prima volta dopo aver sostenuto la pulizia etnica della minoranza islamica Rohingya perpetrata dell’esercito due anni fa. Da allora l’icona della libertà è stata retrocessa al rango di paria dalla maggior parte dei Paesi occidentali, tranne due: l’Ungheria e la Repubblica Ceca che fanno parte del gruppo di Visegrad, la combriccola sovranista di destra e islamofoba dell’Unione europea.
La stretta di mano più calorosa, non appena atterrata a Budapest dopo essere stata a Praga, The Lady l’ha ricevuta dal primo ministro in persona, quel Viktor Orbán che per primo ha fatto erigere un muro di filo spinato per impedire agli immigrati in fuga di entrare in Ungheria. La consigliera di Stato del Myanmar – per 15 anni ai domiciliari per volere dell’allora giunta militare – è andata in visita di Stato nel Paese magiaro non solo per rinsaldare gli accordi economici ma anche per “discutere dell’aumento dei migranti musulmani”. Un tema del tutto strumentale visto che in entrambi i Paesi ormai di musulmani ne sono rimasti ben pochi, ma che ha consentito a Orbán di stravincere le recenti elezioni europee e prima ancora di essere riconfermato premier.
La reputazione di Aung San Suu Kyi in Occidente ha subito un ulteriore colpo in seguito alla mancata difesa dei giornalisti birmani incarcerati per mesi a causa dei loro reportage sulle terribili vessazioni subìte dai rohingya. Stupri e omicidi che hanno provocato una fuga di massa dei sopravvissuti nel confinante Bangladesh dove ancora vivono in condizioni disastrose nei campi profughi di fortuna a ridosso del confine. La donna più potente del Myanmar ha però trovato, guarda caso, un nuovo alleato nel primo ministro ungherese ed è subito corsa a omaggiarlo nel tentativo di riaccreditarsi agli occhi di almeno una parte dell’Europa.
I due leader hanno sottolineato che “una delle maggiori sfide attuali per entrambi i Paesi e le loro rispettive regioni – il sud-est asiatico e l’Europa – è la migrazione”, si legge in una dichiarazione rilasciata dopo il loro incontro. Durante una conferenza stampa congiunta hanno spiegato di “aver notato che entrambe le regioni hanno visto emergere il problema della convivenza con popolazioni musulmane in continua crescita”. Il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa di recente ha accusato il governo di Orbán di “usare la retorica anti-migrante per scatenare xenofobia, paura e odio”. Aung San Suu Kyi, da quando è stata eletta nel 2015, ha criticato in molte occasioni “l’imposizione di idee e principi occidentali in Myanmar”. Questa accusa è stata subito raccolta da Orbán che nella dichiarazione rilasciata dopo il loro incontro ha enfatizzato anche il proprio rifiuto “della esportazione di democrazia”.
Secondo Phil Roberton, vicedirettore per l’Asia Human Rights Watch, “Aung San Suu Kyi è ormai talmente isolata in Occidente che può contare solo sul sodalizio con Orbán. Dopo aver vergognosamente aiutato i militari del Myanmar a coprire il loro genocidio contro i musulmani rohingya, ora può solo stringere rapporti di amicizia con i leader più xenofobi e antidemocratici d’Europa”.

La Stampa 8.7.19
Dora Maar senza Pablo
Mostra a Parigi sulla fotografa Al di là del legame con il maestro
di Leonardo Martinelli


S’incontrarono al Deux Magots, caffè di artisti, davanti alla chiesa di Saint-Germain-des-Prés. Nell’inverno tra il 1935 e il ‘36 Pablo Picasso la vide a un tavolino. Dora Maar, di una bellezza misteriosa, aveva 29 anni ma era già una fotografa conosciuta. Giocava con un temperino, lo piantava tra un dito e l’altro. Alla fine i suoi guanti erano macchiati di sangue e Pablo Picasso, affascinato, li prese e se li portò via. Si amarono anche, per una decina d’anni. «Dora è famosa come la modella e la musa del maestro – sottolinea Damarice Amao -: noi, invece, abbiamo voluto restituirle la sua identità d’artista».
La Amao è una delle curatrici di una mostra appena inaugurata al Centre Georges-Pompidou, che andrà avanti fino al 28 luglio. E che riunisce più di quattrocento opere e testimonianze di una lunga vita (la Maar morì a novant’anni, nel 1997), soprattutto le foto degli anni Trenta e poi i dipinti del resto della sua vita. Si chiamava in realtà Henriette Dora Markovitch, nata da un architetto croato, mentre la madre aveva una boutique di moda. Per vari anni, quando Dora era piccola, si trasferirono a Buenos Aires. Al suo ritorno a Parigi la ragazza si tagliò i capelli corti. Era libera e indipendente. Studiò arte e foto. «La Maar fa parte di una generazione di donne – continua la Amao – che scelsero la fotografia per emanciparsi e diventare economicamente indipendenti». Ne faceva di moda (con giochi di luci speciali: sono esposte immagini di donne con abiti di stilisti famosi che posano accanto a modelli Fiat luccicanti). Lavorava per la pubblicità e scattava perfino foto erotiche. Poi, con la sua macchina iniziò a scendere per strada. E ad avventurarsi in quella che allora si chiamava «la Zona», le baraccopoli alle porte di Parigi: splendidi i suoi ritratti di gente emarginata, avvicinata da Dora, ragazza di buona famiglia, ma che per quelle persone provava un’incredibile empatia.
Nel 1933 la donna entrò in contatto con i surrealisti. «La Maar era una «surrealista nata», cresciuta da adolescente leggendo i poeti di quel movimento», prosegue la curatrice. Diventò famosa per i fotomontaggi, come il Simulatore, esposto al Georges-Pompidou, dove inserì un ragazzino fotografato per le strade di Barcellona, che spingeva il suo corpo all’indietro, nelle volte (ma ribaltate) dell’Orangerie del castello di Versailles. «Rispetto agli altri surrealisti – spiega la Amao – i fotomontaggi della Maar sono puliti, senza stacchi, molto tecnici: sembrano una foto unica». Il periodo fondamentale dell’esistenza di Dora (nel bene e nel male) furono comunque i dieci anni trascorsi con Picasso, il genio egoista: una felicità allo stato puro, anche veemente. Non l’ebbe solo per lei ma ne diventò la modella prediletta, vedi quella Donna che piange.
Ma pure qui, basta con le interpretazioni riduttive. «Fu lei per prima a fotografarlo – aggiunge la curatrice -. E gli insegnò pure una tecnica fotografica, il cliché-verre». È l’incisione di un’immagine su un pezzo di vetro. Dora accompagnerà Pablo in Guernica, scattando delle foto utilizzate dall’artista per la composizione dell’opera. Non solo: lui dipingeva lei ma anche lei iniziò a dipingere lui.
Prima Paul Eluard e poi lo stesso Picasso la incoraggiarono a dedicarsi alla pittura. Inizialmente le sue tele ricordavano quelle del maestro. Poi anche lì conquistò progressivamente un’indipendenza. Le nature morte si fecero scarne durante la Seconda guerra mondiale. E un suo autoritratto del 1945 è glaciale. Picasso l’aveva lasciata. Era caduta in depressione. Se ne occupò Jacques Lacan. E il suo verdetto fu implacabile: Dio o il manicomio. Dora si salvò con una fede appassionata.
«Per il resto della vita ogni giorno pregherà, andrà a messa (abbiamo ritrovato blocchi dove ritraeva le vetrate della chiesa durante le funzioni) – conclude la Amao – e dipingerà». Picasso, anche per allontanarla, le comprò una casetta nel Sud, in Provenza, a Ménerbes. Visse, in una relativa solitudine, tra quelle terre e Parigi, dove nessuno più sapeva che fine avesse fatto. Ma Dora continuava nelle sue sperimentazioni, scivolando verso l’astrattismo. O riprendendo vecchi suoi negativi, graffiandoli e reinventandoli. Alla ricerca, sempre.

La Stampa 8.6.19
San Francesco e il sultano
Un incontro di 8 secoli fa che non smette di insegnare
di Cesare Nosiglia e Yahya Pallavicini


Nella casa torinese della convivenza e del dialogo per eccellenza, l’Arsenale della Pace, un seminario dedicato agli 800 anni dall’incontro di San Francesco con il sultano d’Egitto Malik al-Kamil Muhammad bin Ayyub ha sottolineato ancora una volta la tradizione di impegno per la reciproca conoscenza presente nella nostra città. L’appuntamento promosso dalla Coreis, Comunità religiosa islamica italiana, coordinato dal direttore de La Stampa Maurizio Molinari, ha riunito l’arcivescovo, monsignor Cesare Nosiglia, l’imam Yahya Pallavicini, presidente della Coreis, lo storico Alessandro Barbero e frate Francesco Mazzon, invitati a riflettere sullo straordinario “incontro al vertice” avvenuto a Damietta, Egitto, durante la quinta crociata. Un incontro anche leggendario, ma certo ricco di reali effetti positivi lungo i secoli.
Il professor Barbero ha ammesso che gli storici sono in difficoltà nel delineare la figura di Francesco, «un uomo che ha avuto un enorme impatto, che ha creato l’ordine francescano che ha attraversato tutta la storia del cristianesimo cattolico, che ha fatto un’enorme impressione ai suoi contemporanei. Ma tutto ciò che crediamo di sapere su di lui in realtà ci è stato raccontato da altri. Cosa è successo davvero nel 1219? Non abbiamo un racconto di Francesco durante quell’incontro. Le versioni giunte fino a noi ci dicono cose legate alla mentalità dell’epoca. Ma quel che oggi ci colpisce moltissimo è che mentre una crociata è in corso, il frate parta quasi per criticare quelli che sono andati dai musulmani con la spada in mano. E lui vada invece a parlare con loro».
La responsabilità
Dialogo, il valore eterno, quello che ha ispirato Abu Dhabi, l’incontro tra Papa Francesco e il grande Imam di Al Azhar. «Sono trascorsi ottocento anni dall’incontro tra San Francesco di Assisi e il Sultano al-Malik al-Kamil. Ricordare questo evento nel nostro tempo - ha osservato monsignor Nosiglia - significa rendere grazie a Dio misericordioso e onnipotente perché grazie a lui il rapporto e la collaborazione tra la Chiesa cattolica e i seguaci dell’Islam hanno raggiunto un traguardo importante di cui dobbiamo essere fieri, ma anche sentirci sempre più responsabili». Sono stati otto secoli con rapporti altalenanti e spesso critici. «Ma c’è stato sempre un tentativo di riprendere quel dialogo che San Francesco aveva avviato in modo così concreto e ricco di speranza», ha proseguito Nosiglia, che domenica scorsa ha visitato tre moschee e come ogni anno ha inviato gli auguri ai concittadini musulmani per la fine del Ramadan. Poi, ha ricordato l’eredità più recente. I viaggi di Giovanni Paolo II nei Paesi musulmani, l’incontro di Assisi in piena guerra del Golfo e la riscoperta della preghiera, «come via privilegiata per operare tutti insieme per la pace tra i popoli: la preghiera che implora da Dio la conversione del cuore di ogni cristiano e musulmano». Infine, lo storico documento firmato nel febbraio scorso dal Papa e dall’Imam sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza, con l’impegno delle religioni a non incitare mai alla guerra, a non sollecitare sentimenti di odio.
Spiritualità e potere
Per l’imam Yahya Pallavicini, «a differenza di Abu Dhabi, l’incontro di Francesco e il Sultano a Damietta non è tra due religiosi, lo è anche, ma da un punto di vista esteriore. È piuttosto l’incontro di due rappresentanze: una è la declinazione della spiritualità del cristianesimo cattolico con una lettura monastico contemplativa, l’altra è un governatore, un politico, una persona che deve cercare di amministrare forze e giurisdizioni per articolare la responsabilità temporale all’interno del califfato islamico. Quello di Francesco e del Sultano è l’incontro tra autorità spirituale e potere temporale. Entrambi sono uomini di fede, ma il Santo scopre come si gestisce il potere, da un punto di vista religioso non cristiano. E il sultano come si possa essere uomini spirituali, devoti, con una particolare dimensione di contemplazione e ricerca della santità non in forma islamica. C’è, in loro, apertura e scoperta l’uno dell’altro».
Nel tempo presente
Frate Francesco Mazzon, ricordando gli otto secoli di presenza francescana in Terra Santa, «la custodia dei luoghi Santi e anche la ’custodia’ dei cristiani», ha sottolineato con alcuni esempi come oggi i francescani siano impegnati con i musulmani per portare avanti quel dialogo interreligioso per il bene comune avviato dal fondatore. Uno per tutti, il più toccante: «Ad Aleppo - ha detto Mazzon - siamo impegnati per dare un futuro ai ’bambini invisibili’ i figli, nin riconosciuti, avuti dalle donne siriane dopo gli stupri dei jihadisti. Questi bambini sono duemila ad Aleppo e diecimila in Siria. Per loro, cristiani e musulmani sono uniti in un progetto».

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