sabato 2 settembre 2006

Il Messaggero 1.9.06
Ecco perché in Italia comandano sempre i morti
di MARCO BELLOCCHIO


«IN ITALIA comandano i morti». Questa battuta che si trova in Il regista di matrimoni ha colpito molto. E, in effetti, in Italia c’è un senso di pesantezza di soffocamento, direi quasi di letargo, da cui non sembra vi sia possibilità di risveglio.
Osservando il fenomeno da altre realtà nazionali, dove anche i cambiamenti legislativi sembrano più facili, in Italia al contrario tutto sembra essere immobilizzato nel tempo come nella favola della Bella Addormentata...
In L’ora di religione e anche in Il regista di matrimoni il rifiuto di questa immobilità dell’Italia non è raccontato usando per esempio il sarcasmo moralistico, come avevo fatto in La Cina è vicina. In questi due film il protagonista cerca di reagire con una propria vitalità, un proprio movimento, “evitando di sfottere”, si potrebbe dire, di fare dello spirito da perdenti (Mario Monicelli in una recente intervista dice proprio che lui sa raccontare solo i perdenti, perché la sua, per come è andata la storia, è una generazione di perdenti. Non sono d’accordo, anche la mia si può definire una generazione di perdenti, ma a me piace reagire nel senso che è proprio il movimento di reazione che costituisce l’essenza del mio immaginare storie, e della mia vita).
Si è realizzato cioè un cambiamento rispetto a I pugni in tasca e La Cina è vicina, non più immagini di nichilismo puro, di anarchia disperata, di irrisione feroce...
C’è una scena in Il regista di matrimoni in cui il protagonista Franco Elica, un regista abbastanza affermato, incontra Orazio Smamma, un collega che pur di ottenere un premio si finge morto perché convinto che in Italia per vincere si deve essere morti. Forse i due registi rappresentano un po’ il mio presente ed il mio passato, due diverse identità: una, quella di Franco Elica, è libera e dunque è anche libera dall’ossessivo bisogno di riconoscimento, l’altra invece, di Orazio Smamma, è dominata da questa ossessione fino al punto di morire. Io credo, e lo dico attraverso il personaggio di Franco Elica, che la salvezza dalla disperazione non sono i premi ma la propria identità (umana, si può avere una grande identità sociale ed essere dei poveri pazzi), quello che si è realmente, identità che è prima di tutto capacità di rapportarsi con gli altri esseri umani, anche di scontrarsi eccetera.
Il moralismo va bene: la gente ovviamente non deve rubare, la corruzione va combattuta, bisogna rispettare le leggi. Su questo siamo d’accordo, però non basta. In entrambi i film ho cercato di dare sostanza in forma poetica, non documentaristica, evidenza alla dimensione irrazionale che per me è estremamente importante. Identità è soprattutto questo, essere ricchi di sentimenti, di amore per gli altri, ma anche essere capaci di rifiutarli, gli altri, quando sono troppo distruttivi: ed infatti Elica rifiuta Smamma quando capisce che lo trascinerebbe in un suicidio masturbatorio.
Ripeto, sono convinto che se ci limitiamo solo alla ragione e alla morale i morti in Italia continueranno indisturbati a comandare.
(a cura di Giovanni Perazzoli)

l’Unità 2.9.06
Cossutta: «Vorrei una Grande sinistra
Ungheria? Il Pci non aveva alternative»


ROMA «Contribuire al formarsi di una grande sinistra, di cui l'Italia ha tanto bisogno: una sinistra popolare, di massa, fatta di milioni di lavoratori, di giovani, di donne, di intellettuali, una sinistra plurale, una sinistra che c'era nel passato e che oggi non c'è». È questo il regalo che il senatore Armando Cossutta, storico dirigente del Pci, vorrebbe ricevere per il suo ottantesimo compleanno che il Gr Parlamento festeggerà con un'intervista in onda stamattina alle 9.30.
«Riappacificazione con Bertinotti? La nascita di un nuovo partito? Sono tutte cose che non dipendono da me...». A queste idee, Cossutta preferisce il regalo di una «sinistra che dovrebbe riuscire a incidere di più nella vita sociale e culturale del Paese». Una sinistra che includa anche i cattolici, che «hanno una funzione importantissima, un ruolo nella nostra società: la maggioranza delle forze della sinistra sono fatte, come erano quelle del Partito Comunista Italiano, da persone cattoliche».
Un progetto che può coincidere con la Sinistra Europea di cui parla Rifondazione? «L'ispirazione è giusta - dice l'ex presidente del Pdci - ma non pensando all'allargamento del loro partito, altrimenti non si giunge a niente. Occorre un rimescolamento, un nuovo grande agglomerato», aperto ai «tanti di sinistra: Ds, Rifondazione, Comunisti Italiani, Verdi».
Un'entità politica che superi l'attuale Rifondazione e non ne costituisca una semplice estensione come suggerisce Pietro Folena con l'associazione Uniti a sinistra?
«Folena dice una cosa giusta. Speriamo - conclude Cossutta - che questa valutazione sia condivisa».
Parlando dell’Ungheria Cossutta ha detto che «Napolitano fa bene a dire quello che crede, che ha detto anche in passato e che ha ripetuto anche oggi, ognuno dice quel che crede di dover dire, ma la storia non si può cambiare». «Il dibattito storico è molto bello - dice Cossutta - ma la storia non si fa con i se e allora furono prese delle decisioni che, io credo, furono dettate inevitabilmente dalla condizione in cui si trovava il mondo. Il Pci avrebbe potuto fare una scelta diversa? Secondo me no».

l’Unità 2.9.06
Cina, esce di scena Mao, entrano Bill Gates e Microsoft nei manuali scolastici
L’autore della riforma dei testi per i licei spiega al New York Times: «La storia non appartiene agli imperatori o ai generali. Appartiene al popolo»
di Bruno Marolo


IN CINA è scoppiata la rivoluzione dei libri di testo. Dai programmi di storia è uscito alla chetichella il presidente Mao ed è entrato trionfalmente Bill Gates. Il nuovo corso per i licei dedica una paginetta striminzita al socialismo, e un solo capoverso al comunismo cinese prima delle riforme economiche liberali varate nel 1979. Mao Tse Tung è citato una sola volta, in un capitolo sul protocollo nelle cerimonie ufficiali, dove si spiega che nell'anniversario della sua morte le bandiere sono esposte a mezz'asta. Tra i protagonsti della storia mondiale sono in evidenza Bill Gates, il creatore di Microsoft, e il banchiere J. P. Morgan.
I nuovi testi sono il prodotto di una commissione diretta da Zhou Chunsheng, docente di storia all'università Normale di Shangai. In una intervista al New York Times, il professor Zhou ha spiegato le ragioni della riforma. «La storia - ha detto - non appartiene agli imperatori o ai generali. Appartiene al popolo. Forse occorrerà qualche tempo prima che questo criterio sia accettato da tutti, ma un'impostazione simile a quella dei nuovi libri di testo cinesi è stata adottata da tempo in Europa e negli Stati Uniti».
Zhou è un ammiratore dello storico francese Fernand Braudel, che nei suoi libri non si limita ad illustrare gli eventi militari e politici, ma approfondisce gli aspetti culturali, economici e sociali della storia, e accanto ai fatti dedica spazio alle idee.
A partire dal mese prossimo, i nuovi testi saranno obbligatori nelle scuole di Shangai, una parte delle quali ha cominciato a usarli l'anno scorso a titolo sperimentale. L'anno prossimo saranno disponibili in tutta la Cina.
Il New Yok Times ha sentito il parere di un esperto di origine italiana, Gerald Postiglione, docente di pedagogia a Hong Kong. «Le scuole cinesi - ha spiegato questo specialista - si sforzano da anni di preparare gli studenti alle sfide della globalizzazione. È naturale che si siano domandate se dedicare tanto spazio alle sofferenze del popolo cinese nell'epoca del colonialismo servisse a creare la mentalità necessaria per svolgere un ruolo nella Shangai di oggi, una delle metropoli più cosmopolite del mondo».
Il dibattito è cominciato quest'anno con un articolo di un eminente storico cinese, Yuan Weishi, che criticava i libri di testo per l'enfasi «patriottica» con cui esaltano episodi come la rivolta dei boxer passando sotto silenzio le atrocità contro gli stranieri. Il giornale che aveva pubblicato l'articolo è stato chiuso dal governo e costretto all'autocritica quando è tornato in edicola con un nuovo direttore dopo qualche tempo. Ben presto però nel ministero dell'istruzione ha avuto il sopravvento una corrente modernista, secondo cui l'insegnamento della storia deve mettere in risalto le innovazioni tecnologiche e i rapporti con l'estero più che le gesta dei condottieri cinesi. Ha sostenuto il professor Zhou: «Il governo ha molto peso nell'approvazione dei libri di testo, ma questo non significa che il nostro lavoro abbia un obiettivo politico. Il nostro scopo è di incentivare lo studio della storia e preparare gli studenti per i tempi nuovi. La revisione non riflette un orientamento politico, ma una evoluzione dell'opinione generale su ciò che è necessario sapere».
Dagli anni 50, i libri di storia delle più prestigiose scuole cinesi erano rimasti inalterati. Il passato della Cina era rievocato alla luce delle lotte di classe e dei movimenti per l'indipendenza nazionale. I nuovi testi rispecchiamo gli obiettivi della nuova Cina: crescita economica, progresso tecnico, stabilità politica, sviluppo del commercio con l'estero e coesistenza tra culture e ideologie diverse.

La Stampa Tuttolibri 2.9.06
Socrate va a curare i manager
saper ridefinire il proprio legame con la vita e mantenersi «critica»
di Pier Aldo Rovatti


La filosofia può curare? La consulenza filosofica in questione, R. Cortina, pp. 100, e9, SAGGIO Pier Aldo Rovatti

DOVE andrebbe oggi Socrate? Allora andava nel luogo pubblico per eccellenza, nell’agora della polis. Oggi «con ogni probabilità andrebbe nel cuore del centro economico e politico delle nostre città, nei luoghi dove incontra banchieri, politici, cittadini e manager affannati con i loro business, luoghi che hanno sostituito le piazze ma che contengono le riunioni, i consigli di amministrazione, le conferenze, le discussioni». Questo Socrate andrebbe dunque in azienda. Neanche al mercato dove Nietzsche immaginava che il suo filosofo «pazzo» terrorizzasse la gente annunciando che Dio era morto, che noi lo avevamo ucciso e che adesso lui stava drammaticamente e vanamente cercandolo. In azienda. Tutt’altro che «pazzo», tutt’altro che terrorizzato dal suo annuncio. Ben vestito, senza lanterna in pieno giorno, non irrompente ma invitato per una prestazione e per essa retribuito. Chiamato non per produrre affanno, ma - esattamente all’opposto - per spegnere gli affanni di un ambiente concitato, pressato dalle esigenze e dal tempo reale, iper-reattivo, compulsivo. Strano contrappasso. Ora c’è bisogno della pensosità della filosofia, della sua capacità di mantenere una distanza, della sua saggezza. Anche Nietzsche, in fondo, era saggio, anche lui predicava una convalescenza di lungo periodo, un ponte fra la tragedia della mancanza e la commedia a venire di un saper ridere la verità, imparare a sorridere, forse a giocare, dentro il rischio mortale della condizione umana. Ma qualcosa stride, ferisce l’orecchio. Le due scene sono solo irrisoriamente simili, anche se tendono a sovrapporsi. La convalescenza cercata da questo nuovo Socrate che dialoga con i manager sembra il doppio parodistico della convalescenza a fatica additata da Zarathustra e tante volte ripetuta e interpretata dal pensiero del Novecento. Comunque, queste immagini corrono il rischio di confondersi. Il differenziale è sottile, ma netto, decisivo. Piuttosto che vederlo indaffarato a contribuire con il suo sapere (o meglio, con il suo presunto non sapere) al potenziale riflessivo della leadership aziendale, intento a dotare il coaching di sacrosanti spazi di pensiero o breathing rooms, dove il cervello affannato e strangolato dalla routine compulsiva possa finalmente respirare, forse preferiremmo ancora vedere questo filosofo, o questi giovani magari freschi di studi filosofici, alle soglie dell’azienda, o infiltrati nei suoi corridoi e stanze, a far da schermo in qualche modo tra l’occhio e il computer, nel tentativo di opporre un disturbo, uno spazio e un tempo di resistenza nei confronti della normalizzazione della parodia che la cultura dell’autosorveglianza ogni giorno conferma e valorizza. Si obietterà che è meglio respirare che soffocare, e che negli spazi per pensare - se effettivamente vengono resi disponibili - un pensiero può sempre nascere. Non so come e quando, e soprattutto mi chiedo di quale pensiero si tratti. Sospetto che queste pause siano appunto una duplicazione fasulla dell’idea filosofica di pausa, così importante e qui così irrisoria e parodistica. C’è evidentemente una soglia critica da superare, una bolla da far scoppiare. Vi si gioca tutta la possibilità di un’effettiva contromanovra con implicazioni pratiche assai impegnative. La politica della filosofia comporta infatti una respirazione-contro, non semplici spazi per riflettere meglio (che si traducono, per automatica reazione, in declinazioni della pausa pranzo e di altre pause fisiologiche) ma per indirizzare il pensiero proprio contro quella cultura aziendale che ti chiede, perfino con l’offa della filosofia, di essere più riflessivo, cioè più produttivo. Il laureato in Filosofia, con il suo bravo master, non potrà rendersi artefice di alcun guasto. E’ altamente probabile che si lascerà normalizzare dalla poderosa macchina terapeutico-aziendale. E’ ragionevole, e forse del tutto legittimo, che valuti bene la necessità di difendere una chance di lavoro retribuito (anche se sottoposto alla massima precarietà) e metta in atto una debita autosorveglianza rispetto ai suoi gesti durante la pratica della consulenza. Ma è improbabile - lo dico con cautela - che la sua formazione filosofica, anche se solo abbozzata da un’università tendenzialmente sorda e da un master alquanto velleitario, resti per lui lettera morta e non abbia covato, o almeno non del tutto estinto, un nucleo di desideri e aspettative.
... Ipotizzo che questo desiderio abbia parecchio a che fare con l’esercizio che Foucault ha chiamato cura di sé. Se è così, dovremmo allora cercare di intenderci meglio sulla parola filosofia: riaprire la questione, fare delle esclusioni, tracciare dei sentieri, in modo che l’espressione pratica filosofica (terreno di base di ogni consulenza filosofica che voglia essere davvero tale) non resti, come si dice, un flatus voci, ovvero aria fritta, mentre magari presumiamo che essa si spieghi da sola e che, appena qualcuno la pronuncia, ci siamo già intesi, nel male e nel bene (in quest’ordine).

venerdì 1 settembre 2006

l'Unità 1.9.06
Umani? Si riconoscono allo specchio dei neuroni
di Beppe Sebaste


INTERVISTA con Giacomo Rizzolatti che, assieme a Vittorio Gallese, ha scoperto i «neuroni specchio», cellule che si attivano solo quando osserviamo un nostro simile. Una scoperta scientifica che è anche una rivoluzione etica e filosofica

Il pittore «apporta il proprio corpo», dice Valéry. E, in effetti, non si capisce come uno Spirito potrebbe dipingere. È prestando il suo corpo al mondo che il pittore cambia il mondo in pittura (...), il corpo operante e attuale, quello che non è un pezzo di spazio, un fascio di funzioni, ma un intreccio di visione e movimento». La citazione è di Maurice Merleau-Ponty, il celebre autore de La fenomenologia della percezione, tratta da una meditazione sul corpo, la visione e la pittura che porta al cuore dell’estetica la lezione della fenomenologia di Husserl. Ma porta anche al centro della vita vissuta, quella della fisicità e dei corpi, la filosofia, invitando la scienza a situarsi allo stesso modo nella «storicità primordiale» del (nostro) corpo sensibile, attuale e presente, il cui risveglio avviene soltanto quando con esso si risvegliano «i corpi associati», gli «altri», quelli «della propria specie, del proprio territorio, del proprio ambiente». Non stupisca allora questa citazione per introdurre una questione rigorosamente scientifica che da qualche tempo attrae anche i non specialisti, ovvero la portata della scoperta dei cosiddetti mirror neurons, o «neuroni specchio».
La scoperta, tra le più importanti degli ultimi anni nell’ambito della neurologia, si deve al gruppo di neuroscienziati che lavora nel dipartimento di neuroscienze dell’università di Parma, diretto dal prof. Giacomo Rizzolatti, che dei neuroni specchio è co-scopritore negli anni ’90 insieme al più giovane Vittorio Gallese. I «neuroni specchio» sono cellule che si attivano quando osserviamo un nostro simile che compie una certa azione gestuale, quasi allo stesso modo che se fossimo noi stessi a compiere quell’azione e quel gesto. Se tra le ipotesi e le conseguenze teoriche dell’individuazione di queste cellule neuronali vi è addirittura la possibilità di toccare la radice biologica del sentimento dell’«empatia», già il fatto di provare che la conoscenza sia radicata nell’osservazione degli altri, e quindi non solo nel proprio corpo, ma in un contesto in cui un ruolo attivo lo rivestono i corpi degli altri, è sufficiente ad interessare non solo la scienza, ma anche tutte quelle discipline che dialogano oggi nell’ambito della «biopolitica». Come ha osservato Vittorio Gallese in un’intervista a Felice Cimatti (su il manifesto), «questo contributo delle neuroscienze può essere importante nel suscitare nuove riflessioni in ambito etico, politico ed economico. Perché ha messo in luce come la reciprocità che ci lega all’altro sia una nostra condizione naturale, pre-verbale e pre-razionale». Ecco come la scienza sembra oggi raccogliere non solo l’invito a situarsi che oltre mezzo secolo fa le rivolgeva, tra gli altri, Merleau-Ponty, ma anche la sfide che l’etica ha posto al primato dell’ontologia, rivendicando (si pensi a Emmanuel Lévinas) la priorità dell’altro (il prossimo) contro l’impersonalità dell’essere heideggeriano.
Il prof. Rizzolatti, ospite del Festival della mente di Sarzana, ha pubblicato di recente, in collaborazione col filosofo della scienza Corrado Sinigaglia, il volume So quello che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio (Raffaello Cortina Editore). In esso si racconta la storia di questa scoperta che, secondo il neuroscienziato statunitense Vilayanur Ramachandran, è paragonabile «per la psicologia a quello che il Dna è stato per la biologia». La loro esistenza mette in discussione i confini tradizionali, non solo scientifici ma filosofici, tra pensiero razionale e sfera emotiva, tra azione e percezione. Ma pongono anche al centro della riflessione scientifica la fisicità e la corporeità, in un’epoca in cui, tra dibattiti sulla fecondazione artificiale (o addirittura la clonazione) e revival della robotica, anche i problemi del nascere e dell’intelligenza sono spostati in una dimensione mitica che farebbe a meno dei corpi (e della sessuazione).
Abbiamo posto a Giacomo Rizzolati alcune domande.
Come spiega il successo della scoperta dei neuroni specchio, che (potrei raccontarle qualche aneddoto), appare oggi addirittura di moda, e viene citato anche da artisti e altre persone che di solito non si occupano di scienza?
«Credo che abbia avuto molto successo proprio perché questa scoperta “avvicina” anche alcune arti alla complessità scientifica. Essa ci insegna che il vedere e l’agire, la percezione e l’azione, sono mescolati. E, soprattutto, che il nostro corpo è presente dappertutto. Dall’idea di individuo come puro spirito che osserva si passa a una concezione in cui il corpo ha un ruolo fondamentale: noi siamo quello che siamo perché agiamo, perché abbiamo delle mani, perché abbiamo delle relazioni. Ecco perché anche l’artista accoglie qualcosa di questa scoperta. Il teatro, ad esempio, da sempre ha molto a che fare con questo, perché l’attore ha a che fare soprattutto col corpo…".
«La conoscenza è legata al corpo, e di questo noi diamo prove neurofisiologiche, scientifiche. Quando vedi qualcuno far qualcosa risuona nel tuo cervello qualcosa che spinge a fare gli stessi movimenti, entri in risonanza con quello che fanno gli altri. Tutto questo rivaluta molto in effetti le filosofie di Husserl e di Merleau-Ponty, e non a caso infatti le nostre scoperte sono state inizialmente molto valutate in Francia, dove la tradizione filosofica sostiene questo pensiero».
In che modo i neuroni specchio modificano la nostra concezione della conoscenza e dell’apprendimento, e come interviene il problema dell’alterità?
«Noi abbiamo provato che abbiamo un meccanismo neuronale di base che ci permette di entrare in relazione con gli altri: accanto alla conoscenza razionale, intellettuale, c’è una conoscenza intima, diretta, di quello che uno fa; se un marziano interagisse con noi con strane contrazioni, noi non capiremmo cosa fa, perché non riconosciamo i suo gesti in una mappa esperienziale. Un esperimento fatto con le risonanze mostrava che se qualcuno fa certe azioni umane si attivano i neuroni specchio. Ma non si attivano viceversa se un cane abbaia, perché l’esperienza dell’abbaiare non rientra nel nostro patrimonio biologico e culturale. L’esperienza è parola chiave, e con l’esperienza si modifica il nostro patrimonio biologico.
«Un altro esperimento, a Londra, aveva accostato ballerini di danza classica e ballerini brasiliani di capoeira. Quando ballerini classici osservano danzare i classici si attiva di più il neurone rispetto all’osservazione dei ballerini di capoeira; e se un ballerino brasiliano vede danzare un ballerino maschio (per quanto gli uomini ballino con le donne e viceversa) la sua conoscenza dei gesti attiva in maggiore misura il neurone specchio. Questo significa dunque che l’alterità la mappo su me stesso, sul mio patrimonio motorio, e può accadere che essa interagisca con la mia coscienza e la modifichi, a differenza di un cane che abbaia che posso capire solo intellettualmente. L’empatia - parola che ha sfiorato e tuttora lambisce la questione dei neuroni specchio - avviene con ciò che è più vicino a noi. Tutto il resto, non meno importante, avviene come lavoro culturale».
Il vostro lavoro ha anche il merito di ricollegare l’intelligenza (la conoscenza) alla realtà del corpo, contro l’attuale deriva che di astrazione in astrazione lo rimuove. Non si dà intelligenza privata di corpo, e mi è capitato di dire (la formula è di Giuseppe O. Longo) che “nemmeno la matematica esisterebbe senza il corpo di un matematico”…
«La formula è molto felice ed efficace. Sì, se c’è un messaggio che vorrei lanciare riguarda proprio la corporeità, la difesa della corporeità e fisicità della conoscenza. Su un piano più ampio, questa scoperta dovrebbe contribuire ad eliminare l’individualismo sfrenato del mondo contemporaneo, basato sulla rivendicazione ossessiva dell’“io” e nient’altro. Mi viene in mente che il marxismo tradizionale - quello di Marx e Engels, per intenderci - che io ricordo bene, aveva un forte senso della collettività, della comunità, che oggi è scomparso anche negli orizzonti e nel patrimonio culturale della sinistra. Il marxismo tradizionale, al contrario della nostra attuale civiltà, era legato alla realtà sociale e biologica».

Repubblica Lettere 1.9.06
Che significa oggi essere socialisti
di Nerio Nesi
Pres. Ass. Riccardo Lombardi


Caro Direttore, Amato vede, come me, il pericolo che il socialismo liberale rischi di annullare, (soprattutto nella considerazione delle persone che riteniamo di rappresentare), la differenza tra Destra e Sinistra. E' un rischio grave, al quale egli peraltro non risponde in modo esauriente, soprattutto su un tema che a me pare fondamentale: la politica economica e in particolare la diversa concezione dello Stato che hanno la Sinistra e la Destra. Bisogna quindi porsi la domanda: cosa vuol dire oggi essere socialisti?
La revisione ideale di socialisti e socialdemocratici europei è stata sempre accompagnata da grandi progetti riformatori: i laburisti del dopoguerra elaborarono quattro leggi destinate a trasformare il sistema sociale britannico (salute, previdenza, pieno impiego e nazionalizzazioni); la socialdemocrazia tedesca, mentre abbandonava il marxismo, conquistava la compartecipazione aziendale e la contrattazione programmata dei salari; la prima vittoria di Mitterrand portò il suggello del "programma comune" francese; il Partito Socialista Spagnolo è stato l'artefice della trasformazione più radicale che un Paese europeo abbia vissuto nel dopoguerra.
In Italia, il Psi pose negli anni '60 i presupposti di un progetto che doveva tradursi nella riduzione progressiva delle posizioni di rendita e di monopolio, nel controllo pubblico dei grandi servizi di interesse collettivo, a cominciare dalla scuola, nella eliminazione delle sperequazioni fiscali, nella programmazione degli investimenti e nella realizzazione del pieno impiego, attraverso un vasto piano di lavori pubblici e il risanamento dei più gravi squilibri sociali e territoriali: tutti interventi che, nel linguaggio del tempo, venivano definiti "riforme di struttura".
Cosa rimane di tutto questo? E se tutto questo non è più "moderno" o "attuale", quali sono i valori e gli obiettivi, per il raggiungimento dei quali il socialismo del 2000 può accendere le fantasie ed alimentare le speranze?

Repubblica 1.9.06
Il senso del ripetersi degli avvenimenti celesti
Come è nato l'eterno ritorno
di Paolo Zellini


Coincidenze. Sono gli istanti in cui accadono fatti notevoli che riguardano stelle e pianeti a definire una struttura di tempo in termini di cicli o ricorrenti
Filosofi. Nietzsche volle ispirare la sua teoria al movimento degli astri Ma la matematica ha dimostrato che non c'è ripetizione perfetta

«Nulla al mondo è insignificante! Ma la prima cosa, e la più importante, in tutte le faccende terrene è il luogo e l´ora». Le parole dell´astrologo e matematico Seni, in una scena del Wallenstein di Friedrich Schiller, mettono in piena evidenza lo spazio e il tempo, le due fondamentali coordinate di ogni cosa, evento, azione o accidente che prenda forma e consistenza nel mondo del divenire. Ma spazio e tempo non sono soltanto forme del nostro apprendere: l´astrologo vuole alludere anche al fatto che tempo e luogo devono essere fissati con esattezza. Il suo tempo è quello dell´attimo decisivo, rispetto al quale ogni nostra decisione può rovesciarsi in errore o in tragedia. Quell´attimo decisivo corrisponde a un preciso avvenimento nel cielo: il sorgere di una stella, una congiunzione o un trigono di pianeti, il compiersi di un ciclo, un´eclisse o un tramonto.
Immaginando una corrispondenza tra cielo e terra, tra il moto degli astri e gli avvenimenti a noi più vicini, ci troviamo costretti fare i conti con la fondamentale ambiguità o incertezza dell´attimo. Il sorgere e il tramontare eliaco, la prima apparizione della Luna o di Marte, la congiunzione tra Giove e Saturno, sono infatti definibili soltanto in modo approssimato. Da una descrizione geometrica, da una cosmografia come quella di Keplero, che storicamente approntò l´oroscopo a Wallenstein, ricaviamo l´impressione che possa trattarsi di avvenimenti esattamente definibili; ma da una descrizione analitica, che operi con formule trigonometriche e tavole numeriche, equazioni e serie infinite, sappiamo che, in generale, valori numerici esatti non esistono e che dobbiamo invece accontentarci di approssimazioni per eccesso o per difetto. Con i numeri possiamo stare soltanto al di qua o al di là dell´evento, soggetti a un´ambiguità o amphibolia, nel senso dello stare attorno o dell´essere gettati da una parte e dall´altra rispetto a un istante che non riusciamo a definire esattamente. L´errore è quindi fatale e inevitabile: Wallenstein agisce troppo tardi; chi ne progetta l´assassinio agisce con troppo anticipo.
Ora, da tempi immemorabili, sono proprio gli eventi puntuali del mondo celeste, gli istanti in cui accadono fatti notevoli che riguardano stelle e pianeti, a definire una struttura del tempo in termini di cicli e ricorrenze. E può sembrare che il tempo scandito da continue ripetizioni imponga alla nostra esistenza, più di quanto saremmo disposti ad ammettere, ritmi e cadenze regolari. Anche Plutone, pur declassato ora dalla dignità di pianeta, è un esempio di questa vita circolare e continua a girare intorno al sole, compiendo la sua rivoluzione in circa 248 anni. Declassato o meno, bisognerà comunque continuare a tenerne conto se vogliamo ritornare all´antica domanda: possono gli eventi di questo mondo ripetersi nello stesso identico modo in cui sono già accaduti? Esiste e che senso ha l´Eterno Ritorno? La questione potrebbe andare oltre il mero calcolo di tempi, orbite o inclinazioni di pianeti e offrirsi a una cognizione di tipo diverso, pur correndo il rischio – come è stato detto – di assumere i tratti di un "ingannevole e beffardo mistero". Nietzsche avrebbe esteso il senso dell´eterno ritorno ben al di là dell´indicazione positiva di un ripetersi di avvenimenti celesti. «Tutte le cose diritte mentono», si legge nel suo Zarathustra; «Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo». Ma, rinunciando al mistero filosofico o poetico, ci si limiti ora a immaginare, nello spirito del più pedante contabile, un Demiurgo che tenti di realizzare un tempo ciclico con la massima precisione possibile. Avremo allora un ritorno all´uguale, nel senso più letterale, solo se una data configurazione di tutti i corpi celesti, fotografata in un certo istante, si ripeterà identica in un istante successivo, non importa quanto lontano nel tempo. La questione del ritorno all´uguale dipende allora, in modo stringente, dalla questione se i movimenti circolari risultano tra loro commensurabili, o multipli di uno stesso periodo assunto come comune unità di misura. Per questo motivo i filosofi del Medioevo che riflettevano sui concetti di libertà o di giustizia, di ordine o di contingenza, dovevano tener conto dell´idea di incommensurabilità elaborata fin dai tempi dell´Accademia platonica. Come si sa, i periodi di Giove e di Saturno stanno circa nel rapporto di 2 a 5; ovvero dopo circa 5 rivoluzioni di Giove i due pianeti ritornano quasi nella stessa configurazione iniziale. Ma questo non implica né che i periodi di Giove e Saturno sono commensurabili, né tanto meno che lo sono altri periodi. Il rapporto 2 a 5 è soltanto un´approssimazione, e soltanto di approssimazioni, in generale, possiamo disporre. In altri termini, un ritorno all´uguale, letteralmente inteso, si rivela impossibile perché si intromettono i numeri irrazionali, che hanno un numero infinito di cifre e non sono rappresentabili con una frazione. Di questo si ebbe consapevolezza critica almeno fin dai tempi di Avicenna. In seguito Leibniz avrebbe ragionato senza riferirsi ai pianeti, riducendo il problema del ritorno all´uguale a un puro calcolo combinatorio: il calcolo del massimo numero di frasi pronunciabili con un numero finito di lettere. Essendo il massimo finito, dopo un lasso di tempo abbastanza lungo, ogni frase, e l´evento corrispondente, si sarebbero ripetuti. Ma lo stesso Leibniz riconosceva che il grande Ritorno, o in termini cristiani l´Apokatastasis o Restitutio universale, non era dimostrabile a causa dell´infinito del continuo e dei numeri irrazionali. In tempi più recenti, la scienza del calcolo su grande scala, la teoria delle perturbazioni e lo studio dei sistemi dinamici hanno fatto capire come certe difficoltà riguardano non solo l´infinito, ma anche il finito molto grande. Non c´è quindi ritorno all´uguale, anche se numeri, figure e pianeti, con i loro movimenti ciclici o spiraliformi, consentono di approssimare i rapporti che procurano armonia e stabilità, come già suggeriva Platone nella Repubblica. Aiuta forse il calcolo anche a salvare miti ed enigmi?

Repubblica 1.9.06
Dall'antica Babilonia alla Grecia di Aristotele: come il cielo era studiato
Quei nomi di dèi che parlano di astri
di Enrico Bellone


Relazioni. Quale rapporto razionale può esistere tra i racconti mitologici e forme di scienza rigorosa come la matematica e l'astronomia
Mappe. Occorre capire come mai le prime descrizioni cosmologiche abbiano raffigurato pianeti e stelle come se fossero degli esseri viventi

Una grande scrofa attende il passaggio sul fiume della barca che trasporta la dea Yaahu Auhu. Al quindicesimo giorno d´ogni mese la bestia attacca la divinità lucente, che muore e poi rinasce. A volte, invece, la scrofa ingoia tutta la vittima: così osserviamo, sulla Terra, una eclisse di Luna. La Luna è, infatti, un corpo vivente e mitico. Appunto, la dea Yaahu Auhu. Un'altra barca naviga sul medesimo fiume. A bordo, il dio Ra. Ovvero, il Sole. Anche qui, la divinità, che nasce ogni mattina, può diventare preda di un grande animale. Un serpente gigantesco, la cui lotta con Ra sta alla radice di spiegazioni sull´eclisse parziale o totale di Sole. Altre divinità prediligono la navigazione sul fiume. Sono i cinque pianeti visibili ad occhio nudo. Uno di essi è Venere, che è però doppia: la prima lampada che a sera si accende in cielo, e anche la prima luce mattutina, annunciatrice dell´arrivo di Ra.
Di che cosa stiamo parlando? Certamente di un fiume. Un immenso fluire di acque che circonda la Terra. Uno dei suoi rami è il Nilo, e infatti le descrizioni appena riportate sul muoversi dei pianeti, del Sole e della Luna risalgono ad antichi documenti egizi. Questi ultimi ci possono oggi apparire come miscele sconcertanti di opinioni insostenibili. Eppure, essi erano forme vere e proprie di sapere astronomico e cosmologico. Alle loro spalle stavano le conoscenze sul cielo che dopo il 2.600 avanti Cristo erano fiorite a Babilonia o nella mitica città di Ninive. Una fioritura che aveva comunque radici ancora più lontane, poiché aveva debiti con la scienza di quel popolo d´incerta origine che furono i Sumeri, i cui argomenti matematici risalgono al 3.500 a.C. e che, dopo un millennio, furono travolti da coloro che per l´appunto scelsero Babilonia come capitale.
Ho parlato di miscele sconcertanti. Che rapporto razionale può infatti esistere tra racconti di scrofe o serpenti ghiotti di divinità lunari o solari e forme di scienza rigorosa come la matematica o l´astronomia? Esistono forse vie culturali per passare dai calcoli sui moti dei pianeti e dalle osservazioni accurate del cielo stellato o dei moti solari alla mitologia e all´astrologia?
Esistono, e come. L´idea centrale, per fare una prima mappa dove siano segnate quelle vie, sta nel capire come mai le prime descrizioni cosmologiche abbiano raffigurato pianeti e stelle come esseri viventi, ed abbiano sistematicamente accoppiato tali vitalità a esseri divini. Come distinguere in modo netto tra il moto di un essere dotato di vita e il moto di Venere o Marte? Per noi, la distinzione sembra ovvia: impariamo nelle scuole che Saturno non ha l´anima e non è dotato di intelligenza. Per chi invece studiava l´universo alcuni millenni or sono, la faccenda era molto più intricata. Chi volesse dedicare un poco di attenzione al comportamento di un pianeta come Marte si accorgerebbe che esso percorre, in mezzo alle stelle, orbite piuttosto strane e con velocità variabili. Periodicamente, per esempio, il suo cammino è retrogrado: torna "indietro" per un poco, e poi riprende a camminare in "avanti". Per usare un linguaggio antico, è un "errante". Perché?
Domanda non ingenua: ha assillato gli scienziati sin dai tempi dei Sumeri. Una soluzione ammissibile, ed effettivamente accettata da molte civiltà antiche, consiste nell´immaginare che tutti i corpi – celesti, animali o vegetali – facciano parte di una comunità universale, e tra loro continuamente interagiscano. Così le grandi costellazioni, o la più comune Luna, hanno poteri, e li esercitano sugli altri enti del cosmo. Ebbene, perché stupirci delle credenze che erano popolari a Ninive, Babilonia o Tebe, visto che l´odierno uomo tecnologico presta non poca attenzione agli oroscopi? I poteri dei pianeti e delle stelle sul nostro vivere sono reali per milioni di individui che consultano l´oroscopo con una attenzione non diversa da quella con cui ascoltano le previsioni metereologiche.
Fatta questa precisazioni sui poteri intrinseci ai pianeti precopernicani, va subito chiarito che la scienza precopernicana era una grande scienza. La matematica e la geometria furono trionfanti, nello studio del cielo, per millenni. Un trionfo garantito dalla stupefacente capacità di previsione dei comportamenti osservabili del Sole, della Luna e dei cinque pianeti visibili senza telescopi. L´associazione narrativa dei pianeti con divinità e l´attribuzione di poteri al Sole o a Saturno erano strettamente connesse con l´impiego di strutture razionali centrate su teoremi geometrici e proposizioni matematiche.
E quei trionfi ebbero il loro peso quando, a partire grosso modo dal 600 a.C., sorse la cultura dei Greci. La vetta dell´astronomia greca ha indubbiamente il nome dello scienziato Eudosso. Il quale, però, era nato in Asia Minore ed aveva studiato astronomia ad Eliopoli in Egitto, per poi approfondire le proprie conoscenze in matematica, in medicina, metafisica e musica sotto l´influenza dei pitagorici e di Platone.
Anche per Eudosso i pianeti sono entità da trattare con estrema raffinatezza, facendo leva sulla geometria. Nella cui cornice razionale il cerchio è una figura di perfezione assoluta: tutte le stelle cosiddette fisse, infatti, si comportano come se fossero incastonate in una sfera che ruota uniformemente attorno ad un asse, così che noi, ancorati sulla Terra, non possiamo fare a meno di vedere ciò che si vede, e cioè il regolare spostarsi delle costellazioni. I moti strani dei pianeti, del Sole e della Luna con Eudosso, cessano d´essere strani: con una raffinata composizione di moti circolari uniformi le stravaganze planetarie sono ricondotte all´ordine e all´armonia. In tutto bastava aggiungere, alla sfera delle stelle fisse, altre 26 sfere.
Le divinità non erano più indispensabili. Bastavano i teoremi. Le nostre conoscenze su ciò che davvero sosteneva Eudosso non sono del tutto esaurienti. Ci restano, più che altro, testimonianze indirette. Ma sicuramente sappiamo che nei millenni intercorsi tra la grande bestia che divora la Luna e le sfere di Eudosso il fondamento della conoscenza sui pianeti è la razionalità matematica, accoppiata alla tenace osservazione dei moti celesti. Anche le più mitiche storie cosmogoniche ci parlano, tutto sommato, di una evoluzione culturale nelle cui trame il mondo dovrebbe essere armonioso e rifuggire dal caos. Molti secoli trascorrono dalle 27 sfere di Eudosso al primo abbozzo che Copernico tracciò, in un manoscritto, del proprio sistema. Vale allora la pena di rileggere le ultime parole di quel manoscritto: «In tal modo, dunque, bastano 34 circoli per spiegare l´intera struttura dell´universo, così come la danza dei pianeti». D´antica data è la modernità.

La Repubblica 10.7.06, pag. 30, sezione COMMENTI
Se la sinistra incontra il pensiero cattolico
di ALDO SCHIAVONE


In che termini si pone oggi il rapporto fra i valori e le idee che orientano la sinistra italiana, e quelli che ispirano il pensiero cattolico più impegnato in senso riformatore? Siamo innanzi a uno scarto destinato ad allargarsi con sempre maggior evidenza, o è realistico lavorare a una sintesi tale da reggere il peso di una formazione politica comune? E in quest' ultima, se nascesse, cosa resterebbe autenticamente di sinistra? Al fondo del dibattito sul partito democratico si agita - più o meno inespresso - anche un serio problema culturale, peraltro affiorato in queste settimane da un' altra prospettiva, in apparenza solo storica ma in realtà tutta politica: quella del tramonto - annunciato come definitivo - del cosiddetto "cattocomunismo" di togliattiana e berlingueriana memoria: un cattivo auspicio per nuovi incontri. Evidentemente, la risposta alle nostre domande dipende anche da cosa intendiamo, dal punto di vista delle persuasioni e delle scelte intellettuali, per "sinistra": identificazione ormai assai nebulosa, che ha dalla sua in molti casi più le ragioni del cuore e della memoria, che non quelle di un' analisi e di un progetto definiti. Ed è una difficoltà spiegata da molti elementi: una congiuntura internazionale culturalmente non favorevole, che dura da decenni, non meno della confusione con cui fu compiuto in Italia, in modo tardivo e affannoso, il superamento della "tradizione comunista". In una simile situazione, a me non pare che vi siano fedeltà da preservare con particolare tenacia. Non ho mai amato la metafora delle "radici", cristiane o socialiste che siano. Le identità moderne sono onde, non alberi; le nutrono il mare e il vento, non la terra: ogni giorno vi si rimette tutto in gioco, e nulla si custodisce, se non nella trasformazione. Dobbiamo saper mescolare le carte del nostro passato: l' unico modo per tenerle davvero in ordine. Non avrei esitazione ad affermare perciò che intorno ad alcune grandi questioni ideali la storia intellettuale europea e italiana - per come comincia ad apparirci, oltre lo schermo delle barriere ideologiche attraverso cui l' avevamo finora interpretata - contenga nuclei di pensiero cattolico e di elaborazioni socialiste che possiamo provare a tenere finalmente insieme entro il medesimo orizzonte. Mi limiterò a due esempi. Il primo riguarda un essenziale punto di principio: la praticabilità e l' attualità di una critica all' ordine capitalistico del mondo. Oggi la Chiesa cattolica mantiene una preziosa finestra aperta in questa direzione - preziosa, perché ci salva dalla dittatura del presente, sotto cui ogni sinistra perde l' anima. La Chiesa può farlo perché il fondamento del suo discorso non è economico, e non presuppone la contraddizione di classe fra capitale e lavoro, ormai resa residuale dalla potenza istituzionalizzata della tecnica (come Marx stesso aveva in qualche modo previsto, ai margini estremi del suo pensiero). Ma si basa piuttosto su un assunto di carattere etico, che critica l' esistente - l' onnipotenza del mercato - in nome di qualcosa che assomiglia - che possiamo sempre più avvicinare - a una morale universale dell' emancipazione umana, che agisce come un dispositivo di contestazione e di speranza. So bene che nell' insegnamento cattolico molto spesso i motivi anticapitalistici si confondono con quelli di una critica pregiudiziale della modernità, e che ciò apre un problema delicato, che arriva sino al rapporto fra storicità e destino. Ma credo che la sinistra debba tornare a guardare senza complessi in questo nodo: il fallimento del comunismo non fa dell' ordine capitalistico la fine della storia. Bisogna ritrovare una misura condivisibile - razionale, ma non solo economica - del mondo. E questa ricerca ha una sua microfisica, che ci coinvolge qui e ora, già nel governo delle nostre città, delle nostre istituzioni, del nostro paese. Il secondo punto, connesso al primo, si riferisce al rapporto fra etica e politica. Devo confessare tutta la mia insofferenza per la polemica sul relativismo che ha riempito le pagine dei nostri giornali. Secondo una deformazione inammissibile, si è presentato il relativismo etico come un frutto avvelenato della sinistra, e si è attribuita la difesa dell' universalità e dell' assoluto al pensiero conservatore guidato dalla tradizione cattolica, dimenticando però che la rivendicazione di diritti universali "naturali" è il cuore dell' illuminismo franco-kantiano con i suoi esiti giacobini, mentre tutta una tradizione conservatrice e storicista, da Herder a Croce, ha sempre difeso il carattere transeunte di ogni costruzione storica, etica compresa (un libro di Zeev Sternhell sull' "anti-illuminismo", appena uscito in Francia, sarebbe un buon esercizio di lettura: la modernità è un ben complesso groviglio). Da un punto di vista cognitivo, l' approccio relativistico e probabilistico è il culmine della scienza moderna, ed è l' unico che aiuta a comprendere la struttura dell' universo, e dunque la sintassi di Dio. Ma quanto più la natura, indagata in modo adeguato, perde il carattere ideologico di regno della certezza e dell' eterno - e dunque quel valore di disciplina e di vincolo che le avevamo attribuito (se è specchio di Dio, ebbene, Dio non è questo) - e presenta come il suo tratto più autentico la propria illimitata manipolabilità da parte della tecnica, tanto più abbiamo bisogno di sostituire in modo persuasivo la sua dileguata funzione normativa ed esemplare. E non possiamo farlo altrimenti che con un' etica centrata intorno al valore universale della specie, e delle infinite potenzialità che essa contiene ed esprime nella storia (un segno di Dio?) attraverso la singolarità e l' eguaglianza delle vite. Insomma, la costruzione di un integrale umanesimo morale, le cui regole siano in grado di orientare, attraverso la politica e il suo progetto, la tecnica e l' economia. Il primato di un rapporto fra etica e politica mai sperimentato finora può diventare il retroterra di un nuovo schieramento. Ma questo richiede un lavoro enorme, che nessuna delle tradizioni oggi in campo può sperare di condurre da sola. Bisogna dunque farsi leggeri, e prendere il volo, insieme.

mercoledì 30 agosto 2006

Istituti Italiani di Cultura
"Settimana Bellocchio" a Parigi dal 25 al 29 settembre
con Massimo Fagioli


Incontri, conferenze e tanti altri argomenti sono gli ingredienti affrontati nel corso della settimana della cultura straniera che vedrà il regista italiano Marco Bellocchio, ospite dell'IIC della capitale francese

Parigi - Nell'ambito della settimana della cultura straniera a Parigi il regista italiano Marco Bellocchio sarà ospite dal 25 al 29 settembre dell'Istituto Italiano di Cultura della capitale francese. Invitati a partecipare alla "Settimana Bellocchio " anche Alexandre Adler (giornalista e storico), Corrado Augias (giornalista e scrittore), Pier Giorgio Bellocchio (produttore), René de Ceccatty (scrittore), Massimo Fagioli (psichiatra) e Pietro Montani (filosofo).
Sarà un momento di eccezionale importanza e di approfondimento sia sulle tematiche che compongono l'universo del cinema che sulle personalità principali che hanno costiutito la cinematografia italiana fino ad oggi.
Una vasta selezione di lungometraggi verrà proiettata nel teatro dell'hotel di Galliffet. Numerosi i film in programma e cinque incontri dibattito che si svolgeranno ogni sera alle 20 e 30.
Sarà il tema "Il cinema" ad aprire l'angolo della conferenza dibattito con Corrado Augias, Pier Giorgio Bellocchio e Marco Bellocchio. Il giorno seguente il dibattito si sposterà su "La politica" con Alexandre Adler, Corrado Augias e Marco Bellocchio. E ancora "Il teatro e il cinema " con Corrado Augias, Marco Bellocchio, René de Ceccatty; il quarto giorno "Le Dernier Film : Il regista di matrimoni" con Marco Bellocchio e Pietro Montani e per ultimo "Les Images nouvelles " con Marco Bellocchio e Massimo Fagioli.
Per quanto riguarda il programma filmografico lunedì 25 settembre si comincia di pomeriggio con le proiezioni dei film "I pugni in tasca" del 1965 e "La Cina è vicina". A seguire, in seconda serata, "Nel nome del padre" diretto nel 1971. Martedì 26 settembre sempre di pomeriggio verranno proprosti "Sbatti il mostro in prima pagina", "Matti da slegare" diretto nel 1975 e "Marcia trionfale " del 1976.
Il 27 settembre "Il gabbiano" 1977, "Enrico IV", "La balia", seguirà la visione de "Il principe di Homburg ". Il 28 settembre "L'ora di religione"; "Buongiorno, notte", in seconda serata "Il regista di matrimoni ". Il 29 settembre verrà proiettato il "Diavolo in corpo", "La condanna" ed infine "Il sogno della farfalla ".
Notiziario NIP - News ITALIA PRESS agenzia stampa - N° 156 - Anno XIII, 30 agosto 2006


da questo indirizzo e poi cliccando sull'apposito link può essere scaricato il programma completo della "Settimana" in pdf


CREATEURS D’AILLEURS
PROTAGONISTES DU XXe SIECLE

La Semaine des cultures étrangères a été réalisée avec le soutien de
Ministère de la Culture et de la Communication
Ministère des Affaires étrangères
Mairie de Paris

La Semaine des cultures étrangères arrive cette année à sa cinquième édition. Lancée en 2002 pour mettre en valeur le rôle de « passeurs de culture » joué par les centres et les instituts culturels étrangers à Paris, la Semaine des cultures étrangères s’est imposée rapidement comme l’un des événements forts de la vie culturelle parisienne. Fidèle à sa mission de promotion de la diversité culturelle, la Semaine est consacrée cette année aux grandes personnalités qui ont profondément marqué la culture contemporaine dans ses domaines les plus variés, de la musique au cinéma, du théâtre aux arts plastiques, de la littérature à l’architecture. Les centres et les instituts étrangers ayant adhéré à cette initiative ont choisi de rendre hommage, tout au long d’une semaine, du Lundi 25 septembre

(...)

du lundi 25 au vendredi 29 septembre
MARCO BELLOCCHIO PAR LUI MÊME
Istituto Italiano di Cultura
Accès aux manifestations: 50, rue de Varenne
et à partir de 20h: 73, rue de Grenelle 75007 Paris

Il naît à Piacenza (Italie) en 1939. Son premier film, Les poings dans les poches, présenté au Festival International de Locarno en 1965, le place au devant de la scène cinématographique internationale. Rompant avec le néoréalisme, il a été défini comme le «dernier des Mohicans» de la Nouvelle Vague italienne.
Depuis les années 60, le cinéaste ne cesse de déployer son radicalisme iconoclaste en créant des oeuvres baroques et engagées. En effet, il s’attaque dans un corps à corps furieusement subversif et visionnaire aux valeurs traditionnelles de la société italienne: la religion, la famille, l’armée.
A partir des années 80, Marco Bellocchio change progressivement sa manière de concevoir et de tourner les images de ses films, sous l’influence des recherches qu’il mène avec le psychiatre Massimo Fagioli en «Analyse collective». Du Saut dans le vide (1980) au Diable au corps (1986), cette collaboration ne manque jamais de soulever un tollé parmi les critiques.
Arrivé à l’âge de 60 ans, Marco Bellocchio continue de provoquer la polémique en Italie: en 2002, il suscite des réactions de la part du Vatican avec un nouveau film sur l’Eglise catholique, Le Sourire de ma mère, et, deux ans plus tard, à travers Buongiorno, notte, il jette un regard lucide et lyrique sur les “années de plomb” en revenant sur l’assassinat d’Aldo Moro.
Du 25 au 29 septembre, en présence du grand cinéaste, Alexandre Adler (journaliste et historien), Corrado Augias (journaliste et écrivain), Pier Giorgio Bellocchio (essayiste), René de Ceccatty (écrivain), Massimo Fagioli (psychiatre), Pietro Montani (philosophe) démêleront les lignes de forces de son oeuvre subversive et de son activité d’intellectuel engagé.
Il s’agira d’une occasion exceptionnelle de rencontrer et de découvrir l’une des personnalités majeures du cinéma italien d’aujourd’hui. Une large sélection de ses long-métrages sera projetée dans le théâtre de l’Hôtel de Galliffet.

(...)

Vendredi 29 septembre:
15h30 Projection de Diavolo in corpo, 1986, 115’
17h30 Projection de La condanna, 1991, 95’
20h30 Conférence/rencontre : Les Images Nouvelles Avec Marco Bellocchio et Massimo Fagioli
22h Projection de Il sogno della farfalla, 1994, 111’
ISTITUTO ITALIANO DI CULTURA
Pour plus d’informations : www.ficep.info

Pour célébrer la tradition d’accueil des cultures étrangères qui font de Paris l’une des villes les plus cosmopolites au monde et la contribution irremplaçable que lui apportent les établissements culturels implantés dans la capitale, le Forum des instituts culturels étrangers à Paris a choisi d’organiser en 2006 le rendez-vous annuel qu’il donne au public - cette Semaine désormais inscrite si profondément dans notre agenda culturel - autour des « créateurs d’ailleurs ». Venus d’ailleurs, les écrivains, artistes, cinéastes, architectes, musiciens d’hier ou d’aujourd’hui que ces instituts nous invitent à découvrir ou à redécouvrir - célèbres ou méconnus, déjà classiques ou contemporains, chacun d’eux jouant un rôle de passeur emblématique vers sa langue ou sa culture - nous rappellent que la langue et la culture françaises, dans ce qu’elles ont de singulier et peut-être de plus précieux, sont inséparables d’un dialogue avec l’autre, cet audelà de nous-mêmes que chacun à sa manière, dans le registre ou le mode d’expression qui lui est propre, nous désigne comme un indispensable horizon. Car nous avons besoin d’ailleurs pour être pleinement ici, comme nous avons besoin du rêve pour être pleinement lucides, un ici qui ne saurait se concevoir sans cette possibilité de dépassement ou de métamorphose que nous proposent leurs créations. Venus d’ailleurs, ils créent l’ailleurs en nous, y introduisent le doute, l’émerveillement, l’inouï ou l’inédit, et dans ce dépaysement intime, en «exaltant ce choc des divers» où Segalen voyait «la source de toute énergie», nous portent au devant de nous-mêmes en nous faisant plus intensément exister. Parce que la connaissance d’une langue est le plus sûr moyen d’accès à une culture, et qu’elle nous permet, lorsque la langue est le matériau de leur création, d’apprécier les oeuvres dans leur vérité propre, il était naturel que les instituts culturels étrangers à Paris saisissent l’occasion de la Journée européenne des langues, le 26 septembre, pour promouvoir l’offre de cours dont ils sont porteurs. Le Ministère de la Culture et de la Communication et le FICEP se sont associés pour proposer au public un «passeport pour les langues» et l’inviter ainsi à se laisser tenter par une initiation à une langue venue d’ailleurs. Dans un monde «global» où toutes les langues dialoguent, au moins virtuellement, avec toutes les langues, où les langues ont cessé d’être étrangères l’une à l’autre, les « langues d’ailleurs » sont aussi des « langues d’ici », dès lors que nous avons besoin d’elles pour dialoguer avec autrui. Les « créateurs d’ailleurs » nous parlent, d’eux-mêmes, de nous, dans une langue qu’il ne tient qu’à nous de faire nôtre. En les célébrant, la FICEP apporte un concours précieux à notre engagement en faveur de la diversité des langues et des cultures.

Renaud Donnedieu de Vabres Ministre de la Culture et de la Communication

Si Paris mérite le nom de Ville Lumière c’est qu’elle a su au fil des siècles accueillir la créativité du Monde, être le carrefour et souvent le refuge des penseurs et des artistes étrangers. Cette ouverture à l’autre, ce désir de rencontres et d’échanges fondent toujours, et j’en suis heureux, l’identité de notre capitale. Véritables ambassades de la création, les Instituts Culturels Etrangers sont, à Paris, des lieux essentiels d’ouverture sur le monde. Pour cette cinquième édition de la Semaine des cultures étrangères, ils invitent les Parisiens à découvrir ou mieux connaître les grandes personnalités dont l’oeuvre a façonné le XXème siècle. Redécouvrir l'oeuvre de Franz Kafka au Centre culturel tchèque, entendre la poésie de Pessoa à l’Institut Camões, celle de al-Baradouni au Centre culturel du Yémen ou encore écouter le compositeur russe Chostakovitch… Cette semaine est l’occasion magnifique de partir à la rencontre de trente-trois pays, trentetrois cultures qui nous sont étrangères et, en même temps, étonnamment proches et touchantes tant l’art est universel. Dans le temps du siècle dernier, dans l’espace des cinq continents, je vous souhaite un très beau voyage.

Bertrand Delanoë Maire de Paris

Festival Cinematografico di Venezia
Marco Bellocchio. Arriva a Venezia l'8 per ricevere il premio Bianchi del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani. Ha scelto di ripresentare alla Mostra Diavolo in corpo del 1986, un film che fece scandalo, avvio della collaborazione di Bellocchio con l'analista Massimo Fagioli. (da Panorama..it)