sabato 16 settembre 2017

il manifesto 16.9.17
Una nottata per Carmelo Bene
Evento. Piergiorgio Giacchè ha organizzato il 21 settembre a Perugia una festa di non-compleanno
di Gianluca Pulsoni

Per Carmelo Bene, oggi, bisognerebbe coniare una parola che valga come «doppio» del termine ricordo, qualcosa che chi scrive, per ora, non sa trovare. Ma la domanda è comunque chiara: in che modo relazionarsi con la «vita di un’opera» così accesa che nemmeno l’azione di alcune forti forme di oblio di questi anni – la sua morte avvenuta nel 2002; i problemi ancora in corso legati all’eredità, con tutti gli effetti – è riuscita a spegnere?
Una possibile risposta a tutto questo potrebbe magari venire partecipando all’incontro-evento organizzato da Piergiorgio Giacchè a Perugia per il 21 settembre.
Si tratta di un omaggio molto particolare al genio di Carmelo Bene – almeno per luogo, giorno, ideazione – e che vedrà la testimonianza di voci che sono state fra quelle più vicine al salentino, per esempio quelle di Luisa Viglietti, sua ultima compagna, e Jean-Paul Manganaro, suo studioso e traduttore francese. Ma non solo.
Si tratta anche di un’occasione ideale per fare il punto su, diciamo, la «situazione-Bene»: le cose fondamentali da leggere e vedere (per chi volesse una introduzione seria al suo lavoro); quello che si potrebbe ancora discutere e fare (per chi volesse fare i conti con la sua e la propria ricerca).
Nessun Bene
Nessun Bene è il titolo dell’evento perugino a cura di Piergiorgio Giacchè, l’antropologo studioso e collaboratore di Carmelo Bene. Per chi non lo sapesse, questo titolo rimanda a quello dell’ultimo saggio che lo stesso Giacchè ha scritto sul teatro dell’autore di Nostra Signora dei Turchi, pubblicato sul sito di Doppiozero. Cioè: è lo stesso titolo. Come a suggerire una continuità tra testo e contesto, una necessità di insistere su alcuni temi e questioni.
Nell’invito – in circolazione – si cita lo stesso Bene, «Non esisto, dunque sono. Altrove. Qui», e si legge quanto segue: «È questo il motto e il motivo di una serata a lui dedicata nel mese in cui – se fosse esistito – avrebbe compiuto ottanta anni.» Poi si parla dell’occasione come di un non-compleanno e si definisce la forma dell’incontro-evento una cir/conferenza composta di diversi contributi – ci saranno attori e musicisti a fare la loro parte, a circondare il discorso di Giacchè (una ripresa del saggio citato) – in una sede che sarà la Chiesa di San Bevignate, e cioè «un luogo particolare come l’antica chiesa dei templari accanto al cimitero monumentale, in modo che quelli che esistono si possano sentire per una volta vicini anche a quelli che sono», come si legge – sempre – nell’invito.
Ora, in tutto questo, due sono le possibili considerazioni da fare: cosa si ascolterà e vedrà; il senso dell’incontro.
In merito al primo punto, si può dire – genericamente – che ci saranno «testimonianze immemoriali e frammenti di opere e peccati di omissione da parte di chi crede di averlo visto e ascoltato e amato» (citazione dall’invito; il riferimento in questione è, ovviamente, Bene). Più nello specifico, invece, si può per esempio anticipare del lavoro di Silvia Pasello (attrice e regista) e Ares Tavolazzi (musicista, ex AREA) – fra gli attori e musicisti convocati – i quali presenteranno in prima ed unica un loro saggio o studio. «Alla mancanza di Bene», come suggerisce Giacchè. In questo lavoro i due interpreteranno ed eseguiranno, a loro modo, parte di testi scelti, selezionati e ritradotti da Bene per il suo «Concerto mistico di fine millennio», una prestazione che avrebbe dovuto tenere negli ultimi giorni del 1999 a Foligno o Perugia, con musiche di Gaetano Giani Luporini, su testi di un percorso da San Francesco a Maria Maddalena de’ Pazzi, passando per Angela da Foligno e Juan de la Cruz (per lo spagnolo c’è stata la ritraduzione). Oppure si può citare Michele Bandini – altro attore convocato – il quale leggerà dei testi inediti di Manganaro e Viglietti.
In merito al secondo punto, invece, l’attenzione può soffermarsi su quei riferimenti al mese della nascita e al non-compleanno citati. Perché questo? Perché la suggestione di Giacchè è quella di caratterizzare, in questo caso – ma dovrebbe valere sempre – l’idea di un omaggio che si centra attorno alla necessità di fare i conti con il lascito di un genio aggirando la messa in scena di manifestazioni fondate su routine e calendario, concretizzazioni di quel principio della rappresentazione contro cui Bene si è sempre battuto.
Riscoprire un classico
Uno degli effetti che l’occasione di Perugia si spera possa provocare può sicuramente essere quello di dare uno stimolo a coloro che oggi vogliono davvero scoprire o riscoprire il lavoro di Bene. Non c’è più lui sulla scena e però ci sono i film, i video, le letture, i libri, i testi. Molto è reperibile, non tutto subito assimilabile ma il gioco, in questo caso, vale la candela. Per questa ragione, magari, l’incontro-evento a cura di Giacchè può essere il via per uno studio supportato da alcune letture ideali di introduzione. Per esempio, si può prendere per le mani l’edizione delle Opere, pubblicata da Bompiani, e mentre si sfogliano e si leggono i romanzi, oppure le scritture teatrali, si potrebbe dare uno sguardo a quanto scriveva sul giovane Bene, a suo tempo, un genio come Ennio Flaiano. Da qui poi si potrebbe cercare in biblioteca o in rete quel capolavoro di libro critico che è Carmelo Bene: il circuito barocco, a cura di quello studioso eccezionale che fu Maurizio Grande. Una lettura per capire quanto il cinema del nostro sia, ancora, un mondo a parte. E poi, volendo, si potrebbe finire con la lettura della monografia di Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale. Ma in questo caso il consiglio è di prendere la seconda edizione, arricchita di un ultimo capitolo scritto postumo, e che delinea la ricerca de «l’ultimo Bene» – tra le lezioni di teatro, i Quattro momenti su tutto il nulla e la lettura de La figlia di Jorio (per citare tre gemme) – come nessun’altro.
L’altro possibile effetto che l’occasione di Perugia potrebbe offrire è quello di riprendere il senso della ricerca di Bene. Ne abbiamo davvero capito l’importanza? A ben guardare solo in minima parte. E forse solo nel teatro, dove c’è stata una assimilazione di certe sue conquiste da parte di alcune eccezioni. Ma non basta. Bisogna andare avanti. Quello che ha fornito Bene – se mai ci fosse un qualcosa in grado di racchiudere e sintetizzare tutte le sue scoperte – sono, se si vuole, i mezzi e le possibilità per sabotare continuamente la forma, il linguaggio, l’espressione: come tre modi di dire, da sempre, l’istituzione. Per arrivare alla «ricerca impossibile»: a non fare arte che sia rappresentazione e quindi a non rappresentare più l’arte. Un discorso che per forza di cose ha ricadute politiche. E se poi questo, in Bene, lo si vede più come una tentazione e non un compimento, ciò non vuol dire nulla. Come Nietzsche secondo Giorgio Colli, quello che conta è «l’immagine» che ci ha lasciato, l’immagine dell’uomo non piegato dal mondo. È la sola chance.
il manifesto 16.9.17
Molto più che la moglie di “Pepe” Mujica
Storie. Finiti i tempi in cui l’Uruguay si ammalava quando Argentina e Brasile starnutivano. L’ex guerrigliera Lucía Topolansky è la nuova vice-presidente del piccolo paese sudamericano. Ma l'«impasse dei governi progressisti» in America latina resta
Lucía Topolansky e José "Pepe" Mujica a Montevideo nel 2010
di Claudia Fanti

Il detto popolare secondo cui, quando Brasile e Argentina starnutiscono, l’Uruguay si ammala ha perso molta della sua efficacia. Mentre i due potenti Paesi vicini si dibattono in una crisi profonda, il piccolo Uruguay, forte della stabilità conquistata, è uscito praticamente indenne dallo scandalo di corruzione – in realtà ben poca cosa rispetto a tutto ciò che sta avvenendo in Brasile – che ha travolto il vicepresidente Raúl Sendic, figlio del fondatore del Movimento di liberazione nazionale Tupamaros, dimessosi di fronte alle accuse di appropriazione di denaro pubblico nel periodo in cui era alla guida della compagnia petrolifera statale Ancap.
A PRENDERE IL SUO POSTO è Lucía Topolansky, seconda più votata al Senato per il Frente Amplio dopo il marito ed ex presidente José “Pepe” Mujica, il quale però non ha potuto assumere la carica di vice per aver ricoperto la presidenza nella precedente legislatura. Prima donna a ricoprire tale incarico in Uruguay, Lucía Topolansky, soprannominata la Tronca, la dura, è sicuramente molto più che la moglie di Mujica, da lei conosciuto durante la sua militanza tra i guerriglieri tupamaros e sposato nel 2005 dopo una convivenza di vari anni in una piccola fattoria alla periferia di Montevideo.
Nata in una famiglia agiata della capitale – padre simpatizzante dell’ala più conservatrice del Partido Colorado (storico rivale del Partido Nacional o Blanco, prima che il Frente Amplio ponesse fine al tradizionale bipartitismo uruguayano) e madre profondamente cattolica – Lucía aveva compiuto il suo primo atto di ribellione quando era ancora al collegio, organizzando insieme alla sorella María Elia una sorta di sciopero contro i regolamenti eccessivamente rigidi imposti dalle suore del Sacre Coeur. Ma la vera ribellione l’avrebbe espressa a partire dagli anni trascorsi alla Facoltà di Architettura, frequentando le villas miseria di Montevideo e abbracciando la lotta di classe.
Lucía aderisce nel 1967, a 23 anni, al Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaros, entrando di lì a poco in clandestinità e diventando, malgrado la giovane età, una delle donne più combattive del movimento. È lì che conosce José Mujica, il «comandante Facundo», nato invece in un quartiere operaio e rimasto orfano a 7 anni.
ARRESTATA DALLA POLIZIA NEL 1970, riesce a fuggire pochi mesi più tardi insieme ad altre recluse passando per le fognature. Ma, nuovamente catturata nel 1972, resterà in prigioni per 13 lunghissimi anni, in condizioni durissime, subendo torture fisiche e psicologiche. Finché, tornata in libertà nel 1985, non partecipa attivamente alla fondazione del Movimiento de Participación Popular (Mpp), poi confluito nel Frente Amplio (la coalizione in cui convergono molte e diverse forze politiche, dalla sinistra marxista alle diverse espressioni socialdemocratiche, liberiste e cristiano-sociali) rappresentandone l’ala più a sinistra e anche quella più votata.
Diventata senatrice nel 2005, ha conservato la carica fino ad oggi, quando ha spiccato il salto verso la vicepresidenza della Repubblica. E in molti guardano proprio a lei come prossima presidente del Paese. Di certo, la Tronca, per quanto meno carismatica, gode in un certo senso della stessa aura del marito, l’ex guerrigliero – celebrato a livello mondiale per la sua onestà, la sua generosità e la sua austerità personale – convertitosi, dopo oltre 12 anni di durissima prigionia, due dei quali passati in fondo a un pozzo, al modello di un «capitalismo dal volto umano»: un patto di cooperazione capitalista tra imprenditori e lavoratori tradottosi, secondo i critici di sinistra, in uno dei più intensi processi di concentrazione in mani straniere della terra e della produzione agricola e dell’allevamento.
SOTTO IL GOVERNO DI MUJICA, l’Uruguay ha ottenuto, indubbiamente, molti e importanti risultati: crescita costante del Pil, aumento reale dei salari e delle pensioni, riduzione del tasso di disoccupazione, diminuzione dell’indice di povertà, più una serie di leggi all’avanguardia in materia di diversità sessuale (matrimonio omosessuale), riproduzione (legalizzazione dell’aborto) e droghe (legalizzazione della marijuana). Il tutto, però, nel segno di una politica della moderazione, dell’azzeramento del conflitto sociale mediante un discorso di conciliazione tra le classi, della rinuncia a realizzare riforme strutturali – ma garantendo programmi assistenziali a favore delle fasce più deboli e adottando provvedimenti nel campo dei diritti sociali e lavorativi – e del sostegno al modello estrattivista, attraverso l’espansione dell’industria forestale (piantagioni di pino ed eucalipto e di piante di cellulosa), della monocoltura della soia (maggioritariamente transgenica) e dell’attività mineraria. Attività economiche, tutte queste, che, oltre a un enorme impatto sugli ecosistemi, provocano un’intensa concentrazione di ricchezza.
UNA POLITICA DI COMPROMESSI, insomma, che si è ulteriormente accentuata sotto l’attuale governo del moderato Tabaré Vázquez, già presidente dal 2005 al 2010, a conferma di quella «impasse dei governi progressisti» più volte denunciata negli ultimi anni. Una parabola discendente che ha reso via via più evidenti i limiti del modello neodesarrollista (ed estrattivista) seguito da tali governi, i quali, se hanno avuto il merito di adottare importanti misure a favore delle fasce più povere, non sono riusciti però a ridurre il potere di espansione del grande capitale, mettendo fortemente in crisi quel ciclo progressista inteso come forza di trasformazione orientata a promuovere cambiamenti graduali.
Il Fatto16.9.17
Dieci mosse contro l’indipendenza catalana
Referendum contestato - Barcellona chiede al governo centrale di permettere la consultazione
Dieci mosse contro l’indipendenza catalana
di Elena Marisol Brandolini

Il presidente e il vicepresidente della Generalitat, Puigdemont e Junqueras, la presidente del parlamento Forcadell e la sindaca di Barcellona Colau hanno inviato una lettera a Rajoy e al re Felipe VI, appellando al dialogo per un accordo che permetta ai catalani di celebrare un referendum. In questi giorni il governo spagnolo ha messo in moto iniziative per boicottarlo.
Bilancio L’ultima è il commissariamento del bilancio della Generalitat. È la reazione del ministro delle Finanze Montoro alla lettera di Junqueras che gli comunicava che non avrebbe più trasmesso la relazione settimanale sulle spese correnti. Il ministro ha dato 48 ore a Puigdemont per un accordo sull’indisponibilità del bilancio catalano, pena l’assunzione da parte del governo centrale delle spese per retribuzioni, sanità, istruzione e servizi sociali. Il nuovo sistema prevede la comunicazione al ministero di tutti i crediti pendenti, di modo che sarà lo Stato a pagare direttamente i creditori della Generalitat e la certificazione dell’assenza di spese per il referendum.
Cariche istituzionali. Sono oltre 750 i sindaci indagati.
Cittadinanza. Rajoy ha avvertito i cittadini che, votando, incorreranno in un delitto. Le principali associazioni di magistrati hanno invitato la cittadinanza a disobbedire alla Generalitat.
Sui componenti dei seggi elettorali ricadrà il delitto di disobbedienza.
Giudici. Tribunal Constitucional, Fiscalía General e Tribunal Superior de Justicia de Catalunya funzionano come braccio giudiziario del governo spagnolo: il TC sospende le leggi (quella del referendum) e le altre due autorità (e loro ramificazioni) ne applicano il rispetto delle sentenze, con l’emissione di querele e divieti.
Informazione. Ci sono perquisizioni della Guardia Civil in tipografie e giornali, come El Vallenc, alla ricerca di materiale referendario. Chiuso il sito web del referendum della Generalitat; il TSJC ha ordinato alla Guardia Civil di redigere una lista dei mezzi d’informazione che hanno pubblicato la pubblicità del referendum.
Manifestazioni. Quelle collegate al referendum sono illegali e perciò passibili di proibizione, anche fuori dalla Catalogna, come a Madrid o a Vitoria, dove l’iniziativa è stata interrotta. Ora s’investiga l’atto di apertura di campagna degli indipendentisti a Tarragona.
Polizie. La Procura ha ordinato a Policía Nacional, Guardia Civil e Mossos d’Esquadra di requisire schede elettorali e urne. La polizia spagnola cerca volontari disponibili a trasferirsi in Catalogna per una ventina di giorni.
Reti. L’azienda delle poste Correos ha ordinato ai suoi impiegati di non inviare lettere con materiale referendario.
Schede elettorali. Vengono cercate nelle diverse tipografie con perquisizioni della polizia.
Urne. Anche queste ricercate dalla polizia con perquisizioni.
Il Fatto 16.9.17
Caro Fazio, è ora di dirci quanto incassi davvero
Importi misteriosi - Dopo mesi di attacchi, continua a rimanere vago sui dettagli del maxi-contratto (firmato per 4 anni) per il passaggio a Rai 1
di Selvaggia Lucarelli

Intanto facciamo a capirci. Per me, lo stipendio di Fazio, non è un problema moralistico. “Se glieli danno, fa bene a prenderseli.”, direbbe un mio zio genovese. Non soffro di invidia sociale, sono allergica a quest’atmosfera trotskista della serie “Gli italiani fanno fatica ad arrivare a fine mese e Fazio…”. Tra l’altro, tutti a porsi domande sullo stipendio di Fazio e nessuno che si ponga la vera questione: quanto guadagna Filippa Lagerback per dire “Grazie per essere stati con noi, ci vediamo domani”?
Dicevo, non è una questione moralistica. È solo una questione di onestà e trasparenza. Di domande che sono state poste, a cui sono state date risposte monche. E di tempi.
Cosa si aspettava Fazio, che in un momento in cui ai colleghi si chiede di tirare la cinghia, a lui la allungano di sei metri e tutti zitti? Caro Fazio, io direi che è venuto il momento di mettere a tacere voci e illazioni. Immaginati ospite del tuo programma. Immagina l’entrata in studio con applausi da stadio e un conduttore che inizia a incalzarti con domande ficcanti, dritte, asciutte e cazzute. Insomma, immaginati ospite del tuo programma, ma non intervistato da te. E se pensi che tutto questo accanimento debba finire (io penso che sì, qua e là ci sia anche stato dell’accanimento), se pensi che ci sia gente che merita delle risposte serie e puntuali, rispondi a queste domande:
1. Quando twittavi “In una tv che cambia bisogna assumersi nuovi rischi e nuove responsabilità. D’ora in poi vorrei essere produttore di me stesso” non ti sembra che mancasse un passaggio? Nuovi rischi, nuove responsabilità ma anche nuovi guadagni. Mica per altro, messa così pare che tu voglia produrre te stesso per patire, per spararti volontariamente nelle balle. No, tu ti autoproduci perché vuoi correre il rischio di floppare ma anche quello, eventuale, di comprarti una villa al mare. Non era più onesto dire che è un salto nel buio, ma pure nella piscina di Paperon de’ Paperoni?
2. Sei un uomo di sinistra, pare. Guadagni, per tua ammissione, 2 milioni e 240 000 euro l’anno. Quasi 9 per quattro anni. Sono tanti. È pieno di società di produzione esterne che hanno bisogno di lavorare, di stipendiare gente, di sopravvivere. Immagina se tutti i conduttori Rai decidessero che rimangono al timone del loro programma solo se possono autoprodurselo come hai fatto tu. Creando società nuove di zecca come la tua Officina (di cui sei socio al 50 per cento) . A parte il tono vagamente ricattatorio della faccenda, non trovi che a Marx, dall’aldilà, un pochino, ma solo un pochino eh, girino i maroni?
3. Il punto fondamentale è il tuo reale guadagno. Ci hai detto che come conduttore è di 2 milioni e 240 000 euro l’anno. È vero che, come scrive il deputato Pd Michele Anzaldi, ne guadagni altri 704 mila a stagione per i diritti del format? E perché ti dimentichi di dircelo? Te li pagano in buoni da Game Stop?
4. Ce lo spieghi il format di Che tempo che fa? Vorrei leggere la paginetta depositata alla Siae. Che so: “Il conduttore si siede a un tavolo, entra l’ospite, l’intervistatore lo intervista, finisce l’intervista, ne entra un altro. Finisce, ne entra un altro, poi un altro”. Praticamente è il format di una catena di montaggio. Fossi un figlio di Henry Ford io chiederei i diritti a te, altro che te alla Rai.
5. Ti sei dimenticato anche di dirci che guadagni dai diritti Siae (pare circa 400.000 euro l’anno) Eppure Aldo Cazzullo, che ti ha intervistato sul Corriere, te l’ha chiesto in un italiano comprensibile pure da Antonio Razzi. “Lei quanto guadagna?”. Una risposta onesta era, per esempio: “Da conduttore 2 milioni e 240 mila euro a cui naturalmente vanno aggiunti i guadagni dei diritti del format, della Siae e della produzione di cui faccio parte”. Cristallino. Pure se non specificavi le cifre. Altrimenti è un po’ come “Mi hai tradito?”. “Mai” (il limone in ascensore con la segretaria mica è tradimento). Ecco. Tanto i soldi della Siae, diritti e produzione mica sono guadagni pure quelli.
6. Veniamo alla produzione. (della tua Officina). Il programma costa 450.000 euro a puntata. Dici, sempre a Cazzullo, che costa meno di un varietà e di una fiction. E grazie. Una scrivania, qualche ospite, gli autori, Luciana Littizzetto e la Lagerback che dice “A domani!” e dovrebbe costare come Gomorra?
O tu e Massimo Gramellini cominciate a improvvisare delle finte sparatorie in studio o direi che ci sta che costi meno. Comunque 450.000 per 64 puntate l’anno sono 28 milioni di euro circa. Per 4 anni sono 115 milioni di euro. Se non vuoi dirci quanto è il tuo guadagno (ipotizziamo il 10%? Quindi potresti intascarti altri 11 milioni e mezzo in 4 anni), almeno non omettere questa voce.
7. Le 64 puntate sono 32 +32, ovvero 32 puntate da 3 ore la domenica e 32 da un’ora il lunedì sera. Come mai costa 450.000 mila euro anche la puntata da un’ora? Che succede in quell’ora? Trasmettete dalla stazione spaziale orbitante?
8. Inizialmente si diceva che la Rai guadagnasse con la pubblicità dal tuo programma. Ora hai dichiarato: “Il programma è pressoché totalmente ripagato dalla pubblicità”. Che è la versione moderna del mitico “Sono completamente d’accordo a metà col mister!” di garzyana memoria. Ma quanto e in che modo partecipa la Rai alla produzione del programma? Perché immagino che gli impianti, tanto per citare una delle tante voci che competono alla Rai, non te li caricherai tu sul furgoncino la mattina.
9. Sei passato a Rai1. Rai3 sostituisce Che tempo che fa con una mini-fiction che se va bene farà il 5%. Quindi non credo che venderà molta pubblicità in quello spazio. Sei ancora certo che la Rai, a guardare questa operazione nel complesso, ci guadagni o si ripaghi i costi? Sicuro sicuro?
10. E infine lo share. Hai detto che Rai1, nello spazio che vai a occupare, oggi fa una media del 15%. Però dichiari che anche fare il 13% con un programma di parole sarebbe un successo. A parte che non ho mai visto mettere così tanto le mani avanti neppure a Renzi quando ha detto “Le Regionali in Sicilia non sono un test nazionale”, Davide Maggio di davidemaggio.it fa notare che la media di rete in quello spazio è del 18%. Perché con i numeri – che si tratti di stipendio o di share – hai tutti questi problemi? Hai avuto il matematico Furio Honsell ospite fisso a Che tempo che fa, qualcosina avresti dovuto impararla.
11. E infine, la domanda più importante: ti serve mica un’autrice?
Il Fatto 16.9.17
“Milena deve fare la sua battaglia. Per i cittadini”
Nel 2003 Viale Mazzini chiuse il suo programma “Raiot” perché scomodo
“Milena deve fare la sua battaglia. Per i cittadini”
di Gia. Ros.

Milena Gabanelli si è auto sospesa dalla Rai perché il suo progetto di nuovo sito web è stato depotenziato. Prima di lei altri personaggi hanno dovuto combattere contro l’ostracismo di Viale Mazzini. Una di loro è Sabina Guzzanti che, nel 2003, si è vista chiudere un programma, Raiot, perché ritenuto scomodo.
Sabina Guzzanti, vede differenze tra le censure di allora e i comportamenti di oggi?
Quando nel 2001 sono cominciate le censure in Rai, l’opinione pubblica reagiva con forza. Il Paese pullulava di iniziative in difesa della libertà d’espressione. Allo stesso tempo tra gli addetti ai lavori, sui giornali e in televisione, l’atteggiamento era quello di minimizzare. Finché, com’era prevedibile, dopo aver fatto sparire gli elementi vistosamente scomodi, hanno fatto fuori anche quelli mediamente scomodi, poi quelli che magari avrebbero potuto diventare scomodi.
Cosa pensa del caso Gabanelli?
Gabanelli è una giornalista che stimo e a cui sono grata per l’ottimo lavoro. Se posso avanzare una critica, mi sembra che anche lei si possa annoverare tra quelli convinti di aver potuto lavorare in tv grazie a doti di equilibrio. Report ha sempre trattato con competenza e coraggio temi legati alle inefficienze, limitando al minimo argomenti più direttamente politici. Io credo invece nella necessità di una critica più radicale, anche su mafia e politica. Ora la Rai giustifica la marginalizzazione della Gabanelli sul piano del risparmio, per la questione della nuova testata informativa online. Il problema non sono i conti, ma il ruolo della cultura e dell’informazione in tv.
Esiste un modo per allontanare la politica dalla Rai?
Nel 2005 giravo in piazza San Giovanni per raccogliere le firme per una legge popolare per liberare la Rai dal controllo politico dopo la brutale chiusura del mio programma. Pensavo che al concertone del Primo maggio avrebbero firmato tutti e invece no, avevano paura. Molti giornalisti famosi rispondevano: ‘Ho già dato’. Veltroni si dimostrò sensibilissimo e poi scomparve. Questa stessa frustrazione devono averla sentita tanti, prima e dopo di me, e continuerà così finché non accadrà qualcosa che provochi una rivoluzione culturale in questo Paese.
Vede delle differenze tra la Rai berlusconiana e la Rai renziana?
La Rai renziana è più triste di quella berlusconiana, così come quella berlusconiana era più triste di quella democristiana. Dobbiamo rimpiangere Berlusconi? È come dire “si stava meglio quando c’era Bin Laden” perché l’Isis è più spaventoso di al Qaeda.
Vuole dare un consiglio a Milena?
Le direi di dare battaglia, ma che sia una battaglia politica, che difenda non solo i diritti dei giornalisti, ma il diritto dei cittadini a partecipare, a ricevere stimoli, a essere trattati da esseri umani non da polli in batteria.
Che stagione sta vivendo la tv pubblica? Come giudica la sua offerta televisiva?
Mi piacciono Iacona, Blob, Report. Ma l’offerta per l’intrattenimento è tarata su persone obbligate a stare a casa, come gli anziani. Contano su un pubblico prigioniero. Per cambiare ci vuole un’idea condivisa su cosa vorremmo fosse la società e la cultura. I discorsi sugli sprechi, sui bilanci, ma arrivo a dire anche sulla legalità, non sono utili a trovare una via d’uscita.
Il Fatto 16,9.17
Vigilanza Rai: il Pd (isolato) vuol fare melina su Gabanelli
Il caso - Sulla proposta dei 5Stelle di convocare la giornalista contrari solo i dem: “Non si può fare, chiamiamo i vertici”. Ma non è vero
Vigilanza Rai: il Pd (isolato) vuol fare melina su Gabanelli
di Gianluca Roselli

Convocare di nuovo Mario Orfeo e Monica Maggioni in commissione di Vigilanza. Così da schivare l’audizione di Milena Gabanelli. Questo è l’escamotage pensato dal Pd per evitare di ascoltare la giornalista in Parlamento, un’audizione che potrebbe mettere in imbarazzo il dg della Rai e il Cda di Viale Mazzini. E infatti sarebbero proprio i vertici della tv di Stato ad aver fatto arrivare in Parlamento il suggerimento a soprassedere: meglio evitare di portare in una sede istituzionale un caso che sta imbarazzando non poco mamma Rai ed è diventato il primo vero problema per il nuovo direttore generale.
La proposta di ascoltare Gabanelli è stata lanciata mercoledì scorso dalla deputata grillina Dalila Nesci, ma è stata respinta al mittente dai dem Vinicio Peluffo e Michele Anzaldi. Il problema, però, è che su questo tema il Pd è isolato: tutte le altre forze politiche presenti in Vigilanza, infatti, chi più e chi meno, sono favorevoli all’audizione. Quindi, se si dovesse arrivare a un voto, il partito di Matteo Renzi potrebbe trovarsi in minoranza. Anche se poi, sulle convocazioni in commissione, al voto non si arriva quasi mai e si trova un accordo prima.
A lanciare la proposta, dicevamo, è stato l’M5S. “Dopo tutte le polemiche e la decisione di Gabanelli di autosospendersi dalla Rai, oltretutto con un duro atto d’accusa verso i vertici, pensiamo sia doveroso affrontare la questione in Vigilanza, ascoltando la parte in causa”, fanno sapere dal movimento grillino. Alla richiesta, però, il Pd oppone un secco rifiuto. “In commissione non si affrontano casi singoli, altrimenti in passato avremmo dovuto ascoltare i vari Giannini, Giletti, Perego… Si creerebbe un pericoloso precedente. Inoltre l’audizione rischierebbe di metterebbe in imbarazzo la stessa Gabanelli perché la esporrebbe a ogni genere di attacco o critica”, osserva Anzaldi. Secondo cui “l’unico modo che la Vigilanza ha per affrontare il caso alla luce delle ultime novità (l’auto sospensione della giornalista, ndr) è quello di riconvocare i vertici: il dg Orfeo e la presidente Maggioni”.
Il problema è che però, così, si ascolterebbe solo la metà della storia. “In Vigilanza in questi anni si è convocato di tutto e di più. Inoltre Gabanelli non è giornalista o conduttrice semplice, ma è vice direttore di testata (Rainews, ndr). Quindi i motivi di opposizione del Pd non stanno in piedi”, osserva Maurizio Lupi di Ap. Su questa linea ci sono un po’ tutti. “Io non stravedo per la giornalista, ma sono favorevole alla convocazione: è sempre meglio ascoltare le questioni direttamente dagli interessati”, afferma il leghista Jonny Crosio. “Gabanelli è l’ultima vittima del controllo renziano sulla Rai. Penso che sia dovere della Vigilanza ascoltare perché una professionista seria e capace come lei abbia deciso di mettersi in aspettativa”, sostiene Fabio Rampelli di Fdi. Anche Pino Pisicchio, in rappresentanza del gruppo misto (terzo “partito” per numeri a Montecitorio), è d’accordo. “Il caso ha suscitato un tale clamore che mi sembra utile sentire tutte le parti in causa”, dice il deputato pugliese.
E Forza Italia? Renato Brunetta è un po’ recalcitrante, ma favorevole. “A patto però che, oltre a lei, vengano convocati tutti gli altri giornalisti e conduttori messi da parte, a partire da Nicola Porro”, osserva il capogruppo forzista alla Camera. Che aggiunge: “Io nutro forti dubbi sulla serietà deontologica della signora Gabanelli. Ma non c’è dubbio che sul caso del progetto web abbia subìto una scorrettezza. La si convochi, ma senza farne una Giovanna d’Arco”, aggiunge Brunetta.
La questione verrà riproposta in Vigilanza mercoledì prossimo. Sara interessante vedere se il Pd continuerà a fare muro oppure se cederà alle pressioni della altre forze politiche. Con buona pace di Viale Mazzini.
il manifesto 16.9.17
La minaccia dell’estrema destra islamofoba
Fenomeno in crescita. Un terzo dei casi seguiti dagli investigatori viene da questo ambiente. Alla fine delle inchieste sono stati arrestati 34 neonazisti, pari a circa l’8% del totale
di Guido Caldiron

La minaccia del terrorismo incombe sulla Gran Bretagna, viene soprattutto dai sostenitori dell’Isis, ma anche, in parte, dalla destra neonazista. In un clima politico sempre più velenoso.
A confermare che il terrorismo di estrema destra rappresenta un fenomeno in crescita sono prima di tutto i numeri. Il Prevent/Channel, il piano lanciato nel 2003 dal ministero degli Interni per monitorare il circuito dei possibili simpatizzanti della jihad, e prevenire eventuali attacchi, si occupa sempre più di frequente dell’estremismo razzista. Secondo i dati relativi all’ultimo anno, un terzo dei casi seguiti dagli investigatori viene da questo ambiente e alla fine delle inchieste sono stati arrestati 34 neonazisti, pari a circa l’8% del totale.
Come ha dichiarato un portavoce del Consiglio nazionale delle forze dell’ordine, «siamo impegnati a far fronte a tutte le ideologie che costituiscono una minaccia per la sicurezza, compresa quella dell’estrema destra». In realtà, ha replicato Miqdaad Versi, del comitato che riunisce le comunità musulmane, si tratta invece di un netto cambio di strategia, visto che la pericolosità di razzisti e islamofobi è stata a lungo sottovalutata. Del resto, più che per convinzione, le autorità sembrano aver mutato atteggiamento sulla scorta di quanto sta avvenendo.
È infatti solo della scorsa settimana la notizia dell’arresto di quattro militari sospettati di far parte del gruppo neonazista National Action, sciolto a dicembre dalle autorità, che si sospetta stessero preparando degli attentati contro i musulmani. Alla medesima formazione faceva riferimento anche Thomas Mair, il suprematista bianco condannato all’ergastolo per aver ucciso lo scorso anno la parlamentare laburista Jo Cox a pochi giorni dal voto sulla Brexit.
Intanto, alla metà di giugno, Darren Osborne, un 44enne di Cardiff, vicino all’ultradestra, si era lanciato contro la folla che usciva da una moschea di Finsbury Park, nel nord della capitale, ferendo 10 persone e provocando la morte di un anziano cardiopatico al grido di «morte ai musulmani». Allo stesso modo, in particolare dopo gli attentati jihadisti al London Bridge e al concerto di Ariana Grande a Manchester, le forze dell’ordine hanno rivelato un aumento di minacce e violenze anti-islamiche e razziste: di ben 5 volte superiori al passato nella zona di Londra e addirittura del 500% nell’area della Grande Manchester. A Bradford, nello Yorkshire, alcune lettere anonime hanno annunciato dei prossimi attacchi con l’acido contro i musulmani. Spesso le minacce e le aggressioni per strada hanno coinciso con le manifestazioni organizzate nelle stesse zone dall’English Defence League e da Britain First, le due più attive organizzazioni politiche legali anti-islamiche e nazionaliste.
Inoltre, desta inquietudine il supporto che i gruppi estremisti, oltre mille iscrizioni arrivate durante l’estate, stanno offrendo alla candidatura di Anne Marie Waters, già fondatrice di Sharia Watch, associazione apertamente islamofoba, per la guida dello Ukip dopo le dimissioni di Paul Nuttall, tra i successori di Nigel Farage alla guida del partito. Una vittoria di Waters offrirebbe agli estremisti una platea e una sorta di legittimazione.
«Il problema di fondo – segnala lo storico dell’Università di Northampton Paul Jackson, tra i maggiori studiosi dell’estrema destra locale – è che l’islamofobia sta progressivamente prendendo il posto dell’ideologia del nazionalismo bianco presso i gruppi radicali e diventa sempre più spesso l’alibi per un passaggio alla violenza anche in virtù della banalizzazione di cui ha goduto fino ad ora nella nostra società».
Repubblica 16.9.17
Stoccolma
La marcia nera che evoca Charlottesville
di Andrea Tarquini

IL COMPIANTO Stieg Larsson, oltre a regalarci la saga Millennium, fu sempre in prima linea per ricordare al Grande Nord e al mondo che anche dove meno te lo aspetteresti lo spettro del neonazismo si aggira vivo e minaccioso. Appunto sta accadendo nella civilissima Svezia. Dove gli ultrà dichiaratamente razzisti e antisemiti del Nordic resistance movement preparano per il 30 settembre una marcia nel centro di Göteborg, seconda città del paese e location di eccellenze quali Volvo o Hasselblad. È una sfida pericolosa, cui le autorità sembrano impreparate. Perché i neonazisti “vichinghi” vogliono sfilare per il centro, anche davanti alla sinagoga centrale di Göteborg. E perché il giorno del 30 settembre nel nostro calendario coincide con la festività ebraica dello Yom Kippur. Il rischio di incidenti e violenze insomma è preprogrammato. Si moltiplicano gli appelli alle autorità a ripensarci, ma finora sono rimasti inascoltati. Parlando a Sveriges Radio, l’emittente pubblica nazionale, si è mosso parlando per tutti gli intellettuali e i Vip democratici del paese Staffan Forssell, presidente dell’autorevole Kulturradet, il Consiglio nazionale delle Arti. Ma dalla polizia di Göteborg ha ricevuto una risposta che ha ritenuto deludente: «La libertà di espressione e manifestazione vale per tutti, anche per il Nordic resistance movement ». Peccato, cara Svezia, ce lo saremmo aspettati a Charlottesville ma non da te.
Repubblica 16.9.17
Una sola pensione la riforma credibile
di Sergio Rizzo

NON è passato giorno in parlamento senza che la faccenda dei vitalizi abbia alimentato onorevoli colluttazioni. In un crescendo sgradevole fino alla scadenza fatidica del 16 settembre.
MARTEDÌ il colpo di freno della maggioranza alla legge Richetti per tagliare gli assegni già in essere, all’ombra di una presunta incostituzionalità. E l’inqualificabile gesto dei due proiettili recapitati al deputato di Rivoluzione cristiana Gianfranco Rotondi, fermamente contrario al taglio dei vitalizi. Mercoledì la sconcertante vicenda del democratico Vincenzo Cuomo eletto sindaco di Portici ma rimasto abbarbicato al seggio del senato fino al giorno fissato per la maturazione del vitalizio: oggi 16 settembre, appunto. E ieri la durissima reazione dei parlamentari 5 stelle, con il provocatorio annuncio di voler rinunciare al privilegio.
Nella poco edificante piega che ha preso la battaglia politica in questo Paese i vitalizi vengono utilizzati come clava da uno schieramento contro l’altro, e anche all’interno del medesimo partito da una corrente contro l’altra. In una contesa che finisce per opporre, dietro il velo ipocrita di motivazioni tecniche oppure morali, la strenua difesa di assurde prerogative non più tollerabili alla demagogia fine a se stessa.
A questo non saremmo mai arrivati se la classe politica avesse affrontato per tempo e con serietà una questione ineludibile da molti anni. Il fatto è che l’istituto del vitalizio è andato perdendo via via le caratteristiche di baluardo a difesa dell’autonomia degli eletti che ne avevano ispirato l‘introduzione nel 1954, trasformandosi progressivamente in un privilegio pensionistico sempre più incomprensibile anche alla luce delle condizioni della maggioranza dei pensionati italiani. Anziché prenderne atto e agire di conseguenza, i partiti hanno pensato soltanto a tutelare quanto più possibile lo status quo. E quando sono stati costretti a intervenire l’hanno fatto tardi e male.
La risposta all’ondata di indignazione già levatasi da un decennio è stata la decisione di ricondurre il regime dei vitalizi, a partire dal 2012, nell’alveo dei trattamenti previdenziali contributivi. Però con significative differenze rispetto a quelli in vigore per i comuni cittadini. Basti dire che un ex parlamentare oggi a 65 anni di età può andare in pensione con soli cinque anni di contributi versati. Sarà pure contributivo, ma è indiscutibilmente un privilegio, che si somma ad altri privilegi ancora più sostanziosi mai sfiorati.
Nessuno, per fare un esempio, ha mai pensato di mettere in discussione la cumulabilità degli assegni. Con la conseguenza che chi ha avuto la fortuna di avere più vite politiche porta a casa altrettanti vitalizi. Sono circa 300 gli ex onorevoli che cumulano il vitalizio parlamentare con quello regionale, superando di slancio in qualche caso gli 11 mila euro netti al mese. Non bastasse, ai trattamenti corrisposti dalle Camere e dalle Regioni gli ex parlamentari possono sommare anche la pensione, in moltissimi casi pagata da noi con i cosiddetti contributi figurativi.
Chi viene eletto ha diritto a vedersi accreditare gratis per tutta la durata del mandato la fetta più grossa dei contributi previdenziali relativi all’attività lavorativa che ha sospeso. Uscendo dal parlamento avrà in questo modo diritto, oltre al vitalizio, anche alla sua pensione ma pagata quasi tutta dalla collettività. Un tempo l’intera contribuzione era a carico della previdenza pubblica, finché nel 1999 qualcuno tentò di cambiare le cose obbligando gli onorevoli che intendevano maturare la pensione a versarsi i contributi, pari di regola al 33% della retribuzione prevista. Ma passò alla chetichella un emendamento che limitava l’obbligo alla sola quota di competenza del dipendente. Da allora la pensione si porta a casa pagando l’8% di tasca propria mentre il restante 25% è sempre a carico dell’Inps o degli altri enti. Ci sono attualmente 2.117 ex onorevoli che cumulano uno o più vitalizi alla pensione, 1.323 dei quali l’hanno maturata proprio con i contributi figurativi.
La conclusione è che l’unica riforma sensata, condivisa anche dal presidente dell’Inps Tito Boeri, è quella mai presa in considerazione per ragioni intuibili. Addirittura elementare: trattare il mandato elettivo alla stregua di un normale periodo della vita lavorativa, convogliando i contributi relativi in un’unica posizione previdenzialeper spazzare così via cumuli e pagamenti figurativi. Al raggiungimento dell’età l’ex parlamentare avrebbe in questo modo una pensione contributiva dignitosa. Però una sola, come ogni comune mortale, invece di tre o quattro. Di cui qualcuna addirittura regalata.
Quanto al passato, anche qui se solo i politici l’avessero voluto sarebbe stato possibile intervenire da tempo per mettere fine a certi scandali legalizzati senza fare una legge che rischia di non produrre nulla sbattendo contro la censura costituzionale. I modi sono tanti. L’ha spiegato bene su queste colonne Michele Ainis: purtroppo però, temiamo, un’altra voce nel deserto.
Il Fatto 16.9.17
A scuola lo smartphone non basta
Nuovo anno - Cara ministra Fedeli, i ragazzi già sanno come usarlo ma non come leggere i classici
A scuola lo smartphone non basta
di Angelo Cannatà

Primi giorni di scuola al liceo. Osservo e prendo qualche appunto. Innanzitutto le aule. Piccole, brutte, sovraffollate. Gli edifici pericolanti e gli ambienti angusti in cui si fa lezione sono, nonostante slide e proclami governativi, terribilmente identici al passato. Le carenze strutturali rendono difficili le innovazioni: copiamo “modelli didattici” dai Paesi anglosassoni (prevedono aule-laboratorio, spazi multimediali, biblioteche in classe) ma non abbiamo strutture adeguate.
Mancano aule, laboratori, professori; e i presidi devono dirigere più scuole, spesso molto distanti tra loro. Si fanno corsi sulla sicurezza invece di mettere in sicurezza gli edifici; si nominano supplenti per simpatia (e amicizia) invece di seguire una graduatoria; si pongono barriere (24 crediti) per l’accesso ai concorsi invece di aprirli a tutti i laureati.
Adesso si discute – come fosse un’urgenza – degli smartphone: “Non si può separare il mondo dei ragazzi – dice la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli – da quello della scuola”. Gli smartphone possono anche essere utili, certo; il problema è capire quanto peso debbano avere in classe, se possano invadere (fino a devastarli) i tradizionali spazi d’insegnamento e se compito del docente sia educare al loro corretto uso, o altro. Io credo che l’insegnante abbia altre priorità: leggere i classici ad alta voce in classe; spiegarli; richiamare il contesto; la critica; dare agli studenti spunti ermeneutici per una loro, personale, lettura del testo. Leggere l’Elogio della follia, il Simposio, Al di là del bene e del male
… sentire Erasmo, Platone, Nietzsche dalla voce dell’insegnante è un’esperienza unica che solo la scuola può dare. “C’era una volta un Paese dove l’insegnante faceva lezione. Latino, greco, filosofia… si studiavano con passione. Era la buona scuola del passato. Formava persone. I migliori medici, ingegneri, giuristi, che occupano posizioni di rilievo nell’Italia di oggi, hanno studiato nella vecchia scuola di una volta; sono affermati professionisti ma ricordano il liceo: la severità e la comprensione; il silenzio, quando a parlare erano i classici, mediati dalla voce dell’insegnante. Ricordo il timbro, l’intercalare, le pause, puntuali, precise del mio professore d’italiano. Una presenza che ha avuto un ruolo nella mia vita”. Mi scuso per l’autocitazione, ma quando leggo della necessità dello smartphone in classe sento che si esagera. E’ vero il contrario, cara ministra Fedeli, proprio perché smartphone telefonini eccetera sono la quotidianità dei ragazzi, la scuola deve offrire altro: strumenti critici, motivazione, passione per i libri, veicolati dalla parola dell’insegnante, da quella corrente emotiva che Gentile riteneva essenziale nel rapporto docente-discente. La scuola gentiliana è criticabile, certo, per il carattere elitario; ma il filosofo coglie il punto quando osserva che il docente “rivive e trasfigura nel vivo fuoco dell’atto di insegnare i contenuti delle discipline” (altro che smartphone!). Ci pensi, ministra, prima d’introdurre una novità che cambia il senso della lectio in classe. Non ho nulla contro la tecnologia. Oggi, però, si tratta di capire se la scuola debba educare alla riflessione, alla profondità, o veicolare l’accettazione superficiale e supina dell’esistente abbellita dalle immagini a colori di uno smartphone.
Repubblica 16.9.17
La provocazione di un dirigente di Bologna “Usate lo smartphone, lo dice pure la ministra”
Il decalogo alla rovescia del preside ai suoi liceali “Copiate e non studiate”
di Ilaria Venturi

BOLOGNA. «Cari ragazzi, considerate sempre i vostri docenti come nemici, copiate, evitate di fare i compiti a casa, tanto fior di pedagogisti vi dicono che sono inutili». E usate lo
smartphone «durante le noiose ore di lezione, persino la ministra Fedeli ha detto che è consentito». Non sono battute stampate sui diari più irriverenti, né scherzosi suggerimenti che viaggiano sui social. Sono i consigli di un preside ai suoi studenti all’avvio delle lezioni. Consigli al contrario, ovviamente.
È Maurizio Lazzarini, dirigente del liceo scientifico Fermi di Bologna, a proporre una nuova provocazione. L’anno scorso aveva tirato le orecchie ai genitori dettando loro dieci mosse per mettere ko la scuola. Un escamotage letterario per sollevare il problema del rapporto sempre più conflittuale con le famiglie. Quest’anno si rivolge agli studenti con un nuovo decalogo alla rovescia e la stessa ironia. Ma un’avvertenza: «Se lo seguirete non farete fallire la scuola». Sarà peggio: «Fallirete voi».
La chiave è la stessa e ruota intorno all’idea di una scuola vissuta come un campo di battaglia. Padri e madri contro i presidi. I loro figli contro i prof. Su tutto: voti, troppi o pochi compiti, bocciature. «Ma se questo è l’atteggiamento sono i ragazzi a farne le spese, più che la scuola. Per questo ho pensato stavolta di rivolgermi a loro», osserva. Ieri Lazzarini ha consegnato alle sue “matricole” la Costituzione e insieme ha anticipato, recitandole davanti a 320 facce adolescenti e attonite, le dieci mosse, postate poi nel sito del liceo per tutti i 1500 studenti, per vivere l’esperienza tra i banchi. Sottintendendo, in modo sbagliato. Abituato al rapporto stretto coi suoi ragazzi, tanto che dà a tutti il suo numero di cellulare, Lazzarini ha così voluto scuoterli. «Il primo punto li riassume tutti: considerare i prof come nemici. La parola è forte, ma volevo farmi capire: siamo una comunità. Non devono esistere controparti». Sulla valutazione si consumano i maggiori scontri. «Non accettate voti e consegne, trattate fino allo sfinimento o vostro o dei prof», è allora l’altro consiglio che il preside dà. Per poi spiegare: «Chiedere ragione di un voto è un loro diritto, ma il voto non è frutto di una negoziazione sindacale. Invece i ragazzi conoscono benissimo la pragmatica della comunicazione, vanno continuamente alla trattativa e con qualche insegnante funziona pure». Sempre al contrario, viene suggerito dunque di «togliere valore al registro elettronico», di «evitare il più possibile i colloqui dei genitori coi prof, tanto si sa, non si capiscono ». Il capitolo studio tocca polemiche recenti. I compiti a casa: «Tutt’al più copiateli la mattina stessa». In realtà l’argomento è serio: «Da maestro alla primaria non ho mai dato compiti, ma al liceo la rielaborazione individuale è necessaria». Con garbo istituzionale, Lazzarini ironizza sullo sdoganamento dei cellulari in classe: «Devono essere i docenti a decidere se e come usarli». Il resto va a colpire antichi vizi: ritardi («la scuola è lunga, prendetevela con comodo»), scopiazzature («durante le verifiche copiate le risposte») e il ridursi all’ultimo («studiate solo il giorno prima delle verifiche, se poi non siete pronti state a casa»). Il consiglio numero dieci ha strappato applausi: «Quando non sapete più cosa dire, urlate: vado dal preside!». Lazzarini sospira: «Magari coi ragazzi funziona». Invece come è andata a finire coi genitori? No comment, scatta una risata.
Il Fatto 16.9.117
Panico
“Si ha più paura di essere contagiati che di ammalarsi”
di Antonello Caporale

“Tutti i barconi di migranti sono pieni di scabbia. Mai un cardiopatico che scappi dalla fame e si ritrovi a bordo di un gommone” dice Andrea Carlino, storico della medicina all’Università di Ginevra.
Nell’età della paura, la gente sbarca insieme alla malattia che infetta.
Un sovraccarico di pathos dovuto al circuito mediatico che inanella singoli casi e – cucendoli uno a uno – fa assumere loro una stazza che non sempre rappresenta la giusta misura del problema.
Lei insegna ai medici la storia della medicina, il cursus honorum delle singole malattie.
Quelle contagiose sono sicuramente le più angoscianti, e prescindono dalla capacità di incidere sulla nostra condizione, sulla nostra abilità di resistervi e affrontarle.
Come in un sequel romanzato, con i barconi è iniziato il tam tam dell’allerta sanitaria.
La povertà riduce le difese e alimenta i danni fisici. L’Africa nera si associa naturalmente al tema del contagio. Da una condizione reale di malessere però si giunge, attraverso la propalazione di notizie cospicuamente sovradosate, all’incubo di stare per finire nel cerchio di fuoco della morte.
Due anni fa era ebola. L’Occidente vigilava nell’ansia sulle frontiere del contagio.
Ebola, sì. E prima come non ricordare l’Aids.
O la tubercolosi.
La tubercolosi ci riporta all’età della nostra migrazione, al secondo dopoguerra, alla nostra povertà non ancora superata. E la tubercolosi non aggrediva soltanto le case dei poveri, degli affamati, ma si dirigeva anche ai piani alti della società.
Ogni giorno ascoltiamo notizie circa malattie definitivamente debellate che, come un mostro marino, si riaffacciano sulle nostre coste grazie ai barconi.
Di malattie debellate ce n’è soltanto una ed è il vaiolo. C’è certezza che il virus sia azzerato. Ma il vaiolo, per dire, non è un sorvegliato speciale soltanto da un punto di vista sanitario. È divenuta un’arma militare. Le guerre si fanno non soltanto con i missili, ma anche con la chimica e i batteri. E depositi del virus si trovano negli Usa e in Russia.
Il nord del mondo adesso si difende dal sud facendo rivivere il tempo delle infezioni. Sembra una regressione nei primi anni del Novecento.
Si riferisce alla malaria?
Ecco, spuntata la malaria. Come se nessun caso fosse esistito prima di quegli sbarchi.
È il circuito mediatico ad avere la mano potente.
È il potere che se ne serve per trasformare e manipolare. Oppure la politica per fare propaganda.
Ho visto che da qualche giorno c’è la zanzara Chikungunya.
Oggi a Bolzano un caso di tifo.
Il tifo noi italiani l’abbiamo conosciuto molto bene.
Il virus non ci contagia soltanto, la malattia non ci fa unicamente ammalare. Esiste la suggestione, la drammatizzazione, la teatralizzazione del fenomeno.
La drammaturgia del contagio. È il quid che altre patologie non hanno.
E autorizzano un sovrappiù di eccitazione.
Esistono atti terapeutici della medicina che compongono una scena perfettamente teatrale. Pensi alla sala operatoria. L’intervento si sviluppa in una cornice di movimento. Si potrebbe definire una recita a soggetto.
C’è recitazione in sala operatoria?
Sì, anche recitazione. Sto studiando la spettacolarizzazione di pratiche terapeutiche come il tarantismo (prende il nome dalla taranta salentina, ndr). C’è tutto un rituale.
Esiste la potenza del messaggio virale.
Per prendere dalla cesta solo una delle tante malattie: la tubercolosi è simbolicamente potentissima.
Il Fatto 16.9.17
Era necessaria la legge contro i nuovi fascismi
di Walter Verini

Sono stato co-firmatario e relatore della proposta Fiano contro l’apologia di fascismo. Non si tratta di una norma contro i “nostalgici dell’orbace”, acquirenti di gadget del Duce a Predappio o in qualche mercatino. Non si prevedono sanzioni contro chi produce, vende e acquista queste chincaglierie da Fascisti su Marte. Così come – ovviamente – non si colpiscono in nessun modo la ricerca storica, le opinioni, le manifestazioni di pensiero. A questo pensavano e pensano fascismi e autoritarismi di ogni genere, di ieri e di oggi.
E non si fa naturalmente riferimento a monumenti, simboli storici o architettonici dell’epoca. Che stanno lì. Che nessuno buttò giù dopo il 25 aprile 1945 e che nessuno può demolire o cancellare. Perché allora questo provvedimento? Perché è necessario adesso. Leggere “Ebrei ai forni”, su un muro o con la violenza della Rete, è cosa di oggi. Chiediamoci cosa possono provare Sami Modiano, Nedo Fiano, Piero Terracina, le sorelle Bucci, davanti a queste scritte. O figli e nipoti di migliaia di ebrei italiani massacrati nei campi di sterminio. O di oppositori del regime mandati in carcere, al confino, in esilio. Nell’estate abbiamo assistito a ronde punitive contro i migranti, a discriminazioni contro omosessuali. A proprietari di locali o organizzatori di gare che non assumono o escludono ragazze e ragazzi perché di pelle diversa da quella bianca. In questo periodo, facinorosi di estrema destra hanno invaso le istituzioni, come a Milano, dato vita a raduni di chiara ispirazione neofascista e neonazista. O intimidito sacerdoti che avevano accolto e portato in piscina ragazzi di pelle nera. Gli incendi alle Sinagoghe in giro per l’Europa (in Italia siamo ancora “solo” alle scritte antisemite) sono cronaca di questi mesi. E a Utøya, 81 ragazzini sono stati ammazzati appena qualche anno fa da un neonazista sano di mente. E la Rete, che non esisteva ai tempi della legge Scelba del 1952, moltiplica esponenzialmente queste espressioni di odio, violenza, discriminazione, sopraffazione. La legge del 1952 e la legge Mancino non coprono tutta la potenzialità del reato. La legge Scelba non sanziona apologia e reati simili se non finalizzati alla ricostituzione del Partito fascista.
Ecco, quindi, l’esigenza di istituire un reato specifico, per colpire la propaganda di queste aberranti teorie antidemocratiche, collegata purtroppo a precise condotte, a fatti attuali e pericolosi. Si sostiene che neofascismi e neonazismi non si colpiscono con i codici ma con una grande battaglia sociale, culturale, ideale. E facendo funzionare bene la democrazia, facendola amare davvero ai cittadini. Giusto.
Ma facciamo un parallelo, con lotta contro le mafie: anche qui la battaglia è innanzitutto sociale, culturale, di diffusione e pratica di cultura delle regole e della legalità. Ma questa consapevolezza non ha impedito di approvare anche leggi e norme antimafia (dalla Rognoni-La Torre al 41-bis fino alla prossima approvazione del Codice Antimafia e Riforma dei beni confiscati) che hanno svolto un ruolo fondamentale nel contrasto alle mafie. “Ci sono ben altre priorità!” ci hanno detto in questi giorni. Beh, in questa legislatura questo Parlamento e i governi ne hanno affrontate e ne stanno affrontando tante (al di là del giudizio di merito che ognuno può dare sulle risposte). Si diceva: “Altre sono le priorità” anche quando dovevamo approvare la legge sulle unioni civili. Ma il rispetto dei diritti e della dignità delle persone, mi chiedo, non sono una delle priorità?
Il Fatto 16.9.17
Lo sdegno per gli stupri? Dipende dalla nazionalità
di Furio Colombo

Caro Furio Colombo, il giorno dopo lo stupro, disgraziatamente autorevole e italianissimo, delle due ragazze americane a Firenze, ho sentito ripetere elenchi di stupri in cui gli italiani non compaiono mai come colpevoli. Eppure ogni commissariato di P.S. e ogni stazione dei carabinieri hanno abbondante materiale di denunce quasi solo italiane. Capisco il falso politico, ma i media?
Fiorenza

Giorni fa (dopo i quattro africani e prima dei due militari italiani) ho sentito, fra l’incrociarsi di varie fonti di notizie sulla frequenza del reato di stupro, questa sorta di statistica: il 60% delle denunce sono a carico di italiani, il 40% sono contro “stranieri” (che non vuol certo dire scandinavi). Il reato di cui stiamo parlando è sempre odioso, sempre intollerabile. Ma, così come è stata detta, la statistica è vistosamente falsa. Lo è perché qualunque fonte di avvocatura, magistratura e polizia ci dice (e ci ha detto da molto tempo) che i reati di stupro fra bianchi vengono denunciati in un numero esiguo di casi, compresi quelli di giovanissime di cui si vuole evitare lo choc di raccontare in pubblico, e certamente resta oscurata la gran parte degli stupri domestici. Al contrario, gli stupri di cui sono o si ritengono responsabili gli stranieri risultano denunciati con il massimo della pubblicità, a cui si aggiunge un sostenuto coro popolare di sdegno che non riguarda mai i casi “comuni”. Ricordate quando, commentando stupri italiani, si discuteva, anche in Parlamento, sul modo di vestirsi e di comportarsi delle donne (viste, anche da alcuni deputati come “la causa” della violenza) al punto che la on. Mussolini si è presentata in aula indossando jeans aderenti, per protesta contro la sentenza di un giudice troppo benevolo con uno stupratore locale? Viene subito riservata una rigorosa e dettagliata intransigenza sulla gravità del reato di stupro non appena si accerta che sia stato compiuto da un immigrato (a volte si aggiunge: “Proprio loro, che dovrebbero esserci grati…” come se si discutesse di maleducazione) e la narrazione del fatto viene ripetuta per giorni, mettendo sempre più in evidenza il dato della provenienza dall’Africa. Chiede la lettera al “Fatto”: perché i media, giornali e Tv, stanno al gioco? Ci stanno perché sono parte di un fenomeno che ormai si nota chiaramente e si sta estendendo in Italia: i cittadini normali (incerti, perplessi, indignati a volte, ma non razzisti) hanno paura non degli immigrati ma dei razzisti, lungo tutto l’arco che va dalla Lega alle pattuglie di Forza Nuova e di Casa Pound. Hanno ragione di avere paura. Il capo della Lega (non è dato di sapere perché) viene trattato come titolare di un potere che non corrisponde al suo partito di media grandezza e di incerta tenuta. In ogni fonte di notizia il leghista è sempre l’interlocutore principale di chi difende i migranti, come se parlasse a nome di mezza Italia. Le varie fazioni fasciste, benché piccole (forse apparentemente piccole, dato il disinvolto uso nell’esibire i loro caratteri fascisti) si comportano come se non ci fossero prefetti e questori nei luoghi in cui portano il loro circo Mussolini. E celebrano liberamente un assassino. Gli altri partiti si astengono, e in tal modo i cittadini vengono raggiunti da un unico segnale: è chiaro che leghisti e fascisti possono fare quello che fanno. Quando non è possibile stare alla larga, meglio dargli ragione. E così la paura dei cittadini normali verso i razzisti si allarga. Erano il 75%, un anno fa, coloro che rifiutavano di essere stupidi e crudeli. Adesso sono il 40. Il Papa sembra avere perduto i parroci ed è diventato cauto. Non ci aspetta una Italia migliore.
il manifesto 16.9.17
Minniti continua ad «aiutarli a casa loro»: missione nel sud della Libia
Libia. Per Minniti la nuova missione è una «questione più importante del controllo delle acque territoriali, perché il confine sud è importantissimo sia per il contrasto ai trafficanti di essere umani sia per il contrasto al terrorismo»

Un incontro al Viminale per confermare la partenza di una nuova missione – finanziata dalla Ue – ai confini meridionali della Libia  con gli obiettivi principali di realizzare una base logistica per le attività operative della Guardia di confine e di prevedere un’adeguata presenza delle organizzazioni delle Nazioni unite.
LA NUOVA MISSIONE fa parte dell’attuazione del «Memorandum Italo-Libico», per il quale ieri si è svolto un incontro a Roma cui hanno partecipato oltre a Minniti, l’ambasciatore italiano a Tripoli, Giuseppe Perrone, A.H Elmaghur, incaricato d’affari presso l’Ambasciata di Libia in Italia, il ministero della Difesa, il Comando generale del Corpo delle Capitanerie di Porto, del Comando generale della Guardia di Finanza. Secondo una nota del Viminale «si è concordato di sostenere l’impegno della Libia nel controllo dei confini meridionali, anche attraverso un progetto italiano con gli obiettivi principali di realizzare una base logistica per le attività della Guardia di confine e prevedere un’adeguata presenza delle organizzazioni delle Nazioni unite sul territorio». Una base transitoria, almeno a parole, destinata a impacchettare nelle mani italiane la Libia.
NON SI FERMA dunque l’azione del ministro degli interni Minniti, proprio mentre il suo memorandum viene denunciato come illegale dai radicali italiani. Nel mirino l’accordo con «il governo di Sarraj e il ricercato Ahmad Dabbash, indicato dalla stampa come capo di violenti gruppi armati e, al momento dell’accordo, come uno dei principali responsabili del trasporto dei migranti in mare».
PER MINNITI la nuova missione è una «questione più importante del controllo delle acque territoriali, perché il confine sud è importantissimo sia per il contrasto ai trafficanti di essere umani sia per il contrasto al terrorismo»

Il Fatto 16.9.17
Bonino: “Il tappo alla Libia non può tenere”
Immigrati - La radicale torna a criticare Minniti alla festa del Pd: criminalizzate ma ora le vanno a cercare
di Luciano Cerasa

“Siamo alla festa del Pd e so bene che qui ci si divide tra fan e acerrimi nemici di Marco Minniti, ringrazio che ci sia data la possibilità di discutere”. Il senatore Luigi Manconi mette subito i piedi nel piatto dal palco nello spiazzo dell’ex mattatoio di Testaccio a Roma. In programma la presentazione del suo libro “Non sono razzista ma…” scritto a 4 mani con la giurista Federica Resta.
È una serata già scivolata nell’autunno, a Roma e accanto agli autori rabbrividisce, stretta in una giacca prestata da un militante, Emma Bonino. “Meglio darsi una regolata, oggi abbiamo messo un tappo alla Libia ma attenti perché non è impermeabile e non tiene: ieri abbiamo dovuto richiamare due navi delle tante vituperate Ong per raccogliere 371 persone in mare, dopo che abbiamo passato mesi per distruggere la loro credibilità e adesso le cerchiamo pure per andare nei centri di accoglienza libici” attacca l’esponente radicale, tornando a criticare la politica dei respingimenti messa in pratica dal ministro degli Interni Minniti. Bonino distribuisce però equamente le responsabilità a destra, a sinistra e anche al Movimento 5 stelle: “Tra poco ci sono le elezioni ma attenti che la gente vota l’originale, non la caricatura” avverte con un chiaro messaggio al Pd. La questione dell’immigrazione “non è solo politica, se non stiamo attenti il razzismo penetra dentro ciascuno di noi a cominciare dai giovani che colgono quello che dice Salvini tutti i giorni e Di Maio di tanto in tanto” dice Bonino. Il problema quindi “è cambiare il clima culturale in un paese che non è razzista ma dove il razzismo è stato sdoganato, se non stiamo attenti un passettino dietro l’altro ci troveremo in una specie di epidemia da cui sarà difficile tornare indietro”.
Per l’ex ministro degli Esteri del governo Letta l’Europa è poggiata su una bomba demografica: “Sotto il lago Mediterraneo c’è un giardino d’infanzia, entro una generazione paesi come il Niger o l’Egitto avranno la stessa popolazione del continente europeo e non c’è sviluppo economico in loco che possa reggere questa esplosione, dobbiamo governare questo fenomeno che non possiamo eliminare”. In politica, ricorda Bonino, “difficilmente si riesce a far coincidere i valori con gli interessi, ma se c’è uno spazio dove coincidono perfettamente è la necessità di integrare le persone che arrivano, gente necessaria alla nostra economia e al nostro equilibrio demografico”. Il bersaglio principale ora, per la leader radicale, è il superamento della legge Bossi-Fini “perché chiude tutti i canali d’ingresso regolari rendendo tutti clandestini”. Per questo Bonino sta promuovendo una raccolta di firme per una proposta di legge d’iniziativa popolare.
il manifesto 16.9.17
La rivincita renziana punta tutto sulle banche
Commissione d'inchiesta & Bankitalia. Rebus presidente, certezza flop Mentre l’inviso Visco va verso la riconferma
Una protesta dei risparmiatori beffati dalle crisi bancarie
di Massimo Franchi

La vendetta renziana e del Pd per lo scandalo Consip dovrebbe partire, oltre che dall’interrogazione parlamentare contro il capitano Ultimo, dalla Commissione bicamerale d’inchiesta sulle banche. Evocata da Renzi e Orfini con espressioni sbracate («Ci divertiremo») per spiegare che il Pd non ha nulla da nascondere, che il papà di Maria Elena Boschi – Pier Luigi, multato da Consob di 40mila euro per la liquidazione da 700 mila euro concessa al direttore generale dell’istituto bancario aretino, ma verso l’archiviazione nel procedimento penale – non c’entra niente con gli scandali di questi anni.
La partita è legata a doppio filo con un’altra, se possibile ancora più vicina ed importante: la conferma del governatore Ignazio Visco a Bankitalia. Sarà Gentiloni a dover decidere entro ottobre. Gli attacchi neanche troppo impliciti di Renzi sulle pecche della Vigilanza di Palazzo Koch corredati dalle inchieste giudiziarie – rese pubbliche da Il Fatto dando vita ad una strana alleanza – avevano fatto mettere in forse la riconferma.
La loquacità di Visco – ieri ha bacchettato perfino chi parla di educazione finanziaria: «Non basta, vanno puniti gli illeciti» – e i boatos dai palazzi del potere – primo fra tutti il Quirinale – portavano ieri a considerare la riconferma assai probabile. Anche per mancanza di sostituti all’altezza: i renziani avrebbero avanzato la candidatura dell’economista Marco Fortis, distintosi in questi ultimi mesi per essere un vero e proprio ultrà del Jobs act, ma senza il curriculum per prendere il posto che fu di Ciampi e Draghi, solo per restare agli ultimi 30 anni. Mentre le candidature interne – Fabio Panetta o Salvatore Rossi – peccano nell’aver condiviso con Visco le mancanze della vigilanza mentre le popolari fallivano e i risparmiatori pagavano.
L’attenzione quindi si sposta sulla Commissione bicamerale d’inchiesta: 40 componenti, equamente suddivisi fra Camera e Senato. Dopo mesi di melina il Pd ha finalmente annunciato i nomi dei componenti: i renziani e i lealisti del capo la fanno da padrone. Dallo stesso presidente Orfini al fido tesoriere Bonifazi, la pattuglia è agguerrita e pronta a tener fede alla linea. In più ci sono Andrea Marcucci, Vazio, Dal Moro, Sanga, Taranto, l’ex ministro Stefania Giannini, Del Barba, Marino e Mirabelli; a cui si aggiungono solo quattro esponenti della minoranza interna, scelti fra l’altro fra i più moderati: Cenni, il professor Carlo Dell’Aringa, Fabbri e Sangalli.
Una volta nominati tutti i componenti dai presidenti di ogni ramo del Parlamento, la commissione sarà convocata entro 10 giorni per eleggere i vertici. E qui arriva il problema più grosso: chi sarà il presidente? Il Pd punterebbe ad una figura di spessore ma gli unici nomi passabili sono Pier Ferdinando Casini (Ap) – che però sarebbe indeciso perché contrario allo stesso strumento delle commissioni d’inchiesta – o l’ex viceministro all’Economia Enrico Zanetti (Sc-Ala), sceso dallo scranno governativo di via XX Settembre per le polemiche scaturite proprio sulla questione banche nel passaggio da Renzi a Gentiloni.
L’impressione è che il rebus rimarrà irrisolto fino alla prima convocazione. Ma la vera domanda riguarda i tempi: in una legislatura quasi a scadenza cosa potrà scoprire la commissione? «Niente», aveva risposto mesi fa Bruno Tabacci, uno dei massimi esperti della materia. E continuava: «Sono sicuro che verrà utilizzata in modo strumentale: ognuno butterà in faccia all’avversario il peggio rinfacciandogli la banca vicina. Per questo la vuole Renzi, per farci campagna elettorale. Insomma, un gran casino che non stabilirà nessuna responsabilità, specie se il presidente non sarà una persona equilibrata». Parole sempre più attuali.
Repubblica 16.9.17
Il sindaco di Fireze Dario Nardella
“Arrestare chi va con le prostitute è un atto di sinistra”
intervista di Massimo Vanni

IL SINDACO DI FIRENZE DARIO NARDELLA HA FIRMATO L’ORDINANZA: I CLIENTI RISCHIANO IL CARCERE O UNA MULTA FINO A 206 EURO

FIRENZE. Un calcio alle vecchie ordinanze anti prostituzione con i divieti di sosta. Il sindaco di Firenze Dario Nardella introduce adesso il divieto di contrattazione. E chi lo viola, secondo codice penale, rischia una multa da 206 euro o anche l’arresto: «È una misura di sinistra ».
Sindaco Nardella, guerra alle prostitute o ai clienti?
«Né alle une né agli altri, la nostra guerra è contro chi sfrutta la prostituzione a tutela delle donne e della loro dignità».
E chi intende multare allora con la sua ordinanza?
«La nuova norma del decreto sicurezza Minniti convertito in legge consente ai sindaci di contrastare “le situazioni che favoriscono la prostituzione, la tratta di persone”. Pertanto abbiamo emanato un’ordinanza tesa a colpire la domanda della prostituzione e dello sfruttamento delle donne dietro cui prosperano la malavita organizzata italiana e straniera».
E quindi multate i clienti?
«Sì, se chiedono la prestazione. Scatterà a quel punto una denuncia alle autorità giudiziarie per la violazione dell’ordinanza. E sarà poi cura di quest’ultima accertare la responsabilità. La sanzione è quella prevista per chiunque violi le ordinanze dei sindaci “contingibili e urgenti”. Non c’è una pena specifica pensata ad hoc. Così come non è previsto l’arresto in flagranza».
Ma come si fa ad accertare la contrattazione?
«Questo è il lavoro della polizia municipale e delle altre forze dell’ordine, in divisa o in borghese. Si rileveranno solo quei casi che effettivamente si configurano come uno scambio di prestazioni. L’ordinanza non nasce come misura punitiva ma come un concreto deterrente per scoraggiare la domanda e di conseguenza colpire o prevenire lo sfruttamento».
Chi contratta in appartamento continuerà però a sfuggire a questa ordinanza.
«Vorrei essere chiaro. Questo provvedimento è un primo passo che non può essere considerato come una soluzione definitiva e completa. Noi puntiamo anzitutto a contrastare il fenomeno più degenerativo e con il maggior impatto sociale, sia sulla cittadinanza che sulle stesse prostitute».
Vuole forse riaprire le case chiuse?
«Non dobbiamo essere ipocriti, nessuno e tantomeno un sindaco può pensare di debellare dalla faccia della terra la prostituzione. Il punto è che per contrastarne gli aspetti più degradanti e criminosi dovremmo sperimentare nuove soluzioni. Purtroppo in Italia non si possono affrontare temi del genere perché c’è troppo scontro ideologico e ipocrisia».
Sindaco, cosa si aspetta da questa ordinanza?
«Che si accendano i riflettori sulla gravissima e quotidiana violazione dei diritti umani perpetrata con la tratta e la riduzione in schiavitù di donne italiane e straniere, spesso minorenni. Se qualche multa servirà a salvare la libertà, la vita e la dignità, anche di una sola donna, sarà già un successo. C’è troppo silenzio nel nostro Paese su questo dramma che riempie di miseria umana le periferie delle nostre città».
Nardella, non le pare un’ordinanza che fa l’occhiolino agli elettori di destra?
«Io credo che i cittadini che tengono alla lotta contro la criminalità organizzata e al valore della dignità umana possano apprezzare la nostra iniziativa. Solo a Firenze, in questo anno, si contano già 27 procedimenti penali per sfruttamento e 128 persone indagate. Semmai questa ordinanza è di sinistra ».
il manifesto 16.9.17
La verde sbotta: imbarazzante, troppi maschi alle riunioni di Insieme
Sinistre/Il caso. Anche sull’attacco sessista a Boldrini Pisapia riconosce le scarse difese da sinistra
di Daniela Preziosi

«19 uomini e 1 donna, l’imbarazzante riunione tra Campo progressista e Mdp». Ieri un post dell’ambientalista Luana Zanella sul sito verdi.it ha messo nero su bianco un problema – un altro – della sinistra italiana che cerca di aggregarsi intorno a Giuliano Pisapia e alla Ditta degli ex Pd. Un problema infinitamente più grande delle turbolenze della linea politica. Ci sono troppi maschi nelle prime file, anzi ci sono quasi solo maschi: Pisapia, Bersani, D’Alema, Speranza, Scotto, Rossi, Smeriglio, Ferrara. Allargando all’ormai mitologico «campo largo» della sinistra-sinistra, il genere non cambia, eccezion fatta per Anna Falcone, cofondatrice dell’Alleanza popolare nata al Brancaccio.
Quanto a Insieme, alla riunione di martedì scorso c’era una sola donna. Su venti. La fortunata, si fa per dire, era Cecilia Guerra, capogruppo Mdp al senato, una combattente sui temi dell’uguaglianza, soprattutto sul lavoro, e della differenza. «Sosteniamo le donne, mandiamole avanti», ripete a ogni riunione. Ma la questione, evidentemente, non è «prioritaria» fra i colleghi. E dire che in Mdp c’è Roberta Agostini, ex responsabile delle donne del Pd, posto rimasto vuoto da quando lei lo ha lasciato. E c’è Giovanna Martelli, ex delegata alla parità del governo Renzi che ha sbattuto la porta di governo e Pd stanca di combattere contro «la troppa indifferenza».
E ora, in Insieme, la nuova formazione politica in progress? Torniamo al post di Zanella: «A fronte di un protagonismo femminile», scrive, «le forze politiche che aspirano al radicale cambiamento dell’esistente, non possono procedere senza tenerne conto. Devono assumere l’urgenza di uscire da metodi, linguaggi e forme di una politica di origine patriarcale ormai al tramonto». Nel loro statuto i verdi prevedono la presenza paritaria di donne e uomini in tutti gli organismi (hanno anche due portavoce, un uomo e una donna). E Zanella, pure contenta del risultato della riunione, spiega che la composizione della delegazioneera «infelice ed anacronistica». «Il problema c’è», spiega Roberta Agostini, «sui territori la discussione è aperta, senza un punto di vista femminile non nasce nessuna sinistra all’altezza del suo compito». Ma al ’centro’ non si passa. E il colpo d’occhio martedì era così d’antan («una riunione di soli uomini», li ha sfottuti il dem Orfini) che anche Pisapia ha sbottato: «A parte Cecilia, mai più riunioni così, la prossima volta più donne». «No, meno uomini», gli ha risposto lei.
Oggi l’ex sindaco a Milano convoca le sue Officine. E i giovani organizzatori giurano che fra loro la presenza di donne è alta. Perché, spiega Mapi Pizzolante, «fare un nuovo progetto politico per il paese significa innovare pratiche e liturgie. E senza la differenza, e quella di genere è solo una delle differenze necessarie, è impossibile: che si tratti di riunioni o di iniziative». Eppure la settimana scorsa in una riunione a porte chiuse dell’area Pisapia, presente Laura Boldrini, c’è chi ha denunciato l’eccesso di timidezza dei «compagni» – leggasi mutismo – nel difendere la presidente della Camera, al centro di feroci attacchi sessisti su web e stampa, «sono stati molto più reattivi quelli e quelle del Pd». «La battaglia di Laura è la mia», ha dichiarato Pisapia qualche giorno dopo al Corriere. Ammettendo implicitamente l’errore.
il manifesto 16.9.17
Manconi, il «centrosinistra» e un ostacolo insormontabile
Alleanze. L’Italia così com’è oggi è in larga parte opera del Pd
Oggi il Pd fa politiche di destra: sui migranti, i poveri, i marginali. Come ha detto Lerner, ora è questione di diritti umani
di Tomaso Montanari

Ho una profonda stima per la persona e il lavoro di Luigi Manconi. Nel suo bellissimo Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica egli scrive: «Tra le molte contraddizioni della mia azione politica, una appare forse come più stridente. Ovvero che faccio quello che faccio e penso quello che penso, pur rimanendo nel Pd … Per ora penso che vi sia ancora spazio per condurre conflitti interni e per utilizzare proficuamente la forza, le risorse e la platea di un “partito largo”». «Per ora», scriveva Manconi in un libro uscito nel marzo 2016.
Un anno e mezzo dopo, dopo la repressione securitaria attuata da Marco Minniti, perfino Gad Lerner, per Manconi una sorta di «fratello minore» ha infine restituito la tessera del Pd, scrivendo che «l’involuzione della politica del Pd sui diritti umani e di cittadinanza costituisce per me un ostacolo non più sormontabile».
Una decisione soffertissima, a giudicare dal fatto che solo poche settimane prima lo stesso Lerner aveva proposto ad Andrea Orlando un doppio tesseramento Pd-Campo Progressista.
Per Manconi questo ostacolo è, evidentemente, ancora sormontabile.
Non gli sono certo meno grato per le sue solitarie, cruciali battaglie, ma non riesco a capire come una scelta personalissima, provvisoria e sofferta come questa (una scelta che divide anche chi ha percorso insieme una vita intera) possa trasformarsi in un programma politico su cui chiedere il consenso di milioni di cittadini. Già, perché Campo Progressista è nato proprio con questo fine: andare al governo con il Pd, nella speranza di condizionarlo un po’. È questo l’unico significato possibile della formula taumaturgica del «centrosinistra»: perché senza Pd non esiste centro cui connettersi. E, d’altra parte, Giuliano Pisapia continua onestamente a dirlo, nonostante le aspirazioni e le dichiarazioni contrarie dei suoi compagni di viaggio.
Ebbene: come molti altri, credo che questo progetto appartenga al passato. Non dico che non mi impegnerei per qualcosa del genere: ma nemmeno lo voterei.
Perché il Pd ha avuto un ruolo decisivo nella costruzione dello stato delle cose: l’Italia così com’è è in larga parte opera sua. Oggi il Pd fa, platealmente, politiche di destra: sui migranti, i poveri, i marginali fa perfino politiche di destra non democratica. Come ha detto Lerner, ora è questione di diritti umani.
Il Pd ha rieletto Renzi trionfalmente, e l’opposizione interna è politicamente irrilevante. I flussi elettorali del 4 dicembre scorso dimostrano che l’85 % di chi vota Pd ha scelto il Sì. Non una colpa, ovviamente, ma il segno chiarissimo di una mutazione politica e culturale: la resa allo stato delle cose. L’abbandono dell’idea stessa di conflitto sociale.
Ora, è possibile che se continuerà a votare solo il 50% degli italiani – o se, come tutto lascia intendere, l’affluenza diminuirà ancora – una sinistra radicale alternativa al Pd (prima, durante e dopo il voto) abbia poco spazio.
Ma se questa sinistra fosse capace di essere unita, e soprattutto si impegnasse a costruire un progetto credibile di Paese giusto, inclusivo ed eguale: allora un’altra parte degli italiani tornerebbe a votare e a votarla, riaprendo un conflitto, e dunque spalancando un finestra sul futuro. E il cinico tavolo dei commentatori salterebbe in un minuto. Non è un’utopia: è successo il 4 dicembre.
Il percorso partito dal Brancaccio si sta snodando per le cento città di Italia, e presto potrà proporre un progetto di Paese: per capire cosa intendiamo dire quando diciamo «invertire la rotta». Alle assemblee partecipano compagni di SI, Possibile, Rifondazione ma anche di Mdp, oltre a quelli che si erano impegnati in molti dei progetti falliti e a tanti cittadini politicamente apolidi (tra cui cattolici che pensano che il Vangelo indichi una strada radicale e non «centrista» nel senso di «moderata»).
Ciò che accomuna tutte le persone che partecipano a questo percorso è la volontà di costruire tutti insieme una lista unica, attraverso un vero processo di partecipazione popolare: senza primogeniture; senza leader designati in anticipo; con il chiaro impegno di essere alternativi al Pd prima, durante e dopo il voto.
Non è un obiettivo impossibile, ma ogni giorno consumato in incomprensibili riunioni politiciste è un giorno sottratto alla costruzione di una sinistra di popolo capace di parlare all’altra metà degli italiani. Una sinistra che (come in altri paesi d’Europa) può diventare capace di vincere: se vincere significa saper cambiare la realtà, e non farsene cambiare.
* presidente di Libertà e Giustizia
Repubblica 16.9.17
Un’ala “renziana” in casa Pisapia “Mai alle elezioni contro il Pd”
Ex Sel. Due senatori e i sindaci di Cagliari e Lecce escono allo scoperto: domani l’annuncio a Imola

ROMA. «Il centrosinistra si fa con il Pd, senza se e senza ma». Una posizione unitaria netta e senza ambiguità, che domani sarà formalizzata in un dibattito alla Festa dell’Unità a Imola con il vicesegretario dem Maurizio Martina. A farsene portabandiera quattro esponenti politici di provenienza Sel e vicini a Giuliano Pisapia: i senatori Dario Stefàno e Luciano Uras, assieme ai sindaci di Cagliari Massimo Zedda e di Lecce Carlo Salvemini. Il quartetto sardo-pugliese – forte del sostegno di un drappello di amministratori locali di varie regioni, dal Friuli Venezia Giulia alla Campania - è l’apripista di una diversa concezione della formula “Insieme”, il soggetto politico nato in piazza Santi Apostoli a Roma dall’unione di Campo progressista e Mdp: «Insieme si, ma con il Pd non contro», chiariscono. Perché «il progetto di Pisapia è nato per aggregare, la manifestazione del primo luglio ha diviso».
Quella degli “unionisti” di Cp è dunque una scelta di campo che parte da un presupposto politico ineludibile: il centrosinistra senza il Pd non si può fare. «Dall’altra parte ci sono le destre – avverte Stefàno - che diventano sempre più estreme e xenofobe, e il populismo nella variante grillina, quello delle soluzioni facili ai problemi complessi. La nostra linea è coerente con le motivazioni con cui si pensò a Campo Progressista ». Tre su tutte: «Il centrosinistra deve essere unito, senza Pd non esiste, il segretario del Pd lo sceglie la sua comunità, con straordinari processi di partecipazione democratica». Quindi, al contrario dei bersaniani che non hanno risolto i postumi della scissione, i “renziani” in casa Pisapia non mettono in discussione la leadership di Matteo Renzi. «Il nostro interlocutore è il Pd, a partire dal suo segretario», affermano. «Non ci interessa alimentare divisioni all’interno di una comunità che vogliamo aiutare a crescere, soprattutto sui temi che sono a noi molto cari: il lavoro, lo sviluppo sostenibile, la lotta alle diseguaglianze ma anche il superamento delle disparità tra Nord, Sud e Isole».
Per queste ragioni l’unica strada è lavorare a fianco dei Democratici. Alle elezioni ci si va insieme con l’obiettivo di sconfiggere le destre e governare il Paese, così come già si amministrano tante città: «Il centrosinistra c’è ed è vivo nei territori – sottolinea Stefàno – sono tante le esperienze preziose per una proposta di governo nazionale più calibrata, come Cagliari, Lecce, Milano». E Palermo, che per il manipolo di ex Sel è un modello per tutta la Sicilia, nonostante le polemiche sulla candidatura di Fabrizio Micari: «Ap non è la pietra dello scandalo – concludono i pontieri dell’alleanza con il Pd – in ambito locale a volte è necessario creare aggregazioni più ampie. Ci sorprende che, chi ha sostenuto la riconferma a sindaco di Leoluca Orlando e suggeriva lo stesso modello di centrosinistra unito anche per le regionali, alla fine si sia tirato indietro».
(mo. rub.)
il manifesto 16.9.17
La lotta nel «fango» rianima Renzi
Inchiesta Consip. Il segretario dem e le «rivelazioni» della procuratrice di Modena sul pressing dei due carabinieri: «Scandalo nato per colpirmi. Gli si ritorcerà contro». De Caprio: «Mai parlato di lui». Pinotti: «L’Arma valuti le sue dichiarazioni». Il presidente del Pd Orfini: «Si chiama eversione» Interrogazione dem al governo
di Adriana Pollice

«Volevano gettarmi fango addosso, adesso gli si ritorcerà contro. Lo scandalo Consip è nato per colpire me, finirà per colpire chi ha falsificato le prove»: Matteo Renzi ieri pomeriggio ha commentato così le rivelazioni di Repubblica e Corsera che hanno diffuso nuove ombre sull’operato del Noe, in particolare sul maggiore Giampaolo Scafarto e sul colonnello Sergio De Caprio (il capitano Ultimo che arrestò Totò Riina). Sotto accusa le due inchieste in cui è stato tirato in ballo Renzi: quella sulla coop rossa Cpl Concordia e quella su Consip, entrambe nate a Napoli e affidate dal pm Henry John Woodcock ai carabinieri del Noe.
LO SCORSO 17 LUGLIO la procuratrice di Modena, Lucia Musti, è stata ascoltata dal Csm sulla fuga di notizie che nel 2015 fece arrivare sulla stampa l’intercettazione tra Matteo Renzi e il generale della Gdf Michele Adinolfi. La seduta è avvenuta in prima commissione, dove è aperto il procedimento per incompatibilità ambientale nei confronti di Woodcock. La trascrizione oggetto della fuga di notizie era nel fascicolo sulla Cpl, trasmesso per competenza a Modena. Musti incontrò due anni fa prima Scafarto e poi De Caprio. Al Csm a luglio la magistrata avrebbe raccontato cosa i due ufficiali le dissero (racconto finito ieri sui quotidiani): «Dottoressa, lei, se vuole, ha una bomba in mano. Lei può far esplodere la bomba. Scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi». Su Scafarto e Ultimo racconta: «Mi apparivano spregiudicati, come presi da un delirio di onnipotenza». Musti si sarebbe sentita messa sotto pressione, «come se la sua libertà e le sue prerogative di capo della Procura potessero in qualche misura essere coartate» scrive Repubblica. Sulla qualità della indagini è dura: l’informativa del Noe sarebbe stata fatta «coi piedi», gonfiata da espressioni simili a «chiacchiere da bar».
L’INTERCETTAZIONE da cui è nato il fascicolo disciplinare contro Woodcock è del 2014: al telefono ci sono Renzi, alla vigilia dell’approdo a Palazzo Chigi, e Adinolfi. A Napoli era stata omissata ma in Emilia fu trasmessa, tramite Scafarto, in chiaro. Musti ha spiegato al Csm di non essere stata informata neppure verbalmente da Woodcock degli omissis, né ha potuto escludere che il gip di Modena, al quale il suo ufficio passò le carte, le avesse messe a disposizione degli avvocati. Nel dialogo Renzi definiva l’allora premier Enrico Letta «un incapace», spiegando la road map per sostituirlo alla guida del governo.
Musti avrebbe poi spiegato al Csm che, durante il secondo incontro con Ultimo a Roma nel 2016, le sarebbero state fatte anticipazioni sull’indagine Consip, una seconda «bomba» che avrebbe coinvolto il cerchio magico di Renzi. Nell’indagine Consip, come per Cpl Concordia, ci sono state fughe di notizie ed errori clamorosi nelle trascrizioni, errori che sarebbero opera in entrambe le indagini di Scafarto. Il verbale di Musti al Csm è stato inviato ai pm di Roma per approfondimenti e potrebbe aprire un nuovo filone di inchiesta o finire nel fascicolo Consip. Intanto, ieri c’è stato un botta e risposta tra il capo della procura di Modena e De Caprio, che ha dichiarato: «La dottoressa Musti è stata supportata in tutto quello che ci ha richiesto, compreso il fatto di non informare delle indagini il comandante provinciale dei carabinieri di Modena e la prefettura». La replica di Musti: «Non commento le dichiarazioni del colonnello. Risponderò alle domande dei magistrati di Roma».
LUCA LOTTI, sotto inchiesta per l’indagine Consip, ha scelto ieri di non commentare. Non commenta neppure il padre di Matteo Renzi, Tiziano, accusato di traffico di influenze, parlano però i suoi legali: «Sembra una cosa eversiva. Quello che c’è è già sufficiente a richiedere l’archiviazione, a prescindere da ulteriori inattendibilità e inaffidabilità degli atti compiuti dal Noe».
L’intero Pd è insorto, usando con insistenza la parola «complotto». Il presidente dem Orfini: «Pezzi di apparati dello Stato hanno consapevolmente lavorato per fabbricare prove false. Si chiama eversione». I dietro le quinte raccontano di un Matteo Renzi in cerca dei mandanti dell’operazione. «Sono scenari da colpo di stato. Pinotti e Minniti intervengano» l’invito del fedelissimo Michele Anzaldi, formalizzato in un’interrogazione al governo. Per tutto il giorno sono arrivati i commenti dello stato maggiore Pd, inclusi i ministri Franceschini («vicenda di gravità inaudita») e Roberta Pinotti, ministra della difesa: «Le dichiarazioni di De Caprio, che sono da attribuire a lui personalmente, dovranno essere valutate dal Comando generale».
Su posizioni opposte i 5S: «È ai limiti dell’eversione l’asse Lega-Pd contro la magistratura» scrivono, facendo riferimento ai commenti di Salvini sul sequestro dei conti correnti per l’inchiesta The family.
Il Fatto 16.9.17
Sandra Bonsanti, Libertà e Giustizia
“Macché Watergate, alzano solo nebbie”

“Fango, “eversione”, “Watergate”, “scenari da colpo di Stato”. Queste le parole utilizzate da diversi esponenti del Pd nella giornata di ieri sulle ultime novità del caso Consip, ovvero la presunta azione di due carabinieri per incastrare l’ex presidente del consiglio, i cui particolari sono stati rivelati al Csm dal procuratore Lucia Musti. “Sono parole eccessive, fuori luogo. In Italia l’eversione è stata qualcosa di molto grave, come abbiamo visto negli anni Settanta, con morti e feriti, osserva Sandra Bonsanti, giornalista, per anni firma di “Repubblica”, ex direttrice del “Tirreno” ed ex presidente di Libertà e Giustizia.
Bonsanti, perché si parla addirittura di “Watergate”?
Mi sembra ci sia un tentativo da parte del Pd di creare confusione, mettere nebbia su un caso già molto complicato che le persone fanno fatica a seguire. Credo che la reazione del Pd tradisca una grande preoccupazione e la poca volontà di fare chiarezza.
Non è la prima volta che sul caso Consip il Pd usa certe espressioni: anche mesi fa, quando Tiziano Renzi era nell’occhio del ciclone, il segretario dem ha utilizzato più volte il termini “fango” e “complotto”.
Mi sembra che da parte di Renzi e dei suoi si voglia alzare il livello dello scontro, forse per buttarla in politica, mentre qui bisognerebbe restare ai fatti e alle inchieste in corso e lasciar lavorare gli inquirenti nella massima tranquillità. Il problema è che Renzi si rapporta alle questioni, politiche e giudiziarie che siano, sempre allo stesso questo modo: alzando i toni e facendo le barricate: con me o contro di me”.
Secondo lei ci sono cose che non tornano in questa vicenda?
“Riguardo alle ultime novità, mi chiedo perché le rivelazioni sui due carabinieri si vengono a sapere solo ora, e non nel momento in cui sono state acquisite”.
Il Fatto 16.9.17
Ministri e capigruppo dem evocano ‘golpe’ e ‘complotti’
Franceschini, Zanda, Orfini e dirigenti sparsi reagiscono alle rivelazioni su Scafarto e De Caprio gridando all’eversione e al “disegno anti-Pd”. Il Guardasigilli sta zitto: “No comment”
Ministri e capigruppo dem evocano ‘golpe’ e ‘complotti’
di Marco Palombi

Lungamente evocata dalla campagna estiva di Matteo Renzi sul caso Consip – divenuto nel suo racconto “caso Scafarto” con tanti saluti alle mazzette e alla fuga di notizie che coinvolge Luca Lotti – e dai “vedrete, vedrete” sussurrati dai renziani nelle ultime settimane, arrivano nuove rivelazioni sul comportamento del capitano del Noe e del suo superiore Sergio De Caprio, il famoso “Ultimo”, nei confronti dell’ex premier. E arriva, contemporaneamente, l’ora in cui a fare il lavoro sporco nel Pd non tocca più solamente ai pretoriani di Rignano sull’Arno, ma pure a quelli di complemento, non sempre accreditati di intenzioni benevole nei confronti del Caro Leader.
Il primo a offrire il petto al fuoco per l’onore di Matteo è Dario Franceschini, ormai considerato un mezzo traditore al Nazareno, ministro della Repubblica: “La vicenda giudiziaria che coinvolge Scafarto assume ogni giorno di più caratteri di gravità inaudita. Stiamo imparando dai giornali che c’è stato un tentativo, con ogni mezzo, di coinvolgere il premier. Una cosa è il dibattito interno o esterno al Pd, una cosa lo scontro tra partiti o gli attacchi a Renzi, ma questo è un fatto di una gravità istituzionale enorme, e azioni e parole di chiarezza e solidarietà dovrebbero arrivare da tutti, avversari compresi”. Ci pensa il capogruppo Pd al Senato, Luigi Zanda Loi, figlio di un famoso capo della polizia e compagno di corrente di Franceschini, a evocare il golpe come un berlusconiano qualunque: “Se quanto stiamo apprendendo dovesse risultare vero dovremmo concludere che negli anni passati c’è stato in Italia un vero e proprio complotto, che ha visto coinvolti organi dello Stato, volto a rovesciare istituzioni democraticamente indicate dal Parlamento della Repubblica. In altri tempi si sarebbe parlato di eversione, se non di peggio”.
Il resto dei comunicati stampa, delle dichiarazioni tv, dei tweet e quant’altro è la solita batteria dei renziani tanto in purezza che di complemento. Tra questi va segnalato, almeno, il presidente del Pd Matteo Orfini: “Siamo di fronte a pezzi di apparati dello Stato che hanno lavorato per fabbricare prove false per colpire il presidente del Consiglio e interferire con la dinamica democratica. Qualora tutto questo fosse confermato, ci sarebbe un termine tecnico per definirlo: eversione”.
Poi, immancabile, arriva il momento dei poteri forti e dei salotti: questa storia “in qualunque paese al mondo avrebbe la rilevanza del Watergate. C’era un disegno per liquidare il Pd ed è fallito. Un pezzo dei poteri di questo Paese evidentemente non ha mai digerito una classe dirigente che non frequentava i soliti salotti” (il frate trappista Renzi e l’eremita Orfini in salotto ci stanno solo per giocare alla playstation e giammai hanno frequentato un imprenditore, un banchiere o un boiardo di Stato). Persino il ministro della Difesa Roberta Pinotti chiede all’Arma di occuparsi delle troppe esternazioni del colonnello Ultimo.
Uno dei pochi che non partecipa al coro del “golpe” è Andrea Orlando, ministro della Giustizia: “Per ragioni istituzionali, non è possibile e opportuno che io intervenga. Trattandosi di una vicenda sulla quale è aperta un’inchiesta, non posso in alcun modo commentare”. Molto giusto e molto corretto, ma va almeno notato che il Guardasigilli, quando il “caso Scafarto” esplose non esitò a definire “vicenda inquietante” quella dell’errore di trascrizione del capitano dei carabinieri scoperto dalla Procura di Roma, né a inviare gli ispettori a Napoli dopo la pubblicazione sul nostro giornale dell’intercettazione tra Matteo Renzi e suo padre Tiziano. Stavolta, invece, Orlando tace, almeno lui, ed è un silenzio che parla rispetto alle grida di colleghi e compagni di partito.

PD REGIONE TOSCANA CARABINIERI RAZZISMO E CENSURA
QUESTA MATTINA A "PRIMA PAGINA", LA RASSEGNA STAMPA IN DIRETTA QUOTIDIANA DI RAI RADIO TRE FORSE PER UN MOMENTO DI DISTRAZIONE DEL CONDUTTORE. È ANDATA IN ONDA UNA NOTIZIA CHE CI ERA SFUGGITA DEL TUTTO PRIMA E CHE RISALIVA AL GIUGNO SCORSO MA CHE ERA SUBITO STATA FATTA SPARIRE DA TUTTI: DA UNA RICERCA CHE ABBIAMO FATTO RISULTA QUANTO SEGUE, PUBBLICHEREMO PIÙ TARDI ANCHE LA REGISTRAZIONE RAI DI OGGI - SEMPRE CHE NON SPARISCA ANCHE QUESTA

MA SIAMO MOLTO PREOCCUPATI PER LA NOSTRA LIBERTÀ DI INFORMAZIONE

Repubblica  Il Venerdi 28.6.17
Ad Aulla, dove a finire in cella sono i carabinieri
Il cartello "Non si noleggiano mezzi agli islamici" nell'officina di Claudio Giorgi
Un’intera caserma agli arresti per minacce e violenze sugli stranieri. Eppure molti stanno con i militari. A cominciare dal sindaco (Pd), che è il loro avvocato difensore
di Brunella Giovara
qui

Il Secolo XIX 16.6.17
Aulla, le intercettazioni telefoniche che inchiodano i carabinieri: «Un negro è scappato: l’ho preso e massacrato»
di Tiziano Ivani
qui

Il Post 16.9.17
La brutta storia dei carabinieri di Aulla
Ne sono stati arrestati quattro, accusati di decine di abusi e violenze verso cittadini stranieri e italiani
qui

Il Fatto 16.6.17
Massa Carrara, le carte – I carabinieri picchiatori di Aulla: “Il pm deve morire male”
“Uccidere un marocchino e fingere che abbia preso la pistola del maresciallo”. Botte agli stranieri, ma anche multe per vendetta e rapporti sessuali "estorti"
di Ferruccio Sansa
qui

Il Tirreno 17.6.17
Lunigiana
Inchiesta  sui carabinieri: tutti i nomi dei militari arrestati e allontanati dalla provincia
Lunigiana, intercettazioni choc, violenze e pestaggi in caserma
qui

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E siamo decisamente in ampagna elettorale... le rivelazioni che favorirebbero Renzi ci bombardano dalle colonne di Repubblica, La Stampa e Corsera, oggi, affannati, con edizioni quasi esclusivamente impostate su questo tema - tanto che non troviamo mteriali da pubblicare per la nostra rassegna di oggi - ce la mettono tutta... ma sappiamo per esperienza che basta aspettare...

Il Fatto 16.9.17
Ministri e capigruppo dem evocano ‘golpe’ e ‘complotti’
Franceschini, Zanda, Orfini e dirigenti sparsi reagiscono alle rivelazioni su Scafarto e De Caprio gridando all’eversione e al “disegno anti-Pd”. Il Guardasigilli sta zitto: “No comment”
Ministri e capigruppo dem evocano ‘golpe’ e ‘complotti’
di Marco Palombi

Lungamente evocata dalla campagna estiva di Matteo Renzi sul caso Consip – divenuto nel suo racconto “caso Scafarto” con tanti saluti alle mazzette e alla fuga di notizie che coinvolge Luca Lotti – e dai “vedrete, vedrete” sussurrati dai renziani nelle ultime settimane, arrivano nuove rivelazioni sul comportamento del capitano del Noe e del suo superiore Sergio De Caprio, il famoso “Ultimo”, nei confronti dell’ex premier. E arriva, contemporaneamente, l’ora in cui a fare il lavoro sporco nel Pd non tocca più solamente ai pretoriani di Rignano sull’Arno, ma pure a quelli di complemento, non sempre accreditati di intenzioni benevole nei confronti del Caro Leader.
Il primo a offrire il petto al fuoco per l’onore di Matteo è Dario Franceschini, ormai considerato un mezzo traditore al Nazareno, ministro della Repubblica: “La vicenda giudiziaria che coinvolge Scafarto assume ogni giorno di più caratteri di gravità inaudita. Stiamo imparando dai giornali che c’è stato un tentativo, con ogni mezzo, di coinvolgere il premier. Una cosa è il dibattito interno o esterno al Pd, una cosa lo scontro tra partiti o gli attacchi a Renzi, ma questo è un fatto di una gravità istituzionale enorme, e azioni e parole di chiarezza e solidarietà dovrebbero arrivare da tutti, avversari compresi”. Ci pensa il capogruppo Pd al Senato, Luigi Zanda Loi, figlio di un famoso capo della polizia e compagno di corrente di Franceschini, a evocare il golpe come un berlusconiano qualunque: “Se quanto stiamo apprendendo dovesse risultare vero dovremmo concludere che negli anni passati c’è stato in Italia un vero e proprio complotto, che ha visto coinvolti organi dello Stato, volto a rovesciare istituzioni democraticamente indicate dal Parlamento della Repubblica. In altri tempi si sarebbe parlato di eversione, se non di peggio”.
Il resto dei comunicati stampa, delle dichiarazioni tv, dei tweet e quant’altro è la solita batteria dei renziani tanto in purezza che di complemento. Tra questi va segnalato, almeno, il presidente del Pd Matteo Orfini: “Siamo di fronte a pezzi di apparati dello Stato che hanno lavorato per fabbricare prove false per colpire il presidente del Consiglio e interferire con la dinamica democratica. Qualora tutto questo fosse confermato, ci sarebbe un termine tecnico per definirlo: eversione”.
Poi, immancabile, arriva il momento dei poteri forti e dei salotti: questa storia “in qualunque paese al mondo avrebbe la rilevanza del Watergate. C’era un disegno per liquidare il Pd ed è fallito. Un pezzo dei poteri di questo Paese evidentemente non ha mai digerito una classe dirigente che non frequentava i soliti salotti” (il frate trappista Renzi e l’eremita Orfini in salotto ci stanno solo per giocare alla playstation e giammai hanno frequentato un imprenditore, un banchiere o un boiardo di Stato). Persino il ministro della Difesa Roberta Pinotti chiede all’Arma di occuparsi delle troppe esternazioni del colonnello Ultimo.
Uno dei pochi che non partecipa al coro del “golpe” è Andrea Orlando, ministro della Giustizia: “Per ragioni istituzionali, non è possibile e opportuno che io intervenga. Trattandosi di una vicenda sulla quale è aperta un’inchiesta, non posso in alcun modo commentare”. Molto giusto e molto corretto, ma va almeno notato che il Guardasigilli, quando il “caso Scafarto” esplose non esitò a definire “vicenda inquietante” quella dell’errore di trascrizione del capitano dei carabinieri scoperto dalla Procura di Roma, né a inviare gli ispettori a Napoli dopo la pubblicazione sul nostro giornale dell’intercettazione tra Matteo Renzi e suo padre Tiziano. Stavolta, invece, Orlando tace, almeno lui, ed è un silenzio che parla rispetto alle grida di colleghi e compagni di partito.

Il Fatto 16.9.17
Sandra Bonsanti, Libertà e Giustizia
“Macché Watergate, alzano solo nebbie”

“Fango, “eversione”, “Watergate”, “scenari da colpo di Stato”. Queste le parole utilizzate da diversi esponenti del Pd nella giornata di ieri sulle ultime novità del caso Consip, ovvero la presunta azione di due carabinieri per incastrare l’ex presidente del consiglio, i cui particolari sono stati rivelati al Csm dal procuratore Lucia Musti. “Sono parole eccessive, fuori luogo. In Italia l’eversione è stata qualcosa di molto grave, come abbiamo visto negli anni Settanta, con morti e feriti, osserva Sandra Bonsanti, giornalista, per anni firma di “Repubblica”, ex direttrice del “Tirreno” ed ex presidente di Libertà e Giustizia.
Bonsanti, perché si parla addirittura di “Watergate”?
Mi sembra ci sia un tentativo da parte del Pd di creare confusione, mettere nebbia su un caso già molto complicato che le persone fanno fatica a seguire. Credo che la reazione del Pd tradisca una grande preoccupazione e la poca volontà di fare chiarezza.
Non è la prima volta che sul caso Consip il Pd usa certe espressioni: anche mesi fa, quando Tiziano Renzi era nell’occhio del ciclone, il segretario dem ha utilizzato più volte il termini “fango” e “complotto”.
Mi sembra che da parte di Renzi e dei suoi si voglia alzare il livello dello scontro, forse per buttarla in politica, mentre qui bisognerebbe restare ai fatti e alle inchieste in corso e lasciar lavorare gli inquirenti nella massima tranquillità. Il problema è che Renzi si rapporta alle questioni, politiche e giudiziarie che siano, sempre allo stesso questo modo: alzando i toni e facendo le barricate: con me o contro di me”.
Secondo lei ci sono cose che non tornano in questa vicenda?
“Riguardo alle ultime novità, mi chiedo perché le rivelazioni sui due carabinieri si vengono a sapere solo ora, e non nel momento in cui sono state acquisite”.

il manifesto 16.9.17
La lotta nel «fango» rianima Renzi
Inchiesta Consip. Il segretario dem e le «rivelazioni» della procuratrice di Modena sul pressing dei due carabinieri: «Scandalo nato per colpirmi. Gli si ritorcerà contro». De Caprio: «Mai parlato di lui». Pinotti: «L’Arma valuti le sue dichiarazioni». Il presidente del Pd Orfini: «Si chiama eversione» Interrogazione dem al governo
di Adriana Pollice

«Volevano gettarmi fango addosso, adesso gli si ritorcerà contro. Lo scandalo Consip è nato per colpire me, finirà per colpire chi ha falsificato le prove»: Matteo Renzi ieri pomeriggio ha commentato così le rivelazioni di Repubblica e Corsera che hanno diffuso nuove ombre sull’operato del Noe, in particolare sul maggiore Giampaolo Scafarto e sul colonnello Sergio De Caprio (il capitano Ultimo che arrestò Totò Riina). Sotto accusa le due inchieste in cui è stato tirato in ballo Renzi: quella sulla coop rossa Cpl Concordia e quella su Consip, entrambe nate a Napoli e affidate dal pm Henry John Woodcock ai carabinieri del Noe.
LO SCORSO 17 LUGLIO la procuratrice di Modena, Lucia Musti, è stata ascoltata dal Csm sulla fuga di notizie che nel 2015 fece arrivare sulla stampa l’intercettazione tra Matteo Renzi e il generale della Gdf Michele Adinolfi. La seduta è avvenuta in prima commissione, dove è aperto il procedimento per incompatibilità ambientale nei confronti di Woodcock. La trascrizione oggetto della fuga di notizie era nel fascicolo sulla Cpl, trasmesso per competenza a Modena. Musti incontrò due anni fa prima Scafarto e poi De Caprio. Al Csm a luglio la magistrata avrebbe raccontato cosa i due ufficiali le dissero (racconto finito ieri sui quotidiani): «Dottoressa, lei, se vuole, ha una bomba in mano. Lei può far esplodere la bomba. Scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi». Su Scafarto e Ultimo racconta: «Mi apparivano spregiudicati, come presi da un delirio di onnipotenza». Musti si sarebbe sentita messa sotto pressione, «come se la sua libertà e le sue prerogative di capo della Procura potessero in qualche misura essere coartate» scrive Repubblica. Sulla qualità della indagini è dura: l’informativa del Noe sarebbe stata fatta «coi piedi», gonfiata da espressioni simili a «chiacchiere da bar».
L’INTERCETTAZIONE da cui è nato il fascicolo disciplinare contro Woodcock è del 2014: al telefono ci sono Renzi, alla vigilia dell’approdo a Palazzo Chigi, e Adinolfi. A Napoli era stata omissata ma in Emilia fu trasmessa, tramite Scafarto, in chiaro. Musti ha spiegato al Csm di non essere stata informata neppure verbalmente da Woodcock degli omissis, né ha potuto escludere che il gip di Modena, al quale il suo ufficio passò le carte, le avesse messe a disposizione degli avvocati. Nel dialogo Renzi definiva l’allora premier Enrico Letta «un incapace», spiegando la road map per sostituirlo alla guida del governo.
Musti avrebbe poi spiegato al Csm che, durante il secondo incontro con Ultimo a Roma nel 2016, le sarebbero state fatte anticipazioni sull’indagine Consip, una seconda «bomba» che avrebbe coinvolto il cerchio magico di Renzi. Nell’indagine Consip, come per Cpl Concordia, ci sono state fughe di notizie ed errori clamorosi nelle trascrizioni, errori che sarebbero opera in entrambe le indagini di Scafarto. Il verbale di Musti al Csm è stato inviato ai pm di Roma per approfondimenti e potrebbe aprire un nuovo filone di inchiesta o finire nel fascicolo Consip. Intanto, ieri c’è stato un botta e risposta tra il capo della procura di Modena e De Caprio, che ha dichiarato: «La dottoressa Musti è stata supportata in tutto quello che ci ha richiesto, compreso il fatto di non informare delle indagini il comandante provinciale dei carabinieri di Modena e la prefettura». La replica di Musti: «Non commento le dichiarazioni del colonnello. Risponderò alle domande dei magistrati di Roma».
LUCA LOTTI, sotto inchiesta per l’indagine Consip, ha scelto ieri di non commentare. Non commenta neppure il padre di Matteo Renzi, Tiziano, accusato di traffico di influenze, parlano però i suoi legali: «Sembra una cosa eversiva. Quello che c’è è già sufficiente a richiedere l’archiviazione, a prescindere da ulteriori inattendibilità e inaffidabilità degli atti compiuti dal Noe».
L’intero Pd è insorto, usando con insistenza la parola «complotto». Il presidente dem Orfini: «Pezzi di apparati dello Stato hanno consapevolmente lavorato per fabbricare prove false. Si chiama eversione». I dietro le quinte raccontano di un Matteo Renzi in cerca dei mandanti dell’operazione. «Sono scenari da colpo di stato. Pinotti e Minniti intervengano» l’invito del fedelissimo Michele Anzaldi, formalizzato in un’interrogazione al governo. Per tutto il giorno sono arrivati i commenti dello stato maggiore Pd, inclusi i ministri Franceschini («vicenda di gravità inaudita») e Roberta Pinotti, ministra della difesa: «Le dichiarazioni di De Caprio, che sono da attribuire a lui personalmente, dovranno essere valutate dal Comando generale».
Su posizioni opposte i 5S: «È ai limiti dell’eversione l’asse Lega-Pd contro la magistratura» scrivono, facendo riferimento ai commenti di Salvini sul sequestro dei conti correnti per l’inchiesta The family.

Repubblica 16.9.17
Un’ala “renziana” in casa Pisapia “Mai alle elezioni contro il Pd”
Ex Sel. Due senatori e i sindaci di Cagliari e Lecce escono allo scoperto: domani l’annuncio a Imola

ROMA. «Il centrosinistra si fa con il Pd, senza se e senza ma». Una posizione unitaria netta e senza ambiguità, che domani sarà formalizzata in un dibattito alla Festa dell’Unità a Imola con il vicesegretario dem Maurizio Martina. A farsene portabandiera quattro esponenti politici di provenienza Sel e vicini a Giuliano Pisapia: i senatori Dario Stefàno e Luciano Uras, assieme ai sindaci di Cagliari Massimo Zedda e di Lecce Carlo Salvemini. Il quartetto sardo-pugliese – forte del sostegno di un drappello di amministratori locali di varie regioni, dal Friuli Venezia Giulia alla Campania - è l’apripista di una diversa concezione della formula “Insieme”, il soggetto politico nato in piazza Santi Apostoli a Roma dall’unione di Campo progressista e Mdp: «Insieme si, ma con il Pd non contro», chiariscono. Perché «il progetto di Pisapia è nato per aggregare, la manifestazione del primo luglio ha diviso».
Quella degli “unionisti” di Cp è dunque una scelta di campo che parte da un presupposto politico ineludibile: il centrosinistra senza il Pd non si può fare. «Dall’altra parte ci sono le destre – avverte Stefàno - che diventano sempre più estreme e xenofobe, e il populismo nella variante grillina, quello delle soluzioni facili ai problemi complessi. La nostra linea è coerente con le motivazioni con cui si pensò a Campo Progressista ». Tre su tutte: «Il centrosinistra deve essere unito, senza Pd non esiste, il segretario del Pd lo sceglie la sua comunità, con straordinari processi di partecipazione democratica». Quindi, al contrario dei bersaniani che non hanno risolto i postumi della scissione, i “renziani” in casa Pisapia non mettono in discussione la leadership di Matteo Renzi. «Il nostro interlocutore è il Pd, a partire dal suo segretario», affermano. «Non ci interessa alimentare divisioni all’interno di una comunità che vogliamo aiutare a crescere, soprattutto sui temi che sono a noi molto cari: il lavoro, lo sviluppo sostenibile, la lotta alle diseguaglianze ma anche il superamento delle disparità tra Nord, Sud e Isole».
Per queste ragioni l’unica strada è lavorare a fianco dei Democratici. Alle elezioni ci si va insieme con l’obiettivo di sconfiggere le destre e governare il Paese, così come già si amministrano tante città: «Il centrosinistra c’è ed è vivo nei territori – sottolinea Stefàno – sono tante le esperienze preziose per una proposta di governo nazionale più calibrata, come Cagliari, Lecce, Milano». E Palermo, che per il manipolo di ex Sel è un modello per tutta la Sicilia, nonostante le polemiche sulla candidatura di Fabrizio Micari: «Ap non è la pietra dello scandalo – concludono i pontieri dell’alleanza con il Pd – in ambito locale a volte è necessario creare aggregazioni più ampie. Ci sorprende che, chi ha sostenuto la riconferma a sindaco di Leoluca Orlando e suggeriva lo stesso modello di centrosinistra unito anche per le regionali, alla fine si sia tirato indietro».
(mo. rub.)

il manifesto 16.9.17
Manconi, il «centrosinistra» e un ostacolo insormontabile
Alleanze. L’Italia così com’è oggi è in larga parte opera del Pd
Oggi il Pd fa politiche di destra: sui migranti, i poveri, i marginali. Come ha detto Lerner, ora è questione di diritti umani
di Tomaso Montanari

Ho una profonda stima per la persona e il lavoro di Luigi Manconi. Nel suo bellissimo Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica egli scrive: «Tra le molte contraddizioni della mia azione politica, una appare forse come più stridente. Ovvero che faccio quello che faccio e penso quello che penso, pur rimanendo nel Pd … Per ora penso che vi sia ancora spazio per condurre conflitti interni e per utilizzare proficuamente la forza, le risorse e la platea di un “partito largo”». «Per ora», scriveva Manconi in un libro uscito nel marzo 2016.
Un anno e mezzo dopo, dopo la repressione securitaria attuata da Marco Minniti, perfino Gad Lerner, per Manconi una sorta di «fratello minore» ha infine restituito la tessera del Pd, scrivendo che «l’involuzione della politica del Pd sui diritti umani e di cittadinanza costituisce per me un ostacolo non più sormontabile».
Una decisione soffertissima, a giudicare dal fatto che solo poche settimane prima lo stesso Lerner aveva proposto ad Andrea Orlando un doppio tesseramento Pd-Campo Progressista.
Per Manconi questo ostacolo è, evidentemente, ancora sormontabile.
Non gli sono certo meno grato per le sue solitarie, cruciali battaglie, ma non riesco a capire come una scelta personalissima, provvisoria e sofferta come questa (una scelta che divide anche chi ha percorso insieme una vita intera) possa trasformarsi in un programma politico su cui chiedere il consenso di milioni di cittadini. Già, perché Campo Progressista è nato proprio con questo fine: andare al governo con il Pd, nella speranza di condizionarlo un po’. È questo l’unico significato possibile della formula taumaturgica del «centrosinistra»: perché senza Pd non esiste centro cui connettersi. E, d’altra parte, Giuliano Pisapia continua onestamente a dirlo, nonostante le aspirazioni e le dichiarazioni contrarie dei suoi compagni di viaggio.
Ebbene: come molti altri, credo che questo progetto appartenga al passato. Non dico che non mi impegnerei per qualcosa del genere: ma nemmeno lo voterei.
Perché il Pd ha avuto un ruolo decisivo nella costruzione dello stato delle cose: l’Italia così com’è è in larga parte opera sua. Oggi il Pd fa, platealmente, politiche di destra: sui migranti, i poveri, i marginali fa perfino politiche di destra non democratica. Come ha detto Lerner, ora è questione di diritti umani.
Il Pd ha rieletto Renzi trionfalmente, e l’opposizione interna è politicamente irrilevante. I flussi elettorali del 4 dicembre scorso dimostrano che l’85 % di chi vota Pd ha scelto il Sì. Non una colpa, ovviamente, ma il segno chiarissimo di una mutazione politica e culturale: la resa allo stato delle cose. L’abbandono dell’idea stessa di conflitto sociale.
Ora, è possibile che se continuerà a votare solo il 50% degli italiani – o se, come tutto lascia intendere, l’affluenza diminuirà ancora – una sinistra radicale alternativa al Pd (prima, durante e dopo il voto) abbia poco spazio.
Ma se questa sinistra fosse capace di essere unita, e soprattutto si impegnasse a costruire un progetto credibile di Paese giusto, inclusivo ed eguale: allora un’altra parte degli italiani tornerebbe a votare e a votarla, riaprendo un conflitto, e dunque spalancando un finestra sul futuro. E il cinico tavolo dei commentatori salterebbe in un minuto. Non è un’utopia: è successo il 4 dicembre.
Il percorso partito dal Brancaccio si sta snodando per le cento città di Italia, e presto potrà proporre un progetto di Paese: per capire cosa intendiamo dire quando diciamo «invertire la rotta». Alle assemblee partecipano compagni di SI, Possibile, Rifondazione ma anche di Mdp, oltre a quelli che si erano impegnati in molti dei progetti falliti e a tanti cittadini politicamente apolidi (tra cui cattolici che pensano che il Vangelo indichi una strada radicale e non «centrista» nel senso di «moderata»).
Ciò che accomuna tutte le persone che partecipano a questo percorso è la volontà di costruire tutti insieme una lista unica, attraverso un vero processo di partecipazione popolare: senza primogeniture; senza leader designati in anticipo; con il chiaro impegno di essere alternativi al Pd prima, durante e dopo il voto.
Non è un obiettivo impossibile, ma ogni giorno consumato in incomprensibili riunioni politiciste è un giorno sottratto alla costruzione di una sinistra di popolo capace di parlare all’altra metà degli italiani. Una sinistra che (come in altri paesi d’Europa) può diventare capace di vincere: se vincere significa saper cambiare la realtà, e non farsene cambiare.
* presidente di Libertà e Giustizia

il manifesto 16.9.17
La verde sbotta: imbarazzante, troppi maschi alle riunioni di Insieme
Sinistre/Il caso. Anche sull’attacco sessista a Boldrini Pisapia riconosce le scarse difese da sinistra
di Daniela Preziosi

«19 uomini e 1 donna, l’imbarazzante riunione tra Campo progressista e Mdp». Ieri un post dell’ambientalista Luana Zanella sul sito verdi.it ha messo nero su bianco un problema – un altro – della sinistra italiana che cerca di aggregarsi intorno a Giuliano Pisapia e alla Ditta degli ex Pd. Un problema infinitamente più grande delle turbolenze della linea politica. Ci sono troppi maschi nelle prime file, anzi ci sono quasi solo maschi: Pisapia, Bersani, D’Alema, Speranza, Scotto, Rossi, Smeriglio, Ferrara. Allargando all’ormai mitologico «campo largo» della sinistra-sinistra, il genere non cambia, eccezion fatta per Anna Falcone, cofondatrice dell’Alleanza popolare nata al Brancaccio.
Quanto a Insieme, alla riunione di martedì scorso c’era una sola donna. Su venti. La fortunata, si fa per dire, era Cecilia Guerra, capogruppo Mdp al senato, una combattente sui temi dell’uguaglianza, soprattutto sul lavoro, e della differenza. «Sosteniamo le donne, mandiamole avanti», ripete a ogni riunione. Ma la questione, evidentemente, non è «prioritaria» fra i colleghi. E dire che in Mdp c’è Roberta Agostini, ex responsabile delle donne del Pd, posto rimasto vuoto da quando lei lo ha lasciato. E c’è Giovanna Martelli, ex delegata alla parità del governo Renzi che ha sbattuto la porta di governo e Pd stanca di combattere contro «la troppa indifferenza».
E ora, in Insieme, la nuova formazione politica in progress? Torniamo al post di Zanella: «A fronte di un protagonismo femminile», scrive, «le forze politiche che aspirano al radicale cambiamento dell’esistente, non possono procedere senza tenerne conto. Devono assumere l’urgenza di uscire da metodi, linguaggi e forme di una politica di origine patriarcale ormai al tramonto». Nel loro statuto i verdi prevedono la presenza paritaria di donne e uomini in tutti gli organismi (hanno anche due portavoce, un uomo e una donna). E Zanella, pure contenta del risultato della riunione, spiega che la composizione della delegazioneera «infelice ed anacronistica». «Il problema c’è», spiega Roberta Agostini, «sui territori la discussione è aperta, senza un punto di vista femminile non nasce nessuna sinistra all’altezza del suo compito». Ma al ’centro’ non si passa. E il colpo d’occhio martedì era così d’antan («una riunione di soli uomini», li ha sfottuti il dem Orfini) che anche Pisapia ha sbottato: «A parte Cecilia, mai più riunioni così, la prossima volta più donne». «No, meno uomini», gli ha risposto lei.
Oggi l’ex sindaco a Milano convoca le sue Officine. E i giovani organizzatori giurano che fra loro la presenza di donne è alta. Perché, spiega Mapi Pizzolante, «fare un nuovo progetto politico per il paese significa innovare pratiche e liturgie. E senza la differenza, e quella di genere è solo una delle differenze necessarie, è impossibile: che si tratti di riunioni o di iniziative». Eppure la settimana scorsa in una riunione a porte chiuse dell’area Pisapia, presente Laura Boldrini, c’è chi ha denunciato l’eccesso di timidezza dei «compagni» – leggasi mutismo – nel difendere la presidente della Camera, al centro di feroci attacchi sessisti su web e stampa, «sono stati molto più reattivi quelli e quelle del Pd». «La battaglia di Laura è la mia», ha dichiarato Pisapia qualche giorno dopo al Corriere. Ammettendo implicitamente l’errore.

Repubblica 16.9.17
Il sindaco di Fireze Dario Nardella
“Arrestare chi va con le prostitute è un atto di sinistra”
intervista di Massimo Vanni

IL SINDACO DI FIRENZE DARIO NARDELLA HA FIRMATO L’ORDINANZA: I CLIENTI RISCHIANO IL CARCERE O UNA MULTA FINO A 206 EURO

FIRENZE. Un calcio alle vecchie ordinanze anti prostituzione con i divieti di sosta. Il sindaco di Firenze Dario Nardella introduce adesso il divieto di contrattazione. E chi lo viola, secondo codice penale, rischia una multa da 206 euro o anche l’arresto: «È una misura di sinistra ».
Sindaco Nardella, guerra alle prostitute o ai clienti?
«Né alle une né agli altri, la nostra guerra è contro chi sfrutta la prostituzione a tutela delle donne e della loro dignità».
E chi intende multare allora con la sua ordinanza?
«La nuova norma del decreto sicurezza Minniti convertito in legge consente ai sindaci di contrastare “le situazioni che favoriscono la prostituzione, la tratta di persone”. Pertanto abbiamo emanato un’ordinanza tesa a colpire la domanda della prostituzione e dello sfruttamento delle donne dietro cui prosperano la malavita organizzata italiana e straniera».
E quindi multate i clienti?
«Sì, se chiedono la prestazione. Scatterà a quel punto una denuncia alle autorità giudiziarie per la violazione dell’ordinanza. E sarà poi cura di quest’ultima accertare la responsabilità. La sanzione è quella prevista per chiunque violi le ordinanze dei sindaci “contingibili e urgenti”. Non c’è una pena specifica pensata ad hoc. Così come non è previsto l’arresto in flagranza».
Ma come si fa ad accertare la contrattazione?
«Questo è il lavoro della polizia municipale e delle altre forze dell’ordine, in divisa o in borghese. Si rileveranno solo quei casi che effettivamente si configurano come uno scambio di prestazioni. L’ordinanza non nasce come misura punitiva ma come un concreto deterrente per scoraggiare la domanda e di conseguenza colpire o prevenire lo sfruttamento».
Chi contratta in appartamento continuerà però a sfuggire a questa ordinanza.
«Vorrei essere chiaro. Questo provvedimento è un primo passo che non può essere considerato come una soluzione definitiva e completa. Noi puntiamo anzitutto a contrastare il fenomeno più degenerativo e con il maggior impatto sociale, sia sulla cittadinanza che sulle stesse prostitute».
Vuole forse riaprire le case chiuse?
«Non dobbiamo essere ipocriti, nessuno e tantomeno un sindaco può pensare di debellare dalla faccia della terra la prostituzione. Il punto è che per contrastarne gli aspetti più degradanti e criminosi dovremmo sperimentare nuove soluzioni. Purtroppo in Italia non si possono affrontare temi del genere perché c’è troppo scontro ideologico e ipocrisia».
Sindaco, cosa si aspetta da questa ordinanza?
«Che si accendano i riflettori sulla gravissima e quotidiana violazione dei diritti umani perpetrata con la tratta e la riduzione in schiavitù di donne italiane e straniere, spesso minorenni. Se qualche multa servirà a salvare la libertà, la vita e la dignità, anche di una sola donna, sarà già un successo. C’è troppo silenzio nel nostro Paese su questo dramma che riempie di miseria umana le periferie delle nostre città».
Nardella, non le pare un’ordinanza che fa l’occhiolino agli elettori di destra?
«Io credo che i cittadini che tengono alla lotta contro la criminalità organizzata e al valore della dignità umana possano apprezzare la nostra iniziativa. Solo a Firenze, in questo anno, si contano già 27 procedimenti penali per sfruttamento e 128 persone indagate. Semmai questa ordinanza è di sinistra ».

il manifesto 16.9.17
La rivincita renziana punta tutto sulle banche
Commissione d'inchiesta & Bankitalia. Rebus presidente, certezza flop Mentre l’inviso Visco va verso la riconferma
Una protesta dei risparmiatori beffati dalle crisi bancarie
di Massimo Franchi

La vendetta renziana e del Pd per lo scandalo Consip dovrebbe partire, oltre che dall’interrogazione parlamentare contro il capitano Ultimo, dalla Commissione bicamerale d’inchiesta sulle banche. Evocata da Renzi e Orfini con espressioni sbracate («Ci divertiremo») per spiegare che il Pd non ha nulla da nascondere, che il papà di Maria Elena Boschi – Pier Luigi, multato da Consob di 40mila euro per la liquidazione da 700 mila euro concessa al direttore generale dell’istituto bancario aretino, ma verso l’archiviazione nel procedimento penale – non c’entra niente con gli scandali di questi anni.
La partita è legata a doppio filo con un’altra, se possibile ancora più vicina ed importante: la conferma del governatore Ignazio Visco a Bankitalia. Sarà Gentiloni a dover decidere entro ottobre. Gli attacchi neanche troppo impliciti di Renzi sulle pecche della Vigilanza di Palazzo Koch corredati dalle inchieste giudiziarie – rese pubbliche da Il Fatto dando vita ad una strana alleanza – avevano fatto mettere in forse la riconferma.
La loquacità di Visco – ieri ha bacchettato perfino chi parla di educazione finanziaria: «Non basta, vanno puniti gli illeciti» – e i boatos dai palazzi del potere – primo fra tutti il Quirinale – portavano ieri a considerare la riconferma assai probabile. Anche per mancanza di sostituti all’altezza: i renziani avrebbero avanzato la candidatura dell’economista Marco Fortis, distintosi in questi ultimi mesi per essere un vero e proprio ultrà del Jobs act, ma senza il curriculum per prendere il posto che fu di Ciampi e Draghi, solo per restare agli ultimi 30 anni. Mentre le candidature interne – Fabio Panetta o Salvatore Rossi – peccano nell’aver condiviso con Visco le mancanze della vigilanza mentre le popolari fallivano e i risparmiatori pagavano.
L’attenzione quindi si sposta sulla Commissione bicamerale d’inchiesta: 40 componenti, equamente suddivisi fra Camera e Senato. Dopo mesi di melina il Pd ha finalmente annunciato i nomi dei componenti: i renziani e i lealisti del capo la fanno da padrone. Dallo stesso presidente Orfini al fido tesoriere Bonifazi, la pattuglia è agguerrita e pronta a tener fede alla linea. In più ci sono Andrea Marcucci, Vazio, Dal Moro, Sanga, Taranto, l’ex ministro Stefania Giannini, Del Barba, Marino e Mirabelli; a cui si aggiungono solo quattro esponenti della minoranza interna, scelti fra l’altro fra i più moderati: Cenni, il professor Carlo Dell’Aringa, Fabbri e Sangalli.
Una volta nominati tutti i componenti dai presidenti di ogni ramo del Parlamento, la commissione sarà convocata entro 10 giorni per eleggere i vertici. E qui arriva il problema più grosso: chi sarà il presidente? Il Pd punterebbe ad una figura di spessore ma gli unici nomi passabili sono Pier Ferdinando Casini (Ap) – che però sarebbe indeciso perché contrario allo stesso strumento delle commissioni d’inchiesta – o l’ex viceministro all’Economia Enrico Zanetti (Sc-Ala), sceso dallo scranno governativo di via XX Settembre per le polemiche scaturite proprio sulla questione banche nel passaggio da Renzi a Gentiloni.
L’impressione è che il rebus rimarrà irrisolto fino alla prima convocazione. Ma la vera domanda riguarda i tempi: in una legislatura quasi a scadenza cosa potrà scoprire la commissione? «Niente», aveva risposto mesi fa Bruno Tabacci, uno dei massimi esperti della materia. E continuava: «Sono sicuro che verrà utilizzata in modo strumentale: ognuno butterà in faccia all’avversario il peggio rinfacciandogli la banca vicina. Per questo la vuole Renzi, per farci campagna elettorale. Insomma, un gran casino che non stabilirà nessuna responsabilità, specie se il presidente non sarà una persona equilibrata». Parole sempre più attuali.

Il Fatto 16.9.17
Bonino: “Il tappo alla Libia non può tenere”
Immigrati - La radicale torna a criticare Minniti alla festa del Pd: criminalizzate ma ora le vanno a cercare
di Luciano Cerasa

“Siamo alla festa del Pd e so bene che qui ci si divide tra fan e acerrimi nemici di Marco Minniti, ringrazio che ci sia data la possibilità di discutere”. Il senatore Luigi Manconi mette subito i piedi nel piatto dal palco nello spiazzo dell’ex mattatoio di Testaccio a Roma. In programma la presentazione del suo libro “Non sono razzista ma…” scritto a 4 mani con la giurista Federica Resta.
È una serata già scivolata nell’autunno, a Roma e accanto agli autori rabbrividisce, stretta in una giacca prestata da un militante, Emma Bonino. “Meglio darsi una regolata, oggi abbiamo messo un tappo alla Libia ma attenti perché non è impermeabile e non tiene: ieri abbiamo dovuto richiamare due navi delle tante vituperate Ong per raccogliere 371 persone in mare, dopo che abbiamo passato mesi per distruggere la loro credibilità e adesso le cerchiamo pure per andare nei centri di accoglienza libici” attacca l’esponente radicale, tornando a criticare la politica dei respingimenti messa in pratica dal ministro degli Interni Minniti. Bonino distribuisce però equamente le responsabilità a destra, a sinistra e anche al Movimento 5 stelle: “Tra poco ci sono le elezioni ma attenti che la gente vota l’originale, non la caricatura” avverte con un chiaro messaggio al Pd. La questione dell’immigrazione “non è solo politica, se non stiamo attenti il razzismo penetra dentro ciascuno di noi a cominciare dai giovani che colgono quello che dice Salvini tutti i giorni e Di Maio di tanto in tanto” dice Bonino. Il problema quindi “è cambiare il clima culturale in un paese che non è razzista ma dove il razzismo è stato sdoganato, se non stiamo attenti un passettino dietro l’altro ci troveremo in una specie di epidemia da cui sarà difficile tornare indietro”.
Per l’ex ministro degli Esteri del governo Letta l’Europa è poggiata su una bomba demografica: “Sotto il lago Mediterraneo c’è un giardino d’infanzia, entro una generazione paesi come il Niger o l’Egitto avranno la stessa popolazione del continente europeo e non c’è sviluppo economico in loco che possa reggere questa esplosione, dobbiamo governare questo fenomeno che non possiamo eliminare”. In politica, ricorda Bonino, “difficilmente si riesce a far coincidere i valori con gli interessi, ma se c’è uno spazio dove coincidono perfettamente è la necessità di integrare le persone che arrivano, gente necessaria alla nostra economia e al nostro equilibrio demografico”. Il bersaglio principale ora, per la leader radicale, è il superamento della legge Bossi-Fini “perché chiude tutti i canali d’ingresso regolari rendendo tutti clandestini”. Per questo Bonino sta promuovendo una raccolta di firme per una proposta di legge d’iniziativa popolare.

il manifesto 16.9.17
Minniti continua ad «aiutarli a casa loro»: missione nel sud della Libia
Libia. Per Minniti la nuova missione è una «questione più importante del controllo delle acque territoriali, perché il confine sud è importantissimo sia per il contrasto ai trafficanti di essere umani sia per il contrasto al terrorismo»

Un incontro al Viminale per confermare la partenza di una nuova missione – finanziata dalla Ue – ai confini meridionali della Libia  con gli obiettivi principali di realizzare una base logistica per le attività operative della Guardia di confine e di prevedere un’adeguata presenza delle organizzazioni delle Nazioni unite.
LA NUOVA MISSIONE fa parte dell’attuazione del «Memorandum Italo-Libico», per il quale ieri si è svolto un incontro a Roma cui hanno partecipato oltre a Minniti, l’ambasciatore italiano a Tripoli, Giuseppe Perrone, A.H Elmaghur, incaricato d’affari presso l’Ambasciata di Libia in Italia, il ministero della Difesa, il Comando generale del Corpo delle Capitanerie di Porto, del Comando generale della Guardia di Finanza. Secondo una nota del Viminale «si è concordato di sostenere l’impegno della Libia nel controllo dei confini meridionali, anche attraverso un progetto italiano con gli obiettivi principali di realizzare una base logistica per le attività della Guardia di confine e prevedere un’adeguata presenza delle organizzazioni delle Nazioni unite sul territorio». Una base transitoria, almeno a parole, destinata a impacchettare nelle mani italiane la Libia.
NON SI FERMA dunque l’azione del ministro degli interni Minniti, proprio mentre il suo memorandum viene denunciato come illegale dai radicali italiani. Nel mirino l’accordo con «il governo di Sarraj e il ricercato Ahmad Dabbash, indicato dalla stampa come capo di violenti gruppi armati e, al momento dell’accordo, come uno dei principali responsabili del trasporto dei migranti in mare».
PER MINNITI la nuova missione è una «questione più importante del controllo delle acque territoriali, perché il confine sud è importantissimo sia per il contrasto ai trafficanti di essere umani sia per il contrasto al terrorismo»

Il Fatto 16.9.17
Lo sdegno per gli stupri? Dipende dalla nazionalità
di Furio Colombo

Caro Furio Colombo, il giorno dopo lo stupro, disgraziatamente autorevole e italianissimo, delle due ragazze americane a Firenze, ho sentito ripetere elenchi di stupri in cui gli italiani non compaiono mai come colpevoli. Eppure ogni commissariato di P.S. e ogni stazione dei carabinieri hanno abbondante materiale di denunce quasi solo italiane. Capisco il falso politico, ma i media?
Fiorenza

Giorni fa (dopo i quattro africani e prima dei due militari italiani) ho sentito, fra l’incrociarsi di varie fonti di notizie sulla frequenza del reato di stupro, questa sorta di statistica: il 60% delle denunce sono a carico di italiani, il 40% sono contro “stranieri” (che non vuol certo dire scandinavi). Il reato di cui stiamo parlando è sempre odioso, sempre intollerabile. Ma, così come è stata detta, la statistica è vistosamente falsa. Lo è perché qualunque fonte di avvocatura, magistratura e polizia ci dice (e ci ha detto da molto tempo) che i reati di stupro fra bianchi vengono denunciati in un numero esiguo di casi, compresi quelli di giovanissime di cui si vuole evitare lo choc di raccontare in pubblico, e certamente resta oscurata la gran parte degli stupri domestici. Al contrario, gli stupri di cui sono o si ritengono responsabili gli stranieri risultano denunciati con il massimo della pubblicità, a cui si aggiunge un sostenuto coro popolare di sdegno che non riguarda mai i casi “comuni”. Ricordate quando, commentando stupri italiani, si discuteva, anche in Parlamento, sul modo di vestirsi e di comportarsi delle donne (viste, anche da alcuni deputati come “la causa” della violenza) al punto che la on. Mussolini si è presentata in aula indossando jeans aderenti, per protesta contro la sentenza di un giudice troppo benevolo con uno stupratore locale? Viene subito riservata una rigorosa e dettagliata intransigenza sulla gravità del reato di stupro non appena si accerta che sia stato compiuto da un immigrato (a volte si aggiunge: “Proprio loro, che dovrebbero esserci grati…” come se si discutesse di maleducazione) e la narrazione del fatto viene ripetuta per giorni, mettendo sempre più in evidenza il dato della provenienza dall’Africa. Chiede la lettera al “Fatto”: perché i media, giornali e Tv, stanno al gioco? Ci stanno perché sono parte di un fenomeno che ormai si nota chiaramente e si sta estendendo in Italia: i cittadini normali (incerti, perplessi, indignati a volte, ma non razzisti) hanno paura non degli immigrati ma dei razzisti, lungo tutto l’arco che va dalla Lega alle pattuglie di Forza Nuova e di Casa Pound. Hanno ragione di avere paura. Il capo della Lega (non è dato di sapere perché) viene trattato come titolare di un potere che non corrisponde al suo partito di media grandezza e di incerta tenuta. In ogni fonte di notizia il leghista è sempre l’interlocutore principale di chi difende i migranti, come se parlasse a nome di mezza Italia. Le varie fazioni fasciste, benché piccole (forse apparentemente piccole, dato il disinvolto uso nell’esibire i loro caratteri fascisti) si comportano come se non ci fossero prefetti e questori nei luoghi in cui portano il loro circo Mussolini. E celebrano liberamente un assassino. Gli altri partiti si astengono, e in tal modo i cittadini vengono raggiunti da un unico segnale: è chiaro che leghisti e fascisti possono fare quello che fanno. Quando non è possibile stare alla larga, meglio dargli ragione. E così la paura dei cittadini normali verso i razzisti si allarga. Erano il 75%, un anno fa, coloro che rifiutavano di essere stupidi e crudeli. Adesso sono il 40. Il Papa sembra avere perduto i parroci ed è diventato cauto. Non ci aspetta una Italia migliore.

Il Fatto 16.9.17
Era necessaria la legge contro i nuovi fascismi
di Walter Verini

Sono stato co-firmatario e relatore della proposta Fiano contro l’apologia di fascismo. Non si tratta di una norma contro i “nostalgici dell’orbace”, acquirenti di gadget del Duce a Predappio o in qualche mercatino. Non si prevedono sanzioni contro chi produce, vende e acquista queste chincaglierie da Fascisti su Marte. Così come – ovviamente – non si colpiscono in nessun modo la ricerca storica, le opinioni, le manifestazioni di pensiero. A questo pensavano e pensano fascismi e autoritarismi di ogni genere, di ieri e di oggi.
E non si fa naturalmente riferimento a monumenti, simboli storici o architettonici dell’epoca. Che stanno lì. Che nessuno buttò giù dopo il 25 aprile 1945 e che nessuno può demolire o cancellare. Perché allora questo provvedimento? Perché è necessario adesso. Leggere “Ebrei ai forni”, su un muro o con la violenza della Rete, è cosa di oggi. Chiediamoci cosa possono provare Sami Modiano, Nedo Fiano, Piero Terracina, le sorelle Bucci, davanti a queste scritte. O figli e nipoti di migliaia di ebrei italiani massacrati nei campi di sterminio. O di oppositori del regime mandati in carcere, al confino, in esilio. Nell’estate abbiamo assistito a ronde punitive contro i migranti, a discriminazioni contro omosessuali. A proprietari di locali o organizzatori di gare che non assumono o escludono ragazze e ragazzi perché di pelle diversa da quella bianca. In questo periodo, facinorosi di estrema destra hanno invaso le istituzioni, come a Milano, dato vita a raduni di chiara ispirazione neofascista e neonazista. O intimidito sacerdoti che avevano accolto e portato in piscina ragazzi di pelle nera. Gli incendi alle Sinagoghe in giro per l’Europa (in Italia siamo ancora “solo” alle scritte antisemite) sono cronaca di questi mesi. E a Utøya, 81 ragazzini sono stati ammazzati appena qualche anno fa da un neonazista sano di mente. E la Rete, che non esisteva ai tempi della legge Scelba del 1952, moltiplica esponenzialmente queste espressioni di odio, violenza, discriminazione, sopraffazione. La legge del 1952 e la legge Mancino non coprono tutta la potenzialità del reato. La legge Scelba non sanziona apologia e reati simili se non finalizzati alla ricostituzione del Partito fascista.
Ecco, quindi, l’esigenza di istituire un reato specifico, per colpire la propaganda di queste aberranti teorie antidemocratiche, collegata purtroppo a precise condotte, a fatti attuali e pericolosi. Si sostiene che neofascismi e neonazismi non si colpiscono con i codici ma con una grande battaglia sociale, culturale, ideale. E facendo funzionare bene la democrazia, facendola amare davvero ai cittadini. Giusto.
Ma facciamo un parallelo, con lotta contro le mafie: anche qui la battaglia è innanzitutto sociale, culturale, di diffusione e pratica di cultura delle regole e della legalità. Ma questa consapevolezza non ha impedito di approvare anche leggi e norme antimafia (dalla Rognoni-La Torre al 41-bis fino alla prossima approvazione del Codice Antimafia e Riforma dei beni confiscati) che hanno svolto un ruolo fondamentale nel contrasto alle mafie. “Ci sono ben altre priorità!” ci hanno detto in questi giorni. Beh, in questa legislatura questo Parlamento e i governi ne hanno affrontate e ne stanno affrontando tante (al di là del giudizio di merito che ognuno può dare sulle risposte). Si diceva: “Altre sono le priorità” anche quando dovevamo approvare la legge sulle unioni civili. Ma il rispetto dei diritti e della dignità delle persone, mi chiedo, non sono una delle priorità?

Il Fatto 16.9.117
Panico
“Si ha più paura di essere contagiati che di ammalarsi”
di Antonello Caporale

“Tutti i barconi di migranti sono pieni di scabbia. Mai un cardiopatico che scappi dalla fame e si ritrovi a bordo di un gommone” dice Andrea Carlino, storico della medicina all’Università di Ginevra.
Nell’età della paura, la gente sbarca insieme alla malattia che infetta.
Un sovraccarico di pathos dovuto al circuito mediatico che inanella singoli casi e – cucendoli uno a uno – fa assumere loro una stazza che non sempre rappresenta la giusta misura del problema.
Lei insegna ai medici la storia della medicina, il cursus honorum delle singole malattie.
Quelle contagiose sono sicuramente le più angoscianti, e prescindono dalla capacità di incidere sulla nostra condizione, sulla nostra abilità di resistervi e affrontarle.
Come in un sequel romanzato, con i barconi è iniziato il tam tam dell’allerta sanitaria.
La povertà riduce le difese e alimenta i danni fisici. L’Africa nera si associa naturalmente al tema del contagio. Da una condizione reale di malessere però si giunge, attraverso la propalazione di notizie cospicuamente sovradosate, all’incubo di stare per finire nel cerchio di fuoco della morte.
Due anni fa era ebola. L’Occidente vigilava nell’ansia sulle frontiere del contagio.
Ebola, sì. E prima come non ricordare l’Aids.
O la tubercolosi.
La tubercolosi ci riporta all’età della nostra migrazione, al secondo dopoguerra, alla nostra povertà non ancora superata. E la tubercolosi non aggrediva soltanto le case dei poveri, degli affamati, ma si dirigeva anche ai piani alti della società.
Ogni giorno ascoltiamo notizie circa malattie definitivamente debellate che, come un mostro marino, si riaffacciano sulle nostre coste grazie ai barconi.
Di malattie debellate ce n’è soltanto una ed è il vaiolo. C’è certezza che il virus sia azzerato. Ma il vaiolo, per dire, non è un sorvegliato speciale soltanto da un punto di vista sanitario. È divenuta un’arma militare. Le guerre si fanno non soltanto con i missili, ma anche con la chimica e i batteri. E depositi del virus si trovano negli Usa e in Russia.
Il nord del mondo adesso si difende dal sud facendo rivivere il tempo delle infezioni. Sembra una regressione nei primi anni del Novecento.
Si riferisce alla malaria?
Ecco, spuntata la malaria. Come se nessun caso fosse esistito prima di quegli sbarchi.
È il circuito mediatico ad avere la mano potente.
È il potere che se ne serve per trasformare e manipolare. Oppure la politica per fare propaganda.
Ho visto che da qualche giorno c’è la zanzara Chikungunya.
Oggi a Bolzano un caso di tifo.
Il tifo noi italiani l’abbiamo conosciuto molto bene.
Il virus non ci contagia soltanto, la malattia non ci fa unicamente ammalare. Esiste la suggestione, la drammatizzazione, la teatralizzazione del fenomeno.
La drammaturgia del contagio. È il quid che altre patologie non hanno.
E autorizzano un sovrappiù di eccitazione.
Esistono atti terapeutici della medicina che compongono una scena perfettamente teatrale. Pensi alla sala operatoria. L’intervento si sviluppa in una cornice di movimento. Si potrebbe definire una recita a soggetto.
C’è recitazione in sala operatoria?
Sì, anche recitazione. Sto studiando la spettacolarizzazione di pratiche terapeutiche come il tarantismo (prende il nome dalla taranta salentina, ndr). C’è tutto un rituale.
Esiste la potenza del messaggio virale.
Per prendere dalla cesta solo una delle tante malattie: la tubercolosi è simbolicamente potentissima.

Repubblica 16.9.17
La provocazione di un dirigente di Bologna “Usate lo smartphone, lo dice pure la ministra”
Il decalogo alla rovescia del preside ai suoi liceali “Copiate e non studiate”
di Ilaria Venturi

BOLOGNA. «Cari ragazzi, considerate sempre i vostri docenti come nemici, copiate, evitate di fare i compiti a casa, tanto fior di pedagogisti vi dicono che sono inutili». E usate lo
smartphone «durante le noiose ore di lezione, persino la ministra Fedeli ha detto che è consentito». Non sono battute stampate sui diari più irriverenti, né scherzosi suggerimenti che viaggiano sui social. Sono i consigli di un preside ai suoi studenti all’avvio delle lezioni. Consigli al contrario, ovviamente.
È Maurizio Lazzarini, dirigente del liceo scientifico Fermi di Bologna, a proporre una nuova provocazione. L’anno scorso aveva tirato le orecchie ai genitori dettando loro dieci mosse per mettere ko la scuola. Un escamotage letterario per sollevare il problema del rapporto sempre più conflittuale con le famiglie. Quest’anno si rivolge agli studenti con un nuovo decalogo alla rovescia e la stessa ironia. Ma un’avvertenza: «Se lo seguirete non farete fallire la scuola». Sarà peggio: «Fallirete voi».
La chiave è la stessa e ruota intorno all’idea di una scuola vissuta come un campo di battaglia. Padri e madri contro i presidi. I loro figli contro i prof. Su tutto: voti, troppi o pochi compiti, bocciature. «Ma se questo è l’atteggiamento sono i ragazzi a farne le spese, più che la scuola. Per questo ho pensato stavolta di rivolgermi a loro», osserva. Ieri Lazzarini ha consegnato alle sue “matricole” la Costituzione e insieme ha anticipato, recitandole davanti a 320 facce adolescenti e attonite, le dieci mosse, postate poi nel sito del liceo per tutti i 1500 studenti, per vivere l’esperienza tra i banchi. Sottintendendo, in modo sbagliato. Abituato al rapporto stretto coi suoi ragazzi, tanto che dà a tutti il suo numero di cellulare, Lazzarini ha così voluto scuoterli. «Il primo punto li riassume tutti: considerare i prof come nemici. La parola è forte, ma volevo farmi capire: siamo una comunità. Non devono esistere controparti». Sulla valutazione si consumano i maggiori scontri. «Non accettate voti e consegne, trattate fino allo sfinimento o vostro o dei prof», è allora l’altro consiglio che il preside dà. Per poi spiegare: «Chiedere ragione di un voto è un loro diritto, ma il voto non è frutto di una negoziazione sindacale. Invece i ragazzi conoscono benissimo la pragmatica della comunicazione, vanno continuamente alla trattativa e con qualche insegnante funziona pure». Sempre al contrario, viene suggerito dunque di «togliere valore al registro elettronico», di «evitare il più possibile i colloqui dei genitori coi prof, tanto si sa, non si capiscono ». Il capitolo studio tocca polemiche recenti. I compiti a casa: «Tutt’al più copiateli la mattina stessa». In realtà l’argomento è serio: «Da maestro alla primaria non ho mai dato compiti, ma al liceo la rielaborazione individuale è necessaria». Con garbo istituzionale, Lazzarini ironizza sullo sdoganamento dei cellulari in classe: «Devono essere i docenti a decidere se e come usarli». Il resto va a colpire antichi vizi: ritardi («la scuola è lunga, prendetevela con comodo»), scopiazzature («durante le verifiche copiate le risposte») e il ridursi all’ultimo («studiate solo il giorno prima delle verifiche, se poi non siete pronti state a casa»). Il consiglio numero dieci ha strappato applausi: «Quando non sapete più cosa dire, urlate: vado dal preside!». Lazzarini sospira: «Magari coi ragazzi funziona». Invece come è andata a finire coi genitori? No comment, scatta una risata.

Il Fatto 16.9.17
A scuola lo smartphone non basta
Nuovo anno - Cara ministra Fedeli, i ragazzi già sanno come usarlo ma non come leggere i classici
A scuola lo smartphone non basta
di Angelo Cannatà

Primi giorni di scuola al liceo. Osservo e prendo qualche appunto. Innanzitutto le aule. Piccole, brutte, sovraffollate. Gli edifici pericolanti e gli ambienti angusti in cui si fa lezione sono, nonostante slide e proclami governativi, terribilmente identici al passato. Le carenze strutturali rendono difficili le innovazioni: copiamo “modelli didattici” dai Paesi anglosassoni (prevedono aule-laboratorio, spazi multimediali, biblioteche in classe) ma non abbiamo strutture adeguate.
Mancano aule, laboratori, professori; e i presidi devono dirigere più scuole, spesso molto distanti tra loro. Si fanno corsi sulla sicurezza invece di mettere in sicurezza gli edifici; si nominano supplenti per simpatia (e amicizia) invece di seguire una graduatoria; si pongono barriere (24 crediti) per l’accesso ai concorsi invece di aprirli a tutti i laureati.
Adesso si discute – come fosse un’urgenza – degli smartphone: “Non si può separare il mondo dei ragazzi – dice la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli – da quello della scuola”. Gli smartphone possono anche essere utili, certo; il problema è capire quanto peso debbano avere in classe, se possano invadere (fino a devastarli) i tradizionali spazi d’insegnamento e se compito del docente sia educare al loro corretto uso, o altro. Io credo che l’insegnante abbia altre priorità: leggere i classici ad alta voce in classe; spiegarli; richiamare il contesto; la critica; dare agli studenti spunti ermeneutici per una loro, personale, lettura del testo. Leggere l’Elogio della follia, il Simposio, Al di là del bene e del male
… sentire Erasmo, Platone, Nietzsche dalla voce dell’insegnante è un’esperienza unica che solo la scuola può dare. “C’era una volta un Paese dove l’insegnante faceva lezione. Latino, greco, filosofia… si studiavano con passione. Era la buona scuola del passato. Formava persone. I migliori medici, ingegneri, giuristi, che occupano posizioni di rilievo nell’Italia di oggi, hanno studiato nella vecchia scuola di una volta; sono affermati professionisti ma ricordano il liceo: la severità e la comprensione; il silenzio, quando a parlare erano i classici, mediati dalla voce dell’insegnante. Ricordo il timbro, l’intercalare, le pause, puntuali, precise del mio professore d’italiano. Una presenza che ha avuto un ruolo nella mia vita”. Mi scuso per l’autocitazione, ma quando leggo della necessità dello smartphone in classe sento che si esagera. E’ vero il contrario, cara ministra Fedeli, proprio perché smartphone telefonini eccetera sono la quotidianità dei ragazzi, la scuola deve offrire altro: strumenti critici, motivazione, passione per i libri, veicolati dalla parola dell’insegnante, da quella corrente emotiva che Gentile riteneva essenziale nel rapporto docente-discente. La scuola gentiliana è criticabile, certo, per il carattere elitario; ma il filosofo coglie il punto quando osserva che il docente “rivive e trasfigura nel vivo fuoco dell’atto di insegnare i contenuti delle discipline” (altro che smartphone!). Ci pensi, ministra, prima d’introdurre una novità che cambia il senso della lectio in classe. Non ho nulla contro la tecnologia. Oggi, però, si tratta di capire se la scuola debba educare alla riflessione, alla profondità, o veicolare l’accettazione superficiale e supina dell’esistente abbellita dalle immagini a colori di uno smartphone.

Repubblica 16.9.17
Una sola pensione la riforma credibile
di Sergio Rizzo

NON è passato giorno in parlamento senza che la faccenda dei vitalizi abbia alimentato onorevoli colluttazioni. In un crescendo sgradevole fino alla scadenza fatidica del 16 settembre.
MARTEDÌ il colpo di freno della maggioranza alla legge Richetti per tagliare gli assegni già in essere, all’ombra di una presunta incostituzionalità. E l’inqualificabile gesto dei due proiettili recapitati al deputato di Rivoluzione cristiana Gianfranco Rotondi, fermamente contrario al taglio dei vitalizi. Mercoledì la sconcertante vicenda del democratico Vincenzo Cuomo eletto sindaco di Portici ma rimasto abbarbicato al seggio del senato fino al giorno fissato per la maturazione del vitalizio: oggi 16 settembre, appunto. E ieri la durissima reazione dei parlamentari 5 stelle, con il provocatorio annuncio di voler rinunciare al privilegio.
Nella poco edificante piega che ha preso la battaglia politica in questo Paese i vitalizi vengono utilizzati come clava da uno schieramento contro l’altro, e anche all’interno del medesimo partito da una corrente contro l’altra. In una contesa che finisce per opporre, dietro il velo ipocrita di motivazioni tecniche oppure morali, la strenua difesa di assurde prerogative non più tollerabili alla demagogia fine a se stessa.
A questo non saremmo mai arrivati se la classe politica avesse affrontato per tempo e con serietà una questione ineludibile da molti anni. Il fatto è che l’istituto del vitalizio è andato perdendo via via le caratteristiche di baluardo a difesa dell’autonomia degli eletti che ne avevano ispirato l‘introduzione nel 1954, trasformandosi progressivamente in un privilegio pensionistico sempre più incomprensibile anche alla luce delle condizioni della maggioranza dei pensionati italiani. Anziché prenderne atto e agire di conseguenza, i partiti hanno pensato soltanto a tutelare quanto più possibile lo status quo. E quando sono stati costretti a intervenire l’hanno fatto tardi e male.
La risposta all’ondata di indignazione già levatasi da un decennio è stata la decisione di ricondurre il regime dei vitalizi, a partire dal 2012, nell’alveo dei trattamenti previdenziali contributivi. Però con significative differenze rispetto a quelli in vigore per i comuni cittadini. Basti dire che un ex parlamentare oggi a 65 anni di età può andare in pensione con soli cinque anni di contributi versati. Sarà pure contributivo, ma è indiscutibilmente un privilegio, che si somma ad altri privilegi ancora più sostanziosi mai sfiorati.
Nessuno, per fare un esempio, ha mai pensato di mettere in discussione la cumulabilità degli assegni. Con la conseguenza che chi ha avuto la fortuna di avere più vite politiche porta a casa altrettanti vitalizi. Sono circa 300 gli ex onorevoli che cumulano il vitalizio parlamentare con quello regionale, superando di slancio in qualche caso gli 11 mila euro netti al mese. Non bastasse, ai trattamenti corrisposti dalle Camere e dalle Regioni gli ex parlamentari possono sommare anche la pensione, in moltissimi casi pagata da noi con i cosiddetti contributi figurativi.
Chi viene eletto ha diritto a vedersi accreditare gratis per tutta la durata del mandato la fetta più grossa dei contributi previdenziali relativi all’attività lavorativa che ha sospeso. Uscendo dal parlamento avrà in questo modo diritto, oltre al vitalizio, anche alla sua pensione ma pagata quasi tutta dalla collettività. Un tempo l’intera contribuzione era a carico della previdenza pubblica, finché nel 1999 qualcuno tentò di cambiare le cose obbligando gli onorevoli che intendevano maturare la pensione a versarsi i contributi, pari di regola al 33% della retribuzione prevista. Ma passò alla chetichella un emendamento che limitava l’obbligo alla sola quota di competenza del dipendente. Da allora la pensione si porta a casa pagando l’8% di tasca propria mentre il restante 25% è sempre a carico dell’Inps o degli altri enti. Ci sono attualmente 2.117 ex onorevoli che cumulano uno o più vitalizi alla pensione, 1.323 dei quali l’hanno maturata proprio con i contributi figurativi.
La conclusione è che l’unica riforma sensata, condivisa anche dal presidente dell’Inps Tito Boeri, è quella mai presa in considerazione per ragioni intuibili. Addirittura elementare: trattare il mandato elettivo alla stregua di un normale periodo della vita lavorativa, convogliando i contributi relativi in un’unica posizione previdenzialeper spazzare così via cumuli e pagamenti figurativi. Al raggiungimento dell’età l’ex parlamentare avrebbe in questo modo una pensione contributiva dignitosa. Però una sola, come ogni comune mortale, invece di tre o quattro. Di cui qualcuna addirittura regalata.
Quanto al passato, anche qui se solo i politici l’avessero voluto sarebbe stato possibile intervenire da tempo per mettere fine a certi scandali legalizzati senza fare una legge che rischia di non produrre nulla sbattendo contro la censura costituzionale. I modi sono tanti. L’ha spiegato bene su queste colonne Michele Ainis: purtroppo però, temiamo, un’altra voce nel deserto.

Repubblica 16.9.17
Stoccolma
La marcia nera che evoca Charlottesville
di Andrea Tarquini

IL COMPIANTO Stieg Larsson, oltre a regalarci la saga Millennium, fu sempre in prima linea per ricordare al Grande Nord e al mondo che anche dove meno te lo aspetteresti lo spettro del neonazismo si aggira vivo e minaccioso. Appunto sta accadendo nella civilissima Svezia. Dove gli ultrà dichiaratamente razzisti e antisemiti del Nordic resistance movement preparano per il 30 settembre una marcia nel centro di Göteborg, seconda città del paese e location di eccellenze quali Volvo o Hasselblad. È una sfida pericolosa, cui le autorità sembrano impreparate. Perché i neonazisti “vichinghi” vogliono sfilare per il centro, anche davanti alla sinagoga centrale di Göteborg. E perché il giorno del 30 settembre nel nostro calendario coincide con la festività ebraica dello Yom Kippur. Il rischio di incidenti e violenze insomma è preprogrammato. Si moltiplicano gli appelli alle autorità a ripensarci, ma finora sono rimasti inascoltati. Parlando a Sveriges Radio, l’emittente pubblica nazionale, si è mosso parlando per tutti gli intellettuali e i Vip democratici del paese Staffan Forssell, presidente dell’autorevole Kulturradet, il Consiglio nazionale delle Arti. Ma dalla polizia di Göteborg ha ricevuto una risposta che ha ritenuto deludente: «La libertà di espressione e manifestazione vale per tutti, anche per il Nordic resistance movement ». Peccato, cara Svezia, ce lo saremmo aspettati a Charlottesville ma non da te.

il manifesto 16.9.17
La minaccia dell’estrema destra islamofoba
Fenomeno in crescita. Un terzo dei casi seguiti dagli investigatori viene da questo ambiente. Alla fine delle inchieste sono stati arrestati 34 neonazisti, pari a circa l’8% del totale
di Guido Caldiron

La minaccia del terrorismo incombe sulla Gran Bretagna, viene soprattutto dai sostenitori dell’Isis, ma anche, in parte, dalla destra neonazista. In un clima politico sempre più velenoso.
A confermare che il terrorismo di estrema destra rappresenta un fenomeno in crescita sono prima di tutto i numeri. Il Prevent/Channel, il piano lanciato nel 2003 dal ministero degli Interni per monitorare il circuito dei possibili simpatizzanti della jihad, e prevenire eventuali attacchi, si occupa sempre più di frequente dell’estremismo razzista. Secondo i dati relativi all’ultimo anno, un terzo dei casi seguiti dagli investigatori viene da questo ambiente e alla fine delle inchieste sono stati arrestati 34 neonazisti, pari a circa l’8% del totale.
Come ha dichiarato un portavoce del Consiglio nazionale delle forze dell’ordine, «siamo impegnati a far fronte a tutte le ideologie che costituiscono una minaccia per la sicurezza, compresa quella dell’estrema destra». In realtà, ha replicato Miqdaad Versi, del comitato che riunisce le comunità musulmane, si tratta invece di un netto cambio di strategia, visto che la pericolosità di razzisti e islamofobi è stata a lungo sottovalutata. Del resto, più che per convinzione, le autorità sembrano aver mutato atteggiamento sulla scorta di quanto sta avvenendo.
È infatti solo della scorsa settimana la notizia dell’arresto di quattro militari sospettati di far parte del gruppo neonazista National Action, sciolto a dicembre dalle autorità, che si sospetta stessero preparando degli attentati contro i musulmani. Alla medesima formazione faceva riferimento anche Thomas Mair, il suprematista bianco condannato all’ergastolo per aver ucciso lo scorso anno la parlamentare laburista Jo Cox a pochi giorni dal voto sulla Brexit.
Intanto, alla metà di giugno, Darren Osborne, un 44enne di Cardiff, vicino all’ultradestra, si era lanciato contro la folla che usciva da una moschea di Finsbury Park, nel nord della capitale, ferendo 10 persone e provocando la morte di un anziano cardiopatico al grido di «morte ai musulmani». Allo stesso modo, in particolare dopo gli attentati jihadisti al London Bridge e al concerto di Ariana Grande a Manchester, le forze dell’ordine hanno rivelato un aumento di minacce e violenze anti-islamiche e razziste: di ben 5 volte superiori al passato nella zona di Londra e addirittura del 500% nell’area della Grande Manchester. A Bradford, nello Yorkshire, alcune lettere anonime hanno annunciato dei prossimi attacchi con l’acido contro i musulmani. Spesso le minacce e le aggressioni per strada hanno coinciso con le manifestazioni organizzate nelle stesse zone dall’English Defence League e da Britain First, le due più attive organizzazioni politiche legali anti-islamiche e nazionaliste.
Inoltre, desta inquietudine il supporto che i gruppi estremisti, oltre mille iscrizioni arrivate durante l’estate, stanno offrendo alla candidatura di Anne Marie Waters, già fondatrice di Sharia Watch, associazione apertamente islamofoba, per la guida dello Ukip dopo le dimissioni di Paul Nuttall, tra i successori di Nigel Farage alla guida del partito. Una vittoria di Waters offrirebbe agli estremisti una platea e una sorta di legittimazione.
«Il problema di fondo – segnala lo storico dell’Università di Northampton Paul Jackson, tra i maggiori studiosi dell’estrema destra locale – è che l’islamofobia sta progressivamente prendendo il posto dell’ideologia del nazionalismo bianco presso i gruppi radicali e diventa sempre più spesso l’alibi per un passaggio alla violenza anche in virtù della banalizzazione di cui ha goduto fino ad ora nella nostra società».

Il Fatto 16,9.17
Vigilanza Rai: il Pd (isolato) vuol fare melina su Gabanelli
Il caso - Sulla proposta dei 5Stelle di convocare la giornalista contrari solo i dem: “Non si può fare, chiamiamo i vertici”. Ma non è vero
Vigilanza Rai: il Pd (isolato) vuol fare melina su Gabanelli
di Gianluca Roselli

Convocare di nuovo Mario Orfeo e Monica Maggioni in commissione di Vigilanza. Così da schivare l’audizione di Milena Gabanelli. Questo è l’escamotage pensato dal Pd per evitare di ascoltare la giornalista in Parlamento, un’audizione che potrebbe mettere in imbarazzo il dg della Rai e il Cda di Viale Mazzini. E infatti sarebbero proprio i vertici della tv di Stato ad aver fatto arrivare in Parlamento il suggerimento a soprassedere: meglio evitare di portare in una sede istituzionale un caso che sta imbarazzando non poco mamma Rai ed è diventato il primo vero problema per il nuovo direttore generale.
La proposta di ascoltare Gabanelli è stata lanciata mercoledì scorso dalla deputata grillina Dalila Nesci, ma è stata respinta al mittente dai dem Vinicio Peluffo e Michele Anzaldi. Il problema, però, è che su questo tema il Pd è isolato: tutte le altre forze politiche presenti in Vigilanza, infatti, chi più e chi meno, sono favorevoli all’audizione. Quindi, se si dovesse arrivare a un voto, il partito di Matteo Renzi potrebbe trovarsi in minoranza. Anche se poi, sulle convocazioni in commissione, al voto non si arriva quasi mai e si trova un accordo prima.
A lanciare la proposta, dicevamo, è stato l’M5S. “Dopo tutte le polemiche e la decisione di Gabanelli di autosospendersi dalla Rai, oltretutto con un duro atto d’accusa verso i vertici, pensiamo sia doveroso affrontare la questione in Vigilanza, ascoltando la parte in causa”, fanno sapere dal movimento grillino. Alla richiesta, però, il Pd oppone un secco rifiuto. “In commissione non si affrontano casi singoli, altrimenti in passato avremmo dovuto ascoltare i vari Giannini, Giletti, Perego… Si creerebbe un pericoloso precedente. Inoltre l’audizione rischierebbe di metterebbe in imbarazzo la stessa Gabanelli perché la esporrebbe a ogni genere di attacco o critica”, osserva Anzaldi. Secondo cui “l’unico modo che la Vigilanza ha per affrontare il caso alla luce delle ultime novità (l’auto sospensione della giornalista, ndr) è quello di riconvocare i vertici: il dg Orfeo e la presidente Maggioni”.
Il problema è che però, così, si ascolterebbe solo la metà della storia. “In Vigilanza in questi anni si è convocato di tutto e di più. Inoltre Gabanelli non è giornalista o conduttrice semplice, ma è vice direttore di testata (Rainews, ndr). Quindi i motivi di opposizione del Pd non stanno in piedi”, osserva Maurizio Lupi di Ap. Su questa linea ci sono un po’ tutti. “Io non stravedo per la giornalista, ma sono favorevole alla convocazione: è sempre meglio ascoltare le questioni direttamente dagli interessati”, afferma il leghista Jonny Crosio. “Gabanelli è l’ultima vittima del controllo renziano sulla Rai. Penso che sia dovere della Vigilanza ascoltare perché una professionista seria e capace come lei abbia deciso di mettersi in aspettativa”, sostiene Fabio Rampelli di Fdi. Anche Pino Pisicchio, in rappresentanza del gruppo misto (terzo “partito” per numeri a Montecitorio), è d’accordo. “Il caso ha suscitato un tale clamore che mi sembra utile sentire tutte le parti in causa”, dice il deputato pugliese.
E Forza Italia? Renato Brunetta è un po’ recalcitrante, ma favorevole. “A patto però che, oltre a lei, vengano convocati tutti gli altri giornalisti e conduttori messi da parte, a partire da Nicola Porro”, osserva il capogruppo forzista alla Camera. Che aggiunge: “Io nutro forti dubbi sulla serietà deontologica della signora Gabanelli. Ma non c’è dubbio che sul caso del progetto web abbia subìto una scorrettezza. La si convochi, ma senza farne una Giovanna d’Arco”, aggiunge Brunetta.
La questione verrà riproposta in Vigilanza mercoledì prossimo. Sara interessante vedere se il Pd continuerà a fare muro oppure se cederà alle pressioni della altre forze politiche. Con buona pace di Viale Mazzini.

Il Fatto 16.9.17
“Milena deve fare la sua battaglia. Per i cittadini”
Nel 2003 Viale Mazzini chiuse il suo programma “Raiot” perché scomodo
“Milena deve fare la sua battaglia. Per i cittadini”
di Gia. Ros.

Milena Gabanelli si è auto sospesa dalla Rai perché il suo progetto di nuovo sito web è stato depotenziato. Prima di lei altri personaggi hanno dovuto combattere contro l’ostracismo di Viale Mazzini. Una di loro è Sabina Guzzanti che, nel 2003, si è vista chiudere un programma, Raiot, perché ritenuto scomodo.
Sabina Guzzanti, vede differenze tra le censure di allora e i comportamenti di oggi?
Quando nel 2001 sono cominciate le censure in Rai, l’opinione pubblica reagiva con forza. Il Paese pullulava di iniziative in difesa della libertà d’espressione. Allo stesso tempo tra gli addetti ai lavori, sui giornali e in televisione, l’atteggiamento era quello di minimizzare. Finché, com’era prevedibile, dopo aver fatto sparire gli elementi vistosamente scomodi, hanno fatto fuori anche quelli mediamente scomodi, poi quelli che magari avrebbero potuto diventare scomodi.
Cosa pensa del caso Gabanelli?
Gabanelli è una giornalista che stimo e a cui sono grata per l’ottimo lavoro. Se posso avanzare una critica, mi sembra che anche lei si possa annoverare tra quelli convinti di aver potuto lavorare in tv grazie a doti di equilibrio. Report ha sempre trattato con competenza e coraggio temi legati alle inefficienze, limitando al minimo argomenti più direttamente politici. Io credo invece nella necessità di una critica più radicale, anche su mafia e politica. Ora la Rai giustifica la marginalizzazione della Gabanelli sul piano del risparmio, per la questione della nuova testata informativa online. Il problema non sono i conti, ma il ruolo della cultura e dell’informazione in tv.
Esiste un modo per allontanare la politica dalla Rai?
Nel 2005 giravo in piazza San Giovanni per raccogliere le firme per una legge popolare per liberare la Rai dal controllo politico dopo la brutale chiusura del mio programma. Pensavo che al concertone del Primo maggio avrebbero firmato tutti e invece no, avevano paura. Molti giornalisti famosi rispondevano: ‘Ho già dato’. Veltroni si dimostrò sensibilissimo e poi scomparve. Questa stessa frustrazione devono averla sentita tanti, prima e dopo di me, e continuerà così finché non accadrà qualcosa che provochi una rivoluzione culturale in questo Paese.
Vede delle differenze tra la Rai berlusconiana e la Rai renziana?
La Rai renziana è più triste di quella berlusconiana, così come quella berlusconiana era più triste di quella democristiana. Dobbiamo rimpiangere Berlusconi? È come dire “si stava meglio quando c’era Bin Laden” perché l’Isis è più spaventoso di al Qaeda.
Vuole dare un consiglio a Milena?
Le direi di dare battaglia, ma che sia una battaglia politica, che difenda non solo i diritti dei giornalisti, ma il diritto dei cittadini a partecipare, a ricevere stimoli, a essere trattati da esseri umani non da polli in batteria.
Che stagione sta vivendo la tv pubblica? Come giudica la sua offerta televisiva?
Mi piacciono Iacona, Blob, Report. Ma l’offerta per l’intrattenimento è tarata su persone obbligate a stare a casa, come gli anziani. Contano su un pubblico prigioniero. Per cambiare ci vuole un’idea condivisa su cosa vorremmo fosse la società e la cultura. I discorsi sugli sprechi, sui bilanci, ma arrivo a dire anche sulla legalità, non sono utili a trovare una via d’uscita.

Il Fatto 16.9-17
Caro Fazio, è ora di dirci quanto incassi davvero
Importi misteriosi - Dopo mesi di attacchi, continua a rimanere vago sui dettagli del maxi-contratto (firmato per 4 anni) per il passaggio a Rai 1
di Selvaggia Lucarelli

Intanto facciamo a capirci. Per me, lo stipendio di Fazio, non è un problema moralistico. “Se glieli danno, fa bene a prenderseli.”, direbbe un mio zio genovese. Non soffro di invidia sociale, sono allergica a quest’atmosfera trotskista della serie “Gli italiani fanno fatica ad arrivare a fine mese e Fazio…”. Tra l’altro, tutti a porsi domande sullo stipendio di Fazio e nessuno che si ponga la vera questione: quanto guadagna Filippa Lagerback per dire “Grazie per essere stati con noi, ci vediamo domani”?
Dicevo, non è una questione moralistica. È solo una questione di onestà e trasparenza. Di domande che sono state poste, a cui sono state date risposte monche. E di tempi.
Cosa si aspettava Fazio, che in un momento in cui ai colleghi si chiede di tirare la cinghia, a lui la allungano di sei metri e tutti zitti? Caro Fazio, io direi che è venuto il momento di mettere a tacere voci e illazioni. Immaginati ospite del tuo programma. Immagina l’entrata in studio con applausi da stadio e un conduttore che inizia a incalzarti con domande ficcanti, dritte, asciutte e cazzute. Insomma, immaginati ospite del tuo programma, ma non intervistato da te. E se pensi che tutto questo accanimento debba finire (io penso che sì, qua e là ci sia anche stato dell’accanimento), se pensi che ci sia gente che merita delle risposte serie e puntuali, rispondi a queste domande:
1. Quando twittavi “In una tv che cambia bisogna assumersi nuovi rischi e nuove responsabilità. D’ora in poi vorrei essere produttore di me stesso” non ti sembra che mancasse un passaggio? Nuovi rischi, nuove responsabilità ma anche nuovi guadagni. Mica per altro, messa così pare che tu voglia produrre te stesso per patire, per spararti volontariamente nelle balle. No, tu ti autoproduci perché vuoi correre il rischio di floppare ma anche quello, eventuale, di comprarti una villa al mare. Non era più onesto dire che è un salto nel buio, ma pure nella piscina di Paperon de’ Paperoni?
2. Sei un uomo di sinistra, pare. Guadagni, per tua ammissione, 2 milioni e 240 000 euro l’anno. Quasi 9 per quattro anni. Sono tanti. È pieno di società di produzione esterne che hanno bisogno di lavorare, di stipendiare gente, di sopravvivere. Immagina se tutti i conduttori Rai decidessero che rimangono al timone del loro programma solo se possono autoprodurselo come hai fatto tu. Creando società nuove di zecca come la tua Officina (di cui sei socio al 50 per cento) . A parte il tono vagamente ricattatorio della faccenda, non trovi che a Marx, dall’aldilà, un pochino, ma solo un pochino eh, girino i maroni?
3. Il punto fondamentale è il tuo reale guadagno. Ci hai detto che come conduttore è di 2 milioni e 240 000 euro l’anno. È vero che, come scrive il deputato Pd Michele Anzaldi, ne guadagni altri 704 mila a stagione per i diritti del format? E perché ti dimentichi di dircelo? Te li pagano in buoni da Game Stop?
4. Ce lo spieghi il format di Che tempo che fa? Vorrei leggere la paginetta depositata alla Siae. Che so: “Il conduttore si siede a un tavolo, entra l’ospite, l’intervistatore lo intervista, finisce l’intervista, ne entra un altro. Finisce, ne entra un altro, poi un altro”. Praticamente è il format di una catena di montaggio. Fossi un figlio di Henry Ford io chiederei i diritti a te, altro che te alla Rai.
5. Ti sei dimenticato anche di dirci che guadagni dai diritti Siae (pare circa 400.000 euro l’anno) Eppure Aldo Cazzullo, che ti ha intervistato sul Corriere, te l’ha chiesto in un italiano comprensibile pure da Antonio Razzi. “Lei quanto guadagna?”. Una risposta onesta era, per esempio: “Da conduttore 2 milioni e 240 mila euro a cui naturalmente vanno aggiunti i guadagni dei diritti del format, della Siae e della produzione di cui faccio parte”. Cristallino. Pure se non specificavi le cifre. Altrimenti è un po’ come “Mi hai tradito?”. “Mai” (il limone in ascensore con la segretaria mica è tradimento). Ecco. Tanto i soldi della Siae, diritti e produzione mica sono guadagni pure quelli.
6. Veniamo alla produzione. (della tua Officina). Il programma costa 450.000 euro a puntata. Dici, sempre a Cazzullo, che costa meno di un varietà e di una fiction. E grazie. Una scrivania, qualche ospite, gli autori, Luciana Littizzetto e la Lagerback che dice “A domani!” e dovrebbe costare come Gomorra?
O tu e Massimo Gramellini cominciate a improvvisare delle finte sparatorie in studio o direi che ci sta che costi meno. Comunque 450.000 per 64 puntate l’anno sono 28 milioni di euro circa. Per 4 anni sono 115 milioni di euro. Se non vuoi dirci quanto è il tuo guadagno (ipotizziamo il 10%? Quindi potresti intascarti altri 11 milioni e mezzo in 4 anni), almeno non omettere questa voce.
7. Le 64 puntate sono 32 +32, ovvero 32 puntate da 3 ore la domenica e 32 da un’ora il lunedì sera. Come mai costa 450.000 mila euro anche la puntata da un’ora? Che succede in quell’ora? Trasmettete dalla stazione spaziale orbitante?
8. Inizialmente si diceva che la Rai guadagnasse con la pubblicità dal tuo programma. Ora hai dichiarato: “Il programma è pressoché totalmente ripagato dalla pubblicità”. Che è la versione moderna del mitico “Sono completamente d’accordo a metà col mister!” di garzyana memoria. Ma quanto e in che modo partecipa la Rai alla produzione del programma? Perché immagino che gli impianti, tanto per citare una delle tante voci che competono alla Rai, non te li caricherai tu sul furgoncino la mattina.
9. Sei passato a Rai1. Rai3 sostituisce Che tempo che fa con una mini-fiction che se va bene farà il 5%. Quindi non credo che venderà molta pubblicità in quello spazio. Sei ancora certo che la Rai, a guardare questa operazione nel complesso, ci guadagni o si ripaghi i costi? Sicuro sicuro?
10. E infine lo share. Hai detto che Rai1, nello spazio che vai a occupare, oggi fa una media del 15%. Però dichiari che anche fare il 13% con un programma di parole sarebbe un successo. A parte che non ho mai visto mettere così tanto le mani avanti neppure a Renzi quando ha detto “Le Regionali in Sicilia non sono un test nazionale”, Davide Maggio di davidemaggio.it fa notare che la media di rete in quello spazio è del 18%. Perché con i numeri – che si tratti di stipendio o di share – hai tutti questi problemi? Hai avuto il matematico Furio Honsell ospite fisso a Che tempo che fa, qualcosina avresti dovuto impararla.
11. E infine, la domanda più importante: ti serve mica un’autrice?

Il Fatto16.9.17
Dieci mosse contro l’indipendenza catalana
Referendum contestato - Barcellona chiede al governo centrale di permettere la consultazione
Dieci mosse contro l’indipendenza catalana
di Elena Marisol Brandolini

Il presidente e il vicepresidente della Generalitat, Puigdemont e Junqueras, la presidente del parlamento Forcadell e la sindaca di Barcellona Colau hanno inviato una lettera a Rajoy e al re Felipe VI, appellando al dialogo per un accordo che permetta ai catalani di celebrare un referendum. In questi giorni il governo spagnolo ha messo in moto iniziative per boicottarlo.
Bilancio L’ultima è il commissariamento del bilancio della Generalitat. È la reazione del ministro delle Finanze Montoro alla lettera di Junqueras che gli comunicava che non avrebbe più trasmesso la relazione settimanale sulle spese correnti. Il ministro ha dato 48 ore a Puigdemont per un accordo sull’indisponibilità del bilancio catalano, pena l’assunzione da parte del governo centrale delle spese per retribuzioni, sanità, istruzione e servizi sociali. Il nuovo sistema prevede la comunicazione al ministero di tutti i crediti pendenti, di modo che sarà lo Stato a pagare direttamente i creditori della Generalitat e la certificazione dell’assenza di spese per il referendum.
Cariche istituzionali. Sono oltre 750 i sindaci indagati.
Cittadinanza. Rajoy ha avvertito i cittadini che, votando, incorreranno in un delitto. Le principali associazioni di magistrati hanno invitato la cittadinanza a disobbedire alla Generalitat.
Sui componenti dei seggi elettorali ricadrà il delitto di disobbedienza.
Giudici. Tribunal Constitucional, Fiscalía General e Tribunal Superior de Justicia de Catalunya funzionano come braccio giudiziario del governo spagnolo: il TC sospende le leggi (quella del referendum) e le altre due autorità (e loro ramificazioni) ne applicano il rispetto delle sentenze, con l’emissione di querele e divieti.
Informazione. Ci sono perquisizioni della Guardia Civil in tipografie e giornali, come El Vallenc, alla ricerca di materiale referendario. Chiuso il sito web del referendum della Generalitat; il TSJC ha ordinato alla Guardia Civil di redigere una lista dei mezzi d’informazione che hanno pubblicato la pubblicità del referendum.
Manifestazioni. Quelle collegate al referendum sono illegali e perciò passibili di proibizione, anche fuori dalla Catalogna, come a Madrid o a Vitoria, dove l’iniziativa è stata interrotta. Ora s’investiga l’atto di apertura di campagna degli indipendentisti a Tarragona.
Polizie. La Procura ha ordinato a Policía Nacional, Guardia Civil e Mossos d’Esquadra di requisire schede elettorali e urne. La polizia spagnola cerca volontari disponibili a trasferirsi in Catalogna per una ventina di giorni.
Reti. L’azienda delle poste Correos ha ordinato ai suoi impiegati di non inviare lettere con materiale referendario.
Schede elettorali. Vengono cercate nelle diverse tipografie con perquisizioni della polizia.
Urne. Anche queste ricercate dalla polizia con perquisizioni.

il manifesto 16.9.17
Molto più che la moglie di “Pepe” Mujica
Storie. Finiti i tempi in cui l’Uruguay si ammalava quando Argentina e Brasile starnutivano. L’ex guerrigliera Lucía Topolansky è la nuova vice-presidente del piccolo paese sudamericano. Ma l'«impasse dei governi progressisti» in America latina resta
Lucía Topolansky e José "Pepe" Mujica a Montevideo nel 2010
di Claudia Fanti

Il detto popolare secondo cui, quando Brasile e Argentina starnutiscono, l’Uruguay si ammala ha perso molta della sua efficacia. Mentre i due potenti Paesi vicini si dibattono in una crisi profonda, il piccolo Uruguay, forte della stabilità conquistata, è uscito praticamente indenne dallo scandalo di corruzione – in realtà ben poca cosa rispetto a tutto ciò che sta avvenendo in Brasile – che ha travolto il vicepresidente Raúl Sendic, figlio del fondatore del Movimento di liberazione nazionale Tupamaros, dimessosi di fronte alle accuse di appropriazione di denaro pubblico nel periodo in cui era alla guida della compagnia petrolifera statale Ancap.
A PRENDERE IL SUO POSTO è Lucía Topolansky, seconda più votata al Senato per il Frente Amplio dopo il marito ed ex presidente José “Pepe” Mujica, il quale però non ha potuto assumere la carica di vice per aver ricoperto la presidenza nella precedente legislatura. Prima donna a ricoprire tale incarico in Uruguay, Lucía Topolansky, soprannominata la Tronca, la dura, è sicuramente molto più che la moglie di Mujica, da lei conosciuto durante la sua militanza tra i guerriglieri tupamaros e sposato nel 2005 dopo una convivenza di vari anni in una piccola fattoria alla periferia di Montevideo.
Nata in una famiglia agiata della capitale – padre simpatizzante dell’ala più conservatrice del Partido Colorado (storico rivale del Partido Nacional o Blanco, prima che il Frente Amplio ponesse fine al tradizionale bipartitismo uruguayano) e madre profondamente cattolica – Lucía aveva compiuto il suo primo atto di ribellione quando era ancora al collegio, organizzando insieme alla sorella María Elia una sorta di sciopero contro i regolamenti eccessivamente rigidi imposti dalle suore del Sacre Coeur. Ma la vera ribellione l’avrebbe espressa a partire dagli anni trascorsi alla Facoltà di Architettura, frequentando le villas miseria di Montevideo e abbracciando la lotta di classe.
Lucía aderisce nel 1967, a 23 anni, al Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaros, entrando di lì a poco in clandestinità e diventando, malgrado la giovane età, una delle donne più combattive del movimento. È lì che conosce José Mujica, il «comandante Facundo», nato invece in un quartiere operaio e rimasto orfano a 7 anni.
ARRESTATA DALLA POLIZIA NEL 1970, riesce a fuggire pochi mesi più tardi insieme ad altre recluse passando per le fognature. Ma, nuovamente catturata nel 1972, resterà in prigioni per 13 lunghissimi anni, in condizioni durissime, subendo torture fisiche e psicologiche. Finché, tornata in libertà nel 1985, non partecipa attivamente alla fondazione del Movimiento de Participación Popular (Mpp), poi confluito nel Frente Amplio (la coalizione in cui convergono molte e diverse forze politiche, dalla sinistra marxista alle diverse espressioni socialdemocratiche, liberiste e cristiano-sociali) rappresentandone l’ala più a sinistra e anche quella più votata.
Diventata senatrice nel 2005, ha conservato la carica fino ad oggi, quando ha spiccato il salto verso la vicepresidenza della Repubblica. E in molti guardano proprio a lei come prossima presidente del Paese. Di certo, la Tronca, per quanto meno carismatica, gode in un certo senso della stessa aura del marito, l’ex guerrigliero – celebrato a livello mondiale per la sua onestà, la sua generosità e la sua austerità personale – convertitosi, dopo oltre 12 anni di durissima prigionia, due dei quali passati in fondo a un pozzo, al modello di un «capitalismo dal volto umano»: un patto di cooperazione capitalista tra imprenditori e lavoratori tradottosi, secondo i critici di sinistra, in uno dei più intensi processi di concentrazione in mani straniere della terra e della produzione agricola e dell’allevamento.
SOTTO IL GOVERNO DI MUJICA, l’Uruguay ha ottenuto, indubbiamente, molti e importanti risultati: crescita costante del Pil, aumento reale dei salari e delle pensioni, riduzione del tasso di disoccupazione, diminuzione dell’indice di povertà, più una serie di leggi all’avanguardia in materia di diversità sessuale (matrimonio omosessuale), riproduzione (legalizzazione dell’aborto) e droghe (legalizzazione della marijuana). Il tutto, però, nel segno di una politica della moderazione, dell’azzeramento del conflitto sociale mediante un discorso di conciliazione tra le classi, della rinuncia a realizzare riforme strutturali – ma garantendo programmi assistenziali a favore delle fasce più deboli e adottando provvedimenti nel campo dei diritti sociali e lavorativi – e del sostegno al modello estrattivista, attraverso l’espansione dell’industria forestale (piantagioni di pino ed eucalipto e di piante di cellulosa), della monocoltura della soia (maggioritariamente transgenica) e dell’attività mineraria. Attività economiche, tutte queste, che, oltre a un enorme impatto sugli ecosistemi, provocano un’intensa concentrazione di ricchezza.
UNA POLITICA DI COMPROMESSI, insomma, che si è ulteriormente accentuata sotto l’attuale governo del moderato Tabaré Vázquez, già presidente dal 2005 al 2010, a conferma di quella «impasse dei governi progressisti» più volte denunciata negli ultimi anni. Una parabola discendente che ha reso via via più evidenti i limiti del modello neodesarrollista (ed estrattivista) seguito da tali governi, i quali, se hanno avuto il merito di adottare importanti misure a favore delle fasce più povere, non sono riusciti però a ridurre il potere di espansione del grande capitale, mettendo fortemente in crisi quel ciclo progressista inteso come forza di trasformazione orientata a promuovere cambiamenti graduali.

il manifesto 16.9.17
Una nottata per Carmelo Bene
Evento. Piergiorgio Giacchè ha organizzato il 21 settembre a Perugia una festa di non-compleanno
di Gianluca Pulsoni

Per Carmelo Bene, oggi, bisognerebbe coniare una parola che valga come «doppio» del termine ricordo, qualcosa che chi scrive, per ora, non sa trovare. Ma la domanda è comunque chiara: in che modo relazionarsi con la «vita di un’opera» così accesa che nemmeno l’azione di alcune forti forme di oblio di questi anni – la sua morte avvenuta nel 2002; i problemi ancora in corso legati all’eredità, con tutti gli effetti – è riuscita a spegnere?
Una possibile risposta a tutto questo potrebbe magari venire partecipando all’incontro-evento organizzato da Piergiorgio Giacchè a Perugia per il 21 settembre.
Si tratta di un omaggio molto particolare al genio di Carmelo Bene – almeno per luogo, giorno, ideazione – e che vedrà la testimonianza di voci che sono state fra quelle più vicine al salentino, per esempio quelle di Luisa Viglietti, sua ultima compagna, e Jean-Paul Manganaro, suo studioso e traduttore francese. Ma non solo.
Si tratta anche di un’occasione ideale per fare il punto su, diciamo, la «situazione-Bene»: le cose fondamentali da leggere e vedere (per chi volesse una introduzione seria al suo lavoro); quello che si potrebbe ancora discutere e fare (per chi volesse fare i conti con la sua e la propria ricerca).
Nessun Bene
Nessun Bene è il titolo dell’evento perugino a cura di Piergiorgio Giacchè, l’antropologo studioso e collaboratore di Carmelo Bene. Per chi non lo sapesse, questo titolo rimanda a quello dell’ultimo saggio che lo stesso Giacchè ha scritto sul teatro dell’autore di Nostra Signora dei Turchi, pubblicato sul sito di Doppiozero. Cioè: è lo stesso titolo. Come a suggerire una continuità tra testo e contesto, una necessità di insistere su alcuni temi e questioni.
Nell’invito – in circolazione – si cita lo stesso Bene, «Non esisto, dunque sono. Altrove. Qui», e si legge quanto segue: «È questo il motto e il motivo di una serata a lui dedicata nel mese in cui – se fosse esistito – avrebbe compiuto ottanta anni.» Poi si parla dell’occasione come di un non-compleanno e si definisce la forma dell’incontro-evento una cir/conferenza composta di diversi contributi – ci saranno attori e musicisti a fare la loro parte, a circondare il discorso di Giacchè (una ripresa del saggio citato) – in una sede che sarà la Chiesa di San Bevignate, e cioè «un luogo particolare come l’antica chiesa dei templari accanto al cimitero monumentale, in modo che quelli che esistono si possano sentire per una volta vicini anche a quelli che sono», come si legge – sempre – nell’invito.
Ora, in tutto questo, due sono le possibili considerazioni da fare: cosa si ascolterà e vedrà; il senso dell’incontro.
In merito al primo punto, si può dire – genericamente – che ci saranno «testimonianze immemoriali e frammenti di opere e peccati di omissione da parte di chi crede di averlo visto e ascoltato e amato» (citazione dall’invito; il riferimento in questione è, ovviamente, Bene). Più nello specifico, invece, si può per esempio anticipare del lavoro di Silvia Pasello (attrice e regista) e Ares Tavolazzi (musicista, ex AREA) – fra gli attori e musicisti convocati – i quali presenteranno in prima ed unica un loro saggio o studio. «Alla mancanza di Bene», come suggerisce Giacchè. In questo lavoro i due interpreteranno ed eseguiranno, a loro modo, parte di testi scelti, selezionati e ritradotti da Bene per il suo «Concerto mistico di fine millennio», una prestazione che avrebbe dovuto tenere negli ultimi giorni del 1999 a Foligno o Perugia, con musiche di Gaetano Giani Luporini, su testi di un percorso da San Francesco a Maria Maddalena de’ Pazzi, passando per Angela da Foligno e Juan de la Cruz (per lo spagnolo c’è stata la ritraduzione). Oppure si può citare Michele Bandini – altro attore convocato – il quale leggerà dei testi inediti di Manganaro e Viglietti.
In merito al secondo punto, invece, l’attenzione può soffermarsi su quei riferimenti al mese della nascita e al non-compleanno citati. Perché questo? Perché la suggestione di Giacchè è quella di caratterizzare, in questo caso – ma dovrebbe valere sempre – l’idea di un omaggio che si centra attorno alla necessità di fare i conti con il lascito di un genio aggirando la messa in scena di manifestazioni fondate su routine e calendario, concretizzazioni di quel principio della rappresentazione contro cui Bene si è sempre battuto.
Riscoprire un classico
Uno degli effetti che l’occasione di Perugia si spera possa provocare può sicuramente essere quello di dare uno stimolo a coloro che oggi vogliono davvero scoprire o riscoprire il lavoro di Bene. Non c’è più lui sulla scena e però ci sono i film, i video, le letture, i libri, i testi. Molto è reperibile, non tutto subito assimilabile ma il gioco, in questo caso, vale la candela. Per questa ragione, magari, l’incontro-evento a cura di Giacchè può essere il via per uno studio supportato da alcune letture ideali di introduzione. Per esempio, si può prendere per le mani l’edizione delle Opere, pubblicata da Bompiani, e mentre si sfogliano e si leggono i romanzi, oppure le scritture teatrali, si potrebbe dare uno sguardo a quanto scriveva sul giovane Bene, a suo tempo, un genio come Ennio Flaiano. Da qui poi si potrebbe cercare in biblioteca o in rete quel capolavoro di libro critico che è Carmelo Bene: il circuito barocco, a cura di quello studioso eccezionale che fu Maurizio Grande. Una lettura per capire quanto il cinema del nostro sia, ancora, un mondo a parte. E poi, volendo, si potrebbe finire con la lettura della monografia di Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale. Ma in questo caso il consiglio è di prendere la seconda edizione, arricchita di un ultimo capitolo scritto postumo, e che delinea la ricerca de «l’ultimo Bene» – tra le lezioni di teatro, i Quattro momenti su tutto il nulla e la lettura de La figlia di Jorio (per citare tre gemme) – come nessun’altro.
L’altro possibile effetto che l’occasione di Perugia potrebbe offrire è quello di riprendere il senso della ricerca di Bene. Ne abbiamo davvero capito l’importanza? A ben guardare solo in minima parte. E forse solo nel teatro, dove c’è stata una assimilazione di certe sue conquiste da parte di alcune eccezioni. Ma non basta. Bisogna andare avanti. Quello che ha fornito Bene – se mai ci fosse un qualcosa in grado di racchiudere e sintetizzare tutte le sue scoperte – sono, se si vuole, i mezzi e le possibilità per sabotare continuamente la forma, il linguaggio, l’espressione: come tre modi di dire, da sempre, l’istituzione. Per arrivare alla «ricerca impossibile»: a non fare arte che sia rappresentazione e quindi a non rappresentare più l’arte. Un discorso che per forza di cose ha ricadute politiche. E se poi questo, in Bene, lo si vede più come una tentazione e non un compimento, ciò non vuol dire nulla. Come Nietzsche secondo Giorgio Colli, quello che conta è «l’immagine» che ci ha lasciato, l’immagine dell’uomo non piegato dal mondo. È la sola chance.