l’Unità 23.11.13
La miccia trasporti
Trasporto pubblico in rosso
Genova trascina la protesta “Poi toccherà a tutta l’Italia”
Rischio contagio, tutte le città sono in crisi
di Massimo Franchi
Era solo questione di tempo. Il «bubbone» trasporto pubblico locale è scoppiato. E dopo Genova è facile prevedere altre proteste lungo tutta la penisola. La situazione drammatica del Tpl è lo specchio fedele del taglio dei fondi pubblici e della desertificazione industriale.
Nessun altro settore industriale ha subito un taglio così profondo dei finanziamenti pubblici. In tre anni si è ridotto di ben 1,4 miliardi in tre anni: dai 7,7 del 2010 (a quel tempo era un semplice trasferimento) a 5,3 miliardi del 2012, ripartito dai quasi 5 miliardi statali e dagli 1,33 miliardi delle Regioni, competenti in materia. Se le Regioni hanno tagliato i servizi ferroviari, sono i Comuni a gestire il servizio su strada. Secondo i dati presentati proprio giovedì al convegno della Filt Cgil le aziende del settore in rosso a fine 2013 saranno il 50 per cento. E l’escalation è impressionante: erano il 30 per cento nel 2011e il 43 per cento nel 2012. Ci sono i buchi mastodontici dell’Atac (ben 319 milioni nel 2010) dovuti in buona parte alla Parentopoli di Alemanno, ci sono i tantissimi manager incapaci spesso provenienti dalla politica con stipendi milionari a pesare sui conti, ci sono i contratti di solidarietà o le cassa integrazioni fatte per far tornare un minimo i conti. «Il sistema è crollato e ogni sindaco se la gestisce come riesce». Ecco dunque i biglietti orari a due euro, il taglio delle corse, il mancato rimpiazzo degli bus.
C’è poi un record di cui andare poco fieri. Quello del trasporto locale è il contratto nazionale scaduto da più tempo: sei lunghissimi anni. Tanto che proprio giovedì il governo è finalmente corso ai ripari convocando i sindacati sia per il contratto (giovedì con il sottosegretario al Lavoro Carlo Dell’Aringa) e per affrontare i problemi del settore al ministero dei Trasporti. «Ma quello delle aziende municipali è un piccolo problema rispetto all’altro bubbone che sta per scoppiare», spiega Sergio Vetrella, assessore ai Trasporti in Campania e coordinatore del settore per la Conferenza delle Regioni. «Se le aziende municipali si possono privatizzare, noi Regioni abbiamo il vincolo europeo a indire le gare per i servizi su gomma e ferro. E con i tagli che stiamo subendo dovremo per forza ridurre fortemente il servizio con il rischio reale di tagliare anche la forza lavoro almeno del 10 per cento: sui 120mila addetti del settore significano almeno 12mila posti di lavoro. Ed è una stima ottimistica. E in più per questi lavoratori non è previsto alcun ammortizzatore sociale», conclude amaro.
A monte di tutto c’è però la chiusura sostanziale di tutte le fabbriche che producevano autobus in Italia. Se l’Irisbus Fiat di Valle Ufita (Avellino) è stata chiusa da Marchionne nell’estate del 2011 e non vede ancora alcun spiraglio per riaprire, la Breda Menarini di Bologna (proprietà Finmeccanica) produce con il contagocce. E quei pochi autobus che si riescono a sostituire, siamo costretti a comprarli all’estero. Quelle dei treni non stanno messe meglio. Ansaldo Breda è l’anello debole del settore civile di Federmeccanica. Proprio giovedì i sindacati denunciavano il rischio di 600 esuberi nello stabilimento di Pistoia. Insomma, il burrone dei conti e il deserto della produzione. E la certezza della protesta.
Corriere 23.11.13
La lotta degli autisti di Genova e quel sapore di Anni Sessanta
di Francesco Cevasco
Ancora una volta Genova. Quando la classe operaia sta per andare all’inferno... ancora una volta Genova. Ma è lì, tra piazza De Ferrari e la Sala delle Chiamate del Porto, che si risveglia la coscienza di classe. Non proprio coscienza di classe: diciamo istinto di classe. Ma quando ai genovesi li trattate male, quelli son capaci di tutto. Persino quell’orribile cosa che era la Direzione Strategica delle Brigate Rosse si riuniva spesso in questa città. Oggi, mai successo in Italia, il «ridente capoluogo ligure» è da giorni paralizzato dal più efficiente sciopero dei trasporti mai espresso dalle organizzazioni sindacali. Frega niente che il sindaco Marco Doria sia un «compagno» o, almeno, un «arcobaleno» tipo il milanese Giuliano Pisapia. Frega che Doria vuol (voleva?) privatizzare l’Amt, l’azienda dei trasporti pubblici: tanti autobus e un ridicolo metrò più corto che lungo. I lavoratori genovesi l’hanno già assaggiata una privatizzazione: era arrivata una banda di speculatori francesi che s’erano (quasi) comprata l’azienda dei trasporti; s’erano mangiati anche il diritto di multare quegli incivili che violavano le strisce gialle, le corsie preferenziali. Per salvare azienda e — soprattutto — posto di lavoro i tramvieri abboccarono. Persino stipendio ridotto... È finita che il Comune — con orgoglio tipico genovese — è tornato padrone dei bus. Ma che disastro... I conti non tornano. E a pagare il conto chi deve essere? Noi no, dicono quelli che guidano i bus.
È diventato un caso nazionale. «Belin, te la ricordi piazza De Ferrari nel Sessanta, questa dove siamo adesso al riparo dalla pioggia perché qui i portici ci proteggono — dice un elegante signore ex portuale, un ex camallo — c’avevamo i ganci, sai quelli per tirar su le balle dalle stive che se te la piantano nel collo ti fanno molto male; bene, i celerini li abbiamo mandati via così; e anche il governo Tambroni». Esagerato, non c’è dubbio, ma... Non faranno cadere il governo i tramvieri di Genova, ma perlomeno hanno posto — al governo — un problema che non è soltanto genovese: imparate a gestire le aziende, altrimenti arriva Beppe Grillo (com’è arrivato ieri a Genova) e vi spiega lui che con un vaffa si risolve tutto.
Repubblica 23.11.13
Il fantasma greco
di Gad Lerner
OTTO maledetti milioni di buco nell’azienda municipale dei trasporti e Genova si ritrova a vivere per prima, fra le città italiane, l’atmosfera di Atene e Salonicco, l’incubo della Grecia che si avvicina.
Voragini improvvise nei bilanci pubblici, voci imprecisate di soci privati disposti al salvataggio in cambio – e questa è l’unica certezza – di sacrifici dei lavoratori. Il dipendente pubblico, il ferrotranviere, che si scopre improvvisamente precario. Il cittadino, già abituaunato a trasporti disagiati (non parliamo del calvario dei pendolari), si ritrova dal 19 novembre senza mezzi di trasporto e senza fasce di garanzia. Peggio che a Napoli dove gli autobus restano fermi nei depositi per mancanza di benzina. Peggio che a Milano dove la giunta Pisapia è stata costretta a abolire lo sconto Atm per i pensionati e a rincarare gli abbonamenti.
Ma è Genova, la collerica Genova, a riproporsi di nuovo come città in cui sembra venire giù tutto in volta, come nell’alluvione, l’idea di welfare universalistico, cioè di uno Stato in grado di fornire servizi sociali degni a tutti, grazie al prelievo fiscale.
Faceva effetto ieri ascoltare uno dei più facoltosi contribuenti della città, Beppe Grillo, lanciare proclami rivoluzionari nel bel mezzo del corteo dei dipendenti Amt: «Genova è la scintilla, da qui la battaglia epocale in difesa dei beni pubblici deve estendersi a tutta l’Italia». Non so quante volte lo statalista Grillo sia salito su un bus di linea negli ultimi decenni, ma trovo grottesca la sua contrapposizione a un sindaco di sinistra, Marco Doria, da sempre impegnato nella difesa dei beni comuni; non a caso accompagnato nella campagna elettorale vittoriosa contro il vecchio apparato Pd da una personalità irregolare come il compianto don Andrea Gallo.
Eppure, prima che ci si mettesse Grillo con fare maramaldo, Doria era già stato aggredito in consiglio comunale dai ferrotranvieri convinti che l’anno prossimo ci sarà la privatizzazione e quindi, l’anno dopo ancora, il licenziamento. Prima di loro c’era stata la furia dei lavoratori del teatro Carlo Felice. Denominatore comune della protesta: nessuno si fida più quando il primo cittadino viene a chiederti autoriduzioni di compenso o contratti di solidarietà perché altrimenti il deficit porterà al fallimento l’ente pubblico. Per il solo fatto di evidenziare l’oggettività di quelle cifre, anche il più rosso degli amministratori si trasforma in nemico.
Non sono più i tempi in cui la ristrutturazione della logistica determinava duri scontri sociali con categorie tradizionali dell’aristocrazia operaia come i portuali. Ieri nel salone della Chiamata del Porto si sono radunati i ferrotranvieri la cui unica forza contrattuale sembra rimasta provocare il caos in città, con giorni e giorni senza trasporti pubblici. E scommettere davvero sulla realizzazione dell’auspicio di Grillo, cioè l’estensione nazionale del blocco. Poco importa che qui non si tratti di scegliere fra il modello pubblico e la privatizzazione, come predica la demagogia di un Grillo all’improvviso socialisteggiante, ma più biecamente di reperire i fondi per tirare avanti le funzioni essenziali della municipalità. Quelle che cominciano a scricchiolare dappertutto – Genova insegna – perché il vincolo del pagamento degli interessi sul debito pubblico e il deposito di risorse cospicue nel Fondo Salva Stati, cominciano a provocare il temuto effetto soffocamento. La Grecia che si avvicina, per l’appunto.
Ancora una volta i sindaci, che rappresentano la politica più vicina ai cittadini, si ritrovano esposti al pubblico ludibrio. E più sono perbene e più ne pagano il dramma sociale dilagante. Mentre i responsabili economici del governo e dello stesso Pd si sentono imprigionati dal vincolo delle compatibilità. Rassegnati a figurare eterodiretti. È la ragione per cui appaiono marziani quando si ritrovano, come ieri Bersani, nel mezzo del caos, là dove le dichiarazioni brillanti non valgono un fico secco. Lo stesso Grillo, a un certo punto, deve aver avvertito il disagio di quella sua presenza impropria. Ha borbottato che lui non cercava voti, figuriamoci, ma era lì solo per difendere i beni pubblici e – di conseguenza – a predicare l’incendio, la rivolta nazionale. Bella prospettiva, bella soluzione. Poi è tornato in villa a Sant’Ilario, non sappiamo con quale mezzo di trasporto. Don Gallo gli avrebbe detto di vergognarsi.
l’Unità 23.11.13
Scuola, mobilitazione continua: occupazioni in tutta Italia
Dopo le manifestazioni del 15 e 16 novembre prosegue la protesta anche nelle Università
di Luciana Cimino
Dopo i cortei è l’ora delle occupazioni. La settimana clou delle mobilitazioni studentesche si è aperta con decine di autogestioni e occupazioni nelle scuole superiori di tutta Italia. Contemporaneamente, negli atenei si è aperta la «Settimana nazionale di discussione per salvare l'Università». Solo nella capitale negli ultimi due giorni sono stati 10 gli istituti occupati: licei classici (tra cui lo storico Mamiani), scientifici, Itis, scuole alberghiere. Da Prati a Centocelle, e poi Eur, Primavalle, San Giovanni, Garbatella. Sempre a Roma occupate anche tutte le sedi della facoltà di Architettura del La Sapienza e lo studentato di via Cesare de Lollis. «Ci aspettiamo altre azioni nei prossimi giorni», spiega l’Unione degli Studenti (Uds) che ha lanciato sul suo sito la campagna «Cambia la tua scuola» con informazioni legali e vademecum per gestire le occupazioni e le assemblee. Tra i modelli da scaricare anche quello di odg per la settimana della didattica alternativa. «Vent’anni di politiche sbagliate ci hanno consegnato in eredità una scuola strutturalmente a pezzi, autoritaria con contenuti e metodi didattici vecchi e inattuali e perennemente minacciata da nuovi tagli dice Roberto Campanelli, coordinatore nazionale Uds Il 15 e il 16 novembre siamo scesi in piazza dal nord al sud e in questi giorni la mobilitazione sta tornando nelle scuole con occupazioni, autogestioni, assemblee permanenti: sono spazi liberati, laboratori di costruzione di un altra-scuola possibile».
I ragazzi del movimento studentesco
si oppongono ai tagli, alla precarizzazione generale, alla mancanza di un adeguato diritto allo studio che negli anni ha reso l’accesso all’istruzione sempre più classista. Ma poi legano la lotta a un contesto fortemente territoriale. È per questo che in Campania le occupazioni delle scuole di Napoli, Caserta e altri centri sono tutt'uno con la mobilitazione contro il biocidio. Una prosecuzione, in questo caso, della manifestazione del 16 novembre scorso, quando il fiume di manifestanti che ha percorso il capoluogo campano era formato anche da migliaia di studenti. A Giugliano sono stati occupati tutti gli istituti: «Si ad un futuro per i giovani nella Terra dei Fuochi». Anche in Sicilia, una dopo l'altra, sono partite le occupazioni: Palermo (dove giovedì gli studenti hanno manifestato dietro lo striscione «le scuole crollano, gli studenti no»), Catania, Ragusa. Anche qui si lotta contro i tagli indiscriminati all'istruzione e per le condizioni degli istituti, fatiscenti per lo più. Lo stesso a Bologna, dove si protesta per la ulteriore riduzione dei fondi di Regione e Provincia, e a Venezia dove lamentano la mancanza di strutture e laboratori.
In parallelo tornano le obiezioni di quanti vedono nelle occupazioni solo un periodo di vacanza. Eppure il movimento studentesco negli ultimi anni si è molto rafforzato. «La condizione di giovani e studenti è peggiorata progressivamente dice ancora Roberto Campanelli le questioni sono diverse: dall’assenza di risorse che ha peggiorato la qualità dell'istruzione ai problemi della quotidianità che vivono in classe e nella propria città ogni giorno». E che non si tratti del “solito fenomeno ciclico” lo conferma anche Daniele Lanni, portavoce nazionale Rete degli Studenti Medi, «Si prosegue la mobilitazione nazionale del 15 novembre scorso. Il 27 siamo stati convocati dalla ministra Carrozza per un parere su vari punti ma noi riteniamo che non basti una convocazione del Forum delle Associazioni per concepire delle misure realmente efficaci, bisogna costruire tavoli permanenti con gli studenti su questioni centrali come il diritto allo studio e il numero chiuso».
il Fatto 23.11.13
Opera di Roma, protesta in Comune: “Stagione a rischio”
L’APERTURA della nuova stagione al Teatro dell’Opera di Roma è a rischio. La prima di Ernani potrebbe non andare in scena il 27 novembre. L’annuncio è arrivato ieri dai sindacati di categoria al termine di un sit-in in Campidoglio, un “assedio musicale” dei dipendenti scesi in piazza con tromboni, flauti e spartiti. Motivo della protesta l’incertezza sui finanziamenti che dovrebbero garantire la sopravvivenza del teatro e il pagamento degli stipendi. In assenza di segnali positivi dall'amministrazione la proposta di sciopero per bloccare l'allestimento dell'opera verdiana sarà sottoposta domenica all'assemblea dei lavoratori. Le sigle sindacali chiedono una “decisione definitiva sui finanziamenti”, denunciando di “aver ricevuto solo le briciole dei quattro milioni e mezzo promessi”. I manifestanti non sono riusciti a incontrare il sindaco Ignazio Marino”. Dall’assessore alla Cultura, Flavia Barca, l’impegno di “un massimo sforzo” senza - denunciano i sindacati - “nessuna garanzia concreta”. LaPresse
Repubblica 23.11,.13
La famiglia Merloni, massoni di rango e industriali locali
Campania, tra i rifiuti tossici spunta Indesit
La Criminalpol nel ’96: fusti smaltiti dai Casalesi
L’azienda dei Merloni: “Mai indagati”
di Luca ferrari e Emiliano Fittipaldi
LE COOPERATIVE rosse, la Indesit della famiglia Merloni, massoni di rango e industriali locali: gli uomini dei casalesi addetti al business miliardario del traffico dei rifiuti facevano affari con tutti. È questo lo sconvolgente scenario disegnato da un’informativa della Criminalpol del 1996, che non è mai stata pubblicata e che non ha avuto seguiti giudiziari, ma che è finita qualche mese fa agli atti del processo in corso contro Cipriano Chianese, considerato dai pm napoletani una sorta di «ministro dell’Ambiente» del clan del casertano.
Il documento, trovato da RE Inchiestee da L’Espresso, contiene verbali di interrogatorio inediti di Carmine Schiavone, e decine di intercettazioni tra «manager dell’Indesit» e lo stesso Chianese effettuate tra il 1994 e il 1996.
Partiamo da Schiavone. La Criminalpol riporta una dichiarazione fatta dal pentito nel marzo del 1995, in cui — parlando del traffico di rifiuti tossici messo in piedi dal gruppo Bidognetti — sitirano in ballo le cooperative rosse, che qualche tempo prima avevano vinto un grosso appalto per la costruzione di una superstrada nel casertano. «Nel 1986 iniziammo come clan dei casalesi a scavare dei terreni per fare rilevati per le cooperative rosse, che costruirono la superstrada a Casal di Principe. Nostre ditte che eseguivano i lavori in subappalto compravano questi terreni, oppure addirittura l’intero terreno, dopodiché si scavava e rimanevano queste buche».
Il clan capisce che le cave usate per la costruzione della strada delle coop possono trasformarsi in un nuovo, lucroso affare. Il pentito, le cui rivelazioni sui fanghi nucleari sono state desecretate pochi giorni fa creando sconcerto e paura nella Terra dei Fuochi, ne parlò subito con il suo capo. È il 1988: «Dissi a mio cugino, Francesco “Sandokan” Schiavone: “Guarda, possiamo incassare miliardi per l’immondizia; mio cugino rispose: “Che vogliamo fare? Vogliamo avvelenare Casale?! A quel punto io dissi: “No, allora non se ne fa niente».
Eppure, agli inizi del 1990, in una zona vicina a quei terreni i carabinieri scoprono i primi fusti tossici: l’operazione “monnezza” era iniziata. Carmine Schiavone raccontò di averne chiesto subito conto a Sandokan: «Mio cugino disse che non era stato lui, disse che stava “riempendo” Gaetano Cerci, Francesco “Cicciotto” Bidognetti e l’avvocato Chianese: «Mi disse chiaramente che era iniziato già da un paio d’anni il riempimento sistematico di fusti tossici, di immondizia di città e altro».
Una parte importante del documento è dedicata alle intercettazioni tra Chianese e alcuni dipendenti dell’Indesit, il colosso dell’elettronica di proprietà della famiglia Merloni. Al telefono con quello che è considerato l’inventore ci sono «Ghirarducci» ed «Esposito», probabilmente alti dirigenti Indesit (mai individuatiné indagati, così come non risulta indagato nessuno dei dirigenti del gruppo che oggi si chiama Indesit Company) che avrebbero sfruttato i rapporti d’affari con i broker del gruppo criminale per far scomparire a poco prezzo gli scarti delle fabbriche dei Merloni. La polizia è lapidaria: «È possibile accertare» si legge nell’informativa «un rapporto commerciale in atto tra l’indagato (Chianese) e la nota azienda per ciò che concerne il ritiro, il trasporto e lo smaltimento degli scarti del ciclo produttivo... L’attività di recupero rifiuti è infatti svolta dall’associazione di imprese Chianese-Giordano, che forte del beneplacito dei vertici amministrativi della Indesit opera con proprie regole e sostanzialmente fuori dai vincoli di legge».
Le intercettazioni sono decine: i manager parlano con gli uomini dei casalesi di fanghi da smaltire, di vernici, bolle di accompagnamento e giri di denaro. «Lavorammo per due anni» ha spiegato aL’Espresso l’ispettore Roberto Mancini «Tutto finì in una bolla di sapone. Non fu facile portare avanti l’indagine, ho avuto mille ostacoli».
Indesit Company ha precisato che «non era in nessun modo aconoscenza dei fatti ipotizzati nell’articolo, che questi risalgono a 18 anni fa e che ad oggi non vi è stata alcuna notifica formale da parte delle autorità competenti in materia né alcuna autorità, giudiziaria o amministrativa, ha mai nemmeno ipotizzato irregolarità di alcun genere nella gestione dei rifiuti da parte dell’azienda».
il Fatto 23.11.13
Nel caos. Mancano le coperture per l’abolizione
Maxi acconti per coprire l’Imu Pronto il rincaro della benzina
Truffa di governo Niente rata Imu, ma per la benzina pagheremo di più
Si chiama “clausola di salvaguardia”: se l’esecutivo combina guai e non riesce a fare le riforme, il conto è a carico nostro
Risultato: stanno per scattare ben tre aumenti delle accise e tutto per colpa delle concessioni di Letta alle richieste di Berlusconi
Letta attacca gli “ayatollah del rigore” ma la manovra prepara nuove stangate
di Stefano Feltri
In principio fu la guerra in Abissinia, 1935: 1,90 lire, poi la crisi di Suez nel 1956, 14 lire, e ancora il disastro del Vajont, l’alluvione di Firenze, fino alla manovra di Mario Monti nel 2011 e il sisma in Emilia nel 2012, e 0,051 euro per l’Abruzzo. In Italia niente è più duraturo delle provvisorie accise sulla benzina. L’esecutivo di Enrico Letta in queste ore sta sperimentando una novità: ipotizzare addirittura un triplo aumento del carico fiscale sul carburante, uno subito, uno evocato per il 2015, un altro ancora da mettere in conto per il 2017 e 2018, cioè addirittura dopo l’orizzonte della legge di Stabilità che si ferma al 2016. La colpa è sempre la stessa: la scelta di abolire l’Imu 2013 sulla prima casa senza avere coperture adeguate.
Il primo pericolo è noto e riguarda la prima rata, cancellata, almeno in teoria, a giugno. Molte delle coperture che dovevano compensare il mancato gettito della prima rata si stanno rivelando (come ampiamente previsto dai giornali ma non dal Tesoro) solo virtuali: mancano i soldi che dovevano arrivare dal condono per i concessionari di slot machine, i pagamenti degli arretrati della Pubblica amministrazione vanno a rilento e quindi forse non arriverà mai l’Iva prevista. Mancano almeno 300 milioni di euro. E il decreto del 31 agosto avvertiva che in caso di “un andamento che non consenta il raggiungimento degli obiettivi di maggior gettito [...] il ministro dell'economia e delle finanze, con proprio decreto, da emanare entro il mese di novembre 2013, stabilisce l'aumento della misura degli acconti ai fini dell'Ires e dell'Irap, e l'aumento delle accise” su benzina, tabacco e alcolici.
POI C’È IL SECONDO aumento. Il governo cerca risorse per cancellare anche la seconda rata dell’Imu, vale 2,4 miliardi. E anche in questo caso si pensa di usare la benzina: martedì il governo dovrà presentare un decreto legge, c’è ancora incertezza sulle coperture per una cifra tra i 400 e i 900 milioni. L’idea che circola al Tesoro in queste ore è di prendere tempo: si aumentano (ancora) gli acconti sull’Ires, tassa che colpisce le imprese, e si mette a bilancio un aumento delle accise dal 2015 (salasso che dovrebbe generare 1,5 miliardi nel 2015 e 42 milioni nel 2016). Agli automobilisti inferociti dal governo rispondono che questo aumento non scatterà davvero: da qui al 2015 si saranno visti i miracolosi effetti della revisione di spesa iniziata dal commissario Carlo Cottarelli. La lotta agli sprechi genererà risorse sufficienti a non far scattare questo ennesimo salasso. Chissà. Le “clausole di salvaguardia”, cioè i piani B inseriti nelle leggi che scattano se il governo fallisce nell’attuare le riforme previste, hanno spesso conseguenze spiacevoli. Stiamo ancora pagano il conto di una riforma fiscale da 40 miliardi messa a bilancio due anni fa dall’allora ministro Giulio Tremonti e mai realizzata.
Il terzo aumento della benzina ipotizzato sarebbe, stando a indiscrezioni circolate ieri, inserito in un emendamento governativo alla legge di Stabilità in discussione al Senato: un aumento del carico fiscale da 419 milioni di euro spalmati su due anni, 2017-2018, ancora non è chiaro per compensare quale mancato incasso.
Mentre si arrabatta tra questi equilibrismi contabili che servono a prendere tempo, rimandando i salassi al futuro (e forse al prossimo governo), Enrico Letta prova a conquistarsi i titoli dei giornali con la retorica del pugno sul tavolo: “Sul fronte europeo per alcuni ayatollah del rigore questo non è mai abbastanza, ma di troppo rigore l’Europa finirà per morire e le nostre imprese finiranno per morire”. Lo dice proprio lui che ha preferito approvare sacrifici e tagli pur di non tornare sotto procedura d’infrazione, promettendo a Bruxelles il rispetto della soglia di deficit al 3 per cento del Pil.
Il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, per festeggiare i suoi 71 anni, è volato a Bruxelles per ottenere un incoraggiamento dall’Eurogruppo dopo la bocciatura (non formale ma nei contenuti) della Commissione europea che non ha apprezzato la manovra.
L'Eurogruppo, cioè il coordinamento dei Paesi dell’euro, “accoglie con favore l’impegno del-l’Italia ad affrontare i rischi” segnalati dalla Commissione e “prende nota delle misure aggiuntive che sta prendendo”. La lo stesso Enrico Letta ammette: “Se si continua con tasse e tagli Beppe Grillo avrà la maggioranza”.
Repubblica 23.11.13
I Comuni assediati dei debiti si ribellano all’operazione Imu
Sono a rischio 500 milioni Enel, Eni e Telecom forti creditori
di Federico Fubini
IL 22 ottobre 2012, per un soffio non si giocò. Il Genoa doveva ricevere la Roma allo stadio Ferraris ma gli arretrati delle amministrazioni pubbliche ci misero lo zampino. Il debito della Sporting Genova Spa verso l’Enel era ai livelli di guardia.
E IL gruppo elettrico era pronto a reagire: non avrebbe fornito l’alimentazione, se la società controllata dal comune di Genova non avesse pagato.
“Furono incomprensioni contabili, è tutto risolto” nota oggi l’assessore al bilancio della giunta comunale Francesco Miceli. Forse più che un equivoco, quell’episodio resta però soprattutto nella memoria di alcuni come la spia di un fenomeno più diffuso. Gli enti locali, in particolare (ma non solo) alcune grandi città del Sud, hanno fatto la loro scelta: messi alle strette sulla tenuta del bilancio, preferiscono finanziare i servizi sociali o pagare gli stipendi dei dipendenti piuttosto che saldare le bollette del gas, della luce o del telefono. Contano sul fatto che l’Enel, l’Eni o Telecom Italia non priveranno a cuor leggero una città di un servizio pubblico essenziale. Le grandi società di rete ricordano con discrezione di essere andate di recente in Via XX Settembre, sede del ministero dell’Economia, per consegnare una stima (informale) dei loro crediti verso le giunte comunali, provinciali, regionali d’Italia e verso le società municipalizzate. In pubblico non ne parlano, forse proprio perché le somme non sono trascurabili. Solo l’Enel vanta crediti verso le diverse strutture dello Stato per circa 300 milioni, benché i suoi clienti pubblici abbiano riconosciuto formalmente debiti per non più di 40. Altri grandi gruppi di servizi in rete tengono le carte gelosamente sul petto.
E’ comprensibile. Calcoli del genere sono alla base di un passaggio a vuoto sul quale il governo ha scelto di non accendere i riflettori in pubblico, ma che potrebbe avere delle conseguenze. In base a una legge approvata durante il governo di Mario Monti, per poter pagare gli arretrati dello Stato alle imprese occorreva entro l’estate un censimento credibile della loro entità. Ad oggi esiste solo una stima della Banca d’Italiabasata su un sondaggio di poche migliaia di imprese: la cifra di 90 miliardi, di cui circa 17 già saldati, nasce proprio da qui. Ora però gli enti locali dovevano comunicare alla Ragioneria le loro pendenze e quest’ultima a sua volta aveva detto che per quella data avrebbe fatto conoscere al Paese lo stato reale dei debiti commerciali dello Stato entro il 15 settembre.
Quella data è passata ma il ministero dell’Economia non ha detto ancora niente. E se è difficile pagare tutti gli arretrati finché manca questo tipo di chiarezza, il silenzio della Ragioneria ha una ragione fondata: le versioni dei debitori e dei creditori per adesso non combaciano. Le imprese reclamavano appunto circa 90 miliardi. Ma gli enti locali a metà settembre riconoscevano debiti verso di loro per varie decine di miliardi in meno, e qui non c’è solo la scelta di sopravvivenza di rinviare i pagamenti all’Enel o all’Eni.
Ci sono i debiti fuori bilancio delle giunte, poi gli arretrati delle controllate. Il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni ha voluto nella legge di stabilità un articolo (il 15) per responsabilizzare gli enti che esercitano il controllo e tagliare i compensi o licenziare i manager delle partecipate quando i conti sono in rosso. Dovrebbe essere l’inizio della fine della vecchia pratica di spostare debiti e assunzioni clientelari fuori dal bilancio degli enti. Ma le partecipate restano una nebulosa dai confini indefinibili. Il Tesoro stima che in ne esistano 7. 500 ma ha appena chiesto all’Istat un censimento per capire qualcosadello stato complessivo dei loro conti, dei debiti e delle perdite. Il vuoto informativo su di loro è notevole per un Paese con il debito pubblico dell’Italia. Si sa che l’Atm Messina gira a mezzo servizio perché paga i salari con grande ritardo e cannibalizza alcune carrozze del treno di superficie, diminuendo la circolazione, perché la francese Alstom non dà più i pezzi di ricambio a credito. Salvatore Palma, assessore al Bilancio di Napoli, sa che le sue partecipate hanno perso 15 milioni nel 2012. E la sua collega di Milano Francesca Balzani ricorda che le sue partecipate portano anzi un sano dividendo di 92 milioni al Comune.
Ma nel complesso il peso finanziario delle partecipate è una nebulosa. L’Istat ha censito 4.338 controllate (sul 2010) sopra i cento dipendenti e con un ente pubblico socio al 50% o il Tesoro in posizione di controllo grazie a poteri speciali. Ci sono dentro anche Eni o Enel, ma nel complesso il loro margine operativo, cioè gli utili, sono pari a un quarto di quelli di tutte le imprese italiane: l’Italia è più socialista di quanto credeva di essere, con 371 imprese a control-lo pubblico nel “commercio all’ingrosso e al dettaglio, riparazione di cicli e motocicli”, 69 in “servizi di alloggio e ristorazione” e 170 in “servizi di comunicazione e informazione”. Molti dei debiti commerciali attribuiti dalle imprese allo Stato sono distribuiti in questa terra incognita.
Sarebbe però ingiusto dare ai comuni la responsabilità per i conti dello Stato. E non è solo il fatto che secondo la loro associazione nazionale (Anci) rappresentano appena il 7,6% della spesa pubblica, il 2,5% del debito e hanno ridotto le uscite del 2,5% dal 2010 anche con un forte taglio agli investimenti. Perché c’è un punto più immediato, sottolineato dall’assessore al Bilancio di Milano (e europarlamentare del Pd) Francesca Balzani: le mancate scelte del governo sulle tasse sulla prima casa, ancora formalmente metà da abolire e metà no, “logorano le relazioni istituzionali”. E anche i bilanci delle città: a un mese dalla fine dell’anno i comuni rischiano un ammanco di mezzo miliardo di euro a causa della cancellazione dell’Imu. Milano rischia di ritrovarsi entrate per 110 milioni meno del previsto, Napoli 40 milioni: ammanchi che costano tagli all’assistenza sociale o aumenti di tariffe ai cittadini in tutti i servizi più essenziali.
La ragione è semplice: il governo non ha ancora confermato a 600 giunte cittadine in Italia che le rimborserà per la cancellazione della seconda rata dell’Imu sulla base delle aliquote locali maggiorate nel 2013. Tanti sindaci le hanno alzate fino al massimo del 6 per mille quest’anno per quadrare i conti, ma il Tesoro potrebbe rimborsarli dell’abrogazione con somme pari alle entrate del 2012. Ossia, appunto, mezzo miliardo in meno. «E’ difficile pianificare con queste incognite. Che credibilità puoi avere con i cittadini se il tuo orizzonte è sempre la settimana prossima?», si chiede l’assessore Balzani di Milano. «Se non possiamo contare su risorse certe per l’Expo 2015 o gli aeroporti, l’impatto negativo sulla crescita diventa enorme».
l’Unità 23.11.13
Civati guarda a Matteo:
«Ma lui non lavora in squadra»
In rotta con Cuperlo sul caso Cancellieri: «Mi ha attaccato personalmente»
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E propone coppia con Renzi «per sfidare Alfano-Berlusconi»
di Rachele Gonnelli
ROMA È convinto di poter ancora arrivare primo alle primarie, Pippo Civati. Una rimonta che dovrebbe addirittura capovolgere il voto già espresso tra gli iscritti, tra i quali è arrivato terzo con poco più del 9 per cento e quindi non a grande distanza dall’unico eliminato dalla competizione, Gianni Pittella. Possibile una simile rincorsa nelle ultime due settimane? Per lui sì, perché «non c’è correlazione tra il voto degli iscritti e quello nei gazebo, non più».
Due platee diverse, con idee politiche diverse e con una consistenza numerica non paragonabile. La prima platea quella dei circoli sarebbe un decimo della seconda, quella dei gazebo, fa notare. I numeri sembrano dargli ragione: a votare con la tessera del Pd in tasca sono stati circa 300 mila mentre di votanti alle primarie aperte se ne stimano almeno 2 milioni, anche 2 milioni e mezzo. Per il candidato alla segreteria Pd che piace a Laura Puppato e Fabrizio Barca non è neanche stata una sorpresa ottenere così pochi consensi tra i tesserati. «Era previsto avendo prevalso l’apparato», argomenta il giovane candidato che non può fregiarsi di stuoli di segretari locali e di battaglioni di parlamentari e consiglieri regionali. E dà anche la colpa a com’è andato il tesseramento: «Siamo partiti con tassi di adesione bassissimi e poi negli ultimo dieci giorni il flusso si è gonfiato, con un’operazione molto particolare per usare un eufemismo».
L’8 dicembre però sarà tutta un’altra musica, a sentire lui. Perché chi finora non si è iscritto è perché è rimasto in forte dissenso con le ultime scelte del Pd, quelle più governiste, «quindi magari è più vicino alle mie critiche», è il suo ragionamento. In ogni caso per Ciwati il nome del suo blog il giorno dell’Immacolata concezione «si rigioca da capo», spera che siano moltissimi e l’esito di quella consultazione è per lui ancora «tutto aperto».
Per il momento sui social network Civati si è dovuto difendere dalle accuse di chi è rimasto deluso dalla sua mancata presentazione di una mozione di presa di distanza netta dall’operato della ministra Cancellieri. Civati l’aveva annunciata ma forse non si è spiegato al meglio. «Non avevo intenzione di presentarla direttamente in aula precisa anche perché potendo contare solo su 7 parlamentari sarei andato poco lontano, quindi ho cercato di coinvolgere il mio gruppo per ottenere che la Cancellieri facesse un passo indietro prima di andare in aula». Ed è nella riunione del gruppo Pd che si è consumata una rottura in ragione della quale Civati si è in qualche modo riavvicinato a Matteo Renzi, con cui tre anni fa aveva condiviso l’esperienza della prima Leopolda. La rottura è con Gianni Cuperlo. «Io volevo dialogare con Cuperlo ma lui ha deciso di chiudere la porta e mi ha fatto un attacco personale dicendo che la mia mozione era inaccettabile perché non avevo votato la fiducia al governo». Cuperlo diventa così il suo rivale diretto, anche se ci tiene dire che «Bersani è stato trattato male» e che D’Alema lo stima. Sta di fatto che ora sul suo blog evoca una «coppia» Pd tra lui e Renzi da contrapporre al momento delle elezioni a quella Alfano-Berlusconi. Ma che non si parli di ticket o di una riproposizione della Leopolda perché le critiche al sindaco di Firenze sono dure. La prima è che Matteo non sarebbe capace di fare squadra. Non poca cosa per chi si apparecchia al posto di segretario nazionale.
La Stampa 23.11.13
Il caso De Luca imbarazza Renzi: “È solo indagato”
Congelato il voto di Salerno
di Francesca Schianchi
ROMA Dopo ore di riunione, la decisione è di «congelare» il congresso di Salerno. La città in cui Renzi ha ottenuto un boom straordinario, al centro delle polemiche nel Pd dopo le denunce del comitato di Cuperlo («situazioni fuori da ogni controllo democratico») e dopo che la Procura ha acceso i riflettori sulla campagna di tesseramento dello scorso anno. Un’ennesima riunione della commissione congresso, ieri, ha quindi deciso, su proposta del segretario Epifani, di «congelare» i risultati di quella città, di non conteggiarli, così come di sospendere quello di Catanzaro e annullare 35 seggi su 50 di Vibo Valentia. Decisione a cui l’ala renziana risponde polemicamente a tempo di record, tramite il deputato fedelissimo del sindaco di Firenze Francesco Bonifazi: «Curioso che per il partito visto il 70% di Salerno bisogna congelare tut-
to, mentre dopo il 95% dei voti di Enna non c’è niente da congelare», laddove nella città siciliana il vantaggio è di Cuperlo. «Abbiamo qualche difficoltà a capire, ma non c’è problema». Non c’è problema anche perché, insistono dalle parti del sindaco, secondo i loro conteggi eliminare le percentuali faraoniche di Salerno significa solo togliere un punto al vantaggio di Renzi sul voto degli iscritti.
E proprio per queste percentuali, che in città toccano il 98%, Renzi deve schivare una polemica. Suo grande sponsor sul territorio è il sindaco e viceministro alle Infrastrutture Vincenzo De Luca, raggiunto, un paio di giorni fa, da un avviso di garanzia per la vicenda legata alla costruzione di un’opera pubblica. Nessun imbarazzo? «Il sindaco di Salerno non è indagato per le tessere, che peraltro risalgono al 2012, cioè la segreteria di Bersani», chiarisce Renzi ospite di «Agorà», «di De Luca si può dire tutto ma non che non ha un consenso nella sua città, perché ha fatto il sindaco e lo sta facendo bene. Io dicevo che lo stava facendo bene quando votava per Bersani, e Bersani in quel territorio prendeva l’80%, ma nessuno diceva niente. Ora – fa notare il rottamatore De Luca ha detto: io voto Renzi, e allora si è detto bisogna ragionare su De Luca». Risposte che non placano però le polemiche: mentre dal M5s si annuncia una mozione di sfiducia al viceministro, il deputato lettiano Guglielmo Vaccaro lo sferza: «Renzi bombarda la Cancellieri ma su De Luca che fa il vice ministro e il sindaco non dice niente perché è un suo sostenitore».
Un parallelo, quello tra Cancellieri e De Luca, che il sindaco su Twitter cerca di smontare: «Le dimissioni si chiedono ai condannati, non agli indagati. In un Paese civile un avviso di garanzia non è una condanna», spiega, «in un Paese civile un ministro della Giustizia non chiama la famiglia di tre arrestati e un latitante e non dice “non è giusto”». Anche se dalle sue parti prendono qualche distanza dal sindaco di Salerno: «De Luca non è un nostro ministro, non abbiamo mai fatto un’iniziativa insieme: è uno dei tanti che vota Matteo».
Così, tra congressi congelati e seggi per l’8 dicembre ancora da confermare (c’è la conferma di soli 3300 sugli oltre 8800 del 2012), prosegue la campagna elettorale. Dal 9 dicembre, promette Renzi, «si fanno le cose sul serio: il governo farà le cose che dice il Pd, altrimenti ci arrabbiamo». Provocando il garbato rimprovero del competitor Gianni Cuperlo («credo non ci sia da aspettare il 9 dicembre per spingere il governo a fare le scelte che riteniamo necessarie»), e il rilancio dell’altro sfidante, Pippo Civati: «Dal 9 dicembre si cambia anche il governo: si fa la legge elettorale e si torna a votare in primavera». Domani la Convenzione nazionale, a cui parteciperanno tutti e tre. Previsto anche un videointervento del premier Letta.
il Fatto 23.11.13
Salerno, le tessere e le pene Pd
Sette ore di riunione, la sfiducia a de Luca e l’inchiesta dell’Antimafia: tutto congelato
di Paola Zanca
Il calendario dei lavori dice: convocazione permanente. E non è un modo di dire. La commissione nazionale per il congresso Pd ieri si è riunita alle 13 e, a sera, era ancora in stallo. È alle prese con il guaio delle tessere salernitane e il giorno non è dei migliori. All’ora di pranzo, la Dda della città campana fa sapere che la visita nella sede nazionale del partito è rinviata a data da destinarsi: bisogna approfondire le indagini, dopo che il responsabile della campagna Cuperlo Patrizio Mecacci, interrogato in Procura, ha spiegato le procedure del tesseramento. Poco più tardi, i Cinque Stelle annunciano una mozione di sfiducia contro il ministro (nonché sindaco di Salerno) Vincenzo De Luca. Qui, le tessere in bianco trovate nelle mani di un imprenditore di Nocera Inferiore non c’entrano nulla: il Movimento ce l’ha con l’inchiesta sul Crescent che vede nuovamente coinvolto il primo cittadino prestato al governo. Però, per Renzi sono guai comunque. Sia perchè l’en plein incassato tra gli iscritti di Salerno gli sta creando più problemi che altro. Sia perché dopo aver chiesto le dimissioni di Annamaria Cancellieri gli è difficile spiegare perché invece De Luca deve rimanere al suo posto. Dice il sindaco di Firenze: “In un Paese civile l’avviso di garanzia non è una condanna”. E aggiunge: “In un Paese civile il ministro della Giustizia non chiama la famiglia di tre arrestati e un latitante”.
INSOMMA, è Salerno che queste primarie dell’8 dicembre rischiano di finire male. La commissione ha discusso l’ipotesi di congelamento. Ma è chiaro che non basta metterle nel freezer per sedare i malumori. Dice il renziano Francesco Bonifazi: “Curioso che per il partito visto il 70% di Salerno bisogna congelare tutto, mentre dopo il 95% dei voti di Enna non c’è niente da congelare. Abbiamo qualche difficoltà a capire, ma non c'è problema. Concentriamo sull’8 dicembre”. Di cose da decidere, prima che aprano i gazebo, ce ne sono ancora parecchie. Le liste, per esempio. Spiega Andrea Pacella, mozione Cuperlo: “I tempi delle varie tappe del congresso sono stati compressi, ancora non abbiamo nulla di definitivo. Quello che faremo, di certo, è privilegiare le liste territoriali”. Significa che sfide tra “big” come quella di Bari (contro il renziano Michele Emiliano ci sarà Massimo D'Alema) non dovrebbero essere la norma. Quello su cui Cuperlo ha intenzione di insistere, nei prossimi giorni, è un punto in particolare: si sta eleggendo il segretario del Pd, non bisogna ingannare gli elettori. Per rimarcarlo, probabilmente Cuperlo lo espliciterà anche nel logo che sceglierà per la scheda: state votando il leader di un partito, non il candidato premier. “Dovrebbero votare gli elettori del Pd”, dice. A Renzi intanto, il sorteggio per il confronto su Sky, ha assegnato il posto al centro. Cuperlo sarà alla sua destra, Civati alla sua sinistra.
Corriere 23.11.13
Il sindaco e il rischio di «consunzione»
«Così i Cinque Stelle ci massacreranno»
di Maria Teresa Meli
ROMA — Matteo Renzi vede allontanarsi la data delle elezioni. Il 2015 è la scadenza ufficiale. Ma è il 2016, confessava ieri un ministro, l’obiettivo reale (anche perché per allora, malignano i sostenitori del sindaco, Letta avrebbe l’età per salire al Quirinale).
Quale che sia l’anno giusto, il sindaco ha paura che nel frattempo lui e il Pd, stretti tra palazzo Chigi e il Quirinale, che dettano la linea, muoiano di «consunzione». Teme che l’opinione pubblica e l’elettorato «abbandonino» il centrosinistra, che «i grillini ci massacrino».
Insomma, il futuro segretario del Pd non vuole, come ha spiegato in questi giorni ai suoi, che «l’immobilismo» del governo, la sua politica «moderata» e in alcuni casi «conservatrice», frutto di una maggioranza non politica e innaturale, finisca per penalizzare il Pd. Per tutte queste ragioni Renzi sta accelerando il suo pressing nei confronti di Letta e dell’esecutivo. Anche perché, e questo non è certamente un particolare di poco conto, nella primavera prossima si voterà per le europee. E il sindaco vorrebbe riuscire ad «attirare gli elettori scontenti del Movimento 5 Stelle» e, soprattutto riprendere quei milioni di voti che il partito ha perso alle politiche del febbraio scorso. Sennò, ragiona con i fedelissimi, c’è veramente il rischio che i Cinquestelle diventino il primo partito. Perciò c’è chi tra i suoi lo vorrebbe capolista in più circoscrizioni. E per lo stesso motivo Renzi non darà mai e poi mai il posto del numero uno nella lista che il Pd presenterà al Sud per le Europee a Massimo D’Alema. Quell’appuntamento elettorale è la sua vetrina e non si può concedere il lusso di presentarsi con quello che lui definisce, con un pizzico di disprezzo, «il vecchio Pd». Il che significa che l’ex presidente del Consiglio dovrà accontentarsi di un’altra posizione, più in basso.
C’è poi un obiettivo più immediato nel Renzi onnipresente in tv e perennemente parlante e dichiarante. Riguarda le primarie. L’obiettivo, spiegava l’altro giorno il responsabile Comunicazione e Cultura del partito Antonio Funiciello, un veltroniano che ora sta con Renzi e che è uno dei più attivi e fattivi a Roma di quella componente, è raggiungere almeno quota due milioni. Non è tanto. Un milione in meno delle altre volte. Ma con l’aria che tira nell’elettorato di centrosinistra nei confronti del Pd e del governo quello è un traguardo ambizioso e non è detto che sia così facilmente raggiungibile. Per questa ragione Renzi si sta dando un gran da fare («La storia della Cancellieri non ci ha certo aiutati», si è lamentato). E, comunque, per scaramanzia e non solo, Renzi fa sapere che per lui il 50 per cento sarebbe già un buon risultato. In realtà il sindaco punta anche al voto dei grillini alle primarie. Motivo per cui i suoi toni si sono alzati, mentre i Cinquestelle, proprio per arginarlo, sono partiti all’attacco di De Luca.
Nelle parole del Renzi scoppiettante (e dilagante), che incalza Letta e il governo, che dichiara apertamente di non venerare Napolitano, però, non tutti i messaggi vanno letti in chiave di pressing sul governo. Tra le righe, c’è anche un chiaro messaggio al partito e agli avversari interni: «Non pensiate che io, una volta eletto segretario, venga a fare il passacarte». E questo deve essere chiaro anche ai gruppi parlamentari che, essendo stati scelti in maggioranza dal vecchio gruppo dirigente e da Bersani, pensano di logorare il sindaco di Firenze. Se non altro perché sarà poi la nuova segreteria a mettere bocca nelle liste elettorali alle prossime politiche e questo sarà senz’altro un deterrente per chi punta a sfiancare il nuovo segretario. Il quale ha già ben chiaro in testa cosa chiedere a Letta appena eletto per conto del Pd: primo, le riforme istituzionali con nuova legge elettorale annessa; secondo, maggiore determinazione nei confronti dell’Europa; terzo, provvedimenti fiscali e sul lavoro, nonché tagli alla spesa pubblica; quarto, maggiore attenzione a cultura e istruzione.
il Fatto 23.11.13
Gli anti Napolitano. Il fronte democratico avversario del Colle
Per la prima volta dopo il biennio delle larghe intese nel Pd c’è chi si ribella alla venerazione per il presidente
di Fabrizio d’Esposito
“Lo rispetto, ma non lo venero”. Matteo Renzi è seduto nello studio di Agorà, trasmissione mattutina di Rai3. Risponde a una domanda sul ruolo del Quirinale nella blindatura cieca, a prescindere, del guardasigilli Annamaria Cancellieri. Sono due anni che il realismo togliattiano del Colle squassa il Pd. Ma malumori, insofferenza e mal di pancia sono sempre stati compressi nei ragionamenti riservati di vertici e parlamentari democratici. E il sindaco di Firenze è consapevole, dopo il biennio delle larghe intese e della democrazia sospesa, che il rilancio del partito passa anche per una fuoriuscita dalla monarchia del Napolitanistan. Dice: “Non diamo però a Napolitano responsabilità che sono della politica: se alle primarie vincessi io non ci sarebbero più alibi”.
È la versione diplomatica, pubblica di quanto confidato in altri termini martedì scorso, a margine delle telefonate con Enrico Letta prima dell’assemblea dei deputati del Pd, quella per consacrare la fiducia alla Ministra dei Ligresti: “Enrico mi ha detto: ‘Lo vuole il presidente’. Per me Napolitano può continuare a fare il presidente del Consiglio, ma il segretario del Pd lo farò io”. La “crisi” sullo scandalo Cancellieri è stata la terza occasione che ha messo Renzi in una posizione molto distante, diciamo così, dal Quirinale. È ce ne saranno molte altre dopo le primarie dell’Immacolata se lo scontro con Letta, tutto imperniato sul fare, “altrimenti ci arrabbiamo”, come ha detto sempre ieri ad Agorà, si impennerà nello primo scorcio del 2014. Quando Renzi spiega di voler essere un segretario forte per non dare alibi alla supplenza di Re Giorgio di fronte alla debolezza dei partiti, ribalta lo schema di questi ultimi due anni. Lo ha detto anche Antonio Bassolino, ieri al Fatto Tv: “Un Quirinale forte può essere limitato solo da un segretario forte”. Bassolino non è un renziano in senso ortodosso. Anzi. L’ex sindaco di Napoli dice che voterà per Renzi senza secondi fini. Ossia un ritorno in politica dopo l’assoluzione nel processo per i rifiuti: “Non mi candiderò, né alle Europee, né per fare di nuovo il sindaco di Napoli. Dopo l’assoluzione ho anche ricevuto la telefonata di Napolitano”.
Avversario storico della corrente migliorista di Napolitano nel Pci, Bassolino individua con grande lucidità il peccato originale che ha condotto il Paese alla monarchia: “È stato un errore non andare a votare due anni fa, ma il Pd e Berlusconi non furono abbastanza forti per chiedere con decisione le elezioni anticipate. Altrimenti, se questa fosse stata la loro volontà, Napolitano ne avrebbe preso atto”. All’epoca, nel novembre del 2011, si raccontò anche di un burrascoso colloquio al Quirinale tra Napolitano e Bersani, segretario e candidato premier in pectore. Bersani voleva il voto ma venne isolato e messo in minoranza dall’oligarchia del Pd, Veltroni e D’Alema inclusi.
Il nuovo fronte anti-Napolitanistan del Pd renziano assembla una significativa triade di leader extraparlamentari. Lontanissimi uno dall’altro. Renzi, ovviamente, Beppe Grillo e Silvio Berlusconi, che mercoledì prossimo sarà cacciato dal Parlamento. Secondo l’edizione italiana dell’Huffington Post, il Condannato starebbe valutando l’ipotesi di inserire forti critiche a Napolitano nel discorso che terrà a Palazzo Madama il 27 novembre. Si ritorna, in pratica, al mistero del patto tradito della pacificazione, quello tra il Cavaliere e il Colle. Forse Berlusconi aggiungerà qualche dettaglio decisivo alla vera storia che ha portato Napolitano per la seconda volta al Quirinale. Certamente, per B. e i suoi falchi di Forza Italia il patto non è stato “una panzana ridicola”, come la liquidò Re Giorgio in una nota contro il Fatto . A proposito di note, messaggi e moniti. Ieri, il capo dello Stato ha spedito un messaggio di solidarietà al circolo del Pd di via dei Giubbonari, a Roma, attaccata dai No Tav. Fino al 2006, anno della sua prima elezione a presidente della Repubblica, Napolitano era un iscritto di quella sezione. Bollando come “inqualificabili” le violenze, il Colle ha rivolto l’ennesimo appello alla politica per “un dialogo civile tra i partiti”. Parole che arrivano alla vigilia del 27 novembre, quando senza più il Condannato in Parlamento, per Napolitano e Letta si chiuderà un ventennio.
Corriere 23.11.13
Dem, tra i rimborsi servizio limousine da 900 euro
di Francesco Alberti
BOLOGNA – Settantadue chilometri, da Napoli ad Amalfi, per partecipare a un seminario di Areadem: Marco Monari, all’epoca capogruppo pd, e il collega di partito e consigliere regionale, Roberto Montanari, hanno coperto quel tragitto nel luglio 2011 a bordo di un’auto a noleggio, con tanto di autista, alla modica spesa di 900 euro, dei quali hanno poi chiesto il rimborso alla regione Emilia Romagna. A rendere l’episodio ancora più gustoso, si fa per dire, il fatto che dalle ricevute all’esame della Finanza risulterebbe che quel viaggio è stato effettuato «in servizio limousine»: dove non è chiaro se con ciò si intende che i due politici hanno effettivamente viaggiato su una vettura che rientra in questa lussuosissima categoria o se invece ci si riferisce genericamente al tipo di servizio. «Nessuna limousine, solo una normale auto con conducente» si è premurato di far sapere Monari, evitando però di entrare nei dettagli di una spesa che pare comunque decisamente alta se si considera, come annota l’Ansa, che quel seminario poteva essere raggiunto, seguendo le indicazioni del sito Areadem, alla cifra di 7 euro (in traghetto da Salerno o da Napoli tramite circumvesuviana). Anche Montanari si difende: «Mai salito su una limousine. La cifra di 900 euro non la conosco, le indagini chiariranno». Se è per questo, sono tante le questioni da chiarire in un’inchiesta che vede impegnate da mesi Procura e Finanza e che, nel valutare la regolarità dei rimborsi chiesti tra il maggio 2010 e il dicembre 2011, ha già indagato per peculato tutti i 9 capigruppo (dal Pd al Pdl, passando per Lega e 5 Stelle), facendo emergere una creatività di spesa a dir poco sbalorditiva. Tra le prime teste a cadere, proprio quella di Monari che si è dimesso giorni fa da capogruppo (ma non da consigliere, cosa che nel Pd ora cominciano a chiedere) dopo che sono emersi a suo carico 30 mila euro per pranzi e hotel. Sempre ad Amalfi, i due esponenti Pd hanno chiesto un rimborso di 800 euro per due notti in hotel. «Stavamo lavorando» ha spiegato Montanari. Inchiesta scivolosa. Nei giorni scorsi il segretario Epifani e il governatore Errani si sono esposti in prima persona per difendere «l’onore della Regione», censurare «le continue indiscrezioni», pur «nel rispetto» del lavoro dei magistrati. Ogni gruppo ha le sue gatte da pelare. Dalle carte emergono rimborsi per 1000 euro chiesti dal consigliere pdl Fabio Filippi per 5 giorni in hotel a Rimini durante il meeting di Cl. Solo in pubblicità, la Lega ha speso la bellezza di 500 mila euro. E a carico del gruppo pd compaiono anche 560 euro per pubblicizzare la «Festa del dialetto romagnolo».
Repubblica 23.11.13
Nel programma di Areadem ad Amalfi si suggeriva un traghetto a 7 euro
Gli emiliani Monari e Montanari si fecero portare da un autista
I consiglieri pd al convegno con l’auto blu da 900 euro
di Luigi Spezia
BOLOGNA — Novecento euro per percorrere 75 chilometri più ritorno. Tutti questi soldi — 6 euro a chilometro — li hanno spesi due consiglieri del Pd dell’Emilia- Romagna, Marco Monari e Roberto Montanari, il primo fino a un paio di settimane fa capogruppo nell’assemblea regionale, dimessosi dopo l’onda d’urto dell’inchiesta della procura che sta sconvolgendo il mondo politico della “regione rossa”. I due consiglieri regionali dovevano andare da Napoli ad Amalfi, dove dal 28 al 31 luglio 2011 era in programma una convention estiva di AreaDem, la corrente di Dario Franceschini. Gli organizzatori si erano preoccupati di far spendere poco e avevano allegato al programma politico una scheda: da Salerno ad Amalfi potete arrivarci spendendo 7 euro di traghetto. Per chi arrivava da Napoli era più complicato: treno più bus, ma costi ugualmente popolari. Se uno avesse voluto spendere di più e fare un viaggio molto comodo, con 100-120 euro all’aeroporto di Capodichino poteva prenotare un’auto con conducente che lo portava fin sotto l’albergo di Amalfi. Stessa cifra al ritorno. Certo, sarebbe stato molto più di 7 euro, ma molto meno dei 900 riportati sulla fattura dell’autonoleggio che all’aeroporto di Napoli ha messo a disposizione del tandem democratico in trasferta un’auto blu, con l’indicazione “servizio limousine”. «Significa semplicemente — dice il titolare dell’azienda che ha fatto il contratto — auto privata con conducente. A Milano dicono taxi blu.Le auto blu per noi sono quelle ministeriali. Se questi signori hanno speso 900 euro significa che la macchina l’hanno tenuta più giorni. Con 120 euro l’autista li portava ad Amalfi e arrivederci.Ma evidentemente l’autista è rimasto a loro disposizione».
Il titolare non ricorda l’auto che Monari e Montanari hanno noleggiato, né se l’hanno presa direttamente all’aeroporto o tramite agenzia: «C’è la privacy. Comunque abbiamo applicato le tariffe nazionali. Sono d’accordo che queste inchieste sui gruppi consiliari vengano fatte, ma noi dobbiamo pure lavorare. C’è di peggio».
Nell’inchiesta per peculato portata avanti da quattro magistrati, i pm Morena Plazzi e Antonella Scandellari e i vertici Roberto Alfonso e Valter Giovannini, le Fiamme Gialle hanno spulciato oltre 35 mila scontrini. Per la trasferta ad Amalfi, contestabile perché ha poco a che fare con il lavoro di un gruppo consiliare, Monari e Montanari, già si sa, avevano anche speso 800 euro per due notti all’albergo La Bussola, a quattro stelle. La nuova notizia sul salatissimo “servizio limousine” ha fatto perdere la pazienza ai renziani. Il ministro Graziano Del Rio, in un convengo a Modena, ha posto un beneficio del dubbio: «Speriamo che non sia vero, ma se lo fosse sarebbe inaccettabile ». A ruota, altri esponenti locali vicini a Renzi hanno chiesto le dimissioni dei due consiglieri o addirittura le elezioni anticipate.
l’Unità 23.11.13
Cuperlo: il sindaco non è affatto il nuovo
Il deputato triestino sfida Renzi:
«Su privatizzazioni e flessibilità, la posizione di Renzi più che a Blair si avvicina alla Thatcher»
«Se le sue idee sul lavoro sono come quelle della riforma Fornero non sarebbe neppure un buon candidato premier»
«Serve svolta radicale rispetto a questi 20 anni»
di Simone Collini
ROMA Altro che il nuovo, altro che segretario Pd per poi andare a Palazzo Chigi: Matteo Renzi vuole «riprodurre il ventennio che invece dobbiamo lasciarci alle spalle» e quindi «non sarebbe neanche un buon presidente del Consiglio». E poi: perché aspettare il 9 dicembre per dettare l’agenda al governo? «Le scelte da fare sono chiare già ora, e dobbiamo sollecitare l’esecutivo a farle già con la legge di Stabilità». Gianni Cuperlo vuole radicalizzare lo scontro, negli ultimi quindici giorni che mancano all’8 dicembre. Il suo obiettivo è non consentire al sindaco di Firenze una volata che, sulla carta, gli può riuscire meglio sul terreno delle primarie aperte di quanto non fosse possibile su quello degli iscritti al Pd. E porsi come l’alternativa non solo a Renzi, ma a un modello politico che lui incarna e che la sinistra ha combattuto è per Cuperlo il modo migliore per riuscirci.
Ecco perché negli ultimi giorni lo sfidante del sindaco insiste molto su un tasto: Renzi, che ha giocato le passate primarie sull’onda della «rottamazione» e che continua ancora oggi a proporsi come il fautore del rinnovamento del Pd come del Paese, «non esprime un vero cambiamento, e anzi è il testimone più autorevole e popolare della continuità del ventennio che abbiamo alle spalle». Il dito Cuperlo non lo punta tanto sulle tentazioni di guidare il Pd rifacendosi al modello di «uomo solo al comando», quanto sulle posizioni che Renzi sta esprimendo sulle materie economiche, e in particolare sulle proposte riguardanti il mondo del lavoro. Posizioni, denuncia lo sfidante del sindaco, estranee alla sinistra italiana e non paragonabili neanche alla terza via tentata in Gran Bretagna: «In tema di privatizzazioni e flessibilità del lavoro la posizione di Renzi, più che al blairismo, si avvicina al thatcherismo», dice per denunciare la «subalternità» del suo avversario rispetto a ricette che si sono già dimostrate fallaci dal punto di vista economico e sociale.
All’estero come in casa nostra: «Renzi sostiene che la riforma Fornero è buona e che va abolito l’articolo 18, ma se le premesse sono queste non è lui la persona giusta per chiudere questo ventennio». Come segretario del principale partito della sinistra, ma non solo. Se altri nel Pd, anche tra i sostenitori del deputato triestino, continuano infatti a dire che il sindaco è una risorsa, che il suo giusto ruolo sarebbe quello di candidato premier, Cuperlo fa un passo in più e dice che «viste le premesse, Renzi non sarebbe un buon presidente del Consiglio».
Domani, alla Convenzione nazionale del Pd, ci sarà il primo confronto diretto tra i due, con Pippo Civati a giocare il ruolo dell’inseguitore. All’Ergife di Roma verranno anche comunicati i dati definitivi del voto tra gli iscritti, e stando ai nuovi calcoli effettuati al Nazareno alla luce delle ultime votazioni e dei congressi congelati (come quello di Salerno) o annullati, le percentuali comunicate nei giorni scorsi (46,7% Renzi, 38,4% Cuperlo) potrebbero essere leggermente modificate (per circa un punto percentuale) a favore dello sfidante del sindaco.
A giudicare dalle uscite della vigilia, alla Convenzione nazionale Cuperlo non si limiterà ad attaccare Renzi per la volontà già espressa di fare sia il segretario del partito che il sindaco di Firenze, anche se quella del «doppio incarico» per il deputato triestino «non è un cavillo» ma «una questione di fondo» per un partito che deve aumentare il consenso nel Paese («e per farlo serve radicamento nel territorio, serve un contatto continuo con le persone, serve un partito, non un comitato elettorale») e sostenere un governo nella non facile situazione delle larghe intese con un pezzo di centrodestra. L’offensiva Cuperlo la porterà sul piano dei contenuti, indicando la strumentalità di polemiche come quella sulla legge elettorale (i renziani hanno attaccato Anna Finocchiaro e ora i deputati vicini al sindaco pensano di depositare una proposta che prevede un Mattarellum corretto, proprio come ha già fatto la presidente della commissione Affari costituzionali del Senato) e soprattutto insistendo sulla «subalternità» culturale e programmatica dimostrata da Renzi con gli apprezzamenti alla riforma Fornero, gli attacchi al sindacato o la riproposizione di un cavallo di battaglia della destra berlusconiana come l’abolizione dell’articolo 18.
Lo stesso annuncio fatto da Renzi sul fatto che dal giorno dopo le primarie sarà il Pd a dettare l’agenda al governo viene contestato da Cuperlo: «Non c’è da aspettare il 9 dicembre per spingere il governo a fare le scelte che riteniamo necessarie per far ripartire il Paese. Per noi, per il Pd, le scelte da fare sono chiare già ora, e dobbiamo sollecitare l’esecutivo a farle già con la legge di Stabilità. Dobbiamo stare dalla parte dei lavoratori, di chi sta soffrendo la crisi, e fare scelte che permettano di creare occupazione». Il che non si fa, insiste Cuperlo, riproponendo ricette thatcheriane o, peggio, berlusconiane.
l’Unità 23.11.13
Come sta cambiando il voto Pd in Toscana
di Marco Almagisti e Nicola Scarnera
L’IMPIANTO TERRITORIALE DEL VOTO PER LA SINISTRA ITALIANA GRAVITA TRADIZIONALMENTE ATTORNO A QUELL’AREA CHE FRANCESCO RAMELLA HA DEFINITO EFFICACEMENTE come il «cuore rosso» d’Italia, ossia l’Italia centrale. La nascita del Pd costituisce un elemento di discontinuità nelle vicende della zona «rossa», essendo controverso nel Pd il richiamo al socialismo e alla stessa sinistra.
Alla vigilia delle elezioni del 2008 non era scontata la capacità del Pd di conservare il consenso della zona «rossa», attraendo al contempo nuovi elettori. In quelle elezioni l’affermazione del Pd nell’Italia centrale appare incoraggiante: il Pd toscano può vantare il miglior risultato tra le regioni italiane (46,8% rispetto al 45,8% dell’Emilia Romagna). In Toscana, il Pd risulta primo partito in tutti i capoluoghi di provincia e in tutte le province tranne Lucca. In tre province della Toscana il Pd raggiunge la maggioranza assoluta: 53,2% a Siena (nel senese il Pd supera la soglia del 50% in 16 comuni su 36 e in due casi supera il 60%), 52,2% a Firenze (nel fiorentino il Pd supera il 50% in 17 comuni su 44 e in tre casi supera il 60%) e 51,7% a Livorno (nel livornese il Pd supera il 50% in 3 comuni su 20).
Per comprendere appieno i fenomeni politici può essere utile l’analisi di come evolvono i distretti industriali, o sistemi economici locali (sel), poiché in queste aree vi è «saper fare» diffuso e capitale sociale ed esse spesso anticipano trasformazioni che in seguito coinvolgono l’intera società. Nel testo «La qualità della democrazia in Italia. Capitale sociale e politica» (Carocci, nuova edizione 2011) abbiamo delineato l’evoluzione del voto nei sel della Toscana in tutte le elezioni del Dopoguerra. Essa conferma tali zone quali aree di forza della sinistra ed evidenzia nel 2008 il buon risultato locale del Pd. Il confronto con il risultato dell’Ulivo nel 2006 conferma una crescita del Pd in tutti i sel toscani, con l’unica eccezione della Garfagnana, zona tradizionalmente impervia per i partiti della sinistra.
Le prospettive mutano se anziché analizzare il solo risultato del Pd si prende in considerazione il rendimento dell’intero centrosinistra, soprattutto in riferimento a quei sel nei quali il centrodestra irrobustisce i propri consensi dalla metà degli anni Novanta, ossia i sel turistici. Nei quattro sel turistici considerati (Arcipelago, Costa d’Argento, Montagna pistoiese e Versilia) il centrodestra migliora il proprio risultato a scapito del centrosinistra e dell’udc. Mentre i sel turistici corrispondono a zone di tradizionale debolezza del centrosinistra, quelli industriali rimandano tradizionalmente alle zone «rosse». Ebbene, anche nei sel industriali nel 2008 il centrosinistra nel complesso arretra (con il picco di – 4,8% nel Valdarno inferiore). In tal senso, il risultato complessivo del centrosinistra non appare incoraggiante, mostrando anche in questo caso una rilevante flessione dei consensi a favore del centrodestra. Questo dato dimostra che la crescita del Pd nel 2008 rispetto alla somma di voti di Ds e Margherita nel 2006 avviene soprattutto a scapito dei partiti di sinistra e non per un allargamento dell’area dei consensi al centrosinistra.
Nel 2013 in 25 sel su 42 cala l’affluenza rispetto al 2008. Il Pd ottiene il 37,5% dei voti validi, il Movimento 5 Stelle 24% e il pdl 17,5%. In tutti i sel toscani il Pd peggiora rispetto alle elezioni precedenti; in 17 sel su 42 il Pd perde più di 10 punti percentuali rispetto al 2008. Anche il Pdl arretra ovunque: in 41 sel su 42 perde più di 10 punti percentuali (e in 10 perde più di 15 punti; in 6 di questi il M5S supera il 28,4%). L’arretramento di Pd e pdl oltre a incrementare l’astensione premia il M5S. In 4 sel toscani predomina la formazione di Grillo (Area Grossetana, Costa d’Argento, Massa Carrara e Versilia). La peggior affermazione del M5S è il 18% in Val di Sieve (area di forza del Pd che si conferma al 50%), ma la media del voto al M5S nei sel toscani è del 24,3%. Questo risultato lusinghiero dei pentastellati si inscrive in una tendenza all’erosione del tradizionale voto di appartenenza verso le forze del centrosinistra nell’Italia centrale, che precede il debutto elettorale della formazione di Grillo. Di conseguenza, il Pd sta cominciando a confrontarsi anche nell’Italia centrale con le dinamiche della democrazia «disancorata», in cui nessuna forma di consenso può essere data per scontata.
La Stampa 23.11.13
Immigrati e giovani precari, la salvezza dei conti Inps
di Walter Passerini
Sono i giovani precari e gli immigrati a salvare in corner i conti dell’Inps. Lasciando ai dietrologi le ragioni che hanno spinto il presidente Antonio Mastrapasqua a dare l’allarme sui conti del nostro maggior ente pensionistico davanti alla Commissione bicamerale per il Controllo degli enti previdenziali, quelle frasi, forse incaute e subito rimangiate nel giro di poche ore, hanno permesso di scoprire il velo che avvolge il nostro istituto di previdenza. Diventato da poco Super-Inps, infatti, si scopre subito il bubbone dell’Inpdap (pubblici dipendenti), il cui assorbimento ha portato in dote all’istituto 7,1 miliardi di deficit e 17,4 miliardi di disavanzo, portando il patrimonio da 41,2 a 21,8 miliardi, contribuendo a far chiudere il bilancio Inps con un rosso di 10 miliardi, ma si svelano altre storture del nostro sistema previdenziale. L’Inps è stato usato spesso come Croce Rossa e ambulanza per troppe patologie. Già il gioco si era fatto duro per i suoi conti, quando una decina di anni fa a confluire nell’istituto fu l’Inpdai, l’ente pensionistico dei dirigenti industriali che versava in profondo rosso, regalando allo Stato un debito di 3,6 miliardi e appesantendolo di 90 mila pensionati pagati da 83 mila dirigenti attivi. Ma oggi, nonostante la sostenibilità patrimoniale sempre garantita dallo Stato, si aprono nuove voragini e insostenibili iniquità. Il paradosso indecente è che sono proprio due tra le categorie più bistrattate e penalizzate a reggere il rosso dell’Inps: i giovani precari e gli immigrati. Senza di loro la voragine sarebbe mostruosa. Collaboratori a progetto, partite Iva e iscritti alla gestione separata dell’Inps versano ogni anno oltre sette miliardi di contributi e non ritirano quasi nulla in pensioni (vista anche la bassa età media dei contribuenti); gli immigrati, che sono 2,7 milioni di contribuenti regolari, versano 7,5 miliardi in contributi e non ritirano spesso alcunché, perché mancano gli accordi bilaterali tra l’Italia e i loro paesi di origine. Pochissime sono le leggi di reciprocità, ha dichiarato qualche giorno fa il presidente dell’Inps, ricordando il caso emblematico ed eclatante, vista la drammaticità dei disastri che ha appena subito, delle Filippine, che è in attesa da quasi 20 anni. E’ vero che a rendere pesante la situazione concorrono fattori economici di fondo e non di gestione. Il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati sta avvicinandosi pericolosamente all’uno a uno. Per questo solo la ripresa e la crescita potrebbero fare entrare nuovi lavoratori e nuovi contribuenti. Ma anche a livello di gestione molte cose si possono fare. Per esempio, ed è un fattore di civiltà, dare avvio su tutta la platea di lavoratori attivi alla spedizione della ormai famosa busta arancione, chiamata così per il suo colore usato da tempo nei Paesi scandinavi. Uno strumento che dovrebbe offrire a ogni persona l’estratto conto dei contributi versati e la simulazione sull’ammontare della futura pensione. Un diritto all’informazione tempestiva e trasparente, continuamente promesso e mai realizzato.
Corriere 23.11.13
«Ora raccontiamo la violenza sulle donne»
La viceministra Guerra: il 90 per cento delle vittime non fa denuncia
di Claudia Voltattorni
ROMA — «La violenza sulle donne non è una questione solo per donne». No. La violenza sulle donne «riguarda tutti». Chi la subisce. Chi la compie. Chi assiste. Prima, durante, dopo. «È da qui che bisogna partire se si vuole affrontare il problema: conoscere il fenomeno è il primo passo per combatterlo». E va fatto «con la partecipazione di tutti». Istituzioni, amministrazioni, associazioni, operatori sul campo, insegnanti, forze dell’ordine, avvocati, giudici, volontari: li ha messi tutti insieme attorno a un tavolo Maria Cecilia Guerra, viceministro del Lavoro con delega alle Pari Opportunità. «Lo stabilisce una legge, quella sul femminicidio», spiega quasi con modestia. Ma poi sorride: «Se si lavora insieme, si possono fare delle cose buone».
È con questo spirito che è partita la task force contro la violenza sulle donne. Apertura e collaborazione a tutti i livelli coordinata dalle Pari Opportunità per realizzare il «Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere», previsto dall’articolo 5 della legge sul femminicidio appena approvata. «Stavolta ci siamo», sorride la Guerra, appena tornata da Washington dove ha firmato per l’Italia la Convenzione di Belem (primo Paese Ue a farlo). E la sera del 25 novembre, Giornata per l’eliminazione della violenza sulle donne, invita tutti al Palazzo delle Esposizioni di Roma alla serata «Sii dolce con me, sii gentile», recital di poesie di Mariangela Gualtieri.
Parla di «una nuova consapevolezza del fenomeno» Cecilia Guerra: «Ci si è accorti che la violenza contro una donna si consuma tra le mura di casa più che fuori ed è commessa dal proprio partner o ex, più che da un soggetto esterno». Qualche dato arriva dal Sistema di indagine delle forze dell’ordine (Sdi) del ministero dell’Interno e dal database degli omicidi sempre del ministero: il 46,3% delle donne muore per mano del partner, il 35,6% di loro viene ucciso dall’uomo con cui ha vissuto, il 10,6% dall’uomo che ha lasciato. Sono aumentate le denunce di stupri, + 400% dal 1996 al 2012, però il sommerso rimane alto: il 90% delle donne che ha subito una violenza, non l’ha denunciata, un terzo di loro neanche ne ha mai parlato con qualcuno. «La violenza non è raccontata, è nascosta — riflette la Guerra — : vale sia per le donne, che tendono a sottovalutarla, sia per gli uomini che riescono a capire di essere stati violenti solo quando si confrontano con altri, lo vediamo nei centri per uomini maltrattanti. Se non sei in grado di identificare la violenza, non percepisci la sua escalation» .
Fondamentale formare e informare. Uno degli obbiettivi del Piano è questo: «La scuola per esempio: bisogna uscire dagli stereotipi di genere, educare i ragazzi alla relazione e impostare il rapporto maschio-femmina sul rispetto tra le persone e non su modelli precostituiti». È necessaria una sensibilizzazione di tutti, inclusi, si legge nell’articolo 5, «gli operatori dei settori dei media per la realizzazione di una comunicazione, anche commerciale, rispettosa della rappresentazione di genere, in particolare della figura femminile». Mi chiedo, dice la viceministro, «se a volte certe notizie sarebbe meglio darle con meno enfasi e particolari». La formazione è rivolta a tutti: da chi interviene nella fase di prevenzione (insegnanti), a chi partecipa alla fase di accoglienza delle vittime, forze dell’ordine, operatori sanitari e di giustizia, fino ai centri antiviolenza, «spesso ne sanno più di noi e perciò siamo noi a chiedere aiuto a loro».
I centri fanno parte delle cosiddette «best practice», i buoni esempi che già ci sono e che il Piano non dimentica, anzi: «Vogliamo costruire una rete integrata di risposta sul territorio per dare aiuto a chi subisce violenza, non solo a chi viene, ma andando a cercarla e per fare questo si devono mettere a frutto esperienze positive del territorio, tipo il Codice Rosa toscano, perché la donna sappia sempre a chi rivolgersi». L’articolo 5 bis prevede un intervento finanziario su centri e case rifugio «erogato non per progetti ma in base ad una mappatura Regione per Regione e nel 2014 distribuiremo 17 milioni in una sola tranche per dare un impulso forte». Ma il Piano pensa anche agli uomini, «la violenza sulle donne è un problema prevalentemente maschile, sono loro a maltrattare» sottolinea Guerra, e prevede perciò «azioni e metodologie coerenti per il recupero e l’accompagnamento dei soggetti responsabili di atti di violenza nelle relazioni affettivi»: «fondamentale sarà l’esperienza dei centri degli uomini maltrattanti».
Ecco, dice Guerra, perché tutto funzioni però «dobbiamo creare un sistema informativo integrato di tutte le fonti di cui già disponiamo: dati che riguardano la violenza che si è già manifestata, quindi dati raccolti da forze dell’ordine, centri antiviolenza, centri sanitari, Telefono Rosa». Ma bisogna anche cercare di prevenire la violenza prima che esploda: «un lavoro diverso, mesi, forse anni di impegno, la cosa importante è che dovrà essere davvero collegiale, solo così riusciremo a vincere».
l’Unità 23.11.13
I soldati italiani a Kabul anche dopo il 2014
Saranno 1.800 i nostri militari che resteranno come «consulenti» dopo il ritiro del contingente Onu
Il rischio è di essere «parte combattente»
di Umberto de Giovannangeli
Altro che «exit strategy». L’avventura militare dell’Italia in Afghanistan si protrarrà ben oltre il 2014. E con finalità che, al di là dei formalismi, potrebbero essere più impegnative, e rischiose, di quelle di «consiglieri militari». Fino a quindicimila soldati stranieri potranno rimanere in Afghanistan anche dopo la fine del 2014, dopo cioè che sarà stato completato il ritiro del contingente della Nato, in caso di approvazione della bozza di intesa bilaterale con gli Stati Uniti in materia di sicurezza da parte della Loya Jirga: ad affermarlo è il presidente afghano, Hamid Karzai, intervenendo in apertura dei lavori della «Grande Assemblea» tradizionale che da l’altro ieri e almeno fino a domani vede riuniti sotto un’enorme tenda a Kabul circa 2.500 tra capi tribù, anziani e dignitari politici per discutere il testo. «Se il patto sarà sottoscritto», ha spiegato Karzai «da diecimila a quindicimila dei loro militari rimarranno nel Paese. Quando dico “loro” ha precisato non mi riferisco soltanto agli americani».
IL MINISTRO MAURO
Tra quei «loro» ci saremo anche «noi». Da gennaio 2015, conclusa la missione Isaf nell’ambito della nuova missione Nato Resolute Support rimarranno in Afghanistan 1.800 militari italiani, destinati a ridursi progressivamente a meno della metà, circa 800, e ci rimarranno almeno fino al 2017 (ma fonti bene informate proiettano questa presenza almeno fino al 2020).
Nel luglio scorso, il ministro della Difesa, Mario Mauro, aveva confermato questa disponibilità, puntualizzando, però, che i nostri militari avrebbero avuto solo compiti di addestramento dei militari afghani.
Ma in un Afghanistan tutt’altro che pacificato, la distinzione tra funzioni di addestramento e impegno sul campo è molto labile, quasi inesistente. Il rischio, concordano analisti di strategia militare, è che anche dopo il 2014, i nostri militari possano essere coinvolti in operazioni sul campo. L’Italia e la Germania hanno accettato di mantenere il comando dei «centri di coordinamento» (attuali comandi regionali) nel Nord e nell’Ovest.
Per fare un confronto con altri partner europei si tratta di un impegno ben maggiore di quello assunto da Francia e Gran Bretagna e inferiore solo a quello degli Stati uniti che manterranno i comandi nel Sud e nell’Est e lasceranno in Afghanistan se la Loya Jirga darà il suo assenso, circa 10 mila militari -. Per questo impegno, il numero uno del Pentagono, Chuck Hagel ha pubblicamente ringraziato Roma e Berlino.
«Apprezziamo gli impegni che altre nazioni stanno assumendo ha dichiarato inclusi gli annunci fatti dalla Germania e dall’Italia secondo i quali assumeranno il compito di nazioni-guida per le aree settentrionali e occidentali».
INTERROGATIVI
Formalmente, i nostri soldati sarebbero «consiglieri militari». Ma è poco plausibile che sul campo l’Italia schieri 1800 «consiglieri militari». Potranno forse essere poche decine i consiglieri militari, ma la loro presenza nella basi di Herat (esercito) e Shindand (aeronautica) richiederà la presenza di altre centinaia di uomini per curare la logistica, la sicurezza e garantire una forza di reazione rapida con truppe d’assalto, elicotteri e forse droni in grado di intervenire in caso di necessità. Insomma, una presenza a tutto campo. Un campo di battaglia.
La questione è di quelle che meriterebbero una discussione molto approfondita nelle sedi deputate: prima fra tutte, il Parlamento. Il 10 ottobre scorso, il Consiglio dei ministri ha licenziato il decreto legge sul rifinanziamento delle missioni all’estero; decreto ancora in discussione alla Camera.
In quel decreto, per l’impegno militare in Afghanistan, prolungamento della missione Isaf, è stato deciso un rifinanziamento di circa 125 milioni (tre volte tanto rispetto ai 40 milioni per quella che viene considerata la «missione modello»: Unifil2, nel Sud Libano). In prospettiva futura, resta la domanda: in Afghanistan, ma per fare cosa? La risposta ufficiale non convince.
BRACCIO DI FERRO
A rendere ancor più problematica la situazione, è lo scontro fra Usa e Afghanistan sui tempi per l’eventuale firma del patto per la sicurezza che dovrà permettere la permanenza nel Paese di soldati americano oltre il 2014. Giovedì, aprendo i lavori della Loya Jirga, Karzai, a sorpresa, ha precisato che l’accordo bilaterale potrà essere sottoscritto soltanto dopo lo svolgimento «corretto e dignitoso» delle elezioni presidenziali del 5 aprile.
La Casa Bianca non ha gradito e ha fatto sapere che il presidente Obama vuole che l'intesa sia approvata entro la fine di quest’anno, quindi almeno quattro mesi prima del voto. Ma ieri il governo di Kabul ha riaffermato le sue intenzioni: «Come detto chiaramente da Karzai nel suo discorso», ha spiegato un portavoce del presidente, «firmeremo l’accordo una volta che avremo garantito la pace e la sicurezza e avremo celebrato elezioni trasparenti».
La Stampa 23.11.13
“Allende resta il nostro mito, realizzeremo il suo sogno”
La leader del movimento studentesco Camila Vallejo: il Cile è pronto a cambiare
La dittatura di Pinochet «Ha lasciato ferite profonde e mai sanate: ora ci riprendiamo quello che ci è stato tolto»
intervista di Filippo Fiorini
Santiago del Cile. Sono passati solo pochi giorni dalla notte in cui Camila Vallejo ha smesso di essere il volto del movimento studentesco cileno ed è diventata deputato di una delle repubbliche più antiche al mondo. In queste ore, la ragazza di appena 25 anni, ha partecipato a talk show politici nelle principali reti nazionali, ha camminato per le strade dei quartieri poveri di Santiago che l’hanno votata, ha cullato Adela, la sua bambina di un mese.
Camila, quanto è cambiata la sua vita negli ultimi tempi?
«Molto. Diventare madre, la campagna elettorale, è arrivato tutto insieme e le 24 ore non mi bastano più. Però l’appoggio della gente è una buona ragione per tenere duro. Mi dà forza».
Quando si è resa conto che sarebbe potuta arrivare così in alto?
«Non so se sono arrivata veramente così in alto, comunque alla fine del 2011, con le piazze piene di studenti, ho capito che avremmo potuto combattere una grande battaglia. Poi però mi sono anche resa conto che scendere in strada e protestare non bastava. Bisognava prendersi la responsabilità e fare qualcosa per consolidare tutta quella forza».
Si aspettava di vincere con tanto margine?
«Ho sempre avuto fiducia nel lavoro fatto per strada. Siamo stati molto sul territorio, parlando faccia a faccia con le persone. Però il risultato ha superato le aspettative. Oggi il Cile si è svegliato e vuole cambiare. Questo va oltre la mia candidatura, ci sono gli altri deputati del Partito comunista o gli altri ex dirigenti universitari, i loro risultati sono tutti parte di questa voglia di cambiare».
Ci sono stati molti giovani eletti, ma i giovani che sono andati a votare sono stati pochi.
«Tra la gente c’è un po’ di sfiducia, un po’ di disinteresse e anche un po’ di ignoranza. Nel nostro Paese manca ancora molta educazione civica e questa è un’eredità della dittatura militare. Molte persone non sanno
nemmeno cos’è un ministro, un senatore o un sindaco, e dicono: “Io non sono un politico e non mi interessa la politica”, però poi la politica irrompe nella loro intimità e si fa gli affari loro. Questo è un problema che si risolve a partire dall’educazione. Una questione che è stata posticipata per molti anni, visto che non interessava cambiare le cose. Eppure un miglioramento c’è stato: prima nessuno parlava di una nuova Costituzione e adesso la riforma è una delle priorità. Non è possibile vivere con una Costituzione ereditata dalla dittatura militare solo perché non siamo stati capaci di modificarla. Riprenderemo il progetto di Salvador Allende, che è stato interrotto ma non sconfitto. La dittatura di Pinochet ha lasciato una profonda ferita che ancora non è stata sanata. Ora si tratta di recuperare quello che ci è stato tolto».
Con questi numeri in Parlamento, però non vi sarà possibile riformare la Costituzione. Non è così?
«È una posizione troppo pessimista. Con la coalizione Nueva Mayoria (quella guidata da Michelle Bachelet, ndr) abbiamo ottenuto un numero di parlamentari sufficiente ad aprire un dibattito sull’argomento. È vero che la riforma dei principi fondanti della Costituzione richiede un quorum che non abbiamo però è anche vero che quello che abbiamo fatto finora con il movimento studentesco supera quello che si considerava il limite del possibile. E allora perché non continuare ad avere fiducia?».
Perché adesso il movimento studentesco la critica?
«Questa è una caratteristica dei movimenti. Devono mantenersi indipendenti rispetto ai governi di turno. È proprio così che danno vita ai cambiamenti. Abbiamo bisogno di un Parlamento aperto alla partecipazione dei cittadini in generale, non che dica: “Questo è quello che vogliamo, dovete adeguarvi”, ma che sappia ascoltare tutti e io sono disposta a ascoltare anche chi mi critica».
il Fatto 23.11.13
L’ultima vittima di Manson
Il santone satanista hippy e killer 79enne si fidanza dal carcere con una fan 25enne
di Valerio Cattano
Il suo gruppo di esaltati lo aveva battezzato “The Family”. Lui stesso non ha perso la speranza di rifarsene una, anche da dietro le sbarre. Charles Manson si sta per sposare: con una ventenne. Chi si fosse perso un pezzo della storia, può riandare al 1969, quando Manson e i suoi adepti si resero responsabili del massacro di Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, incinta di otto mesi, e di tre suoi ospiti che dormivano nella villa di Beverly Hills. La sera successiva uccisero Leno e Rosemary La Bianca, sempre a Los Angeles. Il movente? Inesistente, se non con la spiegazione del potere coercitivo di Manson verso la sua comunità e la fissazione per il brano Helter Skelter dei Beatles, che, secondo la sua personale lettura, incitava a spazzar via tutti coloro che non facevano parte della Family. Ora spunta Star, 25 anni; il nome gliel’ha dato lui. La ragazza, come ha raccontato il Daily Mail, si è trasferita già a 19 anni vicino alla prigione dove Manson sconta l’ergastolo. “Non sappiamo quando ma diventeremo marito e moglie”, ha detto Star ai cronisti. Per il momento il suo lavoro è quello di gestire alcuni siti web che chiedono la libertà del suo futuro sposo. Poche speranze: il giudice ha stabilito che Manson gioverà della libertà vigilata fra 15 anni, quando ne avrà 92. Ma la faccia del male, per qualcuno, resta sempre attraente.
Corriere 23.11.13
Accordo Ue, venti di rivolta in Ucraina Tymoshenko: è un golpe, tutti in piazza. Putin: «Ricatto da Bruxelles»
di Fabrizio Dragosei
MOSCA — L’Ucraina è al centro della bufera politica scatenata dalla decisione di rinviare la firma dell’accordo di associazione con la Ue. Yulia Tymoshenko, la leader dell’opposizione che si trova in carcere, ha parlato di colpo di stato e ha invitato tutti a scendere in piazza. Centinaia di persone hanno così manifestato a Kiev e in quasi tutte le città dall’Ucraina occidentale, quella più filoeuropea. I sostenitori di Yulia rimarranno nelle strade e per domenica vorrebbero arrivare a convincere almeno centomila connazionali a protestare pubblicamente contro la decisione del governo.
Tutti hanno parlato delle fortissime pressioni esercitate da Vladimir Putin, soprattutto nell’incontro segreto del 9 novembre di cui il Corriere ha riferito ieri. Ma da Mosca il presidente russo ha rispedito al mittente le accuse: «Abbiamo sentito di minacce verso l’Ucraina da parte dei nostri partner europei», ha detto durante una conferenza stampa. Per poi dimostrarsi ancora più esplicito: «Queste sono pressioni, questo è ricatto».
Qualcuno invece in Europa non è del tutto scontento della soluzione perché avere a che fare con i problemi dell’Ucraina, compresi quelli relativi al sistema giudiziario, non è una passeggiata. La Ue aveva posto fin dall’inizio come condizione per la firma del trattato una revisione del sistema dei tribunali e la soluzione del caso Tymoshenko, ritenuto fortemente politico. Yulia è sostanzialmente in carcere per aver firmato con Putin l’accordo che nel 2009 assicurò al Paese la ripresa delle forniture di gas dopo il blocco deciso da Gazprom. Nessuno oggi sembra però rilevare un particolare non trascurabile: l’allora primo ministro si sarebbe reso colpevole di abuso di potere per aver sottoscritto un’intesa sfavorevole al suo Paese proprio assieme a quello stesso Putin al quale oggi l’Ucraina si rivolge per risolvere i suoi problemi economici.
L’intesa con la Ue contro il volere della Russia sarebbe stata catastrofica perché Kiev dipende fortemente da Mosca. E’ vero che i russi in questi mesi hanno fatto di tutto per rallentare e rendere difficoltose le esportazioni ucraine verso il loro Paese. Ma è anche vero che Gazprom continua ad accettare rinvii dei pagamenti delle forniture di metano. L’Ucraina è in crisi economica, non trova più prestiti internazionali e non sa dove potrebbe trovare l’anno prossimo i 13 miliardi di euro necessari per pagare le sue bollette energetiche e le scadenze del debito internazionale. L’Europa non sarebbe stata in grado di aiutarla. Ora la patata bollente è nelle mani della Russia che non può permettersi di fare brutta figura.
Putin ha promesso a Viktor Yanukovich di abbassargli il costo del gas, mentre il presidente ucraino non si è impegnato formalmente a entrare nell’unione doganale che la Russia ha creato come alternativa all’Ue. Ieri a Vienna Yanukovich ha ripetuto che nel lungo periodo l’Ucraina guarda a Ovest e che la decisione presa comporta solo un rinvio. D’altra parte, nelle condizioni attuali, quella di Putin era una proposta che non si poteva rifiutare.
il Fatto 23.11.13
Iran. Accordo nucleare al “90 per cento”
L’intesa
sul nucleare iraniano è legata (come in una formula matematica) alla
percentuale d’arricchimento dell’uranio: sarà questa a decretare la
riuscita dell’accordo. Ieri l’intesa a Ginevra fra Iran e potenze
mondiali del gruppo 5+1, impegnate a ottenere garanzie da Teheran che il
suo programma nucleare non punti alla bomba atomica, veniva data come
prossima. Dopo le 3 giornate di colloqui previsti è probabile che il
negoziato prosegua anche oggi. La Casa Bianca ha ribadito di sperare che
possa essere raggiunto un accordo in questo round e poco prima il
ministro degli Esteri e capo-negoziatore iraniano, Mohammad Javad Zarif,
aveva detto che si è al “90%” del cammino anche se restano “uno o due”
punti “di disaccordo”. Ma sarebbe stata risolta la questione del
riconoscimento del diritto iraniano all’arricchimento dell’uranio.
La Stampa 23.11.13
Sciiti-sunniti
La frattura che si allarga nell’Islam
di Roberto Toscano
Non vi è dubbio che l’Islam sia oggi percepito in Occidente in chiave di minacciosa conflittualità, e – per alcuni addirittura di sfida globale alla pari di quella che per gran parte del secolo scorso era costituita dal comunismo sovietico. Vi sono molte semplificazioni in questa tesi, soprattutto in quanto essa presuppone, arbitrariamente, l’esistenza di un Islam non solo unificato, ma compatto sulle posizioni più militanti.
La realtà è ben diversa, non solo perché – dal Marocco alle Filippine – vediamo una grande varietà di modi di essere musulmani (a seconda della storia di ciascun popolo, delle particolarità culturali, delle appartenenze etniche) ma anche perché esistono, oltre alle differenze, vere e proprie fratture, di cui la più importante è la contrapposizione sunniti-sciiti.
E’ una contrapposizione che ricorda, nella sua radicalità e ricorrente carica di violenza, quella che è esistita per secoli fra il ramo cattolico e quello protestante della cristianità. Lo scontro fra queste due diverse interpretazioni del messaggio cristiano aveva in origine radici dottrinali, teologiche, anche se ben presto si intrecciò con dimensioni politiche, dinastiche, territoriali. Nel caso dell’Islam, una religione della «ortoprassi» piuttosto che della «ortodossia», la spaccatura fu fin dall’inizio determinata non da divergenze teologiche, ma da una questione di potere: quella della successione a Maometto, che gli sciiti volevano per discendenza familiare e i sunniti secondo i tradizionali meccanismi tribali di selezione dei capi.
Per secoli, e con poche eccezioni, gli sciiti sono stati non solo numericamente minoritari, ma anche perseguitati e oppressi dalla maggioranza sunnita, socialmente svantaggiati e discriminati, i perpetui sconfitti. La loro identità religiosa, e prima ancora culturale, è basata appunto su una sconfitta (la battaglia di Karbala, mitica per gli sciiti come per i serbi lo è un’altra sconfitta, quella della battaglia di Kossovo Polje), sul rifiuto dell’ingiustizia e la contrapposizione al potere. I sunniti da parte loro hanno sempre dato per scontato di essere detentori dell’ortodossia islamica contro l’eresia della religione sciita, considerata deviante per la sua fondamentale ispirazione messianica (l’attesa del ritorno del Dodicesimo Imam), la presenza, ignota al sunnismo, di un clero strutturato gerarchicamente e il culto per una varietà di santi e martiri che dall’ortodossia sunnita viene considerato una deviazione dal rigoroso monoteismo dell’Islam.
La rivoluzione khomeinista del 1979 ha riportato la contrapposizione fra sciiti e sunniti alla sua prima, e primaria, radice politica. Una rivoluzione certo, ma anche un ritorno, dopo la parentesi laica e «occidentalizzante» della dinastia Pahlevi, allo sciismo come religione di Stato introdotta in Persia nel Cinquecento dalla dinastia safavide.
Lo «sciismo al potere» – e per di più nella Persia, un Paese di cui gli arabi hanno storicamente temuto le costanti pulsioni egemoniche – ha da allora costituito una sorta di scandalo, un’anomalia che a distanza di oltre trent’anni i sunniti, e in primo luogo l’Arabia Saudita, continuano a ritenere inaccettabile.
Ma cosa spiega oggi la recrudescenza di questa contrapposizione che si sta riproducendo con estrema violenza dal Libano al Pakistan?
Il punto di rottura è stata la caduta, nel 2003, di Saddam Hussein e l’instaurazione di un governo sciita a Baghdad. Se infatti lo spegnersi della spinta rivoluzionaria dell’Iran khomeinista aveva aperto una possibilità di «modus vivendi» con il mondo sunnita, e in primo luogo i sauditi, è stata la «perdita dell’Iraq» che ha fatto scattare una sorta di allarme rosso.
Non si tratta di religione, certo. Quello di Saddam era un regime sostanzialmente laico, ma era visto come un baluardo contro l’Iran, che il dittatore iracheno aveva anche cercato di sconfiggere nella lunga guerra degli Anni 80.
Che i sauditi non abbiano mai accettato che in Iraq ci fosse un governo che rappresentava la maggioranza sciita del Paese viene dimostrato dal fatto che non abbiano mai aperto un’ambasciata a Baghdad. La democrazia non è certo un criterio. Per i sauditi, sia si tratti dell’Iraq che del Bahrein, il fatto che gli sciiti siano una maggioranza non implica che sia accettabile che governino.
E’ importante sottolineare che lo scontro sunniti-sciiti, pur non essendo certo unilaterale, è oggi doppiamente asimmetrico. Da un lato infatti è l’Arabia Saudita ad essere palesemente all’attacco, con il sostegno ai gruppi sunniti più radicali, dagli jihadisti che cercano di rovesciare Assad ai Talibani (e l’ostilità invece agli islamisti sunniti più moderati, come i Fratelli Musulmani in Egitto), mentre l’Iran si accontenta oggi di difendere uno status quo che ha come punti fondamentali, oltre al governo Maliki in Iraq, la Siria di Assad e Hezbollah in Libano. Dall’altro va detto che, a differenza dalla rivendicazione saudita della leadership del sunnismo, la dimensione sciita è tutt’altro che centrale nella strategia dell’Iran, che punta invece su alleanze che non hanno necessariamente a che vedere con le affinità religiose: Assad è un dittatore laico e gli alawiti sono una setta solo lontanamente collegata allo sciismo; Teheran appoggia Hezbollah, sciita, ma anche Hamas, sunnita. Per i sauditi, a differenza dagli iraniani, è il radicalismo religioso ad essere veicolo e strumento ideologico di una strategia politica – e geopolitica.
La lotta è sempre più senza esclusione di colpi, e minaccia in particolare di estendersi dalla Siria al Libano.
Gli iraniani, lasciandosi andare ad un riflesso condizionato o piuttosto ad uno scontato intento propagandistico, hanno accusato Israele di essere dietro all’attentato alla loro ambasciata a Beirut, ma gli osservatori più attenti ritengono che la pista porti in un’altra direzione, quella dei servizi sauditi.
Certo, quello che è clamoroso è che, in questa fase in cui l’Iran cerca di percorrere la via diplomatica per superare un isolamento ormai insostenibile sia politicamente che economicamente, i sauditi si trovino ormai in totale sintonia con Israele, anche nella violenta irritazione nei confronti di Washington, da loro accusata di eccessiva disponibilità nei confronti di Teheran.
In realtà quello che traspare, nelle posizioni saudite, è un’insicurezza di fondo causata non solo dalle incertezze dell’alleato americano, ma anche dalle prospettive in campo energetico (l’avvicinarsi degli Stati Uniti all’autosufficienza energetica avrà di certo una pesante ripercussione, e non solo di natura economica, su Riad) e anche da equilibri interni che sarebbe difficile ritenere immutabili, soprattutto per il fattore generazionale e per una strisciante evoluzione culturale che mette sempre più in crisi il rigido controllo tradizionalista su politica e costumi.
Senza questa incertezza, la «minaccia persiana» potrebbe essere ridimensionata e gestita dai sauditi sulla base di un combinazione di dialogo e «containment» e di una diplomazia attiva ed agile che dovrebbe sostituire l’inquietante bandiera della leadership dell’Islam sunnita.
Sarebbe questa, assieme ad una per quanto graduale democratizzazione interna, la vera modernizzazione di un Paese che dovrebbe costruire il proprio futuro, invece di temerlo.
Repubblica 23.11.13
Il reportage
Tunisia, tra i nuovi integralisti della rivoluzione dei Gelsomini
Rabbia contro il partito di governo: la “Primavera” è in bilico
di Bernardo Valli
TUNISI QUI la “Primavera araba” non è fallita. Non del tutto. Arranca. Stenta ad affermarsi. Ma sopravvive in una sofferta transizione. Qui è nata e qui resiste, come un’ultima, vulnerabile trincea. Sono gli estremi istanti della moribonda estate mediterranea e ne approfitto in maniche di camicia sulla terrazza
di un caffè.
UN TUONO di voci esplode e violenta il pacifico brusio dell’avenue Bourghiba. Grida gutturali irrompono nel torpore pomeridiano più favorevole alla siesta che alla rivolta. Sono invocazioni di sapore antico scandite con passione non con rabbia. Eventi, concetti di millecinquecento anni fa risvegliano come un fuoco d’artificio la quieta, ormai smorta atmosfera balneare di un giorno qualunque del ventunesimo secolo.
C’è chi implora il ritorno al califfato: ed è un bel salto a ritroso nel tempo rimpiangere quel sistema di governo del primissimo Islam, creato per garantire la successione del Profeta appena defunto (632 d. c.). Il califfato ottomano fu uno dei tanti remake, l’ultimo, e fu abolito (nel 1924) da Kamal Ataturk, celebre mangia mullah della storia turco musulmana. Altri slogan urlati chiedono l’applicazione della sharia. Un ulteriore salto indietro nei secoli, per recuperare un insieme di norme ispirate dalla volontà di Dio trasmessa dall’Arcangelo Gabriele a Maometto.
L’atmosfera è surreale. La cornice è vacanziera. Turisti europei all’inseguimento della tarda estate sulla costa del Magreb sono raccolti attorno a tavolini affollati di coca cola light. Le esortazioni politico-religiose espresse con toni disperati dai giovani manifestanti musulmani fanno da sfondo musicale. La coreografia è arricchita dallo sventolio di bandiere nere e bianche. Sono gli stendardi dei salafiti, degli integralisti islamici non jihadisti, non violenti, non dediti al terrorismo. Un po’ fanatici ma frequentabili. Non pericolosi. Sono mistici agitati. I passanti e i clienti dei caffè all’aperto non sembrano troppo turbati, anche se un po’ sorpresi. Le braccia tese, i pugni chiusi, gli slogan usati come frustate, sembrano i gesti, i rumori di un corpo di ballo scatenato. Gli amici tunisini sono rassicuranti, spiegano che sono bigotti chiassosi. La loro presenza nel cuore della capitale è un segno che la “Primavera araba” non è del tutto morta. Non mi resta che accettare la spiegazione. Loro, gli amici tunisini, sono del posto, sono intellettuali attendibili e ai fanatismi oppongono l’ironia.
Le manifestazioni non violente sono una prova, sia pur non decisiva, di democrazia. E le manifestazioni sono frequenti, quando il clima politico si scalda sono quasi quotidiane. Sono in favore o contro il governo islamico. Le processioni si alternano e capita che degenerino in risse. Hanno intenti laici, ma sempre con un’impronta formale musulmana perché laico suona come un sinonimo di ateo (espressione scandalosa in terra islamica); oppure sono di chiara natura religiosa integralista come quella che irrompe nell’avenue Bourghiba. Le organizzazioni jihadiste, inclini al terrorismo, sono state messe fuori legge dal governo islamico dopo gli assassini e gli attentati di cui sono stati accusati. Non a torto. Questo rassicura ma non garantisce. La cronaca di fatti recenti ne é la prova.
Un mese fa, il 23 ottobre, Socrate Chemi, tenente della Guardia nazionale, è stato ucciso dai “terroristi” a Sidi Ali Ben Aoun, nel centro della Tunisia. A Kef, la città natale di Socrate, un grande manifesto lo ricorda insieme agli altri cinque gendarmi uccisi insieme a lui. Ma la gente di Kef non si è limitata a rendere quell’omaggio al concittadino morto in servizio comandato. Dopo i funerali, almeno un migliaio di uomini e donne hanno saccheggiato e incendiato l’ufficio di Ennahda, il partito islamista al governo, accusato di avere consentito a lungo agli estremisti, ai jihadisti, di agire liberamente, prima di metterli fuori legge.
Il gruppuscolo Ansar el-Sharia, dedito ad azioni violente, è stato proibito e i suoi seguaci sono ricercati dalla polizia. Ma anche il sindacato di gendarmi e poliziotti, nato dopo la cacciata di Ben Ali, il raìs fuggito tre anni fa nell’Arabia Saudita, rimprovera al governo di avere agito in ritardo. E lo considera quindi complice dei terroristi. Al punto che nella caserma di Aouina, nella periferia di Tunisi, le più alte autorità hanno subito, il 18 ottobre, una pesante umiliazione. Durante una cerimonia in omaggio ad altri due gendarmi uccisi, il presidente della Repubblica, Moncef Marzouki, il primo ministro, Ali Larayedh, e il presidente dell’Assemblea costituente, Mustafa Ben Jaafar, sono stati cacciati da gendarmi e poliziotti in collera. Sono stati inseguiti da insulti e minacce, e costrettiad al- senza badare al protocollo. La calma non prevale sempre nella mite Tunisia. Tra gli assassinati c’erano negli ultimi mesi anche esponenti di rilievo della società politica.
Vengo dal Cairo, dove è in corso una restaurazione di stampo bonapartista, e dove, nonostante i militari ne abbiano già celebrato i funerali, l’insurrezione di piazza Tahrir (del 25 gennaio 2011) è stata sepolta quando ancora respirava. O perlomeno emetteva qualche segno di vita. Non mancano i movimenti, sia pur smarriti e isolati, che continuano a richiamarsi allo spirito iniziale dell’insurrezione di stampo liberale, prima che venisse deturpata dal forviante e fallimentare intervento dei Fratelli musulmani. Quindi la rivolta originaria di piazza Tahrir potrebbe riemergere, col tempo, sulle sponde del Nilo. Chissà quando. Le correnti rivoluzionarie si disperdono e si riformano nel corso di decenni.
Qui a Tunisi, malgrado gli assassinii e le insubordinazioni delle forze dell’ordine,la “Primavera araba” invece continua tra mille ostacoli. È in mezzo al guado. Potrebbe concludersi con una restaurazione autoritaria, con un fallimento di tipo egiziano, come potrebbe compiere un importante progresso: vale a dire rispettare l’essenziale rito dell’alternanza attraverso il libero suffragio universale. È la grande posta in gioco di oggi.
Gli islamisti arroccati nel potere non sembrano troppo disposti a rispettare quel principio su cui si basa la democrazia. Sono al governo grazie a un libero voto ma danno l’impressione di non voler rispettare i termini del mandato. L’intesa era precisa. Un anno dopo l’elezione dell’Assemblea costituente, una volta redatta la Costituzione e stabilita la legge elettorale, si doveva ritornare alle urne per il nuovo Parlamento. Ma è trascorso più di un anno, la Costituzione non è ancora pronta, manca la legge elettorale e Ennahda non pare incline, come stabilito, a cedere il posto a un governo di tecnici incaricato di condurre di nuovo il paese al voto.
Non è facile schiodare gli islamisti. Sono entrati in ritardo nella rivoluzione, l’hanno scippata alle minoranze insorte contro la dittatura del raìs, imponendosi alle prime elezioni, ma adesso rischiano di perdere le prossime. Per questo sono riluttanti ad abbandonare il potere. La loro popolarità è crollata, la loro inettitudine nel governare ha squalificato il carisma religioso di cui usufruivano e ridimensionato il prestigio accumulato nella clandestinità e nelle prigioni del vecchio regime. Erano vittime, adesso appaiono inaffidabili a molti loro ex elettori.
Le notizie provenienti dal Cairo hanno gettato il panico tra i dirigenti di Ennahda. I quali temono di subire la sorte dei Fratelli musulmani cacciati dal potere e massacrati dai militari perché protestavano contro l’esautorazione e l’arresto di Mohammed Morsi, il loro presidente, eletto al suffragio universale diretto. In Tunisia non c’è una società militare come in Egitto. Habib Bourghiba, il fondatore della Repubblica, era al tempo stesso un capo arabo autoritario e un radicale della Terza Repubblica francese, alcuni suoi atteggiamenti erano quelli di un laico europeo. Diffidava dei militari e si è ben guardato dal creare un esercito forte.
Ma esistono la guardia nazionale e una polizia che, come in Egitto l’esercito, erano gli strumenti del raìs deposto. Dopo l’insurrezione del 2011 gendarmi e poliziotti hanno subito critiche e rancori per il loro ruolo di repressori, ma si sono adeguati presto al nuovo corso creando persino un sindacato. Hanno ingoiato le accuse, ma hanno approfittato delle nuove libertà avanzando rivendicazioni salariali e normative. Hanno ritrovato la grinta, al punto da cacciare da una loro cerimonia, come malviventi, il capo dello Stato, il primo ministro e il presidente dell’Assemblea costituente. Andranno oltre ? Sognano di imitare i militari egiziani ?
Non c’è comunque in vista un candidato raìs, in divisa di poliziotto o di gendarme. Non ancora. Una svolta egiziana non è ritenuta imminente in Tunisia. Questo dicono i miei amici. La libertà di espressione è in generale rispettata, la stampa non risparmia le critiche al potere, anche se chi calca la mano rischia la galera. I rappers troppo impertinenti subiscono violenze. E’ capitato in agosto a uno tra i più popolari. Al festival di Hammamet, Ahmed ben Ahmed (detto Klay RBG) è stato riempito di botte per avere deriso il governo islamico. E’ poi stato condannato da un tribunale a un anno e nove mesi. Le manifestazioni dei giovani in suo favore l’hanno fatto liberare dopo qualche settimana. L’ambiguità prevale spesso. Il governo esita, si contraddice, non osa imporre i principi coranici, li annuncia e li smentisce, non li applica con decreti. Occupa posti di potere, ma riceve schiaffi dalla polizia. Non osa cambiare le leggi promulgate dal “laico” Bourghiba. La poligamia è sempre proibita. Capita che si parli dell’imminente istituzione dei matrimoni brevi, esistenti in molti paesi arabi, ed anche nell’Iran degli ayatollah. Di fatto sarebbe come consentire la poligamia. Ma non si va oltre l’annuncio. Il quale basta tuttavia ai giovani delle università per metterlo in pratica.
Di compromesso in compromesso la “Primavera araba” continua nella Tunisia, laboratorio di una società musulmana liberale. Il principale esperimento in corso è l’incerto dialogo nazionale tra le forze politiche per arrivare alle dimissioni degli islamici riluttanti e alla formazione di un governo di tecnici incaricato di condurre il paese alle elezioni. Un risultato positivo sarebbe un rilevante passo avanti.
Corriere 23.11.13
Tele naziste, 300 quadri tornano al gallerista
Una parte del cosiddetto «tesoro di Hitler» tornerà al collezionista Cornelius Gurlitt. La procura inquirente di Augusta ha annunciato che 310 quadri facenti parte del sensazionale ritrovamento di circa 1.400 opere scoperte in un appartamento privato a Monaco, sono di proprietà dell’ottantenne figlio del noto mercante d’arte Hildebrandt Gurlitt che commerciava durante il nazismo per conto del regime. I magistrati hanno appurato che sono senza dubbio di sua proprietà. Esperti e inquirenti stanno indagando da settimane sulla provenienza delle opere per accertare se si tratta di arte rubata durante il nazismo e se vadano restituite agli eredi dei legittimi proprietari, per lo più ebrei razziati o costretti a svendere per mettersi in salvo all’estero. «Sonderemo tutte le possibili strade per salvaguardare i diritti dell’accusato e la sicurezza dei quadri», ha dichiarato un portavoce della procura di Augusta. In una dichiarazione alla Sueddeutsche Zeitung, il procuratore capo, Reinhard Nemetz, ha detto che già la scorsa primavera la Procura aveva tentato di restituire a Gurlitt le opere di sua comprovata proprietà ma senza successo. Indipendentemente dal numero di tele che riuscirà a riprendersi, una cosa è certa: Gurlitt non potrà più tenerle nascoste in casa come finora ha fatto per decenni, il segreto è svelato e tutti sanno del suo tesoro. I quadri, nel suo appartamento a Monaco, non sarebbero più al sicuro.
il Fatto 23.11.13
Spedizione Franchetti, 1928
Mutilazioni genitali
Le foto scomparse delle atrocità in Etiopia
Ritrovamento casuale di foto che testimoniano i crimini commessi nelle zone che presto verranno annesse all’Italia
Le immagini, contrassegnate dall’Istituto Luce, non farebbero parte dell’archivio che custodisce la memoria coloniale
di Marco Dolcetta
Di recente su una bancarella dei libri usati, nel quartiere Salario Trieste di Roma, mi sono imbattuto in una raccapricciante scoperta: in una vecchia scatola di cartone di prodotti fotografici, ho visto 50 stampe di medio formato in bianco e nero, tutte timbrate Istituto Luce, con l'indirizzo della vecchia sede di Largo Santa Susanna, prima di Cinecittà.
Queste foto particolarmente raccapriccianti, rappresentano nella quasi totalità corpi mutilati nelle parti intime genitali, di cadaveri prevalentemente di colore. Ogni foto nel suo dorso ha una minuziosa descrizione scritta a matita del soggetto fotografato. Tutte riguardano la spedizione in Dancalia nel 1928/29 organizzata dal barone, Raimondo Franchetti. Queste foto pare non siano conservate nell'archivio storico fotografico dell'Istituto Luce. Il reparto “Attualità Luce” le realizzò durante la spedizione del barone Franchetti con 239 fotografie consultabili presso l’Archivio Luce. Le foto che ho trovato invece non farebbero parte dell’attuale patrimonio del Luce.
RAIMONDO FRANCHETTI ESPLORÒ la Dancalia da Assab a Mai Ceu. Partì da Assab alla volta di Gaharrè il 22 ottobre del 1928. Erano 90 ascari e 12 italiani. Tra questi gli ingegneri minerari Silvio Gilardi e Candido Maglione. Il primario dell’ospedale di Treviso Amedeo Moscatelli. Il geodeta Piero Veratti, dell’Istituto Geografico Militare. Il naturalista Saverio Patrizi. Il capo radiotelegrafista della Regia Marina Francesco Badolato. L’operatore dell’Istituto Luce Mario Craveri; Lo specialista della Società Montecatini Ettore Nannoni, capo della carovana Erminio De Filippi; cui si aggiungeva Alberto Pollera e il conte Riccardo Rocca, di Venezia. Ma chi era Raimondo Franchetti?
La famiglia Franchetti di origini ebraiche sin dal-l’800 aveva accumulato enormi fortune grazie alle attività mercantili in Africa nei Balcani e nel medio Oriente. I profitti vennero reinvestiti non nel commercio come era usuale nelle altre ricche famiglie ebraiche dell'epoca, ma nell'affitto di proprietà terriere. Raimondo Franchetti senior era uno stakanovista, aveva numerose aziende ed era uno degli uomini più ricchi d'Italia, qualsiasi cosa decidesse di fare, lo faceva con un suo stile personale. Sposò Luisa Sarah Rothschild, figlia di Amsed, capo del ramo viennese della prestigiosa famiglia di finanzieri ebrei. Ebbero 3 figli Alberto, Edoardo e Giorgio Gioacchino. Il primogenito, Alberto, intraprese la carriera di compositore; studiò in Germania e a 28 anni si impose alla critica con un'opera lirica Asrael. Sposò la contessina Margherita Levi, anche lei ebrea, figlia del conte Arnoldo Levi, imprenditore agrario. Il matrimonio ben visto dai rispettivi suoceri, non si rivelò un esempio di equilibrio e fedeltà. Alberto e Margherita ebbero 3 figli: Raimondo, il futuro esploratore, Guido e Maria. Il giovane Raimondo, dopo aver acquistato una macchina fotografica, nel 1907 salpò per New York, dopo visitò le Montagne Rocciose del Canada, e tornò in Italia per il servizio militare. Non avendo un titolo di studi non poteva ambire al grado di ufficiale, comunque scelse la cavalleria, arma che aveva tra le sue file la migliore nobiltà italiana, e venne arruolato nei lancieri. Raimondo si stabilì a Venezia continuando però a viaggiare. In Kenya conobbe Amedeo di Savoia Aosta con cui strinse una fraterna amicizia. Durante l'estate, tra i tendoni del lido, i due si fecero notare dalle ragazze della nobiltà veneziana. In questo periodo spensierato incontrò Bianca Mocenigo Rocca, la cui famiglia di origini ebraiche si era convertita al cattolicesimo. Raimondo la sposò nel 1921 e si convertì pure lui, e dopo lo zio Giorgio, fu il secondo Franchetti a non rispettava la tradizione familiare. Bianca lo seguirà in molti viaggi, insieme visiteranno l’Egitto e risalirono il Nilo. Si disse che Bianca lo seguisse anche per gelosia da quando lo aveva sorpreso nelle braccia di una giovane principessa africana. Bianca aveva scacciato la giovane con violenza, e l’africana disse al padre, uno stregone, di scagliare per vendetta una maledizione sul barone, e le successive generazioni. Questa leggenda è stata avvalorata dalla morte prematura di Raimondo e dagli inaspettati lutti di alcuni dei suoi nipoti.
Non ultimi oggi, Clemente Franchetti, autoreclusosi negli Stati Uniti dopo un tumultuoso addio all'Italia, ripudiando il suo cognome, e i tre cugini Gaetani Lovatelli, figli di Lorian Franchetti morti giovani, e di Afdera protagonista di vicende legate alla droga; invece il pittore Cy Twombly, marito di Tatiana Franchetti, è inspiegabilmente sepolto dentro la Chiesa Nuova a Roma. Lo stesso Raimondo Franchetti morirà in maniera inspiegabile su un aereo militare nel 1935 insieme al ministro dei Lavori pubblici Luigi Razza. L'aereo si schianta uccidendo un ministro insieme a uno esploratore che, dai più è sempre stato considerato una spia di Mussolini.
l’Unità 23.11.13
Cosa resta della sinistra
Hofer e Ragazzi raccontano la confusione sotto il cielo «rosso»
Alla ricerca di cosa vuol dire oggi essere «compagni» e sul senso di parole come libertà e giustizia
Un nuovo affresco dell’Italia dagli autori di cronache sui Dico o sulla fuga dei cervelli all’estero
di Gabriella Gallozzi
TUTTI LA CERCANO, TANTI LA INVOCANO, NESSUNO SA PIÙ COSA SIA. TANTOMENO IL PD. What is Left? Forse, alla fine, è giusto una promessa. Una promessa di giustizia, di libertà, di uguaglianza, di dignità. Anzi di «liberté, égalité, fraternité e diversité», per non dimenticare le istanze Lgbtq e tutte le battaglie per i diritti civili, come ci ricorda l’orecchiabile canzoncina della sigla.
Certo non avrebbero potuto trovare un tema più arduo Gustav Hofer e Luca Ragazzi nel loro nuovo racconto dell’Italia in movimento. Dopo la puntuale cronaca dello sfortunato iter legislativo dei Dico (Improvvisamente l’inverno scorso) e l’on the road nel paese che fa fuggire i suoi «cervelli» migliori (Italy Love it or Leave It), i due giovani autori fanno di nuovo centro, sfornando un divertente e ironico affresco della confusione che regna sovrana sotto il cielo della sinistra: What is Left?, appunto.
Non una Cosa morettiana alla quale, comunque rendono omaggio e del resto sarà proprio Nanni Moretti a tenerli a battesimo nel suo Nuovo Sacher il primo dicembre. Ma un viaggio puntato ancora una volta sulla cronaca che Gustav e Luca da giornalisti conoscono bene. E bene sanno raccontare, secondo la formula ormai rodata dell’intreccio tra storia personale, repertorio ed interviste. A cui stavolta si aggiunge pure un gioco a quiz, What is Left?, condotto da una biondissima «cosacca»” (brava Antonella Arseni, giornalista altoatesina!) pronta ad inchiodare Gustav e Luca nelle loro «contraddizioni»: pagare o no i contributi alla colf filippina, assegnare o no le case popolari ai rom che per scelta si definiscono senza fissa dimora. Eccoli i due ripartire dal soggiorno del loro appartamento dove Gustav si commuove ad ascoltare il discorso d’ insediamento di Obama. Precisazione d’obbligo: i nostri sono entrambi elettori di sinistra. Luca, romano, quarantenne è uno di quelli che hanno «avuto la fortuna di avere genitori comunisti», cresciuto alle Feste de l’Unità e a suon di Inti-illimani. Gustav, trentasettenne, altoatesino ha avuto il suo battesimo politico nell’ambientalismo di Alexander Langer, ha studiato a Vienna e Londra e lavora per la franco-tedesca Arte. L’europeismo, dunque, lo pratica.
Ricordi, racconti, foto di famiglia si intrecciano ai più recenti accadimenti politici: le elezioni di febbraio 2013, l’attesa del cambiamento, la fine di Berlusconi soprattutto e, invece, ad urne chiuse, la sconfitta del Pd, nonostante la vittoria, i grillini primo partito e il governo con Berlusconi. «Uno choc culturale!» Basta entrare nei «circoli» Pd per vederlo. Madri che confessano il dramma di figli che hanno votato Grillo, storici militanti che dopo quarant’anni mollano sconcertati. Mentre nelle piazze grilline i più accaniti fan del comico genovese archiviano «destra» e «sinistra» come reperti del passato e dicono di «andare oltre».
È la fine? No, non si scoraggiano Gustav e Luca, anzi tentano di vedere cosa c’è nel «nuovo». Tra questa onda di giovanissimi parlamentari arrivati in massa, a seguito delle primarie nel Pd e Sel, oltre che ai 5 stelle, ovviamente. Enzo Lattuca, 25enne pidiellino che evoca la lezione di Don Milani e l’esplosione del «vaso di Pandora» a seguito dell’uscita di scena di Bersani. Celeste Cosentino, 30enne di Sel, convinta che «gli immigrati, i temi legati alle donne, la violenza e il carcere, siano le priorità della sinistra». E poi il grillino, Alessandro Di Battista, che ha seguito le lotte per la terra dei contadini in Latinoamerica ma dice: «se la sinistra in Italia è quella che io ho visto negli ultimi 20 anni, io non sono di sinistra perché non hanno fatto niente». Passando poi per la «via nuova», Fabrizio Barca e la via «vecchia», Stefano Rodotà che ci gira la domanda: «I principi di libertà, uguaglianza, solidarietà, dignità possiamo ritenere che appartengano al passato?».
Almeno le parole chiave, insomma, a poco a poco escono fuori. Anche se qualcuno potrà rimanere deluso dall’analisi politica non certo marxiana, ma volutamente e godibilmente «postmoderna». Sul finale è la sinistra in persona a rivelarsi: la voce narrante di tutto il film, Lucia Mascino. Ci confessa di essere sempre stata tra noi, ma di non essersi mostrata perché «malconcia». Appena sarà nuovamente presentabile – assicura tornerà «e allora mi riconoscerete... No, non è una minaccia. È una promessa!»
l’Unità 23.11.13
Alle Scuderie del Quirinale: Augusto. La vera storia
Un elegante, discutibile, bugiardo elenco delle imprese dell’imperatore
Non era un buon combattente e per di più era di fragile costituzione fisica
«Res gestae divi Augusti» è un’iscrizione piegata alle esigenze politiche contrastante con la realtà dei fatti
Il testo comincia con quello che può essere definito un «colpo di Stato»
Insuperabile uomo politico e abile mistificatore, ma era fuggito davanti a Bruto
di Luca Canali
È DAVVERO UN PECCATO CHE SIANO ANDATE PERDUTE LE MEMORIE DI SILLA, IL GRANDE E SPIETATO CONDOTTIERO ARISTOCRATICO CHE SI OPPOSE con successo all’altrettanto grande e spietato condottiero «popolare» Caio Mario che respinse i Cimbri e Teutoni e fondò l’esercito professionale romano. Ma anche quelle di Lutazio Càtulo, potente generale e fine intellettuale intorno al quale si formò un gruppo di scrittori definibili come preneoterici, cioè anticipatori del gruppo dei neòteroi (poetae novi) di cui Catullo fu il più originale e brillante esponente.
Per fortuna ci restano, oltre ai Commentarii di Cesare (De bello gallico, civile, e l’intero corpus caesarianum), anche la splendida e lunghissima iscrizione Res gestae divi Augusti, un elegante anche se discutibile e talvolta bugiardo elenco delle imprese di Ottaviano Augusto imperatore, assolutamente spregiudicate nel dar conto del suo operato: un testo piegato alle esigenze politiche contrastanti, a volte sfacciatamente, con la realtà dei fatti; ma tutto ciò fatto con mirabile sinteticità e assoluta eleganza «attica» e «analogista», di evidente derivazione cesariana. La storia narrata in tale iscrizione, comincia con la descrizione di quello che potremmo definire un vero e proprio «colpo di stato».
Di essa fatta incidere nel bronzo davanti all’Ara pacis augustae e in alcune importanti città dell’impero, Apollonia, Ankara e Antiochia, leggiamo l'inizio.
Annos undeviginti natus exercitum privato consilio et privata impensa comparavi, per quem rem publicam a dominatione factionis oppressam in libertatem vindicavi: «All’età di diciannove anni, con decisione personale e spesa personale, arruolai un esercito, per cui mezzo restituii a libertà la repubblica oppressa dalla dominazione d’una fazione».
Questa fazione, secondo ciò che pensava Ottaviano, era quasi certamente il gruppo guidato da Marco Antonio, capo del partito dei populares. Ma Antonio era un fervente cesariano, e anche magister equitum «capo della cavalleria», combattente indomabile, anche se uomo vizioso, frequentatore di bettole, prostitute e giocolieri di strada. E allora? Ma contro Antonio, il puer (così Cicerone designava quell’intraprendente e quasi ancora adolescente erede di Cesare), aspirava illegalmente alla «successione», e al supremo potere. Ma nella costituzione dello Stato romano non si poteva «succedere» per diritto di adozione. Ottaviano lo sapeva e quindi compì coscientemente, appunto, un colpo di stato. Riuscì arbitrariamente a farsi eleggere (a venti anni!) senatore proprio dall’ordine dei senatori; ottenne inoltre un comando militare (imperium) accanto ai consoli Irzio e Pausa; ottenne anche la propretura, poi partì con il suo esercito «personale» accanto a quello regolare guidato dai due consoli. Egli va così, pur essendo pronipote di Cesare e suo figlio adottivo, alla guerra di Modena dove Antonio combatte per subentrare a Decimo Bruto (uno degli uccisori di Cesare!) nel governatorato della Gallia Cisalpina. Dunque Ottaviano, con la sua spregiudicatezza, si schiera contro il cesariano Antonio, per difendere Decimo Bruto, che addirittura aveva partecipato al massacro di Cesare! Antonio è sconfitto. Ma i due consoli, Irzio e Pausa, muoiono in battaglia. E Ottaviano, tornato a Roma si fa eleggere console insieme ad un arrendevole collega, Q. Pedio; per ottenere ciò aveva mandato un reparto di suoi agguerriti soldati a imporre al Senato la propria elezione.
C’è poi una «correzione» nel piano di Ottaviano. Si rappacifica con Antonio, e con Lepido, forma così il secondo triunvirato. I nuovi triunviri dichiarano feroci proscrizioni, durante le quali viene ucciso Cicerone, uomo ormai di centro – destra, per aver egli ingiuriato (nella II filippica) Fulvia, moglie di Antonio.
Intanto gli uccisori di Cesare, minacciati dalla folla e dai veterani di Cesare, fuggono in Grecia dove arruolano anche loro un esercito, guidato da Bruto e Cassio. Ottaviano e Antonio partono a inseguirli, dopo averli accusati di star preparando un attacco al governo di Roma. E a Roma, contro di essi, certamente dietro pressioni di Ottaviano, viene dichiarato lo stato di emergenza con la formula del cosiddetto senatus consultus ultimus: Videant consules ne res publica quid detrimentum capiat («Si adoperino i consoli affinchè la Repubblica non subisca alcun danno»).
Vi furono violenti scontri presso Filippi: Ottaviano contro Bruto, Antonio contro Cassio. Ottaviano perde e si mette in salvo fuggendo. Antonio invece vince contro Cassio, poi vince anche contro Bruto. Questa è la storia; ma Ottaviano, al termine del secondo capitolo delle sue Res gestae scrive: (Bruto e Cassio) bellum inferentes rei publicae vici bis acie. «Poiché Bruto e Cassio intendevano far guerra allo Stato, li vinsi due volte in campo aperto». Una menzogna. Egli non era un buon combattente, e per di più era di fragile costituzione fisica. E come si è detto, era fuggito davanti a Bruto; era Antonio che aveva battuto prima Bruto, poi Cassio «in campo aperto».
Ottaviano ha così dimostrato quello che è: un mediocre combattente, anche se un insuperabile uomo politico, e un abile mistificatore.
La situazione si ripeterà ad Azio (nel combattimento terra – mare contro Antonio e Cleopatra). La flotta egiziana sarà messa in fuga da Agrippa, il fedele amico di Ottaviano, che durante la battaglia giace ammalato nella sua cuccetta su un’agile nave liburnica.
Certo, le Res gestae non potevano dilungarsi in dettagli, forse ritenuti secondari, ma nello stesso tempo non avrebbero dovuto essere menzognere, come in realtà sono almeno in parte.
Riprendendo a leggere questa bellissima ma inattendibile iscrizione, troviamo una diversa e falsa versione dello svolgimento dei fatti prima di Filippi: Qui parentem meum trucidaverunt, eos in exilium expuli iudiciis legitimis ultus eorum facinus: «quelli che trucidarono il mio padre adottivo, li cacciai in esilio vendicandomi del loro crimine». In realtà Bruto e Cassio erano fuggiti e non erano mai stati mandati in esilio.
La battaglia di Filippi era stata in realtà una serie di scontri che si erano conclusi nel modo contraddittorio che si è detto.
Subito dopo il suicidio di Antonio e Cleopatra, sconfitti ad Azio dalla flotta leggera guidata da Agrippa, fu la straordinaria capacità politica di Ottaviano, insieme alla sua abilità manovriera, a determinare la progressiva concentrazione delle magistrature tradizionali, dal consolato alla pretura, alla tribunicia potestas, al proconsolato infinitus magnus per il governo di tutte le provinciae, il pontificatus magnus, tutte sulla propria persona, insieme al comando di circa cinquanta legioni (da lui stesso ridotte poi a venticinque). In tal modo egli potè essere considerato e proclamato (nel 37 a.C.) Augusto, come creatore con l’aiuto dei figli di sua moglie Livia, Tiberio e Druso, ottimi generali in terra germanica del sempre più vasto impero romano, al vertice del quale la sua indiscutibile abilità, alla testa d’una vasta ed esperta burocrazia, egli costituì la sua ormai indiscussa auctoritas di princeps, puritano nell’indirizzo della sua riforma morale delle classi e dello Stato, pur continuando, in privato, ad esercitare il proprio commaturato libertinaggio, trasmesso purtroppo alla figlia Giulia maggiore, e alla nipote Giulia minore. Ma infine anche lui, l’intoccabile Augusto, tra profondi dispiaceri cui dovette aggiungere l’esilio delle due Giulie per la loro scostumatezza, la morte precocissima dei due nipoti Gaio e Giulio, seguita da quella dell’amatissimo e prezioso amico Agrippa, oltre che del secondo figliastro Druso, ma forse soprattutto, la terribile sconfitta di Teutoburgo che gli distrusse tre legioni rendendolo quasi folle, incontrò la morte settantasettenne, nell’agosto del 14 d.C. quasi recitando questa sua penultima battuta: Se ho ben recitato il mimo della vita, applaudite. E l’ultima battuta rivolta alla moglie Livia, collaboratrice e forse complice in molte sue discutibili iniziative, e persino di qualche segreto crimine all’interno del Palazzo: «Livia ricorda la nostra vita in comune e il nostro affetto».
Corriere 23.11.13
Gli adolescenti e il sesso vissuto solo come collaudo di sé
Il bisogno di sperimentare il potere della nuova corporeità
di Gustavo Pietropolli Charmet
A nessun’altra età si subisce un cambiamento di tale portata come durante la pubertà e nel periodo successivo. L’adolescente per mesi e anni è costretto a pensare il corpo, a visitarlo, imparare a usarlo e imporgli un significato etico, relazionale e sociale. A conclusione del viaggio nel corpo, l’adolescente entra in possesso di un’immagine mentale della propria corporeità sulla quale appoggiare i valori dell’identità di genere e la definizione del proprio orientamento sessuale.
I giovanissimi maschi debbono imparare a conoscere e usare un corpo abbastanza facile da esplorare. Perciò il loro interesse si dedica a sviluppare la forza delle masse muscolari, la resistenza, la mira, e al confronto con i coetanei. Le «prove di collaudo» del corpo vengono affrontate con qualche preoccupazione, ma generalmente vengono superate con discreta soddisfazione.
Per le adolescenti femmine il viaggio esplorativo nel nuovo corpo è molto più complicato poiché si tratta di esplorare simbolicamente le cavità generative e sessuali e appropriarsi del mistero della maternità e del piacere. È una grande impresa riuscire a capire tutto e a integrare femminilità nascente, futura maternità e realizzazione sociale.
La complessità dell’impresa può comportare insuccessi ricchi di pericolose conseguenze.
Più frequentemente, le ragazze possono rischiare di sentirsi prive di fascino e vivere l’incubo di essere indesiderabili, destinate a una «squallida invisibilità».
Il nuovo corpo è uno strumento efficace per competere nel mercato degli sguardi e dei desideri? Ciò fa sì che frequentemente il vero debutto non consista tanto nel rapporto sessuale, ma nella verifica di quanto si riesca a essere desiderata. È il numero dei «mi piace» su Facebook che sfata la profezia dell’invisibilità e dell’esclusione. Desiderata da tanti, da tutti, al solo apparire nel campo visivo dei coetanei; è questa estatica esperienza di eccitamento collettivo e di addensamento degli sguardi sul corpo ciò che rischia di sancire la nascita della propria femminilità.
È il potere del corpo che accresce l’autostima nella società del narcisismo, ma per verificarlo è necessario capire quale sia la migliore presentazione. Nella realtà virtuale viene «postata» e proposta l’immagine più efficace, ma è facile imbrogliare ed esporre un avatar solo somigliante al corpo che lo ha generato. Il numero di faccine sorridenti decide.
Nella realtà concreta la verifica del proprio potere seduttivo comporta invece qualche rischio e una certa fatica. I rischi derivano dall’evenienza di spingersi ben oltre la barriera del pudore e di superare il limite oltre il quale la danza dei sette veli può essere interpretata non come una esibizione artistica ma come un preliminare erotico. La fatica consiste nella rincorsa verso la conquista di una visibilità da «velina», inseguendo nel labirinto della società dell’immagine un riconoscimento del proprio potere che stenta ad avverarsi e lascia numerose vittime nel campo dei casting e dei costosi portfoli.
Gli adulti, genitori ed educatori, dovrebbero provvedere alla elaborazione di una rinnovata educazione sentimentale che tenga presenti i rischi attuali e lasci perdere i miti e le leggende dell’amore romantico, per dedicarsi con intelligenza e competenza reale a garantire alle adolescenti attuali un sostegno nella lunga fatica e nelle peripezie rischiose dedicate a verificare il potere della nuova corporeità.
Non sarà facile mitigare agli occhi delle adolescenti il potere dei miti sociali condivisi che glorificano il potere della bellezza e lasciare povere e trasparenti le aspiranti veline, condannate a danzare sul cubo della discoteca, col rischio di vanificare le lotte delle loro mamme e zie per fondare una nuova femminilità che attinga il potere dalle capacità della mente di sedurre e farsi desiderare come compagne nell’amore e nella vita. Le nuove adolescenti lo sanno che esiste una bellezza autentica, ma a volte hanno bisogno di collaudare, in nome delle pari opportunità, il potere sui coetanei regalato dalla nuova corporeità.