sabato 24 maggio 2008

La Stampa Tuttolibri 24.5.08
Heil Hitler. Il braccio dei delitti
di Giorgio Boatti


Insegnanti che per evitare di sottoporsi all'umiliante rituale dell'«Heil Hitler» - da scandire davanti agli alunni con voce tonante e con la destra alzata all'altezza degli occhi - nella Germania nazista avevano escogitato lo stratagemma di entrare in classe, ogni mattina, con entrambe le mani occupate a reggere una catasta di volumi scelti tra i più ingombranti. La trovata, tuttavia, non poteva reggere più di tanto davanti alle precise disposizioni di legge che, già a pochi mesi dalla salita al potere di Hitler, avevano imposto il nuovo saluto, punendo coloro che cercavano di sottrarvisi.
Come spiega Tilman Alert nel breve ma prezioso saggio Heil Hitler. Storia di un saluto infausto pubblicato da il Mulino (pp. 98, e 10), la portata devastante con cui l'imposizione del saluto hitleriano si abbatte sulla società tedesca, spazzando via radicate consuetudini e secolari stratificazioni culturali, va ben al di là delle severe sanzioni che colpivano chi non ottemperava al nuovo gesto di saluto.
Già l'esenzione dall'obbligo dell'«Heil Hitler» per gli ebrei e i non ariani dimostrava come il gesto costituisse un elemento fondamentale del patto di sangue, quasi un rito religioso rinnovato a ogni incontro con ossessiva metodicità, con cui si voleva stringere la comunità tedesca attorno al suo capo. Un saluto che, nel giro di pochi mesi, si era trasformato in un elemento simbolico di estrema potenza, alla stregua della onnipresente svastica recuperata da un arcaico e variegato giacimento simbolico, come va a spiegare Man Woman, esponente della controcultura artistica americana degli anni Sessanta, nel libretto, ricco di numerosi rimandi iconografici, Hitler non ha inventato la svastica (Coniglio editore, pp. 122, e 16,50, con un'introduzione di Giorgio Galli.
La scommessa di Man Woman di «ripulire » la svastica dall'uso fattone dai nazisti, gli si impone durante uno dei suoi «viaggi» iniziatici, compiuti in una dimensione tra l'onirico e lo psichedelico. Convinto della forza primordiale positiva di questo simbolo, asservito dalla propaganda hitleriana a vessillo mortifero e prevaricatore, l'artista americano non solo rivisita tutte le forme con cui questo simbolo si presenta nelle civiltà premoderne ma ne scopre l'innocente impiego prima che la «svastica fosse impregnata dai peccati del nazismo».
UN CIONDOLO DELLA COCA-COLA Nel denso repertorio di immagini che vanno a corredare la sua ricerca spuntano fuori sorprendenti reperti quali ad esempio gioielli vittoriani, posaterie e rubinetterie della Belle époque nonché borsette di fine ottocento: il tutto artisticamente decorato con l'impiego della svastica. A inizio Novecento «Swastica» è anche la denominazione, con annesso simbolo, di un marchio di successo di frutta californiana conservata in scatola, un prodotto ritenuto fortemente energetico. E ancora ai primi degli anni Venti la Coca-Cola offre ai consumatori un ciondolo dove il marchio della bevanda è inserito all'interno del motivo della svastica. Sempre all'inizio del secolo scorso la principale azienda elettrica milanese, la Società Italiana Elettricità ASEA, sceglie come marchio della propria attività la svastica.
Utilizzazioni del tutto dimenticate quando il simbolo viene poi adottato dal nazismo. Ma l'imposizione del saluto hitleriano ha un impatto ben più poderoso e incisivo, rispetto alla svastica, nel dettare modelli.
Il saggio di Alert su Heil Hitler, fondamentale per comprendere i brutali e tuttavia raffinati sistemi di condizionamento e controllo sociale impiegati dal nazismo, consente altresì di buttare uno sguardo più ampio su tutti i gesti che costituiscono l'intelaiatura fondativa della nostra socialità quotidiana.
Il saluto, tra tutti i gesti con cui ci rapportiamo agli altri, è senza dubbio uno dei più rilevanti, proprio perché, come ha scritto Ortega y Gasset nel suo L'uomo e la gente, rappresenta «l'uso degli usi, la parola d'ordine, il segnale della tribù». La funzione del saluto dà forma a ciò che comincia tra due esseri che si incontrano e, al tempo stesso, attraverso l'impiego di un comportamento codificato da pratiche sociali che vanno ben indietro nel tempo, stabilisce le regole del gioco della comunicazione che sta prendendo l'avvio.
Gli esponenti nazisti sottolineano più volte l'originalità del loro saluto rispetto a quello romano introdotto da Mussolini e, nel diverso impatto, sulle rispettive società, che assumono questi due diversi rituali, corrono gli elementi di una differenziazione, prodotta non solo dall'immediatezza delle vicende politiche ma da una storia di più lunga durata, su cui, prima o poi, ci si dovrà soffermare. gboatti@venus.it

l’Unità 24.5.08
Il caso Alemanno-Almirante
Ricordate chi era Almirante
Ordinava di fucilare i partigiani. Razzista e fascista: Roma non può dargli una via
di Vincenzo Vasile


E così, ci toccherà in un domani darci appuntamento in via Giorgio Almirante? L’intenzione di intitolargli una strada l’ha annunciata, forse per sondare il terreno, il neosindaco di Roma, Alemanno. E vuoi vedere che tra un po’ qualcuno non salterà su a dire che in fondo, dopo tanti anni, sono superati e ormai morti i vecchi schemi ideologici.

In tempi così pieni di smemoratezza non sarà male, perciò, sfogliare qualche pagina della biografia di un leader neofascista che conquistò - in verità solo sul finire della sua vita, conclusasi nel 1988 - un'immeritata fama di "equilibrio" e di capacità dialogante, dopo avere impersonato non solo durante il ventennio fascista, ma anche nel dopoguerra, la più squallida vena razzista e le pulsioni più inquietanti della destra italiana.
C'è chi segnala, in questo curriculum un particolare non di dettaglio: Almirante veniva da una famiglia di uomini di spettacolo; il padre era stato direttore di scena e regista di Eleonora Duse, gli zii erano noti attori: tra loro quell'Ernesto Almirante che negli anni 50 fece la parte del vecchio bersagliere rincoglionito che saltava fuori in mutandoni suonando la carica con la trombetta in diverse sequenze un vecchio film di Totò e Gino Cervi ("Il coraggio"). E forse da quella vena familiare veniva al più giovane nipote una certa vocazione trasformista, retorica, ambigua e populista che gli consentì di traghettare il fascismo sovversivo, anticapitalista e antiborghese di Salò nelle istituzioni parlamentari e repubblicane. E che lo portò, dopo diversi travagli interni all'Msi, fino all'obiettivo di espandersi fino al massimo storico (il 9 per cento di media nazionale nel 1972, con punte a due cifre in Sicilia), parlando alla pancia di un elettorato per la prima volta dal 1948 in libera uscita dall'interclassismo della Dc, con lo slogan della difesa della terra, della casa e della proprietà.
Sotto al doppiopetto e dietro alla retorica rigonfia che affascinò tanta piccola borghesia dei primi anni Settanta erano celati i vecchi e lugubri "labari" del fascismo più nero e militante. Destinato all'insegnamento nelle scuole medie, Almirante aveva pontificato sin dall'indomani delle leggi antiebraiche sulla rivista "La difesa della razza" di Telesio Interlandi (altro personaggio come lui di origini siciliane, interprete delle più fosche spinte del regime) che "l'Italia non ha ancora avuto la sua scuola". E che essa avrebbe dovuto da allora in poi forgiare gli italiani secondo la seguente, delirante, dottrina: "Il razzismo è il più vasto e coraggioso riconoscimento di sé che l'Italia abbia mai tentato. Chi teme, ancor oggi, che si tratti di un'imitazione straniera (e i giovani non mancano nelle file di questi timorosi) non si accorge di ragionare per assurdo: perché è veramente assurdo sospettare che un movimento inteso a dare agli italiani una coscienza di razza posa condurre a un asservimento alle ideologie straniere". Tutto nasce invece da quell'"insuperabile e spesso drammatico contrasto tra romanità - vera romanità e non quella annacquata della pseudo-cultura internazionalista - e giudaismo. Il che dimostra ancora una volta che in fatto di razzismo e di antigiudaismo gli italiani non hanno avuto, né avranno bisogno di andare a scuola da chicchessia".
Negli anni della "maturità", più che rinnegare, l'interessato avrebbe minimizzato la sua attività di "segretario di redazione" e uomo-macchina della rivista di Interlandi, e la sua personale opera di decretazione delle rinnovate norme razziali della Repubblica di Salò. Leggi che furono condensate nella circolare esplicativa da lui stesso firmata, non appena il giovane tenente della Guardia Nazionale repubblicana passò dall'ufficio per 007 delle "intercettazioni" cui era stato originariamente destinato, a quello di capo di gabinetto del Minculpop repubblichino (succeduto nell'incarico a Gilberto Bernabei, poi divenuto segretario particolare di Andreotti a palazzo Chigi). Con il compito di propagandare alla radio la bontà delle nuove norme che consentivano di condurre a termine la persecuzione antiebraica con arresti, deportazioni ed espropri: bisognava, sui mezzi di informazione della triste repubblichetta mussoliniana, "rilevare che le nuove leggi"costituivano non la cancellazione ma l'aggiornamento delle norme del 1938 "in base alle esperienze acquisite, e alle nuove necessità determinate dalla situazione in cui la guerra, il tradimento e la ricostruzione hanno messo e mettono il paese".
Lui, Almirante, intanto, faceva la spola - anche per "missioni segrete" - tra il "duro" ministro Mezzasoma e Mussolini. Nelle disposizioni razziali a sua firma si tessevano elogi dell' accanimento contro i "meticci" e i matrimoni misti, e si aggiungevano accurate precisazioni sul tasso di "arianesimo" da garantire per rendere efficace la selezione dei perseguitati. Più tardi, Almirante avrebbe falsamente sostenuto di avere lasciato in un cassetto del ministero le norme "antigiudaiche" (richieste, a suo dire, dai tedeschi), in uno scritto sprezzantemente intitolato "autobiografia di un fucilatore".
La polemica di quel titolo era proprio rivolta all'Unità, che nel 1968 aveva pubblicato il testo di un manifesto firmato dal "capo di gabinetto" Almirante, che intimava; "Alle ore 24 del 25 Maggio scade il termine stabilito per la presentazione ai posti militari e di Polizia Italiani e Tedeschi, degli sbandati ed appartenenti a bande. (…) Tutti coloro che non si saranno presentati saranno considerati fuori legge e passati per le armi mediante fucilazione nella schiena. Vi preghiamo curare immediatamente affinché testo venga affisso in tutti i Comuni vostra Provincia". Sulla base di questo editto 83 "sbandati" furono fucilati in Maremma. E questa terribile eredità, assieme alla militanza di Almirante almeno fino al 25 aprile nelle Brigate nere impegnate nei massacri di partigiani in Valdossola con il grado di tenente, macchiò per anni e anni l'immagine pubblica del più duraturo e forte dirigente del Movimento sociale, che un Tribunale clamorosamente per di più sbugiardò riguardo all'editto contro gli "sbandati", assolvendo il nostro giornale dall'accusa di diffamazione.
L'Msi l'aveva fondato proprio lui, Giorgio Almirante, assieme a una combriccola di reduci della Rsi, nel 1946, e questa "istituzionalizzazione" delle nostalgie più o meno eversive per il regime fascista e per Salò, concordata con la Dc e il Vaticano, di solito gli viene ascritta a merito. Ma pochi sanno che pochi mesi prima lo stesso Almirante e altri futuri protagonisti della storia dell'Msi avevano creato, tanto per non legarsi le mani, anche un'organizzazione clandestina, detta Fronte armato rivoluzionario - Far - protagonista di numerosi attentati e sabotaggi, che convisse fino al 1952 in un rapporto altalenante ma quasi ininterrotto con l'Msi, e diede anche vita a un Esercito Clandestino Anticomunista, ramificato in varie parti del paese.
Bombe carta, attentati, blitz contro cortei di lavoratori: la storia dei Far negli anni seguenti avrebbe avuto la sua diretta filiazione in Ordine Nuovo e Avanguardia nazionale, le due organizzazioni clandestine, protagoniste della strategia della tensione e delle stragi. Fate attenzione a certi album di famiglia. Tra i fondatori del Far, c'era un'altra allora "giovane speranza" dell'eversione nera: Giuseppe Umberto Rauti, per gli amici "Pino". Che è il suocero del sindaco di Roma che vorrebbe oggi dedicare una strada ad Almirante; e fu per lunghi anni il fratello-coltello del defunto leader in diversi dissidi e molteplici scissioni e riappacificazioni della tumultuosa storia - forse ancora da scrivere - del Movimento sociale.

La coscienza di razza e i buoni cattolici
Ottobre 1938:
«Il razzismo è il più vasto e coraggioso riconoscimento di sé che l’Italia abbia mai tentato. Chi teme che si tratti di un’imitazione straniera non si accorge di ragionare per assurdo: perché è veramente assurdo sospettare che il movimento inteso a dare agli italiani una coscienza di razza… possa servire ad un asservimento ad una potenza straniera»
(La difesa della razza, I,n.6,1938)
1942 «Noi vogliamo essere, e ci vantiamo di essere, cattolici e buoni cattolici. Ma la nostra intransigenza non tollera confusioni di sorta (…) Nel nostro operare di italiani, di cittadini, di combattenti – nel nostro credere, obbedire, combattere – noi siamo esclusivamente e gelosamente fascisti. Esclusivamente e gelosamente fascisti noi siamo nella teoria e nella pratica del razzismo» (La difesa della razza, V,n.13, 1942)
La sconfessione «Ho superato la mia adesione al movimento razzista per ragioni umane e concettuali, per uno di quei superamenti di coscienza ai quali bisogna pur pervenire se si vive con piena onestà la propria fede e la propria dottrina».

l’Unità 24.5.08
Bocca: «È la fine della nostra storia, se dici che sei antifascista ti ridono in faccia»
Giorgio Bocca: «Roba da pazzi. Ma non mi stupisco più di nulla ormai, perché i fascisti oggi sono al governo»
di Rinaldo Gianola


«Roba da pazzi. Il sindaco Alemanno vuole dedicare una strada ad Almirante, uno che fucilava i partigiani. Anzi no, mi sbaglio: non sono matti. È una provocazione, la provocazione di chi si sente vincitore e può fare quello che vuole». Giorgio Bocca, partigiano e giornalista, è uno dei pochi intellettuali in giro che si oppone alla revisione fai-da-te della storia e che, nonostante l’aria che tira, ha ancora il coraggio di difendere la Resistenza, la Costituzione repubblicana basata sull’antifascismo. Purtroppo non si fa illusioni, «l’Italia e gli italiani sono così...».
Bocca, ci tocca vedere pure questa: una strada intitolata ad Almirante.
«Non c’è niente di strano. I fascisti sono al governo, hanno vinto e vogliono far vedere quello che sanno fare. L’altra sera, dopo il consiglio dei ministri a Napoli, ho letto che Berlusconi è andato a far festa con Gasparri. Capito? I fascisti si sono riciclati, adesso fanno i ministri, hanno il potere, sono tornati in forze e, come hanno detto, non si sentono più figli di un dio minore».
Ma Almirante...
«Almirante è sempre stato un fascista: un difensore della razza, un repubblichino di Salò che partecipava ai rastrellamenti di partigiani in val Sesia. Adesso lo celebrano, andiamo bene... Siamo a un’altra svolta. L’Italia è sempre la stessa: trionfano il conformismo e il trasformismo. Oggi c’è un altro cambio di stagione».
È la fine di una storia?
«Lo ha detto Fini, diventato presidente della Camera: “Con me finisce il dopoguerra”. Voleva dire che finisce anche l’antifascismo. E quindi possono dedicare le strade a chi vogliono»
Possibile che una notizia del genere non desti qualche reazione, magari una protesta della sinistra...
«La sinistra? Perchè, c’è ancora la sinistra? Ho l’impressione che pur di campare la sinistra, o quel che rimane, sia disposta a tutto. Bisogna mangiare nella greppia del potere per tirare avanti».
E l’antifascismo della Costituzione?
«Se oggi dici che sei antifascista rischi di trovare qualcuno che ti ride in faccia, i valori sono andati a farsi benedire. Ma con chi te la prendi? I fascisti sono diventati tutti filoisraeliani, parlano pure del 25 aprile come se fosse la loro festa. E tutto fila liscio, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Allora ci sta anche la strada per un fucilatore di partigiani».
Deluso?
«Molto di più. Sono appiattito, sotterrato, sono quasi morto. Dal punto di vista politico uno con la mia storia è finito. Non mi riconosco in questo paese, nei “valori” che esprime questa classe dirigente. La mia storia è scomparsa. Io sono uno di quelli che si è battuto per il ritorno dell’Italia alla democrazia, per la sconfitta della dittatura fascista, difendo la memoria della stagione partigiana che riscattò questo Paese. Ma oggi sono uno sconfitto, hanno vinto loro. Basta guardarli. Ormai si è stabilito che la democrazia è una parvenza, un’illusione. E, forse, è vero».
E quest’Italia assorbe tutto, senza mai destarsi?
«Gli italiani sono trasformisti, sempre gli stessi, stanno con chi vince. Magari una volta c’era qualche speranza, qualche principio per cui battersi. Forse anche noi partigiani ci eravamo illusi di cambiare il Paese. L’altro ieri Berlusconi ha detto alla Marcegaglia che le proposte di Confindustria sono il programma del suo governo. Ma ci rendiamo conto? Come fa il capo del governo a dire una cosa del genere? Quando mai nella nostra storia abbiamo pensato che la Confindustria fosse il Paese? E la Marcegaglia, la raccomando... Ha fatto un intervento per accusare tutti, senza un cenno autocritico, senza un rimorso su quanto sta accadendo. Questi capitalisti pensano di essere sempre nel giusto, di non aver nessun difetto».
E invece?
«Il capitalismo è sopravvissuto al comunismo, ma non è scevro di gravi difetti. È un sistema in crisi, ci sta togliendo l’acqua, l’aria per vivere. Stiamo sulla stessa barca e stiamo affondando, tutti felici in questo globalismo catastrofico. Noi italiani facciamo finta di niente, ma stiamo precipitando. E ora è comparso il segno del precizio».
Quale?
«La scelta di tornare al nucleare. Una follia. Ricadiamo nello stesso errore che avevamo evitato, per un colpo di fortuna, vent’anni fa. E il bello è che torniamo al nucleare con le stesse motivazioni di allora, “perchè ci serve”. Ci siamo dimenticati tutto. A questo punto ci meritiamo le centrali nucleari e anche la strada per Almirante».

l’Unità 24.5.08
L’immigrato come pericolo
di Luigi Manconi e Federica Resta


Sicurezza
Spetta all’opposizione farsi carico di queste istanze, non senza ripensare a fondo il contenuto e il significato della categoria di sicurezza
I cittadini non invocano forse una più concreta sicurezza di diritti?

Come ossessivamente preannunciato, il primo Consiglio dei ministri del governo di centrodestra ha affrontato il nodo della sicurezza, che è stato al centro della campagna elettorale di tutte le forze politiche, fino al punto di rendere luogo comune l’affermazione - del tutto opinabile - che «la sicurezza non è di destra né di sinistra»: quasi a sollecitare una convergenza unanime su un tema rispetto al quale nessuno intende lasciare il monopolio all’avversario.
Ed è singolare che tale esigenza di sicurezza sia avvertita come prioritaria proprio in una fase storica in cui, in Italia, si registra una netta flessione del tasso di criminalità, a dimostrazione di come la percezione di sicurezza sia influenzata da una serie complessa di fattori: dalla rappresentazione mediatica alle politiche urbanistiche e del lavoro, dalla fragilità dei legami sociali alle carenze del nostro processo penale. C'entrerà qualcosa, ad esempio, il fatto che - come rilevato dal Centro di ascolto radicale sull'informazione radiotelevisiva - la "copertura", a opera dei principali telegiornali, di fatti di cronaca nera è più che raddoppiata nell'ultimo quinquennio? In ogni caso, si tratta di un tema particolarmente complesso, suscettibile quanto altri mai di strumentalizzazione. Non a caso, i provvedimenti in materia di pubblica sicurezza sono stati, tradizionalmente, l'occasione per introdurre norme derogatorie ai principi dello stato di diritto.
E se già in età illuministica, si qualificava la prevalenza della ragion di Stato come il tratto essenziale del trattamento dei delitti contro l'ordine e la sicurezza pubblici, essa si è confermata tale anche nella storia successiva, sino ai giorni nostri. L'impatto sociale e politico di questi provvedimenti spiega quindi perché, da almeno quattro legislature, ciascun governo di ogni colore, abbia puntualmente presentato il proprio 'pacchetto sicurezza', con norme più o meno condivisibili. Fondamentale criterio di valutazione è la capacità di quelle misure di garantire insieme rigore e integrazione, provvedimenti penali e politiche sociali, prevenzione e inclusione, non riducendo dunque l'esigenza di sicurezza a mera questione criminale. In questa direzione si muoveva ad esempio il pacchetto sicurezza varato dal Governo di centrosinistra nella legislatura appena conclusasi, che affrontava il tema nella molteplicità dei suoi aspetti. Riconoscendo che le fonti di allarme sociale non sono riducibili alle migrazioni o ai c.d. quality-life crimes ma comprendono anche la criminalità dei colletti bianchi, il caporalato e la violenza in famiglia. E che meritevole di tutela non è soltanto un astratto concetto di ordine pubblico o decoro urbano, ma anche la trasparenza del mercato, il risparmio, la dignità della persona e in particolare del migrante, soprattutto se vittima di reati. Quest'idea era sottesa infatti a norme come quella estensiva del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale ai migranti vittime di violenza in famiglia, alla proposta dell'introduzione di una norma incriminatrice del caporalato, o alla riforma della disciplina del falso in bilancio, così da conferirle il rigore necessario, tanto più in seguito alla sostanziale depenalizzazione attuata dal Governo di centrodestra nel 2002. Quest'impostazione era tanto più apprezzabile in un contesto normativo, quale quello italiano, segnato dalla tendenza alla differenziazione dell'intervento penale a seconda del tipo di autore coinvolto: da un lato norme inflessibili per i reati 'di strada' o comunque più 'visibili', e dall'altro discipline indulgenti fin quasi all'impunità per i colletti bianchi. La linea politica del pacchetto sicurezza del Governo precedente era tanto più condivisibile quanto più contrapposta a un clima sociale, politico, ideologico, caratterizzato dalla semplicistica identificazione delle cause dell'insicurezza nel debole - il migrante, l'outsider sociale, il mendicante - o comunque in chi viene percepito come 'diverso', con esiti inevitabilmente discriminatori. E, dunque, risulta totalmente infondata - e maliziosamente suggerita - la presunta affinità tra le misure previste dal centrosinistra e quelle approvate ieri dal primo Consiglio dei ministri del governo di centrodestra. Le misure sembrano incentrate prevalentemente sul concetto di "comportamento antisociale" e sulla diffidenza verso i migranti, rappresentati come prima fonte di pericolo per la sicurezza collettiva.
Si introduce così non solo un'aggravante relativa allo status di migrante irregolare, ma si prospetta anche - sia pur attraverso un disegno di legge - un autonomo delitto di immigrazione clandestina, sul modello di quanto previsto (addirittura!) in materia di terrorismo e di criminalità organizzata. Ciò viola non solo il diritto fondamentale all'emigrazione - se inteso non come diritto alla fuga ma come possibilità di raggiungere una terra dove vivere con dignità - ma anche il monito della Consulta, che proprio nel 2007 ha sollecitato il legislatore a rispettare criteri di proporzionalità e ragionevolezza nella disciplina dell'immigrazione (da considerare dunque non solo dal lato 'interno', come questione di ordine pubblico, ma anche come libertà). E se il rispetto dei principi non bastasse, si consideri la dubbia efficacia delle norme proposte: il nodo dell'immigrazione irregolare non si risolve certo con l'incarcerazione di massa ma con l'incentivazione del rimpatrio volontario e con gli accordi di riammissione. Inoltre, si estende da 2 a 18 mesi la durata della detenzione (amministrativa!) dei migranti nei CPT, anche nei casi di meri ostacoli tecnici (e non di resistenza, come prevede la bozza di direttiva europea) all'identificazione. Come si può giustificare la detenzione per un anno e mezzo di chi non abbia commesso alcun reato, motivata solo da circostanze estranee al comportamento individuale, quale l'impossibilità di identificare il migrante? Ancora, non viola forse il diritto alla difesa, la preclusione della possibilità di partecipare al ricorso per coloro ai quali sia stato negato l'asilo? Ed è compatibile con il diritto comunitario, la previsione dell'allontanamento coattivo 'per motivi imperativi di pubblica sicurezza' dei cittadini UE, solo perché carenti dei mezzi di sussistenza o pericolosi per "la moralità pubblica e il buon costume"? Al di là della loro dubbia legittimità, queste norme esprimono una concezione del rapporto tra libertà e sicurezza come un gioco a somma zero, in cui la garanzia della seconda comporta inevitabilmente la violazione delle libertà e dei diritti sanciti come inviolabili dalla Costituzione, dal diritto internazionale e dal diritto comunitario. Basti pensare che, proprio in tema di libera circolazione dei cittadini comunitari, i Trattati definiscono l'area europea come "spazio comune di 'libertà, sicurezza e giustizia', coniugando dunque istanze che devono necessariamente contemperarsi e mai porsi in conflitto. Neppure quando a prevalere è la domanda di sicurezza, dotata di una forza, anche simbolica, davvero 'dominante'. Insomma il nodo da sciogliere è il seguente: fino a che punto sia possibile garantire ai cittadini la sicurezza, senza per questo limitare le libertà di tutti e i principi di giustizia su cui si basa il nostro Stato sociale di diritto.
Che è 'di diritto' perché non riconosce altra fonte del potere se non la legge, ed è sociale fintantoché afferma i bisogni reali di tutti, come diritti universali. Spetta all'opposizione, allora, farsi carico di queste istanze, non senza ripensare a fondo il contenuto e il significato della categoria di sicurezza. Siamo infatti certi che quanto invocano i cittadini sia un astratto diritto alla sicurezza, e non, invece, una più concreta sicurezza dei diritti? E, primi fra tutti, i diritti all'eguaglianza, alla dignità, e alla libertà. Ovvero i fondamenti più solidi della sicurezza individuale e collettiva.

l’Unità 24.5.08
Questione Rom. Italia come i Balcani
di Paolo Soldini


C’è un confine invisibile che taglia l’Europa. Corre, più o meno, lungo la frontiera tra la Germania e la Polonia; a nord lascia in occidente i paesi scandinavi e la Finlandia, a sud taglia fuori i Balcani. E l’Italia. Se si prendono le statistiche e i rapporti del Forum permanente Roma and Travellers (Rom e nomadi) istituito dal Consiglio d’Europa nel 1993 a Strasburgo, si scopre che il nostro paese in fatto di politiche di integrazione si trova dalla parte sbagliata di quel confine.
Dal punto di vista della legislazione l’Italia è assimilabile più alla Romania, alla Bulgaria, al Kosovo che alla Francia, alla Germania o alla Spagna. E dal punto di vista dello spirito pubblico, oggi come oggi detiene, probabilmente, il record dell’intolleranza: sono anni che in Europa non si respirava aria di pogrom come quella che è spirata (in una sconcertante indifferenza di media e autorità pubbliche) a Ponticelli qualche giorno fa.
Qualche dato. In Spagna ci sono circa 800 mila rom, più del quadruplo di quelli che vivono in Italia. Dalla fine della dittatura di Franco, i governi, di destra e di sinistra, hanno attuato politiche di integrazione abitativa che hanno fatto quasi scomparire i campi nomadi e misure di scolarizzazione e di sussidi (700 euro al mese per i disoccupati) che hanno ridotto l’emarginazione pur se i tassi di criminalità restano abbastanza alti. In Francia, chiunque abbia avuto modo di assistere al suggestivo pellegrinaggio di Sainte Mairies la Mère, in Camargue, sa quanto i 340mila manouches (una volta e mezzo i rom presenti in Italia) facciano parte di una grande tradizione popolare, rispettata e amata in tutto il paese. Una legge del 1900, aggiornata nel 2000, prevede che ogni comune con più di 5mila abitanti disponga di strutture di accoglienza, anche se i campi sono quasi scomparsi a favore di costruzioni di edilizia economica. Le rudezze di Sarkozy, quando era ministro dell Interno, hanno prodotto un certo numero di espulsioni in base alla legge del 2003, ma i rom francesi sono tra i più integrati d’Europa. In Germania i circa 130-150mila rom (poco meno di quelli presenti in Italia) godono dello status di minoranza nazionale, con tutte le misure di salvaguardia relative. Quasi tutti hanno una casa e una particolare cura viene riservata alla scolarizzazione dei bambini e alla assistenza alla loro salute. La situazione è peggiorata con l’afflusso di profughi delle guerre balcaniche e dei nomadi cacciati dagli albanesi del Kosovo, ma il giudizio del Forum di Strasburgo resta largamente positivo.
Assai diversa la situazione nei paesi centro-orientali e nei Balcani. Qualche miglioramento c’è stato, negli ultimi anni, in Ungheria, dove la presenza rom supera il 5% della popolazione, e nella Repubblica cèca, dove ancora a metà degli anni 90 si assisteva a forme di discriminazione e di vera e propria persecuzione, come la creazione di ghetti circondati da muri. La tutela dei nomadi è mediocre in Grecia e nella Tracia turca, è decisamente insufficiente in Bulgaria (dove i rom sono circa 800mila), in Serbia (più di 500mila), in Macedonia, in Croazia, in Albania, mentre il Kosovo e la Romania sono i paesi con le politiche più disastrose. Proprio la linea di durissima repressione attuata da Bucarest nei confronti dei propri rom (circa 2 milioni) è all origine dell’ondata di fuga che si è determinata da quel paese all’apertura delle frontiere dopo l’adesione alla UE. Il che, detto en passant, da un lato rende ancor più deplorevole la confusione che si continua a fare, in Italia, tra immigrati rumeni e rom provenienti (spesso cacciati) dalla Romania e dall’altro lato dimostra che la cosiddetta tolleranza zero, adottata guardando solo alla repressione e non alla integrazione, lungi dal risolvere il problema non fa altro che spostarlo altrove.
Secondo i dati del Forum di Strasburgo e i rapporti annuali sul razzismo e le intolleranze presentati dalla Commissione Ue al Parlamento europeo, i rom e i sinti presenti in Italia - 70mila con la cittadinanza italiana, 60mila provenienti dalla ex Jugoslavia più almeno altri 60-70mila arrivati dalla Romania sono quelli che vivono peggio in tutta l Europa occidentale. Nell’ultimo rilevamento, nel 2005, i campi attrezzati, autorizzati e controllati dai comuni, erano poco più di cento e vi risiedeva meno del 10% della popolazione rom, contro un numero di campi spontanei difficile da definire, ma la cui entità può essere desunta dai 500 insediamenti censiti allora soltanto tra Roma e Milano. È da presumere che oggi il numero dei campi non ufficiali si sia pressoché raddoppiato. Sulla scolarizzazione, che in Spagna, Francia, Gran Bretagna, Germania è pressoché totale, l’Italia registra un tasso di evasione che sfiora il 100% per i piccoli rom provenienti dalla Romania e un tasso di abbandono che fa sì che solo il 10% dei nomadi presenti in Italia (compresi sinti e rom con la cittadinanza italiana) arrivi alla licenza media. Per quanto riguarda la sanità, nel 2005 ventimila bambini provenienti dalla Romania non avevano ricevuto neppure le vaccinazioni più comuni, gli aborti (quasi sempre clandestini) sono molto più alti della media nazionale, così come le malattie legate alle difficili condizioni di vita: tubercolosi, disturbi respiratori, infezioni intestinali, dissenteria, denutrimento.
Considerando questa realtà, dovrebbe essere chiaro che la propensione dei rom ai comportamenti asociali che vengono loro rimproverati deriva molto più dalle difficoltà di vita e dalla mancanza di integrazione che da fattori legati alla loro cultura. Se questi ultimi ci sono, vanno attribuiti, peraltro, alle vicissitudini storiche dei rom europei, seguite alla loro forzata emigrazione dal nord dell’India e del Pakistan tra l’XI e il XIV secolo e non certo a fattori genetici o razziali. D’altronde, anche i pregiudizi popolari non hanno un carattere metastorico. La credenza che gli zingari rapiscano i bambini per farne commercio è nata nel XV secolo nello stesso modo in cui, un secolo prima, era nata la leggenda del delitto del sangue, l’accusa delle uccisioni rituali dei bimbi cristiani da parte degli ebrei. L’attitudine al piccolo furto e all’accattonaggio è il frutto di uno stato di necessità determinato dalla scomparsa dei mestieri tradizionali dei nomadi (allevatori di cavalli, maniscalchi, fabbri ambulanti, giostrai). Lo scarso livello di acculturazione fenomeno peraltro alquanto recente è prodotto, più che dal nomadismo, dall’ostracismo della scuola pubblica e della cultura ufficiale nei confronti di un popolo che aveva portato con sé un ricco patrimonio spirituale, la cui lingua deriva dal sanscrito, o forse addirittura dall’hurrita delle prime testimonianze indo-europee, e devoto a una religione complessa, legata all’ebraismo, ispirata dal culto persiano del sole e arricchita nella conversione al cristianesimo bizantino.
Le persecuzioni degli zingari, fino al Porrajmos, l’Olocausto di cui resta la testimonianza nelle baracche dello Zigeunerlage di Auschwitz, hanno molti tratti in comune con la Shoah e va dato atto agli ebrei di essere, spesso, gli unici a ricordarlo in Italia. Come esiste una continuità tra i camini dei forni crematori e l’antisemitismo di oggi, esiste una continuità tra quelle baracche, che furono svuotate in una notte di uomini, donne e bambini portati nelle camera a gas, e certi toni, certi slogan, certe politiche di oggi. Se il Comune di Roma manterrà la tradizione di portare gli alunni dei licei ad Auschwitz sarà bene che la storia dello Zigeunerlage venga loro raccontata bene.

l’Unità 24.5.08
«Così si colpisce l’umanità sofferente»
Il professor Pocar: il reato di immigrazione clandestina consegna queste persone alla criminalità
di Umberto De Giovannangeli


«SE UN CONSIGLIO mi sento di poter dare ai legislatori, è di evitare ogni generalizzazione. Non si possono trattare tutte le situazioni allo stesso modo. E quando si parla di emigrazione clandestina occorre saper distinguere tra i trafficanti di uomini, che vanno colpiti duramente, da una umanità sofferente che di questi trafficanti è vittima». A parlare è una delle massime autorità nel campo del Diritto internazionale: Fausto Pocar, presidente del Tribunale penale internazionale dell’Aja - sui crimini nella ex-Jugoslavia, docente di Diritto internazionale all’Università Statale di Milano. Pocar condivide il rischio paventato dall’ex vice premier Massimo D’Alema nell’intervista all’Unità: «In effetti - afferma il presidente del Tpi dell’Aja - introdurre il reato di immigrazione clandestina potrebbe fare dell’irregolare una facile preda per la manovalanza criminale». E sui Rom, Pocar ricorda che «molti di quelli che hanno trovato riparo in Italia fuggivano dall’inferno balcanico».
Professor Pocar, in Italia si discute e si polemizza sulle misure da prendere, anche sul piano normativo. Nel campo dell’immigrazione. Ci aiuti a ditricarci in questa complessa matassa...
«Lo straniero che una volta nel territorio italiano commette un reato, è ovvio che sia soggetto alla giurisdizione per quel reato e come conseguenza, se il reato presenta una pericolosità sociale rilevante, potrebbe essere espulso per questo. Ma ciò vale anche se fosse entrato legalmente nel territorio italiano. Altra cosa, però, è dire che uno straniero che entra irregolarmente in Italia per ciò stesso commette un reato. Vi è poi un altro aspetto della questione che andrebbe tenuto ben presente...»
Di quale aspetto si tratta?
«In molti casi gli stranieri che entrano nel nostro Paese sono vittime di trafficanti e pensano di entrare regolarmente, pagando per questo, perché gli viene detto che così è, che tutto è regolare. In un caso del genere mancherebbe il dolo, e quindi non ci sarebbe reato. E poi bisognerebbe tener conto nel definire un reato di questo tipo, delle norme internazionali sul diritto d’asilo, sulla protezione dei rifugiati, sulla tutela dei diritti dell’uomo che impegnano l’Italia a non esporre le persone alla violazione dei loro diritti fondamentali. La definizione normativa di un reato in questa materia, è una questione complessa che richiede un attento approfondimento di tutti gli aspetti».
Tra gli aspetti da valutare c’è anche quello messo in rilievo dall’ex vice premier Massimo D’Alema che in una intervista a l’Unità a paventato il rischio «criminogeno» di una norma che introduce il reato di immigrazione clandestina?
«Questo rischio esiste e va preso nella dovuta considerazione».
Professor Pocar, ma la questione dell’immigrazione può essere affrontata solo in termini di sicurezza?
«Direi che la sicurezza è solo un aspetto, sia pur importante, di una problematica ben più complessa. Questi problemi, a mio avviso, debbono essere affrontati e possono trovare una soluzione investendo e facendo progredire lo stato di diritto nei Paesi da cui provengono la grande maggioranza delle persone che che emigrano spinte dalla miseria, da condizioni di vita insopportabili, dalla mancanza di diritti fondamentali... Vede, io penso sempre che l’emigrante non emigra per divertimento ma perché costretto a farlo... Se si creano nel Paese di origine condizioni accettabili gli emigranti non sono spinti ad andarsene. Si tratta di un investimento di cui dovrebbe farsi carico l’Unione Europea, perché la questione dell’immigrazione è un problema europeo, e che andrebbe sollecitato soprattutto dai Paesi più esposti, e tra essi c’è indubbiamente l’Italia, esposta a Sud e ad Est».

l’Unità 24.5.08
«Abbiamo perso sui valori»: Italianieuropei parte dalla filosofia
Il seminario studi lanciato da D’Alema con Violante, Rodotà, Ferrajoli. Nessuna battuta su Pd e correnti: «Qui si studia...»
di Andrea Carugati


Massimo D’Alema ci ha preso gusto con gli studi. Dopo il seminario nella nuova sede di Italianieuropei sulle ragioni della sconfitta del Pd, per questo fine settimana ha scelto un tema decisamente lontano dal dibattito politico quotidiano: tre giorni di Summer school, in un albergo sul mare a Marina di Camerota (Salerno) per discutere di religione e democrazia. Filosofi e giuristi sono i protagonisti di questa scuola dove si «vola alto», come spiegano gli organizzatori con orgoglio. D’Alema parlerà domenica: per questa prima giornata, jeans e maniche di camicia, si è limitato ai saluti e a prendere appunti. E, tanto per far capire il suo approccio, ha mostrato stupore quando gli si sono avvicinati alcuni cronisti politici: «Qui ci volevano i giornalisti delle pagine culturali», ha detto con un sorriso, scansando ogni domanda su Pd e correnti. E ribadendo, ancora una volta, che la categoria di «dalemiani» è decisamente fuorviante. Intanto procede a pieno ritmo la costruzione dell’associazione, che riunirà soprattutto parlamentari del Pd ma anche bei nomi della società civile, e che sarà il braccio politico di Italianieuropei, quella che i maligni hanno chiamato «il partito di D’Alema», subito smentiti dall’interessato. Dovrebbe vedere la luce la settimana prossima e riunirà non solo ex Ds di area dalemiana, ma anche ex popolari e lettiani come De Castro e Boccia. Ma qui nel Cilento tutto questo resta sullo sfondo. «Qui si studia», conferma il consigliere di D’Alema Matteo Orfini. E in effetti la materia non è tra le più commestibili: si ragiona del concetto filosofico e giuridico di persona e di diritti umani (con Stefano Rodotà e Roberto Esposito) e poi di laicità e stato costituzionale con Luciano Violante e i professori Alfonso Catania e Luigi Ferrajoli.
I riferimenti ai temi politici non mancano: ad esempio quando Catania parla della laicità «trascurata dalla sinistra come un residuo illuminista». E del rischio di una politica che «non riesce più a veicolare senso e identità», lasciando questo ruolo pubblico fondamentale alla religione che, mai come oggi, «non vuole essere relegata ad una scelta privata». Ferrajoli attacca sul reato di clandestinità: «Una proposta folle che minaccia lo stato di diritto, è il sintomo più grave della degenerazione totalitaria di un sistema politico». Duro anche Violante: «Si disconosce tutto il diritto penale post nazista: è una sorta di guerra preventiva dentro i confini nazionali». «Perché non ci siamo posti finora questo problema?», domanda Violante rivolto al centrosinistra. «Perché il conflitto sui valori si è molto indebolito. A destra è chiaro che il valore è la sicurezza, e dall’altra parte cosa c’è? Noi diciamo la sicurezza va bene però questa cosa la devi aggiustare un poco. Ma se a un valore non ne contrapponi uno altrettanto forte rischi di essere subalterno». Dal pubblico si levano voci critiche sul profilo del centrosinistra in campagna elettorale, proprio su laicità e «rincorsa al senso comune». D’Alema non aggiunge altre parole a quelle dure («una norma incivile») dette a l’Unità sul reato di clandestinità. «Io rispondo dei miei atti, ma è presto per giudicare la nostra opposizione. E prendersela coi dirigenti è semplicistico. Sulla fecondazione, ad esempio, abbiamo fatto una dura battaglia, bisogna capire perché l’opinione pubblica è meno reattiva su certi valori...».

l’Unità 24.5.08
Todorov: «Il senso della vita lo si trova in un libro»
di Maria Serena Palieri


PARLA TZVETAN TODOROV, a Palermo per ritirare il Premio Mondello vinto con La letteratura in pericolo. «Siamo in grado di insegnare ai nostri studenti che leggere ci può dire qualcosa di essenziale su noi esseri umani»?

Obiettivo polemico del filosofo e critico bulgaro è l’insegnamento scolastico che sostituisce l’attenzione alle storie con quella al metodo
Apprezzo i romanzi nei quali posso riconoscermi anche se parlano di culture lontane: è questa la forza della letteratura

Tzvetan Todorov alle soglie dei settant’anni - è nato a Sofia nel 1939 - ha pubblicato un pamphlet, La letteratura in pericolo (in italiano uscito, in febbraio, come gli altri suoi testi per Garzanti), da cui il lettore superficiale può dedurre che effettui una specie di harakiri: lui, negli anni Sessanta studente «evaso» grazie a una borsa di studio dalla Bulgaria oltrecortina, importatore in Francia delle teorie dei formalisti russi degli anni Venti, Sklovskij e Propp, lì allievo di Roland Barthes e sodale di Genette, lui che, rimasto a Parigi oltre l’anno di durata del suo visto, come pochi avrebbe contribuito alla stagione dello strutturalismo e della semiotica, oggi scrive: «Nel cambio ci abbiamo davvero guadagnato?». Ci abbiamo guadagnato, cioè, spiega, a misurare la competenza letteraria degli studenti da quanto sanno delle «sei funzioni di Jakobson», di analessi e prolessi, anziché da quanto sono entrati dentro Il processo di Kafka e attorno, nel mondo che esso evoca e profetizza? Todorov, chioma bianca, fisico asciutto, viso aperto, è a Palermo dove oggi riceverà il premio Mondello. Domani sarà nel Salernitano per un incontro con il filosofo americano Charles Larmore e con Massimo D’Alema, per la tre giorni su religione e politica organizzata da Italianieuropei. È l’occasione per far spiegare a lui stesso cosa gli sta a cuore dire.
Ma, prima, gli facciamo notare un curioso corto circuito: nel pamphlet spiega come, da studente in Bulgaria, si fosse rifugiato nella lezione formalista per sfuggire all’ideologia sovietica; mentre da poco è uscita per Einaudi la riedizione del saggio I segni e la critica di Cesare Segre e qui, in una nuova introduzione, lo studioso italiano, da parte sua, spiega come la scoperta del formalismo e poi dello strutturalismo in Italia, negli stessi anni, fosse una boccata d’ossigeno dopo l’autarchia del ventennio fascista. Coincidenze editoriali…
Professor Todorov, definirebbe il suo saggio «La letteratura in pericolo» un’autocritica?
«È un riesame di un argomento che mi ha molto occupato nel passato. Ma non è una negazione del mio lavoro precedente. Ecco, definirei questo libro, piuttosto, “istruzioni per l’uso”: l’analisi strutturale, a cui sono stato legato negli anni Sessanta e Settanta, può ancora essere difesa e, perché no, anche lodata, purché essa venga assoggettata a un obiettivo ultimo, cioè la rivelazione del senso dell’opera che analizza. In Francia spesso, soprattutto nell’insegnamento scolastico, ci si accontenta di insegnare un vocabolario tecnico astratto. Il metodo si sostituisce al soggetto che dovrebbe spiegare: questa perversione è il mio obiettivo polemico. Oggi io direi benvenuto a ogni metodo di lettura, storico, strutturale, psicanalitico, purché esso ci aiuti a capire meglio i testi».
La scuola, appunto. Lei descrive la catena attraverso cui, in Francia - ma anche da noi - travasandosi dall’università alle aule scolastiche, un uso miope di alcuni metodi critici ha creato generazioni di lettori più abili nel decostruire un romanzo o una poesia che nell’assaporarne il senso. E, di conseguenza, generazioni di scrittori più «narratologi» che romanzieri o poeti, tecnicamente ferrati ma allergici alla realtà. Un insegnante di letteratura come dovrebbe, invece, porgersi a bambini e ragazzi?
«Primo, insistere su quest’idea: quest’opera come parla a noi giovani, in che modo migliora la nostra comprensione della vita? La letteratura ci dice qualcosa di essenziale su noi esseri umani. Non è un gioco alchemico di metafore e metonimie. Se capiranno cosa insegna, gli allievi si interesseranno di più a essa. Perché i Greci andavano ad assistere alle tragedie? Non per deliziarsi di esercizi letterari ma per capire meglio il proprio destino sulla Terra».
I «Tre moschettieri» o «Harry Potter», scrive, sono testi guardati con condiscendenza dalla critica. Ma possono essere un primo cibo per creare futuri lettori. Daniel Pennac è, come la Rowlings, un autore popolarissimo in Francia e in Italia. Cosa pensa del suo libro «Come un romanzo»?
«Ho per lui una grande simpatia, trovo molto sani i suoi Diritti del lettore. Aiutano a vincere timidezza e timore dei più giovani. Per arrivare a leggere roba migliore bisogna leggere, leggere, anche robaccia».
Formalismo, nichilismo e solipsismo: sono i tre «ismi» attraverso cui oggi, osserva, gli scrittori francesi bypassano il rapporto con la realtà. In particolare, quanto all’ultimo, individua una corrente che definisce «autofiction»: lo scrittore sceglie se stesso come unico oggetto di romanzo. Non è difficile trovarne i corrispettivi da noi. Il nichilista che ha in mente è, per esempio, Houellebecq?
«Non do voti. Darli, spetta ai premi letterari… Da critico, scrivo per i lettori, non per gli scrittori. Uno scrittore vero lavora spinto da una necessità interiore, non perché io gli suggerisco come farlo. Al lettore, invece, posso spiegare che un romanzo può avere orizzonti più ampi di quelli che, in maggioranza, gli vengono proposti oggi. E che può occuparsi di ciò di cui non si occupano i tre “ismi”. I quali si appassionano al libro anziché all’umano e trattano il libro come una materia da perfezionare, oppure decidono che l’unica materia che esso possa toccare sia l’autore stesso. O ancora rappresentano un mondo che affonda nella disperazione ma rispetto al quale l’autore è estraneo. Tutto questo restringe il campo. Diciamo un’ultima cosa: in un paese in guerra non si rischia di cadere, scrivendo, nel formalismo o nel solipsismo o nel nichilismo, perché è il mondo stesso che preme e fabbrica disastri e disperazione».
Da quale angolo del pianeta, da lettore, riceve al momento più stimoli?
«L’ultimo romanzo che ho letto è La terre des oublis della vietnamita Duong Thuhuong (in italiano verrà tradotto da Garzanti, ndr). Racconta la storia molto semplice di una donna che, dopo la fine della guerra con gli Stati Uniti, negli anni Ottanta, al ritorno dei reduci, è divisa tra due uomini. È un libro molto elaborato sul piano formale ma mi ha colpito perché cela qualcosa di molto necessario: io, che oggi vivo a Parigi, posso riconoscermi in una storia ambientata laggiù vent’anni fa. Ecco la forza della letteratura».
La malattia della narrativa di questa nostra parte di mondo è la stessa che contagia altri campi, poniamo la medicina, è la «techné»? Ci sono scrittori, sulle due sponde dell’Atlantico, accomunati da un trionfo dell’abilità, Paul Auster e l’ultimo Ian McEwan, con certi montaggi delle attrazioni: «lettore ti stupisco, guarda che fuoco d’artificio»…
«Non credo che ci siano paralleli così immediati tra la società e i suoi artisti. Anche nell’Ottocento c’erano scrittori che facevano i fuochi d’artificio. E altri che operavano in tutt’altro modo. Russell Banks e Paul Auster sono vicini per età, per convinzioni politiche, perfino per abitazione, ma scrivono diversamente. Oggi non c’è un’estetica dominante. Individuo i tre “ismi” per far capire che, in giro, c’è anche altro».
«Lo spirito dell’illuminismo» era il titolo del suo saggio uscito da noi l’anno scorso. Dove sosteneva che l’Europa dovrebbe individuare le sue radici nei Lumi, appunto, anziché nel Cristianesimo. Illuminismo, cioè cosmopolitismo. Ma l’Europa oggi sembra piuttosto cementata - Italia in testa - dalla xenofobia. Qual è il suo sentimento?
«Ho parlato di radici illuministe dell’Europa perché l’Unione Europea è una realtà pluralista: non ha l’obiettivo di creare un solo popolo ma di far convivere i suoi ventisette paesi. Gli italiani non scompaiono, l’estone non diventa qui la lingua ufficiale. È appunto nell’epoca dei Lumi che si è cominciato a valorizzare i pluralismi. Prima c’erano stati dei tentativi di unificare l’Europa, ma in un solo segno, quello romano o cristiano, e poi ce ne sarebbero stati altri, nel segno militare di Napoleone come di Hitler. Il pluralismo ci viene da Montesquieu e da Hume, invece, è dal ’700 che sappiamo che “la divisione fa la forza”. La xenofobia è sempre esistita. I nostri nonni lo erano. È una caratteristica disdicevole della nostra specie che risale ai tempi delle caverne, quando il vicino ci veniva a rubare la coscia di capriolo che tenevamo per cena. È questa la paura dell’Altro. Da questa mentalità da cavernicoli sarebbe ora di uscire».

l’Unità 24.5.08
Viaggio a ritroso nel tempo per cercare le origini dei tanti pensieri sul mondo femminile, dal 1771 a oggi
Flamigni: gioco semiserio sul passato delle donne
di Cristiana Pulcinelli


Lo spunto del narrare è una polemica lontana quasi 250 anni
Sì, mi sono un po’ arrabbiata. Lo voleva l’autore del libro, del resto. Come potevo non arrabbiarmi di fronte alla tesi che, in quanto donna, ragiono con l’utero e non con la testa? Di fronte all’accanimento con cui per secoli saggi e santi, tutti di sesso maschile, hanno cercato di spiegare perché non appartengo alla specie umana?
Ho anche sorriso, così come aveva previsto l’autore. Non fa sorridere l’idea che basti il tocco della mia mano perché zucche e cocomeri dell’orto appassiscano e poi muoiano? O che vestiti eleganti e gioielli possano essere stati considerati tanto pericolosi da richiedere l’emanazione di un decreto per evitare che venissero esibiti dalle signore in pubblico?
Carlo Flamigni, come si legge sulla quarta di copertina del suo nuovo libro, è ginecologo e «si occupa principalmente di Fisiopatologia della riproduzione e di Endocrinologia ginecologica». E tuttavia, il suo libro parla di questi temi solo marginalmente, li sfiora nelle appendici dove, peraltro, sono relegati i ragionamenti sul presente e sul futuro. Per il resto, Casanova e l’invidia del grembo, il cui sottotitolo recita «ragionamenti fatui sulla discussa capacità cognitiva delle donne e sull’esistenza di una ragione nel loro utero», è un viaggio nel passato delle donne attraverso quello che di loro hanno scritto gli uomini. Flamigni lo fa come un gioco. Un gioco semiserio, per meglio dire.
Lo spunto del narrare viene dato da una polemica lontana quasi 250 anni. È il 1771 e Giacomo Casanova, appena giunto a Bologna, viene a conoscenza di due pamphlet scritti da due docenti di medicina dell’università di Bologna. Il primo di questi libretti vuole dimostrare che si deve perdonare alle donne i loro errori perché dipendono dall’utero che, come un animale pensante, interviene nei ragionamenti di chi lo possiede e costringe le donne ad agire loro malgrado. Il secondo, invece, critica questa teoria sostenendo che l’utero è, sì, un animale, ma non interferisce con l’attività cerebrale della donna perché non esistono canali di comunicazione tra quest’organo e il cervello. Casanova si fa beffe di entrambi i professori con un terzo libello dal titolo: Lana caprina. Epistola di un licantropo indirizzata a S.A. la signora principessa J.L. n. P.C. Ultima edizione. In nessun luogo. L’anno 100070072.
Carlo Flamigni comincia il suo libro raccontando le circostanze di questa polemica, ma subito dopo parte per una lunga digressione, un viaggio a ritroso nel tempo per cercare le origini dei tanti pensieri sulle donne, sul misterioso legame che unisce utero e cervello, sull’ancora più misterioso atto del procreare, sull’inferiorità, infine, del sesso femminile.
All’origine troviamo (come sempre) Aristotele secondo cui le femmine altro non sono che maschi mal riusciti. Il suo pensiero arriva fino a San Tommaso che si spinge a cercare una parvenza di causa a questo difetto: forse i venti umidi del Sud impediscono all’uomo di generare un altro essere perfetto, ovvero l’uomo. Comunque, se la donna ha un «difetto di ragione» che, dice sempre Tommaso, è evidente anche nei bambini e nei malati di mente, non si può dire che non abbia un’anima. Qualcuno però, nel corso dei secoli, mette in dubbio anche questo: nel 1595 viene pubblicato un libro in cui l’autore cerca di convincerci del fatto che le donne non sono esseri umani. L’autore utilizza i suoi ragionamenti come un paradosso, è vero, ma dietro (dice Flamigni) vi si legge quello che davvero pensavano gli uomini del tempo.
La storia prosegue con il doloroso capitolo della caccia alle streghe. Quello altrettanto orrendo dei flussi mestruali considerati per secoli impurità contagiosa tanto da ipotizzare che i lebbrosi siano stati concepiti durante una mestruazione. La triste vicenda della menopausa annoverata dagli psichiatri fino al 1980 tra le cause di psicosi. E via discorrendo... L’autore racconta tutto con leggerezza e ironia. Negli approfondimenti, a fine libro, troviamo quello che al momento la scienza ci può dire sulle differenze uomo-donna e sulla procreazione. E qualche sbirciatina al futuro.
Devo dire, però, che se il passato raccontato da Flamigni m’indigna, il presente non è da meno. Potrò seccarmi con Boccaccio quando scrive, parlando di me (in quanto donna) «Niuno latro animale è meno netto di lei», ma che dovrei dire di un papa che vorrebbe rispedirmi dritta dritta nelle mani delle mammane?

l’Unità 24.5.08
Dio è morto? Forse, ma l’«Io» non ancora
di Bruno Gravagnuolo


CONVEGNI All’«Angelicum» di Roma il Congresso della Spi su «Identità e cambiamento». Al centro l’esigenza psicoanalitica di rilanciare il ruolo e lo spazio della «soggettività» in un contesto sociale che la demolisce

Identità è nozione a tutta prima chiarissima, tautologica: A=A. E però, un attimo dopo, massimamente ambivalente e sfuggente. Per dire che A=A, devo dire e presupporre il suo contrario: A non è non-A. Insomma l’identità comporta ipso facto il suo contrario, non foss’altro per esclusione. È un po’ come il tempo nell’Agostino delle Confessioni. Se mi chiedo che cosa è lo so, se me lo chiedono, non lo so. Logici e filosofi conoscono bene questi grattacapi e ci si azzuffano da millenni, a partire da Parmenide, e tralasciando il disinvolto Eraclito («tutto scorre», lo sappiamo grazie tanto!). E le cose si complicano ancora di più sul piano emotivo e psicologico. Perché lì non sono in ballo soltanto costrutti e teoremi, ma il senso stesso di essere. Del «consistere» vero e proprio del soggetto vivente.
Sicché ha un bel coraggio oggi la Società psicoanalitica Italiana, a infilarsi in un tema come questo, e per giunta in un momento in cui vacillano i confini del sapere, i fondamenti del conoscere, le identità politiche. E smotta persino la consistenza di qualcosa come una «sostanza-soggetto», sotto la libertà dei singoli. Singoli che a loro volta si scoprono «plurimi», per la pressione selettiva di culture, civiltà e identificazioni in contrasto, nell’oceano del mondo globale e in risonanza. E nondimeno la Spi questa sfida l’accetta e se ne fa quasi un dovere etico, oltre che un obiettivo epistemologico: tracciare una mappa del soggetto. Per ripartire, capire. E ricostruire una «macchina del senso», del dar senso, a ciò che appare svuotato e destituito di senso. Ma soprattutto per «curare» questa «mancanza», che genera angoscia, depersonalizzazione, solitudine. Incapacità di simbolizzare e comunicare, all’apice di un tempo connotato dalla comunicazione accelerata, e magari povero di relazioni emotive, di espressività. Una sindrome che si riversa sul lettino del «setting», sempre meno asettico e sempre più relazionale e relazionato, a un mondo in cui crollano le identificazioni stabili.
Tante le relazioni e i contributi per questa sfida, cominciata ieri a Roma al Centro Congressi Angelicum (fino a domenica). A cominciare da quella di Fernando Riolo, Presidente del Comitato esecutivo della Spi, che ieri abbiamo letto su queste pagine. Riolo enunciava, ci pare, un paradosso. Per un verso l’obiettivo dell’analisi (freudiana) è l’autoindividuazione consapevole che fa «diventare Io dove era l’Inconscio». Dall’altro però l’analisi presuppone il «rilasciamento» di quell’Io che si vorrebbe ricostruire: una sua «auto sospensione». Un suicidio consapevole delle «resistenze», in termini freudiani. E tra l’obiettivo ideale e «asintotico» (la nuova coscienza che integra le parti del sé) e l’inizio, c’è la discesa agli inferi. Cioè una rescissione di «vissuti» e tracce immaginali, che centrifugano l’Io, come in un vero bagno chimico. Il risultato finale, non prescritto né garantito, dovrebbe essere una migliore integrazione degli strati psichici. E così è la memoria del vissuto riattraversato, a fondare alfine l’Io. Ma questa via sperimentale non rischia di spaesarci del tutto? Con l’affidare il soggetto all’istinto di autoconservazione che si rigenera da sé, pur dentro l’autocomprensione vissuta? Convissuta con sé e con l’altro, per il «medio» dell’Analista «introiettato», naturalmente. E allora la domanda resta: che cos’è l’Io, benché differenziato ed elastico? Quali i suoi mattoni, le sue «invarianze», se ci sono? Risponde Lucio Russo, analista teoretico a Roma, studioso di filosofia, che in questi anni ha enormemente allargato il campo freudiano alla filosofia e alla scienze umane. Decisivo il suo ultimo Le Illusioni del pensiero (Borla) dove ricostruisce la macchina del pensare come elaborazione necessaria della «perdita d’oggetto», all’incrocio tra istinto di morte e funzione «negativa del giudizio»: la differenza vivente che si rispecchia e si separa. E che accede al linguaggio e alla logica come Legge del Significante. Ebbene Russo parte dalle premonizioni moderne di John Locke, nel Saggio sull’intelletto umano del 1694. L’identità non è più «sostanza fissa», ma accumulo non lineare di sensazioni e percezioni convertite in memoria, che immagina e proietta. Il questo e questo Sé, in un altro tempo e in un altro luogo: l’immaginario. Ha dunque ragione Remo Bodei secondo il quale, su questa linea lockeana e «pre-freudiana», l’Io si liquefa in parti fluide all’infinito? No, dice Russo. L’identità al contrario è un rispecchiamento stabile, capacità di scindersi e di riunificarsi sulla «mancanza» e la separazione dall’Identità originaria e inerte. Identità primordiale nel rispecchiamento materno, o al contrario, per dirla con Winnicott, primordiale e autosufficiente senza rispecchiamento (identità prenatale). Come che sia per Russo da quello «stadio» l’umano deve uscire, sperimentando nel dolore la separazione. Pur senza ottundere del tutto quegli stadi primordiali che l’analisi indaga. Dunque identità come conquista. E, aggiungiamo noi, attorno a funzioni cognitive cerebrali e «immagini influenti»: l’identità sessuale e di genere, ad esempio. Senza questo processo, il rischio è quello denunciato da Lévinas nella «filosofia dell’hitlerismo: esperienza isterica e totalizzante dell’identità, che distrugge l’altro, propugnando il ritorno all’indistinto della «terra e del sangue». Resterebbe il discorso sul sociale. Ma in fondo è già tutto dentro l’Io. Ci penseranno al Congresso René Kaës e Marc Augé. Il primo con la descrizione dei «garanti metasociali». Istituzioni, valori e figure di Autorità senza cui l’Io si spappola. E non riesce a fare «contratti narcisistici» o investimenti di senso. Augé invece, con la denuncia delle «alienazioni digitali», che squagliano l’Io nei deliri dell’immaginario consumista. Insomma l’Io è in fuga. Ma è pur sempre un Io a doverlo inseguire e raggiungere.

Corriere della Sera 24.5.08
Appello di Liberazione. Ravera: sì, ma ammetta. Melandri: prematuro
Rifondazione vuole la grazia per la Franzoni
di Maria Luisa Agnese


Non bisogna vergognarsi della pietà. L'appello è comparso sulla prima pagina di Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista, che ritrova voce politica dopo lo tsunami elettorale e riparte dal caso Cogne per invocare una Grazia d'ufficio.
Dopo l'arresto La sinistra si divide. Ritanna Armeni: invoco la legge superiore della pietà

L'idea di quelli di Liberazione è che sarebbe «bello e saggio» se il ministro della Giustizia avviasse le pratiche per la grazia e che poi il presidente Napolitano la controfirmasse. E avvertono: «Noi non sappiamo se Anna Maria è colpevole o innocente, ma ora dovrebbe prevalere un sentimento di pietà, di solidarietà. Non è un sentimento ignobile, anche se negli ultimi anni, mesi e giorni, tutti stanno cercando di convincerci di questo».
E così adesso, che le porte del carcere si sono chiuse alle spalle di Anna Maria Franzoni, sembra profilarsi dietro di lei un nuovo partito, quello della compassione. Ma cosa ne pensano dell'iniziativa a Rifondazione comunista? «Io credo che la pena non debba mai essere vendetta. E sono quindi d'accordo con l'appello- provocazione del direttore Sansonetti per far marciare la grazia, ovviamente con una valutazione attenta da parte degli organismi giurisdizionali » dice Giovanni Russo Spena, ex capogruppo al Senato del partito.
Anche Ritanna Armeni, la brillante conduttrice di Otto e mezzo vicina a Rifondazione, si dichiara d'accordo con l'ipotesi della grazia e sostiene che è più che legittimo avere un colpo d'ala, uno scatto in nome della pietà. «In fin dei conti nel caso Cogne rimane un forte elemento di incertezza, nessuno ha dimostrato la colpevolezza della madre, e nel dubbio pro reo. Il Tribunale ha deciso, è vero, e lo rispetto. Ma io introduco un elemento diverso, invoco una legge superiore, quella della compassione ». E qui Armeni si riferisce al grande e complesso tema di Antigone, la sventurata figlia di Edipo che si ribella alle leggi dello Stato in nome di una legge superiore a quella degli uomini, quella morale che gli dei ci hanno dato. «E perché allora io dovrei prescindere dal dono della pietà, solo perché faccio parte della sinistra estrema?».
Un conflitto che attraversa la storia dell'umanità e che quando raggiunge il diapason può essere risolto, secondo Armeni, solo con la pietas. Ma la soluzione di Armeni e di Liberazione anche se incrocia un sentimento diffuso nel Paese, apre a sua volta nuove divisioni, a sinistra, fra le donne, fra le madri stesse. Lidia Ravera, anche lei esponente di una sinistra non allineata, si rifiuta di saltare un passaggio a suo avviso fondamentale, e sostiene che «la grazia si concede quando il reo è confesso, e la Franzoni non si è pentita, anzi si è sempre dichiarata innocente». Una situazione molto simile al caso Sofri: «E infatti a Sofri, che ha sempre sostenuto di essere innocente, finora nessuno ha dato la grazia». In più Sofri ricorda Ravera - ha sempre tenuto un comportamento dignitoso «e non esibitorio come la signora Franzoni, che è andata in tv spesso, spettacolarizzando lei stessa il caso per raccogliere simpatie».
Discorso non facile e oggi impopolare, che Ravera comunque sostiene con sofferta lucidità: «Il discorso sulla pietà è troppo importante; bisogna stare attenti a non inquinarlo ». Ravera ricorda di essere una madre e molto amorosa, si rifiuta di iscriversi al partito dell'accanimento, e difatti si indigna per gli insulti che la Franzoni ha patito dalle altre detenute: «Il rispetto prima di tutto. Ma mi sembrerebbe esagerato ora premiare la Franzoni con la grazia: potrebbe quasi essere visto come un privilegio, un riconoscimento a chi comunque ha visibilità, come se fosse una vip. Mentre se fosse una rumena sarebbe subito appesa a testa in giù».
Molto perplessa sull'iniziativa di Liberazione anche Giovanna Melandri, ministro alla Comunicazione nel governo ombra: «Mi pare quantomeno prematura». Vuol dire che forse è strano tentar di far ripartire la sinistra dal caso Cogne? «Dico solo che mi pare impropria. Non possiamo dimenticare che in uno stato di diritto esistono delle leggi alle quali nessuno può sottrarsi» sostiene, archiviando così anche la controversa questione antigonesca sollevata da Armeni.
Più vicino semmai l'ex ministro alla Ravera quando mette in guardia dall'applicare due pesi e due misure a seconda della notorietà e del peso delle "vittime": «Non voglio farmi deviare dalla furia mediatica che ha avvolto Cogne, e perciò non dimentico l'atroce condizione di tutte quelle donne che sono lontane dai loro figli, anche piccolissimi, senza che abbiano ricevuto la medesima attenzione ». Per dire che la legge, umana e divina, deve prima di tutto essere uguale per tutti, e per tutte.

Corriere della Sera 24.5.08
Scandali Thierry Savatier ricostruisce le vicende del quadro di Courbet. Affascinò Goncourt, sfuggì ai nazisti e finì nello studio dello psicoanalista
L'origine del mondo, storia di un tabù
Tutti i collezionisti tennero il dipinto dietro un pannello. Lacan si divertiva a guardare le facce degli spettatori
di Sergio Luzzatto


Non era mai stato facile superare l'esame del gusto di Edmond de Goncourt. E meno che mai dopo il 1870, quando, sia il disastro della guerra franco-prussiana, sia lo strazio per la morte del fratello Jules avevano reso il suo
Journal lo sfogatoio di un uomo invecchiato e inacidito. Così, ad esempio, in data 30 giugno 1889. Mentre si celebrava in pompa magna il centenario della Rivoluzione francese, Edmond annotava, feroce: «Se esiste nel collezionismo un certificato di pessimo gusto, è la collezione di piatti della Rivoluzione messa insieme da Champfleury. Credo che nella ceramica di tutti i popoli, dall'inizio dei tempi, nulla sia stato prodotto di tanto brutto, di tanto idiota, di tanto rivelatore dello stato anti-artistico di una società».
Ma proprio il giorno prima, sabato 29 giugno, il diario di Edmond aveva registrato un giudizio positivo: per una volta, un'opera d'arte era uscita promossa dall'esame del severissimo connaisseur. Era successo dopo la visita a un antiquario parigino specializzato in arte orientale. Deluso dai nuovi arrivi di oggettistica giapponese, Goncourt stava per andarsene quando il commerciante aveva aperto il pannello di una cornice chiusa a chiave, rivelandogliene il contenuto nascosto. Ben altro che una giapponeseria: «È il quadro dipinto da Courbet per Khalil- Bey, un ventre di donna dal monte di Venere nero e prominente, sullo spiraglio d'una vulva rosa... Davanti a questa tela che non avevo mai visto, devo fare ammenda e rendere onore a Courbet: quel ventre è bello come la carne di un Correggio».
Sebbene affidato al segreto del Journal, come doveva essere costato caro un simile riconoscimento all'indole fiera di Edmond de Goncourt! Lui che di Gustave Courbet (grande amico di Champfleury) aveva sempre pensato tutto il male possibile, e che, quando aveva visto con Jules — oltre vent'anni prima, nel 1867 — la collezione privata del diplomatico turco-egiziano Khalil-Bey, ne era rimasto letteralmente inorridito! Inorridito dai «corpi terrei, sporchi, merdosi» delle «due lesbiche » ritratte da Courbet nel Sonno, come pure dai corpi femminili «rigidi come manichini » ritratti nel Bagno turco da un altro «imbecille popolare», Dominique Ingres! Nel 1867, però, a nessun visitatore era stata mostrata l'opera più scandalosa della collezione di Khalil- Bey, la piccola tela che Goncourt avrebbe scoperto due decenni più tardi nella bottega di un mercante d'arte giapponese. A nessuno era stata mostrata L'origine del mondo.
Oggi, la tela di Courbet è tranquillamente esposta accanto ad altri suoi capolavori in una sala del Musée d'Orsay, a Parigi. Ci è arrivata nel 1995, e rapidamente si è conquistata un posto di riguardo nelle preferenze dei visitatori: al borsino delle cartoline più vendute nel negozio del museo, risulta seconda soltanto al Moulin de la Galette di Renoir.
Su Google Images, chi digiti «l'origine du monde» viene subissato da centinaia di migliaia di links, il video tappezzato da innumerevoli repliche o varianti di uno stesso monte di Venere nero e di uno stesso spiraglio di vulva rosa. Ma appunto, questa è la storia di oggi, o di ieri.
Fino agli sgoccioli del Novecento — per un secolo e passa dopo che Courbet l'aveva dipinta, nell'estate del 1866 — L'origine del mondo ha conosciuto un destino esattamente contrario. Non un massimo di notorietà e di visibilità, ma un massimo di segretezza e di dissimulazione.
Impossibile stupirsene, se è vero che il dipinto di Courbet rappresentava ben di più che una semplice sfida al vittoriano (o al comune) senso del pudore. L'origine del mondo
non era, banalmente, un nudo più spinto di altri nella lunga storia dei nudi. Era qualcosa di unico nella pittura occidentale, perché rappresentava precisamente quanto gli artisti avevano da sempre evitato di illustrare: il sesso femminile. Courbet aveva scelto addirittura di escludere dal quadro il viso della modella, non dipingendone che il ventre. E così facendo, aveva trasformato una donna senza volto nella donna in generale. La madre di tutti gli uomini e di tutte le donne di ogni tempo. La madre di ognuno di noi.
Per questo, scrivere la storia del dipinto di Courbet equivale a scrivere, in fondo, la storia moderna di un tabù. Che è poi quanto si è proposto il critico francese Thierry Savatier in un bel libro tradotto ora dalle edizioni Medusa, Courbet e «L'origine del mondo ». Dove vengono puntualmente ricostruite le circostanze di nascita della tela, dalla curiosa figura del committente, il dignitario ottomano Khalil-Bey, alla misteriosa figura della modella, legittima proprietaria della vulva rosa: tradizionalmente ritenuta un'amante occasionale di Courbet, Joanna Hifferman detta Jo l'Irlandese, mentre Savatier suppone che l'artista si sia ispirato piuttosto a una fotografia licenziosa. E dove, soprattutto, vengono sapientemente ricostruite le misteriose identità dei successivi proprietari del quadro, di cui Khalil-Bey si era sbarazzato quasi subito dopo averlo acquistato da Courbet.
Colui che più a lungo possedette L'origine del mondo (per quarantadue anni, dal 1912 al 1954) fu un collezionista ungherese di origini israelite, il barone Ferenc Hatvany. Come i proprietari precedenti, teneva il quadro nascosto dietro un pannello rappresentante un altro soggetto, e non lo mostrava che ad alcuni ospiti fortunati. Nel 1942, i progressi dell'antisemitismo in Ungheria convinsero Hatvany a depositare nel forziere di una banca di Budapest, intestati a un prestanome «ariano », i pezzi della collezione che più gli erano cari: Courbet compreso. Sicché due anni dopo, quando il plenipotenziario del Terzo Reich per la Soluzione finale del problema ebraico in Ungheria — Adolf Eichmann — sequestrò il grosso della collezione Hatvany e lo fece inviare in Germania, non gli riuscì di mettere le mani su L'origine del mondo. Ci riuscirono invece, all'inizio del '45, i «liberatori» sovietici, dai quali Hatvany dovette ricomprare il dipinto sotto banco, dopo la fine della seconda guerra mondiale.
L'ultimo privato che possedette il quadro di Courbet fu uno psicanalista francese, cui il barone ungherese lo aveva venduto poco prima di morire: il più adatto dei proprietari possibili, il più professionalmente consapevole del duplice significato della parola «possesso » applicata a un soggetto del genere. Anche Jacques Lacan conservava L'origine del mondo nascosta dietro un pannello, nello studio della sua casa di campagna, non rivelandone il segreto che agli ospiti d'élite: Dora Maar, Marguerite Duras, Claude Lévi-Strauss... E quando finalmente svelava il dipinto, Lacan concentrava il proprio sguardo non sul monte di Venere, ma sullo sguardo dello spettatore. Si divertiva a farsi voyeur del voyeur.
L'opera: «L'origine du monde», conservato dal 1995 al Musée d'Orsay, è un olio su tela (46X55 centimetri) Il pittore Gustave Courbet (1819-1877) dipinse «L'origine du monde» nel 1866 per il dignitario turco-egiziano Khalil-Bey

il Riformista 24.5.08
Una sola chiesa da Che Guevara a Madre Teresa
di Massimo D’Alema


Pubblichiamo ampi estratti dell'intervento che Massimo D'Alema terrà domani a Marina di Camerota alla tavola rotonda su "Religione e democrazia in Europa e negli Stati Uniti" con Tzvetan Todorov e Charles Larmore, nell'ambito del seminario organizzato dalla fondazione Italianieuropei.

Per troppi anni abbiamo giudicato con lenti ideologiche il ruolo della religione, senza coglierne il ruolo sempre più strutturale. Se mi si chiede cos'è oggi il fervore cristiano negli Stati Uniti rispondo: il collante valoriale che ha tenuto insieme il fronte conservatore e gli ha garantito una stabile egemonia politica e culturale. Se mi si chiede oggi cos'è il fervore religioso in Europa rispondo: il tentativo di dare risposte alla mondializzazione, spesso non lontane da quelle tipiche di una visione di sinistra, laburista, multipolare. Se mi si chiede cos'è oggi il voto cattolico in Italia rispondo: quello che il Pd non ha intercettato nemmeno per sbaglio.

(...) E ricordo le parole di quel cantante: «Io credo che al mondo c'è solo una grande Chiesa, che va da Che Guevara a Madre Teresa». E ricordo le parole di quel politico: «Il nostro è il partito di Chaplin e di Kennedy, di Berlinguer e di Giovanni XXIII...». Le ricordo entrambe e non posso non pensare che è proprio vero che Dio li fa e poi li accoppia.
(...) Ed è in un momento di tempo libero, ultimamente mi capita sempre più spesso di poterne godere, che mi è tornato alla mente il mio incontro con papa Giovanni Paolo II, la visita di Stato che feci in Vaticano durante la mia permanenza a Palazzo Chigi. Fu un colloquio intenso e sereno. Uno di quei momenti che segnano, anche emotivamente, la vita e l'esperienza di un leader politico e di una persona. C'era stata una preparazione carica di tensione e di attesa per l'incontro tra il Papa e «il primo Presidente del Consiglio ex comunista». I giornali avevano numerato i punti possibili di contrasto, gli aspetti diversi di un possibile contenzioso sulla scuola privata, la legge 194 ecc. Poi, seduti uno di fronte all'altro, con in mezzo un tavolo semplice di legno, tutto si sciolse. Le mani nelle mani, lo sguardo azzurro profondo fisso negli occhi, il sorriso. «Parliamo del mondo...». E non riesco a non pensarci ogni qual volta, purtroppo sempre più spesso, mi ritrovo occhi negli occhi magari con annosi compagni di militanza, uomini ai quali dovrebbe legarmi una sintonia intellettuale e valoriale ben più profonda di quella che poteva legare un laico come me e il papa polacco, i quali non hanno altro da dirmi che: «Parliamo di Rai...».

(...) «Ecco, noi siamo andati a cercare la religione fuori dal nostro mondo, ci siamo convinti che fosse stata espulsa dall'Occidente avanzato, che fosse un cascame premoderno da ricercare magari in Africa, per poi non trovarne le tracce nemmeno lì e dedurne che forse Dio era malato, senza accorgerci che da noi - in Europa, negli Stati Uniti, nelle nostre città e nelle nostre case - per molti Dio era guarito. Un altro grave errore. Ma questo, almeno, riparabile. Chi ha cercato Dio in Africa, senza trovarlo, non è detto che non abbia più fortuna la prossima volta, magari con una ricerca un po' più approfondita, che duri il giusto, diciamo, una decina d'anni, e cominci ora: a certi errori o si rimedia subito o non si rimedia più».

il Riformista 24.5.08
Intervista al tedesco Gustav Seibt
«Voi rozzi nell'animo. Non ci date più cultura»
di Paolo Petrillo


Berlino. «Rozzi nell'animo». Sotto questo titolo il giornalista e storico tedesco Gustav Seibt ha firmato alcuni giorni fa, sulle colonne della Sueddeutsche Zeitung , un articolo molto duro sull'attuale situazione italiana. L'articolo è stato accolto in Italia con trasversale irritazione. E oggi il quotidiano bavarese ospita una lunga lettera di risposta dell'ambasciatore italiano a Berlino Antonio Puri Purini sotto il titoloQuesto amore non è andato affatto perduto che esalta i rapporti commerciali, politici, culturali financo sportivi tra Italia e Germania. Noi del Riformista, però, siamo andati a chiedere a Seibt le ragioni che lo hanno spinto a scrivere quell'articolo.
Dottor Seibt, cosa pensa delle reazioni al suo articolo?
«Forse c'è stato anche un qualche fraintendimento. Non intendevo parlare del carattere collettivo degli italiani. Volevo invece sottolineare quella che mi sembra una triste novità. E cioè che se dai tempi di Goethe in poi la cultura italiana ha fatto sentire il suo peso in Germania in modo costante e significativo, oggi questo influsso si è interrotto. Dagli anni '90 in poi si è andato esaurendo quel canale che rendeva feconda l'amicizia italo-tedesca: un fatto storico eccezionale, di cui forse in Italia non si è del tutto consapevoli. Non dico si tratti di una situazione irreversibile ma al momento mi pare che le cose stiano così. Detto ciò, ero naturalmente consapevole della durezza dell'articolo e so anche che essere attaccati non è piacevole per nessuno. Quindi non mi sono irritato per le reazioni suscitate. E d'altro canto, è questa la mia diagnosi sull'Italia».
E sono queste novità a motivare quel «disamore» dei tedeschi verso l'Italia di cui parla nel suo articolo?
«Nuova mi sembra la mancanza d'idee politiche. Nel corso degli ultimi due secoli Italia e Germania hanno avuto una storia molto simile, che ci ha portato a condividere anche momenti tragici. Era però una condivisione che aveva un carattere ideale. Il Risorgimento, i grandi conflitti del '900 erano anche conflitti esemplari a livello europeo. Ed è questa esemplarità a essere venuta meno. Ora abbiamo a che fare con clientelismo, riforme mancate, assenza di una politica efficiente: tutte cose molto basse, da cui non vi è nulla da imparare. E se la stessa cosa avviene anche in campo artistico-letterario, si capisce come possano venir meno i canali d'interesse».
Si è detto spesso che, mal che vada, sarà l'Europa a evitare all'Italia derive eccessive. Non potrebbe esservi invece il rischio di un'italianizzazione dell'Europa, o almeno della Germania? In fondo alcuni problemi italiani sono comuni anche ad altri paesi Ue, Germania in primis…
«È un problema aperto. Certo, se anche in Germania si verificasse una situazione di degrado del sistema partitico - come forse già vediamo nella tedesca Spd - e alla instabilità italiana si aggiungesse quella tedesca, la situazione potrebbe diventare pericolosa. A rischio sarebbe allora la stabilità dell'Ue. Oggi in Germania le cose vanno abbastanza bene ma anche noi, ad esempio, abbiamo un enorme problema di corruzione, negli ambienti economici come in quelli politici. Ed è un problema di cui tedeschi non sembrano ancora pienamente consapevoli».
Sia leggendo i giornali che parlando con la gente si ha l'impressione che in Germania vi sia qualche difficoltà a capire le ragioni della nuova vittoria di Silvio Berlusconi. Lei come vede la cosa?
«Decisiva è stata a mio parere la debolezza della sinistra, una sinistra assolutamente non convincente. Poi penso all'ovvio vantaggio di Berlusconi sul terreno dei media. E infine, forse, ha avuto il suo peso anche una più antica tendenza italiana al qualunquismo, una sorta di attitudine all'antipolitica».
Alcuni - ad esempio l'ambasciatore tedesco a Roma, Michel Steiner - ritengono che parte delle difficoltà di comunicazione che a volte si registrano tra Italia e Germania sia da attribuirsi all'informazione giornalistica. Che impressione ha della qualità delle corrispondenze giornalistiche?
«Impossibile dare una risposta univoca: naturalmente ci sono ottimi giornalisti da ambo le parti. È vero però che tra i colleghi italiani noto spesso una certa tendenza "demonizzante". Ad esempio se c'è un aggressione xenofoba in Germania, come purtroppo ne capitano in tutta Europa, la domanda è subito: risorge il nazismo? Domanda non offensiva, d'accordo, ma forse anche noiosa. Mentre dall'altro lato mi sembra che alcuni corrispondenti tedeschi abbiano dell'Italia una conoscenza assai superficiale. Soprattutto fra i colleghi che seguono la politica italiana c'è spesso un approccio troppo folcloristico».


venerdì 23 maggio 2008

Elenco lezioni Università Chieti-Pescara

Presso Facoltà di Scienze della Formazione:
Corso di Psicologia generale Andrea Masini
All’interno del corso lezioni di
Gioia Roccioletti – Gli affetti
Federico Masini – Il Linguaggio
Daniela Colamedici Il pensiero
Carlo Anzilotti – La psicoterapia
Gianfranco De Simone – l’interpretazione dei sogni nel mondo occidentale e nell’islam
David Armando – evoluzione della parola e del concetto di inconscio venerdì 30 maggio
venerdì 17,00 – 19,00
sabato 9,00 – 11,00

Corso di Ed. ed elementi di Psicologia dello sviluppo - A.M. Zulli
All’interno del corso seminari di .
A.M. Panzera L’età feconda : immagini dell’adolescenza nell’arte
Cecilia Iannaco - Il tedesco tra letteratura e psicologia
Miriam Scarciglia Adolescenti: segni,ferite, espressioni del corpo che dice martedì 20 maggio

Corso di Psicologia del lavoro mediatico - A. Ferrante
Con
Donatella Coccoli – Paola Amicucci – Raffaella Vicario – Jole Natoli – Claudio Spuri

Corso di Psicologia delle Risorse Umane - M.P. Albrizio
All’interno del corso contributi di:
Silvia Pellarin
Giovanni Del Missier venerdì 23 maggio
venerdì 11,00 – 15,00

Presso Facoltà di Psicologia:

Corso di Psicologia dinamica –Gioia Roccioletti
Laurea specialistica
Il colloquio in adolescenza
Elena Pappagallo
contributi di Alice Masillo – Elena Monducci

Seminario su “le prime crisi in adolescenza” – Francesca Fagioli
Venerdì 16 maggio ore 13,00 – 16,00 aula B facoltà di Psicologia
l’Unità 23.5.08
Rifondazione, adesso non si parlano nemmeno più
Accuse pesanti. Ferrara a Mantovani: il partito vive nella società. Giordano: apriamolo a contributi esterni
di Simone Collini


Dire che il clima è pesante, dentro Rifondazione comunista, è dire poco. Persone che fino a poco tempo fa sedevano gomito a gomito in Parlamento hanno smesso di parlarsi. Altri discutono, soprattutto sui blog, e volano parole grosse. Tanto che sul sito di Ramon Mantovani, in coda a un pezzo in cui si attaccava pesantemente Liberazione, il direttore e il giornalista che nei giorni scorsi aveva intervistato Vendola, sono stati cancellati tutti i commenti e bloccata la possibilità di inserirne di nuovi.
È stato poi lo stesso Mantovani, promotore insieme a Ferrero e Grassi della mozione «Rifondazione comunista in movimento», ad agitare ulteriormente le acque nel partito. «In Puglia, Calabria e Campania registriamo un numero di tesserati sorprendentemente alto, e questo a fronte dei dati dell’ultimo anno in cui c’è stato un calo degli iscritti», ha detto l’ex deputato Prc. I sostenitori della mozione Vendola l’hanno letta come una neanche troppo velata accusa di aver gonfiato i tesseramenti proprio nelle regioni dove il governatore pugliese è più forte. E non hanno gradito. «Se fossi malizioso dovrei dire che chi pensa queste cose le fa», dice Francesco Ferrara, «ma poiché sono convinto che tutti quanti dobbiamo aiutare a non sfasciare questo partito, che ha delle risorse importanti, allora non la voglio neanche pensare una cosa del genere».
Però Ferrara, che fino alle dimissioni della segreteria è stato responsabile Organizzazione del Prc, non si capacita di come qualcuno possa lamentarsi di fronte a una crescita del partito: «E poi accusano noi di non volerlo difendere», dice. «L’accusa, se accusa è, è pretestuosa», commenta Ferrara guardando ai dati del tesseramento dell’ultimo biennio (poco sotto i 90 mila iscritti nel 2007, con forte calo di iscrizioni in Emilia Romagna, Toscana, Piemonte e Lombardia, aumento di qualche centinaio di unità in Puglia e forte aumento in Calabria). «Il partito vive nella società. Ci meravigliamo, dopo anni di discussioni sulla questione settentrionale, che nel nord viviamo una difficoltà maggiore? Ci meravigliamo che nel sud, dove si registrano fermenti sociali e una vitalità nei territori che non c’è nel resto del paese, il partito ha un insediamento più solido?».
Ma anche Grassi prende le distanze da Mantovani e punta a smorzare la polemica. «Tesseramenti gonfiati? Non ho elementi per dirlo. Io voglio discutere di politica, delle due opzioni in campo, se vogliamo cioè rilanciare Rifondazione o se, come propongono loro, vogliamo un progressivo superamento del partito».
Giordano quel che propone la mozione Vendola lo spiega così: «Dobbiamo rifondare il partito, ma aprendoci all’esterno, facendolo diventare un centro d’aggregazione di culture diverse, perché se invece decidiamo di rinchiuderci nei vecchi fortilizi li troveremmo deserti». Ma soprattutto, l’ex segretario Prc spera di non dover più sentir parlare di questioni che nulla hanno a che fare con la politica.

l’Unità 23.5.08
Maltrattamenti, conviventi equiparate alle mogli
La Cassazione spiana la strada all’eguaglianza legale per le coppie di fatto. Concia, Pd: «E la politica?»


LA CASSAZIONE spiana la strada per equiparare le coppie di fatto alla famiglia legittima. Come? Stabilendo che alle donne che convivono stabilmente con il part-
ner spetta la stessa tutela prevista dal codice penale, in caso di maltrattamenti subiti dal compagno, alla quale hanno diritto le mogli maltrattate dai mariti.
La sentenza spiega che il reato di maltrattamenti in famiglia si configura anche quando è commesso «ai danni di persona convivente more uxorio». Dicono i supremi giudici: il reato di maltrattamenti in famiglia previsto dall'art. 572 cp deve comprendere nella nozione di famiglia «ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo, ricomprendendo questa nozione anche la famiglia di fatto». Affinché scatti la tutela penale - che prevede l'arresto del partner violento - è sufficiente che gli atteggiamenti violenti e prevaricatori siano nell'ambito di «un rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto». Così Piazza Cavour ha confermato la custodia cautelare per Antonio B. di Torre del Greco, arrestato perché sottoponeva a continue violenze fisiche e morali la compagna con cui viveva da più di 10 anni avendone due figlie. Senza successo ha sostenuto, innanzi ai giudici, che non erano maltrattamenti in famiglia in quanto Vincenza era «una semplice convivente». Ma i giudici gli hanno dato pienamente torto e lo hanno lasciato in custodia cautelare dati i suoi precedenti. tra cui lo stupro di una minorenne.
La sentenza è piaciuta alla deputata del Pd Paola Concia che però ha sottolineato: «La Cassazione registra la realtà, la politica quando lo farà? Da anni - sostiene Concia - la Cassazione dice che le coppie di fatto sono famiglie; e oggi lo ha precisato di nuovo. Il re è nudo, così come le bugie di chi millanta che per famiglia si deve intendere solo quella basata sul matrimonio». La sentenza piace anche a Giovanardi, Pdl, che l’ha letta alla rovescia: «Dimostra che nel nostro ordinamento non ci sono discriminazioni per chi sceglie di non sposarsi. Ragione di più per non attardarsi nello sterile tentativo di introdurre forme di matrimonio diverse da quella prevista dalla Costituzione».
E la Cassazione ieri ha voluto dare un segnale anche su un altro fenomeno sempre più diffuso, quello dello stupro di gruppo. E ha stabilito che riprendere uno stupro con un telefonino rientra nel reato di violenza sessuale di gruppo. Ha così confermato la misura cautelare della permanenza in casa per 5 minorenni, indagati perché, nel febbraio 2006, avevano costretto una ragazza di 14 anni ad avere rapporti sessuali minacciando di divulgare il video in cui si mostravano gli amplessi che la giovane aveva avuto con uno di loro.

l’Unità 23.5.08
Metti un cellulare sul lettino dell’analista
di Fernando Riolo


Della possibilità di rappresentarci a noi stessi abbiamo bisogno per dare un senso alla nostra storia
Dobbiamo interrogarci su alcuni mutamenti che sono sotto i nostri occhi e che ci investono con tutta la loro forza

PSICANALISI & IDENTITÀ Siamo sempre più inabissati in un mondo artificiale e iper-reale. Qual è allora oggi il ruolo dell’analisi? Se ne parla in questi giorni al Congresso nazionale della Società psicanalitica italiana

Ricordo ancora il mio primo sogno in analisi: non perché fosse particolarmente affascinante - si tratta anzi di un sogno ricorrente e anche banale - ma perché ne costituì una mossa d’apertura cruciale: scacco matto in una mossa.
Mi trovavo in Grecia e andavo a visitare gli scavi dell’antica Micene (dove mi ero effettivamente recato nell’estate che aveva preceduto l’inizio dell’analisi); ma questa volta, all’ingresso, mi veniva chiesto di mostrare la mia carta d’identità; e per quanto la cercassi non riuscivo a trovarla. Provavo un sentimento d’angoscia certo sproporzionato.
Ero alla mia seconda seduta: alla prima avevo esordito con l’orgogliosa enunciazione (in greco) del mio programma analitico: gnoti se autòn. Ben più socratico di me, il mio analista si era limitato a tacere.
La psicoanalisi è innanzitutto smarrimento dell’identità. Quel costrutto venne esautorato dalla decisione di Freud di mettere in mora il soggetto fenomenico della coscienza, al fine indagare il suo referente inconscio. Tale indagine fu resa possibile dalla contemporanea messa in mora delle regole di funzionamento del pensiero cosciente e dalla scelta di servirsi della peculiare forma di pensiero che è propria del sogno come «metodo» per indagare l’inconscio: una forma di pensiero che non obbedisce alle leggi della razionalità conoscitiva e comporta dunque la sospensione del principio d’identità anche nel suo statuto logico - per il sogno, infatti, la parte è uguale al tutto, il terzo è incluso, e ogni cosa è anche il suo contrario (A è non-A).
L’idea di identità ne risulterà definitivamente modificata: da questo momento essa consisterà in un gruppo di rappresentazioni prevalenti e solo relativamente stabili, la cui egemonia sullo scenario interno suppone la selezione e l’esclusione delle rappresentazioni rivali. L’Io-sono è di per se una forma vuota, suscettibile di essere variabilmente riempita dalle successive ondate di rappresentazioni e identificazioni - non un ente, dunque, ma il significante scelto di una scena abitata da molteplici significati.
Questo Ich bin, ribadirà Freud, è in realtà un Ich werden, un «Io diviene»; il risultato dell’espulsione di parti di sé e dell’incorporazione di «altro da sé». L’identità procede cioè da uno scambio continuo tra l’interno e l’esterno, da un susseguirsi di inclusioni e esclusioni, che in essa trovano un luogo di integrazione provvisoria. Questo luogo non è perciò da intendere come una coabitazione pacifica di parti in rapporto complementare tra loro; bensì come una pluralità conflittuale e irriducibile, nella quale l’aspirazione all’unità è continuamente sovvertita dall’aspirazione ad esistere delle singole parti. L’Io come Arlecchino, dice Freud, servo di più padroni.
Possiamo parlare ancora di identità? Non possiamo davvero farne a meno. Perché l’identità è uno di quei concetti dannati - come l’essere, la coscienza, il tempo - che sono destinati a sopravvivere alle loro reificazioni come alle loro confutazioni. Appena l’abbiamo demolita come «ente» dobbiamo riammetterla come «rappresentazione»; poiché della possibilità di rappresentarci a noi stessi abbiamo necessariamente bisogno per dare un ordine e un senso alla nostra storia, alla nostra esperienza del mondo.
Io sono il prodotto di ciò che non sono stato, io sono il relitto della costruzione che del mio passato ho fatto. Eppure questo io sono.
Demolire l’identità e riedificarla. Si può dire che la stessa contraddizione si presenta in ogni analisi; che forse tutta l’analisi altro non è che il teatro di quella contraddizione. Dovremmo considerare dunque questa riedificazione il nostro secondo obiettivo? Benché possa apparire del tutto ragionevole e finanche necessario, Freud ebbe il coraggio intellettuale e morale di rifiutarlo: «Abbiamo analizzato il paziente, scrive nel ’18, cioè abbiamo scomposto la sua attività psichica negli elementi che la compongono (…) a questo punto cosa c’è di più naturale dell’esigenza che il nostro aiuto si esprima anche nel far sì che questi stessi elementi si combinino in lui in modo nuovo e migliore? Come sapete, questa esigenza è stata effettivamente avanzata (…) e si è instaurata la tendenza a spostare tutto il peso dell’attività psicoterapeutica su questa sintesi, che sarebbe una sorta di ripristino di ciò che era stato in certo qual modo distrutto dalla vivisezione. Eppure io non posso credere, Signori, che questa psico-sintesi rappresenti per noi un nuovo compito. Se volessi permettermi di essere così franco da essere scortese, direi anzi che è una frase senza senso. (…) Una volta che siamo riusciti a scomporre un sintomo, a liberare un moto pulsionale da un determinato contesto, esso non resta isolato, ma entra subito in un contesto nuovo - e aggiunge: a ben vedere anche nell’analisi chimica si verifica qualcosa di molto simile. Contemporaneamente all’isolamento dei diversi elementi che il chimico riesce a ottenere, si realizzano delle sintesi che non rientrano nelle sue intenzioni».
L’analisi non intende produrre alcunché. Il che non significa che non produca nulla; ma che non intende dirigere il processo terapeutico in funzione di una meta, di un’ideale, o di un desiderio. Non vuole e non può: perché «il processo, una volta avviato, non si lascia prescrivere né la direzione, né la sequenza, ma va per la sua strada».
In tal modo Freud sottraeva l’analisi al dominio dell’ideologia e della morale comune, assegnandole come terapia il medesimo obbiettivo che le aveva affidato come scienza: il riconoscimento disinteressato della realtà e la riappropriazione di questa.
Non c’è, al termine di un’analisi, la mitica promessa di una «nuova identità»; semmai la possibilità di sottrarre la vecchia alla sua forma cristallizzata e riflessiva, che vincola il soggetto entro uno spazio di ripetizione. Nella misura in cui si limita ad attestare il semplice rispecchiamento di sé («a è a»), la forma riflessiva esclude infatti la considerazione dell’alterità: l’altro sé, come pure l’altro da sé.
Tertium detur: ammettere all’esistenza questo terzo è il compito dell’analisi, un compito di riconoscimento, attraverso cui il soggetto inconscio e l’esperienza passata e esclusa rientrano a far parte della vita cosciente e dell’esperienza presente: «non-a» può diventare «a»; non-me può diventare me; Es può diventare Io, e perciò anche Tu. La nascita del soggetto e quella dell’oggetto sono infatti una medesima nascita.
Ma dobbiamo interrogarci su alcuni mutamenti che sono sotto i nostri occhi e ci investono con la loro forza. Ancora, nel secolo scorso, Isaia Berlin poteva imputare alla cultura del romanticismo di aver aperto la strada alle tragiche ideologie del novecento, attraverso l’esaltazione dell’Io, in conflitto con se stesso e col mondo, eppure artefice della storia e del mondo. In quelle ideologie egli vedeva la volontà di potenza del soggetto nel suo dispiegarsi ai popoli e nazioni.
Senza che la presa e l’inganno di tali proiezioni collettive si siano indeboliti - e insieme ad essi la violenza dei fanatismi e dei fondamentalismi - oggi è lo scenario del soggetto che è profondamente mutato. La responsabilità, l’orientamento e il senso ci sfuggono da tutte le parti e non sembra esserci più alcun luogo in cui rifugiarsi, nemmeno in noi stessi. L’identità, come scriveva Baudrillard, sempre più si inabissa, rimpiazzata dai suoi fantasmagorici cloni e simulazioni: realtà visionarie, «second life» artificiali, ma niente affatto virtuali - al contrario, iper-reali: assemblaggi di oggetti, corpi e parti di personalità, forzati alla costruzione di nuove realtà, che da quel momento sono considerate indipendenti e capaci di «azione».
Non si tratta di stabilire se l’identità sia diventata «liquida» - come vorrebbe un’imperante e fin troppo fortunata metafora. Se proprio dovessi fare riferimento agli stati della materia, direi semmai che le sue espressioni attuali sono meglio rappresentate dal solid state delle multipotenti protesi tecnologiche, i nuovi oggetti-feticcio, cui abbiamo devoluto gran parte della nostra dimensione umana (come diceva un personaggio di un film: «se vuoi sapere chi è non guardarla negli occhi, guarda nel suo cellulare». Insomma, il cellulare come porta dell’anima!).
Quello che intendo dire, è che non è questione di metafore; ma proprio del loro contrario: della morte delle metafore, dell’afasia del mondo delle rappresentazioni e dei significati, a vantaggio di un mondo di cose, di facticia, nelle quali il soggetto psichico si riversa e dissolve. Corrispondentemente, non più identità da scomporre e da rompere; ma le loro ectopie, le loro iperboli, i loro feticci.
Ci domandiamo, di tanto in tanto, dove sono finite le nevrosi di una volta? Le nevrosi sono espressione di un mondo che ha come centro la realtà psichica e i suoi significati: il desiderio, il divieto, il conflitto, l’impotenza, la passione, la colpa. Le patologie che ne hanno preso il posto - le psicopatie, le tossicomanie, le bulimie e anoressie - sono espressione piuttosto di un difetto dell’ordine simbolico e di un uso «normalizzato» di produzioni allucinatorie e azioni, il cui fine è l’evacuazione dell’angoscia, ma anche del significato di sé. Poiché il «terrore» è riconoscersi, essere dentro di sé, responsabili della propria vita psichica e delle sue irriducibili contraddizioni.
Potremmo chiederci perciò se il compito dell’analisi debba rimanere lo stesso. La mia risposta è sì; e a maggior ragione: il compito rimane quello indicato da Freud: la rappresentazione attraverso la parola; e cioè la capacità di riprodurre quel mondo di cose e di fatti sul terreno simbolico; di restituire a quei resti il loro significato, di riportare quelle iperboli ai loro centri: in altre parole, al riconoscimento di sé, al dolore di sé e alla tolleranza di sé.

Repubblica 23.5.08
Appena nato, è già clandestino
di Miriam Mafai


Ci sono le leggi e le leggi vanno rispettate. Ci sono paesi nei quali vige lo jus sanguinis. Si è cittadini italiani, ad esempio, solo se si nasce da una donna e un uomo italiano. Ci sono paesi nei quali vige lo jus soli. Si è cittadini francesi, ad esempio, solo se si nasce sul territorio francese. Tutto preciso, tutto regolare come devono essere le leggi sulle quali si basa la nostra convivenza.
Ma cosa succede quando un bambino, ignorando qualunque legge, nasce in mare da genitori emigranti illegali su un gommone carico di altri clandestini? Nella mitologia, nelle leggende, nelle Sacre Scritture ci sono tanti bambini che, appena nati, vengono abbandonati in acqua, sul bordo di un fiume o in mare, nascosti in un cestino. Nella mitologia, nelle leggende e nelle Sacre Scritture, quei bambini abbandonati di solito vengono salvati e una volta adulti, tornano nel loro paese, a guidare il proprio popolo e a fare giustizia.
Il bambino nato su un gommone carico di clandestini è figlio di genitori somali fuggiti da un paese che è in mano alla ferocia di bande armate, un paese che non è più nemmeno uno stato. Fanno parte di quelle migliaia di sventurati che attraversano a piedi un bel pezzo d´Africa per imbarcarsi, forse in Libia, per il nostro paese. Forse il bambino nato ieri su un gommone, in mare, un giorno tornerà nel suo paese a riscattarlo e fare giustizia. Questo, di solito accade nelle leggende e nelle favole. Ma oggi, quale destino attende il piccolo somalo nato in mare a poche miglia di distanza da Lampedusa?
I genitori lo hanno chiamato Abdwahd, che vuol dire fortunato: già il fatto di essere venuto al mondo vivo, di aver potuto toccare un lembo di terra, è segno di buona sorte. Ma il piccolo Abdwhad, nato clandestino, profugo da un paese che sta andando alla rovina, in un continente che si sta dilaniando tra corruzione e lotte tribali, rischia di diventare il simbolo di una umanità senza diritti e senza futuro. Di una umanità affamata, sospetta. E con i suoi genitori ed altri clandestini arriva nel nostro paese nel momento in cui si stanno preparando leggi più severe per il controllo degli immigrati, quelli che già risiedono, legalmente o illegalmente nel nostro paese, e per impedire ad altri di arrivarci, con il loro pericoloso carico di miseria e di rabbia.
Quest´ultimo sbarco illegale ci dice intanto come sono inevitabilmente porose le frontiere di un paese come il nostro che appare sulle carte geografiche come una lunga lingua di terra circondata dal mare, costante miraggio per popolazioni sofferenti e calpestati. Ci dice anche che le leggi, anche le rigorose e generalmente condivise, non potranno mai impedire del tutto sbarchi clandestini e altrettanto clandestini attraversamenti di frontiera.
Questo gruppo di somali arrivati ieri a Lampedusa su un gommone di non più di 8 metri, tra i quali i genitori del piccolo nato in mare, chiederanno probabilmente di avvalersi della particolare legislazione che tutela i richiedenti asilo politico. E´ possibile, è augurabile che l´ottengano. Tra le nuove, più severe, norme annunciate, mercoledì dal governo Berlusconi, in tema di immigrazione, non mi sembrava esserci alcuna revisione delle norme che limitano la concessione dello status di «rifugiato politico». Se riuscirà a ottenerlo, se l´Italia – malgrado il giro di vite, l´introduzione del reato di clandestinità, il "muro" di leggi che sta erigendo simbolicamente intorno alle sue coste – non spegnerà il suo futuro, il piccolo Abdwahd, nato clandestino, potrà dirsi davvero fortunato.

Repubblica 23.5.08
Sotto il segno del gulag
L’intimità tra i dannati di Stalin
Martin Amis parla del nuovo romanzo "la casa degli incontri"


Da un lato un sistema di schiavitù, dall´altro il diritto "rivoluzionario" ad avere rapporti col coniuge persino per i deportati all´inferno
"Due fratelli chiusi nello stesso campo e innamorati della stessa donna"
"Mio padre era un comunista: avrei sempre voluto chiedergli come fosse possibile"

LONDRA. Il salotto di Martin Amis, a Primrose Hill, una «rive gauche» londinese popolata di attori, scrittori, intellettuali, ha l´aspetto post-moderno e geometrico dei suoi romanzi: un divano rosso, una vecchia ottomana, poltrone sfondate, arazzi e quadri d´artista alle pareti, pile di libri ovunque, ma in perfetto ordine, non un granello di polvere, non una sedia fuori posto. Il Gulag sovietico, argomento del suo nuovo romanzo, La casa degli incontri, ora pubblicato in Italia da Einaudi (pagg. 210, euro 17), sembra lontano anni luce. «Ma sembrava ancora più lontano dal luogo dove l´ho scritto, una fattoria affacciata all´oceano, in Uruguay (terra della sua seconda moglie, la pittrice Isabel Fonseca, n.d.r.)», dice l´autore di L´informazione, Cane giallo e tanti altri best-seller internazionali. «In uno scenario così bello, dovevo fare uno sforzo ancora maggiore per calarmi ogni giorno nei panni di una vittima del terrore staliniano». Lo sforzo è servito: la critica inglese e americana lo ha definito il suo miglior romanzo.
Da dove nasce questa storia?
«Da un altro libro, Koba il Terribile, il saggio-biografia che ho scritto su Stalin, per il quale avevo raccolto e letto una mole immensa di materiale. Per la precisione nasce da tre paginette dello splendido studio sul Gulag di Applebaum, in cui l´autore descrive appunto la "casa degli incontri". Mi aveva colpito come una strana confluenza di contraddizioni: da un lato un sistema di schiavitù, dall´altro il diritto per così dire rivoluzionario e leninista in base al quale chiunque, perfino i dannati del Gulag, aveva diritto a un intimo incontro con la propria moglie, una volta ogni tanto. Dopodiché il dannato tornava all´inferno e sua moglie intraprendeva un viaggio di sei settimane attraverso la Siberia per tornare a casa».
E l´idea di trasformare questo tema in fantasia narrativa, quale fu?
«Una visione, di due fratelli, rinchiusi nel medesimo campo, innamorati della stessa donna. Basta molto meno, a un romanziere, per immaginare un romanzo».
A proposito di Gulag, ha letto, naturalmente, l´Arcipelago di Solgenitsyn?
«L´ho letto molti anni fa, con commozione e senso d´orrore, così come Una giornata di Ivan Denisovic, che mi è piaciuto ancora di più come opera letteraria. E poi, sul Gulag, ho letto I racconti della Kolyma di Shalimov, forse il libro più poetico e impressionante, che in certe pagine conduce alle lacrime, in altre al riso o sulla soglia della follia».
Poco fa, parlando del Gulag sovietico, lo ha definito «un sistema di schiavitù». È così che voleva presentarlo nel suo romanzo?
«Sì, anche se il mio romanzo è ambientato, come Ivan Denisovic, dopo la seconda guerra mondiale, e l´orrore del Gulag era inferiore a prima della guerra, agli inizi, al Grande Terrore staliniano. Ma si trattava pur sempre di uno schiavismo orchestrato e diretto dallo Stato. Quelli che criticano la prigione di Guantanamo dicendo che è il sistema schiavistico dell´America non sanno di cosa parlano. Non sanno cosa è stato il Gulag».
Negli ultimi anni i suoi scritti riflettono un disgustato fascino per il comunismo sovietico, per l´Urss.
«È così. Cito lo storico Martin Malia: è difficile immaginare il livello di orrore e dinamismo raggiunti dall´esperimento sovietico. Sistema totalitario è una definizione insufficiente. L´Urss creò un nuovo tipo di essere umano, una specie ambiziosa, arrogante, irreale».
Questa curiosità per l´Urss deriva anche dalla storia privata della sua famiglia?
«Sì. Mio padre (lo scrittore Kingsley Amis, n.d.r.) era comunista. Avrei sempre voluto chiedergli come era stato possibile che quella intollerabile utopia avesse qualcosa in comune con uno spirito libertario, sovversivo, pieno di umorismo, come il suo. Mio padre è morto nel 1995, senza che facessimo veramente quel discorso. Ora lo faccio tra me e me, nei libri».
Lei non è mai stato comunista?
«No. Ero di sinistra, e lo rimango. Ma l´egualitarismo non mi convince come ricetta della felicità. Credo di più nella giustizia, che è un´altra cosa, da coniugare sempre con la libertà».
Uno dei protagonisti del suo romanzo torna in Siberia per ritrovare l´incubo che vi ha lasciato. Il messaggio è che non si può sfuggire al proprio destino?
«E´ più semplice e più assoluto di così. Il messaggio è che non ci si può lasciare mai nulla, nulla di davvero importante, dietro le spalle».
Il Gulag sovietico, secondo lei, si può mettere sullo stesso piano dell´Olocausto?
«Credo di no. Nell´Olocausto c´è una perversione speciale: l´intento di distruggere un popolo, di compiere un genocidio. Anche Stalin ha fatto passare per il Gulag qualcuna delle popolazioni dell´Urss, triturandole, ma non necessariamente con il medesimo intento maligno di Hitler. Ma bisogna anche dire che la commemorazione dell´Olocausto, la sua comprensione, è oggi un valore ampiamente condiviso, perlomeno in Occidente. Non è la stessa cosa per il Gulag sovietico. Se ne sa di meno, se ne parla di meno, lo si indaga di meno. Perciò ho voluto aggiungere il mio piccolo contributo alla materia».
La responsabilità è anche della Russia odierna, che non ha fatto certo molto per commemorare gli orrori del suo Gulag, a differenza di quanto ha fatto la Germania con l´Olocausto.
«Certamente. Sotto Putin, del resto, la popolarità di Stalin come grande leader nazionalista è risalita alle stelle. Se l´America desidera tanto essere amata, e questo è spesso causa di tanti guai nel resto del pianeta, la Russia preferisce essere temuta. Sotto Stalin, indubbiamente lo era. Putin ha cercato di fare di nuovo paura, e in parte c´è riuscito».
Lo spettro del comunismo, tuttavia, non si aggira più per il mondo. Lei negli ultimi tempi ha denunciato con veemenza, in saggi, lezioni universitarie, polemiche, un altro spettro: quello del terrorismo islamico, del fanatismo religioso.
«E´ uno spettro ancora in via di evoluzione. Io credo che in futuro non sarà più solo e tanto un estremismo islamico, religioso, bensì un estremismo fine a se stesso, animato in fondo da sentimenti simili a quelli che stavano dietro alle forme più estreme di terrore di matrice nazista o comunista: l´ossessione con un´astratta purezza, una visione romanticizzata della violenza e del sacrificio, un anelito di immortalità, il desiderio di sentirsi motore della storia. E´ un fenomeno che avrà ancora molte convulsioni, purtroppo, prima di fare il suo corso e, mi auguro, esaurirsi».
Ha mai pensato di scrivere un romanzo sul fanatismo islamico?
«L´ho scritto. O meglio ho cominciato a scriverlo, in questi anni, dopo avere pubblicato una breve novella satirica sull´argomento. Ma dopo molti sforzi mi sono fermato. Non sono pronto. Siamo troppo vicini ai fatti per ambientarvi un romanzo. Le ceneri degli attentati sono ancora calde. E purtroppo ci proveranno di nuovo».
Ma lei è ottimista o pessimista sul futuro?
«Riguardo al terrorismo religioso o come lo si voglia definire, nel lungo termine sono ottimista: è qualcosa che ci può ferire, ma non rappresenta una minaccia in grado di distruggere la nostra civiltà. Riguardo al resto, non c´è molto da essere ottimisti, temo: se penso ai miei figli più giovani, bambini di otto e undici anni, e a me stesso alla loro età, nell´era dorata del miracolo economico post seconda guerra mondiale, il loro futuro è molto più denso di incertezze e preoccupazioni, a cominciare da quelle sul cambiamento climatico, di quello che avevo davanti io».

Repubblica 23.5.08
Un medievista contro il mito della cultura araba
Un professore tutto occidentale
di Tahar Ben Jelloun


Sylvain Gouguenheim sostiene che l´apporto dell´Islam nella trasmissione del sapere greco e latino sarebbe nullo e l´incontro tra le due civiltà impossibile

Ho sempre rifiutato di seguire la paranoia di certi musulmani, convinti che l´Occidente giudeo-cristiano abbia scatenato contro l´Islam una guerra a lungo termine. Guerra, complotti, sabotaggi e ostacoli sulla via dell´espansione di questa religione: una visione piuttosto comune negli ambienti islamisti e diffusa dalle televisioni satellitari del Golfo, che non sta in piedi. Dalla pubblicazione dei Versi satanici di Salman Rushdie al film olandese Fitna, passando per le caricature di Maometto su un giornale danese, tutto viene interpretato come una macchinazione volta a distruggere la «Casa dell´Islam». Di fatto, la realtà è più semplice. A mio modesto parere, non esiste alcuna concertazione planetaria contro l´Islam, ma semplicemente una serie di opinioni diverse e contraddittorie che si manifestano nell´ambito della libertà d´espressione dei Paesi europei. Credere a questa paranoia e incoraggiarla serve solo a ostacolare la riflessione e l´analisi scientifica, oltre che a impedire un dibattito aperto e chiaro. Il fanatismo è innanzitutto il rifiuto del dialogo; è una forma di totalitarismo che rende impossibile ogni scambio di idee.
Eppure in Occidente esiste una tendenza al rigetto dell´Islam e dei musulmani. Dall´11 settembre 2001 quest´atteggiamento si è trasformato in ideologia. La pubblicazione in Francia, nell´aprile scorso, del saggio Aristote au Mont Saint-Michel; les racines grècques de l´Europe chrétienne (Editions du Seuil) dello storico medievalista Sylvain Gouguenheim, professore all´Ecole Normale Supérieure di Lione e specialista delle crociate, ha suscitato una polemica interessante e di buon livello. Molti si sono indignati, soprattutto perché Le Monde, con un articolo di mezza pagina, ha salutato il coraggio di questo storico, elogiandolo per aver posto fine a una leggenda.
Cosa dice Sylvain Gouguenheim? In breve, a suo parere il ruolo dell´Islam nella trasmissione del sapere greco-latino all´Occidente sarebbe un mito. Non gli arabi musulmani, ma i cristiani d´Oriente avrebbero scoperto e trasmesso la filosofia greca all´Occidente. Sempre secondo l´autore, il pensiero arabo-musulmano sarebbe incapace di razionalità, in quanto bloccato dalla pressione e dalla potenza del Corano. Gouguenheim minimizza, e arriva anzi a svalutare l´importanza della produzione intellettuale degli arabi musulmani tra il IX e il XII secolo. E nella sua conclusione supera lo stesso Samuel Huntington (che ha messo sul mercato lo scontro tra civiltà) affermando l´impossibilità di un incontro tra l´Occidente cristiano e l´Islam. Dunque, questo saggio chiude tutte le porte, e a suo modo impugna la bandiera della supremazia occidentale, come ai tempi della conquista coloniale. A tutto questo è sottesa un´ideologia che risponde al fanatismo degli islamisti con un fanatismo non meno radicale. E non è un caso se alcuni estratti di questo libro sono stati pubblicati, nove mesi prima della sua uscita in libreria, su un sito di estrema destra, "Occidentalis", noto per il suo odio contro l´Islam e i musulmani. Questo sito ha una rubrica denominata «islamovigilance», che è una macchina da guerra contro il mondo musulmano. E non a caso il Figaro Littéraire ha tessuto l´elogio del libro, congratulandosi con l´autore e ricordando i paralleli col discorso sull´Islam del papa Benedetto XVI.
A fronte di questa negazione storica, alcuni medievalisti seri hanno risposto a Sylvain Gouguenheim. C´è chi lo ha preso in giro, come il filosofo Alain De Libera; mentre Julien Loiseau e lo spagnolo Gabriel Martinez-Gros hanno dimostrato la scarsa consistenza delle sue tesi. Vi sono stati dibattiti violenti anche su Internet. La cronaca dello scrittore Pierre Assouline, pubblicata sul suo blog, ha suscitato più di 400 commenti. Tutti dicono che non si può comprendere Aristotele senza il suo commentatore Averroé, o si chiedono cosa sarebbe l´Occidente oggi senza Cordova e il suo apporto alla cultura universale.
Riconosciamo tutti il ruolo svolto in quest´opera di trasmissione da Giacomo da Venezia e dai monaci dell´Abbazia di Saint-Michel. Nessuno afferma che l´Europa debba tutto all´Islam. C´è però una cosa che emerge chiaramente da questa polemica: nulla viene risparmiato all´Islam. Dopo la sua assimilazione al terrorismo, dopo il travisamento di questa religione da parte di politici senza scrupoli, dopo l´effetto sull´immaginario di uno slogan come quello dello «scontro tra civiltà», siamo di nuovo in presenza di un´impresa di negazione e falsificazione, rilanciata da siti noti per la loro islamofobia.
Meglio allora leggere il libro di Juan Vernet Ce que la culture doit aux arabes d´Espagne ("Ciò che la cultura deve agli arabi di Spagna"), un libro di incontestabile serietà (pubblicato nel 1978 in Spagna e nel 1985 in Francia per i tipi di Actes-Sud Sindbad). Qui almeno troviamo solo fatti: null´altro che storia, senza traccia di ideologia.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Repubblica 23.5.08
Sempre più tristi tropici
Lévi-Strauss compie cento anni
di Antonio Gnoli


È soprattutto un grande libro sulla desolazione umana secondo Lévinas, il più ateo dei libri
L´antropologo trascorse diversi anni nel Mato Grosso e scrisse un libro unico, assoluto

Quando nel 1934 Claude Lévi-Strauss si imbarcò dal porto di Marsiglia, destinazione le foreste del Brasile, circolava un film che alla giungla aveva innalzato una monumentale metafora di tutte le paure che un mondo altro e arcaico suscitano nell´uomo occidentale. King Kong uscì nelle sale cinematografiche nel 1933 e, come tutti sanno, narra di un re spodestato dal suo regno e portato in catene nella scintillante New York. Lo scimmione è un sovrano sui generis che incute terrore tra gli indigeni dell´isola, fino a quando un manipolo di bianchi immaginano di ricavarne un grande spettacolo: tanto più pittoresco ed efficace quanto più l´immagine del grande gorilla risulterà teatralmente terrificante. In fondo ciò che l´Occidente, nelle sue componenti più ciniche e affaristiche, ha sempre saputo gestire è la paura. Sia che si tratti di un sentimento nato da una finzione, sia che sgorghi dai segreti meandri della realtà, la paura - moneta che circola abbondantemente nei giorni nostri - è un motore formidabile che alimenta immaginario e potere, i loro lati oscuri, notturni, impenetrabili. Ma soprattutto disorientanti.
Lévi-Strauss trascorse diversi anni nelle foreste del Mato Grosso. Vi giunse nel 1935 e ripartì nel 1939. Su quell´esperienza lasciò per anni calare il silenzio. Non una parola che ricordasse le difficoltà, i rischi, i timori, che gli incontri con civiltà indigene, remote e incontaminate gli avevano procurato. Poi, quindici anni più tardi, decise di raccontare quello che aveva visto e vissuto. E ne venne fuori Tristi Tropici, un´opera unica. Assoluta, come possono esserlo quei libri senza precedenti veri. Nasceva con pochi ingredienti: lo sguardo rivolto al concreto, il rispetto per le cose viste e, soprattutto, il talento narrativo. Giacché alla fine quel libro che comparve la prima volta nel 1955 era soprattutto un grande romanzo.
Lévi-Strauss (il grande vecchio compirà cento anni a novembre, si sono tenuti convegni sulla sua figura e altre celebrazioni sono previste in Francia e in Italia) scrisse Tristi tropici in quattro mesi. Il libro nasceva da urgenze diverse: il divorzio dalla prima moglie, la bocciatura al Collège de France, il progetto - vago, seducente e poi abortito - di scrivere un romanzo che avesse come protagonista una specie di truffatore europeo che circuisce gli indigeni della foresta amazzonica. Non so se davvero Lévi-Strauss si sentisse alla pari di un mestatore occidentale pronto a carpire la buona fede del selvaggio, di sicuro c´è che Tristi tropici è attraversato da un singolare senso di colpa, che lo spinge a raccontare, con nostalgia e realismo, un mondo che sarebbe sparito. In certe pagine egli non esita a mettere sotto accusa il mestiere dell´etnologo, condizionato da un´ambiguità che mina, almeno in parte, la legittimità scientifica della ricerca sul campo. Da un lato egli indaga le regole che governano le relazioni di parentela, la forza del mito, la logica del pensiero selvaggio; dall´altro è consapevole che ogni intervento, anche il più neutrale, può risultare devastante per la realtà che si intende indagare. È la ragione per cui odia viaggiare. Lo dichiara fin dall´inizio. Tristi tropici si apre con un´affermazione sconcertante: «Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni».
L´odio è un sentimento tagliente e pericoloso. Va maneggiato con cura. E le prime righe del libro sono rivelatrici di qualcosa che prima di allora si trova, in maniera così esplicita, solo in un altro autore: Jean-Jacques Rousseau. Entrambi condividono lo stesso subbuglio psichico, il medesimo impeto e sdegno. Rousseau non odia i viaggi, ma odia tutto ciò che è civilizzazione. Il peso di quell´odio bilancia l´amore che nutre per l´innocenza perduta, per quello stato di natura che, con qualche sforzo di immaginazione, potremmo vedere abitato dalle tribù dei Bororo, dei Nambikwara, dai Tupi Kawahib che Lévi Strauss visita, fotografa, filma, racconta.
È uno sforzo immane quello a cui l´etnologo si sottopone in quegli anni, segnati da fatiche, privazioni, pericoli e dalla convinzione che un mondo opposto per stile e sostanza all´Occidente stia lentamente morendo. Ai suoi occhi il Brasile è un paradigma della storia mutevole, del passaggio dal fugace splendore di alcune città alla loro decadenza, dalla ricchezza della terra alla desolazione dei frutti. Quel mondo, che descrive con raro talento narrativo, è condannato alla sparizione. E il fatto di ricordarne così ossessivamente la decadenza, gli appare un modo sinistro di speculare sulle altrui miserie: di accelerarne la fine. Considera Tristi tropici un´opera di corruzione del lavoro dell´etnografo. Resta colpito dalle considerazioni che Baudelaire svolge sull´impressionismo e Manet in particolare. E le adatta alle proprie convinzioni. Non è che gli impressionisti non sapessero dipingere, ma essi cercavano l´illusione di un´arte spontanea. La stessa illusione è convinto si celi nella sua narrazione: ciò che vede è davvero dettato dallo sguardo dello scienziato o è puro colore di superficie?
Si è presi da una certa spossatezza nella prolungata lettura di Tristi tropici. Il lettore è sopraffatto dalla lussureggiante messe di dettagli, dalle esperienza improvvise, dalle imprevedibili deviazioni sull´India e le caste, sul buddismo e l´Islam. Ma a uno sguardo più attento si avverte che sotto quel caos di emozioni e di avventure, regna un ordine nascosto, un sapere che fa appello alle semplici regole dello strutturalismo. Nonostante ciò egli considera Tristi tropici un libro impudente, scritto più con le passioni del cuore che con quelle della mente. Alla fine del libro ci si imbatte nell´omaggio a Rousseau che egli considera il più etnologo tra i filosofi. Frainteso, dileggiato, disprezzato, Rousseau è stato il modo in cui l´Occidente ha provato a leggere e capire il cuore dell´altro senza oltraggiarlo. Naturalmente, per il ginevrino quel cuore era la prova che l´Occidente si sarebbe potuto salvare solo a patto di lasciarselo trapiantare. Una tale prospettiva non era priva di equivoci e pericoli. Ovvero di tentazioni totalitarie, nate nel nome di una civiltà interamente trasparente.
Può mai esistere una società perfetta? Qui le strade di Rousseau e Lévi-Strauss divergono. Le culture, le civiltà, i mondi religiosi si possono confrontare ma non sovrapporre, men che meno sommare. Nessuna società agli occhi del grande antropologo è interamente bene o male. Possiamo prendere degli aspetti, amarne alcuni e detestarne altri. Non possiamo realizzarne una sintesi. Possiamo solo renderci conto della loro intrinseca caducità. Tristi tropici è soprattutto un grande libro sulla desolazione umana.
Colpiva a tal proposito un giudizio del filosofo Emmanuel Lévinas che per definire l´ateismo moderno si richiama al capolavoro levistraussiano: «L´ateismo moderno», scrive Lévinas, «non è la negazione di Dio, è l´indifferentismo assoluto di Tristi tropici. Penso che sia il libro più ateo che sia stato scritto nei nostri tempi, il libro più disorientato e disorientante». Che cos´è che colpiva in maniera così acuta il filosofo francese? Credo la mancanza di senso - sia della storia, sia del soggetto che in teoria dovrebbe esserne il portatore - che circola in Tristi tropici. Non a caso l´opera fu letta anche come un attacco all´esistenzialismo e in particolare a Jean-Paul Sartre.
«Il mondo», si legge alla fine di Tristi tropici - «è cominciato senza l´uomo e finirà senza di lui». Siamo i privilegiati del pianeta. Solo perché l´arroganza, la forza, il gusto estremo della competizione ci hanno collocato in quel posto che ci illudiamo di poter difendere con lo scudo e la lancia della volontà di potenza. Abbiamo detronizzato la natura, e le sue componenti. Costruito città e imperi. Viviamo in società sempre più complesse, sorrette da equilibri precari. «Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all´uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso». Dopotutto Lévinas non aveva torto nel cogliere la profonda e disorientante visione che Lévi-Strauss coltiva della vita umana. Una visione che non ci appaga né ci consola. Ci fa sentire impotenti. Ed è la medesima frustrazione provata nell´assistere alla caduta di King Kong dall´Empire State Building. Nella foresta ipermoderna di Manhattan non c´era più spazio per la natura e per il sacro. Tristi tropici ci racconta la stessa lancinante estromissione. Le nostre vite artificiali che Rousseau detestava in maniera profonda, immaginando improbabili alternative, Lévi-Strauss le coglie come il destino più intimo e rovinoso di quel soggetto che abbiamo chiamato uomo.

Corriere della Sera 23.5.08
Diritti Bufera per una proposta del partito dell'ex premier. «Si torna a Hitler»
Belgio, l'«eutanasia per incapaci mentali»
di Margherita De Bac


Etica e malattia Il progetto apre anche ai pazienti che non hanno espresso il consenso in precedenza

Polemica in Belgio per quattro proposte di legge che, se approvate, consentirebbero, in caso di malattia incurabile, di praticare l'eutanasia anche su persone «mentalmente incapaci» e sui minorenni. Promotore dell'iniziativa è il partito liberaldemocratico fiammingo. Ma chi si oppone parla di un ritorno ai metodi del nazismo.

BRUXELLES — Prima proposta: lasciar morire, o meglio uccidere con un'iniezione o con una manciata di pastiglie, un paziente che sia «mentalmente incapacitato». Seconda proposta: lasciar morire o uccidere anche, sempre per sottrarlo al dolore di una malattia non più controllabile, chi per la legge è minorenne, troppo giovane per decidere da solo. Questo ed altro chiedono 4 progetti di legge — presentati dal partito liberaldemocratico fiammingo — che stanno dividendo ancora una volta il Belgio cattolico: prevedono cioè che l'eutanasia, già legalizzata dal 2002 per i maggiorenni e a determinate condizioni, possa essere estesa legalmente anche ai minori — come già avviene in Olanda — e ai «dementi», cioè a persone che non siano in grado di intendere e di volere per effetto di una incurabile forma di demenza.
Stando agli oppositori dell'idea, soprattutto a quelli dell'area cattolica, si tratta poco meno che di un ritorno al «T4», il piano per l'eutanasia di massa messo in cantiere da Hitler subito prima della guerra. Stando ai sostenitori, le ideologie naziste non c'entrano proprio nulla: si vorrebbe solo combattere la condanna della sofferenza inutile, e offrire a tutti la possibilità di una «morte con dignità». Sostenitori e oppositori sono disposti in file trasversali, si trovano più o meno in tutti i partiti. Ma a firmare i 4 progetti di legge sono i liberaldemocratici dell'Open Vld, il partito dell'ex primo ministro Guy Verofstadt e anche il primo partito in vaste zone delle Fiandre. Il clima politico è già appesantito dalle tensioni etnico-linguistiche, e in tema di eutanasia non si è ancora spenta l'eco della morte di Hugo Claus, lo scrittore che ha scelto la «dolce fine» pur di non arrendersi al morbo di Alzheimer: secondo il quotidiano fiammingo De Standaard, dalla morte di Claus sono raddoppiate le richieste di eutanasia in tutto il Paese.
Ma Claus, appunto, era ancora in possesso delle sue facoltà mentali. Quelli di cui oggi si discute sono casi probabilmente molto diversi. Per un «mentalmente incapacitato», si dice, potrebbe comunque far testo una sua volontà espressa in precedenza, e la decisione del medico dovrebbe sottostare alle stesse condizioni previste oggi: che la malattia sia grave e incurabile; che le sofferenze «fisiche o psichiche» siano «costanti, intollerabili e non sedabili»; e che vi sia stata, appunto, una richiesta «volontaria, ripetuta e libera da ogni pressione esteriore ». Ma se quest'ultima richiesta non vi fosse stata, se l'incapacità psichica — o anche l'età troppo giovane del paziente (o tutt'e due, nel caso di ragazzi gravemente handicappati) — l'avesse resa impossibile? Basterebbe l'accordo del medico con i parenti stretti del paziente? Qui c'è una zona opaca, di ambiguità giuridica, in cui si concentrano le polemiche. In Olanda, questi ostacoli sono stati aggirati da una legge che permette l'eutanasia per i ragazzi dai 12 ai 16 anni purché vi sia il consenso dei genitori o dei tutori; e per quelli di 16-17 anni, anche senza questo consenso (ma dietro richiesta del ragazzo, naturalmente).
In Belgio, finora, si è sempre proceduto con il sistema della «notifica a posteriori»: una volta accertate le condizioni prescritte, il medico somministra la «dolce morte», o iniettando dei farmaci o «aiutando» il paziente a prenderli per bocca. Poi, entro 4 giorni dalla morte, avverte la Commissione cui spetta il giudizio finale. E lo fa con un modulo scaricabile anche da Internet, poiché la burocrazia imbriglia pure la morte.

Coscioni: «In casi limite si può dire di sì»
ROMA — Maria Antonietta Coscioni, il diritto all'eutanasia deve valere anche per chi non è in condizioni di intendere e di volere e non ha espresso le proprie volontà di fine vita?
«La volontà della persona è la base di ogni ragionamento, una condizione essenziale — dice la deputata radicale del Pd —. Nessuno può decidere per un altro. A meno che...».
A meno che?
«Se la sofferenza psicofisica è irreversibile e la malattia mentale porta inevitabilmente alla fine si può prendere in considerazione che la scelta ricada su una persona diversa dal malato. Ma occorrerebbe valutare una serie di fattori, il contesto di vita, l'ambiente familiare e soprattutto individuare una figura che decide per conto del diretto interessato».
Dunque la proposta di legge belga la convince?
«Credo che una legge non possa prevedere i casi limite. Noi come associazione Coscioni privilegiamo la manifestazione di volontà. Il pittore Claus l'aveva chiaramente espressa e in situazioni del genere l'eutanasia è ammissibile purché, ripeto, sia indicata nel testamento biologico».

Corriere della Sera 23.5.08
L'eccezionalità genetica dell'ornitorinco. Massimo Piattelli Palmarini replica a Giorgio Bertorelle
La teoria dell'evoluzione e il (defunto) darwinismo
di Massimo Piattelli Palmarini


Il Presidente della Società italiana di biologia evoluzionistica, Giorgio Bertorelle, («Corriere» del 21 maggio) usa nei miei riguardi un veleno non molto meno acre di quello degli speroni dell'ornitorinco, la specie australiana di mammiferi monotremi oggetto del nostro contendere. Uno solo dei suoi molti veleni merita un antidoto, per cortesia verso i lettori.
Definisce la mia posizione un anti-darwinismo «all'italiana », evidentemente ignaro del mio ventennale, e ancora perdurante, soggiorno accademico negli Stati Uniti e delle svariate critiche al darwinismo ortodosso espresse, tra altri, da eminenti evoluzionisti americani, inglesi e tedeschi come Richard Lewontin, Gregory C. Gibson, Andreas Wagner, Gabriel Dover, Eric Davidson, Stuart Newman, Michael Sherman, Gerd Mueller, Marc Kirschner e la lista potrebbe continuare. Sono tutti biologi con credenziali scientifiche inattaccabili, tutti perfettamente materialisti, tutti indefettibilmente tesi allo sviluppo di una teoria dell'evoluzione biologica naturalistica.
«All'italiana», detto da Bertorelle, penso significhi qualcosa come provinciale, di seconda mano, più di un tantino becero. Di questo dovrebbe scusarsi non con me, che poco mi importa, ma con la scienza italiana, se non addirittura con tutti gli italiani. Sostiene che i processi biologici da me citati nell'articolo (duplicazioni geniche, mutazioni di geni maestri con effetti subitanei su molti tratti distinti, moltiplicazioni di cromosomi sessuali) sono «noti da tempo a tutti e interamente compatibili con la moderna teoria dell'evoluzione ». Auspico siano noti a lui da tempo e certo lo sono a molti biologi, ma il grande pubblico non ne sa niente, mi creda, e non solo in Italia. Certo che sono «interamente compatibili con la moderna teoria dell'evoluzione » perché sono essi stessi la moderna teoria dell'evoluzione, come da me esplicitamente sostenuto in quell'articolo.
L'errore di Bertorelle, grave, è confondere e generare confusione nei lettori tra la moderna teoria dell'evoluzione, sacrosanta, e il darwinismo, ormai largamente defunto. Sarebbe come far credere che qualsiasi analisi delle cause economiche profonde dei fenomeni sociali sia ipso facto un'analisi marxista. L'economista e storico francese Florin Aftalion, per esempio, è un anti marxista, che ha recentemente pubblicato un esauriente studio delle cause economiche della rivoluzione francese. La teoria darwiniana dell'evoluzione è perfettamente naturalistica, ma non ogni teoria perfettamente naturalistica dell'evoluzione è darwiniana. Lascio la parola a Darwin stesso: «Se si potesse dimostrare l'esistenza di un qualsiasi organo complesso e l'impossibilità che esso sia stato formato da piccoli, numerosi, successivi cambiamenti, allora la mia teoria collasserebbe assolutamente». I Bertorelle di questa terra non prendono sul serio il loro eroe. Lui non anticipava, come invece fanno loro, che le molte meraviglie della biologia degli ultimi venti anni potevano venire «integrate » nella sua teoria, che la sua teoria sarebbe stata confermata nell'essenziale da quanto oggi sappiamo.
Sono molti anni che le scoperte della genetica e della biologia dello sviluppo hanno fatto «collassare assolutamente » la teoria darwiniana, proprio nei termini precisati dallo stesso Darwin. Sarebbe l'ora di prenderne atto, aprire la mente a teorie naturalistiche più interessanti smettendo di agitare il vieto vessillo darwiniano per proteggersi da immaginari assalti alla razionalità scientifica.

Corriere della Sera 23.5.08
L'Italia delle sette. Ora rischiano gli adulti
Gli adepti: laureati, disposti a spendere
di Gaia Piccardi


A me gli occhi, la mente, il cuore, il portafoglio. E, a volte, la coscienza. Sono un milione e mezzo (circa il 3% della popolazione), più donne (64%) che uomini, più adulti (64%) che adolescenti ma senza distinzione di reddito, livello d'istruzione e classe sociale, gli italiani a rischio setta.
In un'Italia di anime perse, la setta — di qualsiasi oscurità essa si nutra (il 49% sono psicosette, il 15% pseudo- religiose, il 18% magiche e il 18% predicano spiritismo e satanismo)— esercita un fascino che era giudicato molto pericoloso già nel 1998, alla vigilia del Giubileo e del nuovo millennio: dopo due anni di indagini, il Dipartimento di Pubblica sicurezza consegnò al ministero dell'Interno un dossier di 100 pagine (il 10% delle quali dedicato a Scientology) che conteneva la descrizione di 34 nuovi movimenti religiosi e 36 movimenti magici capaci di «provocare una completa destrutturazione mentale negli adepti, conducendoli spesso alla follia e alla rovina».
Quel rapporto, oggi, è superato sia nei numeri che nei contenuti. Ne è sintomo la creazione, nel dicembre 2006, della Squadra antisette (Sas). Ma è soprattutto attraverso le voci dei protagonisti che il fenomeno delle sette in Italia assume aspetti inquietanti. Maurizio Alessandrini, presidente dell'Associazione nazionale famigliari delle vittime (Favis), viene da un'esperienza personale durissima, un figlio oggi 32enne sparito da otto anni nel vischio velenoso di un gruppo di preghiera capeggiato da una pranoterapeuta che avrebbe dovuto aiutare la madre a trovare sollievo da una grave malattia. «La setta non si presenta mai per quello che è — racconta —, si manifesta per risolvere i tuoi problemi e poi approfitta delle tue difficoltà».
Il Favis è nato a Rimini nel 2000 quando Alessandrini ha capito che il problema non era solo suo: «Ora siamo dodici persone che lavorano a tempo pieno, incontriamo istituzioni e politici, rispondiamo a coloro che ci chiamano parlando la stessa lingua di chi ci segnala un caso. Abbiamo riempito un vuoto, perché quando cadi nel baratro non sai a chi rivolgerti ». I due cellulari sul sito Internet, spesso, sono il primo passo per arrivare a Roma, negli uffici della Sas: «La collaborazione è totale». Sessanta contatti nel 2007. Già 6-7 al mese quest'anno (+25%). «Chiamano i genitori per il figlio, il fidanzato per la fidanzata, i nonni per il nipote. L'attenzione sul fenomeno è cresciuta». E l'identikit del soggetto-tipo, radicalmente cambiato. Tutto, spesso, comincia nell'illusoria innocenza di un corso. Tipo: sviluppa le tue potenzialità nascoste. «Il minimo comune denominatore tra le vittime — spiega don Aldo Bonaiuto dell'Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, l'unica che ha un numero verde antisette occulte attivo sul territorio (800228866) — è un certo livello di disagio provocato da un lutto, una malattia, un abbandono, una crisi personale o economica». C'è chi pensa di non arrivare a fine mese, chi ha perso fiducia nella medicina tradizionale e si avvicina a santoni e guaritori, ci sono minori abbandonati a se stessi e adulti che, semplicemente, non reggono la solitudine. «Ma è sbagliato pensare che sia soprattutto la gente semplice a cadere nella rete dei criminali. Ormai le sette colpiscono in modo trasversale: il 70% dei nostri casi (1.290 nel 2007, ndr) riguarda persone istruite e laureate, disposte a spendere soldi per migliorare la propria condizione psichica o fisica».
Don Aldo è un'autorità in materia: sovente viene chiamato per decifrare simboli, ed è capace di cogliere un segnale di rischio anche da un dettaglio. Gli adolescenti, per esempio, che a scuola si tagliano braccia e gambe con il temperamatite: un autolesionismo dietro il quale si può nascondere un rito d'iniziazione. «Siamo di fronte a una società sempre più fragile, le relazioni non durano, ai ragazzi si regala il motorino ma non si trasmettono valori, la gente cerca risposte ovunque...». E le sette rispondono. Con strumenti fasulli. L'illusione del potere, dell'autostima, della conquista. A quale prezzo? Rinunciando a se stessi e al proprio potere. Pensare che la setta sia irresistibile è profondamente sbagliato. Se si decide di entrare, si può scegliere di uscirne.
«Sono entrata in Scientology per tirar fuori mia figlia e sono rimasta intrappolata. In otto anni ho dato alla setta 1.840.000 dollari. Ci ho messo tre anni per liberarmene». Maria Pia Gardini, cugina di Raul, sul suo viaggio di andata e ritorno negli inferi della coscienza ha scritto un libro (I miei anni in Scientology, edizioni Paoline) che è costretta a presentare scortata dalla polizia. «L'informazione è fondamentale, anche se a rischio non sono solo i giovani: Scientology è piena di manager, industriali e celebrità».
La religione, se non hai il dono della fede, è una conquista. La setta un doping con effetto immediato. «In Italia c'è una forte tradizione devozionistica — aggiunge don Aldo —. Si va a caccia del personaggio, dei simboli, delle foto, degli oggetti...». I mesi più fertili sono gennaio, febbraio, marzo («Perché il calendario satanico prevede molti riti») e ottobre, quando si avvicina Halloween e i cimiteri si popolano di esaltati. «Banalizzare, attribuendo questi episodi al folklore di qualche scalmanato, è sbagliato — dice don Aldo —. L'umanità è confusa, bombardata da messaggi che depistano. I turbamenti dell'anima e dello spirito sono sempre più frequenti. E in Italia ci sono ancora molta ignoranza e zero informazione: tutti sanno cosa sono droga e prostituzione. Pochi sanno cosa sono le sette».
A mettere ordine nel magma incandescente ha provato il Gruppo di ricerca e informazione socio-religiosa (Gris), associazione privata di cattolici che si è costituita nel 1987, puntando i riflettori sul satanismo e contando in Italia circa 500 sette con 3 mila seguaci, in rapida crescita soprattutto tra i giovanissimi. Al telefono antiplagio del Gris, dal '94 a oggi, sono arrivate oltre 1.500 segnalazioni. Impossibile, invece, un monitoraggio esauriente sul satanismo virtuale su Internet: si sarebbe passati dai 114 gruppi nel '99 ai 322 nel 2000, ai 500 odierni. La scomparsa del reato di plagio, abolito nell'81 dalla Corte Costituzionale, di certo non ha favorito l'individuazione delle sette sataniche, che inseguono il reclutamento attraverso tecniche di lavaggio del cervello. Secondo Giuseppe Ferraris, segretario nazionale del Gris, è appropriato parlare di «impegni di fede di bassa qualità che vengono offerti scontati, all'interno di un mercato in cui si tende a trattare la religione come un qualunque altro prodotto, che se non soddisfa più può essere facilmente sostituito».
Lorita Tinelli, presidente del Centro ricerche abusi psicologici (Cesap), è la psicologa che l'anno scorso ha aiutato la Digos di Bari a sgominare Arkeon, psicosetta con oltre 10 mila adepti in tutta Italia. «Ho visto persone annullare il proprio sé mettendosi nelle mani di un guru. Le sette, ormai, soddisfano i bisogni di ogni età ed estrazione sociale: scordiamoci lo stereotipo dell'adolescente imbambolato ». Nel 2007 al numero fisso del Cesap sono arrivate seimila richieste di aiuto. Seimila anime che hanno sussultato al richiamo della coscienza. Venderle in saldo alle sette al discount delle fedi è il compromesso più basso al quale si possa scendere.

il Riformista 23.5.08
Per Todorov il reato di clandestinità è assurdo e incivile
Il potere degli scrittori minacciati
«Viviamo in democrazie "fragili" di fronte agli integralismi. Ma le preferisco agli stati totalitari»
di Luca Mastrantonio


Tzvedan Todorov oggi partecipa alla tavola rotonda sul tema «Il senso in-civile della scrittura», organizzata dal Premio Mondello città di Palermo, che domani gli conferirà il premio speciale della giuria, per La letteratura in pericolo . In un'intervista con il Riformista , sui rapporti tra letteratura, società e politica, il filosofo si dichiara fortemente contrario al considerare reato la clandestinità.
In Europa ci sono degli scrittori fisicamente in pericolo, minacciati da integralismi religiosi, politici e antistatali: Rushdie, Pamuk e Saviano. È un segno di potere della letteratura o di debolezza politica?
Preferisco le democrazie "fragili", che non sono in grado di controllare tutti gli elementi della vita pubblica, agli Stati forti, gli Stati comunisti o fascisti, in cui non si può proferire alcuna minaccia. Naturalmente, bisogna proteggere chi viene minacciato, ma mi sembra che, fortunatamente questo è stato il caso sia di Rushdie che di Pamuk (ed eccoli due buoni esempi di scrittori immersi nella vita della loro epoca). Dobbiamo però anche riconoscere che queste minacce rappresentano un omaggio involontario al potere stesso della letteratura: se gli individui non fossero interessati o attenti, questa sarebbe la prova che la letteratura non conta più nulla.
L'Europa, confusa tra radici cristiane, frutti illuministi e contaminazioni islamiche, dove la fede vuole prevaricare lo stato, sembra alla ricerca di un'identità forte e chiara che non trova.
L'Europa nasce dall'incontro di diverse culture, la sua identità risiede proprio nel modo in cui ha fatto vivere insieme le differenti identità locali. È dall'Illuminismo, in effetti, che abbiamo preso coscienza di questa forza derivata dal pluralismo. Questa idea, questo contributo, dei Lumi è la cosa più importante per il raggiungimento della nostra identità (europea). Sul rapporto tra stato e fede, penso che ognuno abbia il diritto di praticare la religione in cui crede, ma lo spazio pubblico deve restare sotto il governo delle leggi e delle regole democraticamente stabilite.
Con i nuovi flussi migratori c'è chi ha paura dello straniero, anche se è comunitario, e chi semplicemente vuole che vengano rispettate le leggi per chi arriva da un altro paese. In Italia si vuole istituire il reato di clandestinità.
Lo straniero non è né un criminale né un barbaro. Lo straniero è qualcuno che ci mette in gioco, perché non sappiamo quello che ci riserva la vita. È legittimo che uno Stato voglia controllare le sue frontiere, ma dopo che le persone abitano in un paese per anni e lavorano, hanno dei figli che vanno a scuola, mi sembra assurdo espellerle perché sono entrate nel paese illegalmente. Quanto ai criminali, li troviamo tanto tra gli autoctoni quanto tra gli immigrati.
Torniamo al tema del suo saggio. Quali sono i pericoli che corre la letteratura?
Vi sono in effetti due pericoli di natura piuttosto differente. Uno è quello di cui parlo nel mio libro, che viene da una sorta di panorama interno alla letteratura stessa, ed è legato ad una concezione troppo ristretta, limitata, asfittica della letteratura. Una visione diffusa tra alcuni critici, sia tra coloro che insegnano sia tra gli stessi scrittori. Ciò deriva dal separare artificialmente la letteratura dal comune mondo degli umani. Oltre a questo, c'è un altro pericolo, ben più grande ma del quale non ho mai parlato poiché lo conosciamo molto bene: quello che viene dagli altri media, dall'importanza che le distrazioni assumono nelle nostre vite, dalla commercializzazione crescente di tutta la nostra esistenza. Pertanto, mentre tutti parlano di "pericolo", personalmente non penso che la letteratura sia minacciata e che possa scomparire: corrisponde, infatti, ad un bisogno vitale dell'essere umano.
In Francia, Italia e in Germania ha destato grande scalpore il romanzo di Littell, «Le benevole». In molti hanno aggiornato il quesito se sia possibile fare poesia dopo Auschwitz, con la liceità - o meno - di fare fiction sulla Shoah.
La letteratura può essere rivale della storia, perfino una rivale vittoriosa, e non trovo questo deplorevole. Come già diceva Aristotele, la letteratura è più generale della storia perché rappresenta il verosimile piuttosto che il vero. Per dare un esempio di ciò, basta leggere le parole di Vasily Grossman sui campi tedeschi e sovietici, che valgono tomi e tomi di descrizione storica. Non vedo, dunque, cosa ci sia di sconveniente nel mettere prima la narrazione letteraria. E non so perché si ripete tanto questa citazione di Adorno: fortunatamente, la poesia esiste anche dopo Auschwitz, altrimenti sarebbe stata una terribile vittoria di Hitler.
Che tipo di rapporti dovrebbero intercorrere tra scrittori e critici, tra scrittura e vita, tra industria culturale e società civile?
Prima di tutto, credo che non si debba tentare di dare consigli agli scrittori, ancora meno ordini. Una letteratura che non scaturisce dal fondo dell'esperienza di colui che scrive rischia di non avere un gran peso (valore). Ma si può descriverne un ideale. Vorrei che la letteratura si apra alla vita sociale in tutte le sue sfaccettature, che non si imponga delle frontiere artificiali. Lei (la letteratura) deve aiutarci a comprendere gli uomini e le donne del nostro tempo, che vuole anche dire comprendere gli uomini e le donne di tutti i tempi, e attraverso di loro comprendere noi stessi. Ma sta agli scrittori trovare le trame narrative e lo stile che ritengono più adeguato. Quanto ai buoni e cattivi esempi, preferisco lasciare questo compito ai giudici dei premi letterari, i miei gusti personali non hanno una grande importanza.
Nei suoi ultimi interventi, lei ha criticato il "nouveau roman" e la deriva anti-umana di quel tipo di narrativa. Che bilancio bisogna trarre da quel periodo fecondo di riflessioni ma avaro di belle opere, dove l'oggetto ha preso il sopravvento sul soggetto, la riflessione sulla vita, e i segni hanno vinto i sentimenti?
Senza fare mia questa interpretazione del nouveau roman, spero che la facciamo finita con i suoi concetti e precetti che mutilano l'immagine stessa della letteratura. Secondo me, lo studio della linguistica (dei segni) è essenziale; per questo ci si deve interessare allo stesso modo al contesto come alla struttura, semplicemente non dobbiamo dimenticare che questa è una risorsa, un mezzo e non un fine.
A proposito di fini e mezzi, sempre più politici, in Italia come in Francia, pubblicano romanzi, poesie e racconti, anche per accrescere la propria popolarità. In Italia il caso più eclatante è l'ex sindaco di Roma, Walter Veltroni, leader dell'opposizione. È segno di buona o cattiva salute "pubblica" per la letteratura?
Non conosco gli scritti di Veltroni, ma credo che essere un politico non rappresenti un ostacolo a diventare scrittore, né essere chimico o medico. Semplicemente, la vera letteratura richiede la presenza per intero (totale dedizione) di colui che scrive, e dunque se si ha una professione principale, bisogna essere consapevoli che è necessario organizzarsi e ricavarsi dei momenti in cui consacrarsi completamente a questa altra attività, la scrittura.

PROGRESSISTI? COLERA. PAROLA DI TONI NEGRI
Repubblica — 28 marzo 1994 pagina 3 sezione: ITALIA
PARIGI - "Attenzione. Se Berlusconi è la peste, gli altri sono il colera". Così si è espresso in un' intervista l' ex leader di Autonomia ed ex deputato radicale Toni Negri trasferito in Francia per sottrarsi al carcere nell' 83. Al francese "Globe Hebdo", l' ex rivoluzionario Negri ha parlato bene non solo del Cavaliere ma anche di Alleanza nazionale, paragonata all'area di Chirac piuttosto che a quella di Le Pen. Anche per la Lega ha avuto parole d' apprezzamento: "Incarna la piccola e media industria del Nord che ha fatto dell'Italia degli anni 70 una grande potenza industriale". Ma le parole migliori Negri le ha riservate per il leader di Forza Italia: "E' riuscito a fare alleare le due destre popolari, smussandone i tratti folcloristici, sulla base di un'ideologia radicalmente liberale". Quanto alla sua dichiarazione di voto, l'ex deputato radicale ha ricordato di vivere da un decennio in Francia. "Non saprei chi votare - ha dichiarato - se dovessi (e potessi)". Una sola cosa è certa. Delle tre componenti "antiprogressiste" ha già detto. Tutto il resto, per lui è "colera".

E adesso Toni Negri commenta l'Ave Maria
Repubblica — 12 marzo 1999 pagina 27 sezione: CRONACA
ROMA - Dalla lotta armata alla Madonna. Da "cattivo maestro", guru degli anni di piombo - super inquisito al processo "7 aprile" per aver teorizzato il "partito" della P38 - a recensore dell'Ave Maria e di uno dei personaggi più affascinanti e controversi della Bibbia, Giobbe. E' il cammino, tortuoso e, all' apparenza, incomprensibile, del professor Toni Negri, l'ex leader di Potere Operaio e Autonomia, attualmente in regime di semilibertà nel carcere romano di Rebibbia dove sta finendo di scontare una condanna per insurrezione armata contro lo Stato. Toni Negri - annuncia a tutta pagina il quotidiano cattolico Avvenire di ieri - "dalla fine del 1997 scrive gratuitamente articoli per una rivista di spiritualità". E' una delle grandi firme di Riparazione mariana, trimestrale delle Serve di Maria Riparatrici, le religiose che hanno, tra l' altro, in cura le anime dei detenuti e delle detenute di Rebibbia. Tra le tematiche affrontate finora dal professore sul periodico religioso, un commento alla più popolare preghiera mariana, "L'Ave Maria di chi soffre e lotta", "Dio Padre: pane e perdono", "Cosa vuol dire per me il nome dello Spirito Santo": tematiche dal profondo significato umano e religioso che l'ex leader di Potop affronta con sorprendente naturalezza, come un consumato teologo. Conversione? Ritorno alla antica fede cattolica? Il professor Negri non risponde. Lascia cadere. Lo stesso giornale edito dalla Cei (Conferenza episcopale italiana) evita di entrare in simili interpretazioni, preferendo ricordare solo le origini cristiane di Negri, radici successivamente abbandonate a favore della ideologia marxista e operaista, sfociata in seguito nel "verbo" della lotta armata. "Non ho nulla da dichiarare in proposito", fa sapere il professore tramite la sua compagna interpellata telefonicamente nella loro abitazione romana. "Non ho nulla da dichiarare, ma non è una novità - dice Negri - anzi, presto ripubblicherò Il lavoro di Giobbe". E questa è un' altra notizia che rafforza, ulteriormente, il "ritorno" al sacro del professore. Il lavoro di Giobbe è un libro - edito dalla Sugarco nel 1984 - nel quale Negri - nel pieno della latitanza - fece una sua originale lettura del personaggio della "pazienza biblica" per antonomasia: Giobbe, il signore ricchissimo che nel racconto biblico cade in disgrazia, viene depredato, costretto a stare sul letame, ma che non si stanca mai di pregare, pazientemente, Dio. Giobbe, il ricco decaduto che era solito rispondere a chi lo prendeva in giro per le sue preghiere con un secco: "Dio ha dato, Dio ha tolto, sia benedetto il nome del Signore...". Anche se Negri non preferisce parlare di conversione, è per lo meno singolare che ora voglia "rileggere" un personaggio biblico così complesso. Come è altrettanto singolare leggere sulla rivista delle suore di Rebibbia frasi del tipo "gratto nella mia coscienza arrugginita...e in certi momenti duri della mia vita, nel pericolo fisico o nella disperazione, mi sono trovato a recitarla - l'Ave Maria - perché?...". Oppure, nell'articolo sul Pater Noster, "Dio è pane e perdono: quali figli di Dio, a noi è data la capacità di estendere carità di pane e di perdono di colpe a tutti gli altri fratelli...". Parole lontane anni luce - nota il giornale dei vescovi - da quello stesso Toni Negri autore delle celebri "Trentatrè lezioni su Lenin..." e che "proclamò l' ebbrezza del calarsi il passamontagna sul volto". - di ORAZIO LA ROCCA