sabato 19 dicembre 2009

Repubblica 19.12.09
D´Alema: gli inciuci a volte sono utili
D´Alema elogia l´"inciucio" "Lo fece Togliatti con la Chiesa"
"Serve alla convivenza". Attacco alla cultura azionista
di Giovanna Casadio

ROMA - La possibilità di un accordo con Silvio Berlusconi su giustizia e riforme divide il Pd. Ieri Massimo D´Alema ha ribadito che «gli inciuci a volte sono utili». Contrari ad un´intesa con il premier che preveda una leggina ad personam sull´immunità Dario Franceschini e Rosy Bindi. Ma le polemiche invadono anche il Pdl: ieri il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha regalato del Valium al direttore de il Giornale Vittorio Feltri, che ha ribattuto: «Gli manderò del vino bianco perché il rosso lo annebbia».

«Certi "inciuci" farebbero bene al paese». In nome della realpolitik, Massimo D´Alema rilancia il confronto tra Pd e Pdl. Non sono le polemiche a fermare l´ex ministro degli Esteri, che l´altra sera, nel "caminetto" dei leader democratici riunito dal segretario Bersani, aveva già messo sul tavolo il suo punto di vista. Con un paio di battute, ieri - durante la presentazione del libro "Comunisti immaginari" di Francesco Cundari - torna sulla questione dell´apertura a Berlusconi e al centrodestra, sulle riforme a cominciare da quella della giustizia. E tanto per fare un esempio di "inciucio", ricorda l´articolo 7 della Costituzione sui rapporti tra Stato e Chiesa votato dal Pci di Togliatti nell´Assemblea costituente.
«I comunisti italiani hanno sempre dovuto difendersi da questo tipo di accuse - ricorda D´Alema - C´è sempre stato qualcuno più a sinistra, una cultura azionista che ha sempre contestato questo, da quando Sofri accusa Togliatti di non volere fare la rivoluzione, dall´articolo 7 in giù che è stato il primo grande "inciucio"... ma questi "inciuci" sono stati molto importanti per costruire la convivenza in Italia, oggi è più complicato, ma sarebbero utili anche adesso. Invece questa cultura azionista non ha mai fatto bene al paese...». I dirigenti comunisti, precisa, «hanno avuto un ruolo di educare i cittadini», e di nuovo cita Togliatti e la diversità dei comunisti italiani. Dal fronte dalemiano arriva la contrarietà di Nicola Latorre alla «delegittimazione giudiziaria del premier: avendo vinto Berlusconi le elezioni, deve governare questo paese fino a fine legislatura».
Bersani, però, ribadisce che la barra è dritta: il Pd non voterà mai leggi "ad personam" per aiutare il premier a uscire dai suoi guai giudiziari. Strada che nel partito non troverebbe consensi: contraria la presidente Rosy Bindi («La maggioranza ha i numeri per approvare le leggi che ritiene, non chieda avalli a noi»), come Piero Fassino («Attenti a non cambiare rotta») e il capogruppo alla Camera, Dario Franceschini. Tanto che il responsabile giustizia, Andrea Orlando accusa Di Pietro di mistificare. Il leader di Idv infatti aveva definito «senza senso la proposta di D´Alema» di una leggina pro Berlusconi che «i suoi stessi elettori boccerebbero; è scandaloso solo pensarlo; è come dire che piuttosto che essere colpiti da uno sparo è meglio essere accoltellati». Replica Orlando: «È incredibile che Di Pietro impieghi gran parte del suo tempo per attaccare il Pd. La nostra posizione sul cosiddetto legittimo impedimento è chiara: siamo contrari. Quindi una polemica pretestuosa contro D´Alema, il quale ha utilizzato semplicemente un paradosso».
Il Pd sembra diviso sul dialogo. Da Oscar Luigi Scalfaro, padre costituente, ex capo dello Stato, cattolico democratico, parte uno spunto di riflessione per il centrosinistra: «Non sono per nulla contrario all´ipotesi di un provvedimento che dia una tutela al premier a condizione che non ci sia danno a terzi». Scalfaro è stato anche magistrato. Osserva: «Tale provvedimento però non deve sospendere i termini per la chiusura dei processi». Un intervento a tutto campo quello del presidente emerito: sulle elezioni anticipate («Sarebbero da evitare, perché sciogliere le Camere sono interventi traumatici, una patologia seria»); sullo sfidante di Berlusconi («Rosy Bindi avrebbe l´intelligenza e la grinta per sconfiggere

Agenzia Radicale 19.12.09
Per D’Alema chi attenta la democrazia è la cultura azionista
di C.P.

Aspettavamo Mikail Santoro per sapere chi fossero i mandanti dell'attento a Silvio Berlusconi: ci ha rifilato la solita, stantia minestra riscaldata, del filosofo Umberto Galimberti per il quale chiunque in qualisiasi momento può aggredire fisicamente un altro essere umano. La ‘non violenza' anche verbale per Galimberti non fa parte dell'essere umano, perché simile alla tigre o alla pantera. Ma oggi ne sappiamo di più: i mandanti dell'attentato e della democrazia italiana sono gli 'azionisti', vale a dire quella nobile, onestissima, disinteressata, lungimirante cultura azionista fatta di gente come Riccardo Lombardi, Vittorio Foa, Ferruccio Parri, Gaetano Salvemini, Piero Calamandrei, Ernesto Rossi, Emilio Lussu, Leo Valiani, Tristano Codignola, Carlo Arturo Jemolo, Ugo La Malfa e tanti altri illustri politici, che rischiarono la propria vita contro l'orrendo nazifascismo, che vollero a fecero la Repubblica Italiana laica, che fino alla fine si opposero a qualsiasi 'inciucio' con la Chiesa!
A svelare l'arcano del mandante è stato l'ineffabile 'baffino' Massimo D'Alema che proprio oggi ha testualmente detto: questa cultura azionista non ha mai fatto il bene del paese! Meriterebbe di esser giudicato dallo stesso ‘Tribunale Speciale' del ventennio che condanno' a morte migliaia di partigiani e che fece morire in carcere, complice il Pcus, Antonio Gramsci, 'un cervello che non deve pensare' disse Benito e quindi andava eliminato, anche per il Pci. Questa cultura azionista non violenta si oppose all'art. 7 della Costituzione con cui Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi elevarono a norma costituzionale in nome della ‘riappacificazione nazionale' i Patti Lateranensi del 1926 tra Mussolini, Uomo della Provvidenza, e Pio XI.
Patti Lateranensi che per Gramsci avrebbero significato "la capitolazione" dello Stato perche' poi "costretto a perseguitare" chiunque non si fosse riconosciuto nella religione di Stato, quella cattolica, come sancito dai Patti. Non contento di ciò, il Migliore, per anni al sicuro e al caldo nella residenza russa di Stalin, mentre in Italia si lottava corpo a corpo contro il fascismo e il nazismo mettendo a rischio la propria vita, o in Spagna si difendeva a Repubblica e tanti anarchici furono uccisi dal Kgb russo con la complicita' di Togliatti, sbarcato a Napoli, era pronto a fare il governo con il fascista Pietro Badoglio. Poi nel 1945 fece saltare il Governo di quel 'coglione' di Ferruccio Parri, quindi come ministro della Giustizia emano' nel 1946 il decreto di amnistia controfirmato da De Gasperi con cui Pci e Dc si divisero il bottino del ventennio: magistrati, giornalisti e intellettuali nel Pci, Repubblichini di Salò (come Ciarrapico e Sbardella) nella Dc.
E i torturatori dei partigiani, i giudici che mandarono a Ventotene Pertini, Terracini, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli e tanti altri, gli estensori dell'orrendo Manifesto della Razza che definiva gli ebrei un popolo da sterminare, furono liberati dal Migliore. Non soddisfatto dell'opera nefasta, proseguì a ingannare milioni di persone con il mito dell'Urss, patria del socialismo realizzato... con i gulag, e non si fermo' neanche di fronte all'invasione dell'Ungheria da parte dei tank sovietici: tirò fuori la 'balla' dei controrivoluzionari pagati dall'Occidente!!
Poi venne il compromesso storico di Enrico Berlinguer, e con la 'fermezza' dello Stato l'omicidio di Aldo Moro! Ah, dimenticavo. Togliatti ebbe un figlio, Aldino che oggi e' un numero, quello della stanza di una clinica privata di Modena dove e' internato da decenni per schizofrenia. E una figlia, seguace di un ebreo che non fu mai perseguitato dai nazisti i quali però ne apprezzarono l'opera psicoanalitica: si chiamava Sigmund Freud che chiamò Mussolini 'Eroe della Cultura'.
Ma quell'azionista pericoloso di Riccardo Lombardi se la cavò con una piccola battuta: "Non perdo neanche un secondo a leggere qualsiasi libro di chi ha definito Mussolini 'Eroe della Cultura: per me è stato l'Eroe della Cultura della Morte'. Ne' tanto meno condivise la famigerata legge 180 del compagno Franco Basaglia: scelse i tormenti, le perplessità, i dubbi atroci di Mario Tobino di chiudere sici et simpliciter i manicomi.
Costui diceva, "mi si dia del reazionario, del servo del potere ma la differenza tra me e Basaglia è che io la malattia mentale l'ho vista e la vedo, lui dice che non esiste". Ci vogliamo aggiungere cosi' tanto per far cultura che il Pci, non tutto per la verità, considerò e considera Sartre e Foucault, Heidegger e Basaglia, grandi maestri del pensiero umano e che l'Ingegnere socialista ex-azionista bollo' le loro tesi come 'aberranti'?
Perché? Ma perché negavano totalmente la realtà dell'essere umano che non ha solo bisogno di casa, salario, auto, televisore, frigorifero, ma di esser liberato dall'alienazione sul lavoro e da quella religiosa, avere la possibilità di disporre di tempo libero per se, per studiare Dante e Omero, per apprezzare Picasso, per fare l'amore.
Accade che bisogna riscrivere la storia: buttare giù dalla torre i falsi padri della Repubblica che non furono ne' Togliatti ne' De Gasperi, come i falsi padri della psicoanalisi che non fu Freud e il freudismo che non e' mai esistito, come i falsi maitre a penser che non sono stati Sartre e Foucault che giustificava la pedofilia, ne' Heidegger e nemmeno Basaglia. La cultura azionista e Lombardi a modo loro, per i tempi, non certamente facili e semplici, gli anni '30 e '40, dominati dalle ideologie della Morte (Fascismo e Nazismo), gli anni '50 e '60 dominati dal mito dell'Urss, e gli anni '70 dal Sessantotto finito nella droga e nella P38, qualcosa di sporco avevano intuito.
E Lombardi d'istinto disse 'No' a quest'inganno. Fece del suo meglio avendo accanto una donna straordinaria Ena Viatto che a tredici anni chiuse con la religione "noiosa e deprimente", mando' a quel paese Togliatti, divorziò dal comunista Li Causi perché innamoratasi di un Ingegnere non comunista, ma amico degli antifascisti...
E questa donna, chissà perché, nessuno mai l'ha voluta ricordare, le ha mai dedicato qualche riga di giornale o dieci secondi di televisione...A differenza di quel che pensa e dice 'baffino' della cultura azionista non violenta e libertaria, liberale e laica, antidogmatica e socialista ce ne e' ancora tanto ma tanto bisogno, non degli ‘inciuci' catto-comunisti', ai quali la ‘non violenza' non è mai appartenuta.

Corriere della Sera 19.12.09
Nel Pd Franceschini riunisce i suoi a Cortona: sulle riforme niente pasticci
«Certi inciuci farebbero bene» D’Alema incalza i democratici
di Alessandro Trocino

CORTONA — «Certi inciu­ci farebbero bene al paese». Massimo D’Alema si riferi­sce a «inciuci» di rango, co­me l’articolo 7, oggetto del Concordato. E aggiunge: «Sa­rebbero utili anche oggi. Questa cultura azionista non ha mai fatto bene al Paese».

Il termine «inciucio», pro­nunciato a Roma, rimbalza a Cortona, dove si riunisce per la prima volta Area Democra­tica, che fa capo alla mozio­ne di Dario Franceschini. Per la leggina sul legittimo impedimento, D’Alema ave­va parlato di «riduzione del danno», ovvero di «male mi­nore » rispetto al processo breve. Tutti provvedimenti che Area Democratica vede come il fumo negli occhi. Pa­olo Gentiloni: «Non scambia­mo il fumo delle parole sulle riforme con l’arrosto del le­gittimo impedimento». E Da­rio Franceschini: «Sulle rifor­me non vogliamo pasticci». Oggi ci sarà il rinnovato no all’«inciucio» di Walter Vel­troni, che avverte: «Si parla troppo dei processi ai poten­ti » .

Michele Salvati traccia in apertura l’identità di Ad: no alla tradizione «esaurita» del­la socialdemocrazia, «ruolo significativo» agli elettori non iscritti, difesa del bipola­rismo. Pina Picierno entra nel vivo: «La divergenza fon­damentale con la maggioran­za del Pd è sulla giustizia. No a compromessi sulla legali­tà ». Debora Serracchiani: «Sulla giustizia non dobbia­mo balbettare. Dobbiamo di­re no a qualunque legge ad personam salva premier». Parole diverse dal dalemia­no Nicola Latorre che si dice contrario alla «delegittima­zione giudiziaria del pre­mier ». Piero Fassino, invece, da Cortona mette in guardia dal rischio che si cerchi di ba­rattare «una riforma della giustizia con le riforme isti­tuzionali ». «L’ubi consistam del Pd — aggiunge Sergio D’Antoni — deve restare la vocazione maggioritaria e la comprensione di tutte le cul­ture » .

Anche Area Democratica ha diverse anime al suo inter­no. Beppe Fioroni vorrebbe tenerle ben vive: «Dobbia­mo alimentarle, non soppri­merle. Non ci sto a un parti­to nel partito, ma dobbiamo trovare le nostre affinità elet­tive. Intanto i popolari non li sciolgo». Franco Marini vor­rebbe mantenerli trasversali alle mozioni e per questo non è venuto a Cortona. Fio­roni aspira a una «dirigenza plurima» dentro Ad, con nes­suna struttura e nessun por­tavoce. Nei prossimi mesi potrebbe invece nascere un ufficio politico, con i rappre­sentanti delle sub correnti, e uno speaker. Come soluzio­ne di sintesi, si parla del vel­troniano Giorgio Tonini.

Corriere della Sera 19.12.09
Il caso In un video montate immagini per dimostrare la teoria dell’«autoattentato»
Su Internet la «tesi del complotto». Pdl e Pd: assurdo
di Monica Guerzoni

ROMA — Si intitola «L’aggressione a Ber­lusconi una montatura?», è partito da You­Tube e sta facendo il giro del web, diven­tando il vessillo del partito del complotto. Cioè il fronte di chi pensa che la tragedia delle Torri gemelle sia nata in seno alla Ca­sa Bianca e che, allo stesso modo, Massimo Tartaglia sia stato assoldato da Palazzo Chi­gi. La tesi dell’autoattentato va alla grande, su Internet. Dove si sfida il senso del ridico­lo parlando dei fatti di piazza del Duomo come di un «11 settembre all’italiana».

Il video più gettonato, rilanciato da Face­book e visto in poche ore da trecentomila utenti, è stato realizzato montando le im­magini di Rainews 24 e va rimbalzando dai siti giustizialisti a quelli dei movimenti, sca­tenando migliaia di commenti e gettando legna sul fuoco dell’antiberlusconismo. L’aggressione del Duomo non sarebbe, in­somma, che una «manipolazione mondiale per prendere il controllo di Internet». Il fil­mato è diviso in due parti, dura circa otto minuti ed è corredato da musica thriller e infografiche in rosso. L’autore, che non si rivela, utilizza il fermo immagine col dichia­rato intento di portare a galla i «piccoli e grandi particolari», i «dubbi» e le «incon­gruenze » che tormentano i radical anti-Sil­vio. Perché il sangue, invece di sgorgare fluido e abbondante, appare «magicamen­te coagulato»? Cos’è il «misterioso» ogget­to che uno dei body-guard tiene in mano all’interno dell’auto? Non sarà mica una «bomboletta che spruzza sangue finto»?

Tutte «scempiaggini», prende nettamen­te le distanze Beppe Fioroni, responsabile Welfare del Pd. «Ma smettiamola... Se la ri­produzione del Duomo lo colpiva sulla tem­pia il premier poteva morire — e qui Fioro­ni parla da medico —. Ma quale complotto! Il confronto politico rimanga nell’ambito della saggezza». Intanto però, un click do­po l’altro, il filmato che sprona «spegnete la tv accendete il cervello» irretisce miglia­ia di sostenitori. «Questo video mostra la verità!!! — scrive su YouTube MrBrasco80 —. Non facciamo gli ipocriti!!! E la camicia piena di sangue che hanno detto al tg dove sta?». Fake407 invece non ci crede e raccon­ta che a lui hanno rotto il naso con un pu­gno, «ma neanche una goccia di sangue».

Il video arriva dopo l’affondo del presi­dente del Senato Renato Schifani contro i social network, paragonati ai gruppi extra­parlamentari degli anni ’70. E certo non è sfuggito all’entourage del presidente del Consiglio.

«Ho visto qualcuno di questi video — conferma Daniele Capezzone — e siamo di­nanzi a qualcosa che definirei microterrori­smo ». Non sarà troppo? «Io ci vedo la stes­sa furia ideologica di chi usa la violenza, ma in più la miseria di fare tutto nella pro­pria stanzetta, negando l’evidenza e illuden­dosi perfino di fare un’inchiesta — attacca il portavoce del Pdl —. Vigliacchi, falsifica­tori e illusi». Se non parlassimo di «una co­sa drammatica» Capezzone si metterebbe a ridere: «Si lamentano perché Berlusconi sanguinava poco, se siamo arrivati a que­sto punto...».

Repubblica 19.12.09
Berlusconi sul Pd «Sono un simpatizzante»
L’altolà dell'opposizione Pd "Niente scambi sulla giustizia"
E Marini dice addio al cartello degli anti-Bersani
di Umberto Rosso

CORTONA - Parola d´ordine: niente inciuci dalemiani sulle riforme. Dario Franceschini tiene a battesimo la prima riunione di Area democratica, chiamando a raccolta tutta l´opposizione interna al Pd, e lancia l´altolà della corrente: «Non vogliamo pasticci. E non li voteremo». E così se D´Alema, o lo stesso Bersani, avessero in mente di aprire la porta al legittimo impedimento, ovvero a qualche altro «scambio» con Berlusconi, sono avvisati: un terzo del partito, in nome del milione di voti raccolti dal segretario sconfitto alle primarie, non ci sta. Si dà appuntamento per la prima volta a Cortona il cartello degli anti-Bersani - franceschiniani, fassiniani, popolari, veltroniani, parisiani - e decide che è arrivato il momento di mettere radici, di darsi una struttura e un nome preciso. In arrivo un sito web e si pensa in prospettiva perfino a un quotidiano della corrente. «Senza pensare di mettere in piedi però - precisa Beppe Fioroni - un partito nel partito».
Nella componente si confrontano infatti i «fusionisti», fra le varie anime, e i «federalisti». Ma intanto si mette a punto la ragione sociale di tutta la ditta. L´anti-inciucismo. Perché, come mette in guardia Piero Fassino, «il confronto sulle riforme da 20 anni nel nostro paese non ha prodotto altro che o una crisi di governo o elezioni anticipate». E in questo momento non si intravedono proprio, secondo la minoranza del Pd, segnali che possano far presagire una sorte diversa ad un tavolo di trattative. Anzi. Il pericolo, denuncia Paolo Gentiloni, è che «ci sia uno scambio fra l´arrosto del legittimo impedimento e il fumo della riforma elettorale».
Il sospetto che circola forte, nelle fila di Ad, è che dietro la mano tesa sulla giustizia ci siano manovre in corso per una nuova legge elettorale, l´amo indispensabile nei progetti dalemiani per agganciare Casini. Pronti ad alzare le barricate, allora. Perdendo, su questa linea, qualche pezzo. Franco Marini si è chiamato fuori. In uno scontro duro, l´altra sera nel caminetto di partito, con l´ex pupillo Franceschini. «Le riforme vanno fatte, anche il lodo costituzionale Alfano». E giù un nuovo attacco alla Bindi e allo stesso Dario per la presenza al No B day. Replica del figlioccio di un tempo: «Di riforme piuttosto io farei quelle economiche, per far star meglio gli italiani». Dalla parte dell´ex presidente del Senato, soprattutto, Violante e Latorre. Bersani media fra le anime interne, sì alle riforme ma non quelle ad personam, sì a Di Pietro ma anche a Casini, e nessun confronto sulla legge elettorale prima delle regionali: il partito sul nodo è diviso, e le spaccature avrebbero conseguenze negative sulla campagna di marzo.
Una frenata che l´opposizione apprezza ma il segretario «centrista», secondo Franceschini e soci, avrà un bel da fare se davvero si apre il tavolo. Anche perché da Cortona partono siluri anti-Casini, si denuncia il rischio di subalternità all´Udc. L´ex presidente della Camera, ironizza Sergio D´Antoni, ex segretario della Cisl, «ci fa sapere che se Berlusconi lo maltratta ancora sarà costretto a fare il leader del Pd. E la Bindi informa che lei preferirebbe però che il capo del nostro partito lo scegliesse il partito». E se Marini dice addio, ecco il ritorno di Veltroni, che stamattina parlerà a Cortona, dopo aver superato una fase di gelo con Franceschini. I due si sono incontrati, è arrivato il chiarimento. Walter pensava che la corrente potesse avere un diverso coordinatore (visto che Dario fa il capogruppo) ma per il momento non sono previsti nuovi portavoce. Uniti nel nome dell´anti-inciucio. Come il no all´appoggio esterno del Pd alla giunta Lombardo.

Repubblica 19.12.09
L’assedio al Pd tra il Bene e il Male
di Carlo Galli

Una nuova, elementare teologia politica sembra stia sostituendo il discorso pubblico democratico nel nostro Paese. Tutte le forme del conflitto politico e dell´antagonismo sociale sono in via di sparizione.
Non ci sono più il concorrente, l´avversario, il nemico esterno, ovvero i simboli in cui prendono corpo le tipologie di lotta (economica e politica) che possono trovare posto e legittimazione nella moderna civiltà liberale, e nella nostra Costituzione. È in via di trasformazione anche la figura novecentesca del nemico interno, ideologico, da osteggiare perché portatore di una visione del mondo che non può trovare collocazione nel nostro stesso spazio politico. Ormai, la politica viene spiegata attraverso un apparato categoriale estremo e rudimentale al contempo, come il confronto mortale tra Amore e Odio.
Questa suprema semplificazione – che ha in realtà radici tanto nelle fiabe e nel repertorio popolare antico e moderno quanto nelle cupe fantasie del pensiero controrivoluzionario, o nella bruciante denuncia del totalitarismo di Orwell in 1984 – non appare oggi nella politica italiana, ma ne è diventata l´epicentro dopo l´aggressione milanese a Berlusconi. Il crimine di uno squilibrato – un atto che è ovvio punire penalmente, come è ovvio solidarizzare umanamente con la vittima – è stato ed è utilizzato per bollare come criminale l´opposizione al premier; una immotivata e folle avversione personale è stata promossa a emblema della lotta politica contro le politiche della maggioranza, il cui potere è stato definito Bene, e Male ciò che vi si oppone. Oltre la criminalizzazione dell´avversario, siamo alla sua demonizzazione, alla squalificazione non solo etica ma anche ontologica. La dimensione giuridica – che fa sì che un reato sia un reato, mentre una critica è una critica: illecito il primo, lecita la seconda – è risucchiata e annichilita in una teologia manichea che si propone come chiave di lettura onnicomprensiva della dinamiche politiche: tutto si confonde con tutto, tutto deriva da tutto, tutto conduce a tutto; il pensiero e l´azione si trovano sul medesimo piano, inesorabilmente inclinato verso l´abisso: verso il sangue, la violenza, il terrorismo anarchico. Non ci sono distinzioni ma solo gradazioni nel Male: è Male il semplice opporsi al Bene, in qualunque forma ciò avvenga. La metafora del clima (il "clima di odio"), oggi vincente, lo dice: il clima è appunto l´insieme dei fenomeni atmosferici e anche la generica predisposizione verso una certa loro tipologia (clima buono o cattivo). Con una simile concettualità si può rendere chiunque responsabile di qualunque cosa, o almeno si può sostenere la possibile pericolosità, diretta o indiretta, di ogni comportamento non conforme. Le leggi che limitano la libertà di espressione, i provvedimenti speciali, pendono minacciosi sugli oppositori. Ma tutto ciò è Bene, è la forza dell´Amore.
Del Male c´è però una speranza di perdono: si chiama dialogo, collaborazione parlamentare per rifare la Costituzione. Dissolve il clima di odio e assolve da molti peccati. Il piccolo prezzo da pagare per l´indulgenza, la penitenza dopo tutto mite a cui l´opposizione si deve assoggettare, è di collaborare (o almeno di non ostacolarle efficacemente) ad alcune leggi volte a garantire l´impunità personale al premier (dal legittimo impedimento al Lodo Alfano costituzionalizzato) e il controllo della magistratura all´esecutivo (la separazione delle carriere e la "riforma della giustizia"). Se ciò non avverrà, se il Pd non saprà essere "autonomo" e presterà ancora orecchio alle lusinghe di Satana (Di Pietro, Repubblica), la reazione sarà durissima: il Male sarà condannato senza remissione, e l´intero sistema giudiziario sarà spazzato via dal "processo breve", che non sarà difficile, per chi controlla tutte le televisioni, presentare come giusta risposta all´esigenza di rapida giustizia che accomuna tutti gli italiani.
Non si è tratteggiata una caricatura; e del resto non c´è nulla da ridere. La situazione italiana è davvero questa: la costruzione mediatica di un´egemonia culturale pressoché incontrastata, o comunque subìta, dispiega tutta la propria potenza per creare un mondo artificiale che deve far velo a quello reale, che deve negare l´evidenza, ossia l´esistenza di un´Italia non di destra e non berlusconiana, e neppure terrorista o incline alla violenza, di una società che si sforza di essere libera e che dispiega le proprie capacità critiche in un pubblico dibattito, e quindi anche attraverso i giornali (alcuni) e le case editrici (alcune). L´obiettivo è evidente: delegittimare la base sociale e intellettuale dell´opposizione, tagliare i ponti fra la società e il palazzo, intimidire le forze che costituiscono la linfa vitale del Pd, in modo che questo, nella sua attività politica, sia sempre più isolato nella sua condizione di minoranza parlamentare. E questo isolamento, questo allontanamento dall´opinione della sua base, dovrebbe essere chiamato "autonomia".
Certo, la pressione sul Pd è davvero enorme: se cede verrà punito alle elezioni regionali, in favore di Di Pietro; se resiste rischia di produrre gravi lacerazioni al proprio interno. Eppure è in questo crinale che si deve dispiegare un´azione politica forte: che è non cercare di parlare d´altro (dei "veri problemi degli italiani", come se rifare la Costituzione in queste condizioni e con questi prezzi non fosse un problema di tutti), ma appunto parlare delle medesime cose di cui parla la destra, criticandole e demistificandole senza timidezze. Di fornire una contro-interpretazione della vulgata corrente sul Bene e sul Male, e di provare a inserirsi nuovamente nel discorso pubblico, senza rassegnazioni e anzi con la volontà di rovesciarne i termini. Di affermare la critica contro i miti, la ragione contro le fiabe, la forza della democrazia liberale contro la paura e contro i rischi di una democrazia "protetta".


Repubblica 19.12.09
L’odio e l’amore non fanno politica
di Giovanni Valentini

Una dote necessaria è il coraggio civile e il coraggio di dire la verità.
(da "Conversazioni notturne a Gerusalemme" di Carlo Maria Martini – Mondadori, 2008 – pag. 110)

Nella forsennata campagna di denigrazione e intimidazione contro il nostro giornale e il nostro Gruppo editoriale, rilanciata dalla "Guardia del Presidente" all´indomani della barbara aggressione di Milano, emerge platealmente il tentativo di criminalizzare il dissenso e la critica per imporre il silenzio-stampa a tutti gli oppositori, una sorta di black-out mediatico, sulle vicende e sulle responsabilità politiche. Ma c´è una domanda fondamentale che non trova una risposta ragionevole né convincente: perché mai noi dovremmo "odiare" Silvio Berlusconi? Qual è il motivo che giustificherebbe un tale sentimento contro il presidente del Consiglio?
Si dice: Berlusconi è stato considerato fin dall´inizio un "corpo estraneo". Lui rappresenta l´anti-politica. E dunque, l´establishment, la classe dirigente, insomma i cosiddetti poteri forti, si rifiutano di riconoscerlo e di accettarlo come capo del governo.
Sul fatto che il Cavaliere rappresenti l´anti-politica, si potrebbe discutere a lungo. In realtà, politicamente Berlusconi discende da Bettino Craxi e il berlusconismo è in qualche modo la prosecuzione del craxismo, nella sua degenerazione finale verso l´affarismo e la corruzione. Proprio per questo, ancor più di lui, è semmai Antonio Di Pietro a incarnare nel bene o nel male l´anti-politica, cioè il rifiuto della partitocrazia nelle sue perversioni.
Quanto al "corpo estraneo", bisogna intendersi. Berlusconi è l´erede diretto e il maggior beneficiario della Prima Repubblica. L´imprenditore che, attraverso una legislazione di favore sulla televisione, ha ricavato dal vecchio sistema di potere enormi vantaggi in termini aziendali e personali. Quando gli sono venute a mancare le protezioni e le coperture politiche, ha dovuto fare di necessità virtù e scendere in campo per difendere i propri interessi, prima sul piano economico e poi su quello giudiziario.Tutto ciò non sarebbe sufficiente comunque a giustificare una presunta "campagna di odio" nei suoi confronti da parte di un Gruppo editoriale che può vantare – dalla fondazione del settimanale L´Espresso nel ´55 a quella di Repubblica nel ´76, fino ai giorni nostri – una lunga tradizione di impegno civile, nel solco di un giornalismo di opinione e di denuncia. Non a caso la nostra opposizione a Berlusconi e a tutto ciò che rappresenta risale alla metà degli anni Ottanta, ben prima cioè del suo ingresso diretto in politica. E poi, prosegue e si rafforza nell´ultimo quindicennio attraverso il legittimo esercizio del diritto di critica, in nome del pluralismo e della libertà di stampa.
Questo atteggiamento non si basa sull´odio, cioè su un sentimento ostile, irrazionale ed emotivo; bensì al contrario su considerazioni oggettive, fondate, assolutamente razionali. Vale a dire, innanzitutto, l´abnorme concentrazione di potere mediatico, economico e politico che oggi il Cavaliere impersona su scala planetaria, senza paragoni al mondo. Una concentrazione che costituisce di per sé, anche indipendentemente dall´uso o dall´abuso che se ne fa, un pericolo per la vita democratica.
Il fatto è che, dal ´94 a oggi, non solo Berlusconi non ha voluto sciogliere questi nodi, per emendarsi dai suoi vizi d´origine. Ma anzi li ha ulteriormente aggrovigliati, utilizzando il potere mediatico per accrescere il potere economico e infine per conquistare e consolidare il potere politico, imperniato sulla figura del lìder maximo, del capo carismatico, del taumaturgo.
Ha criminalizzato fin dall´inizio gli avversari, bollandoli tutti come "comunisti" e alimentando la repressione del dissenso, della critica e perfino della satira. Ha via via espropriato il Parlamento delle sue prerogative, con una "porcata" come la legge elettorale in vigore che in pratica toglie ai cittadini la facoltà di scegliere i propri rappresentanti e con il ricorso intensivo al voto di fiducia. Ha sferrato un attacco in crescendo alle magistratura, alla Costituzione e allo Stato di diritto, a colpi di decreti-legge e leggi "ad personam". Fino ad arrivare alla massime istituzioni di garanzia, la Corte costituzionale e la presidenza della Repubblica.
Può anche darsi, come pare abbia confidato lui stesso nei giorni scorsi in ospedale a Fedele Confalonieri, che ora il male produca il bene e che alla fine l´amore prevalga. «Se cambiano i toni – ha detto appena dimesso – il mio dolore non sarà inutile». Ma la Politica non si fa né con l´odio né con l´amore. Si fa, nell´interesse generale, con atti, gesti, comportamenti concreti e responsabili.
E allora, se il presidente del Consiglio vuole davvero chiudere la "stagione dell´odio", deve rimuovere le ragioni di fondo che sono alla base dell´opposizione nei suoi confronti. Risolvere finalmente il conflitto di interessi. Togliere le mani dalla Rai. Accettare il dissenso e la critica. Rispettare la Costituzione, senza rinunciare ad aggiornarla nelle forme previste e dovute. Onorare la divisione dei poteri. Rispondere alla magistratura, nei tribunali della Repubblica, come qualsiasi altro cittadino.
Non è certamente con la censura che guadagnerà il rispetto degli avversari. Né tantomeno con la criminalizzazione del dissenso e della critica. E neppure con le campagne denigratorie e intimidatorie contro la libera informazione. Forse non sarà "amore", ma almeno vivremo tutti in un clima più composto e civile.
(sabatorepubblica.it)


Repubblica 19.12.09
Colonne d’Ercole del Novecento
di Adriano Prosperi

Nelle prime ore della mattina di venerdì 18 dicembre qualcuno ha strappato via la targa di metallo con la scritta "Arbeit macht frei" che sovrastava l´ingresso del lager di Auschwitz. È stato un gesto deliberato, preparato accuratamente: solo questo è quel che sappiamo per ora.
Non conosciamo gli autori: ma sappiamo perché l´hanno fatto e come si chiama il loro delitto. Si tratta del furto non di un pezzo di metallo ma di un simbolo sacro alla memoria dell´umanità. È dunque un reato di lesa memoria umana quello che è stato consumato.
Qualcuno forse si chiederà perché quel simbolo non fosse sorvegliato, perché non ci fosse una polizia speciale a impedire l´azione criminale. Ebbene noi non crediamo che si debba proteggere a forza quel simbolo: è l´umanità intera che deve sapere quale soglia altissima di rispetto e di tutela debba alzarsi nella mente di tutti davanti a quel pezzo di metallo. È da lì che deve emanare una forza capace di tenere lontana ogni volontà aggressiva. Come la biblica Arca dell´Alleanza che si tutelava da sola folgorando l´incauto che allungava la mano per sostenerla, la scritta di Auschwitz deve bruciare gli infami che hanno consumato il sacrilegio. La scritta "Arbeit mach frei" significa Auschwitz, Auschwitz significa la Shoah: e queste sono le colonne d´Ercole oltre le quali l´umanità intera è entrata in una nuova storia, ha scoperto il paesaggio devastato del mondo nuovo, ha saputo che Dio era morto. A chi voleva continuare a vivere in un mondo dove si respirava un´aria densa delle ceneri di milioni di morti, si impose un solo comandamento: ricordare. Uno solo: ma non fu facile accettarlo.
Nell´opera della ricostruzione, tra le macerie della guerra, i pochi testimoni sopravvissuti alla Shoah incontrarono enormi difficoltà a farsi ascoltare. Il processo lungo e difficile attraverso il quale quella storia è stata non spiegata, non compresa – impossibile comprendere, impossibile spiegare – ma almeno raccontata per ricomposizione di indizi e dati statistici è sufficiente a mostrare la difficoltà di ricordare ma anche l´assoluta necessità della memoria. È un dovere intollerabile e inevitabile. Che sia intollerabile lo sappiamo bene. L´asportazione della scritta di Auschwitz lo dimostra. Molti sono i percorsi battuti per raggiungere lo stesso effetto: aggiustando l´arredo del campo, inserendovi simboli e presenze religiose istituzionali, mettendo via via a rischio la desolazione di uno spazio che la presenza immateriale di milioni di vite cancellate ha reso l´unico vero spazio sacro della storia umana dopo la cesura irrecuperabile tra passato e futuro che si chiama Shoah.
Perdita di memoria: è questo che si vuole ottenere. Lo tentarono gli aguzzini che cancellarono coi forni crematori l´esistenza delle vittime e si preoccuparono di nascondere le tracce di quel che avevano fatto. Lo hanno tentato poi in vario modo gli avamposti dei narratori accademici della storia con le loro faticose elaborazioni sul "passato che non passa". Erano solo le avanguardie di un´umanità che voleva inghiottire a ogni costo quel groppo intollerabile. E tuttavia da allora una legge non scritta, incisa nei cuori, ci dice che c´è un solo dovere, una sola legge obbligatoria per chi vuole continuare a vivere nel mondo che ha conosciuto la Shoah: ricordare.
È per questo che ogni anno milioni di visitatori compiono un pellegrinaggio che è l´ultima sopravvivenza del sacro nella quale l´umanità tutta, senza distinzioni di culture o di religioni, è obbligata a riconoscersi: la visita ai lager nazisti, quella minuscola città sacra che occupa uno spazio immenso, quella vasta necropoli senza tombe di cui Auschwitz è la capitale. È da lì in poi che la storia del mondo è cambiata. Se è vero che ciò che ci costituisce come esseri umani è la memoria, è un fatto indiscutibile che solo lì è nato il legame di memoria che ha unificato la nostra specie. Al di sopra delle appartenenze nazionali e delle identità culturali e religiose, tutti sono obbligati a riconoscersi in quel simbolo e a guardare a quella scritta che oggi è stata rubata.
Noi tutti sappiamo che ricordare la Shoah, ricordare Auschwitz, è l´unico modo che ci rimane per metterci in guardia da noi stessi. Perciò quella scritta deve tornare al suo posto: è un reperto sacro. Né si dovrà sopportare che gli autori di questo crimine contro l´umanità restino impuniti. Il loro atto è un´offesa a milioni di morti, un delitto contro i viventi di oggi e di domani, un attentato al legame di memoria che ci unisce al passato e che vogliamo trasmettere al futuro.

Repubblica 19.12.09
I nemici della memoria
di Elie Wiesel

Chi è stato a rubare l´insegna di Auschwitz, recando offesa alla memoria degli ebrei e a chi è impegnato a tutelarla? Da dove vengono? Che intenzioni hanno, qual è il loro progetto? Questo incidente criminale riverbera la sua immagine in tutto il mondo e suscita stupore, shock e rabbia.
La Verità e la Memoria sono i nostri valori comuni che devono essere difesi

Ma quale idea perversa può aver motivato un simile abominio?
Quell´iscrizione era ed è ancora la massima espressione di cinismo e brutalità
Deve restare immutabile e intatto per generazioni e generazioni

Cosa avevano in mente i ladri quando hanno rimosso l´iscrizione che centinaia di migliaia di vittime arrivate nel campo vedevano ogni giorno, ogni sera? Cosa immaginavano di poter fare? Di venderla in televisione per enormi somme di denaro? Di tenerla incorniciata a casa loro? Quale idea perversa può aver motivato un simile abominio?
In questa nostra era di confusione e sfiducia, la Verità è sempre in prima linea, al fronte, e i suoi nemici sono i nemici della Memoria. Dunque, quel Luogo è d´importanza e significato speciale, perché si basa su entrambi quei valori costitutivi, Verità e Memoria. Chiunque voglia cancellare il passato ha naturalmente interesse a rimuovere quella scritta, che è parte così visibile del Passato della Memoria.
In un certo senso, si può esprimere sorpresa per il fatto che non si sia mai tentato prima di compiere quanto è accaduto oggi. È così facile distruggere, è così facile rubare, eppure, grazie al cielo, persino quelli che sono i nostro nemici non avevano osato, fino ad oggi, di intraprendere un simile furto.
In virtù di ciò che è avvenuto all´interno di quell´incommensurabile cimitero di cenere, Auschwitz deve restare un monumento intoccabile al dolore, allo strazio e alla morte di più di un milione di ebrei e altre minoranze.
Benché protetto a livello internazionale dalla rabbia e dalla pietà che suscita in centinaia di migliaia di visitatori provenienti da tutto il mondo, il campo necessita ovviamente di maggior sicurezza. Devono provvedervi le autorità polacche ai massimi livelli. Tutto ciò che si trova entro le recinzioni di filo spinato deve restare immutabile e intatto per generazioni e generazioni.
Quanto ai ladri, verranno senza dubbio interrogati a lungo da personale specializzato, psichiatri inclusi. Siamo tutti ansiosi di conoscere ogni aspetto della loro personalità, del loro carattere, del loro passato. E di conoscerne l´appartenenza ideologica.
Hanno agito da soli? Appartengono a gruppi neonazisti? Volevano dimostrare qualcosa entrando in possesso dell´insegna, e se sì, che cosa?
"Arbeit macht frei" era, ed è ancora, massima espressione di cinismo, inganno e brutalità. Dietro quel cancello il lavoro non portava libertà. Agli ebrei e agli altri portava fatica, umiliazione, fame e morte. Dentro tutto equivaleva alla morte.
È questo che il ladro voleva cancellare?
(Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 19.12.09
Piero Terracina, sopravvissuto ad Auschwitz: "Quella scritta è il simbolo del nazismo"
"È uno sfregio alla Shoah così cancellano la Storia"
di Alberto Mattone

Mi pare sia stata un´azione dimostrativa, compiuta da un gruppo di persone ben organizzate

ROMA - «Hanno profanato un pezzo di storia, hanno compiuto uno sfregio alla memoria della Shoah. Quella scritta rubata all´ingresso del lager era la sintesi e il simbolo di tutte le nefandezze del nazismo». Piero Terracina scuote la testa e non si dà pace. All´ombra di quelle parole forgiate col ferro ("Arbeit macht frei", "Il lavoro rende liberi") ha perso i genitori, due fratelli, una sorella, il nonno, uno zio. Tutti ebrei arrestati insieme a lui dalle SS nella razzìa del ghetto di Roma e portati ad Auschwitz-Birkenau con i vagoni piombati. «L´unica libertà che avevamo in quel terribile lager - riflette - era quella di morire di lavoro. La fatica uccideva - aggiunge - e alla fine di ogni giornata accatastavamo i cadaveri dei nostri compagni che non ce l´avevano fatta».
Lei è uno dei pochi testimoni viventi di Auschwitz, Piero Terracina. Cosa ha pensato quando ha saputo che avevano rubato la scritta all´entrata del lager?
«Sono rimasto sconcertato. "Arbeit macht frei" caratterizzava tutto il complesso di Auschwitz-Birkenau e, quindi, il nazismo. Lì è stato studiato il progetto di sterminio del popolo ebraico, lì sono state costruite le prime camere a gas. Era stridente entrare nel campo, leggere "Il lavoro rende liberi" e trovarsi di fronte al dolore e alla morte. E non era l´unica scritta che i nazisti avevano impresso sulle baracche dei deportati».
Quali erano gli altri "slogan"?
«Sul muro dove dormivo io c´era scritto in tedesco "siate sempre camerati". In altre baracche campeggiavano inviti all´ordine e alla pulizia. Parole senza senso, beffarde, se si pensa che in quei campi in Polonia si entrava solo per morire e la morte era spesso una liberazione».
Chi può aver rubato quell´insegna?
«Mi pare che sia stata un´azione dimostrativa, organizzata da un gruppo di persone ben attrezzate. Portare via una scritta lunga dieci metri, posizionata a una certa altezza, e composta da lettere in ferro di almeno 35-40 centimetri, non è impresa facile. Per farlo, hanno dovuto portare una gru e un camion, almeno. Ma è stato fin troppo semplice aggirare la sorveglianza. Non ci sono telecamere né controlli: avrebbero potuto portare via le testimonianze del museo di Auschwitz, distruggere le prove di quello che è successo, gli oggetti sottratti ai deportati: scarpe, capelli, valigie».
Qualcuno vuole cancellare la memoria dell´Olocausto?
«Non si possono lasciare incustoditi gli oggetti della memoria di Auschwitz. Quella scritta rubata è un pezzo di storia che se ne va. Quell´insegna mi è rimasta impressa la notte più drammatica della mia vita, il 22 gennaio del ´45. Quel giorno iniziai la "marcia della morte" nella foresta polacca con altre trecento persone. C´era anche mio fratello Leo».
Cosa successe?
«Le SS ci portarono fuori dal campo di Birkenau, ci dissero che se qualcuno non era in grado di camminare, doveva farsi da parte perché sarebbe venuto un camion a prelevarlo. Noi optammo per la marcia. Partimmo e sentimmo i colpi di mitra».
Erano le SS?
«Sì, uccisero subito quelli che non se la sentivano di camminare. Noi procedemmo, era una fila lunga e io ero in coda insieme a un amico. All´improvviso, non vedemmo più nazisti, avevano fretta di scappare dai sovietici che stavano per arrivare»
Fu l´attimo della liberazione?
«Era buio, faceva un freddo terribile. Lasciamo il "corteo", fuggimmo verso delle sagome scure: era il campo, vuoto, di Auschwitz, poco lontano da Birkenau. Ci infilammo in uno dei casolari per ripararci dopo aver attraversato l´ingresso con la scritta "Arbeit macht frei". Stemmo lì tutta la notte. Ci salvammo, ma mio fratello non l´ho più rivisto».

Repubblica 19.12.09
«Arbeit macht frei»
"Quella frase cinica e beffarda anticipava i piani per l´Europa"

Se il fascismo avesse prevalso, quelle parole si sarebbero lette sulla porta di ingresso di tutte le officine
I Lager tedeschi, sia quelli di lavoro che quelli di sterminio, erano i primi, precoci germogli dell´Ordine Nuovo

«Arbeit macht frei». Come è noto, erano queste le parole che si leggevano sul cancello di ingresso nel Lager di Auschwitz. Il loro significato letterale è «il lavoro rende liberi»; il loro significato ultimo è assai meno chiaro, non può che lasciare perplessi, e si presta ad alcune considerazioni.
Il Lager di Auschwitz era stato creato piuttosto tardi; era stato concepito fin dall´inizio come campo di sterminio, non come campo di lavoro. Divenne campo di lavoro solo verso il 1943, e soltanto in misura parziale ed in modo accessorio; è quindi credo da escludersi che quella frase, nell´intento di chi la dettò, dovesse venire intesa nel suo senso piano e nel suo ovvio valore proverbiale-morale.
È più probabile che avesse significato ironico: che scaturisse da quella vena di umorismo pesante, protervo, funereo, di cui i tedeschi hanno il segreto, e che solo in tedesco ha un nome. Tradotta in linguaggio esplicito, essa, a quanto pare, avrebbe dovuto suonare press´a poco così: «Il lavoro è umiliazione e sofferenza, e si addice non a noi, Herrenvolk, popolo di signori e di eroi, ma a voi, nemici del terzo Reich. La libertà che vi aspetta è la morte».
In realtà, e nonostante alcune contrarie apparenze, il disconoscimento, il vilipendio del valore morale del lavoro era ed è essenziale al mito fascista in tutte le sue forme. Sotto ogni militarismo, colonialismo, corporativismo sta la volontà precisa, da parte di una classe, di sfruttare il lavoro altrui, e ad un tempo di negargli ogni valore umano. Questa volontà appare già chiara nell´aspetto antioperaio che il fascismo italiano assume fin dai primi anni, e va affermandosi con sempre maggior precisione nella evoluzione del fascismo nella sua versione tedesca, fino alle massicce deportazioni in Germania di lavoratori provenienti da tutti i paesi occupati, ma trova il suo coronamento, ed insieme la sua riduzione all´assurdo, nell´universo concentrazionario.
Allo stesso scopo tende l´esaltazione della violenza, essa pure essenziale al fascismo: il manganello, che presto assurge a valore simbolico, è lo strumento con cui si stimolano al lavoro gli animali da soma e da traino.
Il carattere sperimentale dei Lager è oggi evidente, e suscita un intenso orrore retrospettivo. Oggi sappiamo che i Lager tedeschi, sia quelli di lavoro che quelli di sterminio, non erano, per così dire, un sottoprodotto di condizioni nazionali di emergenza (la rivoluzione nazista prima, la guerra poi); non era una triste necessità transitoria, bensì i primi, precoci germogli dell´Ordine Nuovo. Nell´Ordine Nuovo, alcune razze umane (ebrei, zingari) sarebbero state spente; altre, ad esempio gli slavi in genere ed i russi in specie, sarebbero state asservite e sottoposte ad un regime di degradazione biologica accuratamente studiato, onde trasformarne gli individui in buoni animali da fatica, analfabeti, privi di qualsiasi iniziativa, incapaci di ribellione e di critica.
I Lager furono dunque, in sostanza «impianti piloti» anticipazioni del futuro assegnato all´Europa nei piani nazisti. Alla luce di queste considerazioni, frasi come quella di Auschwitz, «Il lavoro rende liberi», o come quella di Buchenwald, «Ad ognuno il suo», assumono un significato preciso e sinistro. Sono, a loro volta, anticipazioni delle nuove tavole della Legge, dettata dal padrone allo schiavo, e valide solo per quest´ultimo.
Se il fascismo avesse prevalso, l´Europa intera si sarebbe trasformata in un complesso sistema di campi di lavoro forzato e di sterminio, e quelle parole, cinicamente edificanti, si sarebbero lette sulla porta di ingresso di tutte le officine e di tutti i cantieri.
(L´articolo è stato pubblicato nel novembre 1959 da "Triangolo Rosso", la rivista dell´Aned, Associazione nazionale ex deportati)

Repubblica 19.12.09
I territori della psiche
Invenzioni strane e studi bizzarri per spiegare il lato ludico del pensiero
Anelli e altri misteri le mille scoperte della gaia scienza
a cura di Doriano Fasoli

Il 2 luglio 1830, nei suoi Discorsi a tavola, Samuel Taylor Coleridge notò che «gli uomini nascono aristotelici o platonici». Il che è solo un modo poetico di dire che ciascuno di noi privilegia uno dei due modi complementari di pensare e ricordare che ci fornisce la lateralizzazione del nostro cervello, scoperta dal premio Nobel per la medicina Roger Sperry: l´emisfero sinistro è infatti razionale, analitico e concettuale, mentre quello destro è istintivo, sintetico e sensoriale. E le realizzazioni concrete di questo doppio atteggiamento astratto sono le scienze, la matematica, la logica e la filosofia analitica da un lato, e le arti, la letteratura, la religione e la filosofia continentale dall´altro.
Naturalmente, così come i due emisferi sono collegati da un corpo calloso che li mette e li tiene in comunicazione, così scienza e umanesimo non sono compartimenti stagni che procedono indipendentemente e all´insaputa l´uno dell´altro, anche se spesso la prima si presenta e viene percepita come un´impresa molto formalizzabile, ma poco visualizzabile.
Niente di più lontano dalla realtà, come dimostrano due meravigliose strenne natalizie scientifiche che sembrano, e in effetti sono, dei veri e propri libri d´arte: Le immagini della scienza di John Barrow (Mondadori, pagg. 624, euro 32) e Bolle di sapone di Michele Emmer (Bollati Boringhieri, pagg. 301, euro 60).
D´altronde, non è soltanto con le loro ultime opere che i due autori sfidano lo stereotipo dello scienziato freddo e distaccato che scrive libri difficili e noiosi, ma con la loro intera produzione e, più in generale, con la loro stessa storia personale. Barrow, ad esempio, annovera fra i suoi titoli L´universo come opera d´arte (Rizzoli, 1997) e Dall´io al cosmo: arte, scienza e filosofia (Cortina, 2000), ed è stato nel 2006 il vincitore del premio Templeton da un milione di dollari per i legami fra la scienza e la religione. Emmer, invece, è letteralmente figlio d´arte, e dal famoso padre-regista Luciano ha ereditato la passione per il cinema, che l´ha stimolato a girare ben 18 film a soggetto matematico e a produrre Visibili armonie (Bollati Boringhieri, 2006), un´altra bella strenna sui rapporti tra arte, cinema, teatro e matematica.
Benché accomunate dall´uso sapiente e accattivante delle immagini, però, le loro ultime due opere sono antitetiche nella concezione e nella realizzazione. Barrow spazia infatti su tutte le scienze, isolando singole immagini che hanno caratterizzato in maniera visiva un´idea o un risultato, e sono diventate icone di una particolare disciplina scientifica in un particolare momento storico. Emmer si concentra invece su una specifica area della matematica e raduna ogni possibile testimonianza artistica che possa illustrarla, in un lavoro collezionistico che gli è letteralmente costato una vita di ricerca.
Come svela fin dal titolo, Bolle di sapone è un libro che dovrebbe stare (e sicuramente ci starà, non appena verrà tradotto) sul mitico tavolo della libreria Barnes and Noble di Union Square a New York, che raduna come in una collana le perle letterarie dedicate monograficamente ad argomenti inusuali, sorprendenti e affascinanti.
In questo caso le bolle di sapone, appunto, che come Emmer racconta sono soluzioni naturali, in senso sia letterale che metaforico, di quei problemi variazionali legati alle superfici minime che hanno portato alla medaglia Fields matematici come Jessie Douglas nel 1936 ed Enrico Bombieri nel 1974. Ma sono anche un punto d´incontro della sensibilità umanistica di pensatori come Erasmo, poeti come Baudelaire, musicisti come Bizet, architetti come Fuksas e, soprattutto, di tanti pittori, da Bruegel a Rembrant a Manet, affascinati dalle potenzialità tecniche e artistiche delle loro trasparenze e dei loro riflessi.
Bolle di sapone è dunque un libro da sfogliare e godere, oltre che da leggere, perché le sue più di trecento illustrazioni ne costituiscono una parte preponderante, fruibile anche a prima vista. Le immagini della scienza, simmetricamente, è un libro da leggere e meditare, oltre che da sfogliare, perché in maggioranza le sue altrettante illustrazioni richiedono una spiegazione o un inquadramento, senza di cui sarebbero difficilmente comprensibili. Ma ciascuna di esse costituisce un capitolo a se stante, che si può leggere indipendentemente dagli altri, anche se tutti insieme ripercorrono l´intera storia scientifica, dalle prime osservazioni dell´antichità alle ultime ricerche della contemporaneità.

Repubblica 19.12.09
Un viaggio al femminile nelle ceramiche esposte a Vicenza Tra dedizione alla casa, cura dei figli e lavori artigianali
Quando un vaso greco racconta le donne
di Giuseppe Della Fina

VICENZA Intorno al mistero di una figura femminile effigiata su un vaso attribuito al Pittore di Leningrado e databile intorno al 470 a. C. ruota la mostra «Le ore della donna. Storie e immagini nella collezione di ceramiche attiche e magnogreche di Intesa Sanpaolo» allestita a Palazzo Leoni Montanari (sino all´11 aprile 2010: la rassegna è dedicata a Fatima Terzo, che valorizzò questa collezione e che è scomparsa nel maggio scorso). Sul vaso - una hydria, destinata a contenere acqua - è dipinta la bottega di un ceramista: tre artigiani sono al lavoro e la loro bravura è riconosciuta dalla dea Atena e da due Nikai che li incoronano: una raffigurazione rara, interessante, ma negli schemi. Modelli che saltano quando notiamo che, isolata, in disparte, una giovane donna, seduta su uno sgabello di legno, sta lavorando nella stessa officina ed è intenta a dipingere un vaso: con la mano sinistra avvicina a sé un cratere di notevoli dimensioni e con la destra tiene un pennello. Si tratta di una persona libera che indossa un chitone e un himation. Il pittore del vaso è riuscito a rendere bene la concentrazione della fanciulla, l´orgoglio per il lavoro che sta svolgendo e, allo stesso tempo, la naturalezza della sua azione. Nella società greca di epoca classica, la donna svolgeva la sua attività e, in fondo, trascorreva la propria vita prevalentemente all´interno della casa: chi è la figura femminile intenta a lavorare in una bottega artigiana?
Altre donne fuori dagli schemi sono raffigurate su un vaso diverso, ma sempre attico a figure rosse e di poco più recente. Si tratta di un cratere a colonnette dove sono dipinte tre cortigiane: una di loro ha un laccio stretto intorno alla gamba che è stato interpretato come un amuleto contraccettivo. Un´altra ha in mano uno stivaletto che può rappresentare un´allusione erotica. Va rammentato che il vaso in questione, per la sua forma, rinvia al simposio ovvero a un contesto prettamente maschile aperto eventualmente solo alle cortigiane.
Non mancano, nella mostra, nemmeno Amazzoni e Menadi, altre figure con spiccati caratteri d´indipendenza. Nella maggioranza dei vasi è rappresentata una donna più legata agli schemi della società del tempo, ma la curatrice dell´esposizione, Federica Giacobello, ha voluto restituirci una realtà del mondo femminile greco più articolata e contraddittoria di quella che pigramente viene di solito riproposta. E prima di lasciare la mostra, torniamo a osservare la giovane donna intenta a dipingere: vuole dirci qualcosa.

Repubblica 19.12.09
Muti: al Senato con i giovani e un appello per il Presidente
Dalla Cherubini un messaggio a Napolitano sul futuro dell´arte
di Leonetta Bentivoglio

ROMA, Appena rientrato da New York, dov´è volato come un fulmine per ricevere lo scettro di Musician of the Year (massimo premio musicale americano), Riccardo Muti s´è immerso nelle prove con l´Orchestra Giovanile Cherubini di cui è fondatore e guida appassionata. Insieme a lui, nell´Aula del Senato domenica a mezzogiorno, la Cherubini sarà protagonista del Concerto di Natale, trasmesso in diretta Eurovisione su RaiUno e su Radio3.
Lei ha scelto la Quinta Sinfonia di Beethoven come «inno all´ottimismo», auspicando un futuro luminoso per la cultura in Italia. Crede davvero, maestro, che si possa essere ottimisti?
«A confortarmi sono proprio i ragazzi della Cherubini, rinnovata per il secondo triennio di attività e formata da settanta giovani italiani seri ed impegnati. Sono fiero che il Paese produca ragazzi di un tale livello umano e musicale. Al Senato consegneranno una lettera al presidente Napolitano nella quale esprimono preoccupazione per il futuro della musica. Appello civile e privo di toni polemici, è un segnale di maturità. Intendiamo il concerto, che al solito è a scopo benefico, come messaggio d´entusiasmo al servizio della cultura».
A Roma lei tornerà per lavorare al Teatro dell´Opera, che dirigerà dall´anno prossimo, e anche il suo impegno come direttore musicale della Chicago Symphony parte dal 2010.
«Sono due mondi diversi. A Roma, dove ho accettato di lavorare dopo aver stabilito un bel rapporto con l´orchestra, vorrei portare la mia esperienza augurandomi che ci sia agilità amministrativa e si possa operare in modo scevro da influenze non puramente musicali. A Chicago, dove l´orchestra è tecnicamente formidabile, si fa "musica per la musica" e il direttore musicale lavora solo coi collaboratori stretti: non ci sono Consigli d´Amministrazione formati in base a scelte politiche. E in quell´interessantissima città multietnica che è Chicago ho già impostato vari progetti e collaborazioni».
Quali?
«Ho invitato il geniale violoncellista Yo-Yo Ma, musicista apertissimo ai giovani, ad essere il nostro Creative Consultant, e ho nominato Composers in Residence dell´orchestra l´inglese Anna Clyne e l´americano Mason Bates, entrambi trentenni e autori di musica sperimentale ed elettronica. Inoltre vorrei portare verso la musica fasce di popolazione che ora ne sono lontane, con concerti in carceri minorili e un ampio lavoro di diffusione in zone diverse della città. Pochi sono gli ispanici e le persone di colore ai concerti, dunque sarò io ad andare da loro. E nella prima stagione metterò l´accento sulla musica del Messico».

Corriere della Sera 19.12.09
Vaticano Congregazione per i vescovi, il nome di Bertello
Le grandi manovre nel governo della Chiesa
Imminente la sostituzione del cardinal Re
di Gian Guido Vecchi

CITTÀ DEL VATICANO — L’unico non tenuto a presenta­re le dimissioni era il cardinale Tarcisio Bertone, dato che l’uf­ficio del Segretario di Stato si esercita ad nutum Summi Pon­tificis : dipende dalla sola vo­lontà del Papa. Così quando Bertone, 75 anni il 2 dicembre, si è presentato con la lettera, Benedetto XVI ha sorriso, «guardi che non ce n’era biso­gno! », e lo ha confermato fin­ché resterà lui. Per tutti gli al­tri vertici della Curia romana, invece, a 75 anni si rimette il mandato, al massimo ci sono proroghe: e anche quelle limi­tate.

Perciò nei prossimi mesi si preparano a cambiare alcune caselle decisive, nel governo della Chiesa: a cominciare dal­la potente Congregazione per i vescovi, che dal 2000 è guidata dal cardinale Giovanni Battista Re. La sostituzione di Re è data per imminente, il 30 gennaio compirà 76 anni, scadrà il pri­mo anno di proroga e Oltrete­vere non è previsto un secon­do. Ci sono state dilazioni più lunghe, due anni e oltre, ma il dicastero che «provvede a tut­to ciò che attiene alla nomina dei vescovi» non vive un bel momento: da ultimo, lo scan­dalo dei preti pedofili in Irlan­da, con relativi vescovi che li hanno coperti, ha provocato lo «sdegno» e la «vergogna» del Papa, qualcosa non ha funzio­nato nella gestione dei pastori e si impone un rinnovamento.

Non sono ancora state prese decisioni, anche se il nome più accreditato è quello dell’arcive­scovo Giuseppe Bertello, 67 an­ni, nunzio apostolico in Italia: originario del Canavese come il cardinale Bertone, è molto stimato dal segretario di Stato, che lo volle nunzio nel 2007.

Un altro nome autorevole è quello del cardinale George Pell, arcivescovo di Sydney: a luglio, però, il Papa ha nomina­to segretario della congregazio­ne (cioè numero due) il porto­ghese Manuel Monteiro de Ca­stro, ed è quindi più probabile che il prefetto sia italiano. Il cardinale Pell, piuttosto, po­trebbe guidare in futuro Propa­ganda Fide , congregazione per le terre di missione, il cui pre­fetto viene definito «Papa ros­so »: il cardinale Ivan Dias, 73 anni, non è in scadenza ma ha qualche problema di salute.

Oltre la scadenza, invece, è il cardinale Walter Kasper, 77 anni a marzo, presidente del Consiglio per l’unità dei cristia­ni: entro Pasqua è atteso il suc­cessore (sì è parlato, ma è solo un’ipotesi, del vescovo di Rati­sbona Gerhard Müller). Anche il cardinale Claudio Hummes, prefetto della Congregazione per il clero, compie in agosto 76 anni, come in settembre il cardinale Franc Rodé, alla gui­da degli istituti di vita consa­crata, e il cardinale Paul Cor­des, presidente del pontificio consiglio «Cor Unum» per i progetti umanitari. Si provve­derà per gradi: nello stile della «riforma gentile» avviata nel 2005 da Benedetto XVI.

venerdì 18 dicembre 2009

Repubblica 18.12.09
Il rapporto Murphy, commissionato dal governo irlandese, rivela decenni di violenze
"Così adescavano i bambini e la polizia guardava altrove"
Fotografava le bambine nude in ospedale. Ma il vescovo decise di non avvertire Roma

Quelli che seguono sono stralci del Rapporto Murphy sugli abusi sessuali compiuti da membri del clero in Irlanda
Marie Collins, come tanti altri bambini oggetto di abusi da parte di padre Edmondo (pseudonimo adottato dalla commissione Murphy, ndr), dichiara nella documentazione presentata alla Commissione quanto segue:
«Il Padre (Edmondo) ha tradito la fiducia riposta in lui dai suoi superiori religiosi. Ha tradito la fiducia delle autorità ospedaliere. Ha tradito la fiducia dei miei genitori.
Ero stata affidata alla sua custodia. Ha tradito la mia fiducia e la mia innocenza. Ha abusato del suo potere e sfruttato il rispetto che avevo della sua carica religiosa per umiliarmi e abusare di me, una bambina. Non solo, una bambina malata.
Come si può cadere più in basso? Un uomo del genere merita le nostre preghiere ma non la nostra protezione».
Il caso di padre Edmondo è all´esame della commissione in quanto coinvolge un sacerdote autore di molteplici atti di libidine ai danni di giovani pazienti di età compresa tra gli otto e gli 11 anni presso l´Ospedale pediatrico Our Lady di Crumlin, alla fine degli anni ‘50 e l´inizio degli anni ‘60. Sedici anni dopo, quando risiedeva a Co Wicklow, abusò sessualmente di una bimba di nove anni.
Padre Edmondo, nato nel 1931 e ordinato sacerdote nel 1957, fu cappellano dell´ospedale psichiatrico Our Lady dal 1958 al 1960. Nell´agosto 1960, l´arcivescovo McQuaid fu informato che l´addetto alla sicurezza di un laboratorio fotografico del Regno Unito aveva sottoposto all´esame di Scotland Yard una pellicola a colori inviata allo sviluppo da Padre Edmondo. Scotland Yard sottopose la questione alla polizia irlandese.
Il commissario Costigan incontrò l´arcivescovo McQuaid e, stando al verbale dell´incontro, gli disse che il laboratorio fotografico aveva «consegnato a Scotland Yard una pellicola a colori con etichetta "Rev. Edmondo, Ospedale pediatrico, Crumlin, Dublino", in cui 26 negativi avevano come oggetto le parti intime di bambine di 10 o 11 anni». Il commissario di polizia chiese all´arcivescovo McQuaid di assumere il caso, in quanto vedeva il coinvolgimento di un sacerdote e la polizia «non era in grado di provare nulla». Il commissario disse all´arcivescovo McQuaid che non avrebbe compiuto ulteriori azioni.
Apparentemente non si cercò di stabilire l´identità delle due bambine fotografate.
Il giorno dopo l´Arcivescovo McQuaid si incontrò con padre Edmondo, che ammise di aver fotografato le bambine in pose sessuali, da sole o in gruppo. Le foto erano state scattate nell´ospedale di Crumlin.
L´Arcivescovo McQuaid e il vescovo Dunne convennero che non si ravvisava un reato oggettivo e soggettivo del tipo previsto dalle istruzioni del 1922, e che di conseguenza non era necessario deferire la questione al Santo Uffizio a Roma.(...)

Padre Patrick Maguire è membro della Società Missionaria di San Colombano. Nato nel 1936 e ordinato sacerdote nel 1960, fu missionario in Giappone per vari anni tra il 1961 e il 1974. A quell´epoca trascorreva lunghi periodi di ferie in Irlanda. Operò in seguito nel Regno Unito e in Irlanda; per un breve periodo, anche come vicario in una parrocchia dell´Arcidiocesi di Dublino.
Padre Maguire è stato condannato per reiterati abusi sessuali su minori. È stato condannato per atti di libidine nel Regno Unito e in Irlanda e ha scontato pene detentive in entrambi i paesi. Nel 1997 ha ammesso di aver abusato di 70 bambini maschi in vari paesi e di aver violentato almeno una bambina. Quando fu accusato dei reati, dichiarò alla Società missionaria che una volta reso pubblico il suo nome avrebbero potuto emergere circa 100 vittime di abusi in Irlanda.
Il modus operandi di Padre Maguire è stato così descritto da uno dei suoi terapeuti: «Utilizzava abitualmente una elaborata tecnica di pianificazione e adescamento che coinvolgeva i minori e gli adulti attorno a loro, ad esempio: "Escogitavo modi per conoscere i bambini e parlare con loro, modi per vederli assieme ai loro familiari e verificare il tipo di rapporto che avevano con i genitori. Programmavo incontri assieme ad altri bambini e infine modi per trovarmi solo con loro in luoghi in cui si sentivano al sicuro. Programmavo modi per portarli da soli lontano da altri sguardi, dove spogliarli non sarebbe apparso loro fuori luogo, tipo fare il bagno assieme, cambiarsi in piscina, fare la doccia dopo il nuoto, e infine modi per far loro trascorrere la notte, dormire con me nel letto…" Padre Maguire utilizzava una formula ben collaudata per portare la sua vittima ad assecondare le sue intenzioni, oltre al fatto di detenere una posizione di autorità che in tale situazione rendeva la vittima inerme. Ha descritto gli abusi ai danni delle sue vittime come stare nudo assieme a loro a letto e toccarli, accarezzargli il corpo e i genitali».
Nel 1997, ha ammesso i seguenti abusi.
Prima di diventare sacerdote: un bambino; ha anche ammesso di aver avuto rapporti sessuali con un ragazzo della sua età da adolescente e di aver adescato due altri ragazzi.
1963-1966: tre bambini in giappone; e ne adescò anche altri
1967: sei o sette bambini nei suoi soggiorni in irlanda.
1968-1972: due bambini
1973: dieci bambini in Irlanda e dieci in Giappone.
1974-1975: otto bambini in Irlanda.
1976-1979: otto bambini e una bambina; ha anche ammesso di aver organizzato una rete di vittime e di famiglie in cui poteva commettere abusi.
1984: tre bambini
1984-1989: due bmbini; è inoltre rimasto in contatto con altre vittime e le loro famiglie.
1992-1994: un adulto vulnerabile (21 anni).
1996: adescamento
Ha dichiarato alla Commissione che questa lista non è completa
(Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 18.12.09
Coprì decine di preti pedofili si dimette il vescovo irlandese
Cade la testa di monsignor Murray. Il Vaticano: "Atto imperdonabile"
Sì del Papa all´autosospensione Gli abusi consumati per 30 anni nella diocesi di Dublino
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO - Cade la prima testa per lo scandalo dei preti pedofili irlandesi. E´ monsignor Donal Brendan Murray, costretto a dimettersi da vescovo di Limerick perché accusato di aver coperto decine di sacerdoti che, negli anni passati, avevano violentato centinaia di bambini. Crimini consumati nella diocesi di Dublino, dove Murray (69 anni compiuti il 29 maggio scorso) era vescovo ausiliare, secondo quanto riportato dal rapporto della commissione governativa irlandese Murphy, un drammatico dossier di 720 pagine con la descrizione dettagliata delle violenze sessuali perpetrate in quasi 30 anni - dal 1975 al 2004 - da 46 sacerdoti ai danni di 320 piccole vittime. Una indagine pubblicata nei giorni scorsi in Irlanda, dopo un´altra inchiesta svolta dalla Commissione Ryan resa nota 6 mesi fa su analoghi casi avvenuti nelle scuole irlandesi delle congregazioni dei Fratelli Cristiani e delle Suore della Misericordia, nelle quali a partire dagli anni ‘40 sarebbero stati compiute 11.337 violenze sessuali costate circa 34 milioni di euro di risarcimenti.
Ieri la Sala stampa vaticana ha reso noto che il Papa ha accettato le dimissioni, «con effetto immediato», di monsignor Murray, a poco meno di una settimana dall´udienza concessa dallo stesso Ratzinger ai vertici della Conferenza episcopale irlandese per decidere il da farsi alla luce dei due scottanti rapporti. «Chi ha sbagliato dovrà pagare», annunciò papa Ratzinger venerdì scorso, alla fine dell´udienza, dopo aver ascoltato - «con stupore, dispiacere, vergogna» - le rivelazioni dei vescovi islandesi. In particolare, Murray nel Rapporto Murphy è accusato di aver coperto gli abusi sessuali, essendosi limitato solo a spostare in altre parrocchie i preti pedofili. Un modo di agire - si legge nella relazione - «discutibile ed imperdonabile». Per questo motivo, la scorsa settimana il vescovo era stato convocato in Vaticano dal cardinale prefetto della congregazione dei vescovi Giovanni Battista Re, al quale aveva offerto le dimissioni, accolte in seguito dal Papa e rese pubbliche ieri.
È stato lo stesso Murray ad annunciarlo ieri ai dipendenti della diocesi di Limerick, subito dopo la diffusione della nota ufficiale vaticana. «So bene - ha ammesso il vescovo - che le mie dimissioni non possono annullare il dolore che le vittime di quegli abusi hanno sofferto in passato e continuano a soffrire ogni giorno. Chiedo umilmente scusa ancora una volta a tutti coloro che sono stati abusati quando erano bambini. A tutti i sopravvissuti ripeto che la mia principale preoccupazione è quella di aiutare in ogni modo possibile, il loro cammino verso la sperata serenità». Murray è solo il primo vescovo irlandese a farsi da parte per lo scandalo della pedofilia. Ma la lista dei responsabili è molto più lunga. Non è escluso quindi che altri alti prelati saranno puniti in applicazione di quella «tolleranza zero» promessa da Benedetto XVI sulla scia di quanto aveva già assicurato il predecessore Giovanni Paolo II nell´ultima fase del suo pontificato.

Repubblica 18.12.09
Sos per la lettura qualcuno salvi le biblioteche italiane
I Beni Culturali: Roma a rischio chiusura
Un dossier del ministero: per le Statali e le Nazionali budget dimezzato
di simonetta Fiori

ROMA - Se è vero che l´identità di un paese si rispecchia nelle sue biblioteche, la fotografia nazionale appena prodotta dal ministero dei Beni Culturali ci restituisce il ritratto di un´Italia smarrita, priva di memoria, che volge le spalle alla sua stessa tradizione. Nell´arco di cinque anni, le risorse finanziarie per l´attività delle biblioteche pubbliche statali - quarantasei istituti, tra cui la Braidense, la Laurenziana, la Malatestiana, l´Angelica e la Casanatense - sono state ridotte della metà (da trenta milioni a sedici milioni di euro), con un depauperamento ancora più marcato per le due Biblioteche Nazionali Centrali di Roma e Firenze, custodi delle stesse fonti dell´identità nazionale italiana. Dall´acquisizione dei libri alla valorizzazione, dalla prevenzione alla tutela, dai servizi per il pubblico all´informatizzazione, non c´è passaggio nell´attività delle biblioteche che oggi non mostri limiti e disfunzioni. Il confronto con la British Library di Londra o la Bibliothèque Nationale de France finisce per essere mortificante. E per l´istituto romano di viale Castro Pretorio, si rischia la chiusura.
Il merito di aver prodotto un quadro aggiornato del "costume bibliotecario degli italiani" è della stessa Direzione generale per le Biblioteche. «Mi auguro che sia lo strumento per ottenere maggiore attenzione politica e soprattutto un incremento di fondi», spiega il direttore Maurizio Fallace. Il rapporto redatto da una commissione di esperti non è sospettabile di ambiguità: la situazione appare molto critica, quasi disperata. Diminuisce la qualità dei servizi, decresce di conseguenza anche la domanda, ossia il numero dei prestiti e delle persone ammesse al servizio. «Se non si aggiornano le collezioni librarie e se non si ha la possibilità di catalogare tempestivamente il materiale acquisito, anche l´utenza è scoraggiata», recita il rapporto del ministero. Per inquadrare il malessere, basterà qualche cifra. Se nel 2005 si spendeva per il patrimonio bibliografico 8.263.311 euro, la previsione per il 2010 è di 3.605.877. La spesa per il funzionamento del servizio bibliotecario informatico passa da cinque milioni a meno di quattro milioni di euro, mentre per la tutela dei libri e dei documenti la perdita è ancora più secca: da 3.525.966 a 650.000 euro (consentita appena la manutenzione degli impianti di sicurezza, antifurto o antincendio, mentre mancano le risorse per i lavori di spolveratura, rilegatura, disinfestazione). Anche la catalogazione nel Sistema Bibliotecario Nazionale mostra una vera emorragia: dagli 823.821 euro del 2005 agli 84.645 euro previsti per il prossimo anno. Cifra del tutto inadeguata: solo per il materiale del Novecento, sono almeno cinque milioni i volumi non ancora catalogati (il loro recupero costerebbe circa venti milioni di euro).
Emblema del grave declino è rappresentato dalle due Biblioteche Centrali, di Roma e Firenze. Quella romana risulta oggi la più sacrificata, con una dotazione di 1.590.423 euro (rispetto al 2001 la decurtazione è pari al 50 per cento): per un buon funzionamento occorrerebbero almeno trenta milioni di euro. Il paragone con le sorelle europee è schiacciante: la dotazione annua della Bibliothèque Nationale de France è 254 milioni di euro, quella della British Library supera i 159 milioni. Se riferiti al personale, i dati sono ancora più clamorosi. Anche in questo caso, la comparazione può essere utile: alla Bibliothèque Nationale lavorano 2.651 persone, in quella inglese 2.011, a Firenze 205, a Roma 264: complessivamente le due biblioteche nazionali italiane hanno un patrimonio librario equivalente a quello parigino - circa 14 milioni di volumi - ma vi lavora meno di un quinto del personale impiegato a Parigi.
Le conclusioni del rapporto non fanno presagire niente di buono. Per la Biblioteca Nazionale di Roma, «le risorse attualmente disponibili non bastano a garantire neppure la pura e semplice sopravvivenza dell´istituto». Come distruggere la propria carta d´identità, quella in cui siamo venuti meglio.

Repubblica 18.12.09
Lo studioso Tullio Gregory: si perde un patrimonio

"Sono laboratori di cultura è un danno gravissimo"

ROMA - «La biblioteca è un centro di ricerca intellettuale, al pari di un laboratorio scientifico. Necessitano entrambi degli strumenti più aggiornati. In caso contrario, ci si condanna a guardare le stelle ancora con il cannocchiale di Galileo». Bibliofilo appassionato, Tullio Gregory ha famigliarità con il patrimonio librario di mezzo mondo. «In Italia ci si dimentica che l´investimento nella ricerca è direttamente produttivo. Non a caso i paesi più attenti alla cultura sono quelli più sviluppati».
Un´intera comunità di ricercatori, studenti, professori rischia di rimanere senza biblioteche. Con quali conseguenze?
«Il caso italiano è grave. Non solo si privano i lettori di strumenti essenziali, ma si rinuncia a valorizzare un patrimonio straordinario. Le biblioteche sono laboratori di cultura, dotati di fondi preziosi che devono essere ancora studiati e analizzati».
La Biblioteca nazionale di Roma non ha i soldi per acquistare libri stranieri.
«Questo significa che non possiamo più acquisire importanti collezioni di classici latini pubblicate all´estero. Né potranno essere completate le raccolte di periodici e riviste italiane cominciate da decenni. Un patrimonio condannato a essere svalutato».
Un danno anche per l´immagine del paese.
«Sì, finanziamenti così esigui e personale drammaticamente insufficiente non sono propri di un paese civile».
(Simonetta Fiori)

Repubblica 18.12.09
Venti anni fa in Romania il regime del dittatore finì nel sangue Parla Ion Iliescu, che guidò la rivolta e poi divenne presidente

"Così decidemmo di fucilare Ceausescu"
di andrea Tarquini

All´inizio credemmo in lui. Ma poi si infatuò della Corea del Nord e divenne uno spietato stalinista
Molte cose ancora non vanno: ma abbiamo imboccato la via della democrazia. E non torneremo indietro

«All´inizio credemmo in lui, era popolare, diceva di no a Mosca. Poi s´infatuò della Corea del Nord, divenne uno spietato stalinista. E oggi eccoci qui, vent´anni dopo, a ricordare la rivoluzione che pose fine alla sua tirannide e alla sua vita. Molte cose da noi ancora non vanno, ma in quel gelido dicembre, quando popolo e soldati sfidarono i suoi sgherri, imboccammo la via della libertà, del ritorno in Europa. Processarlo e giustiziarlo fu necessario». È la caduta di Nicolae Ceausescu, narrata da un testimone eccezionale: Ion Iliescu, riformatore nel Pc romeno, divenne leader del nuovo potere e fu poi più volte presidente postcomunista ma democraticamente eletto.
Presidente, 20 anni dopo, per Lei, quali emozioni e quali ricordi?
«Fu un lungo processo. La mia generazione fu segnata dalle speranze aperte da Kruscev col 20mo congresso del Pcus. Ma poi nel ‘64 Kruscev stesso volle imporre una divisione del lavoro coloniale nel blocco socialista. Bucarest seppe dire di no, Ceausescu fu coraggioso. Rifiutò la de-industrializzazione per diktat di Mosca. Vennero liberalizzazione, rilascio dei prigionieri politici, dialogo con l´intelligentsija, il rifiuto di rompere con Israele, il no nel ‘68 all´invasione di Praga. Un ruolo di ponte tra i blocchi: con lui aiutammo Sadat e Begin, Nixon e i cinesi a parlarsi. Anni di speranza, poi tramontarono».
Quando? Perché?
«Nel ‘71. Lui cominciò a farsi molto sospettoso, cambiò nell´animo. Ricordo un viaggio in Asia. A Pyongyang, mi confessò ammirazione per il sistema nordcoreano. Ero membro della Segreteria. ‘Compagno Nicolae´, gli dissi, ‘attento, sarebbe una vergogna per il socialismo copiare Kim Il-Sung. Siamo europei».
Lui come reagì?
«Prima, silenzio. Poi al Plenum del partito mi attaccò per ‘intellettualismo´. Fui escluso dal vertice, inviato in provincia, poi espulso. Mi guadagnai la vita da ingegnere. Poi mi fu vietata anche questa professione. Vissi anni bui. Sperimentai nel quotidiano una situazione economica sempre più pesante per la nostra gente. La sua ossessione di ripagare il debito estero ed esportare tutto il possibile impose gravi sofferenze al popolo. E nell´89, mentre tutto il blocco andava alle svolte, lui le osteggiò, definì Gorbaciov traditore».
Quando cominciò a ritenere inevitabile uno sbocco violento?
«Quando nell´89 vidi la svolta polacca e ungherese, e poi anche a Praga. Da noi non cambiava nulla. Un´esplosione popolare mi sembrò inevitabile. Ero a Iasi, nella piccola editoriale, aspettavamo libri che una tipografia di Timisoara ci doveva fornire. Ritardavano, il 17 dicembre telefonammo. ‘Ma non sapete che succede? La gente è in piazza, la repressione si scatena, sparano´, ci risposero. Poi cadde subito la linea. Ci preparammo al peggio, ma lui commise un errore fatale. Convocò un comizio a Bucarest il 22. Sperava di galvanizzare la folla come da giovane. Invece divenne rivolta. Fuggì in elicottero, cominciarono gli scontri. Cominciò nel sangue il nostro cammino verso la libertà. Mi chiamarono a Bucarest, avventurosamente riuscii a raggiungerla. Riunimmo il Comitato centrale, pronunciai il primo messaggio tv al paese. Di strada in strada si combatteva, giovani e ragazze, soldati e ufficiali cadevano negli scontri sventolando il tricolore».
Ma stavate vincendo, perché decideste di fucilarlo?
«Erano passati 3 giorni di guerra ovunque, nessuno sapeva più chi sparava contro chi. I suoi stavano creando l´anarchia, lo Stato si dissolveva. Dovemmo dare un segnale politico per fermare la tragedia, decidemmo un processo eccezionale. Improvvisato, lo ammetto. Ma due giorni dopo la sua esecuzione, la violenza si fermò. Non potevamo fare altro o la tragedia si sarebbe prolungata in un´eterna guerra civile».
Poi vennero le proteste degli studenti, represse dai minatori filogovernativi…
«Venne la fase più difficile. Costruire istituzioni democratiche, trasformare l´economia dal Piano al mercato…ci mancava l´esperienza. La rivolta giovanile riportò pericoli di anarchia, assaltarono il palazzo del Pc, la Tv. Il nuovo conflitto sociale, minatori contro giovani intellettuali, fu tragico, ma lo Stato non aveva mezzi per imporre l´ordine. Quanto avvenne ebbe un terribile impatto negativo sulla nostra immagine nel mondo, pesò sull´approdo a Ue e Nato. ‘Iliescu è rimasto comunista´, dissero in molti. Io mi ritengo un democratico. Quel che conta, oggi siamo europei e atlantici, una democrazia».
Vent´anni dopo, cosa le piace della Romania e cosa no?
«La democrazia, il fatto che il Terrore, il clima di divieto di pensare, siano solo ricordi. Ma dobbiamo fare ancora molto. Contro le disuguaglianze che accendono nostalgie. Non verso Ceausescu ma verso le sicurezze sociali del passato. La democrazia deve mostrarsi dalla parte dei deboli, dei poveri. E ci vuole una pubblica amministrazione onesta. Non mi piace il clima della rielezione di strettissima misura dell´attuale presidente Basescu. Non è aperto al dialogo, attacca lo Stato di diritto, le opposizioni, il Parlamento e la magistratura, crea un clima di tensione. Spero che esperienza e riflessioni lo aiutino a cambiare. In quei giorni dell´89 dicemmo che ci sarebbero voluti vent´anni per costruire una democrazia normale, oggi penso che ce ne vorranno altri venti almeno».

Repubblica 18.12.09
Un originale testo di Holenstein sui luoghi e sui percorsi del pensiero

Così le carte geografiche spiegano anche la filosofia
di Antonio Gnoli

Nell´apparato iconografico del volume i luoghi della cultura

Nonostante avesse inserito nel suo magistero anche l´insegnamento della geografia e amasse intrattenere i commensali a tavola, parlando con vigore e competenza dell´Africa o della lontana Asia, Kant non si mosse mai dalla sua adorata Königsberg. Tutto il mondo sensibile confluiva nella sua mente, in quella rete di connessioni in cui si elabora la conoscenza. Più inquieto fu Hegel che non disdegnava viaggiare, anche se il massimo che riuscì a compiere nella sua vita fu un´escursione sulle Alpi. Ma diversamente da Kant - che aveva fissato la conoscenza nelle categorie immobili dello spazio e del tempo - Hegel guardò al pensiero come a qualcosa di mobile. Di dialettico appunto. Immaginò non solo un percorso verticale, un´ascesa, una purificazione, che pure era nella sua visione trionfalistica di una storia che marcia verso lo spirito assoluto, ma anche uno spostamento orizzontale. Immaginò un pensiero nomadico che, nato nelle remote distese asiatiche, approdava dopo millenni in Europa, e in particolare nella Germania del XIX secolo. «La storia del mondo» - scrisse nelle sue lezioni berlinesi - «va da Oriente a Occidente, l´Europa è infatti la fine della storia del mondo, così come l´Asia ne è il principio... Qui nasce il sole esteriore, fisico, che tramonta a Occidente; ma qui nasce anche il sole interiore dell´autocoscienza». Tutto questo, lo diciamo in modo scherzoso, ricorda la celebre storia del birillo che gli avventori del bar di Foligno considerano il centro del mondo.
Davvero possiamo accontentarci di spiegare il pensiero filosofico come una vicenda tutta europea? Helmar Holenstein, con il suo Atlante di filosofia (Einaudi, pagg. 299, euro 65), rimette in discussione questa tesi la cui solennità poggia sull´idea che i concetti non debbano in nessun modo occuparsi del dove e del quando ma solo se ciò che è detto sia argomentabile come vero o falso.
È noto che alla nascita del mondo moderno contribuirono, oltre alla rivoluzione scientifica, anche le grandi scoperte geografiche. Quando il dominio passò dalla terra ai mari e la scoperta dei mondi lontani si fece più frequente, le concezioni in merito alla vita e ai costumi si relativizzarono. Fu allora che per la prima volta si affacciò il nichilismo: una bestia che i cartografi si illusero di ingabbiare con il loro lavoro di riduzione della Terra a immagine. Quelle superbe esecuzioni indicavano non solo che nel mondo era in atto una rivoluzione, ma anche il fatto che l´Occidente stava fornendo un codice visivo di portata globale.
Non è senza fondamento quello che scrive Franco Farinelli nel bel libro La critica della ragione cartografica (Einaudi, pagg. 249, euro 18), quando nota che tra il Cinque e il Seicento «il pensiero occidentale diventa, non soltanto con Cartesio, il protocollo della logica cartografica, assumendone la natura». Un´intera epoca - oscillante tra razionalismo ed empiria - si appropria di ciò che fino a quel momento era stato dominio di Dio, cioè il mondo, e ne fa una rappresentazione sia scientifica che filosofica. In un lento svanire delle vecchie acquisizioni, muta il quadro di insieme: si fanno strada motivi che dureranno fino a oggi: l´astratto prevale sul concreto, l´universale ha la meglio sul dettaglio, il perenne scalza il transeunte. In fondo quello del cartografo non è solo un lavoro di astrazione e precisione, ma altresì di volontà di potenza e di codificazione di un dominio fondato sulla scienza e la filosofia, sulle vele e i cannoni.
Correggendo in qualche modo Hegel, Max Weber affermò che non c´è nulla che non sia stato pensato, sotto qualche forma, in Asia. Qui, nella parte meridionale, si sviluppò intorno al V secolo a. C. un pensiero filosofico senza l´ausilio della scrittura: si trattava per lo più di versi della dottrina Yoga che contenevano riflessioni astratte e complesse, facilmente memorizzabili. Soltanto in seguito i sutrani (il nome che presero questi componimenti orali) furono messi per iscritto. Ma è in Africa, secondo Holenstein, che il pensiero filosofico, sotto forma di letteratura sapienziale, sarebbe nato. In alcune zone del Kemet (l´odierno Egitto), più di tremila anni fa, vennero elaborate le prime massime etiche fondate non tanto su un ordine etico o religioso quanto filosofico.
Si mette così in discussione l´idea che la filosofia sia nata in Grecia come passaggio dal Mito al Logos. I presocratici, Platone, Aristotele avrebbero dunque degli antecedenti (o dei contemporanei) in altre parti del globo. Ma perché alla fine è il modello ellenico a prendere il sopravvento? La risposta è tutta iscritta nel destino che l´Europa svolgerà nel millennio successivo. Certo, anche la cultura filosofica non sarà estranea alle contaminazioni. Già con le conquiste di Alessandro il pensiero ellenico si apre al contributo asiatico (sciamanico e religioso) e in seguito tutta la tradizione greca troverà un appoggio fondamentale in quegli scrittori arabi (soprattutto medici e matematici) che si faranno carico di tradurre e conservare le opere filosofiche più importanti. Ad alcuni oggi può suonare come una bizzarria o una bestemmia che uno dei pilastri della cultura occidentale sia stato salvato e arricchito dal quel pensiero islamico che vide nei nomi di al Farabi, al Ghazali, Avicenna, Averroè i protagonisti di una storia che seppe illuminare i secoli bui dell´Europa.
Naturalmente, Holenstein prova a sciogliere i ghiacci della metafisica occidentale, e a diluirli nel mare dei valori interculturali. Attraverso le carte, l´Atlante mostra in che modo la filosofia abbia viaggiato nel mondo, spostandosi a volte da un continente all´altro. Come i venti e le correnti, così il pensiero non conosce veri confini. Cosa concludere? Si può giungere a uno stesso grado di consapevolezza della verità seguendo metodi differenti. È un chiaro invito al confronto culturale: niente è così centrico e autoreferenziale da pretendere di escludere ciò che nel resto del mondo è stato pensato.
Si tratta di un libro scritto contro le paranoie del moderno. Quando Tolomeo fornì nel II secolo d. C. i criteri per descrivere su un piano orizzontale il mondo allora noto, si aprì uno scenario sorprendente. Quel signore, geografo, astronomo, astrologo, così distante dalle moderne rivoluzioni scientifiche, avrebbe inventato il sistema di coordinate (latitudine e longitudine) senza il quale sarebbe risultato difficile ridurre la Terra a un insieme di punti geometrici. Fu Tolomeo ad annunciare lo spazio moderno e tutti i successivi atlanti? Farinelli ne è talmente convinto da ritenere che, nonostante Copernico e Keplero, noi continuiamo ad avere una percezione tolemaica del mondo. La Terra anche se scientificamente non è più al centro del nostro Universo continua ad esserlo di fatto. E per secoli, l´Europa ne rappresentò idealmente il cardine. Almeno fino a quando Nietzsche vide nel vecchio continente un malato incurabile. Ma questa è un´altra storia.

Corriere della Sera 18.12.09
Visto da New Delhi Il diplomatico Shashi Tharoor, ex vice di Kofi Annan all’Onu
«Non negate a 600 milioni di indiani il diritto di ottenere l’elettricità»
di Alessandra Muglia

Il summit di Copenaghen vi­sto da New Delhi: quasi un falli­mento?

«Non siamo preparati ad accet­tare la nozione di fallimento: sia che si arrivi in extremis a un qual­che accordo, sia che si approdi soltanto a una dichiarazione poli­tica per continuare la trattativa dopo Copenaghen».

Shashi Tharoor, sottosegreta­rio agli Esteri indiano, una carrie­ra da diplomatico alle spalle an­che come vice segretario dell’Onu con Kofi Annan, nominato nel 1998 «leader globale di domani» al World Economic Forum di Da­vos, scrittore di saggi e romanzi di successo, si porta dietro quello sguardo allargato utile per affron­tare nodi planetari come quello del clima. «Parlare di fallimento significa che rinunciamo al piane­ta, e noi non siamo preparati a far­lo — assicura —. Il fallimento non è un’opzione: l’accordo che non c’è ora deve essere trovato più in là».

Stiamo però andando più len­tamente di quanto dovremmo. Chi è responsabile?

«Dobbiamo tener presente che i precedenti trattati come il proto­collo di Kyoto sono stati tutti il ri­sultato di ardui negoziati. Non credo sia saggio che alcuni Paesi cerchino di buttare via quello che è stato concordato in anni di di­scussioni e trattative. Dobbiamo concentrarci su quel che è già sta­to fatto e da lì procedere oltre».

L’India come la Cina finora ha rifiutato tagli vincolanti alle emissioni di Co2. Non sta così remando contro un accordo glo­bale?

«Premetto che pur senza obbli­ghi particolari noi stiamo facen­do molto all’interno del nostro Pa­ese attraverso leggi e azioni che hanno un impatto positivo sul surriscaldamento globale. Abbia­mo lanciato la campagna naziona­le 'Per un’India verde' e iniziati­ve speciali sulle energie alternati­ve. Per esempio a New Delhi tutti i bus e i trasporti pubblici vanno a gas naturale e non a benzina (nel governo c’è pure un ministro per le Energie rinnovabili, ndr ) ».

Iniziative apprezzabili ma nes­sun impegno vincolante.

«In India ci sono 600 milioni di abitanti che non hanno accesso al­l’elettricità. Non possiamo nega­re alla nostra gente il diritto ad avere la luce elettrica. Voi siete a un livello di sviluppo che noi dob­biamo ancora raggiungere. Certo, vogliamo crescere nel modo più efficiente e pulito possibile. Noi stiamo facendo la nostra parte, ma per riuscirci ci occorrono aiu­ti e trasferimenti di tecnologia verde».

L’India sembra presentare la stessa ambivalenza della Cina: portavoce dei poveri con l’ambi­zione di sedere al tavolo dei ric­chi.

«Non è giusto paragonarci alla Cina. L’India ha il 17,5% della po­polazione mondiale ma oggi è re­sponsabile soltanto del 4% delle emissioni. Dobbiamo correre ai ri­pari per una situazione creata da due secoli di industrializzazione a cui l’India non ha contribuito. Og­gi siamo considerati il quinto in­quinatore al mondo: può essere, ma il nostro contributo al surri­scaldamento è del 4% mentre quello di Cina e Usa insieme è del 50%».

Quale ruolo ha l’India nello scontro tra Paesi in via di svilup­po e nazioni ricche?

«Un ruolo ponte. L’India è un membro del G77 ed è uno dei quattro Paesi del Basic (con Brasi­le, Sudafrica e Cina, ndr). Noi cer­chiamo di mediare tra le diverse posizioni del G77».

Crede che la Cina stia ostaco­lando l’intesa?

«Non accuso nessuno, vorrei soltanto che i Paesi ricchi fossero un po’ più costruttivi».

La Clinton ha annunciato 100 milioni di dollari all’anno fino al 2020 dai Paesi occidentali. Ora tocca ai Paesi in via di sviluppo: è abbastanza per accettare tagli vincolanti alle emissioni?

«Diamo il benvenuto a qualsia­si iniziativa del mondo sviluppa­to che tenga in considerazione la sua specifica responsabilità e ca­pacità ».

giovedì 17 dicembre 2009

Terra 17.12.09
L’araba ribelle
Esibire simboli religiosi? Offende il pubblico pudore
di Joumana Haddad

La religione cristiana non è più tollerante di quella islamica. La Chiesa ha trovato modi più ipocriti e pericolosi per combattere chi la sfida
Per avere bisogna concedere: come spiegheremo agli islamici europei che il Burka è offensivo se non ammettiamo che il crocifisso lo è per loro?
La religione, come l’amore, dovrebbe essere un fatto intimo e privato

Quando la cantante americana Madonna, nel video della sua canzone Like a prayer (1989), ha baciato la statua di un santo di colore, che poi si animò e danzò sensualmente davanti a delle croci che bruciavano, è stata aspramente criticata dal Vaticano e dai cattolici, perché quel video è stato giudicato “sacrilego”. Ripeto: È stata “aspramente criticata”. Punto. Quando invece il regista olandese Teo Van Gogh ha rilasciato il suo cortometraggio “Submission” (2004), in cui si vedevano dei versi di una sura del Corano scritti sulla schiena della protagonista del film, è stato assassinato da un musulmano olandese.
Il codice Da Vinci, Gilbert and George, Damien Hirst, e le loro violente provocazioni al Cristianesimo? “Aspramente criticati”. Salman Rushdie, Taslima Nasreen, Ayan Hirsi Ali e le loro violente provocazioni all’Islam? Fatwa. Minacce di morte. Omicidi. Perché ripeto ora questi fatti conosciuti da tutti ormai? Non certo per sostenere che la religione cristiana è più tollerante di quella islamica. Quello è solo uno “bluff ”, un’illusione ottica che non dovrebbe illudere nessuno. E io non sarei per nulla credibile, né coerente con me stessa, se sposassi una tesi simile. Anzi, secondo me la Chiesa ha trovato metodi più ipocriti, cancerogeni, e forse anche più pericolosi, per combattere quelli che sfidano il suo potere. Mi posso permettere di affermarlo, essendo in fondo un “prodotto” della cultura cattolica, anche se orientale.
Le dico, queste cose, per sostenere una tesi: per avere, si deve concedere. Io sono nata e cresciuta in un paese (il Libano) dove c’era di tutto: musulmani sunniti, musulmani sciiti, drusi, cattolici, ortodossi, ecc.; un paese dove 20 comunità religiose diverse condividevano, (in salutare indifferenza, almeno fino al 1975) questo microscopico spazio geografico, politico e sociale. Io ho imparato, fin da piccola, a non esibire le mie convinzioni come se fossero delle verità assolute e definitive che valgono per tutti. Ho anche imparato che dobbiamo fare una scelta tra il rigetto dei simboli (quindi eliminarli) o il rispetto dei simboli (quindi accettarli tutti); e ho imparato che la libertà d’espressione è diversa dalla libertà di
offendere; e che il “politicamente corretto”, e il “decentemente corretto”, non sono affatto la stessa cosa.
Per avere, si deve concedere. In parole più chiare, come potremmo convincere la comunità musulmana d’Europa che il Burka, per esempio, è offensivo, senza ammettere che anche il crocifisso lo è per loro? Il crocifisso non è un oggetto di decorazione: è un simbolo della fede cristiana e delle sue leggi. Il crocefisso dice, tra l’altro: “Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia”. (San Paolo, Prima lettera a Timoteo, 2: 12 – 15).
Allora basta con l’esibizionismo e il voyeurismo religiosi, in tutte le loro forme.
Andare a pregare dovrebbe essere come andare a fare l’amore: un’affare privato. Si parla sempre di oscenità sessuale, ma perché nessuno parla di oscenità religiosa?
Chi fa l’amore in pubblico viene mandato in prigione: sostengono che sia “un’offesa al pudore pubblico”. Io sogno un mondo laico, non contaminato, dove lo stesso trattamento è riservato a coloro che fanno spettacolo della loro fede religiosa.
Eppure, lo confesso, aspetto con grande impazienza il giorno in cui una cantante musulmana danzerà in pubblico con un piccolo Corano appeso tra i seni nudi. Vivrebbe, la sciagurata, 24 ore per raccontarlo.
Intanto, io vado a pregare a modo mio. Cioè a fare l’amore. In privato. Molto in privato.

Repubblica 17.12.09
Le leggi per la Rete
di Stefano Rodotà

L´Italia ha scoperto la Rete. Appena ieri era divenuta evidente per tutti la forza di Internet quando proprio da lì era partita l´iniziativa che era riuscita a portare in piazza un milione di persone per il "No B Day".
Si materializzava così una dimensione della democrazia inedita per il nostro paese. Pochi giorni dopo quell´immagine appare rovesciata. Internet diventa il luogo che genera odio, secerne umori perversi. E questa sua nuova interpretazione travolge quella precedente: il "No B Day" è presentato come un momento d´incubazione dei virus che avrebbero reso possibile l´aggressione a Berlusconi, Internet come lo strumento in mano a chi incita alla violenza. Conclusione: la proposta di un immediato giro di vite per controllare la Rete, secondo un abusato copione che trasforma ogni fatto drammatico non in un imperativo a riflettere più seriamente, ma in un pretesto per ridurre ogni questione politica e sociale a fatto d´ordine pubblico, limitando libertà e diritti.
Per fortuna, all´interno dello stesso mondo politico è stata subito colta la pericolosità di questa impostazione. Intervenendo alla Camera dei deputati, Pier Ferdinando Casini ha detto parole sagge: «Guai a promuovere provvedimenti illiberali. Le leggi già consentono di punire le violazioni. Negli Usa Obama riceve intimidazioni continue su Internet, ma a nessuno viene in mente di censurare la Rete». E la finiana fondazione FareFuturo evoca la "sindrome cinese", la deliberata volontà di impedire che Internet possa rappresentare uno strumento di democrazia. Questi moniti, insieme a molti altri, sembrano aver trovato qualche ascolto, a giudicare almeno dalle dichiarazioni più prudenti del ministro Maroni.
Il tema della violenza è vero, e grave. Ma altrettanto ineludibile è la questione della democrazia. È istruttivo leggere la lista dei paesi che sottopongono a controlli Internet: tutti Stati autoritari o totalitari (con una particolare eccezione per l´India). Questo vuol forse dire che i paesi democratici sono distratti, che si sono arresi di fronte all´hate speech, al linguaggio dell´odio? O è vero il contrario, che è maturata la consapevolezza che la democrazia vive solo se rimane piena la libertà di manifestare opinioni, per quanto sgradevoli possano essere, e che già disponiamo di strumenti adeguati per intervenire quando la libertà d´espressione si fa reato nel nuovo mondo digitale?
Vi è una vecchia formula che ben conoscono coloro i quali si occupano seriamente di Internet: quel che è illegale offline, è illegale anche online. Tradotto nel linguaggio corrente, questo vuol dire che Internet non è uno spazio privo di regole, un far west dove tutto è possibile, ma che ad esso si applicano le norme che regolano la libertà di espressione e che già escludono che essa possa essere considerata ammissibile quando diventa apologia di reato, istigazione a delinquere, ingiuria, minacce, diffamazione. Questo è il solo terreno dove sia costituzionalmente legittimo muoversi, e le particolarità di Internet non hanno impedito alla polizia postale e alla magistratura di intervenire per reprimere comportamenti illegali. Le conseguenze di questa impostazione sono chiare: no alla censura preventiva, comunque incompatibile con i nostri principi costituzionali; no a forme di repressione affidate ad autorità amministrative o riferite a comportamenti non qualificabili come reati; no ad accertamenti e sanzioni non affidati alla competenza dell´autorità giudiziaria.
Considerando più da vicino le peculiarità di Internet, bisogna essere ben consapevoli del fatto che le proposte di introdurre "filtri" all´accesso a determinati siti sollevano un radicale problema di democrazia. Chi stabilisce quali siano i siti "consentiti"? Qual è il confine che separa i contenuti liberamente accessibili e quelli illeciti? Il più grande spazio pubblico mai conosciuto dall´umanità rischia di essere affidato, all´arbitrio politico, che inevitabilmente attrarrebbe nell´area dei comportamenti vietati tutto quel che si configura come dissenso, pensiero minoritario, opinione non ortodossa. E la proposta di vietare l´anonimato in rete trascura il fatto che proprio l´anonimato (peraltro ostacolo non del tutto insuperabile nel caso di veri comportamenti illeciti) è la condizione che permette la manifestazione del dissenso politico. Quale oppositore di regime totalitario potrebbe condurre su Internet la sua battaglia politica, dentro o fuori del suo paese, se fosse obbligato a rivelare la propria identità, così esponendo se stesso, i suoi familiari, i suoi amici a ogni possibili rappresaglia? Non si può inneggiare al coraggio dei bloggers iraniani o cubani, e denunciare le persecuzioni che li colpiscono, e poi eliminare lo scudo che, ovunque, può essere necessario per il dissenziente politico. Anche nei paesi democratici. È di questi giorni la denuncia di associazioni americane per la tutela dei diritti civili che accusano le agenzia per la sicurezza di controllare reti sociali come Facebook e Twitter proprio per individuare chi anima iniziative di opposizione. Non è la privacy di chi è in Rete ad essere in pericolo: è la sua stessa libertà, e dunque il carattere democratico del sistema in cui vive.
Certo, i gruppi che su Facebook inneggiano a Massimo Tartaglia turbano molto. Ma bisogna conoscere le dinamiche che generano queste reazioni, certamente inaccettabili, ma rivelatrici del modo in cui si sta strutturando la società, che richiede attenzione e strategie diverse dalla scorciatoia repressiva, pericolosa e inutile. Inutile, perché la Rete è piena di risorse che consentono di aggirare questi divieti. Pericolosa, non solo perché può colpire diritti fondamentali, ma perché spinge le persone colpite dal divieto a riorganizzarsi, dando così permanenza a fenomeni che potrebbero altrimenti ridimensionarsi via via che si allontana l´occasione che li ha generati.
Solo una buona cultura di Internet può offrirci gli strumenti culturali adatti per garantire alla Rete le potenzialità democratiche continuamente insidiate al suo stesso interno da nuove forme di populismo, dalla possibilità di creare luoghi chiusi, a misura proprie e dei propri simili, negandosi al confronto e alla stessa conoscenza degli altri. Più che misure repressive serve fantasia, quella che induce gruppi in tutto il mondo a chiedere un Internet Bill of Rights o che ha spinto uno studioso americano oggi collaboratore di Obama, Cass Sunstein, a proporre che i siti particolarmente influenti per dimensioni o contenuti debbano prevedere un link, una indicazione che segnali l´esistenza di siti con contenuti diversi o opposti e che permetta di collegarsi a questi immediatamente.

Repubblica 17.12.09
Pannella: chi punta a gestire il patatrac dovrà fare i conti con noi radicali

ROMA - «Silvio Berlusconi non si deve toccare. Deve essere battuto con e nella democrazia che si deve conquistare. Non nella partitocrazia di sinistra, centro o destra». A sostenerlo è Marco Pannella, che definisce questo «l´inverno più difficile dal 1955» per l´Italia. Ci sono, sostiene, forze interessate «al patatrac: quelle forze dovranno fare i conti con la nostra resistenza», dice il leader radicale. Che continua: «Berlusconi non è un genio, ma non è neanche un genio del male. Lui è un prodotto della nostra partitocrazia. Il clima è simile al 1980 e come allora vogliono cancellare e zittire i radicali».

Repubblica 17.12.09
A Dongguan, nel cuore industriale del Paese 300mila prostitute sono controllate e certificate
Cina, la città delle concubine con il bollino di qualità
di Giampaolo Visetti

Ogni tanto una retata ricorda che vendere prestazioni sessuali è un reato. Ma nei fatti, le autorità non fanno nulla per frenare il commercio
Il lavoro inizia fin dal mattino: bar, saune, centri di massaggi e discoteche per allietare le giornate di lavoratori, businessmen e funzionari
In Cina, ogni giorno, sembra cambiare tutto. La memoria muore con la notte. Solo su un punto la tradizione non transige: il sesso. Si nasconde qui l´unico fallimento del potere. Nel 1949 Mao chiuse i bordelli e dichiarò reato la prostituzione. Risultato: sessant´anni dopo prospera in Cina la città del sesso più grande del mondo. Si chiama Dongguan e giace tra i canali, nel delta del fiume delle Perle, nella regione meridionale del Guangdong.
L´ultimo rifugio delle concubine è stato collocato sull´acqua dopo un´indagine di mercato, piuttosto che per una romantica nostalgia. Dongguan è a metà strada tra Shenzen e Guangzhou, megalopoli industriali del cuore produttivo del pianeta. Milioni di lavoratori migranti, centinaia di manager, migliaia di clienti in viaggio, tutti con il requisito-base: una vita lontano da casa e qualche soldo fuori controllo in tasca. In trent´anni, grazie all´esplosione globale dell´economia cinese, la città delle ultime concubine ha trasformato, a sua volta, un mestiere artigianale in un´industria. Si può leggere, in questo passaggio, la sconvolgente metamorfosi cinese. Le prostitute sono oltre 300mila e il settore impiega stabilmente 800mila addetti.
Dopo un´iniziale, timida, opposizione, la municipalità si è sviluppata su misura. Ogni giorno, perché l´attività inizia già al mattino, aprono 25 mila locali: saune, centri-massaggio, bar, karaoke, bagni e discoteche. Sono sorti anche 120 alberghi di lusso, per uomini particolarmente generosi che amano le ragazze d´alto bordo. Nessuno, ufficialmente, è un bordello. E infatti le ragazze, come impone il destino di ogni concubina, adempiono innanzitutto ad un servizio di "sostegno umano": chiacchierano, consolano, brindano e mangiano con chi ne ha bisogno, addormentano, consigliano. Soprattutto ridono, considerata la difficoltà e l´importanza della pratica, nella quotidianità.
Solo dopo tale opera sedativa, con orientale finezza e cinese determinazione, si passa all´amore. Qui termina l´esotismo imperiale e inizia la catena di montaggio statale. Ogni locale offre una quarantina di ragazze, distinte per qualità. Ogni aspirante viene sottoposta ad un regolare corso settimanale di addestramento professionale. «Sufficiente - ha confessato una novizia - per farti spellare non solo le ginocchia». I servizi offerti sono 30 e vanno concordati prima. Le concubine più raffinate seguono anche corsi di recitazione: devono sapere cantare e suonare, fare lo spogliarello, ballare, travestirsi, fingere su tutto. Due ore standard, con «doppio amplesso su letto ad acqua», costano tra i 15 e gli 80 euro. Base di partenza.
La genialità cinese, innescata dalla proverbiale parsimonia popolare, è arrivata a certificare l´indice "Iso" anche per garantire la qualità del prodotto di Dongguan. Trecento ispettori esaminano ogni mese locali e concubine: valutano lusso, ampiezza, pulizia, salute, attrezzatura, età, caratteristiche, riservatezza e così via fino al titolo di studio delle signore, all´opportunità di girare video personali e alla probabilità dei clienti di restare vittime di una retata della polizia. I centri più eleganti, tra i servizi, offrono anche la tecnologia. Concubine hi-tech aiutano i clienti, provenienti ormai da tutta l´Asia, a navigare in internet. Realizzano e stampano, su carta di riso rossa, ricerche da Google. Una società, per venti euro all´anno, invia agli abbonati sms quotidiani con le novità, le disponibilità di giornata, le offerte. A fornire i nominativi degli interessati potenziali, le concessionarie d´auto della regione. In due mesi hanno sottoscritto in 7 mila. L´organizzazione è all´altezza dei risultati. Si calcola che il 10% dei lavoratori di Dongguan frequentino ormai abitualmente le prostitute, per un giro d´affari di 70 milioni di euro a settimana.
«Chiudere - ha osservato il segretario comunale del Partito comunista, Liu Zhigeng - significherebbe bruciare il 30% del Pil e produrre quasi un milione di disoccupati. Ma possiamo dire che sarebbe a rischio la nostra intera economia. E questo, si capisce, è il problema».
Nonostante il successo, e il suo valore, l´ultimo mercato delle concubine cinesi è vissuto dal Paese come una vergogna nazionale. «Trecentomila prostitute in una città di prostitute - dice Pan Suiming, docente di sociologia all´Università del Popolo - certificano un fallimento politico. Le donne, nelle fabbriche del Guangdong, vengono sfruttate e molestate. Il 90% delle concubine, prima di diventarlo, hanno lavorato nelle catene di montaggio. Finiscono nei bordelli camuffati da sauna perché non hanno scelta. Se devi subire, meglio farlo guadagnando trenta volte di più e lavorando il 50% in meno».
Da anni, il ministero della Pubblica sicurezza, pressato da masse di mogli inferocite, annuncia piazza pulita. Migliaia di poliziotti effettuano periodiche retate. Poi si scopre, regolarmente, che nei locali si rilassano funzionari di partito e vertici delle forze dell´ordine. Che saloni e night appartengono ai leader del potere e delle organizzazioni di categoria. O che le stesse autorità affittano interi piani di hotel e relative ragazze per tenere le riunioni politiche più delicate. «La pressione per chiudere un occhio - dice il capo della polizia, Cui Jian - è enorme». Per questo l´ultimo eden delle concubine cinesi non conosce tramonto. Cresce, come tutto, qui: assieme alla tristezza della sua solitudine.

Repubblica 17.12.09
Ayn Rand. L’icona della destra americana
di Federico Rampini

Biografie, citazioni, tesi di laurea: il revival della vestale liberista che fu maestra di Greenspan infiamma i conservatori Usa
Scrisse un romanzo sui seguaci del capitalismo che nel 2009 ha venduto 500 mila copie
Esule dalla Russia rivoluzionaria oggi viene usata come anti-Palin per il suo "élitismo di massa"
NEW YORK. Quest´anno avrà venduto ancora mezzo milione di copie. Niente male per un libro uscito nel 1957. Il suo successo ha avuto un nuovo boom nell´ultimo biennio, una progressione geometrica: più 67 per cento le vendite dall´anno scorso, più 114 dal 2007. Non è la prima volta. Già negli anni Novanta, in un sondaggio promosso dalla Library of Congress, gli americani lo indicarono come «il libro che aveva più influenzato la loro vita» dopo la Bibbia. È Atlas Shrugged, il romanzone (1.200 pagine) di Ayn Rand, la profetessa della destra liberista (tradotta in Italia da Corbaccio con il titolo L´Atlantide) che conosce un potente revival a 27 anni dalla sua morte. Una donna che rappresenta il polo opposto rispetto alla nuova star dei conservatori, Sarah Palin, anche lei ben piazzata nelle classifiche delle vendite con il suo best seller Going Rogue. Il successo della Palin è costruito sull´anti-élitismo, sul disprezzo degli intellettuali. Il suo populismo eccita l´America profonda che vive di Suv, birra e porto d´armi. La Rand al contrario inventò uno speciale "élitismo di massa", come dimostrano le 27 mila tesi di laurea che ogni anno le vengono dedicate. Atlas Shrugged si presenta come un romanzo filosofico ed esoterico, la chiave per entrare a far parte di una schiera di eletti: i seguaci del capitalismo allo stato puro.
Contro di lei sono state impotenti le armi della critica che stroncò subito Atlas Shrugged, senza pietà e a ragione: trame improbabili, personaggi senza spessore psicologico, troppe digressioni predicatorie. Accuse irrilevanti. Da quando Barack Obama è alla Casa Bianca, nelle manifestazioni anti tasse organizzate dai repubblicani sono apparsi striscioni con le scritte "Atlas Shrugged" e "Ayn Rand aveva ragione". Il più popolare anchorman della Fox News, il pop-con Glenn Beck, la cita nelle sue urlate televisive contro le "statalizzazioni rampanti" del presidente. Il centro studi dedicato alla perennità del suo pensiero - "Ayn Rand Institute Objectivist Academic Center" - è assediato dalle richieste di conferenze sulla pensatrice scomparsa. Ogni anno 900 mila copie dei suoi romanzi sono utilizzati come libri di testo nei licei. La Vendetta postuma di Ayn Rand, è il titolo di un preoccupato saggio di Adam Kirsch, opinionista di New Republic. E ben due biografie della grande dama conservatrice sono appena uscite in libreria simultaneamente.
La sua vita in effetti è ben più avvincente dei suoi romanzi. Ebrea russa di San Pietroburgo (il suo vero nome era Alissa Rosenbaum), a 12 anni è traumatizzata dalla rivoluzione quando le milizie bolsceviche sequestrano la farmacia del padre e costringono la famiglia all´esilio. Emigra in California, decisa a dedicare la vita alla lotta contro il comunismo e ogni forma di collettivismo. Viene notata a Hollywood dal regista Cecil B. De Mille e assoldata come comparsa nel kolossal Il Re dei Re. Poi impara il mestiere di sceneggiatrice di b-movies. È quella tecnica di scrittura - rudimentale - che la Rand applica nei suoi romanzoni a tesi. Originati dalla passione ideologica, ma partoriti con estrema fatica, una sofferenza fisica che lei attutisce con una crescente dipendenza dalle anfetamine.
Atlas Shrugged evoca nel titolo Atlante, il titano della mitologia greca che sorregge la Terra: allude al protagonista John Galt, inventore-imprenditore che rappresenta lo spirito creativo e indomabile del capitalismo, su cui si regge il benessere della società. Disgustato dalle regole del New Deal, dalla pressione fiscale, dall´intervento dello Stato nell´economia, Galt decide di scrollarsi di dosso ("shrug") l´oppressione di quei vincoli e si mette alla testa di una ribellione dei capitalisti. Su questa trama grossolana la Rand innesta lunghe parentesi teoriche in cui i personaggi espongono la sua ideologia iper-individualista, l´elogio dell´egoismo, una visione nietzschiana dell´imprenditore come Superuomo. Un´idea del mondo così feroce da fare impallidire al confronto "l´avidità fa bene", il celebre motto di Gordon Gekko (Michael Douglas) nel film Wall Street di cui Oliver Stone sta preparando il seguito.
L´impatto di Atlas Shrugged nella società americana è sorprendente. Negli anni del suo fulgore Ayn Rand - che ama vestirsi di una tunica nera con un diadema d´oro a forma di dollaro - diventa l´animatrice di un cenacolo di adoratori, la sacerdotessa di una setta, circondata di giovani plagiati. Uno di questi lei se lo sceglie come amante ufficiale imponendone la presenza al marito.
Il più celebre dei suoi allievi diventerà il banchiere centrale degli Stati Uniti: Alan Greenspan. La lettura dei suoi romanzi ispira generazioni di imprenditori, dal fondatore della Cnn Ted Turner allo stilista Ralph Lauren, dai creatori di Wikipedia a quelli di Craigslist. Un elenco impressionante, la prova del segno profondo che l´ideologia della Rand imprime nella cultura del capitalismo americano.
Perciò la sua figura è ancora capace di suscitare passioni estreme. La sinistra le addebita disastri: per esempio il liberismo di Greenspan, la causa della bolla finanziaria che è esplosa nel 2007-2008 trascinando il mondo nella recessione. Di recente Frank Ahrens, nel suo blog Economy Watch sul Washington Post ha eletto Ayn Rand, a titolo postumo, «il personaggio più deteriore del decennio, strega malefica della finanza, per la sua fede dogmatica, acritica e cieca nel mercato». Ma il suo pensiero spacca anche la destra. Le frange estreme dell´opposizione repubblicana la idolatrano. Rush Limbaugh, il più popolare tribuno radiofonico di destra, accusa regolarmente Obama di «perseguitare i tanti John Galt che creano ricchezza e tengono in piedi l´America». I conservatori moderati rabbrividiscono di fronte alla sua visione darwiniana della società: mal si concilia con l´idea di un´economia di mercato capace di spalancare a tutti l´American Dream. E non ha mai potuto conquistare i favori dei teo-con, per via del suo ateismo militante. Il potente revival del culto di Rand, che accompagna le proteste contro il "socialismo" di Obama, può creare dei problemi a un partito repubblicano che sogna la rivincita alle elezioni di mid-term nel 2010. L´ideologia anti-Stato che le unisce è un collante ma non nasconde le profonde differenze: a un certo punto la destra dovrà scegliere tra la sacerdotessa di ieri e la pop-star di oggi, tra il glamour populista di Sarah Palin e l´élitismo crudele di Ayn Rand.

Repubblica 17.12.09
Dopo le accuse di Ferrari, parla il direttore editoriale Ernesto Franco
Orgoglio Einaudi “Noi facciamo cultura”
di Massimo Novelli

Nella giornata dedicata a Bobbio, il discorso sulla casa editrice: "Abbiamo una tensione verso le nuove idee, non inseguiamo i gusti del pubblico"
TORINO. Nessuno pronuncia direttamente il suo nome. Ma Gian Arturo Ferrari, i suoi recenti attacchi a Giulio Einaudi, accusato di megalomania e di voler addirittura dettare la linea al Pci togliattiano, aleggiano nella piccola sala dell´Archivio di Stato di Torino come lo spettro di Banquo aleggia nel Macbeth. È un gelido pomeriggio, si tiene l´ultima delle giornate di studio dedicate ad alcune figure della cultura che furono fondamentali nella vita di Norberto Bobbio. Si discute della casa editrice dello Struzzo. Marco Revelli, il direttore editoriale Ernesto Franco, studiosi di valore come Domenico Scarpa, Maria Rosa Masoero e Silvia Savioli, ne tratteggiano le vicende, i protagonisti, i successi e le crisi.
Se fosse una partita di calcio, si direbbe che l´intervento iniziale di Revelli è un assist in piena regola. Cita il Bobbio di Politica e cultura, quel suo acceso confronto con alcuni intellettuali comunisti e poi con Roderigo di Castiglia, al secolo Palmiro Togliatti; e la sua netta rivendicazione dell´autonomia della cultura rispetto alla politica. Politica della cultura, pertanto, non politica culturale. Una differenza basilare. Chi oggi le confonde, insiste Revelli, «farebbe bene a leggersi quelle pagine per capire che cosa è stata l´Einaudi».
Tocca a Ernesto Franco. Nemmeno lui, per ovvie ragioni, menziona il manager che, ancora per qualche giorno, è direttore della divisione libri della Mondadori e dunque «capo» della stessa Einaudi. Tuttavia è chiarissimo quando si sofferma sulla storia dello Struzzo, ne ricorda il Dna culturale, rammenta la tensione «verso le nuove idee, non le novità, che sopravvivono al tempo». E sembra davvero che risponda a Ferrari nel momento in cui sottolinea che «il nuovo è rischio, anche rischio imprenditoriale, ma senza inseguire i gusti del pubblico».
Anche Franco ricorda il Bobbio di Politica e cultura, ripercorre le idee di Giulio Einaudi, specifica che la casa editrice «è stata ed è» nel solco della libertà, della democrazia, del confronto e a volte del contrasto tra le idee. Però si è mossa, si muove, lontana da ogni interferenza politica. Ci fu un preciso progetto editoriale da parte di Giulio Einaudi e del gruppo dei «senatori» di via Biancamano? Che cosa pensava il «Principe» in proposito? Diceva che «le cose si sono ottenute sono quelle che, giorno per giorno, venivano fuori dagli avvenimenti, dalle intercettazioni del futuro. Del progetto ti accorgi solo quando lo hai alle spalle».
C´è, nel discorso del direttore editoriale einaudiano, un forte senso di identità, un richiamo costante alla tradizione prestigiosa, all´eredità ingombrante del passato, a maestri come Leone Ginzburg che Bobbio accostava a Piero Gobetti, definendo entrambi «risvegliatori di coscienze». E c´è altresì un suo riferimento puntuale all´attualità dei valori fondanti, dell´imprinting originale.
Certamente adesso tutto è cambiato, come sono mutate l´editoria, la società. C´è la consapevolezza che oggi «è necessario coniugare cultura e profitto», mantenere in equilibrio le ragioni culturali e quelle del conto economico. L´Einaudi, a ogni modo, conclude Ernesto Franco, resta una «casa editrice di cultura». Sempre aperta al nuovo, con «progetti avveniristici» in cantiere. E sul suo sfondo ideale non campeggiano Togliatti o Mario Alicata, bensì il gruppo di amici e di compagni di scuola raffigurati da Marco Revelli. Quelli che dai banchi del liceo Massimo d´Azeglio si ritrovarono a fondare lo Struzzo, nella cospirazione antifascista di Giustizia e Libertà (non nel Pci), in carcere, nelle piazze del 25 aprile 1945 e nuovamente ai tavoli della redazione di via Biancamano.

Corriere della Sera 17.12.09
Dal Pd «Rifondare il sistema senza temere l’accusa di voler fare inciuci»
D’Alema: premier e Di Pietro due populismi speculari
intervista di Maria Teresa Meli

Berlusconi Meglio una leggina ad personam che salvi lui e limiti i danni
Fini È conscio dei rischi non perché sia di sinistra: ha senso dello Stato
Bersani Si muove bene, con saggezza. Bindi? Consiglierei più prudenza

«Si alimentano in una spirale che va fermata con le riforme»

Onorevole D'Alema, in Parla mento ci si azzuffa un giorno sì e un giorno no, tanto per dare il buon esempio alle piazze.

«Non si tratta del venir meno del 'bon ton', abbiamo un problema serio: l'elemento del populismo è diventato un dato strutturale del si stema politico italiano in questi ul timi quindici anni per cui il Parla mento ha cessato di svolgere la sua funzione di luogo della mediazione ed è diventato puro luogo di rap presentazione teatrale dello scon tro. In Parlamento non si discute più nulla, vi è solo un susseguirsi di votazioni di parata, come la fidu cia. Perciò è stata cancellata quella dialettica tra maggioranza e opposi zione che portava all'assunzione di una comune responsabilità. E que sto è il frutto di uno svuotamento del sistema democratico».

I conflitti potrebbero inasprirsi ulteriormente?

«Potrebbe esserci un'escalation. Il prevalere del populismo riduce gli spazi della politica, cancella l'idea che i conflitti vengono regola ti perché c'è un bene comune che comunque non può esser distrut to. Sono stati i partiti, il Parlamen to, insomma la politica, ad aver consentito nel dopoguerra a que sto Paese di governare scontri di na tura ideologica e sociale ben più ra dicali di quelli di oggi. Allora c'era una classe dirigente che incanalava dentro le istituzioni i conflitti, che così venivano governati. Se ne ridu ceva in questo modo la pericolosi tà. L'eccesso di personalizzazione della politica ha invece portato alla distruzione dei partiti e allo svuota mento del Parlamento, che è ormai ridotto ad uno stadio: c'è la curva nord, c'è la curva sud, manca qual­siasi dialettica governo-Parlamen to. Fini a mio parere giustamente ri vendica questo meccanismo ele mentare e difende le istituzioni».

Secondo lei Berlusconi è re sponsabile di questo clima?

«Berlusconi è sicuramente un elemento di questo processo. Di quello che Piero Ignazi chiama, con un termine efficace, il 'forzaleghi smo'. In Italia c'è ormai una frattu ra tra politica e antipolitica che at traversa gli schieramenti. Da que sto punto di vista, ci sono delle si militudini tra il populismo di Berlu­sconi e quello di Di Pietro: sono speculari e si alimentano a vicen da, nel senso che Di Pietro è l'oppo sizione ideale per Berlusconi. Mi ri cordo che nel 2002 partecipai ad un'assemblea di studenti a Firenze, dove spiegai che parlare di regime era sbagliato, affrontando anche le dure critiche di quella platea. Non ho mai visto Berlusconi affrontare i suoi elettori per dire loro che la si nistra, nel nostro Paese, è democra tica. Queste considerazioni politi­che non possono assolutamente giustificare una violenza barbara e insensata che colpisce non solo la persona di Berlusconi, ma l'istitu zione Presidente del Consiglio che lui rappresenta. Abbiamo espresso la nostra solidarietà e Bersani ha fatto benissimo ad andare a trovar lo. Ci sono gesti che contano più di mille discorsi. Bisogna fermare la spirale dei due populismi che si ali mentano a vicenda. Bisogna avere il coraggio di dire che le riforme istituzionali comportano una co mune assunzione di respon sabilità, senza temere l'accusa di voler fare inciuci. E respingo l'idea che il maggioritario debba essere una rissa. In questo senso il discorso di Cicchitto, con quell'in credibile elenco di 'colpevoli', aveva elementi di autentica irre­sponsabilità » .

E qual è, secondo lei, onorevole D’Alema il modo in cui si può usci re da questa situazione?

«L'unico modo di uscirne è quel lo di ripartire dal rispetto per le isti tuzioni e dalla necessità di correg gere le distorsioni, come questa sorta di presidenzialismo di fatto a cui siamo giunti. Sul piano istitu zionale il governo non ha mai avu to tanta forza. Il paradosso è che questo meccanismo non produce decisioni efficaci né riforme signifi cative. Ci avevano raccontato che tolti di mezzo i partiti e la mediazio ne politica avremmo avuto final mente una democrazia governan te. Non era vero. Altro che aggiusta menti tecnici, qui c'è bisogno di ri fondare il sistema politico e questo è l'unico spazio in cui il Pd può agire, tra gli opposti po pulismi. Non è facile, però Bersani lo sta facendo bene. Certo, per disegnare quest'al tra idea di opposizione ci vor rà tempo ma è l'unico cammino che possiamo intraprendere, in terloquendo con quelle componen ti riformiste presenti anche nel cen trodestra. Spero che anche Berlu sconi cominci a rendersi conto di tutto ciò. Ma non c'è solo lui da quella parte. C'è Fini, che appare consapevole dei rischi che ho de scritto, non perché sia diventato di sinistra, ma perché è un uomo poli tico e ha senso dello Stato. Questo può avvicinare persone che hanno opinioni politiche tra loro diverse. In questi giorni non c'è stata solo violenta strumentalizzazione, ab biamo ascoltato anche considera zioni molto ragionevoli, come quel le, ad esempio, di Gianni Letta».

Certe prese di posizione di Di Pietro non le piacciono, ma che cosa pensa delle dichiarazioni di Bindi su Berlusconi, dopo l’aggressione?

«Bersani ha detto cose sagge e giuste. A lui gli iscritti e gli elettori hanno assegnato il compito di rap presentarci. Ad altri consiglierei maggiore prudenza».

Fu lei il primo a rimettere in gioco Di Pietro candidandolo al Mugello.

«Di Pietro era in gioco. Ritenni, e non da solo, che il posto per un pro tagonista della politica fosse il Par lamento ».

Lei parla di riforme ma per Ber lusconi è preliminare la riforma della giustizia.

«La riforma della giustizia, per renderla migliore per tutti i cittadi ni, ci interessa e abbiamo le nostre proposte. Viceversa, quelle per fer mare i processi a Berlusconi non so no riforme e non si può certo pre tendere che l'opposizione le faccia proprie. Se per evitare il suo proces so devono liberare centinaia di im putati di gravi reati, è quasi meglio che facciano una leggina ad perso nam per limitare il danno all'ordi namento e alla sicurezza dei cittadi ni. Ma una vera emergenza demo cratica è sicuramente quella della ri forma del Parlamento, a cui occor re restituire autorità e centralità, ri ducendo il numero dei parlamenta ri e superando il bicameralismo perfetto in senso federalista. Ci vuo le una legge elettorale che restitui sca ai cittadini il potere di scegliere i propri rappresentanti. Ripartiamo dalle proposte della Commissione Violante, che indicano la via per un governo forte in un quadro di pote ri democratici e non di un populi smo plebiscitario».

l’Unità Lettere e il Riformista Lettere 17.12.09
Capezzone e il Marchese del Grillo
di Roberto Martina

Alberto Sordi nel film "il marchese del Grillo" considerava responsabile Aronne Piperno della crocifissione di Gesù Cristo e con questa scusa non pagò il conticino del comò. Deve sentirsi un po’ marchese del Grillo anche Daniele Capezzone che al tg3 notte addossava a Penati la responsabilità dell’attuale clima politico pretendendo l'abiura in diretta delle alleanze politiche del Pd. Ricordo alcune dichiarazioni storiche di Capezzone: “Più che verso Londra o Washington la Cdl sembra andare verso il Sudamerica e il peronismo”, oppure “sarebbe un'eresia dirsi d'accordo con chi ha impostazioni clerico-fasciste su materie come il divorzio, la droga, la ricerca scientifica”. “Talebano, talebano, talebano” rivolto a Socci. Su Dell’Utri: "Da Palermo emergono fatti e comportamenti oscuri di cui qualcuno, Berlusconi in testa, dovrà assumersi le responsabilità politiche". E poi: "Berlusconi è l'erede di Don Lurio, altro che Don Sturzo". Scherzi del signor marchese, se ne raccontano tanti.