sabato 8 marzo 2014

Corriere 8.3.14
«Violata la libertà sull’aborto»
Consiglio d’Europa contro l’Italia


MILANO — I medici obiettori: troppi, oltre il 70 per cento in tutto il Paese. Gli abortisti: talmente pochi da essere costretti a orari di lavoro massacranti. La libertà delle italiane che vogliono interrompere la gravidanza: calpestata o ignorata, con conseguenze a volte drammatiche. Sulla base di queste denunce, l’associazione non governativa International planned parenthood federation european network (Ippf) ha presentato un reclamo collettivo al Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa. La risposta è appena arrivata: l’Italia viola i diritti stabiliti dalla legge 194. «L’obiezione di coscienza non può impedire la corretta applicazione della norma».
Una lunga battaglia legale. Iniziata quasi due anni fa (il reclamo 87 è stato depositato l’8 agosto 2012) con la partecipazione di varie associazioni — tra cui i ginecologi della Laiga — e il supporto legale degli avvocati Marilisa D’Amico e Benedetta Liberali, che hanno presentato, oltre al «ricorso», tutti i dati sulla «reale non applicazione della legge 194» (consultabili su www.coe.int/socialcharter). Esempio: «In Calabria — racconta D’Amico, ordinario di Diritto costituzionale alla Statale di Milano — i medici abortisti sono quasi spariti; a livello nazionale, i ginecologi obiettori sono passati ufficialmente dal 58,7 per cento del 2005 a oltre il 70 del 2009, ma i dati ufficiosi raggiungono percentuali molto più alte». Precisazione: «Nessuno di noi vuole mettere in discussione il diritto a non praticare l’aborto, ma la legge 194/1978 parla chiaro: indipendentemente dalle dichiarazioni di obiezione di coscienza, ogni struttura deve poter sempre garantire la possibilità di interrompere la gravidanza». Questo principio — continuano i legali — non è rispettato. «Il crescente numero di obiettori compromette questa facoltà, in contrasto con la Costituzione italiana e la Carta sociale europea».
Obiezione accolta, Italia condannata. Il Comitato europeo lo scorso settembre (la procedura prevede un periodo di embargo) ha accettato il reclamo di Ippf (che è presente in 172 Paesi a sostegno delle fasce deboli) accogliendone tutte le osservazioni. In particolare, «le autorità competenti non assicurano il diritto delle donne di accedere all’interruzione di gravidanza alle condizioni previste dalla legge 194, e ciò si traduce in una violazione del loro diritto alla salute garantito dalla Carta sociale europea». Altro punto, la «discriminazione irragionevole»: «Le donne sono costrette a spostarsi da una struttura all’altra, con ciò compromettendo il loro diritto alla salute, anche tenendo conto che in materia di interruzione volontaria di gravidanza assume un rilievo cruciale il fattore tempo».
La decisione è stata presa a larghissima maggioranza: 13 voti favorevoli, uno contrario. Gli effetti della sentenza: «A breve — commenta Marilisa D’Amico — l’Italia dovrà dimostrare di aver cambiato rotta. Mi auguro che al più presto vengano presi i provvedimenti necessari per applicare la 194 in tutte le strutture nazionali». Aggiunge Vicky Claeys, regional director di Ippf: «Dimostrata una mancanza fondamentale nell’applicazione della legge italiana». E la battaglia è appena cominciata: un secondo reclamo (elaborato dagli avvocati D’Amico - Liberali) è stato presentato dalla Cgil, con Susanna Camusso. Il «ricorso» intende far valere non solo i diritti delle donne, ma anche quelli dei medici non obiettori «sui quali grava tutto il carico di lavoro relativo alle interruzioni di gravidanza».
Annachiara Sacchi

Repubblica 8.3.14
L’otto marzo amaro dell’Italia condanna del Consiglio d’Europa “Aborto, violati i diritti delle donne”
L’accusa: “ Troppi medici obiettori”. E ora via alle azioni legali contro gli ospedali
di Maria Novella De Luca


ROMA - L’Italia calpesta la vita delle donne. Altro che mimose. In questo amaro otto marzo che racconta un paese senza parità e senza lavoro, assediato dai femminicidi e dalla piaga delle dimissioni in bianco, un duro documento del Consiglio d’Europa condanna il nostro paese per aver violato la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Con un provvedimento che sarà reso pubblico oggi, il “Comitato europeo dei diritti sociali”, organismo del Consiglio d’Europa, afferma: «A causa dell’elevato e crescente numero di medici obiettori di coscienza, l’Italia viola i diritti delle donne che alle condizioni prescritte dalla legge 194 del 1978, intendono interrompere la gravidanza».
È la prima volta che l’Europa condanna con tanta chiarezza il nostro paese per la disapplicazione della legge sull’aborto, riconoscendo, finalmente, che pur esistendo ancora sulla carta, l’interruzione volontaria di gravidanza è di fatto ormai impossibile in intere regioni d’Italia. Le donne sono costrette a migrare di provincia in provincia perché centinaia di ospedali hanno ormai chiuso i reparti, ma in tante, troppe, respinte dalle strutture, e ormai fuori dai tempi consentiti per l’interruzione di gravidanza, si rivolgono, come 40 anni fa, al fiorente mercato degli aborti clandestini. Le cui stime oggi sfiorano i 40-50mila interventi l’anno.
Il documento europeo che condanna l’Italia è il frutto di una lunga battaglia portata avanti dall’Ippf, (International Planned Parenthood Federation European Network), insieme all’italiana Laiga, associazione di ginecologi per l’applicazione della legge 194. Un “reclamo collettivo” (il numero 87 depositato l’8 agosto 2012), oggi diventato un pesante monito contro il nostro paese. E le conseguenze più immediate, esattamente come è avvenuto per la legge 40 sulla fecondazione assistita, sarà la possibilità per le donne e le associazioni usare il documento europeo per denunciare e iniziare azioni legali contro gli ospedali che non garantiscono il servizio di interruzione di gravidanza. Nell’attesa che finalmente il ministero della Sanità si decida a far applicare la legge 194, ormai resa nulla dallo spropositato numero di ginecologi obiettori di coscienza, che in alcune regioni superano il 90% del personale sanitario.
«Questa vittoria è un successo importante perché l’obiezione di coscienza non é un problema solo in Italia ma in molti altri paesi europei», commenta Vicky Claeys, direttore regionale del-l’Ippf, ricordando forse la drammatica situazione della Spagna. «La nostra istituzione, che da 60 anni lotta nel mondo per garantire a tutte le donne i loro diritti, e l’accesso alla salute sessuale e riproduttiva, vuol fare emergere la mancanza di misure adeguate da parte dello Stato italiano nel garantire il diritto fondamentale alla salute, e all’autodeterminazione femminile». Ed è soddisfatta Silvana Agatone, presidente della Laiga, ginecologa, da sempre in prima linea nella difesa della legge 194, e che da anni denuncia lo smantellamento dei reparti di “Ivg” negli ospedali italiani, e soprattutto il calvario delle donne. «Questo risultato è il frutto di anni di lavoro della Laiga che fornendo dati fondamentali sulla non applicazione della legge 194, ha avviato il percorso verso la condanna dell’Italia». E riallaccia il suo pensiero a questo contraddittorio 8 marzo, la costituzionalista Marilisa D’Amico, che insieme ad un’altra avvocata, Benedetta Liberali, ha lavorato a lungo sul “reclamo” presentato dall’Italia. «Come donna e ancor prima che come avvocato - ha detto D’Amico, cui si devono già grandi battaglie legali contro la legge 40 - sono felice che sia stato ribadito un diritto fondamentale sancito dallo Stato italiano. Oggi è la giornata della donna, e suona quasi beffardo che a trent’anni dall’approvazione della legge 194, si debba ancora combattere per affermare un diritto per noi donne definito costituzionalmente irrinunciabile. Spero che adesso si prendano i provvedimenti necessari per applicare la legge in tutte le strutture nazionali ».

La Stampa 8.3.14
Operaio uccide la compagna
lanciandola dalle scale di casa

qui

Replay: Kim Jong Renzi


La Stampa 8.3.14
Civati: “Renzi? Lo vedo nervoso
Ma non con me, con se stesso”
Il dissidente: “Non è più quello delle primarie”
di Francesco Grignetti

qui

il Fatto 8.3.14
Pippo Civati Questione sottosegretari
“Matteo è nervoso, si contraddice”
di Luca De Carolis


L’attacco di Renzi è gratuito e inconsistente. Ma non mi ha sorpreso più di tanto: è il suo metodo, quando è nervoso se la prende con i più deboli”. Giuseppe Civati ci è rimasto male. Fastidiosa, la stilettata che il premier gli ha lanciato ieri su La Stampa: “È surreale che al coro (sui sottosegretari indagati, ndr) si sia aggiunto anche Civati, ha fatto le primarie contro di me nella condizione di indagato”. Ma il deputato ha altro di cui dolersi: “Vedere il Pd che vota contro il conflitto d’interessi e traccheggia su preferenze e quote di genere è molto doloroso”.
Partiamo dalle parole di Renzi.
È male informato, già giovedì aveva mosso i suoi per attaccarmi tramite agenzie. In realtà avevo detto solo che doveva spiegare il fatto di avere cinque indagati nel governo. E poi il malumore della gente su questa storia è innegabile.
Ma perché questo riferimento così diretto?
Gli ho mandato un sms chiedendogli la ragione, ma non mi ha risposto. La mia vicenda è stata archiviata a dicembre, subito dopo la fine delle primarie (Civati era stato indagato per peculato, per 3mila euro di rimborsi ottenuti da consigliere regionale, ndr). Questa è una materia delicata, anche Renzi ha avuto vicissitudini con la Corte dei Conti. Diciamo che il suo è un fallo di reazione: solo che io il fallo non gliel’avevo fatto.
Perché Renzi è nervoso?
Forse perché in passato si è molto esposto contro la Cancellieri o contro Alfano, per la vicenda della Shalabayeva. “Fossi io il segretario queste cose non capiterebbero” diceva. Probabilmente si sente in contraddizione con se stesso.
Ma l’opinione di Civati sui sottosegretari qual è?
È una situazione che si presta a strumentalizzazioni. Penso al caso della Barracciu: dalle Regionali in Sardegna l’aveva fatta ritirare Renzi. Chiedo solo che il premier spieghi perché l’ha scelta come sottosegretario, non cerco polemiche.
I civatiani si sentono sempre più a disagio in questo Pd.
I civatiani non esistono, ci sono semplicemente parlamentari che mi hanno sostenuto nelle primarie. Detto questo, il disagio è forte. Un partito che non può votare sul conflitto d’interessi, perché altrimenti Berlusconi fa saltare l’accordo sulla legge elettorale, è molto esposto. Abbiamo toccato l’apice di confusione politica.
Molti dicono che la legge affonderà in Senato.
Il testo ha tanti elementi problematici, dalle liste bloccate alle soglie di sbarramento altissime. A Palazzo Madama abbiamo numeri stretti: Renzi dovrebbe tenere conto del malessere che c’è, e non far finta che non esista.
Se non si cambia voi civatiani che farete?
In difficoltà non ci sono solo coloro che mi hanno sostenuto, l’area della sofferenza sulla legge è molto più larga. La riforma del Senato non piace molto ai senatori...
Una senatrice 5 Stelle l’ha rivendicato: “Ho diritto di cenare con Civati”.
Ceno solo con i miei amici, i politici li incontro nelle sedi istituzionali. Il tema è un altro: una parte di 5 Stelle vorrebbe che i suoi voti servissero a un progetto di cambiamento, ora.
Lavorate a un coordinamento con Sel e gli ex M5S?
Un’area molto larga chiede rappresentanza: per ora c’è questo.

La Stampa 8.3.14
Satira sulla Boschi a Ballarò Scoppia il caso in Rai
Anzaldi (Pd) scrive alla Tarantola: “Ritiene opportuna quella imitazione?”
di Maria Corbi

qui

Il video, qui:


il Fatto 8.3.14
Il sociologo Marco Revelli
“L’Italia servile del coro per Renzi”
di Carlo Di Foggia


È stato orribile, il segno della tendenza carsica di questo Paese a forme di servilismo volontario”. Esibizione di sé e cortigianeria. La scena littoria del neo premier accolto nella scuola di Siracusa da una schiera di bambini allineati che intonano un coro, con le maestre a dettare il tempo, ha il sapore di un ritorno al passato, al ventennio berlusconiano, se non peggio. Lo ha spiegato due giorni fa Carlo Freccero, lo ripete anche Marco Revelli, torinese, storico e sociologo della politica: “Berlusconi ci ha abituato a tutto, soprattutto alla rappresentazione ipertrofica di sé come momento unificante con il popolo. Qui c’è anche un elemento peggiorativo nello stile”. Il nuovo, rispetto a B., è la scenografia, il luogo dell’esibizione: “Non si era mai arrivati nelle scuole. L’omaggio della subalternità affidata a dei bambini, a chi non ha ancora la piena capacità di intendere e volere, costretto a fare da coretto per il signore di turno. Queste forme appartengono all’Italia monarchica e al fascismo”.
UN CULTO della personalità che per Revelli si esplica secondo schemi radicati nella storia del Paese. C’è la fragilità delle élite che “risale al tempo delle signorie, all’asservimento allo straniero delle nostre classi dirigenti”. “È incorporato nel nostro Dna - spiega il sociologo  - la pratica del servire qualche viceré, non dico l’imperatore”. Ma c’è anche “una fragilità delle nostre masse popolari, che hanno acquisito tardissimo la consapevolezza dei propri diritti, anche dopo l’avvento della modernità. Nel 1648, quando noi piegavamo la schiena e baciavamo le mani al signore di turno, gli inglesi firmavano l’Agreement of the people, il patto del popolo. Nemmeno il risorgimento è riuscito a costruire una nazione, intesa come popolo. Siamo stati per lungo tempo uno Stato senza cittadini. Abbiamo avuto la resistenza come momento di dignità, per poi vivere di rendita”. Il malessere morale del “servo encomio” affligge da tempo la società tutta, ma diviene imperdonabile quando intacca le istituzioni (“il punto più basso lo abbiamo raggiunto con il voto del parlamento sulla nipote di Mubarak”) e l’informazione: “Con Berlusconi, un bel pezzo di giornalismo ha abdicato al buon gusto e alla dignità. Quanti editoriali del Corriere della Sera hanno celebrato la sua figura?”.
La scuola di Siracusa si configura così come l’ultima tappa di un percorso il cui solco è stato già tracciato: “È un’immagine che spiega l’antropologia malata di una nazione, le sue cadute, la corsa al servizio del nuovo padrone”. Senza chiamate, per una innata forma di propensione naturale a rinunciare alla libertà come dovere morale. “Piero Gobetti nell’Elogio della ghigliottina scrisse che né Mussolini né Vittorio Emanuele hanno virtù di padroni, ma gli Italiani hanno bene animo di schiavi”. Un salto all’indietro, che per Revelli è lo specchio di un vuoto pneumatico di cui si percepisce a stento il pericolo. “Gliel’avevano preparata autonomamente. Non l’aveva neanche chiesta. È un atteggiamento che si manifesta ante litteram, senza che abbia ancora dimostrato nulla. Un te deum prima della battaglia. Il coro dei bambini esprime l’horror vacui, la paura che dietro ci sia il nulla”.
ASSUEFATTI al ventennio berlusconiano, agli omaggi gratuiti e alle accoglienze trionfali, abbiamo smesso di stupirci, eppure si “annuncia una nuova metamorfosi nella crisi della nostra democrazia, che unisce alla iper-personalizzazione il contatto diretto tra capo e massa”. Se Berlusconi si identificava con la comunicazione, soprattutto televisiva, perché “aveva lavorato molto sull’immaginario”, ma con dietro “un’enorme fortuna economica”, Renzi non ha nulla sotto di sè: “Ha una società liquefatta”. Il rischio è che l’ex sindaco di Firenze tenti di ripetere la stessa operazione, “ma dentro un sistema multimediale molto più reticolare: eleverà a valore la crisi della politica, smarcandosi dalla casta, come se non contasse, in nome del transfert diretto”.

il Fatto 8.3.14
Rino Formica: Pericolo “fascismo”
“Un patto scellerato che farà crollare tutto”
intervista di Fabrizio d’Esposito


Ma cosa farà Giorgio Napolitano con il pastrocchio che assomma e intreccia Italicum e riforme costituzionali? Rino Formica è stato socialista, ma non craxiano. Disse che “la politica è sangue e merda”. Oggi ha 87 anni ed è un grande amico del capo dello Stato. Stessa generazione. Per questo motivo le sue letterine al Foglio di Giuliano Ferrara (oggi uscirà la terza in tre giorni) vengono lette e decifrate con particolare cura. Il quesito di partenza, nella sua dirompenza, è inversamente proporzionale alla brevità delle missive: “Napolitano sa che è un golpe?”.
Quella del golpe è un’immagine grave, forte.
Il patto scellerato Bierre...
Bierre?
Berlusconi e Renzi. Dicevo: il patto scellerato Bierre sta smontando pezzi di Costituzione con le relative garanzie. Anche Mussolini fece lo stesso.
Due ducetti al posto di uno.
Mussolini, a Statuto Albertino invariato, trasformò il regime monarchico-costituzionale in regime fascista. Qui sta accadendo la stessa cosa.
Andiamo verso un regime. Con una sola differenza. Il duce aveva un gigante del diritto che si chiamava Alfredo Rocco, oggi ci sono Maria Elena Boschi e Denis Verdini, ha capito? Certamente. Per lei la chiave di tutto è la manomissione del 138, l’articolo della Carta che regola la procedura per cambiare la Costituzione.
Nel 1997, con la Bicamerale, e nel 2013 sinistra e berlusconiani si sono messi d’accordo per modificare il 138 ma prevedevano comunque il referendum. Adesso per abolire il Senato, rivedere il Titolo V e tutta la seconda parte della Costituzione non c’è più il referendum.
La nuova dittatura della maggioranza, anzi dei due terzi.
Avremo una sola Camera in cui Renzi e Berlusconi, uno al al governo, l’altro all’opposizione, potrebbero demolire tutta la Costituzione. Si sta aprendo un’autostrada pericolosissima. Ma lei ha sentito cosa dice Famiglietti?
Chi è Famiglietti?
È un deputato del Pd. Nel dibattito sulla legge elettorale ha detto cose di inaudita insensibilità democratica, fuori dalla grande tradizione della cultura di sinistra. Se non si apre un dibattito ci ritroveremo di fatto in un regime. Si potrà abolire la fiducia, anche di una sola Camera, e decidere per una decretazione d’urgenza senza l’approvazione della nuova assemblea. Basteranno i due terzi, cioè un altro patto scellerato Bierre.
Ne ha parlato con Napolitano?
Lei è indicato nel cerchio magico del presidente.
La mia generazione non ha un’idea clanistica della politica.
Clanistica?
Nel senso di clan, logge. Tra persone intelligenti, con una lunga storia politica, non c’è bisogno di parlare ogni cinque minuti. Questa è un’altra differenza tra noi e loro.
Quale?
Noi avevamo una visione. Fissate le linee guida, sapevamo come comportarci. Questi parlano cinquanta volte al minuto perché hanno le convenienze al posto della visione. Sono improvvisatori. Gli avversari intelligenti non mi spaventano, gli improvvisatori sì. Sono plagiabili da tutto, anche da una realtà che non capiscono.
Bierre.
Il Pd non esiste più, esiste Renzi che è solo avventura. E la destra è ancora in mano a Berlusconi. Mi chiedo se i loro patti segreti includano la successione a Napolitano.
Sospetti giustificati?
I partiti prima sono andati da lui strisciando perché impotenti a compiere un atto costituzionalmente previsto come l’elezione del nuovo capo dello Stato.
Poi?
È arrivato Renzi e ha rovesciato la frittata. È stato lui a dire che questo Parlamento eleggerà il successore di Napolitano. Berlusconi gli ha risposto nella campagna elettorale per le regionali sarde, dicendo che adesso non rivoterebbe Napolitano.
Quindi il capo dello Stato si dimetterà?
Tutti hanno sangue nelle vene e se uno fa le cose e non vede riconoscimenti può mandare tutti a quel paese. E voi del Fatto, che non siete di destra, con gli attacchi a Napolitano state dando un contributo al golpe. Involontariamente.

Repubblica 8.3.14
Il diritto di sapere chi si va a votare
di Piero Ignazi



LA LEGGE elettorale si muove lungo tre faglie: quella tra governo e opposizione, quella interna al governo e quella interna al Pd. I conflitti, naturali, fisiologici, che si scatenano all’interno di ciascuna delle faglie terremotano il percorso della riforma del sistema di voto.
Impongono accelerazioni e cambi di rotta che ne rendono sempre più pasticciato l’esito. Anche gli stessi promotori sostengono la necessità di alcune correzioni.
Una ha al centro l’uguaglianza di genere, vale a dire l’alternanza in tutti i collegi, non in ciascun collegio, di un uomo e di una donna: non serve che dopo un uomo capolista ci sia una donna perché il rapporto 50-50 deve riguardare i capilista di ogni collegio. E a questo proposito è risibile, oltre che offensiva, la giustificazione della contrarietà di Fi alla piena parità di genere addotta dal capogruppo Renato Brunetta, secondo il quale così si metterebbero in cima alla lista le donne «più ubbidienti… o peggio», come se le femmine fossero più succubi - e disponibili, secondo la logica dell’utilizzatore finale - dei maschi.
Un’altra questione aperta riguarda il ruolo delle liste minori di una coalizione. Allo stato attuale il contributo delle formazioni più piccole, indispensabile per vincere e ottenere il premio di maggioranza, potrebbe essere “a fondo perduto”: se infatti si mantiene una soglia di accesso al Parlamento molto alta c’è il rischio che una coalizione di cinque partiti, composta da uno grande e quattro piccoli, abbia rappresentanti solo del partito più grande. Una beffa per i piccoli, indispensabili portatori d’acqua della coalizione.
Un terzo problema investe l’eccessiva difformità tra le varie soglie d’accesso al Parlamento, a seconda che un partito sia o meno in coalizione. Anche qui un intervento razionalizzatore si impone.
Infine, il vero punto dolente della legge in discussione riguarda le liste bloccate. Per tutti questi anni è risuonato il refrain del Parlamento dei nominati, dell’esproprio della possibilità di scelta da parte di cittadini, del potere degli apparati di partito, e via inveendo. Il problema esiste ed è molto sentito dall’opinione pubblica. Il rimedio ovvio e adeguato sarebbe consistito nell’introduzione dei collegi uninominali in cui i cittadini votano il loro candidato. Non essendo possibile questo radicale cambiamento per le resistenze insormontabili di Forza Italia - e per il confusionismo mentale sul tema dei 5 Stelle - l’altra strada ipotetica porterebbe alle preferenze, che però non rappresentano affatto un rimedio. Anzi. Che i nostalgici facciano mente locale a cosa hanno prodotto le preferenze nel passato: sono state il terreno di coltura del frazionismo, dell’instabilità e della corruzione. È quindi necessario perseguire un’altra via. Compiere una mossa del cavallo per superare l’ostacolo. E cioè adottare una legge sui partiti, minima, semplice, chiara. Già la nuova normativa sul finanziamento pubblico impone alcuni requisiti minimi ai partiti. La legge elettorale in discussione offre l’opportunità per completare i passi già fatti introducendo una normativa che abbia come punto qualificante la modalità di selezione dei candidati alle elezioni politiche. In questa legge vanno specificate le procedure, i tempi e i requisiti; tutto quello che occorre affinché il processo di scelta dei candidati sia trasparente e partecipato. Le primarie aperte non sono l’unico sistema, anzi le adottiamo quasi solo noi. Nelle altre democrazie consolidate sono gli iscritti dei partiti dei collegi elettorali locali che scelgono i candidati, con una possibilità di intervento, limitata peraltro, da parte delle segreterie nazionali. Ora, se si affiancasse alla legge elettorale anche una normativa che vincoli i partiti a scegliere i propri candidati con regole certe, precise e aperte, allora anche il vulnus delle liste bloccate perderebbe di forza. In fondo, in Germania metà dei parlamentari (quelli eletti nel riparto proporzionale) sono eletti con liste bloccate; ma la legge indica i tempi e le modalità con la quale i partiti devono selezionare i candidati. Per uscire dalla trappola di un nuovo Parlamento dei nominati è necessaria una manovra di aggiramento alla legge elettorale: una normativa sui partiti che ridia ai cittadini, iscritti o meno ai partiti, la potestà di indicare i propri candidati.

Corriere 8.3.14
Renzi e i sottosegretari indagati
Era meglio aspettare a nominarli
di Giovanni Belardelli


Vedremo quale sarà la conclusione, dal punto di vista penale, delle sempre nuove inchieste per malversazioni compiute da politici, sulle quali ci informano giornalmente i mezzi d’informazione. Ma intanto, al di là degli esiti giudiziari dei singoli casi, un fatto appare evidentissimo: il carattere squallidamente miserabile dello stile di vita di molti degli inquisiti. Parliamo non di miseria materiale, evidentemente, ma di miseria morale.
Il poverissimo Geppetto, la cui casa consisteva di un’unica stanzetta contenente solo «una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato», miserabile non era affatto. Sembrano esserlo invece – ripeto, al di là della rilevanza penale delle vicende in cui sono coinvolti – quegli esponenti del ceto politico adusi a uno stile di vita fatto di champagne e crociere gratuite, provole e sushi rigorosamente a sbafo. Uno stile di vita fatto di mille cose diverse – dal frigorifero alle sigarette e perfino al chewing gum – tutte acquistate con i soldi del partito (cioè nostri). Fatto di false consulenze per il coniuge o di un posto per qualche figlio, in cambio di un’autorizzazione non dovuta, un interessamento sospetto, un appalto pilotato.
Ovviamente (e per fortuna) non tutto il nostro ceto politico corrisponde a questo modello. Ma si ha l’impressione che, soprattutto a livello locale, troppi politici si ispirino spesso a uno stile di comportamento e più in generale a una cultura in cui risulta assente proprio la politica, che viene ormai intesa soltanto come mezzo per acquisire in modo spiccio denaro e influenza personale. «Il politico di professione – scrisse Max Weber – ha la coscienza di esercitare un’azione sugli uomini, di partecipare al potere che li domina, e soprattutto il sentimento di avere tra le mani un filo conduttore delle vicende storiche […]». Accostare il nome del grande studioso tedesco a chi oggi pensa soprattutto a sgraffignare ostriche e a farsi rimborsare spese di benzina gonfiate può apparire assurdo. Serve però a indicare come tanti politici appaiano guidati non da vera ambizione, in senso appunto weberiano, bensì dalla insaziabile passione acquisitiva del parvenu.
Si ripete spesso che ogni Paese ha in fondo la classe dirigente che si merita. Ciò vorrebbe dire che quel tratto miserabile e ingordamente consumista che traspare da tante inchieste contro politici di destra e di sinistra altro non sarebbe che un riflesso di ciò che siamo. O meglio, un riflesso di ciò che è diventata l’Italia passando, soprattutto dagli anni 50 agli 80, attraverso un periodo di turbinoso sviluppo economico che ha portato sì al benessere materiale, ma anche – come è stato ripetuto mille volte – alla perdita di alcuni valori fondamentali e di alcuni elementari punti di riferimento etici. Tutto vero, probabilmente. Ma non è meno vero che lo stillicidio di scandali sui rimborsi gonfiati e su cose simili ci presenta la fotografia di una parte soltanto, e ovviamente non la migliore, del Paese. Una fotografia che lascia fuori campo l’altra Italia che pure esiste e che, anche quando teme di avvicinarsi alla soglia di povertà o l’ha già superata, non è affatto un’Italia miserabile.
Proprio in considerazione dell’esistenza di questa Italia, il presidente del Consiglio Renzi avrebbe fatto meglio a non nominare come sottosegretari degli esponenti del suo partito impelagati nelle solite storiacce di rimborsi e spese a sbafo. Esiste infatti la presunzione di innocenza come ha giustamente ricordato la ministra Boschi, ma esiste anche la responsabilità di non offrire al Paese modelli negativi, che ne fotografano soltanto la parte peggiore.

l’Unità 8.3.14
Idem e Barracciu. Due pesi e due misure
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Da cittadino e iscritto chiedo al mio segretario Renzi perché «la presunzione di innocenza» non è stata per noi «fondamentale» anche nei casi di Idem e De Girolamo e molto mi sorprende il richiamo di Cuperlo alla sinistra di «recuperare la sua cultura garantista». Il criterio dei «due pesi e due misure» mi riporta a quella politica che solo alcuni mesi fa «qualcuno» voleva rottamare. CLAUDIO GANDOLFI
L’idea che si stiano usando due pesi e due misure con Gentile che si è dimesso e con i tre sottosegretari in quota Pd di cui si dice che non si dimetteranno si è diffusa rapidamente. La situazione in particolare della Barracciu che doveva rappresentare il Pd nelle recenti elezioni in Sardegna dopo avere vinto le primarie del suo partito e che si è ritirata da quella competizione proprio in quanto indagata è una situazione imbarazzante per lei e per il Pd perché l’accusa è di peculato: e di quelle che fanno a pugni, cioè, con le funzioni proprie di un amministratore pubblico. Dire che l’avviso di garanzia è un atto dovuto e non la prova di una colpevolezza non è sufficiente, per me e per molti altri, per giustificare questa scelta dopo che per 20 anni questa formula è stata ripetuta per difendere Berlusconi ed i suoi dalle accuse dei magistrati e dallo sconcerto dell’opinione pubblica. Di tutto ha bisogno il Paese, in questa fase, in effetti, tranne che di questo tipo di discorsi. Ha detto Renzi giovedì che se ne può discutere? Discutiamone. Con argomenti più convincenti, però, di quelli proposti finora e con un riferimento preciso, magari, ai motivi, tratti dalla storia e dalla esperienza di queste tre persone, per cui era giusto ricorrere proprio a loro e non ad altri per quegli incarichi. Nell’Italia di oggi e di domani se, come tutti speriamo, questo governo resterà a lungo in carica.

Il Sole 8.3.14
Per Renzi giorni decisivi nella battaglia contro un precoce logoramento
di Stefano Folli


In settimana le prime vere riforme. Intanto il premier si difende ma sconta i suoi errori
C'è qualcosa di schizofrenico e persino di lievemente perverso nella rapidità con cui prende piede la tesi di un Renzi già logorato. È uno scenario speculare all'altro, in voga fino all'altro ieri, che descriveva invece Renzi come Superman, velocissimo nell'ascesa e inesorabile nell'affrontare i problemi.
In realtà il presidente del Consiglio non merita certi giudizi o, come dice lui stesso, certi «pregiudizi». È vero in sostanza che il governo deve ancora cominciare la sua opera. Anche se è stato proprio Renzi ad autorizzare attese messianiche promettendo l'impossibile, ossia una riforma al mese e una frenesia realizzatrice senza precedenti. Viceversa la riforma elettorale, che è un po' la riforma-simbolo madre di tutte le altre, è nelle sabbie mobili. Sarà approvata a Montecitorio nei primi giorni della settimana, ma non si sa a prezzo di quali lacerazioni e risentimenti sulla parità fra uomo e donna e su altro.
Poi, è ovvio, il testo dovrà passare al Senato e lì è facile prevedere che sarà toccato e ritoccato, forse stravolto. Basta ascoltare cosa dice la senatrice Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari costituzionali e di sicuro non proprio amica del premier, per rendersi conto di quali umori covano sotto la cenere soprattutto in certi ambienti del Pd. Visto che il "renzismo" ha investito come un tornado gli equilibri del partito di maggioranza, ma poi ha lasciato gli avversari del segretario-premier ancora in grado di vendicarsi. E come diceva Machiavelli, la colpa imperdonabile del principe è quella di limitarsi a ferire il nemico.
Vedremo. La verità è che l'esaltazione acritica di Renzi come risolutore dei mali italiani era eccessiva, così come oggi – ad appena due settimane dalla nascita del governo – è del tutto sproporzionato il giudizio liquidatorio. Al di là dei suoi atteggiamenti guasconi, sintomo di una certa immaturità, il presidente del Consiglio deve ancora dar prova di sé. Lo farà nella settimana che si apre, come egli stesso non si stanca di ripetere. Del resto, l'uomo confida solo nelle sue capacità e nella forza del volontarismo, quindi ha diritto di avanzare le sue proposte e di essere valutato senza malevolenza. Consapevole che spetta comunque a lui e solo a lui convincere gli scettici e colpire – se ne avrà la forza – quanti vorrebbero metterlo con le spalle al muro.
In ogni caso è una guerra contro il tempo. A Renzi nessuno ha concesso il periodo di "luna di miele" a cui di solito ha diritto ogni nuovo governante. Ma forse lo strappo che ha determinato la nascita anomala dell'esecutivo ne ha segnato anche il percorso da subito tortuoso. I sondaggi cominciano infatti a indicare una prima caduta di popolarità del premier, lo costringono a difendersi sui giornali. Non sono sintomi incoraggianti. Inoltre la polemica aperta sui conti economici contro i predecessori Letta e Saccomanni, al di là del merito, sconcerta l'opinione pubblica. Sembra a tutti gli effetti il reiterarsi dei vecchi vizi politici, per cui ogni nuovo governo accusa quello che lo ha preceduto di aver nascosto la polvere sotto il tappeto.
Il nuovismo di Renzi dovrebbe evitare queste cadute di stile che non servono a dare smalto all'immagine del leader né ad aumentare la nostra credibilità in Europa: anzi, aumentano i sospetti degli arcigni commissari.

il Fatto 8.3.14
Nella palude
Quote rosa e preferenze, al Senato sono guai
di Wa. Ma.


Numeri che si restringono, dichiarazioni infuocate della maggioranza contro le indicazioni del governo: giovedì notte la Camera al voto dell’Italicum era l’immagine plastica del pantano in cui si sta approvando la legge elettorale. E neanche finito un pantano, se ne annuncia uno ben peggiore: da Ncd e minoranza Pd è tutto un avvertimento che in Senato la legge si cambierà. In barba all’accordo intoccabile (pena la fine della legislatura) tra Renzi e Berlusconi.
Giovedì notte, l’emendamento Pisicchio (gruppo Misto) che introduceva la possibilità di esprimere due voti di preferenza è stato bocciato - a voto segreto - con solo 42 voti di scarto. 278 contro 236. Presenti in media in Aula tra i 450 e i 520 deputati. La maggioranza conta su 394 voti, all’appello ne sono mancati 60-70. Ovvero, quelli di Ncd (29 a ranghi pieni), quelli di Scelta Civica (27 anche qui a ranghi interi), più alcuni del Pd. Toni esasperati, accorati. Il lettiano Meloni il suo dissenso rispetto alla legge lo dichiara in Aula, così la Bindi. E Boccia quota al 20% la possibilità che all fine voti la legge. Poi c’è il documento bipartisan per la parità di genere sottoscritto dalle parlamentari di tutte le forze politiche. Le deputate sono intenzionate a non mollare. Che farà il governo? Risponde Lorenzo Guerini, nella veste di portavoce della segreteria Pd e di mediatore in Parlamento per conto di Renzi: “Non ci sarà nessuna modifica se non rientrerà nell’accordo”. Quello tra Pd e FI. Lo stesso Guerini, mentre si dice soddisfatto della tenuta del gruppo Pd l’altra notte, ammette che ci sono continui contatti per arrivare a capire se ci sono le basi per qualche modifica. “Questa legge è una schifezza, ma è frutto di un accordo extraparlamentare, quindi non c’è battaglia che tenga”, si sfogava ieri qualche deputato. La convinzione più o meno generale è che alla fine in qualche modo la Camera l’Italicum lo approverà. E in Senato si vedrà. Tra i renziani c’è chi è pronto pure ad appellarsi alla Provvidenza o a sperare in qualche risultato entusiasmante del governo.
BASTA sentire Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari costituzionali del Senato, dove la riforma uscita da Montecitorio (e dove i renziani sono minoranza) andrà incardinata: “Lavoreremo in Commissione per una norma sulla parità di genere, la soglia dell’8% per i partiti che vanno da soli, poi, è molto, molto alta. Per quanto riguarda il premio di maggioranza, invece, una soglia ragionevole è il 40%”. Sostanzialmente smonta l’accordo. Tanto che il suo omologo alla Camera, Francesco Paolo Sisto, la richiama all’ordine: “Io trovo sconcertante che di fronte a un patto che è stato raggiunto fra Renzi e Berlusconi, si possa pensare già con riserva mentale di mutarlo”. Il Senato non è la Camera e i numeri del governo sono molto più risicati. 169, per una maggioranza di 161. Se alla fine, per dire, contro l’Italicum votassero tutto Ncd (32 senatori) e i 25 democrat che già hanno firmato contro la legge, pure con il soccorso dei 60 di Fi i numeri sarebbero molto a rischio. I presupposti ci sono tutti. Renato Schifani chiarisce: “Palazzo Madama non farà il notaio della Camera”. E in Commissione la Finocchiaro fa sponda con Francesco Russo, fedelissimo di Letta: il progetto è quello di mettere il più possibile i bastoni tra le ruote all’Italicum e di far passare prima la riforma del Senato. Alla faccia di quello che Maria Elena Boschi avrebbe scritto a Dorina Bianchi (come riporta l’Huffington Post): “Se passa l’emendamento che hai difeso (sulle preferenze, ndr.) , salta tutto e si va a votare. Voglio vedere dove prendi i voti per essere eletta”. Smentiscono entrambe, sia il ministro che la deputata: ma il clima è quello.

l’Unità 8.3.14
Renzi-Camusso, scintille sul lavoro
Affondo di Camusso sul governo «Sottovaluta le parti sociali»
Si alza la polemica tra sindacati ed esecutivo
di Massimo Franchi


Renzi al lavoro a Palazzo Chigi sul dossier economico. «Servono segnali chiari subito», dice ai suoi. Sul lavoro e sulla casa le prime misure che saranno presentate il 12 marzo. Camusso però avverte: non bastano tweet o email, c’è bisogno di un rapporto con le parti sociali. Anche Bonanni critico.
Niente trucchi contabili: i fondi europei di coesione servono per finanziare dei progetti concreti e non possono essere utilizzati per tagliare le tasse sul lavoro. E niente scuse: i soldi spesi dall’Italia per gli aiuti economici ai Paesi euro in difficoltà non sono stati conteggiati negli aggiustamenti strutturali di bilancio richiesti. Le due precisazioni, arrivate ieri dalla Commissione europea, continuano ad alimentare la polemica tra Roma e Bruxelles. Nei giorni scorsi il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan in un’intervista al Sole24Oresull’ipotesi di tagliare 10 miliardi di euro di cuneo fiscale aveva detto: «Dobbiamo capire con l’Unione Europea come utilizzare al meglio i fondi europei che oggi non vengono spesi. È un altro capitolo importante quando si parla di coperture».
FINANZIARE NUOVI PROGETTI. Ieri è arrivata la risposta di Shirin Wheeler, portavoce del commissario Ue alle Politiche regionali Johannes Hahn. «L’Unione europea chiarisce che i fondi della politica di coesione devono essere utilizzati per finanziare nuovi progetti per lo sviluppo - ha detto il portavoce - quindi non possono essere usati per coprire la riduzione delle imposte, come quella potenzialmente legata al cuneo fiscale, come suggerito da alcuni osservatori».
Per l’Italia valgono le stesse regole in vigore per gli altri Stati membri, ha continuato Wheeler: i fondi europei devono essere utilizzati per «progetti concreti per offrire, per esempio, aiuti alle startup o per l’espansione produttiva e occupazionale dell’industria manifatturiera, od operazioni per ridurre la dispersione scolastica». Sono solo questo tipo di progetti che «sono considerati una priorità politica dall’Unione europea» e una volta che gli Stati nazionali li avranno finanziati con soldi propri Bruxelles farà «una verifica a posteriori di coerenza con le regole dei fondi, con i criteri di selezione e con la strategia dei programmi. Solo quando sarà trovato un accordo sulla strategia e sui i programmi, la Commissione potrà rimborsare quei progetti con risorse comunitarie».
Un altro portavoce della Commissione ha poi confutato la tesi dell’ex ministro Fabrizio Saccomanni che, in polemica con il premier Matteo Renzi, aveva sottolineato che l’aumento del debito pubblico sia stato causato anche dalla partecipazione dell’Italia ai piani di salvataggio degli altri Paesi euro. Vero, ma Bruxelles non calcola questi contributi nell’aggiustamento strutturale richiesto ai Paesi. Lo ha spiegato Simon O’Connor, portavoce del commissario Ue agli Affari economici Olli Rehn. «Non penalizziamo un Paese nel valutare l’adeguatezza del suo aggiustamento strutturale - ha detto - visto che questi contributi sono a favore della stabilità generale dell’area euro». Quando a novembre Saccomanni ha presentato la legge di bilancio 2014 Rehn ha giudicato insufficiente l’aggiustamento del bilancio strutturale (la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito) perché non riduce il debito pubblico al ritmo richiesto. Per questo motivo il 25 febbraio scorso la Commissione ha respinto la richiesta dell’Italia di avvalersi della «clausola di flessibilità», che permette di rallentare il ritmo del risanamento dei conti per fare investimenti produttivi.
GLI «ECCESSI» DA SANARE. Ma il conflitto con il nuovo governo è scoppiato mercoledì scorso, quando Rehn ha presentato il rapporto sugli squilibri macroeconomici che ha messo di nuovo l’Italia tra i sorvegliati speciali, insieme a Croazia e Slovenia. Bassa competitività, alto debito e crescita lenta sono «squilibri macroeconomici eccessivi», ha spiegato il commissario, che per questo motivo a giugno potrebbe aprire una procedura di infrazione, dopo che solo a maggio 2013 era stata chiusa quella per deficit eccessivo. Una bella tegola per il governo che sperava di avere qualche margine di manovra e si ritrova a lavorare con il fiato sul collo della Commissione. Al summit straordinario sull’Ucraina giovedì a Bruxelles Renzi ha espresso la sua irritazione per i vincoli e i continui richiami di Bruxelles. «L’Europa non è il luogo dove veniamo a prendere i compiti da fare a casa - ha detto - l’Italia sa perfettamente cosa deve fare e lo farà da sola per il futuro dei nostri figli. Non dobbiamo dare rassicurazioni a nessuno»

il Fatto 8.3.14
Camusso protesta: ”Questo governo ci sottovaluta”


“IL TEMPO non è infinito. Se dai un calendario senza dire il merito che affronti, è solo un calendario”. Susanna Camusso va all’attacco del governo Renzi e lo accusa di “sottovalutare molto il rapporto con le parti sociali”. Al congresso della Camera del Lavoro di Torino, la leader della Cgil usa parole dure. Ma la polemica comincia qualche ora prima, quando il braccio destro della Ca-musso , Gaetano Sateriale, l’ex sindaco di Ferrara, scrive su Twitter: “’La priorità è crescita e lavoro, lavoro e crescita’. Renzi si sarà mica iscritto alla Cgil”. Pochi minuti dopo il premier risponde: “Tranquillo Gaetano. È un rischio che non corro, né io né la Cgil”. E la Camusso sbotta: “Il presidente del Consiglio ha un grande amore per gli strumenti mediatici. Dice di stare tranquilli, che non s’iscriverà alla Cgil? Io non sono tranquilla per il rapporto che lui pensa di avere con le parti sociali. Già con Monti o Letta abbiamo visto saltare il rapporto tra governo e parti sociali: il governo andava avanti per la sua strada salvo poi scoprire, come nel caso della riforma delle pensioni, che forse sarebbe stato meglio parlarsi prima. Dal passato dovrebbero imparare tutti”.

Repubblica 8.3.14
Ma sul lavoro la Camusso attacca il premier
“Basta tweet, convochi le parti sociali”. La replica: “ Non mi iscrivo alla Cgil”
di Paolo Griseri


TORINO - Il governo Renzi «come quelli che lo hanno preceduto ». Già questa prima parte della frase sembra fatta apposta per irritare il premier. Il seguito non è da meno: «Come quelli che lo hanno preceduto, il governo Renzi è attratto dall’idea che si possagovernare senza la mediazione delle parti sociali. In una specie di contrattazione fatta più di rapporti individuali che di confronto con le organizzazioni». Così dice Susanna Camusso parlando al congresso della Cgil di Torino. E ricordando «il precedente non positivo» del governo Monti con la riforma delle pensioni pensatadai professori e firmata da Elsa Fornero. Renzi come Fornero?
Il frontale del segretario della Cgil con il premier neoinsediato arriva al termine di una mattinata fatta di punzecchiature. Iniziata dal tweet di Gaetano Sateriale, collaboratore di lunga data di Camusso, fin dai tempi della comune militanza nella minoranza Fiom. Sateriale scherza sul social network: «La priorità al lavoro e alla crescita: si sarà mica iscritto alla Cgil?» chiede il sindacalista parlando di Renzi. Il premier risponde immediatamente: «Tranquillo Gaetano, è un rischio che non corro...né io né la Cgil». Nonostante l’ironia dello scambio, Camusso non gradisce: «C’è poco da stare tranquilli. Non mi lascia tranquilla il rapporto che Renzi pensa di avere con le parti sociali ».
A rendere difficile quel rapporto c’è soprattutto una questione di merito. Nei giorni scorsi, con l’intervista a Repubblica, Camusso aveva indicato quali erano le priorità della Cgil nella riforma del lavoro. E aveva messo in guardia dal rischio di eliminare la cassa integrazione in deroga senza alternative pronte, con l’effetto di produrre immediatamente decine di migliaia di disoccupati. Dal governo non sono giunti segnali di risposta. Anzi lo stesso ministro del lavoro ha fatto informalmente sapere che sui contenuti del jobs act ci sarà chiarezza solo nel consiglio dei ministri del 12 marzo, quando gli esperti interpellati dal premier metteranno sul tavolo le proposte tra cui scegliere. Una procedura che rischia di tagliare fuori le organizzazioni sindacali mettendole di fronte al fatto compiuto. Con la possibilità che si produca un altro pasticcio come quello degli esodati.
Così il contrasto di metodo diventa contrapposizione. Camusso non risparmia una battuta sul fatto che «la Cgil è abituata a confrontarsi con milioni di lavoratori guardandoli in faccia e partecipando a centinaia di assemblee. Non abbiamo televoti o qualche tweet sostitutivo della democrazia ». La metafora non è casuale e accomuna l’abitudine al cinguettio di Renzi con i televoti introdotti per prime dalle tv berlusconiane. Infine l’accenno alla «contrattazione fatta più di rapporti individuali che con le organizzazioni dei lavoratori». Qui il riferimento è alla scelta di Renzi di incontrare direttamente Landini per ascoltare la proposta della Fiom sulla riforma del lavoro. Un passaggio irrituale perché prima ancora di giurare da premier, Renzi ha scavalcato la Cgil che è l’interlocutore naturale per quell’argomento. E questo è anche uno dei motivi dello scontro duro tra i metalmeccanici e la Confederazione. Contrasto che si scarica, in termini sindacali, nella polemica sull’accordo sulla rappresentanza nelle fabbriche, quello che Camusso ha firmato insieme a Cisl, Uil e Confindustria e che la Fiom sta contrastando nelle assemblee congressuali di queste settimane. Due fronti, quello con il governo e quello interno con la Fiom, che impegneranno la Cgil almeno fino al congresso di maggio.

il Fatto 8.3.14
Italian mini-job, la trovata di Renzi
Il piano del lavoro sta cominciando a prendere forma.
Tra le novità il nuovo modello contrattuale ultra-flessibile e la retribuzione oraria per legge. Ma alla fine sarà il premier a decidere tutto
di Salvatore Cannavò


Matteo Renzi è al lavoro sul Jobs Act. Lo ha fatto sapere lui stesso, di nuovo via Twitter, ieri mattina alle 6,45. Sul piano del lavoro si gioca molto, per questo ha deciso di mantenere saldamente la regia di tutta l’operazione. Lo hanno capito nei giorni scorsi i sindacati quando sono stati convocati dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, il quale ha dovuto ammettere di non sapere nulla su quanto si sta discutendo nell’entourage del primo ministro.
Ma il piano inizia ad avere i primi capitoli. E chi ha partecipato agli incontri ne restituisce i dettagli. Come il contratto unico di inserimento, anzi di “inclusione”, di cui si è già parlato; la revisione del contratto a tempo determinato. Negli ultimi giorni è spuntata anche l’idea di un “mini-job” all’italiana e di un salario minimo legale, cioè la paga oraria sotto la quale nessun lavoro può essere retribuito. Un piano che in parte ricicla il mercato del lavoro esistente ma in parte lo modifica in profondità. Con la possibilità di un buon impatto mediatico che è poi quello che a Renzi preme di più.
L’EX SINDACO di Firenze ha deciso di farsi aiutare direttamente dal responsabile economico del Pd, Filippo Taddei che, ovviamente, ha scelto il profilo più basso possibile. “Esistono i ministri competenti, c’è un governo in carica, io posso solo dare una mano” spiega al Fatto rifiutandosi di aggiungere altro. Ma dell’altro c’è e se n’è discusso al tavolo di coloro che stanno tessendo il filo della riforma. Tra loro, il bocconiano Marco Leonardi, professore associato di Economia politica alla Statale di Milano. Leonardi scrive su Lavoce.info fondata da Tito Boeri, l’ideatore del contratto unico di inserimento, e punta a trovare un compromesso tra il centrosinistra e il centrodestra di Angelino Alfano e Maurizio Sacconi. A discutere con lui si è ritrovato anche Patrizio Caligiuri, avvocato, PhD in diritto del lavoro, capo segreteria dell’assessorato laziale al Lavoro ma in procinto di trasferirsi al ministero della Pubblica amministrazione con Marianna Madia. A essere coinvolto è anche Tiziano Treu, il “padre” del lavoro flessibile, che si fa rappresentare, nelle riunioni ristrette da Luca Cafarelli, già membro del Forum lavoro del Pd e attivo all’interno di Arel, il centro studi di Treu ed Enrico Letta. È in questi consessi che il Jobs Act ha iniziato a prendere forma. Al primo punto c’è il contratto unico di inclusione, a tempo indeterminato, forma base del rapporto di lavoro che nell’arco dei primi tre anni non vedrebbe contemplato l’articolo 18. In cambio, si sta pensando a un risarcimento, in caso di licenziamento, progressivo al progredire del contratto. Secondo tassello, il contratto a tempo determinato, che dovrebbe rimanere limitato ad alcuni settori (sicuramente il lavoro stagionale). In questo caso, la causale, cioè la specifica delle ragioni dell’assunzione, utile ai fini del controllo da parte del giudice, può non essere scritta per contratti di 36 mesi. Oggi questa possibilità è prevista solo per il primo contratto fino a 12 mesi. Il terzo progetto, per andare incontro a Confindustria e a Reteimprese (molto forte dopo la manifestazione di Roma), consisterebbe nell’accorpamento in un’unica forma contrattuale delle tipologie minori ma appetibili per le imprese. Il lavoro a chiamata o intermittente, il lavoro autonomo occasionale e altre forme che potrebbero andare a formare il mini-job all’italiana. Un “contrattino” super-flessibile, magari da retribuire tramite i vaucher fino a 8mila euro di reddito annuo. In ballo c’è anche un’altra idea, il salario minimo legale, che fissa per legge la retribuzione minima oraria. Esiste in gran parte d’Europa, il patto tra Spd e Cdu, lo prevede in Germania a 8,5 euro l’ora. Obama l’ha aumentato negli Usa portandolo a 10,10 dollari (circa 7,50 euro). Nel tavolo renziano, si è parlato di 6 euro l’ora. Per i sindacati “distruggerebbe i contratti nazionali”.
L’ULTIMO, grande, capitolo, è la nuova Aspi (Naspi), l’indennità di disoccupazione da estendere ad altri soggetti e basata sull’abolizione della Cassa in deroga. Ma quest’ultima consente di mantenere il posto di lavoro, sia pure sussidiato, a circa 130 mila lavoratori. La platea dei nuovi beneficiari del Naspi – collaboratori, partite Iva, etc. – raggiunge il milione di soggetti. I soldi non bastano. Su tutti questi punti Renzi incontrerà un muro da parte dei sindacati, come dimostrano i continui attacchi della Cgil. Solo il testo finale dirà se si tratta di una montagna o di un topolino.

il Fatto 8.3.14
Il sociologo Luciano Gallino
“Vecchie idee: la disoccupazione rimane”
di Sal. Can.


Mentre lo raggiungiamo al telefono, il professor Luciano Gallino sta leggendo un rapporto sul sistema sanitario in Grecia: “Un disastro assoluto, il prodotto di politiche di austerità che produce risultati terrificanti”. Quanto si vede finora con il nuovo governo sembra andare in quella direzione. “Finora si è parlato molto, gli impegni sono tutti da vedere, ma mi sembra che ci muova sulla linea degli ultimi 20-25 anni. E che hanno solo aumentato la flessibilità e la precarietà del lavoro”.
Nessuna speranza su Renzi?
Direi che la sua domanda è una buona metafora del mio stato d’animo.
Cosa non la convince del piano del lavoro per come lo si conosce finora?
Sono passati 20 anni dalle prime proposte Ocse sulla flessibilizzazione del lavoro. Il risultato è che i precari sono aumentati a dismisura.
La riforma del “mercato del lavoro”
non può servire a ridurre la precarietà?
È uscita una gran quantità di saggi che dimostrano come le riforme dei contratti di lavoro non modificano, se non in peggio, la creazione di posti di lavoro.
La tendenza che lei vede in atto, quindi, è la stessa dei precedenti governi?
Mi sembra proprio di sì. In realtà non si è mai voluto analizzare in profondità il motivo per cui le imprese chiedono maggiore flessibilità.
E qual è?
Non solo evitare la grana dei licenziamenti , ma anche trasformare il lavoro in un’appendice dei movimenti di capitale. La catena del valore si è ormai internazionalizzata e la forza lavoro viene collocata in uno stato di perenne transizione. Si pensi ai contratti a zero ore.
Contratti a zero ore?
Sì, in Gran Bretagna ne sono stati stipulati circa un milione. Zero ore per zero soldi. Il lavoratore firma un contratto che lo mette a disposizione dell’impresa che lo può chiamare con un sms anche per poche ore. Il lavoro diventa una sorta di rubinetto da aprire e chiudere a piacimento.
Cosa pensa dei mini-job tedeschi?
Parliamo di contratti da 15 ore alla settimana a 450 euro al mese. Se ne collezioni almeno due riesci a raggiungere un reddito che si colloca sulla soglia di povertà.
L’obiezione ricorrente è che è sempre meglio di niente.
È una brutta obiezione, perché sarebbe come dire che se hai contratto una brutta malattia in realtà potresti stare peggio. La forza della Germania, il suo export, si fonda sull’impennata della produttività senza aumenti retributivi. Il successo tedesco si fonda sulla pelle dei lavoratori.
La sua idea per contrastare la precarietà e creare lavoro?
Riportare la finanza al servizio dell’economia produttiva, creare occupazione assumendo direttamente su progetti ad hoc. Con investimenti pubblici si possono ristrutturare ospedali, interventi idrogeologici, etc.
Un modello keynesiano classico?
Abbiamo l’acqua non più alla gola, ma sopra gli occhi. Oc-core fare qualcosa urgentemente.

Corriere 8.3.14Stefania Giannini guida il ministero
«Niente rivoluzioni, un miliardo per la scuola»
«No alle grandi riforme Interventi per la sicurezza da un miliardo di euro»
intervista di Paolo Conti


«Poche regole ma chiare». Stefania Giannini, che guida il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, racconta al Corriere : «La scuola deve avere agibilità, sicurezza e dignità. Pronti a muovere un miliardo»

Ministro Stefania Giannini, lei guida di fatto tre dicasteri: Istruzione, Università, Ricerca. Provi a sintetizzare il suo piano d’azione.
«È ovviamente difficile, si parla di un universo sterminato, dalla scuola dell’infanzia alla ricerca post universitaria. Prima di tutto semplificazione degli aspetti procedurali che spesso sono ostacolo e non strumento. E poi massima concentrazione sui risultati, mettendo da parte l’ossessivo accanimento sulle procedure. Insomma: poche regole ma chiare, e attenzione ai principi valoriali».
Bello slogan. Ma intanto le scuole italiane cadono a pezzi. Non metaforicamente. Si parla di muri, di strutture reali.
«Non ho l’abitudine di scaricare sulla politica tutte le responsabilità, ma se un tema non viene percepito come essenziale per il Paese, questi sono i risultati. Questo governo ha invece proprio la scuola al centro della propria azione. Lo ha annunciato il presidente Renzi…».
Ma per ora sono, appunto, degli annunci. Parliamo di cifre.
«Le cifre ci sono e il ministero è pronto ad agire. In ogni Paese civile la scuola deve avere agibilità, sicurezza, dignità e decenza. Movimenteremo un miliardo di euro: 150 milioni di euro sono già stanziati. Sono in calendario 700 interventi e abbiamo prorogato fino al 30 aprile i termini per la presentazione delle domande. C’è una lista di circa 2.000 interventi immediatamente cantierabili per circa 320 milioni. Poi, attraverso l’Inail, potremo contare su ulteriori 300 milioni: saranno mutui per la messa in sicurezza, la prevenzione del rischio sismico, l’adeguamento energetico. Infine, grazie alla Banca europea degli investimenti e la Cassa depositi e prestiti, sono in vista altri finanziamenti per ristrutturazioni e messa in sicurezza per 40 milioni annui in un lungo periodo, fino alla somma di 900 milioni».
Lei parla di dignità. E gli stipendi degli insegnanti così bassi? Gli scatti di anzianità sono in pericolo?
«Ho detto e ripeto che gli insegnanti italiani avrebbero diritto a retribuzioni di livello europeo. Tagliare gli scatti di anzianità? Non ho detto questo, nessuno pensa a togliere uno strumento economico indispensabile in un sistema di fatto bloccato, significherebbe peggiorare le condizioni di vita dei docenti. Ma bisognerà pur trovare strumenti per valorizzare le migliori professionalità, la capacità di aggiornamento. La disponibilità ad assumersi responsabilità. Per il momento è un libro dei sogni. Dovremo approfondire la questione».
Anche le sue dichiarazioni di sostegno alla scuola paritaria privata hanno aperto un dibattito. Sono stati stanziati 483 milioni. Così non si danneggia la scuola pubblica?
«Non sono un Robin Hood al contrario, non me lo merito proprio... C’è di mezzo il Consiglio d’Europa che il 12 dicembre 2012 ha inviato all’Italia una raccomandazione per il rispetto del principio di uguaglianza e parità nella scelta educativa. Non mi metto certo a togliere risorse alle scuole statali per darle ai privati. Ma, questo sì, responsabilizzare le scuole paritarie, sapendo ben distinguere il grano dal loglio, garantendo alle famiglie una autentica libertà di scelta. Senza ideologie. In Italia c’è grande confusione tra il concetto di “pubblico”, che ha la sua radice nell’espressione pro-populo , cioè al servizio della comunità e che può anche essere privato, e quello di “statale”».
Come vive le spettacolari visite nelle scuole di Renzi? Grillo è andato giù duro: «Sembri Mussolini»...
«Grillo è uomo di spettacolo. Non era al centro della scena, sotto i riflettori, e così ha fatto il controcanto. Io penso che quando le istituzioni vanno tra la gente con semplicità e immediatezza, per confrontarsi in questo caso col mondo reale della scuola, quindi insegnanti e famiglie, è sempre un bene. Faccio io una domanda: qualcuno ha da obiettare quando vede le stesse scene con Barack Obama o David Cameron?».
E l’inno dedicato a Renzi a Siracusa? Non era eccessivo?
«Io ero impegnata in Aula e non ho potuto accompagnare il presidente del Consiglio ma in qualunque scuola, quando arriva il sindaco o un’altra autorità locale, si preparano festeggiamenti simili. Hanno fatto lo stesso con Renzi. Trovo bello che i bambini abbiano un forte senso delle istituzioni».
Il suo ministero risente, come gli altri, di continui cambi di vertice. Non è dannoso per la scuola che ogni ministro voglia lasciare la propria impronta cambiando tutto?
«Io non sono afflitta dalla sindrome della continua rivisitazione del già fatto, non ho questa patologia... Nemmeno penso che scuola e università abbiano oggi bisogno, in Italia, di una grande riforma che scardini ancora una volta il sistema. Penso invece, come dicevo all’inizio, che ci sia massima urgenza di principi valoriali, di semplificazione, di poche ma chiare regole, di attenta valutazione dei risultati».
Lei viene dall’università, dove lavora da anni. Non rischia di sapere troppo poco di scuola primaria o secondaria, dove ci sono grandi difficoltà didattiche e organizzative?
«Prima risposta. Io ho l’abitudine di studiare a fondo ciò che non conosco. Seconda risposta. Mi sento, e sono, un ministro politico e non tecnico. Intendo esercitare al meglio questo mio ruolo. Il governo Renzi ha una forte impronta politica, grazie anche alla presenza di segretari di partito, e io sono tra loro. E un governo deve mettere la propria faccia politica sulle scelte essenziali. Soprattutto in settori chiave come il mio, che riguarda la vita delle famiglie e il futuro delle nuove generazioni».

il Fatto 8.3.14
Bene il piano scuola. Ma come?
di Pierfranco Pellizzetti


Nella montagna di panna programmatica, montata da Renzi nel corso dei suoi discorsi per la fiducia, uno dei rari argomenti con la consistenza di vera proposta politica è quello relativo all’ipotesi di un “Piano nazionale per l’edilizia scolastica”. Ossia l’apprezzabile proposito di rimettere in sicurezza la miriade di strutture fatiscenti dove studiano i figli degli italiani, spesso perfino in aule dove incombe il rischio di crollo del soffitto e varie catastrofi. Se, nell’attuale revival democristiano in sedicesimo, Enrico Letta ripropone la “tipologia Aldo Moro” (il rinvio come tecnica per congelare i problemi), il neo premier reincarna in tono minore l’iperattivismo all’Amintore Fanfani. Difatti se la missione del suo rottamato predecessore si giocava tutto all’interno dello schema di partito (sfinire i Cinque stelle con la simulazione del riformismo); ora il mandato è quello di illudere un corpo elettorale tra il disperato e il furibondo, tentato al 50% dal richiamo a defezionare, con la simulazione del movimento (un po’ come il criceto che corre a perdifiato nella ruota). Il senso per cui tutti si dicono “renziani”, nel Pd a rischio di perdere la pole position. Sicché, in questo gioco dei revival, la proposta del “Piano Scuola” ha un’evidente assonanza con quel “Piano Casa” del 1949, grazie al quale l’allora ministro del Lavoro e Previdenza sociale Fanfani riuscì a realizzare 300 mila alloggi di edilizia residenziale pubblica e si conquistò sul campo l’appellativo di “cavallo di razza” (l’altro era – appunto – Moro).
SEBBENE Letta e Renzi come cavalli risultino “a dondolo”, l’idea del “Piano Scuola” sembra buona. Ha un sentore newdealistico di stampo rooseveltiano che impone attenzione sulla sua fattibilità. Anche perché l’edilizia è il volano economico che produce effetti positivi immediati, di cui ci sarebbe estremo bisogno. Purtroppo – a ora risulta che i principali interlocutori del progetto – comuni e sistema imprenditoriale, dunque Anci e Ance – siano stati coinvolti in qualsivoglia progettazione operativa. L’Anci – pur dichiarandosi pronta a incontri operativi – si limita a far presente che l’investimento necessario si aggirerebbe sugli 8 miliardi, l’Ance, dichiarando il proprio convinto assenso, rimanda a suoi studi sui residui di somme destinate a investimenti e mai spese in quanto smarrite nei soliti meandri burocratici. Domanda: dove trovare le somme per realizzare quelle che a oggi sono solo apprezzabili dichiarazioni d’intenti? Il dirigente di una regione del Nord, che preferisce restare anonimo (la nota attitudine al “non fare prigionieri” del Renzi induce qualche timore), si lascia andare a una ipotesi: “O è un pokerista, o è un matto o ha un accordo”.
E TENENDO per buona la terza (anzi, sperandoci) c’è chi richiama un fatto su cui riflettere: la prima telefonata del nuovo premier è stata con Angela Merkel. Fatto importante perché il “Piano Scuola” – in attesa di più che problematiche manne dal cielo – può essere finanziato solo allentando i vincoli del Patto di Stabilità dell’Unione europea; operazione per cui l’assenso tedesco diventa decisivo. Come tale benevolenza già si è rivelata decisiva per la Spagna, che gode di condizioni molto migliori delle nostre. Renzi ha in testa tutto questo? La sua imperscrutabilità rispetto ai numeri sta rivelandosi assoluta, tanto da lasciar supporre una vera e propria allergia. Se così non fosse, ci sarebbe un’ulteriore conferma dell’analisi sconfortata che faceva giorni fa Fabrizio Barca: “Questi non hanno un’idea che sia una”. E il nostro premier aumenterebbe il tasso di somiglianza con un personaggio dei fumetti che forse i più anziani ricordano: sulle pagine de il Monello, un giornalino pubblicato dai primi anni 30 fino al 1990. Si chiamava “Superbo-ne”, un ragazzotto tronfio e cacciaballe.

il Fatto 8.3.14
Inchiesta a Taranto
Ilva, l’email che sbugiarda Vendola
di Francesco Casula e Antonio Massari


Me ne sono andato dopo un’attesa di 20 minuti mentre Antonicelli e Nicastro erano in riunione da Vendola. Io non mi faccio trattare in questo modo”. È il testo di una mail che è in contrasto con le dichiarazioni di Nichi Vendola ai magistrati. A scriverla è Giorgio Assennato, direttore dell’Arpa Puglia, in risposta a una lettera che gli chiedeva come fosse andata la conferenza stampa sull’Ilva, negli uffici della Regione, del 15 luglio 2010. Un documento che Assennato ha recuperato durante le feste natalizie e consegnato alla procura il 31 dicembre scorso. La data del 15 luglio è fondamentale, nella ricostruzione dell’accusa di concussione nei confronti di Vendola, perché proprio quel giorno si tenne un incontro tra il presidente e i Riva che, all’uscita della riunione, commentarono al telefono: “Tieni presente che già psicologicamente, ieri, è avvenuto questo: Assennato è stato fatto venire al terzo piano però è stato fatto aspettare fuori… come segnale forte…”. Vendola è categorico: Assennato non fu convocato per quella riunione. “Io non ho memoria di Assennato – risponde Vendola ai pm – non era nel palazzo, non era nel mio campo visivo… non lo convocammo nel corso della riunione … non ricordo che nessuno l’abbia convocato con un sms…”. E precisa che la riunione si tenne dalle 11 all’una. Il direttore dell’Arpa, dopo aver trovato la mail nel suo archivio, spiega che “tra le 11.01 e le 12.04 si desume che possa aver avuto la possibilità di recarmi in Regione, attendere inutilmente 20 minuti, per poi ritornare alla sede dell’Arpa, che si trova a 600 metri di distanza”. Insomma: orario di presenza in Regione e testo della mail, a questo punto, appaiono un riscontro robusto alle intercettazioni dei Riva. Assennato precisa: “Si desume che l’attesa sia riferibile all’incontro previsto per le 11: la conferenza stampa”. Di certo, nel testo della mail, Assennato riferisce di aver aspettato 20 minuti, che l’attesa era motivata dal fatto che “Antonicelli e Nicastro (presenti all’incontro con i Riva, ndr) erano in riunione da Vendola” e, soprattutto, che il direttore era parecchio adirato : “Non mi faccio trattare in questo modo”. Per il resto Assennato conferma di non aver subìto pressioni da Vendola anche se – in un documento precedente - ammette: “Le ragioni dell’attesa non sono il frutto di un ‘segnale forte’ o di una ‘intimidazione’ subìta, ma il riflesso di un contrasto di vedute… la linea dell’Arpa quella di adottare misure preliminari e immediate… che evidentemente non incontrava più i consensi della visione politica della Regione, che preferiva attendere i risultati del monitoraggio diagnostico…”. E proprio sul versante politico, il leader dei Verdi Angelo Bonelli, scrive a Vendola una lettera aperta con 5 domande, tra le quali: perché la legge antidiossina, descritta da lei come una legge all’avanguardia, è stata disapplicata? Perché s’è tardato a istituire il registro tumori? Perché disse sì al rilascio dell’Aia – autorizzazione integrata ambientale - del 2011? Perché non ha mai fatto un’indagine epidemiologica? “Spero – conclude Bonelli – che vorrà darmi una risposta”

Repubblica 8.3.14
Angelo Bonelli attacca il governatore rinviato a giudizio: ha ancora molto da spiegare
Ilva, il leader dei Verdi contro Vendola “Non dice la verità, deve dimettersi”
intervista di Mario Diliberti


«SU Ilva e Taranto, Vendola racconta una storia che non è la realtà». Il leader dei Verdi Angelo Bonelli incalza il governatore pugliese e leader di Sel all’indomani della richiesta di rinvio a giudizio per concussione, presentata nell’ambito dell’indagine sul disastro ambientale provocato dalla grande acciaieria.
Ha rivolto cinque domande a Vendola per evidenziare il suo fallimento sul caso Ilva?
«Non spetta a me processarlo, ma deve delle spiegazioni. Si vanta di aver varato una legge per abbattere le emissioni di diossina dalle acciaierie. Ma quella legge non è stata applicata. E ora chiedo perché non è stato avviato il monitoraggio in continuo ed è stato fissato un livello soglia superiore a quello previsto per i centri siderurgici della Germania. Quella legge venne concordata con Ilva e con il governo Berlusconi, proprio come dicono i giudici».
E gli altri quattro quesiti?
«Vendola ci spieghi i ritardi nell’istituzione del registro tumori. E perché non ha impugnato dinanzi alla Consulta la legge favorevole all’Ilva sulle emissioni di benzoapirene, il veleno industriale che uccide i tarantini. Vorrei capire, inoltre, perché la Regione diede parere favorevole all’Aia del 2011, nonostante i dubbi che poi hanno trovato conferma nell’inchiesta. E da ultimo vorrei comprendere come mai non sia stata avviata una indagine epidemiologica per decifrare gli impressionanti dati sulla mortalità a Taranto».
Secondo lei Vendola dovrebbe dimettersi?
«Sul web circola una sua foto. In mano ha un cartello e sopra c’è scritto: i politici indagati devono dimettersi. Non c’è altro da dire».
Il governatore sostiene di aver difeso migliaia di lavoratori…
«A Taranto bisognava difendere il diritto alla salute e alla vita prima di ogni cosa. E migliaia di agricoltori, pescatori e mitilicoltori hanno perso il posto. Nessuno li ha difesi».
Il futuro a Taranto è un punto interrogativo?
«Invece di fare leggi speciali per un risanamento discutibile con la prospettiva di riconsegnare la fabbrica ai Riva, il governo dovrebbe istituire una no tax area per attirare investimenti, ridisegnare il centro urbano di una città straordinariamente bella. Renzo Piano si è detto disponibile. Una politica seria non deve far cadere nel vuoto questa opportunità».

il Fatto 8.3.14
Prato Macrolotto, dove i cinesi restano schiavi
Una testimonianza e una denuncia alla procura per un reato gravissimo e inapplicato, a tre mesi dal rogo. Nell’area tessile del ‘pronto-moda’ una miriade di capannoni attorno ai quali si muovono figure furtive e silenziose
di Carlo Ripa di Meana


Mercoledì 18 febbraio sono partito da Roma in macchina, con mia moglie Marina, il nostro figlio adottivo Andrea e un’amica, Tilde Riva. Era una bella mattina soleggiata, ma quando siamo arrivati a Prato, il cielo era coperto e minaccioso. Faceva piuttosto freddo. Non abbiamo nemmeno dovuto ricorrere al Tom-Tom, il navigatore per le auto, per arrivare al “Macrolotto”, tali e tanti sono i cartelli stradali che lo indicano con chiarezza. Siamo passati davanti al “Centro d’arte contemporanea Luigi Pecci”, dove sono stato altre volte, in altre circostanze. Abbiamo percorso via Paronese, via dei Fabbri, via del Molinuzzo e infine via Toscana. Per le strade, non c’era quasi nessuno: in questa zona non abbiamo visto mezzi pubblici durante le tre ore di ricognizione. Se qualcuno si immagina di trovare strade brulicanti di cinesi indaffarati, resterà deluso: vie silenziose, pochi passanti, ombre furtive (cinesi, ovviamente, ne ho contati quattro o cinque, sguardo in basso), una serie infinita di capannoni e miriadi di doppie insegne in italiano e in cinese. La parola chiave, è “pronto-moda”.
Drappi rossi per invitare il Dragone a portare fortuna
Ai cancelli di molti capannoni erano ancora appesi drappi e nastri rossi, strappati e sgualciti. Più tardi mi hanno spiegato che tre giorni prima, il 15 febbraio, si era festeggiato il Capodanno cinese e che festoni e tappeti rossi servivano per invitare il Dragone a entrare e portare un po’ di fortuna. È l’anno del Cavallo, e pare che in Cina questo sia di buon auspicio. Arriviamo in via Toscana. Cerchiamo il numero 63/65, dove è avvenuto l’incendio il primo dicembre dello scorso anno. Marina e Andrea scendono dall'auto e si infilano nell’atrio di un capannone, al numero 56. Marina cerca di parlare con una ragazza che le è andata incontro, le chiede se ricorda qualcosa dell’incendio, mentre Andrea scatta qualche foto. Vengono invitati ad andarsene in modo piuttosto perentorio. Al numero 63/65, il corteo dei festeggiamenti per il capodanno cinese non deve essere passato, forse per rispetto dei morti. Qui niente nastri rossi, è tutto tranquillo. Sparita la confusione di ambulanze della Misericordia, di autopompe dei Vigili del Fuoco, di auto della Polizia, di gente che si aggirava smarrita e piangente. Ora regna il silenzio. Noto che l’insegna di Teresa moda è stata staccata. Il vetro spesso di una finestrella, chiusa da un’inferriata, è rotto, mi chiedo se era da lì che sporgeva la mano del pover’uomo, che poi è morto carbonizzato. Il portone accanto, con l’insegna Ye-Life, è aperto. Entro nello stanzone del pianoterra, dove ci sono i campionari allineati sugli stand con le stampelle: mi sembra siano camicette, tutte di colore blu elettrico. Le pareti sono bianche; sul lato destro, una scaletta in muratura porta non so dove, forse ai soppalchi rifugio e dormitori o al laboratorio. Anche Marina, Andrea e Tilde scendono dall’auto e mi raggiungono. Una ragazza cinese, vestita di nero, in pantaloni e giacca di pelle, ci viene incontro con aria poco cordiale. Sapevo che all’interno ci sono videocamere a circuito chiuso, perciò la nostra presenza non era certo una sorpresa. La ragazza dice che non parla italiano e ci fa capire che ce ne dobbiamo andare. Getta un'occhiata di disapprovazione alla nostra auto parcheggiata davanti al cancello, nell’area del suo capannone. La raggiunge un ragazzo, vestito come lei. I nostri tentativi di dialogo naufragano miseramente. Penso che forse dovremmo cercare di passare dal retro, dove probabilmente si accede ai laboratori, ma capisco che sarebbe inutile.
356 milioni di euro spediti da una libreria
Riprendiamo l’auto. L’unico segno di vita, mentre facciamo qualche giro per le vie del Macrolotto, è un omino cinese con un paio di cassette di gamberoni (o forse canocchie), che muovono ancora le chele. Ci allontaniamo in direzione del centro di Prato. Passiamo per Chinatown, via Fabio Filzi, via Pistoiese (con il famoso coloratissimo tazebao), piazza del Mercato Nuovo (dove c’è il tempio buddista).
Decido di dare un’occhiata anche alla libreria di via Cavour numero 13115, dalla quale sono stati spediti 356 milioni di euro in Cina attraverso Money2Money, con micro trasferimenti di 1.999 euro ciascuno: così dicono le indagini condotte da Pietro Suchan. Naturalmente la libreria Ou Hau non c’è più, è rimasta solo l’agenzia di viaggi cui era abbinata. Entro nell’agenzia e dico che sono un appassionato di libri antichi (tra l’altro, è vero) e che mi aveva incuriosito l’idea di una libreria cinese (anche questo è vero). Due ragazze cinesi spigliate e gentili (che parlano italiano) mi spiegano che hanno dovuto chiudere la libreria perché “non rendeva più” per via della crisi. Ci salutiamo con una serie di “mi dispiace” e risalgo in macchina. Quando sto per ripartire, sento battere a un finestrino. Abbasso il vetro. La più giovane delle due ragazze dell’agenzia mi porge un libro con un sorriso: “Guardi – mi dice – le vogliamo regalare questo libro, visto che lei si interessa ai disegni cinesi...”. È un gesto molto gentile: è un libro scritto in cinese, con molti disegni e ideogrammi. Non un libro costoso, ma comunque interessante, anche se per me incomprensibile. Ringrazio con sincero calore. Chissà, forse oggi abbiamo fatto un passo avanti nei rapporti tra italiani e cinesi, a Prato. Forse oggi sarebbe contento di me Romano Prodi, grande esperto del mondo cinese, che il 4 dicembre 2013, tre giorni dopo il rogo dei sette cinesi schiavi, sul Messaggero ha pubblicato un articolo intitolato: “Dialogare con i cinesi, a Prato e in tutta Italia: cooperazione reciproca ma nel pieno rispetto delle leggi”. Anche lui azzarda qualche cifra sul numero degli immigrati: 32 mila regolari, più 15 mila clandestini. Sono i 50 mila di cui parla anche il sindaco Cenni. Prodi, tre giorni dopo il rogo di Prato, descrive bene Wenzhou, da cui arriva il 90% dei cinesi di Prato. Il professore è molto apprezzato in Cina, tant’è vero che è stato invitato dal Partito comunista cinese a tenere dei corsi alla scuola di Partito e ha un contratto con l’agenzia cinese di rating, Da-gong. In Cina lo chiamano il Kissinger europeo. Proprio lui, il Kissinger europeo, due settimane prima del rogo, esattamente il 18 novembre 2013, riferendo del terzo plenum del Partito comunista cinese che si era svolto in quei giorni a Pechino, raccontava di “un promettente processo di liberalizzazione del sistema bancario, di una progressiva abrogazione della regola del figlio unico e di una limitazione dell’applicazione della pena di morte”. Io non penso che il “dialogo” tra italiani e cinesi basti a risolvere il problema. Anche Edoardo Nesi, che ha scritto su Repubblica un accorato articolo all’indomani del rogo, parla della necessità di “dialogo”. E così pure Adriano Sofri, sempre su Repubblica, nell’articolo intitolato “Quel tappeto di bottoni nella chinatown toscana”.
L’invito di Xiaoping: “Arricchitevi”
L’integrazione non si fa solo con i discorsi. Prima di tutto facendo la nostra parte, italiana. Oggi in Cina non ci sono più cortei di uomini e donne che agitano il Libretto rosso di Mao, oggi non ci sono più fucilazioni di massa e il Partito Comunista sta cercando la via delle riforme economiche. Oggi si vuole seguire l’invito di Deng Xiaoping: “Cinesi arricchitevi!”. Oggi la tennista Li Na viene riverita e acclamata in patria, anche se vuole gestire la propria carriera fuori dal “sistema sportivo nazionale”, forte dei 21 milioni di follower cinesi sul suo account twitter. Tutto questo avviene in modo molto violento, con grandi tensioni sociali, complessità e contraddizioni. Lo stesso Romano Prodi, descrivendo la città di Wenzhou (8 milioni di abitanti), dice che esiste un’enorme disparità tra gli splendidi grattacieli dei ricchi e gli slum di poveri, che frugano tra le immondizie. “Un’isola di imprenditorialità esasperata, con una struttura sociale dominata da piccolissime imprese, con un elevatissimo grado di irregolarità, ma anche con una conoscenza unica del mondo, interpretato come un luogo in cui tutto si può comperare e vendere. Una città nella quale l’emigrazione verso l’Europa, e soprattutto verso l’Italia, è ritenuta un elemento fondamentale della vita della comunità”.
Forse bisognerebbe che Italia e Cina decidessero insieme un sistema di accordi ad alto livello, per impedire che i cinesi vengano da clandestini in Italia, a fare una vita da schiavi, magari preferibile a quella da schiavi in patria. Ma soprattutto penso che lo Stato italiano dovrebbe mettere in atto le misure annunciate per eliminare la sacca di illegalità e, prima di tutto, la riduzione in schiavitù di migliaia di esseri umani nel cuore della Toscana, ombre frettolose che scivolano lungo le mura del Macrolotto. Verso le tre del pomeriggio decidiamo di ripartire per Roma, sotto un violento acquazzone. In macchina, siamo tutti silenziosi. Ho la netta sensazione che nessuna delle autorità pratesi sappia qualcosa di sicuro: in realtà gli immigrati cinesi, clandestini e non, sono quasi invisibili, sono ombre, che ombre vogliono restare. Purtroppo, credo che tutto sia rimasto esattamente com’era prima dell'incendio del dicembre 2013.

il Fatto 8.3.14
Così le lobby dei farmaci hanno truffato i malati
Ricercatori a libro paga, durata dei brevetti prolungata, accordi per fissare i rimborsi. Le case farmaceutiche si sono spartite il mercato come volevano. Caso Avastin-Lucentis: primi indagati a Torino
di Valeria Pacelli


Prolungare la durata dei brevetti, fare accordi illeciti per fissare i prezzi dei farmaci, mettere a busta paga ricercatori e scienziati. Sono solo alcuni degli escamotage utilizzati dai colossi farmaceutici per poter sponsorizzare i propri medicinali e gonfiare i fatturati. Non resta isolato il caso Roche-Novartis, le due case farmaceutiche che solo qualche giorno fa sono state sanzionate dall’Antitrust. Dovranno pagare una multa di 180 milioni di euro in totale, perché hanno fatto cartello per sponsorizzare il Lucentis, che costa circa 700 euro, rispetto all’Avastin che ne costa 80. Sul caso indaga sia la procura di Roma (per aggiotaggio e truffa), che quella di Torino, dove sono già stati iscritti alcuni nomi nel registro degli indagati.
NEGLI ANNI le multinazionali dei farmaci si sono spartite il mercato, quasi sempre a discapito dei farmaci generici meno costosi sia per le tasche del servizio sanitario nazionale che per quelle dei malati. Leggendo le sanzioni emesse dall’Antitrust, l’autorità garante della concorrenza e del mercato, è possibile ricostruire le modalità di una serie di strategie messe in atto dalle case farmaceutiche.
Per ostacolare l’ingresso dei generi-cisti sul mercato, alcune aziende negli anni hanno abusato della posizione di dominio. Come la Pfizer che a gennaio 2012 ha ricevuto una multa di 10,6 milioni di euro da parte dell’Autorità garante. In questo caso il Servizio Nazionale ha mancato incassi per 14 milioni di euro. Il farmaco in questione serviva per curare il glaucoma, un disturbo visivo che può comportare – in casi gravi – anche la perdita della vista. Il 60 per cento del mercato comprava il medicinale a base del principio attivo latanoprost dalla Pfizer, che per mantenere questa posizione di dominio, a seguito della scadenza della protezione brevettale, ne ha prolungato artificiosamente la durata, prima fino a luglio 2011 e poi fino al gennaio 2012, per allinearla a quella in vigore negli altri Paesi europei. E non è tutto perché la stessa Pfizer avrebbe inviato diffide ai produttori di farmaci generici conducendo anche un contenzioso amministrativo e civile, con importanti richieste di risarcimento danni in caso di commercializzazione. In questo modo si creava incertezza giuridica nei produttori di farmaci generici sulla possibilità di commercializzare i propri medicinali, ritardandone l’ingresso sul mercato. Ma ci sono stati anche altri casi. Risale alle fine degli anni 90 l’istruttoria su un farmaco utilizzato la cura delle infezioni delle vie respiratorie. In quel caso furono condannate sei case farmaceutiche perché si misero d’accordo per fissare i prezzi dei medicinali.
A PAGARE di tasca propria, chi di quelle cure aveva bisogno. Tanto che il farmaco in dieci mesi aumentò il prezzo del 50 per cento. E ancora. Un altro escamotage consiste nel cambiare la composizione dei principi attivi presenti nei medicinali, anche se di pochissimi milligrammi. In questo modo possono essere immessi sul mercato prodotti apparentemente nuovi, ma più costosi, con gli stessi effetti di quelli che già esistevano. Per non parlare dei casi di aziende farmaceutiche che hanno comprato i pareri degli esperti. A libro paga negli anni ci sono finiti medici indipendenti e ricercatori, ma anche laboratori, istituzioni finanziatrici e riviste specialistiche. Negli Stati Uniti sono scoppiati parecchi scandali di questo tipo. Come il caso del dottor Katz, che – come rivelò il Los Angeles Times– ha ricevuto nel corso degli anni centinaia di migliaia di dollari da aziende farmaceutiche. Con Katz altri cinque nomi illustri erano registrati a libro paga, tutti esperti che dovevano sperimentare ed esprimere un’opinione sul farmaco. Un problema che si è ripetuto in altri casi tanto da costringere il governo a varare la Physician Paymentes Sunshine Act, una norma , in vigore da gennaio 2013, che impone ai produttori di medicine di dichiarare i fondi con i quali vengono finanziati anche gli istituti di ricerca. E questo non è un problema oltre confine, lontano da noi, perché quei farmaci vengono venduti anche nelle nostre farmacie

il Fatto 8.3.14
La senatrice Pd Nerina Dirindin
“Sui prezzi Big Pharma fa business”


Lei, la senatrice del Pd Nerina Dirindin, c’è stata al tavolo della commissione Prezzi e Rimborsi dell’Aifa, il passaggio cruciale per gli interessi giganteschi delle multinazionali che sfornano pillole sempre più preziose: quanto vale per lo Stato italiano il tal medicinale? È giusto rimborsare 700 euro una dose di Lucentis quando l’omologo Avastin ne vale 80? Decide l’Agenzia del farmaco, e in ballo ci sono montagne di soldi, oltre alla salute dei cittadini.
Senatrice, com’è stare a quel tavolo?
Scomodo. Bisogna garantire le migliori terapie ai pazienti ottenendo i costi più contenuti per lo Stato: equazione difficile.
Specie se i produttori vogliono fare business.
La prepotenza delle multinazionali non conosce limiti. Vogliono tutto, sempre.
Un bel giorno una mega azienda chiede di alzare del 100% il prezzo di un suo prodotto. Motivo ufficiale del rincaro: l’aumento del costo dell’energia elettrica in Germania, paese dove si produceva la medicina.
Energia rincarata del 100%?
Mah. Sta di fatto che ci fu una gran discussione solo per rinviare la questione. Insomma l’Aifa funziona sì o no?
Dovrebbe funzionare meglio grazie a una diversa struttura normativa, che consenta anche di ampliare la platea dei soggetti attivi.
Cioè?
Oggi solo i produttori possono chiedere all’Aifa di mettere a rimborso un certo farmaco, seguendo le proprie logiche di mercato. Se anche le Regioni avessero la stessa facoltà, si potrebbe gestire la circolazione dei medicinali con un bilanciamento diverso degli interessi.
Non sarebbe più solo Big Pharma a decidere cosa immettere nel mercato sanitario?
Esatto. E ci fu una sentenza del Tar, in Emilia Romagna, che invitava lo Stato a legiferare in questa direzione, per dare alle Regioni – che spendono milioni di euro in medicine – un diritto di intervento in materia, sempre sottoposto all’ok finale dell’Aifa.
Ebbene?
La sentenza è ora all’esame della Corte costituzionale. Aspettiamo.

Corriere 8.3.14
La solitudine dei Bronzi nel museo svuotato dal Tar
Un ricorso blocca l’allestimento della galleria di Reggio Calabria
Chiusi 4 piani tranne due sale
di Sergio Rizzo


Mai slogan fu più azzeccato. «Gira e rigira la Calabria ti stupisce sempre», c’era scritto a caratteri cubitali nella sala del Consiglio regionale dove ieri il governatore Giuseppe Scopelliti presentava un accordo con l’Alitalia per far arrivare frotte di turisti da tutto il mondo: destinazione il museo della Magna Grecia di Reggio Calabria, dove sono esposti da tre mesi i Bronzi di Riace. Ma soltanto loro, però. A proposito di stupore, immaginate quello di chi, entrando in quel museo, scoprirà che sono aperte soltanto due sale, con le statue meravigliose trovate nel 1972 nelle acque calabresi e pochi altri straordinari oggetti, come la testa del Filosofo. Il resto dello spazio è completamente vuoto, e tale rimarrà ancora per un anno: se tutto andrà per il verso giusto.
Perché il calvario del Museo progettato negli anni Trenta del secolo scorso dall’architetto Marcello Piacentini non è ancora finito. Si era impegnato allo spasimo il ministro dei Beni culturali del governo di Enrico Letta, Massimo Bray, perché aprisse i battenti prima di Natale. Quattro anni avevano aspettato i Bronzi di Riace sdraiati nell’androne di palazzo Campanella, dov’erano stati ricoverati in attesa che venisse completata la ristrutturazione del museo. Quattro lunghi anni, con i lavori che andavano a rilento, si fermavano, poi ripartivano, per rifermarsi ancora, e i costi che salivano e salivano, fino a triplicarsi: da 10 a 33 milioni. Mentre le più belle statue di bronzo giunte a noi dall’antichità, precipitate in un avvilente dimenticatoio, venivano trasformate in protagonisti di spot propagandistici travalicando il pessimo gusto («Che ne dici di un po’ di montagna?». «Dai, al mare ci siamo sempre divertiti!» «Uff! Duemila anni…»). E la riapertura si allontanava sempre più. Il museo della Magna Grecia doveva essere pronto per le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia, il 17 marzo 2011? Ebbene, i Bronzi vi rientrano soltanto a dicembre 2013.
Nell’occasione, Bray non nasconde «grandissima emozione» nel vedere i due capolavori rimessi finalmente in piedi dopo 1.460 giorni «qui nel loro museo, un luogo bellissimo che abbiamo restaurato e restituito alla città». Ma forse, preso dal comprensibile entusiasmo, eccede nell’ottimismo. Perché se i Bronzi sono tornati finalmente a casa, lo stesso non si può dire per le altre centinaia di formidabili reperti che dovrebbero essere esposti lì insieme alle due statue. Una delle collezioni archeologiche più importanti e ricche d’Europa rimane chiusa nei depositi perché manca ancora da realizzare l’allestimento nonché gli impianti climatici di tutti gli spazi rimanenti. Parliamo di quattro piani interi. E per quanto i soli Bronzi valgano assolutamente la visita al museo (provare per credere), è una cosa francamente inaccettabile dopo che Reggio Calabria ha dovuto aspettare tutto quel tempo solo perché le porte del palazzo di Piacentini venissero riaperte.
Da quando la ristrutturazione del museo reggino è iniziata hanno esaurito il loro mandato quattro ministri dei Beni culturali: Sandro Bondi, Giancarlo Galan, Lorenzo Ornaghi e Massimo Bray. La patata bollente ora passa nelle mani del quinto, Dario Franceschini.
Il 10 gennaio scorso la soprintendente ai beni archeologici della Calabria, Simonetta Bonomi, dichiara davanti alle telecamere di Uno Mattina: «Adesso si sta lavorando per consentire la riapertura completa del museo, prevista per giugno. Le condizioni per rispettare la scadenza ci sono tutte, dopo l’aggiudicazione definitiva dei lavori». L’appalto vale cinque milioni, non bruscolini.
Peccato solo per quel ricorso al Tar che ha di nuovo bloccato tutto. Il consorzio Research contesta l’esito della gara vinta da una cordata di cui fanno parte le società Set up live, Protecno e la cooperativa Gnosis, chiedendo la sospensiva. Che però il Tribunale amministrativo respinge. A concederla ci pensa invece il Consiglio di Stato, per ironia della sorte, proprio nelle stesse ore in cui Scopelliti e l’amministratore delegato di Alitalia Gabriele Del Torchio presentano l’accordo per portare i turisti al museo di Reggio Calabria. E la vicenda, ben raccontata da Antonietta Catanese sul Quotidiano della Calabria , prende una piega imprevedibile nel vortice della burocrazia. I lavori sono fermi e la palla, per la decisione sul merito della questione, rimbalza di nuovo al Tar. Che ha fissato l’udienza per il mese di luglio, cioè ben oltre il termine stabilito per la riapertura completa. Se il tribunale confermerà il risultato della gara, allora i lavori potranno riprendere, ma non termineranno prima di cinque mesi: tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015. Nella migliore delle ipotesi, ovviamente. E sempre che la decisione del Tar non venga seguita da un ulteriore ricorso al Consiglio di Stato. In quel caso, è tutto da vedere. Se invece il Tribunale amministrativo darà ragione a chi ha promosso la causa, si dovrà rifare la gara.
Nel frattempo non resta che consolarsi con Giuseppe Verdi. Sabato 15 marzo il museo archeologico della Magna Grecia ospita una mostra dedicata al grande compositore, di cui l’anno scorso ricorreva il bicentenario della nascita, che ha già fatto tappa a Roma. Titolo: «Giuseppe Verdi. Musica, cultura e identità nazionale». Di spazio, si può starne certi, ce n’è in abbondanza.

l’Unità 8.3.14
L’Europa parla di sanzioni ma vende armi a Mosca
Mentre a Bruxelles si discutono le sanzioni Parigi conferma contratti da un miliardo di euro per due navi da guerra
In ballo anche accordi di Italia e Germania
di Umberto De Giovannangeli


Da un lato fanno a gara a chi usa le parole più forti e indignate per denunciare l’«aggressione russa » all’Ucraina. Dall’altro lato, però, non smettono di fare affari con l’aggressore moscovita. Affari miliardari. Affari di armi. Una «doppiezza» che investe diverse cancellerie europee. Partendo da Parigi. L’altro ieri a Bruxelles è andato in scena il vertice straordinario sull’Ucraina dei capi di Stato e di governo dell’Unione europea. Ore di discussioni, un documento finale molto duro nei confronti di Mosca, minaccia di sanzioni. Ebbene nello stesso giorno, e nella stessa sede, il presidente francese, Francois Hollande, ha confermato senza alcun imbarazzo che il contratto da 1 miliardo di euro, firmato nel 2011,perlavendita di due modernissime navi da guerra della «classe Mistral» (portaelicotteri d’assalto anfibio)è ancora valido e sarà onorato.
AFFARI MILIARDARI. «Noi rispettiamo i nostri contratti. Non siamo ancora a quel punto (di rompere il contratto) e speriamo di evitare di arrivarci » ha spiegato ai giornalisti a Bruxelles l’inquilino dell’Eliseo. La Mistral, con un ponte di volo di199metrie16.500 tonnellate di dislocamento) può trasportare fino a 16 elicotteri, 4 mezzi da sbarco e 13 carri armati e centinaia di soldati e rappresenta per Mosca un’importante occasione per ammodernare la flotta piuttosto invecchiata, con unità progettate proprio per coordinare ed effettuare operazioni di sbarco. La prima nave da guerra, battezzata Vladivostok, è stata varata lo scorso anno e sarà consegnata alla marina russa a ottobre. La seconda è ancora in costruzione. fare buoni affari con Mosca è un continuum della Francia, indipendentemente dal colore politico del Presidente. La firma degli accordi di vendita delle due navi risale al 2010, quando all’Eliseo risiedeva Nikolas Sarkozy.
Lette con il senno dell’oggi, le seguenti considerazioni suonano sinistramente profetiche. Una tale operazione di compravendita potrebbe ribaltare anche le relazioni del Cremlino con i Paesi vicini. E infatti, come spiegava allora il Kaarel Kaas, un think tank internazionale con sede a Tallinn, «se una nave del genere dovesse entrare in possesso di Mosca, i rapporti di forza tra questa e l’est Europa potrebbero modificarsi». Di più. L’accordo franco-russo – annotava The Economist – porterebbe a due conseguenze piuttosto “ovvie” su altri Paesi: su quelli del Baltico, la Lettonia, la Lituania e l’Estonia, i membri più vulnerabili della Nato e, dall’altra parte, su quelli affacciati sul Mar Nero. Si pensi agli scontri per la Crimea in Ucraina. Lì, per esempio, il possesso russo della Mistral potrebbe contare a favore di Mosca. Tant’è vero che, non per fare dell’ironia, basta leggere le parole di Admiral Vladimir, il capo della marina russa, per rendersi conto: «Con una barca così la guerra di Georgia del 2008 sarebbe stata una battaglia vinta in 40 minuti invece che in 26 ore». Secondo il rapporto 2013 dello Stockholm international peace reasearch institute (Sipri), con 90 miliardi di dollari perla spesa militare, la Federazione Russa sale al terzo posto nella classifica mondiale. Un mercato appetibile, che fa gola non solo ai francesi, ma ai tedeschi, ai britannici...
NON SOLO FRANCIA. Veniamo a noi. Nell’agosto 2013 Russia e Italia produrranno assieme gli aerei anfibi Beriev Be-103 e Beriev Be-112. La notizia venne diffusa dall’agenzia Interfax citando fonti di Dellax, la compagnia pubblica russa che si occupa di import/export di attrezzature e tecnologie militari e duali Rosoboronexport. Un portavoce della compagnia russa ha annunciato la firma di cinque contratti per la produzione di velivoli con i partner italiani nell’ambito del salone internazionale dell’aerospaziale Maks 2013 svoltosi all’aeroporto moscovita di Zhukovsky. «Uno degli accordi apre la strada alla costituzione di una jointventure per l’aggiornamento dell’aereo anfibio Be-103, che è usato dalle forze speciali» ha spiegato il portavoce. La joint venture includerà Rosoboronexport e le italiane Selex (Finmeccanica) e Oma Sud, una società di Capua. Un altro contratto riguarda invece un accordo quadro per «la produzione congiunta dell’aereo anfibioleggeroBe-112,cheèusato nel pattugliamento marittimo, umanitario e in altre missioni».
Di questa joint venture faranno parte la compagnia russa e la Oma Sud. Altri due accordi sono parte dei progetti per i Centri integrati diagnostici. «Hanno lo scopo di garantire operazioni corrette sugli aereiBe-200eAn-140-100equipaggiati con sistemi radioelettronici prodotti da Selex ES (Finmeccanica) che saranno esportati in Paesi terzi”, ha spiegato il portavoce. «Un terzo accordo firmato dalle parti riguarda l’esportazione di sistemi a terra per l’elaborazione dati di volo Topaz- M».
Basta e avanza per far nostro l’appello lanciato da Giorgio Beretta, analista di Unimondo, alla neo ministra della Difesa Roberta Pinotti: «Come saprà ad agosto è previsto nei pressi di Mosca un evento alquanto singolare: si tratta di una sorta di olimpiadi dei carri armati, nota come “TankBiathlon” alla quale sarebbero stati invitati per la prima volta anche paesi della Nato quali Stati Uniti, Germania e Italia. Non so quale sia stata la risposta all’invito da parte del suo predecessore. Macredo che non sia certo auspicabile in questo momento indugiare in giochi tra carri armati. Quello che sta avvenendo in Ucraina e i carri armati russi in Crimea non lasciano presagire niente di buono... »

Repubblica 8.3.14
Così nel labirinto ucraino muoiono le illusioni dell’Occidente e di Putin
di Frederick Forsyth


NON c’è nulla di più folle nella realpolitik che promettere solennemente qualcosa di irrealizzabile. È così che iniziano le guerre mondiali. Nel 1939 Gran Bretagna e Francia promisero alla Polonia che se Adolf Hitler fosse diventato scomodo saremmo corsi in aiuto di Varsavia. Il primo settembre Hitler divenne molto scomodo.
PURTROPPO tra il confine francese e quello polacco si frapponeva un grande ostacolo, chiamato Germania. La nostra promessa ai polacchi era del tutto vana. Così, secondo una logica disastrosa, dichiarammo invece guerra alla Germania. Le analogie con l’attuale situazione ucraina non mancano.
I media in parte gridano che dovremmo garantire l’assoluta sovranità ucraina. Chi esattamente dovrebbe farla rispettare? La fanteria leggera di Dortmund? È un po’ lontanuccia. La fanteria non è esattamente pronta e l’esercito russo circonda l’Ucraina su tre lati. La Bielorussia, a nord, è nuovamente un vassallo di Mosca e la marina russa controlla il sud marittimo. A meno di passare per la Romania, l’Ucraina è irraggiungibile.
Quindi diamoci una calmata e ragioniamo su cosa è accaduto, perché, come e su cosa si può fare.
Innanzitutto togliamoci l’illusione che dopo Gorbaciov l’orso russo abbia mai cambiato carattere. Non è così. Da mille anni a questa parte la Russia non ha mai liberato nessuno, solo conquistato e occupato. E sta accadendo di nuovo la stessa cosa. L’uomo al potere non è un “nuovo” russo, ma un classico russo del passato, addestrato come un duro del Kgb e totalmente preda della tradizionale paranoia russa secondo cui «noi siamo circondati da nemici e dobbiamo attaccare per primi per proteggerci».
Il fatto che la Russia si estenda dal confine polacco a Vladivostok e che sia un po’ difficile per la Baronessa Ashton circondarla è fuori discussione. Ma la paranoia prescinde dalla logica.
È chiaro da anni che Vladimir Putin è un tipo strano. Un uomo di mezza età che continua a farsi fotografare in pose omoerotiche, a cavallo a torso nudo in Siberia, con i pettorali in contrazione mentre imbraccia un fucile d’assalto, ha qualche problema. Di solito può servire l’aiuto di un gentile professore con la targa “psichiatra” sulla porta. Ma i diplomatici devono lavorare sul materiale disponibile e quello che hanno sottomano è Vladimir Putin.
Quanto alla provocazione architettata dall’Occidente, echeggia a sua volta logiche da fine anni Trenta. In Occidente sappiamo che non c’era alcun bisogno che i nostri agenti provocatori fomentassero la rivolta del popolo dell’Ucraina occidentale contro un leader stupido e incompetente come Yanukovich e la corruzione delle istituzioni. Non serve insegnare a nuotare alle papere.
Poi c’è da considerare la complessità della terra ucraina. Non è affatto un paese unito sotto il profilo politico, etnico o culturale. In genere a litigare sono due parti che non vanno d’accordo. In Ucraina sono quattro. La zona occidentale parla ucraino ma ha sempre guardato ad ovest in cerca di una cultura, un modello, e un futuro auspicato. La zona orientale parla a sua volta ucraino, ma ha sempre guardato a nord, alla Madre Russia e settant’anni di unificazione sotto l’Urss non hanno indebolito questa attrazione magnetica. Ma non basta.
Gli abitanti di cinque province, pur di etnia ucraina e perfettamente in grado di parlare l’ucraino, hanno scelto il russo come lingua ufficiale regionale. E poi ci sono i russi puri, i residui di tre generazioni di insediamenti da Stalin a Gorbaciov. Così anche se gli insurrezionalisti dell’Ucraina occidentale reclamano la democrazia, quella fantasia fuggevole così facile da dire ma così difficile da trovare, non è affatto detto che siano in realtà una maggioranza democratica.
In certe occasioni bisogna andar cauti con le richieste.
Però per Putin la caduta di Yanukovich, suo candidato e protetto, è stata un’umiliazione intollerabile e impossibile da accettare come spontanea. Putin non ammette che qualcuno possa non essere d’accordo con lui. Quindi la causa di tutto sono stati i babau occidentali, in particolare angloamericani. La vendetta è per Putin e per la Russia del tutto giustificabile. Non possiamo fare altro che accettarlo. Le guerre non nascono dalla calma e dalla logica. Partono da ego urlanti, orgoglio ferito e rabbia smodata, e qui c’è tutto.
Così Putin ha scelto la Crimea, molto più vulnerabile, per sfogarsi. La popolazione è composta da una minoranza di ucraini dell’Ovest, una maggioranza di ucraini dell’Est e di russi puri. È inoltre indifendibile e noi saremmo pazzi a tentare di farlo. Ovviamente andavano inventate le debite “provocazioni” e così è stato.
Pensiamo al 1938, ai Sudeti. All’epoca l’enorme macchina della propaganda di Berlino ci subissò di “rivelazioni” sugli orrori inflitti dai terribili cechi ai poveri tedeschi dei Sudeti. Erano tutte balle e i criminali di Henlein fecero la loro parte, ma offrirono giustificazione all’invasione allo scopo di “liberare” e “proteggere”. Oggi i nostri schermi traboccano di russi di Crimea grati fino alle lacrime per essere “difesi” dai loro orribili vicini che non li hanno mai sfiorati. È la vendetta di Mosca per Kiev.
Che si può fare allora? Per la Crimea? Proprio nulla. Per un’occupazione nel giubilo popolare a sostegno dell’Ucraina orientale? Di nuovo nulla. Per una invasione nuda e cruda dell’Ucraina occidentale e la carneficina della popolazione che tenta di reagire come i finlandesi nella guerra d’inverno? Sotto il profilo militare molto poco, a meno di non voler scatenare la terza guerra mondiale con un pazzo. Ma allora si parla di olocausto nucleare.
Vuol dire che Putin ha tutte le carte in mano? Neanche per sogno. Anche se apparentemente non deve confrontarsi con un’opposizione politica seria, i ministri che lo affiancano non sono pazzi e riconoscono la rovina nel momento in cui si profila. Ci sono due tasti che molti dell’entourage di Putin considererebbero disastrosi se noi dell’Occidente decidessimo di premerli. Ma non possiamo farlo nei prossimi dieci minuti né nelle prossime dieci settimane. Quindi si direbbe proprio che Putin in Ucraina possa farla franca... per un po’.
Il primo tasto è quello del commercio/economia. L’economia russa è paragonata a quella dell’Europa intera, o degli Usa, o di entrambe. Nessuno compra i manufatti russi. Automobili? Aerei? Le armi persino? Devono regalarli. Ma a Putin servono grandi somme da spendere nel tentativo di ricostruire la vecchia Urss, l’impero sovietico. Da dove le prende? Dal petrolio e dal gas. Entrambi sono fonte di oceani di denaro e, alla bisogna, servono come leva di pressione e minaccia. La Germania è stata sempre folle ad abolire le sue fonti di energia nucleare pulita e sicura sostituendole con la schiavitù delle forniture di petrolio e gas da parte di Mosca. Ma non è ancora troppo tardi.
L’Occidente ha la prospettiva di nuove fonti energetiche. Con dinamismo, motivazione, forza di volontà, e abbandonando stupidi atteggiamenti da beatnik potremmo affrancarci dalla minaccia degli oleodotti e gasdotti dell’Est. La rivoluzione del gas di scisto in America ha prodotto spettacolari successi, liberando gli americani. Gli europei sono ancora schiavi dei fornitori.
Un’altra rivoluzione forse è sfuggita a Vladimir Putin. La tecnologia della consapevolezza. Ai tempi della sua gioventù Mosca riusciva ancora a isolare completamente la popolazione russa dalle informazioni provenienti dall’estero. Poteva costringere i russi ad ascoltare solo Radio Mosca, a leggere solo la Pravda, a guardare solo la tv sovietica. Poteva far loro il lavaggio del cervello, così che credessero e si fidassero solo dei loro leader e di quello che gli veniva detto. Ormai qualunque bambino con un i-phone ha in mano il mondo. Chi ha realmente fatto cadere Mubarak in Egitto, smascherato Gheddafi in Libia, condannato Assad a Damasco? La gente. Ma perché? Perché aveva visto un mondo migliore. Sapeva chi aveva colpa della sua misera situazione.
Se in Russia i prezzi salgono, il rublo diventa cartaccia, e i rifornimenti scemano, i russi dovranno solo guardarsi il palmo delle mani per capire il perché - il vero motivo. A quel punto i burattinai i del Cremlino potrebbero decidere che il tempo delle invasioni imperiali è finito ed è ora che il loro uomo se ne vada via a cavallo, a torso nudo, verso il tramonto. Ma per il momento in Ucraina e in Crimea non c’è nulla che noi, l’Occidente, possiamo fare se non stare uniti, pianificare ed attendere. Verrà il nostro momento. Per favore però, smettiamola di illuderci.
(Traduzione di Emilia Benghi)

La Stampa 8.3.14
Sul treno che punta verso Kharkiv svanisce il sogno della Nazione libera
Carrozze sovietiche, vecchie che vendono pesce e un dubbio: che c’entriamo noi con Kiev?
di Domenico Quirico


Un viaggio in treno in Ucraina nei giorni non può non cominciare molto prima che si chiudano gli sportelli del vagone. È una preistoria di ansie, di angosce; muri di rischi e di divieti e di rimpianti si alzano tra il partente e la sua strada, deve sciogliere innumerevoli nodi. Allora, se scoppia la guerra è meglio essere in Crimea o alle frontiera con la Russia? E Kharkiv, la mia meta, la grande città industriale, terra di kombinat e di miniere? È un buon luogo, Kharkiv, per aspettare i carri russi se mai arriveranno? O sfuggirvi... I prorussi hanno alzato la bandiera sul palazzo del governo, il governatore ormai insulta ogni giorno «Kiev e i suoi fascisti». Gli amici che mi attendono sono attivisti pro Maidan: verremo a prenderti alla stazione… mi hanno promesso. Non sono sicuro che ci saranno. Ho visto le immagini di sabato scorso, quando furono cacciati dal palazzo. Li hanno tirati fuori nella piazza, uno a uno, ragazzi con il volto insanguinato pesti gli occhi smarriti di chi scopre quanto possa esser profondo l’odio degli uomini. Gli attivisti russofoni li hanno fatti inginocchiare mentre forsennati colpivano con pugni calci spranghe bastoni, li sommergevano di sputi e li hanno fatti strisciare fino a un recinto per chiuderli come bestie. 
Alla stazione di Simferopoli è ancora una volta Lenin che ti dà l’ultimo saluto. So che un altro mi attende già a Kharkiv. Questa è davvero una araldica disumana. Imperativo paterno riflessivo clamante torvo indagante svagato seduto appoggiato in marcia in giacca in palandrana: le statue del padre del socialismo reale sono la prima linea della guerra d’Ucraina. Si lotta per abbatterle o difenderle, impossibile sfuggirgli. Lapidi di una gloria non fittizia: costui non è un simbolo, è un sintomo. 
Lenin della stazione di Simferopoli, seduto in modo un poco languido, abbraccia chi arriva come un monito e segue con gli occhi chi parte, modesto rispetto ai giganti di altre città ucraine; ma incombente, vagamente ansiogeno. La stazione è bianca, di un candore cigneo, un po’ tatara e orientaleggiante, con una alta torre d’orologio che la vigila; la bandiera ucraina sventola gagliarda accanto a quella della Crimea, forse l’ultima, nella penisola, non ancora ammainata.
Poi le valigie. Come non parlare degli ucraini e delle loro umiliate valigie? Una amica quando ha saputo che affrontavo le dieci ore di treno per Kharkiv mi ha detto: il treno è una parte essenziale della nostra vita. Una volta, nell’Urss viaggiavamo tutti in aero, il territorio era immenso e i biglietti costavano pochi rubli. Poi... tutto è finito: biglietti troppo cari, pochi aerei per i voli interni e vecchi. All’Ucraina sono toccate le briciole. Ci restava il treno».
Sotto la pensilina la gente trascina borse sporte valigie sacchi: queste borse immense, azzurrine, le ho già viste, a Mosca, Anni Novanta quando per sopravvivere si faceva il piccolo cabotaggio commerciale con i paesi vicini. Strane identità nella miseria: tra l’aggressore, potente oggi, e l’aggredito, debole sempre. Gli altoparlanti della stazione lanciano in aria marce militari: un segno di guerra?
Il treno è blu, liso come un oggetto usato troppe volte, nello scompartimento, classe «lusso» ma di una povertà raccolta, ci sono un piccolo tappeto e un televisore. Curiosa presenza: accendo. È collegato solo a una telecamera che inquadra il corridoio. Chissà! Sedili antichi e un po’ sconnessi, il giallino degli studi dentistici degli Anni Cinquanta. Nelle toilette dignitosamente cimiteriali gli oggetti sono spessi e pesanti come le corazze dei carri armati. Ah! il treno: sciolgo i ricordi della mia infanzia, gli «accelerati» che collegavano le piccole stazioni di campagna. Ripenso alla immagine appesa nell’ufficio dove ho comperato il biglietto: un fantascientifico treno bianco, un missile ad alta velocità che abbordava curve paraboliche. Ingenuamente avevo chiesto: è questo il treno che mi porterà a Karkhiv? Lo sguardo della impiegata ha percorso infinite distanze, storiche ed economiche: «… è in progetto…». Poi silenzio. 
Alle undici in punto, dal quarto binario, uscendo dalla oscurità stipata dai cimiteri di vagoni merci vuoti, con un rimbombo, alitando una rossa calura dalla ciminiera, la locomotiva, verde come un rospo, prende una modesta velocità. Lanciando terribili urli e cigolii, tra strepiti e rimbombi, attraverso scambi scattanti, si innesta sulla linea principale. 
L’addetta al vagone, biondissima, partecipa alla generale crisi del tessile che sembra aver colpito le giovinette di quaggiù. Non ha l’aria amabile, qui nessuno nei negozi, negli alberghi sorride, antichi riflessi dell’Urss dove il cliente, il cittadino, non aveva mai ragione. Dopo appena cinque minuti nel corridoio inizia una sfilata mercantile: una anziana signora mi propone un gigantesco pesce affumicato, lo porta a fatica appeso a un filo come se fosse appena salita dal molo, così squartato, brunito, ha un sofferente aspetto di reperto di gabinetto chimico, di fossile preistorico. Insiste: è buono, dai, costa poco. Poi è la volta di un venditore di giornali e riviste, avvolte in appannate custodie di plastica come se fossero reliquie, guardo le date, i colori sbiaditi, i vestiti nelle foto. Sono vecchie di almeno venti anni… La radio del vagone emette il litaniare di un rapper russo. 
Il treno avanza a settanta, ottanta all’ora, saltellando. Sembra di sentire gobbe sui binari. Sfila ancora la steppa della Crimea, bigia, con lembi di verde furibondo, sotto un cielo di nuvole bioccose: «Nella steppa erano i cavalli che governavano gli uomini, nel mare non puoi correre libero, se metti un piede fuori dalla tua bara di legno sei morto. La steppa è tua, è libera…». 
Passiamo lo stretto su un acqua fulva che ha lo stesso colore della steppa, ora la Crimea, russificata a potenti pennellate, è dietro di noi. Ecco: siamo nella Ucraina dell’Est dove i prorussi contendono le città a Maidan, cacciano i rivoluzionari, chiedono aiuto a Mosca, alzano bandiere straniere. Qui la rivoluzione è ancora in corso; forse già sconfitta. Vi sono luoghi che appartengono alla pura geografia o agli orari dei treni, ma altri sono densi di una violenza simbolica, sono riti della terra, di esorcismo dei venti e delle nubi, sacri addobbi di nude brughiere. Sotto questa terra grassa son sepolte generazione di soldati invasori ribelli profeti aristocratici bolscevichi kulachi. Uccisi dalla guerra e dalle carestie. 
I suoi occhi sono meravigliosi, tristi languidi velati di azzurro: «Vado a Donetkz, torno a casa di corsa. Sì, ho paura che venga la guerra. Siamo poveri, mi spieghi tu che sai molte cose perché succede tutto questo?». Ma come faccio a spiegarti Olga, quello che sbuca dai grigi bollettini ogni giorno: la Russia che torna padrona e il mondo che borbotta, sbuffa promette e resta neutrale?
Si spande nel vagone un odore di cibo, di sudore di profumi di basso prezzo. Escono dalle sporte le zuppe i cetrioli, le barbabietole il pesce preparato a casa. Il rapper ha lasciato il posto al meraviglioso «Hric» ucraino.
Questo treno è un mondo solido e solitario, non già desolato ma intimamente taciturno, retto da regole in parte occulte. Molte porte di scompartimenti restano chiuse. Quelli più poveri, invece, con le cuccette a castello, no: la gente parla ad alta voce ride, si chiamano, discutono di cavoli, di pesci affumicati. E dei russi che molti dicono verranno a metter a posto gli sconquassi di quelli dell’Ovest, della rivoluzione. Spesso sento una parola, «giustizia»: una parola molto dura, a volte gelida come il metallo nel ghiaccio, ma qui mi sembra calda, dolce, mia. 
Sfilano ampie distese d’acqua ancora gelata, l’acqua raccoglie e spegne i suoni e i rumori. Alle rive si aggrappano villaggi di case lillipuziane sciupate dall’inverno e dalla povertà. Vecchi, immobili, scrutano il treno passare. Una ragazzina tiene a bada delle oche. Aspetta di attraversare i binari con il suo gregge. Ha minuscole trecce tenute insieme da un nastrino con i colori dell’ucraina. Mi guarda: io sorrido e vedo che subito mi risponde con il sorriso timido. Il verde è di un colore cupo che pare proporsi come il sangue della terra.
«Guarda questi villaggi, da primavera all’autunno lavorano a tutto spiano, da mattina a sera, dal vecchio al bambino, bruciandosi di sole e di sudore. E dall’autunno alla primavera pure lavorano bruciandosi di fumo con le casupole, affumicate gelando. Vivono attaccati con la foresta, con il campo, con il cielo. Per capire l’Ucraina dovresti ricordare le loro notti e le aurore e i presagi, stare con loro in ascolto del fruscio della terra».
Forse la Russia li invaderà o li trasformerà in una versione aggiornata della vecchia Finlandia, alleato obbligatorio della Unione Sovietica, giudiziosamente obbediente. Forse. Ma molti di costoro, dopo Maidan, nonostante le storture e gli errori, hanno capito il diritto di percorrere in solitudine la propria strada e di rischiare la salvezza nel modo che gli appartiene. 
Scendo a una stazioncina dove il treno fa sosta: ragazze silenziose dalle sopracciglia bianchicce passeggiano con i loro cavalieri. Attendono. Al buffet sui cetrioli giacciono delle aringhe. Una piccola folla, attenta come a una messa, segue le notizie in televisione. Contadine offrono mele lucidissime ai viaggiatori. Cani randagi risalgono i binari a branchi, indifferenti. Lontano un irto pelame di foreste dai rami nudi, scheletrici. 
Quest’uomo raccoglie la sua sporta piena di giocattoli comprati in Turchia. Ricorda tutto e i suoi ricordi non lo hanno schiacciato: «Quelli dell’Ovest dicono che siamo dei rozzi, degli ignoranti scava terra. Sì, cari signori, estraiamo il carbone in miniere marce, che crollano, lasciamo i polmoni grattando la terra, moriamo nelle fabbriche vecchie di 50 anni. E voi che fate all’Ovest? Lavorate, vi ingegnate? No, non fanno nulla, vanno a berciare preghiere in chiesa, leggono, fanno la rivoluzione e viaggiano in Occidente…».
Una donna grida su una delle piattaforme, le hanno rubato qualcosa. Ciminiere di fabbriche, terreni abbandonati coperti di una erba secca e calpestata cosparsa di pile di rifiuti. Case di legno annerite dal fumo, il bagliore sanguigno di una acciaieria, là in fondo all’orizzonte: Kharkiv. Le ventuno, in perfetto orario. Sono arrivato.

il Fatto 8.3.14
Il vizio dell’Occidente: dimenticare le bombe
di Massimo Fini


PAOLO GUZZANTI in un articolo titolato “Il vizietto russo del carro armato” (Il Giornale, 2 marzo), che inizia così: “Da quando ho memoria i russi per loro natura invadono”, ci ricorda ciò che tutti noi, se si ha una certa età, ricordiamo: i carri armati russi contro gli operai a Berlino Est (1953), la sanguinosa repressione della rivoluzione ungherese del 1956, bollata dai comunisti italiani come una “rivolta di elementi nazifascisti” (così la liquidò anche il mio professore di Storia al Berchet, Daziano, suscitando un tumulto fra noi ginnasiali), la timida “primavera di Praga” del 1968 soffocata anch’essa dai blindati sovietici.  
Il caso dell’Ucraina è però un po' diverso. Non c’è stata perlomeno la ripugnante ipocrisia della “chiamata in aiuto di un Paese fratello”, il presidente ucraino Yanukovich, filorusso, che aveva regolarmente vinto le elezioni del 2010 col 51,8% era stato rovesciato da un golpe, sia pur popolare, la Crimea, a differenza dell’Ungheria e della vecchia Cecoslovacchia, confina con la Russia e, per ragioni storiche, è abitata nella stragrande maggioranza da russi o da russofoni. Ma la questione non è nemmeno questa. Guzzanti è l’espressione di quello che ho chiamato “il vizio oscuro dell'Occidente” che vede le nefandezze altrui, anche molto remote, e dimentica disinvoltamente le proprie, assai più recenti.  
Se i russi hanno “il vizietto dei carri armati”, gli americani , e i loro alleati, hanno quello dei cacciabombardieri, che sono anche un po’ peggio perché ai carri armati la popolazione può fare in qualche modo opposizione, agli aerei, che sganciano bombe da migliaia di metri di altezza, no. Ma lasciamo perdere il frillo Guzzanti.  
Il segretario di Stato americano John Kerry ha affermato: “I russi invadono un altro Paese sulla base di pretesti fabbricati ad arte” e ha lamentato, come gli alleati europei, “la violazione del territorio di uno Stato sovrano”. Ebbene che cos’è stato nel 1999, quando l’11 settembre era ancora di là da venire, il bombardamento per 72 giorni di una grande capitale europea, Belgrado, se non la violazione dell’integrità di uno Stato sovrano, la Serbia, che aveva i suoi problemi interni come oggi ha l’Ucraina, con la differenza che in quell’occasione ci furono 5.500 morti? Che cos'è l’invasione dell’Afghanistan (2001) e la sua occupazione mantenuta prevalentemente con l'uso dell'aviazione e con gli aerei-robot, i Dardo senza pilota ed equipaggio, ma armati di missili, in una guerra che dura da 13 anni ed è la più lunga dai tempi di quella dei Trent'anni (più di 100 mila morti civili)?  
CHE COS’È l’aggressione all'Iraq nel 2003 se non l'invasione “di un Paese sulla base di pretesti fabbricati ad arte”, nel caso le “armi di distruzione di massa” che Saddam non aveva più perché, dopo che Stati Uniti, Francia e Urss, gliele avevano fornite, il rais di Baghdad le aveva usate sui curdi e i soldati iraniani (160 mila morti nella guerra all’Iraq)? Che cos'è l'aggressione alla Somalia (2006/2007), via Etiopia (Paese di specchiata rispettabilità democratica), perché le Corti Islamiche avevano avuto il torto di sconfiggere “i signori della guerra ” locali e di aver riportato un po' di ordine e di unità in quel Paese? Che cos’è l’aggressione alla Libia (2011) per togliere di mezzo un dittatore , che qualche seguito nel suo popolo ce l’aveva, e mettere al suo posto non si sa bene chi?
A Paolo Guzzanti suona “terribile il cingolo dei carri armati”. A me il rombo dei bombardieri.

La Stampa 8.3.14
“Io, guardia nei gulag di Kim vi racconto l’inferno coreano”
Esecuzioni, torture, esperimenti: tutto come nei campi nazisti
Ahn Myeong Chul ha raccontato la sua esperienza al summit di Ginevra organizzato dallo Un Human Rights Council
di Francesco Semprini

qui

Corriere 8.3.14
Violenze su medici e infermieri in Cina
La Corruzione mina anche la Fiducia
di Guido Santevecchi


Trentamila medici cinesi in una settimana hanno firmato una petizione online per il ristabilimento di una «relazione armoniosa» tra ospedali e pazienti. Dietro questa formula apparentemente ingenua c’è un male oscuro al centro del sistema sanitario della Repubblica popolare: i pazienti aggrediscono e uccidono i loro medici e i loro infermieri. Gli ultimi due casi atroci questa settimana. A Nanchino un’infermiera ventenne è rimasta paralizzata dopo essere stata picchiata e scaraventata dalle scale dai genitori di una ragazza ricoverata. La colpa dell’infermiera: aveva piazzato un altro malato, appena uscito dalla sala operatoria, nella corsia femminile, dove c’era l’unico letto libero del reparto. I genitori avevano protestato, valendosi del loro status sociale: curatrice del museo delle Scienze la madre; capo ufficio alla Procura il padre. Non ottenendo soddisfazione sono andati in reparto e hanno massacrato l’infermiera. Nella provincia del Guangdong un centinaio di amici e parenti di un giovane morto al pronto soccorso hanno preso d’assalto l’ospedale, preso in ostaggio un medico di guardia e poi lo hanno trascinato per le strade.
Non sono episodi isolati di follia: nei primi otto mesi del 2013 sono state registrate 2.240 aggressioni al personale sanitario, in media 27 casi di violenza per ogni grande ospedale della Cina. Il fenomeno è tanto grave che il ministero ha deciso di inviare rinforzi di polizia. A Shanghai sono stati istituiti corsi di difesa personale: ai medici viene insegnato come usare sedie o anche le mani per schivare le percosse. La professione medica è in piena crisi in Cina, personale sottopagato, ospedali sovraffollati. E molta corruzione: si pagano tangenti per essere visitati e curati. La gente non si fida: un sondaggio su 250 mila persone ha rilevato che il 67% della gente non crede ai dottori, alle loro diagnosi, alle terapie. E il 78% dei medici censiti dall’Associazione nazionale di categoria ha risposto di non volere assolutamente che i loro figli seguano la loro professione. Ecco spiegato l’appello perché si ricostituisca un «sistema armonioso».

il Fatto 8.3.14
L’indifferenza per la cultura, ecco la fonte perenne della crisi
di Antonio Polichetti


I rapporti della Corte dei conti degli ultimi anni attestano alla voce “corruzione” un costo per la collettività equivalente a 60 miliardi di euro all’anno. Il costo più alto sta nella sottrazione di servizi, nella diminuzione metodica del welfare state, nella crescente impossibilità di offrire prospettive e investimenti per le future generazioni. (…) Si può osservare in tutta evidenza che, mentre i centri di ricerca di base e gli istituti di cultura sono privi di risorse, il “blocco sociale” denunciato da Pasquale Saraceno (un coacervo di forze formato da imprenditoria corrotta, politica e pubblica amministrazione deviata in favore di interessi criminali, intellettuali o professionisti che mettono al servizio di tali interessi le proprie competenze e le stesse organizzazioni criminali) domina incontrastato nella sua capacità di drenare a proprio piacimento i flussi di denaro pubblico che servirebbero ai servizi più essenziali e allo sviluppo del Paese. (…) Il campanello d’allarme dovrebbe suonare per tutti noi proprio osservando la raggelante indifferenza delle classi di governo verso l’istruzione, verso le risorse intellettuali soprattutto giovani presenti nel Paese, verso la cura necessaria che dovrebbe essere dedicata alla formazione del cittadino. (…) Non è casuale l’opposizione tra cultura e “blocco sociale” perché proprio Pasquale Saraceno intravedeva nella cultura, intesa come formazione degli uomini e di un ceto medio colto e civilmente forte, non soltanto preparato tecnicamente alle professioni, l’unica via per sconfiggere il “blocco sociale” senza accettare connivenze e compromessi come, invece, troppo spesso avviene in ambito economico e professionale, politico e dirigenziale in tutto il Paese. (…) Tale elemento patologico della vita pubblica trasforma questioni di interesse generale in questioni di profitto, interessi e potere. (…)
La crisi economica è soprattutto una crisi morale e non c’è speranza di venirne concettualmente a capo se non la si colloca nel posto giusto. (…) I potentati che controllano e dominano gli Stati temono la cultura e il pensiero critico. (...) Un popolo capace di guardare razionalmente al presente è un popolo dotato di cultura e senso storico ed in grado di tenere gli occhi aperti su ciò che accade per capirne la logica e cambiarla. (...) Senza la formazione del cittadino, ma con la sola istruzione professionale e specialistica, quest’obiettivo non è realisticamente raggiungibile. Senza la formazione dell’uomo e del cittadino, resa pienamente accessibile a tutti, non vi è la possibilità di esprimere, se non in forma spiritualmente impoverita, capacità politica diffusa in tutte le pieghe della società, facoltà più necessaria e allo stesso tempo manchevole nel nostro tempo. Né sarà possibile far concorrere i migliori talenti allo sviluppo della nostra società e secondo interessi e valori etici comuni. La disuguaglianza nello sviluppo delle facoltà umane e dei talenti e della capacità politica di ognuno, ancor più grave della disuguaglianza materiale da cui pur in parte dipende, risale a una scarsa attenzione dei governi alle politiche della formazione. Non solo istruzione, ma formazione, costruzione della personalità umana in tutti i suoi aspetti: costruzione che afferisce anche all’educazione politica in senso proprio. La diseducazione politica che riscontriamo diffusa e radicata ogni giorno è alla base di tutti i nostri mali.

Repubblica 8.3.14
La strana cecità degli economisti
Il saggio di Leon sulle storture “inconsce” del capitalismo
di Guido Carandini


Immaginate qualcosa che assomiglia alla psicanalisi ed è infatti una indagine sulle inconsce motivazioni e sugli inconsapevoli effetti delle azioni individuali nell’ambito dell’economia. Quella indagine viene condotta da un economista decisamente critico delle analisi “standard” della «microeconomia» insegnata nelle accademie, principalmente perché tali analisi sono fondate sulla opposta e ritenuta errata ipotesi che nei loro comportamenti gli individui sono consapevoli delle conseguenze che producono sulla economia nel suo complesso chiamata «macroeconomia », e che quindi può spiegarne gli esiti la semplice somma degli intendimenti e delle azioni individuali. Questo afferma dunque la teoria microeconomica che studia l’insieme di quelle azioni e che pertanto costituirebbe il fondamento della macroeconomia come in effetti generalmente si ritiene.
L’economista qui descritto nelle vesti di virtuale psicanalista è Paolo Leon che esprime quella sua critica nel suo libro appena pubblicato Il capitalismo e lo Stato, denso di sapienza accumulata in lunghi anni di studi, di frequentazione di grandi istituzioni internazionali e infine di insegnamento. La tesi principale di quel libro è «la “cecità” dei capitalisti, vale a dire l’impossibilità, connaturata alla loro essenza, che essi si rendano consapevoli degli effetti delle loro azioni sull’economia nel suo complesso». Di conseguenza per comprendere le trasformazioni del capitalismo, come il miope ha bisogno degli occhiali, così i capitalisti hanno bisogno dello Stato, il solo che può essere capace di rendersi conto della loro presenza e dei loro effetti. Questo è un vero e proprio rovesciamento di uno dei presupposti della teoria standard poiché, al contrario di essa, conferisce alla macroeconomia, in quanto interprete dell’economia nel suo complesso, un ruolo fondamentale nella comprensione delle trasformazioni del capitalismo.
Ma Leon sostiene che quel rovesciamento non è il frutto di analisi recenti poiché invece si può legittimamente far risalire addirittura al capostipite della scienza economica, dunque ad Adam Smith che nel 1776, e perciò nel bel mezzo della prima Rivoluzione industriale inglese, già se ne faceva interprete. Nella sua opera La ricchezza delle nazioni sosteneva infatti la ben nota opinione che l’individuo «perseguendo il proprio interesse spesso persegue quello della società» ma aggiungeva dell’altro che, osserva Leon, è sfuggito a molti. E che cioè quell’individuo «generalmente… né intende promuovere l’interesse pubblico né sa di quanto lo stia promuovendo». Dunque questo cosiddetto “velo dell’ignoranza” che caratterizza i singoli capitalisti aveva già per Smith un duplice significato perché da un lato costituisce la prima presa d’atto della loro indifferenza nei confronti della società cui appartengono e del suo benessere ma, d’altro lato, anche dell’importanza della macroeconomia quale insieme non intenzionale ma del tutto reale dei comportamenti dei singoli capitalisti.
E a conferma di questa ipotesi Leon nel corso del suo libro fa numerosi esempi empirici. Come la piena occupazione che insieme ad altri fenomeni è in balia di interessi microeconomici e che tuttavia solo lo Stato, quale interprete e agente della macroeconomia, è in grado di promuovere dato che gli operatori capitalisti, anche se aggregabili, determinano effetti macroeconomici indipendentemente dalla loro volontà, siano essi portatori di crisi o di ripresa. E che le crisi siano sempre possibili deriva dal fatto che sebbene i comportamenti micro hanno sempre effetti macro, i singoli soggetti sono nella impossibilità di conoscere le conseguenze delle loro decisioni sull’economia nel suo complesso. Il fatto è che malgrado si possa concepire e osservare il capitalismo come un sistema, esso è poi in definitiva la somma di imprenditori, di proprietari di capitale, di lavoratori e di corpi intermedi nessuno dei quali è in grado di rappresentarsi l’operare della loro aggregazione a vantaggio o ai danni dell’economia complessiva e quindi anche della società. E poiché lo Stato è l’agente della società, se il capitalismo è sempre in conflitto con essa, sarà anche in conflitto con lo Stato.
Le trasformazioni del capitalismo hanno sempre avuto bisogno dell’intervento pubblico, ma nelle successive crisi i rapporti fra Stato e capitalisti mutano ogni volta nella ricerca di un reciproco vantaggioso compromesso. Questo è in estrema sintesi il succo dell’analisi di Leon che costituisce nel suo insieme una guida indispensabile alla conoscenza dell’intreccio di problematiche che Keynes, riconosciuto da Leon come suo maestro, definiva così: «L’economia è una scienza dove si pensa in termini di modelli, insieme all’arte di scegliere quelli che sono rilevanti per il mondo contemporaneo ». Nel suo libro Paolo Leon dimostra che nel nostro mondo sono non soltanto irrilevanti ma anche dannose le tante teorie che ancora si affannano a dimostrare la validità di possibili «equilibri» che i mercati, malgrado siano perennemente affetti da squilibri e da crisi, potrebbero ritrovare solo che cessasse l’eccessivo intervento pubblico. La cecità è quindi un difetto non soltanto connaturato ai capitalisti, ma anche e soprattutto a una moltitudine di economisti che, inconsapevolmente, producono danni rilevanti alla macroeconomia, cioè alla realtà entro la quale inconsapevolmente tutti viviamo, ma di cui essi non tengono il dovuto conto.

Repubblica 8.7.14
Bentornato Gobetti anche se in ritardo
Da anni esaurita “La rivoluzione liberale”. Einaudi corre ai ripari
di Massimo Novelli


Nella primavera di novant’anni fa, presso l’editore Cappelli di Bologna, usciva la prima edizione de La rivoluzione liberale di Piero Gobetti, nato a Torino nel 1901 e morto in esilio a Parigi nel 1926. Con il suo Saggio sulla lotta politica in Italia, il giovanissimo autore intendeva offrire «un libro di teoria liberale» a chi si opponeva al regime mussoliniano, soprattutto ai giovani, attraverso «una specie di necessario noviziato morale e pratico». Destinata a non essere realizzata e a restare, per lo più, una «predica inutile», la rivoluzione gobettiana avrebbe influenzato tuttavia una parte rilevante, anche se minoritaria, della sinistra italiana, come Giustizia e Libertà e come il Partito d’Azione. Gobetti, ancora adesso, è uno degli scrittori politici citati più di frequente. Uno degli ultimi a chiamarlo in causa è stato addirittura Gigi Buffon, il portiere della Juventus e della Nazionale di calcio. È altrettanto vero che numerose sue opere non sono oggi facilmente reperibili, fatto davvero singolare visto che Gobetti è tradotto e studiato in vari paesi del mondo, a cominciare dagli Stati Uniti. Il catalogo Ibs, la prima libreria online italiana, testimonia quei vuoti, confermando la non disponibilità di volumi quali gli Scritti politici, Nella tua breve esistenza (il carteggio fra Piero e la moglie Ada), il Paradosso dello spirito russo, la raccolta della rivista La Rivoluzione Liberale.
Si rischiava di celebrare l’uscita del testo più importante e famoso di Gobetti, pertanto, non avendone copie nelle librerie, dato che l’ultima edizione Einaudi era esaurita. Per fortuna la casa torinese dello Struzzo, editrice storica delle opere di Gobetti, ha voluto porre rimedio: a metà marzo uscirà nella collana della Piccola Biblioteca Einaudi la ristampa, la sesta, de La rivoluzione liberale, quella pubblicata nel 2008 a cura di Ersilia Alessandrone Perona e con un contributo di Paolo Flores d’Arcais. La decisione di dare alle stampe questa edizione, in verità, ha fatto storcere un po’ il naso a qualche studioso di Gobetti, che avrebbe preferito ne venisse edita una con un nuovo apparato critico e bibliografico. Si era pensato, a questo proposito, di affidarne l’introduzione a Pietro Polito, direttore del Centro studi Piero Gobetti di Torino, oppure al saggista e docente universitario Marco Revelli, che ne è il vicepresidente. Ma il progetto non è andato in porto.
La casa editrice di Torino, in ogni caso, non si limita a editare il Saggio sulla lotta politica in Italia. Nei piani messi a punto per il 2014 e per gli inizi del 2015, è prevista la ripubblicazione di Nella tua breve esistenza, stavolta con una nuova introduzione di Ersilia Alessandrone Perona, oltre che l’uscita del secondo volume dell’epistolario di Gobetti. Sempre l’Einaudi annuncia per aprile la ristampa del Diario partigiano di Ada Gobetti; si tratta di un vero classico della letteratura della Resistenza, che la vedova di Piero scrisse sulla scorta degli appunti presi dal settembre del 1943 all’aprile 1945, nel pieno delle vicende della guerra di liberazione, che la vide tra i protagonisti, e dell’occupazione tedesca di Torino e del Piemonte.

La Stampa 8.3.14
Revelli e Rosso, la “Spoon River” di Nuto
Marco Revelli e Beppe Rosso presentano “Il popolo che manca” di Nuto Revelli (Einaudi).
In studio Elena Masuelli (Agb)

il video qui

Corriere 8.3.14
Il divorzio degli italiani dallo Stato nasce dall’incertezza delle regole
Sorgono interrogativi inquetanti anche sul futuro della democrazia
Sabino Cassese denuncia la volubilità dei nostri governanti
di Michele Ainis


Governare gli italiani (Il Mulino) è il titolo con cui Sabino Cassese manda alle stampe il suo ultimo volume. Ma quel titolo fa venire in mente una celebre battuta di Benito Mussolini: «Governare gli italiani non è difficile. È inutile». Il Duce se ne uscì con quest’aforisma dinanzi a una domanda del giornalista Emil Ludwig, nel 1932. Ricalcando, a quanto pare, una frase di Giolitti, suo predecessore al timone del Paese. D’altronde l’impotenza dei nostri uomini di Stato a far funzionare lo Stato è uno spettacolo costantemente replicato.
Domanda: colpa degli italiani o dello Stato? Colpa della storia: quella degli italiani, quella dello Stato italiano. Solo che la prima è stata scritta e riscritta molte volte; viceversa l’historical institutionalism resta una Cenerentola, quantomeno alle nostre latitudini. Ed è un male, perché non puoi risolvere i problemi se ignori le cause che li hanno generati. Da qui il primo merito del libro di Cassese, dove il sottotitolo conta forse più del titolo: Storia dello Stato . Ma ne abbiamo avuto soltanto uno, di Stato, durante questo secolo e mezzo che ci separa dall’unità d’Italia? E la sua crisi — d’autorità, d’efficienza, di consenso — è la medesima rispetto alla patologia di cui si discuteva già all’alba del Novecento? Infine: si tratta d’un fenomeno nazionale oppure internazionale?
Facciamo parlare l’autore: «Si scrive spesso della crisi dello Stato, al singolare. Ad essere esatti, bisogna parlare della crisi dello Stato al plurale. La prima crisi, del primo decennio del secolo (…), fu dovuta alla penetrazione nello Stato, a seguito del suffragio universale, di interessi organizzati. La seconda, degli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, fu causata dall’espansione dei compiti statali e dalla conseguente tensione tra entrate e spese. Venne chiamata crisi fiscale (…). La terza, degli ultimi decenni del secolo e ancora in corso, è dovuta alla formazione di poteri pubblici ultrastatali».
Dunque c’è almeno qualche tratto comune, fra la nostra vicenda e quella altrui. La globalizzazione morde in Italia come altrove, sostituendo alla sovranità statale una galassia di 2 mila Intergovernmental Organizations e di 60 mila Non-Governmental Organizations. La crisi economica ha fatto a pezzi, dovunque, il Welfare State. Non si sa più nemmeno cosa sia lo Stato, e del resto già nel 1931 uno studioso americano registrava 145 significati diversi del termine in questione. Infine il mondo s’interroga sulle sorti della democrazia, la figlia legittima dello Stato legittimo. Potrà sopravvivere all’eclissi degli Stati? Alcuni politologi, come Pietro Grilli di Cortona, ritengono di no. Dopotutto, a voltarsi indietro lungo la corsa dei millenni, la democrazia ci appare come una scheggia della storia: i regimi teocratici e dispotici esprimono la regola, e prima o poi la regola ottiene il sopravvento sull’eccezione.
Questi dubbi punteggiano l’intero volume di Cassese, intervallando la narrazione dei fatti (o più spesso dei misfatti) dello Stato italiano. Nelle due paginette dell’introduzione, per esempio, si contano 27 domande. Fra le quali: perché il nostro Stato ci appare così distante? Perché in soli 8 anni (1956-1964) ci siamo dotati d’una grande rete autostradale, mentre da trent’anni non riusciamo a chiudere i cantieri della Salerno-Reggio Calabria? È diventata debole la politica o invece le istituzioni? Come si concilia questa debolezza con la crescita del settore pubblico (sessant’anni fa valeva il 20 per cento del Pil, ora il 50)? Ed è il continuismo — nelle classi dirigenti così come nelle regole istituzionali — la radice della nostra dannazione?
Non sempre Cassese offre soluzioni a tali dubbi. Anzi, non lo fa quasi mai. E d’altronde le domande spesso contano più delle risposte. Sul continuismo, però, lui muove un atto d’accusa alle due Costituzioni dello Stato unitario. Nel primo caso (lo Statuto albertino) rinviammo la decisione, adottando nel 1861 la Costituzione d’uno dei 7 Stati preesistenti. Nel secondo caso (la Carta del 1947) ne rinviammo l’attuazione, lasciando sopravvivere il vecchio ordinamento. Eppure, a ripercorrere le tappe del nostro cammino nazionale, prevale la sensazione opposta. Soffriamo di discontinuità, non di un eccesso di continuità. La nostra malattia sta nell’incostanza, in un umore volubile e nevrotico che si riflette sulle stesse regole del gioco, e in conclusione ci impedisce di giocare.
Un solo esempio: la legislazione elettorale. In Germania si mantiene inalterata dal 1953; in Francia il doppio turno risale addirittura alla monarchia orleanista; nel Regno Unito la formula (first past the post ) è ancora quella del 1832; gli Usa hanno scelto l’uninominale nel 1842, e da lì non si sono mai schiodati. In Italia, viceversa, abbiamo fin qui sperimentato 12 sistemi elettorali, e con l’Italicum ci avviamo a benedire il tredicesimo. Eppure la legge elettorale reclama stabilità, come i matrimoni: non puoi divorziare a settimane alterne.
Ecco, muove da qui il divorzio degli italiani dallo Stato. Ma questa frattura si ripete anche in seno alla compagine statale, tanto da renderne impossibile un affresco unitario. Cassese ne disegna infatti i singoli frammenti: la storia militare, le imprese pubbliche, i rapporti con la Chiesa, il rubinetto delle leggi, la magistratura, l’amministrazione, gli istituti di protezione sociale. Più che una storia un puzzle, un rompicapo. D’altronde lo Stato, a noi italiani, procura sempre il mal di capo.

Repubblica 8.3.14
L’indagine Ads
La Repubblica si conferma primo quotidiano in edicola


ROMA - Repubblica conferma ancora una volta il suo primato nelle edicole. Anche nel mese di gennaio, il quotidiano romano è il più acquistato, con 269.408 copie vendute in media al giorno. Davanti al suo diretto concorrente, il Corriere della Sera, che si attesta sulle 256.774 copie. Bene anche ilVenerdì di Repubblica con 357.068 copie settimanali vendute. Così come D - La Repubblica delle Donne, a quota 270.108. Si conferma anche il buon andamento delle copie digitali di Repubblica, a quota 53.494. I dati Ads pubblicati ieri premiano anche il settimanale L’Espresso con 205.011 copie settimanali vendute in gennaio, tra edicola e abbonamenti, sia cartacei che digitali.
Tra i quotidiani nazionali più venduti in edicola, dopo Repubblica e Corriere della Sera, al terzo posto si colloca la Gazzetta dello Sport del lunedì a quota 207.925 copie e al quarto posto ancora la Gazzetta dello Sport negli altri giorni (177.314). Segue La Stampa con 173.736 copie. Mentre al sesto posto troviamo il Corriere dello Sport-Stadio del lunedì (163.141), seguito in settima posizione dal Messaggero (123.025) e in ottava dal Corriere dello Sport-Stadio negli altri giorni (120.887).
Il Sole 24 ore è al nono posto (113.446), mentre Qn-Il resto del Carlino chiude la top ten (109.409).
Sotto le 100 mila copie vendute al giorno, troviamo Tuttosport del lunedì (99.300), Il Giornale (92.580), Qn-La Nazione (88.037), Il Tirreno (54.880), Il Secolo XIX (52.988), L’Unione Sarda (45.773), Il Fatto quotidiano (44.021), Libero (41.834), Il Tempo (22.865), Avvenire (21.351), L’Unità (18.530), Il Manifesto (9.798).