sabato 22 aprile 2006

Repubblica 22.4.06 Pagina 4 - Interni
Marcos, San Paolo e Ghandi metamorfosi di Fausto il rosso
Dalle piazze alla tv, il "subcomandante" diventa arbitro
di Filippo Ceccarelli


Figlio di un ferroviere, è il rivoluzionario più eclettico
L'eleganza del look convive con l'elogio degli scioperi
Nel suo mondo ideale la proprietà privata andrebbe abolita
A Marcos, nel Chiapas, il leader del Prc regalò un'edizione rara del "Don Chisciotte"

Dunque Montecitovio, con l'ormai celebre erre blesa del suo prossimo e assai probabile presidente. Fausto Bertinotti, figlio di ferroviere, già sindacalista della corrente socialista lombardiana, poi eretico del comunismo italiano, leader tanto eclettico quanto rivoluzionario, quindi patrono di tutti i movimenti che fanno la ricchezza e la disgrazia della sinistra italiana. E ora, non senza fatica, designato alla guida della Camera dei deputati.
E subito, data l'atmosfera vanamente e sospettamente sfarzosa che la Pivetti e poi Casini hanno imposto al Palazzo, e data anche la più indefessa e conclamata vocazione bertinottiana alla critica, al popolo, alla lotta, alla rivolta, anche, ecco subito il pensiero va agli immensi commessi in alta uniforme, con catenelle, guanti bianchi e tutto, che accompagneranno fuori dell'aula, appena eletto, «il ragazzo con la maglietta a strisce», come s'intitolava una sua specie di autobiografia.
Ed è un'immagine quasi incredibile, questa di Bertinotti chiamato al vertice della più prestigiosa sede istituzionale. «Il sub-comandante Fausto», come lo chiamavano dopo l'avventurosa missione nel Chiapas, dopo l'incontro con il vero sub-comandante, Marcos, incappucciato e con pipa a penzoloni. Bertinotti gli regalò un'edizione rara del don Chisciotte, regalo pregevole e a suo modo protocollare, forse persino presidenziale, ma le foto che ritraggono l'evento indubitabilmente celebrano l'incontro fra due rivoluzionari.
Ancora a dicembre Bertinotti suggeriva addirittura ai contadini cinesi di scioperare, per i loro interessi, contro un regime ingiusto e oppressivo. Ci furono ovviamente ironie sulla qualità del cachemire disponibile dietro la muraglia, perché Bertinotti è considerato un leader elegante, che sa trattarsi bene, e al quale non dispiace un certo scintillante presenzialismo.
Eppure, al di là delle inevitabili punzecchiature che questo comporta, mai come oggi Bertinotti appare il più compiuto esemplare della sinistra antagonista italiana; un leader nato nelle piazze gremite di operai e cresciuto nelle stanze fumose delle trattative con i «padroni»; infine conquistato alla grande notorietà di questo tempo grazie all'assidua padronanza dimostrata in centinaia e centinaia di talk-show. E basterebbe questa sommario percorso biografico a porlo in una posizione come minimo dialettica con l'aula del Parlamento, del Palazzo. Istituzione per sua natura elitaria, sobria, macchinosa e combinatoria, ma oggi terribilmente lontana dal mondo, travolta dall'ondata tecnologica della comunicazione, insomma in crisi.
Ecco. Bertinotti non porta dentro, ma esattamente al vertice delle istituzioni il suo universo, le sue tribù, i suoi compagni, il suo complesso e variegato immaginario di comunista romantico, Brecht e Gandhi, San Paolo e Kavafis, don Vitaliano e Luxuria, Heidi Giuliani, le donne in nero, Tex Willer, Coppi, Dylan Dog, Citto Maselli, lo psicanalista Fagioli. Porta con sé, soprattutto, il ricordo della presidenza di Pietro Ingrao. A luglio saranno trent'anni da quando Enrico Berlinguer pose su quello stesso scranno un comunista non solo (cautamente) dissidente rispetto alla sua linea, ma addirittura fautore del dissenso. Una scelta che piacque a Loris Fortuna e a Ciriaco De Mita; una soluzione che anche allora stabilizzava a sinistra la vasta maggioranza dell'unità nazionale.
Con tutte le differenze del caso, Prodi deve aver fatto analoghi calcoli. Ma sulla poltrona più alta dell'aula, bene o male è destinato a sedersi l'uomo che ha chiamato Ochalan; che ha sfilato tra i lacrimogeni di Genova; che prima ha ospitato in lista il disobbediente D'Erme, quello della distesa di letame sotto casa di Berlusconi, e poi Luxuria. Il «Sub-comandante», il «Parolaio rosso», l'amico di Cecchi Gori e della Marini, il marito della signora Lella, che non manca un party «SuperCafonal» di Dagospia, ma che pure è riuscita a far indossare la giacca al disobbediente Caruso.
Sì, Bertinotti: il sigaro spento, il portaocchiali civettuolo. E ancora resta inconcepibile immaginarselo sopra il banco del governo, con il campanello in mano. Il difensore ragionevole degli incappucciati che va giù duro contro la Tav e morbido sugli espropri o sugli slogan spericolati a favore della resistenza irachena. Rivoltoso e non violento. Quello che invoca la patrimoniale, toglie i ritratti di Stalin e reclama ancora l'abolizione della proprietà privata. E se la cosa può sembrare irrilevante, se non frivola, anche quello che da più di un anno ha chiuso i conti con la Coca cola.
Ora: per quanto Montecitorio resti un luogo straordinariamente adattabile, e perciò anche fantastico nelle sue mutazioni, è difficile immaginarsi la Mecca cola in vendita alla buvette. Ma l'arrivo di Bertinotti è sul serio una novità; per non dire che è una sorpresa. «Onorevoli colleghi, la seduta è aperta». Ma aperta sul serio.

Repubblica 22.4.06 Pagina 4 - Interni
Il leader storico della sinistra ricorda quando nel ‘76 fu eletto sullo scranno di Montecitorio al posto di Pertini
Ingrao, il primo presidente comunista "Ma non paragonatemi a Bertinotti"
il precedente
"L´amico Pertini rimase dispiaciuto. Due anni dopo fui io, commosso, a dirgli: sei stato eletto al Colle"
di Concita De Gregorio


ROMA - A 91 anni Pietro Ingrao ha appena finito di mettere ordine in 930 fascicoli e 112 faldoni zeppi di corrispondenze, scritti, discorsi, foto e materiali raccolti in una vita intera. Dalla giovinezza antifascista agli anni della Resistenza fino al Compromesso storico, agli incarichi istituzionali, alla storia di ieri. Due studiosi, Lorenzo Benadusi e Giovanni Cerchia, hanno inventariato i materiali ora raccolti in un volume: «L'archivio di Pietro Ingrao - Guida alle carte del Centro di studi e iniziative per la riforma dello Stato». Alla presentazione del libro a palazzo Valentini, pochi giorni fa, il pubblico lo ha applaudito a lungo con la commozione e il rispetto che suscita chi ha attraversato diritto un secolo intero. «Quando ti trovi di fronte a enormi mutazioni, spesso vili - ha detto con la sua voce roca il leader comunista - le domande sono incalzanti per ragioni brucianti e attualissime. Ciò che è stato il comunismo italiano del Novecento oggi è grossolanamente vilipeso. Dunque: che cosa è stata la realtà in cui mi sono trovato dentro?». Ha parlato di Costituzione e di pena di morte, di magistratura e di politica, di vicende della vita. «Noi conosciamo veramente i nostri simili?», si è chiesto alla fine. A cinquanta metri in linea d'aria da lì, in piazza Santi Apostoli, nello stesso momento Romano Prodi era alle prese con un'agenda fittissima di incontri per dissipare la matassa della presidenza della Camera contesa. D'Alema o Bertinotti? Tra gli alleati della coalizione che ha vinto le elezioni chi ha più titolo e migliori ragioni per rivendicare a sé il prestigioso ruolo, la terza carica istituzionale dello Stato?
Trent'anni fa esatti Pietro Ingrao è stato il primo presidente comunista della Camera. Il primo esponente dell'opposizione chiamato ad essere il presidente di tutti. Era l'estate del 1976. Presidente della Camera uscente Sandro Pertini. I cultori di analogie potrebbero osservare che il socialista Pertini, che allora si aspettava di essere confermato alla guida di Montecitorio, dovette invece cedere il passo a un comunista: due anni dopo fu eletto al Quirinale. La stagione è diversa i tempi della politica pure, nessuno potrebbe oggi ragionevolmente invitare Massimo D'Alema ad aspettare due anni, non avrebbe senso. E però il paragone con Ingrao in questi giorni ritorna, quando si parla di Bertinotti presidente. Un confonto «improprio», lo definisce l'anziano leader che dalla sinistra del Pci passando per il Pds è infine approdato a Rifondazione comunista. La storia è certo molto diversa e Pietro Ingrao non ama parlare delle cose d'oggi, «io sono solo uno che vede le cose da casa. Non ho titoli per esprimere giudizi e non ho desiderio, in un momento come questo, di dare pareri personali». Però un aiuto a far rivivere la memoria di un preciso passaggio della sua storia politica questo sì, con grande gentilezza e col pudore proprio dell'uomo, accetta di darlo. «Fui indicato con mia grande sorpresa dal partito per quell'incarico perché si era arrivati ad un'intesa fra la sinistra di Berlinguer e la Democrazia cristiana. Fu una scelta simbolica che nasceva da quella stagione e maturava nel segno di dare concretezza a un preciso progetto politico». Era la stagione del Compromesso storico. «Quando dico che le condizioni politiche erano diverse intendo riferirmi anche al fatto che in quel momento il Pci aveva quasi raggiunto una condizione di equilibrio con la Dc che fino ad allora era stata assolutamente e largamente egemone». Fino a pochi anni prima la Democrazia cristiana era stata alla guida delle coalizioni di governo con uno scarto tale da mettere fine ad ogni discussione. Poi qualcosa nel Paese era cambiato. Quando si decide di affidare la Camera a un comunista, ricorda Ingrao, ci fu un certo sconcerto tra i socialisti e lo stesso Pertini ne rimase «credo umanamente dispiaciuto. Eravamo molto amici, frequentavo lui sua moglie, ho un ricordo molto vivo di quei giorni». Pertini godeva del rispetto di tutti, se non ci fosse stata l'esigenza politica di dare un segno di apertura al Pci sarebbe stato certamente rieletto. Tuttavia non fu un lungo rammarico, quello del presidente socialista. Appena due anni dopo, alle dimissioni di Leone, fu indicato ed eletto al Quirinale e toccò allo stesso Ingrao comunicargli con grande commozione l'esito del voto. «A volte le scelte dolorose sono passaggi necessari e acquistano il senso del loro valore col senno di poi». Non una sola parola sull'oggi, «sarebbe davvero un arbitrio» dice Pietro Ingrao dall'alto dei suoi 91 anni. D'altra parte la memoria di ieri spesso basta da sola, e ce n'è d'avanzo.

Corriere della Sera 22.4.06
«Vogliamo dialogare con i riformisti»
Bertinotti: «Bene D'Alema, serve pluralismo»
Il leader di Rifondazione Comunista dopo il passo indietro del presidente Ds nella candidatura alla presidenza della Camera


ROMA - «Ho apprezzato D'Alema e i Ds perché bisogna mettere in rilievo l'esigenza di investire nel pluralismo dell'Unione che deve essere visibile. Le nostre sorti e quelle dell’Unione sono unite da un legame reciproco in questa fase». Con queste parole Fausto Bertinotti ha ringraziato D'Alema per il passo indietro nella sua candidatura alla presidenza della Camera. «L'intenzione di Rifondazione è di dialogare con i riformisti, abbiamo fatto così in tutte le vicende e ci siamo messi su questa idea anche per quanto riguarda gli incarichi istituzionali perché fosse valorizzato il pluralismo e non solo il blocco monolitico della parte riformista» ha aggiunto il leader del Prc nel corso di una conferenza stampa a margine dei lavori del comitato politico del partito.
FUTURI RUOLI - Sull'ipotesi di una sua candidatura a Montecitorio Bertinotti prende tempo. «Vedrò nei prossimi giorni se sarò investito di questa responsabilità istituzionale e comunque tutto il partito sarà coinvolto nella discussione per gli assetti, anche della direzione del Prc. Avremo tempo per fare un ragionamento partecipato». A chi gli chiede un parere su Giulio Andreotti presidente del Senato, il leader del Prc ha rilanciato: «Credo che Franco Marini sia un ottimo candidato e che si possa sostenere». Interpellato sulla possibilità di presentare Massimo D'Alema alla presidenza della Repubblica, ha risposto: «Non ci sono candidati e nomi ma se mi chiedono un'opinione sul terreno della cultura politica, continuo a pensare che siccome in Italia, sul soglio più alto della Repubblica, ci sono stati esponenti di diverse culture politiche, sarebbe importante per il futuro del Paese che una persona proveniente dalla dirigenza del Pci diventasse presidente della Repubblica. Sarebbe un atto di riconoscimento importante». Bertinotti però sottolinea come «sia Fassino che D'Alema hanno detto che non è ipotecabile un discorso sul presidente della Repubblica. E io sono d'accordo con loro, il mio discorso riguarda solamente la cultura politica».
GIORDANO VERSO LA SEGRETERIA - Sembra probabile che, nel caso di una nomina di Bertinotti alla presidenza della Camera, Franco Giordano lo sostituisca alla segreteria di Rifondazione Comunista. In questi giorni si è svolta in Rifondazione una ampia consultazione del gruppo dirigente e nella riunione della segreteria che ha preceduto l'avvio del comitato politico sarebbe emerso proprio il nome di Giordano, capogruppo uscente della Camera, per la guida del partito. A favore, naturalmente, l'attuale maggioranza bertinottiana, ma anche larga parte della minoranza del partito e, in particolare, le componenti dell'Ernesto e i trotzkisti di sinistra critica.

Liberazione 22.4.06
Persona, passioni, classe
il lessico marxiano della democrazia
“Karl Marx. Rivisitazioni e prospettive” , un volume collettivo curato da Roberto Fineschi. Da Bellofiore a Cavallaro gli autori si interrogano sulle possibilità ancora aperte di studio e sulle prospettive di utilizzo futuro
di Tonino Bucci


Marx ha più volte incrociato il tema della democrazia nel corso della sua opera. Lo ha fatto con un paziente, meticoloso lavoro di scavo nei meccanismi attraverso i quali il potere politico nasce e si legittima nella società moderna. Ma quando si affronta la riflessione politica marxiana si è costretti ad attraversare un terreno ingombro di pregiudizi. Il crollo di buona parte dei socialismi reali del ’900 ha prodotto negli ultimi decenni una serie di retroeffetti negativi sul ruolo del marxismo nel pensiero politico. Nonostante Marx abbia dedicato alla democrazia analisi acute - tanto da esserne anche un raffinato critico delle sue zone d’opacità - si è diffusa l’opinione che il filosofo tedesco sarebbe piuttosto stato il fondatore tout court d’una tradizione totalitaria. Quand’anche si riconosca al pensiero marxiano un’istanza di liberazione dell’uomo dal lavoro alienato, subito questo punto viene relegato nell’ambito di un’utopia irrealizzabile e tanto più disastrosa negli effetti quanto più pretenziosa.

L’altro pregiudizio corrente è quello che individua nel Marx teorico dello classe e del ruolo dello stato nel controllo pubblico dell’economia un pensatore antidemocratico, colpevole d’aver evocato potenze terribili e dispotiche - la classe, lo stato, il partito, appunto - destinate a prevaricare l’individuo.

Cosa resta, allora, del giovane Marx che ha denudato la scissione della politica, la sua separatezza dalla vita reale degli individui? O del Marx più maturo, il critico dell’economia politica che ha infranto le illusioni del mercato a legittimarsi come luogo di scambio tra liberi ed eguali? Ma esistono anche pregiudizi più raffinati, che senza negare al pensiero marxiano l’attitudine a riflettere sulla democrazia e la liberazione dell’individuo, ritengono poi questa vocazione presente quasi esclusivamente negli scritti giovanili e, al contraria, molto sfumata, pressoché inesistente in quelli maturi.

«Il tema dell’alienazione è sempre stato di gran moda nel dibattito su Marx. Celeberrima è la posizione del giovane Lukács che, insistendo sul concetto di “reificazione”, gettava le basi del duraturo successo di una lettura che trovò “conferma” nei testi del giovane Marx. Chi si è opposto al Marx “umanista” sostenendo che con l’Ideologia tedesca si superavano questi ardori giovanili verso una visione scientifica della realtà, ha certo teso ad isolare il Marx buono da quello ideologico, ma ha di fatto confermato i termini del discorso, ossia che effettivamente il giovane Marx fosse “filosofo” in quanto teorico dell’alienazione mentre il Marx maturo sarebbe “scienziato” in quanto non più teorico dell’alienazione e quindi non più filosofo». Questa interpretazione di Roberto Fineschi esposta in uno dei saggi raccolti nel volume Karl Marx. Rivisitazioni e prospettive (edizioni Mimesis, a cura di Roberto Fineschi, pp. 208, euro 18) conferma l’esistenza di uno schema inveterato. Quello secondo cui ci sarebbe, da un lato, un Marx critico dell’alienazione, colmo di ardori filosofici, democratico radicale e, dall’altro, un Marx maturo, ormai emancipato da una visione antropomorfica della storia, disinteressato alle sorti dell’individuo in nome della scienza e dello studio del modo di produzione capitalistico. Entrambi hanno avuto il loro momento di gloria nella filosofia novecentesca, il primo rivalutato da Lukács, il secondo enfatizzato da Althusser. Eppure «chi ritiene che il tema dell’alienazione non venga affatto abbandonato e che ritorni nella maturità - ovvero dopo il 1857, nel bel mezzo della formulazione organica della teoria del modo di produzione capitalistico - ha delle frecce al proprio arco che non possono essere trascurate». E’ un ritorno che non può essere sottovalutato. «Come è noto sono due i luoghi strategici: il primo riguarda la teoria del feticismo della merce, il secondo l’inversione di soggetto e oggetto nel rapporto capitale/lavoro e nella sussunzione del secondo sotto il primo». E’ nel Manoscritto del 1857-58, per la precisione, che sembra ritornare lo strumentario giovanile, lo schema dell’uomo che si oggettiva e si rende altro da se stesso nel lavoro salariato, ma stavolta il processo lavorativo è descritto in maniera più complessa. Il lavoro produce oggetti reali che non gli appartengono, sono proprietà altrui e, anzi, lo dominano. Al meccanismo si aggiunge il dispositivo della sussunzione del lavoro sotto il capitale. Man mano che si sviluppa il sistema di macchine l’operaio perde il comando sul proprio lavoro e diventa esso stesso strumento di un’attività il cui senso complessivo è noto solo al capitalista. E qui si realizza l’inversione in base alla quale l’individuo da soggetto diventa oggetto, da fine mezzo.

Nel Marx maturo, quindi, non scompare la visuale di un progetto di liberazione dell’individuo, un progetto di ricomposizione dell’individuo con la propria attività creatrice. Semmai scompare la tentazione di ricorrere a una natura umana presupposta indipendentemente dalla società, «il Marx maturo, con la teoria del modo di produzione capitalistico e la dialettica di forze produttive e rapporti di produzione sviluppa un modello che non ha bisogno dell’antropologia e dell’essenza dell’uomo» senza che questo comporti la rinuncia alla teoria dell’alienazione.

Anche il nesso che vincola il tema della liberazione dell’individuo dal lavoro salariato a quello della democrazia e, più in generale, del potere politico è tutt’altro che azzerato negli scritti maturi. Persino nel Capitale si possono rinvenire accenni a un armamentario spinoziano che mettono in questione una forma di cooperazione sociale orientata alla libertà e alla realizzazione dell’individuo - del resto esiste una linea interpretativa, da Macherey a Negri fino a Balibar che insiste sul rapporto Marx-Spinoza. «Il problema di Spinoza - spiega Marco Assennato - era di dimostrare la necessità comunque di garantire ampi margini di libertà, giacché la potestas di ogni stato non può in alcun modo essere scissa dalla potentia dei suoi singoli componenti». In nome di questa reciprocità tra gli individui Marx avrebbe coniato nel Manifesto la formula «il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti». Per Spinoza il diritto inalienabile dell’individuo non consiste solo nella ragione, ma anche nel «desiderio» (cupiditas) e dalla «potenza». Per il giovane Marx l’unico sistema politico in grado di fondarsi su queste forze è la democrazia, l’unico in grado di convertire «il furore del volgo in energia positiva e costituente». E’ un passo in direzione di un “uomo totale”, non scisso, che tenga assieme desiderio e ragione, quello che Marx compie nella sua idea di comunismo. Non a caso, la società comunistica si presenta, fin dai Manoscritti economico-filosofici del ’44, con i caratteri di una ricomposizione dell’uomo con la natura. «La natura è il corpo dell’uomo, è con l’uomo congiunta, ossia è congiunta con se stessa in quanto l’uomo ne è parte tra le parti». Ma questo rapporto vitale, di scambio, è stravolto quando il lavoro si fa, nella società capitalistica, lavoro estraniato. La natura diventa estranea, un oggetto inerte da plasmare. La conseguenza è che la stessa attività collettiva in scambio con l’ambiente naturale diventa estranea all’individuo. Marx riprende l’argomento nel Capitale, «il lavoro è un processo che si svolge tra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura». In queste parole riecheggia Spinoza, l’individuo come «potenza», la forza-lavoro, l’insieme delle energie e capacità fisiche e intellettuali del singolo. E anche la via d’uscita ricorda la formula spinoziana, quella di una cooperazione sociale dell’umanità attraverso la quale l’uomo può ritrovare l’unità con la natura, sottrarsi alla necessità per entrare nella libertà. Per dirla con le parole di Marx, quelle utilizzate nel III libro del Capitale, «la libertà può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca». Solo nella relazione con altri l’individuo può vivere e produrre, insieme possono soddisfare i propri bisogni, «con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa». Questo è quanto di meglio gli uomini possano fare per rispondere alla necessità dello scambio con la natura per soddisfare i bisogni. Oltre, «comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità».

venerdì 21 aprile 2006


Il Mattino 22.4.06
Bellocchio, visioni d’autore
Castellitto protagonista in una Sicilia barocca e sensuale ...
di Valerio Caprara

In molti già dettano il libretto d'istruzioni. Ma non rendono un buon servizio a Marco Bellocchio, il più visionario, il più inquietante, il più indecifrabile tra i registi italiani: se il suo puzzle volesse dire qualcosa di preciso e quindi, fatalmente, di scontato o perentorio non ci sarebbe esperto che tenga, la partita dello spettatore sarebbe persa in partenza. Di fronte agli intarsi de «Il regista di matrimoni» è proprio l'ansia d'incanalarlo in una direzione che rischia di smontare le scene allusive, i fili in sospeso, le immagini a doppia o tripla chiave: il pendolo sempre in moto tra il sublime e il ridicolo deve giocoforza riguardare il film stesso - se non addirittura il cinema - anziché il gioco delle interpretazioni. La sensibilità dell'autore piacentino (mai così vicino a Buñuel o a Ferreri) si esprime, insomma, in forma di stile e la trama, che sembrerebbe assai pretestuosa, funziona come una squisita favola iniziatica che trasfigura senza sosta tempi, corpi e luoghi. Del resto i sogni non sono un surrogato della realtà, bensì un'«altra» e più profonda realtà alla quale è in parti uguali doloroso e piacevole abbandonarsi senza remore. Sergio Castellitto, come sempre formidabile, incarna non a caso un lunatico regista deciso a rompere con i riti familiari, la routine del successo, gli agguati giudiziari: ritrovatosi nel cuore di una Sicilia barocca e sensuale, s'innamora della triste principessa Donatella Finocchiaro e tenta di salvarla dal matrimonio di convenienza impostole dal tenebroso padre Sami Frey. In questo trip insieme fisico e mentale, contrappuntato da continui scarti surreali, viene tenuto sotto controllo da occulte telecamere mentre interagisce con un mestierante locale costretto a girare video matrimoniali e un collega che si finge morto per ottenere i premi negatigli in vita dalle parrocchie (di sinistra e di centro, «la destra al cinema non conta un cazzo») che colonizzano la ribalta nazionale. L'unica cosa certa è che occorre decidersi se rincorrere le metafore interne - Moretti contro Placido, «Il Caimano» in concorso a Cannes con «Il regista di matrimoni» sterilizzato in una sezione collaterale - e le uscite oracolari - «In Italia comandano i morti» (ma quelli pre o quelli post-elettorali?) - oppure leggere il film come l'epopea di un moderno cavaliere che affronta mostri e labirinti per potersi congiungere con un'ammaliante dea del mare. Al di là del mandato critico, non avremmo dubbi nello scegliere la seconda strada.

Corriere della Sera 21.4.06
"Il regista di matrimoni" : autoanalisi poco chiara dell’autore di “Buongiorno notte”
Il sogno (inspiegabile) di Bellocchio
di Tullio Kezich


«Un sogno, che altro?». La famosa battuta che conclude Il principe di Homburg di Kleist, fedelmente riportata nel bel film che ne trasse Marco Bellocchio, potrebbe far da epigrafe a questa nuova fantasia del regista. Il quale si cala un’altra volta negli abissi del proprio «io», in chiave onirico-psicoanalitica, e ne trae un referto affascinante e sconcertante. Davanti a Il regista di matrimoni si resta divisi fra la tentazione di andare dove ci porta Marco e quella di trattenerlo dagli scivoloni che comporta ogni confessione a cuore aperto. Per la centesima volta negli oltre quarant’anni trascorsi da 8 1/2 assistiamo alla crisi di un cineasta che non ha più voglia di girare un film. Nel caso si tratta di un remake dei Promessi sposi evocante fantasmi da cineteca come l’Innominato Carlo Ninchi e il cattivo Enrico Glori (don Rodrigo) nell’allestimento 1941 del maestro Mario Camerini. Il dubbio che attanaglia il regista Sergio Castellitto è che la materia sia troppo usurata per dar luogo a qualcosa di personale; e invece il romanzo palpita quando Corinne Castelli e Castellitto stesso prorompono senza preavviso nel sublime dialogo fra Lucia e il suo rapitore. Peccato che precipitando da tali altezze il film subito divaghi sull’onda di una banale inchiesta di carabinieri kafkiani, che induce il protagonista a cercare scampo su un lido della Sicilia. Dov’è coinvolto in un sottomestiere della Settima arte, quello di chi gira i filmetti dei matrimoni: per cui si innamora della promessa sposa Donatella Finocchiaro, che per ragioni non chiarite si era presentata ai provini manzoniani. Il padre della ragazza, lo spettrale «gattopardo» in rovina Sami Frey, contesta all’innocente pellegrino un presunto tentativo di stupro e a titolo di riparazione gli ingiunge di filmare le nozze.
Questo è uno di quei casi in cui tentando di raccontare ciò che succede sullo schermo non si va lontano perché il soggetto ha davvero la sfacciata implausibilità dei sogni; ma delle segrete scorribande della mente rispecchia anche la complessità, la tortuosità e la dolorosa veridicità. Includendo figurine evanescenti come il professionista delle riprese matrimoniali Bruno Cariello, la di lui ambigua consorte Simona Nobili e il cinematografaro Gianni Cavina che si è finto morto per vincere finalmente un premio (ma chi sarebbe disposto a una simile manovra per un David?). Al di là degli improbabili personaggi, nel film contano soprattutto i panorami mediterranei fra sole e mare, i notturni smaltati, i riti religiosi e le musiche scelte di Mascagni e no. Sergio stesso si concede una serenata intonando «O Lola ch’ai di latti la cammisa» e rimedia una secchiata d’acqua in testa: a conferma del fatto che fra le braccia di Morfeo bisogna aspettarsi di tutto, incluse le umiliazioni.
Del bravo Castellitto si può dire che suscita la voglia di affidarsi a lui come all’unica guida possibile nel confuso paesaggio che lo circonda. A momenti brilla la speranza che quel mancato regista dei Promessi sposi ne sappia più di noi, però sulla stanca subentra la sfiducia.
Si intuisce che Bellocchio, invisibile burattinaio, non vorrà spiegarsi, lasciandoci in mezzo agli interrogativi; e proprio questo succede, nonostante una parodia di lieto fine. In cui risuona come estremo sberleffo la voce ironica di Mariangela Melato che canta (con quale riferimento a ciò che abbiamo visto lo sa soltanto Iddio) «Sola me ne vo per la città». Si esce dal cinema con la sensazione che questo film, ammirevole sotto il profilo dello stile, è troppo narrativo per essere astratto e troppo astratto per proporsi come racconto. Il regista di matrimoni va messo fra le cose che non si spiegano con le parole, come un quadro o una musica. «Ein traum, was sonst?»: Kleist aveva capito tutto.

Corriere della Sera 21.4.06
Cannes, Moretti guida l’invasione italiana

(...)
Non basta. Un terzo nome di grande prestigio, quello di Marco Bellocchio, lo troviamo in «Un Certain Regard», dove approderà il bellissimo Il regista di matrimoni (...)

Il Gazzettino 21.4.06
Presentato il cartellone ufficiale del 59° Festival che si svolgerà dal 17 al 28 maggio: notevole presenza del nostro cinema
Cannes, l'Italia schiera le truppe
In concorso Moretti e Sorrentino, Bellocchio nel Certain Regard, Calopresti fuori competizione

(...)
Il film di Marco Bellocchio "Il regista di matrimoni" sarà invece presentato nella sezione "Un certain regard", una competizione «sempre più esigente in questi ultimi anni - ha sottolineato Fremaux - e che si impone come vera selezione alternativa alla competizione».
(...)

ZaBrisKIepOInt.net 21.4.06
MARCO BELLOCCHIO E L’IMMAGINE DELL’EROE
di Lorenzo Cremaschi

In occasione dell'uscita del suo ultimo film, Il regista di matrimoni, proponiamo una lettura approfondita sul concetto "dell'immagine dell'eroe" nel Cinema di Marco Bellocchio

L’evoluzione della forma da un lato, la ricerca sempre più profonda sui contenuti dall’altro; e fra questi due punti cardinali, tesa, tutta la storia artistica di Marco Bellocchio. Un arco che copre quaranta anni, da I pugni in tasca (1965) all’ultimo nato, Il regista di matrimoni.
Infiniti percorsi e fili conduttori si potrebbero seguire ripensando la sua filmografia, ma forse c’è un’immagine, ricorrente come una nenia eppure poco scavata dai critici, una chiave magica che può aprire la strada per comprendere questo nesso, che non è scontato, tra forma e contenuto, una ricerca che arriva fino al cuore dell’ultimo film.
E’ l’immagine dell’eroe. E se nei film di Bellocchio la storia di questa immagine può essere pensata anche come tramite dell’espressione e dello sviluppo stilistico dell’artista, ovverosia della forma, allora bisogna subito affiancare ad essa un’altra storia, quella dell’immagine femminile che, di volta in volta, si incarna in una ragazzetta, una donna, o una principessa da salvare. Questa immagine femminile, al di là e insieme ai personaggi di donna presenti nei vari film, sarebbe la rappresentazione di un contenuto altrimenti inesprimibile a cui non si può mai rinunciare se si vuole appunto tenere stretto un legame coerente tra forma e contenuto.
Ma chi è l’eroe per Bellocchio? E in che modo si può legare a questa immagine femminile? Fin da I pugni in tasca l’eroe è un ribelle che non accetta l’ipocrisia e il vuoto dei rapporti normali, nella famiglia e nella società; ma si ribella male: uccide e si uccide. E la perfezione stilistica di quel film fotografa in maniera asettica e oggettiva, come un fatto realmente accaduto, la tragedia un fallimento che sembra ineluttabile.
L’eroe fallisce e non si salva. Forse perché manca completamente l’altra immagine, quella di una “principessa” da salvare. Solo a partire dal 1980 Bellocchio comincia a cambiare radicalmente il modo di concepire le immagini cinematografiche; la struttura formale di Salto nel vuoto è più complessa, non più nitida e distante, asettica, ma sfumata, a tratti oscura, indefinita. Cosa è accaduto? La famiglia borghese, tema sempre caro a Bellocchio, è ancora la stessa, ma qui c’è un fratello che finisce suicida perché, ipotizziamo questo nesso causale, la sorella ha una speranza di salvarsi. Ma allora l’eroe chi è? E perché si getta dal balcone? Essere eroici significa realizzare la propria identità a prescindere dagli altri che ci stanno intorno, oppure cimentare la realizzazione personale nel costringere l’altro a fare la propria? E non uccidersi se l’altro ce la fa. Come si supera il vita mea mors tua?
Poco prima di girare Salto nel vuoto, Bellocchio aveva iniziato a seguire i seminari di analisi collettiva tenuti dallo psichiatra Massimo Fagioli. Questo rapporto, che il regista ha sempre definito di cura e di guarigione dalla malattia, si estende al di fuori del setting e nel 1986 esce Diavolo in corpo, un film epocale per tutta la storia del cinema in cui l’apporto di Fagioli risulta decisivo.
Qui l’eroe è un ragazzo che si innamora di una bellissima donna borghese e la salva dalla rassegnazione di una vita “normale” e dalla depressione. L’eroe si salva e si realizza “perché” si salva la ragazza. Lo stile formale di Bellocchio cambia ancora, si trasforma: la forma, un tempo fredda e velatamente dissociata, si fa compatta, sempre più libera e densa; i colori diventano succo che traspira gli affetti e le emozioni dei personaggi. Il rapporto tra uomo e donna, liberatosi dal binomio stritolante di amore e morte, diventa un tema centrale per tutti i film successivi.
Torna ne La visione del sabba (1988), ne La condanna (1991), ancora scritto e girato insieme a Fagioli. Con Il sogno della farfalla (1994) si chiude la collaborazione con lo psichiatra, ma l’eroe ritorna ancora. Fallito ne Il principe di Homburg (1998), perché nel tentativo estremo di salvarsi la vita dopo aver disobbedito alla legge del padre rinuncia crudelmente al rapporto con Natalie, la ragazzetta. Rinunciatario ne La balia (1999) perché non esce dal circolo vizioso tra rapporto affettuoso e buonista con l’altro sesso (un rapporto asessuato) e pensieri ottocenteschi sulla realtà mentale, che è considerata immodificabile. Ne L’ora di religione (2003) Sergio Castellitto è invece un artista ribelle che riesce a separarsi per sempre dal fratello pazzo, che non è altri se non l’Ale de I pugni in tasca. C’è una nuova forma di ribellione, che nasce dalla fantasia interna e si lega all’immagine sfuggente di Gradiva, una donna che non si sa se esiste nella realtà o è un sogno, un’immagine inventata che rigenera l’animo e dà la vita all’uomo. Perché quella stessa immagine, trasformata, camuffata con le vesti della giovane rivoluzionaria, sarà capace, in Buongiorno notte (2004), di liberare Moro dalle mani dei brigatisti (delle mani che hanno una forma e un movimento alterato da pensieri deliranti) e di renderlo, anch’esso, eroico nella sua profonda libertà. Oggi, ancora Castellitto interpreta un regista che, fuggendo da una realtà di crisi e di fallimento professionale, rincorre l’immagine ideale di una principessa che, proprio come Giulia in Diavolo in corpo, deve essere salvata dal matrimonio e dalla depressione. Un’immagine femminile che si presenta bellissima, ricca e misteriosa proprio come l’amalgama complesso degli elementi formali che fanno lo stile di Bellocchio (luci, ombre, colori, inquadrature); perché comunque ormai libera dal dramma della malattia mentale e della vera disperazione.
Eppure, implacabile, torna in questo Il regista di matrimoni la domanda che ci siamo posti fin dall’inizio: chi è dunque l’eroe? Se Franco Elica fa il regista, forse Bellocchio vuole parlare di se stesso? O forse l’eroe è qualcun altro? Un’immagine invisibile, non direttamente rappresentabile e legata a quella, sfuggente, della ragazzetta. Ed è possibile pensare ad un eroe che riesce a non fallire la vita semplicemente perché allontana una donna dal matrimonio coatto ma forse senza veramente amarla neppure per un momento? Se questo film provoca tanti quesiti e tanti dubbi, possiamo permetterci di proporne un altro, l’ultimo: questa volta l’eroe ha veramente salvato la ragazzetta? Per provare a rispondere, c’è solo una strada: vedere il film.

Il Giornale 21.4.06
I compromessi del maestro Castellitto

L'ultimo Bellocchio non è acre come il primo, però nel Regista di matrimoni affiora la rabbia che sosteneva L'ora di religione. La trama - fuga da Roma a Cefalù di un regista di successo (Sergio Castellitto), denunciato per aver preteso «compromessi» dalle attrici - è il pretesto per un'invettiva culminante nella descrizione dei premi ai film, «decisi da un giro di telefonate fra le parrocchie di sinistra e di centro; da quelle di destra no, perché nel cinema non contano un c...», come recita un altro regista, impersonato da Gianni Cavina. C'è poi un terzo regista, quello appunto «di matrimoni» (Bruno Cariello), e c'è il principe siciliano (Sami Frey), parodia del viscontiano principe del Gattopardo. Ognuno è un frammento di Bellocchio, ma alla fine lo è soprattutto il personaggio di Castellitto, che concupisce una «condannata a nozze» non per soggiogarla a sua volta; al contrario: per farla ribellare.
Poi c'è un percorso sottotraccia. All'inizio del Regista di matrimoni, il «maestro» - impersonato da Castellitto - prepara il rifacimento de I promessi sposi di Mario Camerini (1941), film dell'Italia fascista proiettato al collegiale Bellocchio nell'Italia democristiana. Da quel ricordo affiora l'incubo della passività della manzoniana Lucia, che spinge il «maestro» a quasi profanare le nozze della figlia, conformista, dunque devota, durante l'ibrido rito (menorah sull'altare, croce sulla pianeta) in un tempio mezzo chiesa, mezzo sinagoga. Memore del Bellocchio dei Pugni in tasca (1965), il Bellocchio del Regista di matrimoni reagisce: se la figlia si piega, tocca ancora al padre insorgere, ovvero innamorarsi di una sposa destinata a un altro e proprio nella Cefalù dove il sulfureo Aleister Crowley visse di sesso e di magia... Ci sono dunque grandi momenti nel Regista di matrimoni, sebbene esso sia riuscito a metà (respinto dal Festival di Berlino, sarà a quello di Cannes, ma nel Certain regard). È come se il «maestro» fosse tale solo fra virgolette, anzi fra critici che ignorano Godard, idolatrano Almodòvar e Tarantino, considerano la Comencini e rimpiangono il «miglior» Benigni.

primissima.it 20.4.06
Marco Bellocchio

Dal 21 aprile arriva nei cinema l'ultimo lavoro di Marco Bellocchio, Il regista di matrimoni. Un film "comicamente folle", che affronta situazioni familiari molto realistiche, ma con un registro assolutamente lontano dalla realtà. Al centro della vicenda Sergio Castellitto nel ruolo di un regista di professione che, in crisi perché la figlia ha sposato un cattolico catecumenale e perché gli tocca girare l'ennesima versione dei Promessi Sposi, decide di mollare tutto e fuggire in Sicilia.
Si è detto che il film è contro il cattolicesimo oscurantista. E' così?
No, il film non è contro il cattolicesimo oscurantista, o meglio, non lo è specificatamente. L'ora di religione era costruito in un modo per cui il protagonista si scontrava con una invenzione e con una falsità, una messa in scena che era quella della santificazione della madre che lui rifiutava. Ne Il regista di matrimoni lo stile è meno pesante anche se potremmo definire il film una commedia drammatica. Il protagonista è spinto ad impedire un matrimonio di convenienza perché si innamora di questa donna che sta per sposarsi. In questo senso la trama de I Promessi Sposi è capovolta, Franco Elica è una sorta di Don Rodrigo buono che in qualche modo rapisce la donna, infatti il film non si conclude come il libro di Manzoni con il matrimonio di Renzo e Lucia. Ho fatto il paragone con I Promessi Sposi perché all'inizio del film Elica è in un ufficio di produzione cinematografica perché lui è un regista che sta preparando l'ennesima versione de I Promessi Sposi. Ma a questo progetto lui non crede più e allora fugge e lo troviamo in un piccolo paese della Sicilia. Elica rifiuta la struttura drammaturgica e ideologica del libro di Manzoni seguendo un percorso che paradossalmente è esattamente l'opposto.
Franco Elica è un uomo in crisi?
Sì è un uomo in crisi, in crisi d'ispirazione nel suo lavoro ma non solo. Da una parte c'è questo progetto de I Promessi Sposi al quale lui non crede più e dall'altra c'è il matrimonio della figlia. La figlia si sposa secondo il rito catecumenale che è un rito che cerca di ripristinare un certo sentimento forte da parte dei partecipanti, attraverso canti, prediche, ed una serie di azioni che tendono appunto a rilanciare il rito. Cosa che stride con lo stato d'animo di Elica il quale, disapprovando questo matrimonio, si rimprovera di non essere stato capace di impedire alla figlia di sottomettersi a tutta questa farsa. Lui è convinto che questo sia un matrimonio sbagliato, lo sa, e considera una sconfitta il non essere riuscito ad impedirlo.
Nelle note di regia lei parla di un rito che prevede che i due sposi siano prostrati a terra. Cosa l'ha colpita di più, la ritualità o la cieca obbedienza che i due debbono mostrare?
Entrambi gli aspetti della questione mi hanno colpito. Il discorso della ritualità è legato alla cerimonia stessa che si svolge in chiesa, che ha delle regole molto precise alle quali gli sposi devono sottomettersi. Un rito che direi è in crisi, non so se è decaduto, ma è decisamente in crisi in quanto le statistiche dicono che sono sempre meno i giovani che si sposano in chiesa. Un tempo si faceva la fotografia con il fotografo di paese. Adesso ognuno filma, ognuno riprende, e alla fine, siamo impressionati in milioni di immagini. Il matrimonio, ora, quando vuole essere rituale, rischia di essere farsesco. E' come se la potenza di questa rappresentazione avesse cominciato ad impallidirsi, a sfuocarsi, a diminuire di importanza. Rimane il suggello, rimane il contratto. Quello che mi sembra interessante è che con questo contratto i giovani, dico i giovani perché in maggioranza si sposano dei giovani, è come se rinunciassero a una vita meno condizionata, meno scontata e si irrigimentassero in una esistenza socialmente riconosciuta, ordinata, utile.
Mentre invece che cosa pensa della rappresentazione della cieca obbedienza?
E' la rappresentazione di un atto di obbedienza senza porre domande, senza chiedere spiegazioni (come fanno spesso gli attori professionisti) come se per questi sposi la vita, che per fortuna è fatta anche di rifiuti, di disobbedienza, di ribellione all'ordine costituito, fosse già preordinata, e il doppio sì davanti al sacerdote, o anche davanti all'ufficiale di stato civile, fosse come una resa definitiva, incondizionata. Come se entrassero con il matrimonio nel mondo obbediente e razionale dei padri, e dei padri dei padri, che prima di loro si erano sposati. E anche la potenza rappresentativa ormai tende a mediocrizzarsi.

Repubblica 21.4.06
Il film sarà a Cannes nel Certain regard
Castellitto tra Manzoni e la principessa Bona

Le prime inquadrature di Castellitto evocano in automatico "L´ora di religione"; però Il regista di matrimoni è un´"Ora di religione" proseguita con altri mezzi: un film ancor più personale, inconsueto, libero - nello spirito e nella realizzazione - come non se ne vedevano da parecchio tempo. Che la missione autoattribuitasi dal cineasta Franco Elica, salvare da un matrimonio di convenienza la principessa Bona di Cefalù e portarsela via, sia la traccia di una fiaba è chiaro (lo dice lo stesso regista); un racconto iniziatico tale da legittimare, se mai ce ne fosse bisogno, l´andamento onirico e lo sguardo visionario che il film proietta su tempo, corpi e luoghi. Il modo singolarmente rilassato della realizzazione ammorbidisce i toni, vela il film di uno strato umoristico e ironico. Il che non frena impulsi polemici contro il cinema italiano contemporaneo (c´è amore dichiarato, invece, per Fellini, Pasolini, Clair) o la realtà sociopolitica ("In Italia sono i morti che comandano"). Tra i cadaveri dominanti, è compreso un testo sacro come "I promessi sposi", da cui il regista Elica dovrebbe ricavare un film e che il regista Bellocchio, invece, si diverte a rileggere, importandone personaggi e temi nella sua storia per poi ribaltarli con spirito sanamente iconoclasta. Divertenti le sentenze "godardiane" sul far cinema, attribuite al personaggio del Principe di Gravina: "è il film, il film che conta, non il supporto" (tanto per dirimere la vecchia questione) e "il cinema è montaggio". Sia vero o no, il montaggio di Francesca Calvelli è perfetto.
(r.n.)

segnalato da Barbara:
35mm.it
Il regista di matrimoni

Franco, regista, non accetta il matrimonio della figlia con un integralista cattolico ed è in crisi perché costretto a girare l'ennesima versione dei "Promessi sposi". Un evento imprevisto lo spinge a scappare in Sicilia, dove incontra uno strano personaggio che vive riprendendo le nozze altrui, un regista deciso a fingersi morto e il principe Gravina che gli propone di riprendere il film del matrimonio (di convenienza) della figlia Bona. Ma Franco rimane colpito dalla ragazza e decide di sabotare il matrimonio: deve fare i conti con l'ambiguità del padre e con la determinazione di due 'scagnozzi' del futuro sposo, decisi a tenerlo lontano da Bona.

Che momento per Marco Bellocchio, un autore passato attraverso almeno due decenni bui e da qualche anno risorto, capace di sfornare film di densità concettuale e felicità espressiva impressionante. "Il regista di matrimoni" completa una sorta di 'trilogia della crisi', iniziata con "L'ora di religione" e proseguita con "Buongiorno, notte". Prima il pittore Ernesto Picciafuoco, poi la brigatista Chiara, ora il regista Franco Elica. Tre ribellioni, tre ricerche di un finale diverso che combattono il dilagare di un ipocrita sentimento religioso (il primo), l'ineluttabilità della storia (la seconda), il rinchiudersi in una prassi artistica stantia e asfissiante (il terzo).
Franco Elica deve girare l'ennesima versione de "I promessi sposi", ma preferisce la fuga in una Sicilia che è luogo dell'anima, spazio-tempo 'altro' in cui il protagonista può superare i suoi tentennamenti e scegliere l'azione. Quale? Coerentemente, il sabotaggio di un altro matrimonio, quello caldeggiato dal Principe di Gravina tra la figlia Bona e un ricco avvocato di Palermo d'area mafiosa. Elica diventa Don Rodrigo e Bellocchio 'gioca seriamente' a sabotare Manzoni, inanellando sequenze a singhiozzo, sospese, di stampo nouvelle vague, facendo del surrealismo pieno che rimanda al Rene Clair di "Entr'acte" (prontamente citato attraverso un brano di Satie in colonna sonora). Sequenze 'non finite', si, ma nulla è lasciato al caso: Bellocchio gira ogni scena come se fosse l'ultima, curando in maniera spasmodica la composizione dell'inquadratura, rinunciando alle parole ed esaltando la visionarietà pura.
Un cinema apertamente teorico, quello del regista piacentino, che scompone il suo sguardo e moltiplica i punti di vista attraverso i vari registi disseminati nella storia. Uno è Orazio Smamma, simbolo della frustrazione, artista che cerca il riconoscimento e la salvezza tramite un premio (Il David di Donatello) e a tal scopo si finge morto, perché "in Italia comandano i morti". L'altro è Enzo Baiocco, il vero regista di matrimoni che aspirerebbe a raccontare storie ma si limita a riprodurre 'la recita della vita', la finta naturalezza di promessi sposi in realtà ingessati dal rispetto della ritualità.
Franco Elica, rispetto ai due, ha il talento d'intuire che non c'è salvezza ma solo una propensione al movimento, necessario per sfuggire alle tenebre della stasi, dell'istituzione matrimoniale intesa come adesione all'ordine e chiusura. Marco Bellocchio ha invece il talento di fare teoria senza annoiare, di riflettere sul cinema senza risultare autoreferenziale, un guardarsi dentro che combacia col guardarsi attorno e non rinuncia alle taglienti e a tratti grottesche intuizioni sull'Italietta odierna. Ha il merito, Bellocchio, di cercare la vita 'attraverso' e 'oltre' il linguaggio, rivendicando il primato dell'esistenza sull'opera. Un autore 'felicemente disperato' che dipinge quadri nero pece ma non si stanca di abbatterli, di rivoltarsi, di cercare un'apertura verso la luce.

Incontro con Marco Bellocchio e Sergio Castellitto
Tornano a lavorare insieme Marco Bellocchio e Sergio Castellitto dopo "L'ora di religione": li abbiamo incontrati.
di Giorgio Nerone

Il film ha una struttura sfuggente...
Marco Bellocchio: C'è una premessa, la vita di Franco Elica a Roma, poi la fuga in Sicilia, dove parte l'avventura misteriosa e in un certo senso incomprensibile. Abbiamo cercato di lavorare a scene e sequenze in modo da renderle 'non finite', si va avanti in modo 'sospeso'.

Quanto c'è di autobiografico nel film?
M.B.: In qualche modo tutto è autobiografico, ma non in modo diretto. Tutto ciò che si vede sullo schermo dipende dalla qualità della tua biografia, le immagini nascono da lì. La trasfigurazione dipende dalla tua cultura e dalla tua formazione. Personalmente non mi è successo niente di quello che succede a Franco Elica, ma ci sono vari elementi 'miei' disseminati in più personaggi.

Si può dire che il regista interpretato da Gianni Cavina sia il tuo alter ego?
M.B.: Non parlerei in questi eterni. Nelle scene tra Castelletto e Cavina ci sono due artsti che si contrappongono. Ogni artista spera di essere 'riconosciuto' per quello che fa, la differenza è che che il personaggio di cavina è ossessionato da questo riconoscimento, lo cerca in modo 'esteriore' attraverso un premio e questo lo porta all'autodistruzione. La ricerca di Elica è più profonda, riguarda la sua vita più che la sua opera. La salvezza è un'identità personale che non può dipendere da un premio.
Sergio Castellitto: Sono io l'alter ego di Bellocchio nel film! E' un percorso, quello mio e di Marco, iniziato con "L'ora di religione" e approdato qui: ora confido in un terzo film insieme. In entrambi film abbiamo un artista in crisi, ne "L'ora di religione" il pittore Ernesto Picciafuoco faceva i conti con il passato, qui Franco Elica fa i conti con il presente. Rifiuta di fare una cosa (un gesto che considero 'attivo') e, come era scritto nella sceneggiatura, esce di campo a destra e rientra a sinistra. Capisce che la vita e i personaggi che incontra sono fondamentali per lui, rivendica il primato dell'esistenza e dei rapporti umani.

Che tipo di Sicilia hai portato dentro il film?
M.B.: Certamente una Sicilia immaginaria, non si parla dialetto e non c'è folklore. E' il teatro di una fuga: Elica vuole separarsi da un progetto fallimentare e va via. In Sicilia incontra personaggi che lo rimettono alla prova. Ha fallito con la figlia, non impedendo il suo matrimonio, e seguendo un vago intuito ora cerca di rifarsi sabotandone un altro. E' un percorso simile a quello delle fiabe.

Il retaggio religioso ha sempre un peso nei tuoi film. A che punto sei con la religione?
M.B.: Mi sono espresso spesso sull'argomento, credo che in questo momento rivendicare il proprio ateismo sia fuori moda, c'è un esplosione di 'conversioni' sia a destra che a sinistra. La mia non è una dimensione di lotta alla religione, ma di autoriconoscimento come laico. Il personaggio di Cavina ha qualcosa di religioso, crede che il premio lo possa 'salvare'. Ho disseminato simboli e suggestioni quando lui era in scena, come la croce che si accende e poi si spegne, come l'uscita di scena che segnala la preoccupazione per cosa penserà di lui sua madre.

Le donne sembrano non esistere nel suo cinema: sono suore, Lucie, madonne. Un immaginario superato?
M.B.: Ammetto di essere in difficoltà con le donne, ma garantisco che mi piacciono e mi interessano (ride...).
S.C.: In realtà credo che il gesto più forte del film lo faccia proprio Bona, la protagonista femminile. Imprigionato in un ambiente oppressivo, in Sicilia, a poche ore dal suo matrimonio bacia un altro uomo e si lascia 'rapire'. Credo sia un gesto moderno e rivoluzionario. Non penso che il film sia fuori dal tempo, che sia una fiaba: è un film sull'Italia. Solo che il nostro paese è inquadrato dalle quinte, attraverso codici complessi, e non dalla platea. "Il regista di matrimoni" dice cose importanti sulla nostra società.

Che funzione hanno le immagini digitali e come hai lavorato all'alternanza con quelle in 35mm?
M.B.: Volevo che si percepisse un senso di controllo perenne sul protagonista, che sembra spiato costantemente, come se ci fosse un occhio metafisico, l'occhio di Dio. Poi ho integrato gli inserti digitali quando trovavo in loro un valore estetico, una qualità di immagine. Nel film ci sono tre registi, e si riflette in un certo senso una nazione di registi, soprattutto in epoca digitale. Democraticamente parlando è interessante che tutti possano fare il proprio film, ma c'è un surplus di immagini rappresentate che minacciano l'essere rispetto al sembrare.

Una delle battute centrali del film è quella riguardo al fatto che in Italia comanderebbero i morti. Quali morti?
M.B.: Parlo dal mio ambito, il cinema, che mi sembra dominato da vecchie idee. In tempi di strapotere della tv il cinema è una cultura elitaria: a questo punto bisognerebbe puntare sullo spessore estetico, rivendicare un discorso di bellezza dell'immagine che invece mi sembra piuttosto assente nel cinema italiano. Poi c'è un aspetto più cattolico: quando uno è morto, chi vive è tranquillo e quindi può premiarlo. Io fortunatamente sono stato sufficientemente riconosciuto in vita.

Avresti potuto fare questo film dieci o venti anni fa? Avrebbe avuto gli stessi significati?
M.B.: Non so. Ho avuto una lunga carriera, con tappe, fasi e passaggi molto visibili. Le ricerche e le scelte che uno compie si rovesciano sullo schermo. In questo film ho certamente avvertito un andare in crisi molto più accentuato del solito del mio modo di fare cinema. Abbiamo eliminato molte parole per andare oltre la struttura drammaturgica classica del film, che poi è quella su cui mi sono formato. Abbiamo cercato l'essenziale, rinunciando a parole che esprimevano concetti ma restavano inermi a livello di composizione dell'inquadratura.

Castellitto, quale qualità riconosci al modo di lavorare di Bellocchio?
S.C.: Riconosco a Marco la qualità dello stupore. Ha un'autorevolezza che lavora sui dubbi e sulle incertezze, sul non essere certi di cosa scegliere fino all'ultimo istante. L'artista che sa molto bene quello che deve fare è quasi morto, l'artista che si blocca sul bordo del baratro produrrà qualcosa d'interessante. Altra qualità di Marco è la tolleranza: lui è ateo, ma lavora perfettamente con me che sono un credente.

Nel Caimano di Moretti il personaggio polacco definisce l'Italia un paese diviso tra orrore e folclore. Si può dire lo stesso a proposito de "Il regista di Matrimoni"?
M.B.: Non ho ancora visto "Il caimano", lo farò, ma me ne hanno raccontate talmente tante che sento di 'conoscerlo'. Ci sono due differenze fondamentali tra me e Moretti: lui parte dalla parola, io cerco un'altra strada e do il primato all'immagine; lui ha una visione del mondo cupa e disperata, io credo di andare dalle tenebre verso la luce. Mi piace vedere la possibilità di un movimento, di un protagonista che si muove per reagire.

Il manifesto 21.4.06
AL CINEMA - IL REGISTA DI MATRIMONI
Nell'ora di Marco Bellocchio
Il «realismo incantato» come antidoto a un cinema malato. (...)
SILVANA SILVESTRI

Lanciare uno sguardo tagliente sull'Italia degli ultimi anni può essere deleterio per l'opera di un artista, non per Bellocchio di Il regista di matrimoni (oggi nelle sale) che avvolge il racconto in un sorriso imperscrutabile. Bellocchio prende in qualche modo le distanze con il paese ponendo il protagonista (Sergio Castellitto), suo alter ego che gli regala calore, in una sorta di esilio, in Sicilia, da cui avere un'ottica distaccata, e lo allontana da cronache e disastri. Lo immerge in atmosfere che confinano con il passato, come l'inevitabile (al sud) contatto con la nobiltà o quello che ne resta (magioni, giardini monumentali, buone maniere, discendenza, un po' di servitù, collezioni), l'eco di un passato i cui residui si frammentano nelle feste periodiche, nelle cerimonie. Sami Frey, nobiltà cinematografica ottenuta con il suo tempestoso rapporto con la Bardot diventa qui un elemento motore, simbolo di un potere nascosto e misterioso che presiede ai fatti della vita, principe che cerca di interrompere l'inevitabile matrimonio della figlia con il rampollo di una famiglia di nuovi ricchi («e si ricordi che grazie a noi che lavoriamo dalla mattina alla sera che lei può permettersi di fare l'artista»).
Nel vortice dei cognomi improbabili (Smamma, Micetti, Rottofreno: l'Italia è sorprendente anche per questo) il regista Elica come il Picciafuoco dell'Ora di religione si aggira in un ambiente pieno di personaggi reali visti con una certa distanza: lì era l'ambiente clericale con le sue manovre di beatificazione, qui l'ambiente del cinema percorso dal basso verso l'alto. Dalle infime figure di produzione (strepitoso nel suo breve ruolo Maurizio Donadoni), ai patetici personaggi legati al successo e al box office (il disperato regista interpretato da Cavina), alle uniche attività possibili nelle lontane province (il regista di matrimoni appunto, il trionfo della dissolvenza), al proliferare delle videocamere con cui apparentemente si può fare tutto ma non è proprio così semplice (basta vedere le «sue» sequenze digitali).
Bellocchio mostra la differenza in due ore di puro cinema, dove le invenzioni si susseguono e in fondo tutto ruota sulla sua visione del mondo espressa a più livelli e un'idea di base: un regista compie dei sopralluoghi per il suo film, forse lo colpisce un volto di una passeggera e tutto il resto è come ovattato e irreale, come in sogno: la sua vita, i problemi, gli affetti. Per un artista la vita non è così importante come la sua messa in scena. Lo stesso matrimonio della figlia su cui si apre il film, è vissuto dietro un obiettivo, e in più attraverso il velo a fare da filtro flou. Il contrario del trasporto affettivo. E un altro matrimonio incombe nella sua testa, quello che non s'ha da fare tra Lucia Mondella e Renzo Tramaglino, plot dei Promessi Sposi che Elica sta preparando con una propensione decisa nei confronti del romantico Innominato. Sarà lui stesso in fondo a interpretarne la parte, tentando il rapimento della bella principessa (una perfetta Donatella Finocchiaro) che non deve sposare il suo promesso sposo. La sua postazione è la casa della «coppia» tradizionale italiana, una serie di sguardi furtivi, rammendi, lavati le mani, rancori. In questa serie continua di matrimoni Bellocchio ci mostra la sua attuale visione della famiglia, sancita da una cerimonia di tipo tribale, occasione di vedere una piccola fetta dell'intera società.
L'elemento inaspettato nel suo percorso onirico è il suo inedito umorismo che interviene forse a spezzare il racconto che potrebbe lasciarsi incantare troppo dalle atmosfere arcaiche, dalle bellezze naturali, dal folklore: geniale il colloquio di Elica con i cani bruni in tedesco (ich muss sprachen..), entrato nel giardino incantato, il pendant dei due cani bianchi di guardia alla dormiente, le ovvie sentenze sul cinema pronunciate con la convinzione di un critique dal principe (tutti sempre vogliono dire la loro sul cinema e tutti i principianti mettono le musiche di Satie), lo stesso lasciarsi andare alla richiesta di realizzare il film del fastoso matrimonio (una cosa alla Visconti...).

unità.it
I Promessi sposi secondo un "regista di matrimoni"
di Pasquale Colizzi

È fatta più di immagini che di parole, di simboli e segni sostituiti ai dialoghi IL REGISTA DI MATRIMONI, "favola politica" di un maestro del cinema mai pacificato come Marco Bellocchio. Vitale, visionaria, cinica, girata ponendo al centro del racconto il primato della bellezza della visione, arriva a quarant'anni da quel pugno in faccia che seppe essere il crudele lungometraggio di esordio. E a pochi giorni, per il regista, dalla esperienza di candidato alle elezioni politiche (in posizione volutamente defilata) nella lista della Rosa nel pugno. Nel suo coerente percorso artistico, con quasi antipatica scientificità, Bellocchio è sempre stato affascinato dallo smontaggio e l'osservazione di istituzioni fondanti del vivere comune: la famiglia, l'ideologia, lo stato, la religione. Per sottolinearne incongruenze, svelare falsità, rimarcare l'inutilità di certi monoliti.
Per Bellocchio tutto, quasi sempre, ha inizio da una crisi. Quella di Franco Elica (un Sergio Castellitto mutuato dal pittore Picciafuoco de L'ora di religione), regista insoddisfatto che decide di lasciare Roma, come sfuggendo da una situazione che lo soffoca. Non approva la figlia che si è sposata con un cattolico bigotto. Non ha intenzione di portare sullo schermo una pretestuosa versione de "I promessi sposi", tanto per fare un film (anche se poi la storia raccontata da Bellocchio è zeppa di echi manzoniani). La sua "ribellione" lo porta in Sicilia, un luogo che unisce la vastità del mare, la bellezza delle architetture, la natura quasi misterica dei personaggi che incontra. C'è un regista di matrimoni (Bruno Cariello), che fa il suo lavoro con passione, e un altro, Smamma (Gianni Cavina), che si finge morto per ottenere un riconoscimento che gli è sempre mancato. E poi un principe (Sami Frey), che chiede a Franco di girare il film del matrimonio della figlia Bona (Donatella Finocchiaro), reclusa in un palazzo-museo alla Lovecraft. Ma lui si innamora della principessa infelice.
Simboli, dicevamo, più che parole. Uno è dedicato alla vicenda paradigmatica di Smamma. Alla sua fede autodistruttiva nel premio che verrà, come se questo e non altro desse dignità al suo lavoro, Bellocchio dedica l'immagine suggestiva di una croce che nella notte si accende di fuochi d'artificio. E si spegne in pochi secondi. Il regista ha deciso di fingersi morto perchè «in Italia comandano i morti, se sei vivo non conti un cazzo». Facile ritrovare una nota irrisoria sul mondo della cultura e del cinema dominati da totem preistorici, incapaci di rinnovarsi, accasati in quelle "parrocchie" che decidono tutto, compresi riconoscinenti e legittimità di un progetto artistico. Anche da questo è in fuga Franco, che Sergio Castellitto impersona ora perplesso, ora deciso a tutto, capace di slanci generosi e frenate repentine. Il percorso interiore verso la sua idea di libertà lo porterà a boicottare un matrimonio che sembra una resa incondizionata all'ordine razionale "dei padri".
In una storia di per se molto aperta e poco lineare, Bellocchio incastra spesso degli spezzoni girati in digitale che, dice, potrebbero rappresentare sia un occhio metafisico (quasi divino), sia quello onnipresente che oggi sembra spiare le nostre esistenze. A moltiplicare l'effetto straniante una colonna sonora classica ma composta di suggestioni lontane tra di loro: "Ent'acte" di Erik Satie, il melodramma di Pietro Mascagni, musica strumentale degli anni novanta, folklore siciliano e una riuscita versione di "In cerca di te" intepretata da Mariangela Melato (con Renzo Arbore). Una dedica a Donatella Finocchiaro, un'attrice intensa, bella in un senso non comune, la più interessante scoperta del cinema italiano degli ultimi anni. Certo le farà bene vivere ancora a Trecastagni, un piccolo paese aggrappato alle pendici dell'Etna. Lontana dal chiacchericcio spazzatura, parla attraverso i suoi lavori. L'istruttoria di Ninni Bruschetta, un coraggioso spettacolo teatrale, appena concluso, sull'omicidio del giornalista Giuseppe Fava. E in uscita, a breve, Viaggio segreto di Roberto Andò e Non prendere impegni stasera di Gianluca Tavarelli. Se è lei a chiederlo...

panorama.it 21.4.06
Bellocchio, regista contro (il sistema, i matrimoni, il cinema)

Venerdì 21 aprile, distribuito da 01, sugli schermi Il regista di matrimoni, il nuovo film-provocazione di Marco Bellocchio che a Cannes concorrerà nella sezione "Un Certain Regard". Castellitto, regista in crisi e in fuga, si riscatta salvando una principessa triste dalle nozze di convenienza. Una pellicola molto personale che lancia una denuncia sul conformismo, sull'ossessione religiosa e sul cinema italiano
C'è molto Bellocchio, com'è naturale, ne Il regista di matrimoni.
A cominciare dalle ossessioni che hanno lasciato il marchio alle sue ultime pellicole: la crisi dell'artista laico e la critica feroce all'oppressione cattolica, già al centro dell'Ora di religione; ma anche un personaggio femminile in bilico tra due mondi antitetici (come la Maya Sansa di Buongiorno notte).
E infine, c'è la passione che scoppia tra i due protagonisti: Sergio Castellitto, cineasta in fuga da se stesso, e Donatella Finocchiaro, principessa triste destinata a nozze di convenienza.
Un cocktail complesso, con alcuni momenti perfino comici: un'opera che si gioca su più strati narrativi. Con la solita cifra di Bellocchio: assenza di linearità e plurime interpretazioni.
La trama prende inizio, appunto, dalla crisi che investe l'antieroe della pellicola, l'acclamato regista Franco Elica (figura simile al pittore Picciafuoco dell'Ora di religione, se non altro perché a interpretare entrambi è Sergio Castellitto).
Segnato dal matrimonio della figlia con un integralista cattolico, impegnato nell'ennesima preparazione della fiction sui Promessi sposi, al centro suo malgrado di uno scandalo sessuale, il cineasta fugge in Sicilia a ritrovare se stesso, tra le chiese e il mare di Cefalù.
E qui prende inizio l'avventura, una serie di incontri che cambieranno la sua vita. A cominciare da quello, casuale, con un regista di matrimoni, (Bruno Cariello), che lo ospita a casa sua e grazie al quale conosce un altro collega (Gianni Cavina) che pur di trionfare ai David di Michelangelo (evidente parodia dei David di Donatello) si finge morto e ovviamente riesce a strappare la vittoria postuma.Ma Castellitto-Elica si imbatte anche nel principe decaduto di Palagonia (Sami Frey), che ha destinato la bella figlia (Donatella Finocchiaro) a un matrimonio di convenienza; ovviamente tra i due si accende la passione e Castellitto, invece di girare il film sul matrimonio - come gli viene richiesto dal padre della sposa - fa di tutto per impedirlo. Sottraendo la ragazza a un destino di sicura infelicità.
Insomma una storia a lieto fine, per Elica. Al contrario di quella, tragica, del collega Smamma.
Un personaggio che a Bellocchio serve per esprimere la sua critica nei confronti del sistema nella sua complessità. Polemica che si esprime anche in una frase tormentone: "In Italia comandano i morti".
Perché, come ha spiegato lo stesso Bellocchio in conferenza stampa, "Nel nostro Paese non c'è alcun rinnovamento: nel cinema cambiano le persone, ma le idee sono vecchie. E comunque, in generale, di geni postumi è piena la storia dell'arte: basta pensare a Van Gogh...".
Ma il film è anche la storia di profondi legami che segnano l'esistenza umana: "i due personaggi (Elica e Smanna, ndr) si contrappongono perché mentre il primo cerca un'identità profonda, che riguarda innanzitutto la sua vita personale, il secondo è ossessionato da un riconoscimento che lo porterà all'autodistruzione", ha detto Bellocchio, parlando del film come di "un'opera molto personale".
Senza nessun riferimento alla contrapposizione dei due registi protagonisti del film, Bellocchio parla anche della differenza tra sé e Nanni Moretti (anche lui a Cannes con Il Caimano): "Non l'ho ancora visto ma conoscendo tutti gli altri suoi film, posso dire che me e Moretti ci sono due grosse differenze.
Primo: lui è un regista di parole, io di immagini. Secondo: la sua visione del mondo è assolutamente cupa, disperata; nel mio film, invece, c'è un tentativo di andare dalle tenebre alla luce".
Ecco un altro spunto di riflessione che il regista affida agli spettatori. Oltre alla denuncia, forte, del conformismo (la metafora stessa del titolo: matrimonio come metro di lettura della convenienza) che si nasconde dietro tante azioni e tanti modi di pensare.

kataweb.it 21.4.06
Il regista di matrimoni

Autore: Lietta Tornabuoni - Testata: La Stampa
«Il regista di matrimoni» di Marco Bellocchio, molto bello, comincia con un forte applauso: il battimani ritma l'«Osanna» alla cerimonia nuziale della figlia di Sergio Castellitto, celebrata con estasi mistica espressa dalle facce dei celebranti e degli astanti pervase di santa letizia. Magnifico. Una maestrìa cinematografica rara. Questa sequenza basta a dire tanto: la gelosia d'un padre, l'irritazione d'un ateo per il ritorno d'una fede a cui non crede e per la pronta neo-religiosità d'una borghesia a cui appartiene odiandola, l'alterazione mostruosa che gli sembra di vedere sulla faccia della figlia, la crisi che il protagonista attraversa. (...) Un talento grande di Bellocchio è quello di saper armonizzare al meglio stile e idee, perfezione formale e comunicazione di pensieri ed emozioni: comunque lo si guardi, «Il regista di matrimoni» sarà sempre bellissimo.

Autore: Alberto Crespi - Testata: l'Unità
(...) Il regista di matrimoni è fatto di contraddizioni: ateismo/fede, bellezza/bruttezza, famiglia/individuo, finzione/documentario, immagine filmica/immagine digitale (...). è anche un film sul tempo, sui sogni che irrompono nella quotidianità e le danno nuovi significati (...). Lo stesso Bellocchio ha parlato di una metà del paese «in catalessi», insensibile ad ogni stimolo, adagiata nella virtualità televisiva in cui le balle di Berlusconi sembrano vere. Ebbene, Il regista di matrimoni è un film su questa Italia, e sulla necessità, per un artista, di confrontarsi con le sue sonnacchiose abitudini (...). Qualcuno dirà che un film così permeato di sogni riguarda solo il suo artefice. E facile ribattere che i sogni parlano di noi. Il regista di matrimoni è profondamente bunueliano (...). E pochi film francesi raccontano la Francia (l'Europa) anni '70 meglio di Il fascino discreto della borghesia, Il fantasma della libertà e Quell'oscuro oggetto del desiderio, girati dallo spagnolo Bunuel a Parigi fra il '70 e il '77. Bellocchio ha girato un film sull'Italia di oggi degno di quei tre capolavori: decifrarlo, se ne siamo capaci, sta a noi.

Autore: Sandro Rezoagli - Testata: Ciak
(...) Autobiografia (?) di un cineasta in crisi creativa? Riflessione sul cinema minacciato da altri linguaggi? Analisi del rapporto sempre più problematico tra l'artista e la società? Il regista di matrimoni è tutto questo ma non solo: perché non è un film a tesi ma un'opera magmatica e "aperta", come si sarebbe detto un tempo. Che procede, vitalissimo e con un'idea a ogni inquadratura, tra convulsioni, lirismi, scatti e momenti di quiete. Un sogno, forse, a occhi aperti e cinepresa (e telecamera digitale) accese. Perfettamente interpretato (...)

cinespettacolo.it 21.4.06
Il regista di matrimoni
C’è tutto Bellocchio in questo film complesso e visionario sospeso fra passioni, religione, denunce

Se è vero, come afferma Marco Bellocchio - cineasta dallo sguardo puro e ancora ribelle - che i suoi film nascono da un’immaginen’immagine (“il cinema è montaggio” conferma il regista de I pugni in tasca), da un’intuizione, da un’istantanea della realtà (o del sogno), allora si può ben dire che Il regista di matrimoni è un’opera complessa, affascinante e emozionante, interamente costruita sulla consequenzialità di immagini non finite, surreali e poetiche, nate dallo sguardo di un regista coerente, che lasciano lo spettatore libero di interpretarne il senso. Per questo, e per mille altri motivi, Il regista di matrimoni è una perla d’autore che ben coniuga i toni della commedia ad atmosfere da thriller, intervallando momenti di denuncia politica e culturale (“In Italia sono i morti che comandano”, “i registi della nostra generazione sono finiti perché incapaci di vivere”, “meglio sparire, da morti contiamo di più”) che ne esaltano il valore.

Il plot ruota intorno alla figura di Franco Elica (uno straordinario Castellitto capace di sfumare ogni espressione e ogni gesto), regista in crisi per nulla rassegnato al suo destino – sulla sua carta d’identità c’è scritto: professione studente – il quale, dopo aver assistito inebetito al matrimonio di sua figlia con un fervente cattolico neo catecumenale, ed essersi ritrovato in fase di stallo per l’ennesimo remake di un lungometraggio su I Promessi Sposi, fugge in un remoto paesino della Sicilia dove fa strani incontri. Il primo è con Enzo Baiocco (Bruno Cariello) un artista mediocre che si guadagna da vivere realizzando filmini di matrimonio. Il secondo è con il collega cineasta Smamma (l’ottimo Gianni Cavina) il quale, reduce dalle deludenti critiche che avevano accolto il suo ultimo film intitolato La madre di Giuda, qualche giorno prima aveva inscenato un finto incidente stradale mortale per uscire di scena (“c’è un solo modo di vincere ai David di Donatello: morire” confessa a Elica).

Tra gli incontri fatali di Franco Elica, in una terra di Sicilia avulsa dal folklore e intrisa di mistero, c’è quello con la principessa Bona Gravina (Donatella Finocchiaro) figlia di un principe in bolletta (Sami Frey) costretta ad un matrimonio d’interesse per salvare le proprietà di famiglia. Spinto dalla sua bulimica passione per l’arte, il principe Ferdinando Gravina di Palagonia affiderà a Franco Elica la realizzazione del film del matrimonio di sua figlia. Ma, tra il regista in crisi e la principessa triste sboccerà una passione amorosa alimentata anche dalle suggestioni manzoniane di un romanzo, I Promessi Sposi, destinato – almeno nello sguardo lavico di Bellocchio - ad un altro finale.

Serenate al chiaro di luna e ville abitate da fantasmi, cripte semibuie e paesaggi marinari, sequenze in digitale sposate al bianco e nero granuloso di Camerini, atmosfere viscontiane e spose nude sulla sabbia. Tra atmosfere visionarie e tocchi godardiani, Il regista di matrimoni si conferma uno dei film più personali (anche se non autobiografico) di Bellocchio. Un’opera scritto ispirandosi alla voglia di riscatto di un uomo nei confronti delle ingiustizie, o, allargando la visuale, di una società nei confronti dell’omologazione. Un uomo che con uno scarto improvviso, mosso dal coraggio e dalla forza di un sentimento potente e ineludibile come l’amore, coglie il trionfo nel lieto fine di una fiaba eterna. E si ribella all’ineluttabilità di una storia apparentemente già scritta.
“La cosa più importante? E’ il film, non il supporto” è la frase cardine che sottolinea l’innamoramento di Bellocchio alla settima arte. Un’adesione totale, fisica e spirituale, che in questo film generosamente si accende sullo schermo.

“E’ un film pieno di riferimenti non casuali, di simboli, di atmosfere. E’ un’opera dalla struttura drammaturgica coerente che procede per sequenze non finite, andando avanti ma in modo sospeso, spiega Marco Bellocchio. Le mie immagini? Dipendono dalla mia avventura umana, dalla qualità della mia vita. In questo senso il film può essere definito autobiografico, ma quello che capita a Elica a me non è capitato. Credo nel potere delle immagini e nelle parole piene di forma: la storia dell’arte è piena di geni postumi”.

dagospia 21.4.06
http://213.215.144.81/public_html/23000-23999/articolo_23749.html

Marco Bellocchio, nel giorno dell’uscita nelle sale de ‘Il regista di matrimoni’, stamattina era ospite di Viva Voce, a Radio24. Nel bel mezzo dell’intervista con Giancarlo Santalmassi ha fatto irruzione un ascoltatore speciale al telefono. Doveva essere un qualunque Marco da Roma (questo il nome lasciato alle centraliniste della radio. O così, almeno, hanno capito) e invece era Massimo Fagioli, il noto psichiatra e amico di vecchia data del regista, che è pure stato suo paziente. “Due compari che si conoscono da tanto tempo”, li ha ribattezzati, divertito, Santalmassi. Fagioli, che ha firmato insieme a Bellocchio più di un film, ha cercato di strappare qualche cattiveria al regista: “Dillo chiaramente – lo ha incitato – che il tuo è cinema e quello di Moretti no. Che l’uso del bianco nero che hai fatto tu è molto meglio di quello di Bertolucci in The Dreamers!”. Ma Bellocchio ha, con molta diplomazia, aggirato ogni assist alla polemica.

xtm.it 27.4.06
Marco Bellocchio
Il regista di matrimoni
di Simone Cosimi

In un profondo, affascinante trip onirico Marco Bellocchio rivendica ancora una volta la sua testarda posizione di guastafeste del cinema italiota. “Il regista di matrimoni” è un film bellissimo, ingiustificato e vertiginoso, dentro al quale è ovvio perdersi e dentro al quale è inutile – anzi dannoso – cercare nessi, di qualsiasi tipo. Siano narrativi o logici. C’è solo il linguaggio – nervoso, irrazionale, surrealista – a tenere le fila. Una cavalcata fra Buñuel e “I promessi sposi”, fra Kafka e Tomasi di Lampedusa, fra Godard e Mario Camerini. In un vortice allucinato, fitto fitto di rimandi, citazioni e trapianti che, però, si sviluppa in una sintesi virtuosa, tirando fuori qualcosa a metà strada fra un racconto di Calvino e - non c'è altro referente – un film di Bellocchio. Tutto ciò (anche) grazie all’eccellente montaggio, sul quale le diverse componenti del film, fra le quali anche inquadrature low-resolution bianco/nero (che fanno da camera-spia rispetto al protagonista: chi lo spia? Chi lo scruta?), si innestano in un continuum di strappi e violenze. Ad ogni modo, una storia – un po’ fantasmagorica - c’è, sotto. Anche se sembra una sorta di riedizione dei Promessi sposi con l’insigne regista Franco Elica (Sergio Castellitto) nei panni dell’Innominato che, invece di liberare Lucia, tenta di tenersela e sedurla. Scappato da Roma – dove per lui, fra crisi creativa e magagne kafkiano-giudiziarie, tira una brutta aria – e sbarcato in una Sicilia barocca, inquietante e però universale, Elica si imbatte in un registucolo locale che campa girando filmini matrimoniali. Costui, incondolo per caso, gli chiede qualche dritta. Elica accetta. E addirittura, col trascorrere dei giorni e del soggiorno a Cefalù, viene ingaggiato dal polveroso principe di Gravina (Sami Frey), il quale pretende che Elica filmi il matrimonio della figlia, la principessa triste Bona (Donatella Finocchiaro). Elica accetta ma, appurato che lo sposalizio è organizzato per salvare le scassate finanze dei Gravina, intraprende una missione controcorrente e a suo modo donchisciottesca: salvare Bona dalla trappola. Portare Lucia sulla sua strada. Farne una bad girl, insomma. Aprirle gli occhi. Nel corso del soggiorno, gliene succedono di tutti i colori. Anche di incontrare il suo doppio, un regista del quale aveva appreso la presunta morte giorni prima – tale Smamma, e attenzione ai cognomi nell’universo-Bellocchio – che si era dato per morto pur di veder vincere un suo film al David. Convinto che “in Italia, nel mondo, dappertutto sono i morti che comandano”. Attraverso le ripetute conversazioni con Smamma, Elica esorcizza sé stesso, capisce cosa non vuole essere, quasi si purifica. Ma, davvero, ridurre a sintesi un film del genere è operazione insensata. Perché nel “Regista di matrimoni” ogni sequenza è fondamentale: non c’è uno snodo centrale, l’equilibrio è pericolante. Dimenticando una sequenza, cede l’intera struttura. Il mood è mefistofelico e carnale. Sergio Castellitto – di suo già parecchio allucinato – veste alla perfezione i panni di un ovattato ma geniale antieroe della cinematografia odierna. Un po’ burattino, un po’ burattinaio, guida lo spettatore in un metaviaggio alternato fra realtà e sogno (personale), i cui snodi sono il cinema, l’amore, la realizzazione dell’essere umano. Il finale, beffardo e, al solito, galleggiante, lascia almeno tre o quattro possibilità. La regia è assolutamente pesante: si sente l’obiettivo invadente e sfocato di un artista, Bellocchio, al quale tanti giovani che stanno crescendo oggi – mi riferisco ad esempio a Louis Nero col suo “Hans” – devono davvero molto. Ecco: è un po’ come quando ci si sveglia di notte, magari intorno alle tre, e con gli occhi ancora impastati, la vista sfocata e il cervello sottosopra. Si scende dal letto. E si gira per casa, sapendo dove si vuole arrivare, ma facendolo con cambi di rotta, tentennamenti e dondolii continui. Un film liquido, “Il regista di matrimoni”. Ma che, a ben vedere, parla anche di una certa Italia, di un certo mondo artistico, di un certo smarrimento post-moderno comune all’uomo-liquido dei nostri tempi.

step1magazine.it 27.4.05
Il regista di matrimoni
di Adriana Barrera

Marco Bellocchio ripropone dopo quasi tre anni nello scenario del cinema italiano d’autore l’ennesimo capolavoro di regia: “Il regista di matrimoni”. Il viaggio onirico ma fortemente reale di un uomo in quel che resta della Sicilia arcaica nel nostro tempo

Sembra che Bellocchio riesca sempre a sconvolgere il suo spettatore. Infatti ci si allontana dalla sala con la mente annebbiata da forti visioni scomposte e con l’imprecisa sensazione di avere vissuto il sogno di qualcun altro.

L’idea di quest’ultimo film, secondo le dichiarazioni fatte dal regista in conferenza stampa, prende forma nella sua mente in seguito ad un evento autobiografico poi fedelmente riprodotto nella pellicola. Il protagonista del film, Franco Elica (guarda caso un regista), un grande Sergio Castellitto, seduto in una spiaggia della costa settentrionale sicula nei pressi di Cefalù, per caso osserva annoiato le riprese di un filmato privo di originalità che un fotografo inesperto e suo grande ammiratore (Maurizio Donadoni) gira ad una coppia di giovani sposi e, dopo un insistente invito del fotografo, accetta di farlo a suo modo, secondo il proprio stile di regia. Dopo il successo del primo filmato, girato a sua arte, accetta di svolgere le riprese del matrimonio d’interessi di Bona Palagonia (Donatella Finocchiaro) figlia bellissima dell’ormai decaduto Principe di Palagonia (Sami Frey, attore già apprezzato da Godard e Clouzot) per cui Elica perderà il senno e la ragione oltre che rischiare seriamente la vita.

Bellocchio racconta di aver vissuto una scena simile a quella della spiaggia in una caletta nella zona di Cariddi e da lì di aver imbastito la storia di un regista confuso e disorientato (sarà autobiografico?) che fugge dalla propria vita privata e lavorativa (si accingeva a realizzare le riprese cinematografiche dei “Promessi Sposi”) per essere travolto dall’attrazione e dall’amore per una donna e per la sua terra.

In realtà, in un incipit volutamente affrettato e confuso rispetto al resto del film, si accenna confusamente ai motivi della fuga di Elica (i nomi non sono mai stati scelti a caso da Bellocchio): la partecipazione al matrimonio di sua figlia con un neocatecumenale e la propria conseguente crisi non tanto mistica quanto intellettiva di uomo ateo sconvolto da una cerimonia svolta tra canti e danze confuse degli invitati, cerimonia a cui la figlia partecipa con uno sguardo assente. A queste immagini di tragica comicità il regista de “L’ora di religione “ ha abituato il suo pubblico sviluppando in esso una strana, piacevole aspettativa verso la critica al bigottismo più bieco e a quel tipo di trasporto spirituale che sfocia nel fanatismo.

La fuga da una realtà che lo disorienta e a cui non riesce a reagire attraverso la sua arte è suffragata dall’ incapacità a realizzare un prodotto cinematografico su una storia troppo “classica”, I promessi Sposi, per un regista complesso quale Franco Elica si presenta. L’argomento trito e ritrito della fede come salvezza rischia di trascinarlo nella banalità se non intervenisse il genio, l’”illuminazione” della differenza, di ciò che, forse involontariamente, può essere l’unico elemento di congiunzione tra Elica e il romanzo: la figura dell’Innominato e la sua conversione. Bellocchio riesce a capovolgere il significato dell’opera manzoniana costruendola su misura del regista ateo: …e se fosse l’Innominato a trascinare Lucia verso l’ateismo e non viceversa?

La realizzazione di una parte del film in Sicilia propone scene di alta bellezza che dipingono la sacralità di questa terra e i suoi culti semi pagani attraverso cui Bellocchio sembra quasi far pace con il rito cristiano, apprezzando la carnalità e la dolcezza della processione del Cristo morto o le fantasie ossessive rappresentate dai mostri dell’eccentrica villa Palagonia a Bagheria.

Infine, ma non per ultimo, la nota forse più stridente del film, la più contestata e, personalmente, la più apprezzata: l’invettiva scagliata dalle parole di un collega di Elica, il regista Smanna (Gianni Cavina) verso l’incapacità della “Critica” a premiare i validi registi in vita e non post mortem. Smanna, dato per morto dai giornali e dalle televisioni, si rifugia come Elica in una terra di confine per assistere pazzo e glorioso alla sua vittoria del David che nel film si dice di Michelangelo. Nella stessa spiaggia in cui Elica decide di cambiare il soggetto delle sue riprese per ritrovare se stesso e la perduta passione per la regia, Smanna, folle e profetico, scaglia la sua invettiva furiosa contro la critica cinematografica italiana, inscenando una morte pubblica quale novello personaggio pirandelliano, per avere ragione della sua teoria: “In Italia comandano i morti”. Si riferirà al David andato a Massimo Girotti per “La finestra di fronte” qualche mese dopo la sua morte?

Il finale comunque sembra, come per “Buongiorno notte”, parlare di un futuro diverso a cui tendere, poiché dopo un viaggio nel sogno o nell’incubo delle ossessioni la fine è sempre liberatoria.

giovedì 20 aprile 2006


avvenimentionline.it 20.4.06
Moretti e Bellocchio in corsa per Cannes
Due film opposti, ma che riaprono il discorso sul cinema italiano. Che sembrava morto, ma era solo svenuto. Entrambi iniziano con uno sposalizio: nel nome di Mao, Il Caimano; nel nome di Dio, Il regista di matrimoni.


È singolare che Moretti e Bellocchio, pur senza passarsi la voce, abbiano realizzato due film, Il Caimano e Il regista di matrimoni, profondamente diversi nello stile e nella morale della favola, e tuttavia con tanti punti significativamente in comune. Il Caimano è sotto gli occhi di tutti, beneficiario e in parte vittima di un battage mediatico, che, a nostra memoria, trova riscontro solo in quello che nel 1960 accompagnò l’uscita de La dolce vita.

Il regista di matrimoni uscirà il prossimo 21 aprile; ma ne parliamo con cognizione di causa, avendolo potuto vedere in una copia di lavorazione, ancora priva dei titoli di testa e di coda. Entrambi iniziano con un matrimonio: nel nome di Mao, quello di Moretti; nel nome di Dio, quello di Bellocchio; finto, il primo (è la scena di una “commediaccia” dal titolo Cataratte, che ironizza sui rituali marxisti-leninisti); reale, il secondo; tutti e due “disturbati” dal gesto improvviso di uno dei personaggi in causa. Entrambi parlano di cinema, del cinema italiano in ispecie, che diviene metafora del nostro paese (secondo noi è il loro tema principale, il tema che fa da guida alle storie che raccontano). Entrambi hanno per protagonista un cinematografaro “sfidato”, scontento di ciò che fa, ma costretto a farlo, anche per necessità di sopravvivenza. Diversa, addirittura opposta, come dicevamo, la morale della favola. Bellocchio nelle sue note di regia, che fungono da dichiarazione d’intenti, parla di un film che è stato girato dal buio verso la luce (ma sarà vero? Non è che, strada facendo, Bellocchio abbia optato per un finale aperto? Onirico quanto il finale di Buongiorno notte? È un dubbio che lasciamo agli spettatori che andranno a vederlo). Dal canto suo, Moretti non ha dichiarato nulla; ma le sue immagini parlano da sole. Il suo film, questo è certo, è stato girato dal buio verso tenebre ancor più fitte, rischiarate soltanto dalle fiamme dell’incendio, che i supporter del “Caimano” appiccano al tribunale dopo la condanna del loro leader. E anche qui potremmo porci la stessa domanda di prima: se siamo di fronte a una pura e semplice finzione, oppure a un incubo che agita Moretti in questo particolare momento, vissuto dal paese, paese lapidariamente descritto dal produttore polacco, che dovrebbe finanziare Il Caimano («La vostra Italietta in bilico tra orrore e folclore… Sembra sempre che abbiate toccato il fondo, invece continuate a scavare!»).

Del resto, anche Bellocchio inventa un personaggio, che in altri termini fa pressappoco lo stesso discorso. È il regista che si dà per morto, al fine di vincere finalmente il David, che finora gli è stato pervicacemente negato: il modo più spiccio, egli dice, per dimostrare che nel cinema italiano sono i morti a fare aggio, che l’Italia tutta è un paese dominato dai morti. “Morti viventi” come quelli di Romero? Può darsi.
Il Caimano e Il regista di matrimoni sono due film complessi, sulle cui trame appaiono stratificate parecchie tematiche, non sempre decrittabili a prima vista. Alcune riguardano la vita pubblica, altre quella privata. A privilegiare i temi che fanno più comodo, si commette nei loro confronti una palese ingiustizia. Riassumerne il senso, dicendo che Il Caimano è un film «su Berlusconi», così come Il regista di matrimoni sarebbe un film «sul matrimonio, elevato dai cristiani a dignità di sacramento», significherebbe fare loro un grave torto. Perché, se questi fossero stati i loro rispettivi progetti, entrambi avrebbero fallito lo scopo. Di Berlusconi nulla dice Il Caimano che già non si sappia da tempo, e tuttavia un gran numero d’italiani ha continuato a votarlo. Se il suo obiettivo fosse stato quello di fargli perdere voti (o guadagnarne altri, come molti a sinistra temevano prima della uscita del film), è pacifico che si rivelerebbe un’arma spuntata, del tutto ininfluente sulle sorti della campagna elettorale in corso. Il regista di matrimoni, poi, condurrebbe una battaglia di retroguardia, fuori tempo massimo, in un paese, come l’Italia, in via di rapida secolarizzazione, dove le coppie di fatto sono in procinto di divenire maggioranza, tanto vero che ci si sta battendo al fine di riconoscerle sul piano legale. Né si può sostenere che la Sicilia, dov’è ambientato il film, sia un “altro paese”. Lo sarà per il perdurare del potere mafioso (vedi il documentario di Marco Turco); di certo non per il perdurare del potere ecclesiastico sul destino delle coppie, siano esse riconosciute ufficialmente o di fatto.

Tuttavia - questo va detto - entrambi i film fanno fatica a dominare la stratificazione delle varie tematiche. Il Caimano più de Il regista di matrimoni, nella misura in cui Moretti più di Bellocchio rimane più libero sotto questo aspetto. Difatti il suo film ricorre alle volte con grande disinvoltura a citazioni dadaiste e a stilemi un tempo cari a Bunuel. Per farla breve, sono film che possono disorientare il comune spettatore e, comunque, obbligano il recensore a pensarci su più volte prima di emettere un giudizio. Però sono questi i film che possono riaccendere oltre confine l’attenzione verso il nostro cinema, così come i film di Reygadas e di Inàrritu hanno d’improvviso illuminato il cinema messicano, di Kim Ki-duk quello sudcoreano, di Kiarostami, Panahi e tanti altri ancora, l’iraniano. Il prossimo festival di Cannes, che con tutta probabilità ospiterà sia Moretti che Bellocchio, e non è detto che sia sordo al richiamo dei nuovi film di Roberta Torre e di Emanuele Crialese, anch’essi in dirittura di arrivo, ci dovrebbe dire se il cinema italiano, che ultimamente molti credevano morto, era invece soltanto svenuto.


Corriere della Sera Milano
20.4.06
Un regista in crisi, che dovrebbe girare un’ennesima...
di Alberto Pezzotta

Un regista in crisi, che dovrebbe girare un’ennesima versione dei «Promessi sposi», fugge da Roma: e progetta di rapire la sposa siciliana di cui dovrebbe filmare le nozze. Con «Il regista di matrimoni», Marco Bellocchio torna a dirigere Sergio Castellitto e a coltivare i terreni del grottesco. Con una mano insolitamente lieve. Oggi incontra il pubblico all’Anteo; da domani il film è nelle sale. Bellocchio, perché partire dai «Promessi sposi»?
«L’idea è nata quasi per caso. Poi hanno funzionato una serie di concatenazioni e corrispondenze: la figura dell’Innominato, con cui si identifica il mio protagonista; il tema della conversione che, se vogliamo, riporta all’"Ora di religione"».
Qual è il suo rapporto col romanzo di Manzoni?
«In un’Italia democristiana e cattolica non solo venivamo obbligati a studiarlo: stava nella biblioteca di famiglia, era una specie di Bibbia. Su mia figlia, oggi, credo che non lascerà nessuna traccia. Ma durante la mia infanzia, ha fatto un lavoro disastroso sul mio equilibrio psichico. La parte della peste, in particolare, ha rappresentato il terrore allo stato puro. Anche perché si legava ad altre paure, come quella del comunismo».
«In Italia comandano i morti»: questa frase, che si sente spesso nel film, è adatta all’Italia contemporanea?
«Mi riferivo alla cultura e al cinema, dove non spira un vento non dico rivoluzionario, ma neanche riformatore: dominano vecchie idee difese da persone che di vivo hanno poco. Ma a due settimane dalle elezioni, riaffermerei quella frase in senso più universale. C’è una metà d’Italia in letargo, morti che speriamo possano risvegliarsi, ma sono stati addormentati dalle bugie di un uomo e dalla sua armata televisiva».
Perché la scelta di Cefalù e della Villa dei Mostri di Bagheria?
«Il mio personaggio fugge verso il mare: e cercavo un Sud immaginario, reale ma non realistico. Mi piaceva anche il contrasto tra le parti antiche e quelle moderne. Non volevamo denunciare le brutture: ma in Sicilia l’orrore edilizio è più accentuato, quasi che ci sia un piacere della distruzione».
Che cosa rappresentano le immagini video in bianco e nero, che ogni tanto si alternano alle altre?
«La razionalità deve sempre venire per ultima, meno c’è e meglio è. Comunque mi interessava dare l’idea di un controllo cui siamo talmente abituati che ormai non ci facciamo più caso. Potrebbe essere l’occhio di un Grande Fratello, che viene accettato in modo sempre più indifferente, senza che la gente si renda conto del rischio. Come nell’"Invasione degli ultracorpi": dietro una normalità apparente, c'è un vuoto totale».


Repubblica.it 19.4.06
CINEMA: BELLOCCHIO, MI INTERESSA RICERCA SULLE IMMAGINI

Un film riuscito: la nuova opera che con probabilita' sara' al prossimo festival di Cannes, segue il filo dell'affascinante ricerca sulle immagini indefinite, esattamente l'opposto delle scene piatte, amorfe e fredde con un inizio e una fine, dialoghi e parole.
E' la caratteristica originalissima, emersa prima con 'L'Ora di Religione' poi con 'Buongiorno, notte', del film, 'Il regista di matrimoni' del 63enne regista piacentino Marco Bellocchio che afferma: "piu' dei dialoghi e delle parole, a me interessano le immagini, perche' il cinema per me e' ricerca sulle immagini".
E 'Il regista di matrimoni' nelle sale da venerdi' prossimo esce dopo 'Il Caimano' di Nanni Moretti: due registi entrambi 'di sinistra' ma dai percorsi e stili profondamente diversi. "Moretti e' il regista di racconti e parole, del super-Io narcisista, e' il Profeta; Bellocchio e' invece il regista che insegue l'immagine, costringe a viverle con tutta la suspence che le avvolge ed e' la particella di un movimento cosmico che non fa profezie", nota il docente di Storia e critica del cinema all'Universita' di Napoli, Valerio Caprara. (Agi)


Il Quotidiano della Calabria 20.4.06
Un conto aperto con il presente

ROMA - La figura dell'artista in crisi sembra essere particolarmente gradita alla magica coppia Marco Bellocchio-Sergio Castellitto. Dopo aver portato sul grande schermo il pittore Ernesto Picciafuoco, protagonista de "L'ora di religione", queste due colonne del cinema italiano propongono ora Franco Elica, personaggio attorno al quale ruota la storia de "Il regista di matrimoni" (nelle sale dal prossimo venerdì). Una commedia caratterizzata da alcuni tratti scuri e da un marcato spirito analitico che parte dall'assioma secondo cui la crisi di un'artista è il sintomo della crisi della società in cui vive. Castellitto veste infatti i panni di un cineasta alle prese con una fase difficile della sua esistenza, priva di verve creativa, segnata da una torbida vicenda giudiziaria e dalla delusione per le nozze della figlia con un fervente cattolico. Deciso a ritrovare gli stimoli perduti Franco Elica abbandona il progetto a cui stava lavorando - una versione de "I promessi sposi" - e si trasferisce a Cefalù, dove conosce un uomo che si guadagna da vivere girando filmini per matrimoni e un collega (Gianni Cavina) che si spaccia morto nella speranza di ottenere il David di Donatello. Ma è l'incontro con il bizzarro principe Gravina di Palagonia (Sami Frey) che cambierà per sempre la sua vita: il nobile gli commissionerà infatti il film delle nozze della figlia Bona (Donatella Finocchiaro), ragazza splendida e docile vittima di un'unione di convenienza.
Il regista sarà totalmente abbagliato da questa donna, se ne innamorerà e cercherà in tutti i modi di sottrarla all'infausto destino che l'attende. Prodotta da Eurimages, Film Albatros, Rai Cinema e Dania Film, la pellicola è distribuita da 01 Distribution. «E' un film che ha una sua struttura drammaturgicamente definita ma che procede con scene e sequenze non finite - ha dichiarato ieri Marco Bellocchio durante la conferenza stampa del film -. E' come se cercasse di andare avanti in modo sospeso. Non si può definire un'opera autobiografica in senso stretto, ma penso che in ogni pellicola confluiscano tutte le esperienze e le avventure della mia vita». Sulla scelta della Sicilia come scenario della storia il regista precisa che «si tratta di una Sicilia immaginaria».
«Non ci sono quegli elementi tipici del folklore di questa terra perché io in realtà non volevo parlarne. E' semplicemente un luogo di mare affascinante e sospeso nel tempo». Inoltre, sul suo rapporto con la religione ha aggiunto che in «ogni suo film c'è il proprio autoriconoscimento di non essere un credente». «Credo che oggi affermare il proprio ateismo sia molto fuori moda perché vedo un'esplosione di conversioni a destra e a sinistra, ma vorrei che la mia scelta venisse rispettata di più».
«Questo film rappresenta per me la seconda tappa di un cammino che parte da 'L'ora di religione', e che spero approderà ad un terzo episodio, legato alla crisi d'identità dell'artista - ha detto invece Sergio Castellitto-. Con la differenza che nel precedente titolo il protagonista,doveva fare conti con il passato mentre qui il regista è costretto ad affrontare il presente. Franco Elica si accorge solo quando è giunto lontano da casa che i soggetti reali, di quella Sicilia tragicomica, sono più affascinanti di quelli cinematografici».


Il Giornale di Vicenza 19.9.06
Da venerdì «Il regista di matrimoni»
Fiori d’arancio, inquietudine e amore secondo Bellocchio

Roma. Dopo la famiglia, la religione, l’istituzione militare, la figura del padre è arrivato il momento del matrimonio: «Il regista di matrimoni», il film di Marco Bellocchio che uscirà questo venerdì nelle sale italiane e sarà poi a Cannes, è un nuovo inno alla ribellione nello stile del regista piacentino che anche stavolta mette in scena un alter ego, Sergio Castellitto, regista in crisi personale (non ha potuto evitare che la figlia sposasse tristemente un fervente cattolico) e professionale (è alle prese con una versione, di cui non sembra molto convinto, dei Promessi Sposi).
Un po’ esasperato dal rituale dei provini (si cerca sia Lucia che la Monaca di Monza), un po’ costretto da una imbarazzante indagine dei carabinieri (un’accusa di violenza carnale che però verrà scaricata sul suo assistente), Franco Elica, questo il nome del regista, si ritrova in Sicilia. Ma il matrimonio e i Promessi Sposi (di cui intanto vediamo inserti della versione in bianco e nero di Mario Camerini del ’41) lo perseguitano anche lì. Elica conosce infatti Enzo Baiocco (Bruno Cariello), che si guadagna da vivere come regista di matrimoni. È lui a metterlo in contatto col Principe (Sami Frey) che vuole il maestro come regista del matrimonio salva-finanze di sua figlia Bona (Donatella Finocchiaro) con un facoltoso avvocato palermitano.
È la parte più riuscita del film: quella di una Sicilia tutta processioni, minacce e misteri nella quale Castellitto, "pedinato" anche dal bianco e nero delle telecamere digitali e delle videocamere della sorveglianza, si muove con aria allucinata, toccando, come già nell’ «Ora di religione», le corde del surreale e del grottesco, tra conventi difesi dai "bravi" locali e edifici semivuoti dal nobile passato, parlando in tedesco ai cani da guardia del Principe o scoprendo che il regista "defunto" è in realtà vivo e vegeto e aspetta con ansia la vittoria ai David che lo risarcisca dopo anni di ostracismo. Proprio a lui Bellocchio affida una delle frasi-manifesto del film: «L’Italia è il paese dove comandano i morti», dice ad Elica che infatti aveva già ricevuto le telefonate di chi premeva per fargli votare Smamma.
«Il regista di matrimoni» ha un finale liberatorio che potrebbe anche far pensare a quello di «Buongiorno, notte». Come Aldo Moro, anche la principessa Bona viene "liberata" e Bellocchio può assestare così un colpo all’ Italia dei promessi sposi.


Libertà' 20.4.06
Al cinema "4 fontane" la proiezione del nuovo film, presenti anche i piacentini Schicchi e Beretta, da domani nelle sale
Bellocchio: Roma applaude il suo "regista"
Da Elkann alla Guzzanti, molti vip all'anteprima e consensi
di Daniela Bisogni

Roma. E' stata una serata tranquilla quella dedicata all'anteprima romana del film Il regista di matrimoni di Marco Bellocchio. Non un posto mondano, ma di certo una scelta scaramantica per il regista, quella del cinema Quattro Fontane dove ha presentato i suoi ultimi tre film prodotti da Raicinema.
Piuttosto è stato un appuntamento tra quelli considerati imperdibili dagli intellettuali romani per vedere l'opera di Bellocchio, quasi certamente selezionata nella sezione "Un certain regard" del prossimo Festival di Cannes in cantiere dal 17 al 28 maggio.
Tra i presenti i giornalisti Alain Elkann e Furio Colombo, gli attori Alessio Boni, Jasmine Trinca (protagonista de Il caimano di Nanni Moretti, film che dovrebbe essere anche a Cannes), Francesca D'Aloja e Paola Pitagora, indimenticata protagonista de I pugni in tasca, film che rivelò Bellocchio. In platea anche il direttore della Biennale cinema di Venezia Marco Müller, il regista Roberto Andò e la show-girl Sabina Guzzanti.
Bellocchio è arrivato con tutto il cast al completo (Castellitto, la Finocchiaro, Frei, Cavina, Donadoni ) e per l'occasione il produttore Rai Cinema Giancarlo Leone ha ritrovato la sua verve da giornalista, con alcune domande interessanti: «Questo film è la continuazione de L'ora di religione. Perché?», ha chiesto a Bellocchio. Il regista piacentino ha evitato la risposta diretta: «E' un film a cui abbiamo lavorato tanto - ha detto -, è ben diverso dagli altri, spero che piaccia».
«Questo film - ha aggiunto il protagonista Sergio Castellitto - se ambisce ad avere un premio non lo avrà. Scherzi a parte, spero di darvi una chiave di lettura: immaginate di entrare in un labirinto. Per me è stato eccitante farlo». E Bellocchio: «Qualcuno mi ha consigliato di non dire che si narra di un regista con dei problemi. Ma oggi in Italia ci sono milioni di registi, come prima c'erano milioni di poeti, dunque speriamo che il film diventi popolare».
Alla "prima" erano presenti anche i due piacentini del cast: Gianni Schicchi, attore-feticcio di Bellocchio, e il soprano Giovanna Beretta, che canta l'Osanna composto da Riccardo Giagni (pure autore della colonna sonora), nel matrimonio che si vede all'inizio del film.
«Non dovevo esserci - ha rivelato Schicchi - ma un giorno, nel marzo 2005, Bellocchio mi ha chiamato dicendomi: "Sono a Bobbio e non riesco a cavare un ragno dal buco". Il giorno dopo mi ha chiamato la sua assistente Lucia per confermarmi la partecipazione nel film. Evidentemente sono un protafortuna. Nel Regista di matrimoni mi si vede mentre canto nelle processioni all'inizio e alla fine e quando insegno le preghiere in latino, in convento».
Ma il film le è piaciuto? «Devo pensarci. Durante la visione mi sono distratto parlando con Paola Pitagora. Lo rivedrò meglio al Jolly di San Nicolò venerdì sera».
Quanto alla Beretta, lei ha trovato il film «molto intenso. Vengo dal mondo della lirica e trovo molte affinità con il modo di lavorare di Bellocchio, un regista molto attento ai sentimenti. Ho collaborato diverse volte con lui, nel documentario Addio del passato, poi nella sua regia teatrale de Il rigoletto al Municipale e nel corto Sorelle 2, che ha girato a Bobbio nella sua accademia».
Tra il pubblico della "prima" anche Roberto Herlitzka, che aveva prestato il volto ad Aldo Moro in Buongiorno, notte: «E' molto affascinante. Mi è piaciuta la visionarietà del film in cui è riconoscibile la calligrafia del maestro. Donatella Finocchiaro è affascinante e gli attori sono tutti bravissimi». Per l'attore Antonio Catania «è un film che bisogna lasciare sedimentare, perché Bellocchio riesce a dare spessore anche agli episodi più insignificanti».
Alla fine del film scorrono i titoli di coda sulle note della popolare canzone Sola me ne vo per la città e tutto il numeroso pubblico rimane seduto a lungo in silenzio, dopo aver accolto il finale della proiezione con un lungo e caloroso applauso.

Il Tempo 20.4.06
Serata di Prime nella Capitale
di Eleonora Sannibale

(...)
Al «Quattro Fontane» si è svolta invece la prima dell’ultimo film di Marco Bellocchio «Il regista di Matrimoni». Del cast Sergio Castellitto, che è arrivato con la moglie Margaret Mazzantini e Donatella Finocchiaro. Anche qui tanti gli ospiti a partire da Ivone Sciò con il marito, Rosi Greco, Massimo Perla, Jasmine Trinca, Minna Siphonen, Giancarlo Leone e Diamara Parodi, Gigi Marzullo e Antonella De Julis, Furio Colombo con la moglie Alice Okman, Alain Elkann, Francesco Rutelli e Barbara Palombelli e Fiorella Mannoia. (...)

zabriskiepoint.net
Il regista di matrimoni
di Valerio Sammarco

E’ un momento difficile per Franco Elica (Castellitto), regista affermato che non riesce ad impedire le nozze infelici della figlia e che si trova invischiato nella preparazione dell’ennesima riduzione cinematografica de “I Promessi Sposi”. Una magagna in produzione lo spronerà a mollare tutto. E si ritroverà in Sicilia.
Lì conoscerà dapprima un uomo (Cariello) che si guadagna da vivere girando filmini di matrimoni, poi s’imbatterà in Orazio Smamma (Cavina), regista che ha preferito farsi credere morto pur di ottenere finalmente i riconoscimenti mai ottenuti “da vivo”, fino a farsi convincere da un nobile decaduto (Frey) a realizzare il film del matrimonio della figlia (Finocchiaro), costretta a sposarsi per convenienza. Salvarla da questo destino diventerà presto il suo scopo.
Dopo L’ora di religione Marco Bellocchio torna ad interrogarsi sull’intima essenza dell’artista, spronato ancora una volta dalla “crisi” quale momento più fecondo di un percorso che, inevitabilmente, lo condurrà “dalle tenebre verso la luce”.
Dalla struttura complessa e poco incline ad ingraziarsi lo spettatore meno esigente, Il regista di matrimoni si pone in prima battuta quale riflessione sul cineasta inteso come rappresentante più simbolico dell’Arte contemporanea (“una volta l’Italia era la patria dei poeti, ora è la nazione dei registi”), svilito nella sua essenza dalla mercificazione delle immagini: l’apparire che sovrasta l’essere, il sembrare che appanna la forza evocativa di un pensiero immaginato e reso “visibile”, la sparizione quale unica tappa necessaria per venir riconosciuti in un’era in cui “a comandare sono solo i morti”. Questo, in breve, l’aspetto che racchiude e unisce i tre registi presenti sulla scena: il “maestro” Franco Elica, il “fantasma” Orazio Smamma e il “mestierante” Enzo Baiocco, regista di matrimoni. Un sottotesto che, in maniera prepotente e mai banale, è necessario per rendere pregnante il cammino e la “ribellione” del protagonista (che non può non essere considerato quale riflesso ideale dell’Ernesto Picciafuoco de L’ora di religione): la fuga iniziale diviene gesto attivo con cui provare a ritrovare se stesso, a fare il punto su un presente distorto, anticamera di un futuro prossimo in cui assumersi le responsabilità di un gesto apparentemente eroico, sostanzialmente “giusto”, oggettivamente necessario. Il matrimonio della principessa triste (una intensa Donatella Finocchiaro) “non s’ha da fare” (come un tempo Manzoni diceva a don Abbondio per bocca di un bravo) e, quasi assecondando le fantasie della stessa ragazza – che poco prima confidava di aver più volte ipotizzato evoluzioni differenti per quel che riguardava “I Promessi Sposi” – quella che verrà a prospettarsi sarà una risoluzione nuova, aperta, intangibile.
Bellocchio non spiega, ma parla mostrando: il suo Cinema riporta l’immagine allo stato primitivo, potata dei rami secchi di quel didascalismo che più volte contribuisce a minimizzarne la potenza e a smorzarne l’afflato: l’interazione tra lo sguardo reale, circostante e le soggettive caratterizzanti il campo visivo del protagonista (“l’artista è un’idiota capace di vedere ciò che gli altri non riescono a cogliere”) è reso dal continuo dialogo tra il colore in 35mm e il bianco e nero di traballanti riprese in digitale, che vanno ad integrarsi poi con il continuo gioco “di controllo” effettuato su alcuni ambienti cardine dell’intera narrazione (fra gli altri, il cancello e il salone del palazzo principesco, la cripta della Chiesa dove avviene il primo incontro tra il regista e la principessa).
Controllo che, “internamente”, Bellocchio non ha voluto appesantire: sarà un caso ma, a differenza dei due film precedenti, la sua figura non compare in nessuna fugace e silenziosa apparizione.

gqonline.it 19.4.06
Il regista e la principessa triste
di Alberto del Giudice

Il regista Franco Elica (Castellitto) deluso dalla figlia (Zanella), andata in sposa a un cattolico fervente e bigotto, e professionalmente frustrato, perché costretto a girare l’ennesimo adattamento dei Promessi sposi, si rifugia in Sicilia in un piccolo paese. Qui Elica incontra un regista mediocre (Cariello), specializzato nelle riprese di matrimoni, e un altro più celebre collega che, invece, si finge morto (Cavina), allo scopo di ottenere un autorevole premio "postumo".

Tramite il regista di matrimoni, Elica viene incaricato di filmare le nozze della bella e triste principessa Bona Gravina (Finocchiaro), costretta a sposare un giovane vedovo per appianare i debiti del padre (Frey). Al primo incontro in una chiesa, tra il regista e la promessa sposa si accende la passione. I due si baciano ardentemente nella buia cripta e lei, focosa, si inginocchia davanti a lui… che la ferma appena in tempo. Il matrimonio, comunque, non s’ha da fare, almeno nelle intenzioni di Elica. Ma qualcuno segue il regista, riprende ogni suo movimento, gli impedisce di rivedere la sua amata.

Il finale è aperto, anzi apertissimo, lo spettatore è libero di scegliere il suo preferito tra quelli proposti da Bellocchio: i due amanti fuggono insieme; lei fugge da sola; lui abbandona la Sicilia senza di lei, ecc. Insomma, ognuno sembrerebbe libero di concludere la favola a modo suo. Comunque sia, Il regista di matrimoni è insieme un film drammatico, ma pieno d’ironia, una fiaba d’amore, un thriller, un film sul cinema e l’industria cinematografica, un racconto solare e mediterraneo, un pamphlet contro il carattere istituzionale e rituale del matrimonio (a maggior ragione se si tratta di nozze con rito religioso). Ma è anche la rivendicazione, oggi che tutti con in mano una telecamera si sentono registi, come ieri si sentivano poeti, della propria professionalità da parte di un regista vero ed esperto, quale è Bellocchio stesso.

Dopo una sequela di pellicole italiane piuttosto deprimenti, da un lato Nanni Moretti con Il caimano, dall’altro Marco Bellocchio (L’ora di religione; Buongiorno notte) con Il regista di Matrimoni, restituiscono vigore al nostro cinema, che probabilmente rappresenteranno in concorso al prossimo Festival di Cannes. Tanti auguri a entrambi.


nonsolocinema.com 19.4.06
“Il regista di matrimoni” di Marco Bellocchio
La congiura dei bravi
di Pierpaolo Simone

In attesa del verdetto finale sulla probabile partecipazione al prossimo Festival di Cannes, esce nelle sale italiane il nuovo attesissimo film di Marco Bellocchio. Dopo il successo de "L’ora di religione", il regista piacentino torna alla regia raccontando, con uno stile tutto suo, una storia complessa e macchinosa che prende spunto niente meno che da "I promessi sposi".

Franco Elica (Sergio Castellitto) è un regista in piena crisi d’identità. Deluso dal matrimonio della figlia con un fervido cattolico (lui, così lontano dalle pratiche religiose) e costretto a girare l’ennesima versione de "I promessi sposi", decide di fuggire in un paesino della Sicilia per prendere commiato dai propri problemi. Complice della fuga, una denuncia per presunte molestie sessuali nei confronti delle sue attrici. Giunto a destinazione incontrerà per caso un uomo che sbarca il lunario filmando matrimoni (da qui il titolo del film) e che chiederà il suo aiuto per girare il filmino di nozze della figlia del principe Ferdinando Gravina di Palagonia (Sami Frey), un nobile cinico e austero caduto in disgrazia. Ma Franco perde subito la testa per la bellissima principessa Bona (Donatella Finocchiaro) e decide di salvarla da un matrimonio di convenienza di cui è incolpevolmente la vittima sacrificale. A movimentare la già complessa situazione arriva Smamma (Gianni Cavina), un regista che si spaccia per morto (l’Italia è un paese dove comandano i morti) per raggiungere in fretta i riconoscimenti e la notorietà che nessuno gli ha mai tributato in vita.

Marco Bellocchio torna dietro la macchina da presa per raccontare - e riprendere - le tematiche portate a maturazione negli ultimi lavori: le ossessioni religiose, la ribellione nei confronti delle convenzioni sociali, la difficoltà dell’essere artisti in un mondo fatto di riconoscimenti fittizi e senza valore. Lo fa trascinandosi in un vortice di emozioni, sogni e ricordi, confondendo spesso lo spettatore e ponendolo davanti ad un’immagine caotica e visionaria. I tre registi del film - il demiurgo Bellocchio, l’alter ego Castellitto e quello di matrimoni - dialogano fra loro, si sovrappongono continuamente. La complessità dell’intreccio (spesso al limite dell’immediata comprensione) dona al film un’atmosfera sospesa, una compostezza quasi ieratica. Segno che tale confusione è interna all’artista e non, semplicemente, frutto di una sceneggiatura poco curata nei particolari. Il regista di matrimoni è un film di difficile collocazione, non certo definibile in una sola visione. Non è una commedia (per quanto non manchino i risvolti esilaranti) non è un dramma, almeno non nella tensione destinata alla rappresentazione scenica. Quello di Bellocchio è un film di immagini distinte le une dalle altre, di quadri unici che interpretano - ciascuno a suo modo - le piccole grandi caratteristiche dell’esistente, sorvolando su un Italia che non riesce a liberarsi dai propri pudori, dalle proprie ansie, dai propri pregiudizi.

Un cast perfetto, da Sergio Castellitto a Donatella Finocchiaro, che rende merito all’opera. Menzione a parte merita il personaggio di Gianni Cavina (a lungo attore feticcio di Pupi Avati), nei panni di un regista in preda alle nevrosi e in attesa dei meritati riconoscimenti, perso in un successo che arriva senza portare i benefici promessi. Ma Bellocchio non parteggia per facili equazioni, il suo regista è un uomo in crisi che solo la passione per la vita, per l’arte - e per una donna! - può salvare. Un film che passa dal buio alla luce (come lui stesso lo ha definito) nel tentativo di ritrovare una strada percorsa infinite volte, attraversata da musiche, suoni e atmosfere dai contorni sfocati. La stessa Sicilia resta uno sfondo da guardare con distacco, elemento paesaggistici do un disagio interiore e non ancora metabolizzato. Il regista di matrimoni non lascia messaggi nella bottiglia, ma risponde trascinando con sé interrogativi che rimandano alla coscienza di ognuno di noi. Un paese dove i morti comandano e i vivi si tormentano.


delcinema.it
Il regista di matrimoni
di Piero Gelli

Si può amare un film anche di fronte ogni logica obiezione, seguirne le immagini con crescente irritata ammirazione o ammirata irritazione, a seconda del prevalere dell'uno o dell'altro stato d'animo? Sì, se si tratta di un film di Marco Bellocchio, a cui è stato concesso un credito illimitato da quando, nel 1965, esordì nel lungometraggio, con quei Pugni in tasca che stupì e commosse.

Da allora però ha altalenato pericolosamente tra film in cui il grottesco poetico investito di rabbia di quel capolavoro riusciva a catalizzarsi in un risultato notevole (Nel nome del padre, Marcia trionfale, Salto nel vuoto, Gli occhi,la bocca, L'ora di religione)ad altri di sconsolata irrealizzazione, malati di infantilismo e velleitarismo, di cui molti critici hanno accusato anche il sodalizio con lo psicanalista Massimo Fagioli.

Ma veniamo a questo Regista di matrimoni, che raccontando la crisi di un «maestro» celebre sviluppa e intreccia in soggettiva tre storie, dove la soggettiva appunto dovrebbe servire a coagulare il tutto. Il regista Franco Erica (Sergio Castellitto) assiste allibito al matrimonio neocatecumenico della figlia, evidentemente angustiato da quella scelta e da quella fastidiosa ritualità. In più sta girando, probabilmente per motivi economici, l'ennesima versione dei Promessi sposi,ma nella fase preparatoria, gli studi vengono visitati dalla finanza e lui è inquisito ingiustamente di violenza carnale. Fugge in Sicilia, in uno scenario di mare stupendo tra Cefalù e Palermo e lì, mentre si aggira meditabondo sulla spiaggia, osserva un regista di matrimoni, Baiocco (Bruno Cariello), che riprende una coppia di sposi e relativi parenti. Viene riconosciuto con devota ammirazione dal registello che gli chiede come lui, maestro, girerebbe una scena così necessariamente bloccata nell'ovvietà del rito.

Questa prima scena di matrimonio non è che il preludio a un'altra, che nascerà in seguito. Perché Erica, ospite del nuovo amico e di sua moglie, conosce il principe di Gravina, interpretato magnificamente da Samy Frey (quanto mutato dai tempi Godard!). Il principe che abita la splendida villa Palagonia invita Erica, che ha conosciuto tramite Baiocco, a girare il film delle nozze della figlia Bona (una splendida Donatella Finocchiaro). In realtà, il principe, completamente spiantato per motivi di gioco, obbliga la ragazza a un matrimonio di convenienza con un giovane e spettinato avvocato, rampollo di una ricca famiglia locale vagamente mafiosa; come nei Promessi sposi ci sono «bravi» che seguono il regista; e fanno bene, perché questi s'innamora, contraccambiato, della bellissima principessa triste e fa di tutto per buttare all'aria le nozze.

Tutta questa storia è condotta con una visionarietà fiabesca, intrisa di una levità grottesca dai tocchi felliniani, che altro non è che la proiezione in soggettiva libera di un possibile film futuro. Tanto è vero che il finale lascia aperte tre soluzioni, ipotesi da mise en abymegodardiana molto pericolosa oggi in tempi di banali telefiction; anche se l'immagine di chiusura, del regista in treno, solo, che se ne torna «in continente», dovrebbe bastare a far capire che ogni spettatore può scegliersi la sua, di fine: quella trucida del padre che uccide lo sposo, quella fiabesca del regista che scappa con la principessa, o quella realista, flash di immagini filmiche in fieri.

Se il film fosse restato in questi due binari, tra il fiabesco lirico e decantato, un po' alla Anna Maria Ortese (anche se qui siamo in Sicilia e non a Napoli) e tra la parodia e l'ironia grottesca di un regista ormai fuori gioco, Bellocchio avrebbe scritto uno dei suoi film più belli e intelligenti. Purtroppo a questi due temi ne ha aggiunto un altro, carico di messaggio e di rabbia pochissimo sopita e molto vociferata, affidata a un regista amico/nemico Smamma (Gianni Cavina), che si finge morto in un incidente stradale perché il suo film, appena terminato, possa vincere l'ambito premio «David di Michelangelo», il che rigorosamente avviene. «Perché in Italia contano le pastette politiche di centro e di sinistra», blatera il morto redivivo, «perché in Italia comandano solo i morti». Leit-motiv, quest'ultimo, che ripete al regista anche il principe di Gravina.

A parte che l'esplicito messaggio puzza di personali incazzature, è anche fuori tono in un film così risolto in visionarietà polivalente, più adatto a un Nanni Moretti - così poco regista e così tanto promotore di se stesso come faro di impegno politico e saggezza generazionale - che non a Marco Bellocchio, cui riconosciamo, nella sua lunga carriera così coerente con i suoi desideri di artista, la capacità di rendere in immagini i malesseri e i fantasmi della realtà d'oggi, privata e pubblica; e perfino la perspicacia di raccontare la sensazione o consapevolezza di sentirsi un sopravvissuto, senza bisogno che un alter-ego posticcio infantilmente banale le verbalizzi.


ateneonline-aol.it
"Il regista di matrimoni" nelle sale
Protagonista del film è la bella Cefalù

di Maria Angela Vacanti

Una pellicola con un montaggio frammentato, ma con un andamento da fiaba che tende verso l'immancabile lieto fine. Presentato ieri, sarà distribuito in 201 copie e parteciperà al festival di Cannes. E' la storia di un cineasta in crisi che porta in calce critiche per un cattolicesimo intriso di sensi di colpa e per il cinema italiano principe delle banalità

Un regista che mette in luce dubbi e incertezze e un racconto pieno di cineasti come lui, messi in crisi dalla banalità dei soggetti o consumati dalla smania di successo. Il tutto miscelato dentro un plot da fiaba dove una ricca "Cenerentola" - metà Lucia Mondella e metà Giulietta Capuleti - è costretta a sposare un uomo che non ama per salvare la famiglia dal crac finanziario. E per cornice, le stradine e gli archi della bella Cefalù. Ecco in "frappè" il nuovo lavoro che Marco Bellocchio consegna al cinema italiano e non solo.

Presentato ieri a Roma, "Il regista di matrimoni", interpretato da Sergio Castellitto e Donatella Finocchiaro, sarà distribuito dal 21 aprile in 201 sale e concorrerà per la Palma d'oro al festival di Cannes. Una pellicola che gioca molto sulle immagini regalando al pubblico veri e propri quadri fotografici - cosa senz'altro favorita dalle bellezze storiche, artistiche e paesaggistiche della piccola cittadina palermitana - e che procede per frammenti non sempre legati tra di loro in un rapporto di continuità: "Ho sentito la necessità - ha spiegato infatti lo stesso Bellocchio - di staccarmi dalla struttura narrativa più tradizionale, volendo operare con un montaggio molto complesso".

Salutato dai critici come l'ennesimo capolavoro, "Il regista di matrimoni" si lega fortemente alla precedente pellicola dello stesso regista, "L'ora di religione", e non solo perché Castellitto è protagonista di entrambi. Tutti e due i film presentano il punto di vista di un artista (il pittore Ernesto Picciafuoco nel primo caso, il regista Franco Elica nel secondo), entrato in una fase difficile della propria vita (riguardo al passato il primo, guardando al presente in quest'ultimo caso).
Sempre forte è poi la critica verso un certo tipo di cattolicesimo impastato di sensi di colpa e fanatismo. La storia rappresenta però l'uscita da un tunnel di disperazione, dove il protagonista è "costretto" a ricominciare a lottare per qualcosa e il sentimento prevale sulle logiche economiche. Un film insomma che, come asserisce Castellitto, "mette il scena il riappropriarsi dell'esistenza e postula che la vita è più importante dei personaggi che vengono rappresentati".

La trama. Il regista Franco Elica (Sergio Castellitto) entra in crisi dopo il matrimonio della figlia con un fervente cattolico e fugge in paesino della Sicilia rifiutandosi di girare l'ennesima versione de "I Promessi Sposi" e cercando pace da uno scandalo sessuale che lo vede coinvolto. Nell'Isola incontra un uomo che si guadagna da vivere girando filmini di matrimoni e un altro cineasta che si spaccia per morto per ottenere finalmente il riconoscimento mai avuto prima "in vita". Conosce anche il principe Ferdinando Gravina di Palagonia, un nobile spiantato che gli propone di dirigere il film del matrimonio di sua figlia Bona (Donatella Finocchiaro). Franco si innamora immediatamente della bellissima principessa e decide di salvarla da un matrimonio di convenienza.

screendaily.com
The Wedding Director (Il Regista Di Matrimoni)
Lee Marshall in Rome 20 April 2006

After the compelling Red Brigade psycho-drama Good Morning, Night, Italian auteur Marco Bellocchio has returned to the hermetic, dreamlike mode of The Hour Of Religion with his latest effort, in which a leading arthouse director is talked into shooting a Sicilian wedding video. Occasionally comic, undeniably evocative, at times simmering with passion (though it peddles the dark-eyed Sicilian clichés), The Wedding Director is a fitfully enjoyable but ultimately frustrating experience, a feature-length glimpse into a psyche that can’t, or doesn’t want to, melt down its obsessions into a fully-functioning drama.

Though Bellocchio always posts respectable results on home territory, the film is unlikely to see a great deal of overseas action – except in cineaste France, where both the director and his lead actor are known quantities.

Bellocchio is a profoundly visual director, and although there is a plot of sorts and a satirical subtext (with a series of barbs directed at the contemporary Italian film industry), The Wedding Director works more on a subliminal level, making points about observing and acting, passion and holding back, mental and physical prisons, through framing, imagery and montage rather than story and dialogue. But without the historical anchor and dramatic urgency of Good Morning, Night to anchor it, Bellocchio's cinematic poetry drifts off into regions that mere mortals cannot reach.

It’s typical of Bellocchio that he takes a synopsis that might have made a decent Hollywood comedy and turns it into an existential tone poem. On a beach in Sicily, Franco Elica (Castellitto), a ‘serious’ film director, meets Enzo Baiocco (Cariello), a loud-jacketed colleague and admiring fan who, lacking talent, makes a living shooting wedding videos. The scene in which Elica advises Baiocco on how to give the video of two newly-weds which he’s currently shooting more of an artistic edge is absolutely hilarious: Castellitto’s restrained, deadpan performance here tips over into outright comedy.

Watching the end result of il maestro’s divine intervention, a mysterious, haughty Sicilian aristocrat, the Prince of Gravina (a nicely surreal-sinister character turn from French veteran Sami Frey) asks Elica to direct the wedding of his daughter Bona (Finocchiaro, oozing wide-eyed sensuality).

Elica becomes obsessed with passionate virgin Bona, conflating her in his mind with the Lucia of Italian classic novel I Promessi Sposi (The Betrothed), which he is currently attempting to adapt for the screen. Elica’s ‘direction’ of the wedding thus becomes an effort to direct Bona away from her gormless bridegroom and into his own arms.

In the end, though, The Wedding Director feels too much like a reprise of The Hour Of Religion. Once again, Sergio Castellitto plays a creatively blocked artist who seems adrift from the world, lost for words, emotionally autistic. Once again, Bellocchio airs his doubts about hardline Catholics; once again he observes decadent aristocrats moving around inside empty stately homes.

What’s new in The Wedding Director is Bellocchio’s overt, often satirical reflections on cinema. There are a series of references, either visual or verbal, to Antonioni, Fellini and Visconti. Handycam wedding footage, black-and-white CCTV sequences and vintage film clips are edited into the main, narrative camera stream.

A satirical jab at the local film industry is delivered through the entertaining but fairly incidental character of Smamma (Cavina), a fellow director who has staged his own death in a last ditch attempt to clean up at the annual David di Donatello cinema awards (here renamed David di Michelangelo). In The Caiman, Nanni Moretti also sent up certain aspects of the Italian film trade; but Bellocchio’s satirical barbs come across as personal grudges.

There’s more meat in Bellocchio’s cinematic craft than in his cinematic critique: in purely visual terms, this is one of the director’s most ravishing films to date, with Pasquale Mari’s carefully composed photography at its most compelling in the scene where the Principe signs up Elica: we see the two of them on a balcony, distorted by the rippling glass of a French window; but when the door opens and they enter the room they are still a little wavy – and it’s only then that we realise that the camera itself is still a room away, behind another window.