giovedì 12 marzo 2015

Repubblica 12.3,15
Rischio chiusura per la cattedra di Heidegger
L’Università di Friburgo abolirà ermeneutica e fenomenologia
Ma il mondo accademico si ribella
di Maurizio Ferraris


LANCIATA il 9 marzo, una petizione, che ha già raccolto quasi duemila firme, fa il giro del mondo filosofico non solo tedesco. Reagisce contro la decisione della Università di Friburgo di sostituire la cattedra di filosofia che è stata di Husserl e di Heidegger (ma anche di Windelband, e di Rickert, e ora è tenuta da Günter Figal), per sostituirla con una cattedra secondaria (Juniorprofessur) di logica e filosofia del linguaggio, che costerebbe la metà di quella attuale. Non dico che la decisione equivalga alla chiusura della Scuola di Atene da parte di Giustiniano, ma certo appare meno motivata (dopotutto, i filosofi erano pagani e l’imperatore era cristiano).
Non è chiaro il vantaggio che deriverebbe dal sopprimere una cattedra su cui si sono avvicendati i maggiori esponenti del neokantismo, della fenomenologia e dell’ermeneutica. Dopotutto, anche da un punto di vista meramente opportunistico, è dubbio pensare che gli studenti vengano da tutto il mondo a Friburgo per seguire dei corsi di logica e filosofia del linguaggio: il vin du pays sono la fenomenologia e l’ermeneutica. La cattedra pubblica l’ International Yearbook for Hermeneutics , una delle poche riviste filosofiche tedesche riconosciute internazionalmente, e la scomparsa della cattedra comporterebbe una riduzione degli scambi internazionali, e dunque anche dei finanziamenti che legati a queste iniziative.
Corre anche voce che la seconda cattedra dell’ormai piccolo dipartimento di filosofia sarà sostituita da una Juniorprofessur in filosofia araba medioevale. Ma non si tratta di una fantapolitica occupazione islamica dell’Università come ipotizzato da Houellebecq, semplicemente di un misto di interessi, rivalità, miopia. L’appello osserva che, piuttosto, converrebbe aprire una competizione internazionale per trovare il miglior rappresentante della tradizione della fenomenologia e dell’ermeneutica. Difficile non essere d’accordo. L’antisemitismo dei Quaderni neri di Heidegger ha gettato nuovo e motivatissimo discredito su un essere umano, ma fortunatamente le idee sono solitamente migliori dei loro interpreti.
IL FILOSOFO Martin Heidegger (1889-1976). Tra le sue opere fondamentali, Essere e tempo , saggio del 1927

La Stampa 12.3.15
Troppe minacce alla libertà di espressione
di Vladimiro Zagrebelsky


In un solo giorno leggiamo che a Caselli è impedito di prendere la parola in un incontro pubblico di Libera, che ad aderenti al Fuan è impedito di distribuire all’Università i loro volantini, che a Margot Wallström l’Arabia Saudita impedisce di rivolgersi alla Lega Araba per parlare di diritti umani.
L’elenco diventa lungo se teniamo a mente gli episodi simili di cui veniamo continuamente a conoscenza, in cui violenza fisica o minaccia di esercitarla serve a tappare la bocca a chi esprime idee sgradite. Quell’elenco è poi infinito se si considera anche il ricorso parimente efficace all’insulto e all’irrisione, spesso lanciati non da maleducati di strada, ma da chi occupa posizioni pubbliche di rilievo.
Che cosa spinge a mettere insieme Caselli con i militanti del Fronte universitario di azione nazionale e questi con una donna nota nel mondo, prima ancora che per essere ministra degli Esteri della Svezia, per il suo impegno per la promozione dei diritti umani? Non si risentano della assimilazione. Le differenze sono evidenti, ma v’è un tratto comune nelle vicende che li riguardano: l’intolleranza per le idee che esprimono e la presunzione di poter farsi giudici della loro accettabilità. Quando la Costituzione e la Convenzione europea dei diritti umani richiamano la fondamentale libertà di espressione non si riferiscono al diritto di dire il vero e il bello, ma a quello di esprimere il proprio pensiero, qualunque esso sia, con limiti estremamente ristretti nelle società democratiche (l’offesa alle persone, il razzismo, l’istigazione alla violenza). La libertà di espressione va difesa quando si tratta di idee che infastidiscono una parte della società, la sconcertano, contrastano convinzioni indiscusse. Sono queste, quelle che costituiscono il sale di una società libera e democratica.
Le ragioni della libertà di espressione si trovano sviluppate in modo definitivo in quanto un secolo e mezzo fa ha scritto John Stuart Mill nel suo saggio sulla libertà. Il giudizio umano è attendibile soltanto quando i mezzi per correggerlo sono costantemente tenuti a disposizione. Possiamo mantenere le nostre opinioni solo se le esponiamo al controllo del confronto con le diverse idee altrui, fossero anche quelle di un «avvocato del diavolo», entrato in campo proprio mettere in crisi le nostre convinzioni. In campi come «la morale, la religione, la politica, i rapporti sociali e gli affari della vita, tre quarti degli argomenti a favore di una qualsiasi opinione controversa consistono nel demolire le apparenze che ne favoriscono un’altra».
E allora tutte le vittime di una censura, per diverse e opposte che siano le idee che vogliono diffondere, sono egualmente da difendere. In realtà difendendo loro rivendichiamo il diritto nostro, il diritto dei lettori e degli ascoltatori di venire a conoscenza di argomenti che possono mettere in crisi o invece rafforzare le loro convinzioni. Vittime coloro che vengono tacitati, vittime coloro che non possono ascoltarli.
La violenza fisica, la minaccia, l’insulto e l’irrisione che colpiscono chi pensa e parla diversamente dovrebbero essere fortemente contrastate e stigmatizzate, molto più di quanto non si faccia ora. Un pugno, un insulto tutto sommato non sono una tragedia, sembra che si pensi. E invece sì, quando impediscono un libero discorso pubblico. Chi ha ricevuto il pugno guarisce, chi è stato offeso se ne dimentica, ma l’intimidazione e l’avvertimento che rendono timidi e spingono a tacere mantengono il loro effetto. E fanno violenza a tutti.
Abusa della forza per zittire chi non si allinea sia chi è forte per l’autorità che accompagna la posizione sociale occupata, sia chi è forte perché agisce in squadra, sul terreno. In squadra, come gli squadristi. Certa violenza viene giustificata chiamandola antifascista. Però l’antifascismo è prima di tutto difesa della libertà. La libertà propria, ma prima ancora la libertà di tutti. Il travisamento delle parole non rende nobile ciò che resta ignobile.
L’Europa ha da poco subito un attacco al cuore della sua civiltà quando a Parigi e a Copenaghen, terroristi hanno agito e ucciso in odio alla libertà di espressione e in odio agli ebrei. Libertà e antirazzismo ancora una volta sono stati gli obiettivi colpiti da incursioni barbariche, compiute da chi, come indica la parola, è estraneo ai valori della nostra civiltà. I barbari però, come è chiaro, non vengono sempre solo da fuori.
Va aggiunto che la libertà di espressione, come in generale tutte le libertà, impone di tenere ben distinto ciò che la libertà rende lecito da ciò che è tuttavia inopportuno. Non tutto quel che è lecito è anche opportuno. Tuttavia la valutazione di opportunità del dire e del non dire, del dire in un modo o nell’altro spetta a chi fa uso della libertà che gli appartiene e della responsabilità che ne deriva. Anche le opinioni su ciò che riguarda l’opportunità – spesso altrettanto importante della liceità - devono potersi confrontare liberamente.
Sarà preferibile vivere in questa parte del mondo, piuttosto che altrove, fino a che la libertà sarà assicurata e chi la aggredisce portato alla ragione.

Il Sole 12.3.15
L’esecutivo sarà più «controllato» da un Parlamento razionalizzato
di Sergio Fabbrini


La riforma costituzionale del Senato, approvata dalla Camera dei Deputati, rappresenta un passaggio importante per la democrazia italiana. Ora, solamente gli articoli modificati dovranno ritornare al Senato per il voto di conferma. Una volta approvati dal Senato gli emendamenti introdotti dalla Camera, il primo giro della riforma costituzionale si sarà concluso. Quel testo dovrà poi essere rivotato di nuovo, a distanza di almeno tre mesi, sia dalla Camera che dal Senato. Poiché la votazione in entrambe le camere non beneficerà di una maggioranza qualificata, ma solamente di una maggioranza semplice, il testo di riforma costituzionale dovrà quindi essere sottoposto alla valutazione referendaria degli elettori. Come è bene che sia. Qual è il senso della riforma costituzionale?
In primo luogo, superare il bicameralismo simmetrico. L’Italia è rimasta l’unico grande paese a democrazia parlamentare in cui il governo deve ottenere la fiducia politica di entrambe le camere. La diversa composizione generazionale dell’elettorato attivo per l’una e l’altra camera e il diverso meccanismo di selezione dei rispettivi rappresentanti hanno finito per produrre maggioranze differenziate alla Camera e al Senato. Il cui effetto è stato, come abbiamo visto dopo le elezioni del febbraio 2013, la paralisi politica. Con questa riforma, ciò non avverrà più. Solamente la Camera (che continuerà ad essere costituita di 630 deputati) avrà il potere di dare o ritirare la fiducia politica a/dal governo. I critici della riforma hanno drammatizzato questa semplificazione del processo decisionale, sostenendo che il monocameralismo politico costituisce una condizione favorevole al rafforzamento dell’esecutivo nei confronti del legislativo. Questa critica non ha fondamento empirico. Non solo perché l’ascesa del potere esecutivo, che sicuramente si è verificata, non è dovuta alla natura monocamerale del legislativo, ma a cause strutturali come l’europeizzazione e l’internazionalizzazione della politica domestica. Ma soprattutto perché un legislativo di 945 rappresentanti (quale è l’attuale parlamento italiano), con due camere distinte, ma che assolvono gli stessi poteri, decentrato al suo interno e con partiti poco disciplinati, può fare di tutto meno che controllare l’esecutivo. Gli esecutivi sono controllati nei parlamenti razionalizzati, organizzati intorno ad una chiara distinzione tra governo ed opposizione, non già nei parlamenti decentrati e pluripartitici.
In secondo luogo, la riforma costituzionale del Senato rimette ordine nel disordine dei rapporti tra lo stato centrale e le autorità regionali e municipali. Quel disordine fu causato dalla precedente riforma del Titolo V della costituzione, riforma introdotta dal centro-sinistra nel 2001 per ragioni squisitamente politiche. Per togliere l’acqua ai pesci della Lega fu allora introdotto il principio delle competenze concorrenti tra il centro e le periferie in un numero estesissimo di materie. Il risultato è stata la crescita incontenibile dei contenziosi costituzionali tra il governo centrale e i governi regionali, con l’esito di istituzionalizzare l’incertezza interpretativa relativa ai poteri dell’uno e degli altri. La riforma riporta al centro molte delle competenze attualmente concorrenti tra i due livelli di governo, bilanciando però tale ri-centralizzazione delle politiche con la rappresentanza diretta al centro dei governi regionali e municipali. I governi regionali hanno dunque perso sul piano delle politiche, ma hanno vinto sul piano della politica. È comprensibile che la Lega abbia votato contro questa riforma. Molto meno comprensibile è il voto contrario del M5S (la riforma riduce drasticamente i costi della politica con un Senato di soli 100 membri ad elezione indiretta) e della stessa Sel (un partito debole sul piano nazionale ma presente in alcune aree regionali e municipali).
La riforma costituzionale del Senato è strettamente correlata alla riforma elettorale conosciuta come Italicum.
La razionalizzazione del sistema parlamentare, per quanto necessaria, sarebbe insufficiente se non fosse accompagnata da una razionalizzazione del processo elettorale. Con la riforma elettorale approvata dalla Camera (e che dovrà ritornare al Senato per le parti modificate rispetto al testo licenziato precedentemente da quest’ultimo) si potrà avviare una competizione bipartitica che costituisce l’unica garanzia per responsabilizzare (davvero) il governo. Anche questa riforma ha i suoi critici. Come l’associazione di “Libertà e Giustizia” che ritiene che la democrazia non dovrebbe avere né vincitori né vinti ma consistere in una deliberazione collettiva e indifferenziata tra i legislatori. Tuttavia, anche questa critica è priva di giustificazioni empiriche. In democrazie parlamentari di massa, gli elettori scelgono i governi sulla base dei programmi e dei leader che si presentano alle elezioni. L’idea della democrazia deliberativa che hanno in mente questi critici è molto simile alla democrazia elitista in cui i legislatori operano senza vincoli elettorali. Stupisce che una simile idea di democrazia sia così diffusa tra le componenti più radicali della sinistra. Comunque sia, anche grazie alla determinazione del ministro Maria Elena Boschi, finalmente l’Italia sta uscendo dal pantano in cui era finita dopo il fallimento delle bicamerali e delle commissioni di studio. Un esempio ulteriore di come, in democrazia, sia necessaria l’azione propulsiva di un governo per risolvere i problemi.

il Fatto 12.3.15
L’onorevole balbetta
Sfasciano la Costituzione e non sanno spiegare perché
I dem davanti a se stessi per la riforma costituzionale del Senato
di Alessandro Ferrucci


Parlano i nuovi padri costituenti del Pd. Scalfarotto: “Dobbiamo uscire dalla palude”. Lauricella: “Se votavo no passavo per schizofrenico”. Di Salvo: “Ce lo chiede l’Europa”. Beni: “Riforma necessaria, a parte un paio di incongruenze”. D’Attorre: “Un sì difficile e sofferto, ma è solo la prima di 4 letture (in realtà è la seconda, ndr) ”. Giorgis: “Ho ancora il mal di pancia”
L’attimo di spaesamento, il sospiro, la riflessione. La risposta. Una risposta molto breve per alcuni, tanta la voglia di fuggire; molto lunga per altri, così dettagliata, articolata, confusa, da sembrare una sorta di supercazzola. Succede. Agli intervistati abbiamo chiesto spiegazioni sul loro “sì” alla Camera rispetto al ddl approvato per la riforma costituzionale del Senato, nonostante i mal di pancia dichiarati, i pareri contrari di alti costituzionalisti come Stefano Rodotà e Valerio Onida, fino all’Anpi.
Gennaro Migliore, ex Sel: “Non ho tempo”. Ci mettiamo poco. “Allora è la strada giusta, è un passo avanti importante, diventa più efficace”. Cosa? “Il sistema democratico, quella che ne è uscita è una discussione fuorviante”. Democratica. (La voce si alza di un tono) “Rodotà e Onida li rispetto ma non hanno capito”. Non hanno studiato... “Lei mi sta facendo domande che vogliono una risposta diversa”. Ma lei è sempre stato convinto della necessità della riforma? “Sì... ”. Bene. 21 giugno del 2013, Migliore firma un manifesto a difesa della Costituzione e contro “la spinta verso l’opzione presidenzialista, considerata ‘pericolosa per le ricadute che avrebbe sull’impianto costituzionale, che verrebbe profondamente snaturato, e sul tessuto sociale e civile del nostro Paese’”. Altri tempi.
Vincenzo Amendola, da vicino a D’Alema, a prossimo renziano. “Non le rispondo”. Perché? (silenzio). “No, non le rispondo”. Ribadiamo, perché? “Avete pubblicato l’elenco di tutti quelli che hanno votato”. Mica è segreto. “Avete scritto che abbiamo distrutto la Costituzione, quindi non rispondo”. Tuuu, tuuuu
Andrea Giorgis, è anche ordinario di Diritto costituzionale. “Eh... Eh... ”. (Pausa). Pronto? “Sì... è un voto condizionato alle modifiche della legge elettorale, puntiamo alle correzioni al Senato, ma se non ci sarannno miglioramenti, il voto sarà diverso”. Ha ancora mal di pancia? “Se la dicotomia è tra chi ha mal di pancia per il voto e chi no, allora sono ancora sofferente”. E quindi? “Aspetto le modifiche, altrimenti... ”.
Alfredo D’Attorre, minoranza Pd. “In questi giorni sto bene sul piano personale... ”. Mentre quello politico... “Capisco il suo sarcasmo su di me e sugli altri”. No, nessun sarcasmo. “No, no, è stato un voto difficile, sofferto, da un certo punto coerente, ma abbiamo votato un testo che non condividiamo... Ma ieri è la prima delle quattro letture... abbiamo senso di responsabilità”. Infatti siete responsabili. “Se i testi resteranno questi non lo voteremo più”. Mettiamo il bollo notarile su questa dichiarazione? “C’è un resoconto parlamentare, ho votato solo per lasciare accesa una fiammella di cambiamento”.
Davide Mattiello, ex leader di Libera. “Buonasera, eccomi qui! ”. Volevamo sapere del suo voto. “Ah... non ho un’opinione particolare”. Impossibile. “Pensavo mi chiamasse per il mio lavoro in commissione Antimafia”. Oggi no, allora? “Credo sia meglio procedere con le riforme anziché no... credo che sia meglio non farla. Arrivederci... ”.
Giuseppe Lauricella, molto vicino ad Anna Finocchiaro. “Sì... sì... allora... avevamo davanti due vie, o accettavamo o voto contrario”. Questo è sicuro. “Abbiamo scelto la coerenza”. Soddisfatto? “No, l’impianto potrebbe essere molto meglio. Non potevamo fare la figura degli schizofrenici”.
Ivan Scalfarotto, sottosegretario alle Riforme. “(è raggiante) Sono convintissimo, sui principi fondamentali è avanzatissima”. Oltre agli -issimi, la sostanza? “Una cosa sono i grandi principi, un’altra è la macchina”. Molti costituzionalisti non sono così felici. “Ognuno ha la sua opinione, ne abbiamo sentiti tanti e sono con noi”. Parlano di rischio autoritario. “Il bicameralismo perfetto c’è solo in Italia, però mi preoccupa lo spirito della sua domanda”. Mi dispiace. “Nel nostro Paese non cambiava nulla, con la conservazione restiamo nella palude”.
Titti Di Salvo, ex Cgil, ex Sel. “Sono convinta perché ne condivido l’impianto, non per disciplina di partito. È equilibrata, ci avvicina all’Europa”. A quale lato dell’Europa, est o ovest? “Io penso che l’Italicum sia una buona legge, non capisco lo stupore” (da qui l’onorevole inizia con una lunga, lunghissima disquisizione, in alcuni punti incomprensibile). Anche l’Anpi ha manifestato “stupore”. “Mi sembrano valutazioni politiche”. Dai partigiani? “Io li rispetto, ma altri sono con noi”.
Gianni Cuperlo, ex antagonista di Renzi alle primarie. “Mi scusi sono impegnato”. Saremo brevi. “Su cosa”. Il voto sulle riforme. “Mi scusi non posso” (passano cinque minuti e richiama). “Il discorso è complesso e non voglio ridurlo, va argomentato, merita un ragionamento, magari domani”.
Paolo Beni, ex leader dell’Arci. “No! Non stiamo distruggendo nulla”. Ne è certo? “La riforma è utile e necessaria, ma non rinunceremo ad apportare modifiche migliorative”. A sì, quali? “Vi state sbagliando nella valutazione, non c’è alcun attentato alla democrazia. Ci sono solo un paio di incongruenze che vanno corrette”. Quindi ha votato una riforma costituzionale incongruente? “Ci torneremo sopra, ne sono certo... ”.

Martedì sul Fatto Stefano Rodotà ha detto che oltre alla forma di governo, si va a toccare anche la forma di Stato
il Fatto 12.3.15
Il costituzionalista Massimo Villone
“Un Parlamento moribondo manomette la democrazia”
“Non è la Costituzione della Repubblica. È la costituzione del Pd con escrescenze, una costituzione di minoranza”.
di Silvia Truzzi


Più che le riforme, il riformatorio: molti forzisti che volevano votare sì alla riforma, da loro partorita con il Pd, hanno votato no e molti dissidenti democrat che volevano votare no, alla fine hanno votato sì. Ma alla fine il mirabolante Senato dei cento non eletti, potrebbe essere approvato nonostante i numeri mutanti e le opinioni mutevoli. Abbiamo chiesto lumi a Massimo Villone, costituzionalista dell’Università Federico II di Napoli ed ex senatore prima del Pds e poi dei Ds. Che esordisce così: “Credo che tre legislature di Porcellum abbiano spezzato le gambe al Parlamento. Non si può sopravvivere a un inquinamento di quel tipo – fatto di conformismo, opportunismo, fedeltà a capi e capetti – mantenendo un’istituzione vitale. Mi capita ogni tanto di andare a Roma, nelle stanze che ho frequentato per tanti anni: è un altro mondo, questo è un Parlamento snervato. Come un malato terminale che nemmeno ha più la forza di alzarsi dal letto”.
Sta dicendo che il problema è l’inadeguatezza del ceto politico mandato alle Camere in queste ultime legislature?
Sì. Ed è un problema drammatico. A questo si aggiunge l’abbassamento di qualità del ceto politico regionale e locale, dal quale buona parte dei parlamentari viene. Tutta questa classe dirigente è sfarinata, non trova forza nelle persone e non la trova nelle strutture. I partiti sono dissolti, non ci sono più momenti veri di confronto e decisione collettiva. Vincono le scelte di convenienza, la ricerca dell’utile personale. Ecco quindi gente che dice “io sono favorevole ma voto contro”, o viceversa: comportamenti che ai cittadini sembrano schizofrenici.
Il guaio è la cura...
Questi parlamentari sono ectoplasmi politici, mentre noi abbiamo bisogno di istituzioni più forti, di un Parlamento solido che esprima davvero il Paese. Il contrario di quello che si propone con la riforma del Senato e con la nuova legge elettorale.
Ormai ce l’hanno praticamente fatta.
La Camera ha apportato alcune modifiche non particolarmente incisive. Il principio è che le parti approvate nell’identico testo non sono più emendabili. Quindi al Senato ora si discuterà di quei piccoli cambiamenti apportati a Montecitorio: se verranno approvati anche a Palazzo Madama, si chiuderà la prima deliberazione. E attenzione perché la seconda – che sarà possibile non prima di tre mesi – sarà solo un prendere o lasciare.
Martedì sul Fatto Stefano Rodotà ha detto che oltre alla forma di governo, si va a toccare anche la forma di Stato. Facendo notare però che l’ultimo articolo della Carta dice che “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”.
Certo. E questo non vuol dire soltanto che non si può tornare alla monarchia. La forma repubblicana è un concetto complesso, riguarda i connotati fondamentali della struttura democratica delle istituzioni. Non c’è forma repubblicana se non c’è una partecipazione democratica reale, se non c’è rispetto sostanziale dei diritti fondamentali. Quando venissero ridotti i caratteri essenziali del sistema democratico, del rapporto tra governanti e governati, allora si andrebbe a toccare un elemento sostanziale della democrazia. Ed è quello che intendono i costituzionalisti che richiamano la prospettiva di una svolta autoritaria, se pure in forme soft. Anche Scalfari ha scritto di un rischio ‘democratura’, termine che si usa per i populismi latino-americani.
Il premier ha detto: ci sarà il referendum.
A Napoli lo chiamerebbero un ‘paccotto’: quando tu pensi di comprare una cosa, ma dentro la scatola non c’è nulla. Questo sarà un referendum sulla riforma solo nell’etichetta. Il contenuto vero sarà un plebiscito pro o contro Renzi. Abbiamo - è accaduto spesso - il rispetto della forma e lo stravolgimento della sostanza. Come nelle primarie: investiture che sono finti momenti di democrazia. Nel referendum l’oggetto non sarà quale Costituzione per quale Paese vogliono gli italiani, ma se il presidente del Consiglio piace o no ai cittadini.
Sul manifesto lei ha scritto: “Non è la Costituzione della Repubblica. È la costituzione del Pd con escrescenze, una costituzione di minoranza”.
Se uno depura i numeri attuali del Parlamento dal premio di maggioranza previsto dal Porcellum e dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale, quella maggioranza che si è avuta martedì alla Camera non esiste. Ad esempio, il gruppo M5S avrebbe numeri pari o superiori a quello del Pd, che sarebbe invece molto ridotto rispetto all’attuale consistenza. Anche Forza Italia avrebbe più deputati di quanti non ne ha ora. Con i numeri corrispondenti ai consensi reali espressi nelle urne, la maggioranza che ha votato questa riforma non esisterebbe.

il Fatto 12.3.15
L’appello
“Costituzione violata a Camere abusive”
di E. Liu.


Nessuna intenzione di mollare la presa. Visto e considerato soprattutto quello che accade in Parlamento con le riforme. L’avvocato Bozzi non è un avvocato qualsiasi. Oltre ai quarant’anni di professione nel curriculum è anche colui che ha “rottamato il Porcellum”, cioè ha portato con un esposto la Corte a dichiararlo incostituzionale. Oggi, dopo quella che sembrava una impresa, torna a prendere carta e penna e, insieme a una serie di colleghi e persone della società civile che si definiscono elettori, scrive al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il tema, nonostante la lettera sia uno spunto di riflessione e non preveda risposte dal presidente, è sempre quello della distorsione del principio di rappresentanza parlamentare. Gli argomenti affrontati sono molti. Il primo riguarda la decisione della Corte che ha sì, “reso possibile la prosecuzione della legislatura, ma non ha in alcun modo stabilito che restasse immutata la composizione delle due Camere”.
NELLA SOSTANZA viene ribadito come la Corte costituzionale sulla rappresentanza non si sia espressa sulla convalida degli eletti e come di fatto i due presidenti, Laura Boldrini e Pietro Grasso, non abbiano mai risposto. Anzi, anche nella sostituzione dei parlamentari decaduti per essere stati successivamente eletti al Parlamento europeo, sia stato preso lo stesso elenco del ministero dell’Interno “compilato nel 2013 sulla base di tre norme dichiarate incostituzionali l’anno successivo”.
I firmatari, nell’elencare i problemi, non si soffermano solo sulla composizione del Parlamento. “Il problema è che si va estendendo la convinzione che si stia formando, o che si sia già formata, una sorta di consuetudine costituzionale secondo cui l'illegittimità di una legge elettorale non potrebbe avere effetti se non nella successiva consultazione elettorale”. In parole molto semplici se anche in futuro una legge elettorale venisse dichiarata incostituzionale l’effetto sarebbe a partire solo dalla successiva consultazione. “Questo potrebbe portare a legiferare senza alcuna preoccupazione di costituzionalità perché ogni vizio non produrrebbe effetti”.
ALTRO TEMA è quello delle riforme del governo in carica. “Sono state concepite – usando un linguaggio di carattere mercantile – come un solo pacchetto. Pacchetto nel quale sono state introdotte questioni di grande rilievo politico, democratico e istituzionale, come la riforma del Senato. Ma se la votazione in un solo blocco, il referendum confermativo non consentirebbe ai cittadini di approvare alcune riforme e respingerne altre. In tali condizioni non è tollerabile che il Parlamento, eletto con una legge dichiarata incostituzionale, ponga mano a 42 articoli della Costituzione”.
e. liu.

Rerpubblica 12.3.15
I rischi del nuovo Senato
di Alessandro Pace


CON il voto favorevole della Camera dei deputati sugli articoli relativi alla composizione e alla modalità di elezione del Senato contenuti nel disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi (di seguito d.d.l.), il destino della seconda camera sembrerebbe bell’e segnato. La Camera, su quei due punti, non si è infatti discostata da quanto approvato dal Senato in prima lettura. E quindi il Senato, a questo punto, potrebbe nuovamente modificare solo gli articoli nei quali la Camera si era, a sua volta, discostata dal Senato. Le leggi di revisione costituzionale sono infatti adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni, sull’identico testo, a distanza non minore di tre mesi.
Pertanto, a meno che il d.d.l. Renzi-Boschi non incontri imprevisti ostacoli politici, come ebbe inopinatamente ad incontrarli nel 2013 il d.d.l. Letta, l’unica via praticabile per ridare legittimità al Senato è quella, futura, di sottoporre alla Corte costituzionale la decisione circa la legittimità costituzionale dell’articolo 57 della (eventuale) legge costituzionale Renzi-Boschi, in considerazione del grave vizio di costituzionalità di escludere i cittadini dall’elezione dei senatori, nonostante «il voto (…) costituisc(a) il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare», come ha sottolineato la Corte costituzionale nella sentenza n. 1/2014 sul Porcellum. Un principio desumibile dall’articolo 1 della nostra Costituzione, che pacificamente costituisce uno dei “principi costituzionali supremi” che nemmeno una legge di revisione può modificare.
Per cui, quando un giudice, a riforma costituzionale avvenuta, si trovasse a dover applicare una legge approvata anche dal Senato, potrebbe sollevare dinanzi alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità di tale legge perché votata, oltre che dalla Camera, da un Senato eletto da soggetti (i consiglieri regionali e provinciali) che, secondo la Costituzione, non avrebbero il potere di farlo.
Infatti, mentre è discutibile l’attribuzione al Presidente della Repubblica della nomina per soli sette anni di cinque senatori che abbiano «illustrato la Patria per altissimi meriti» (i senatori “del” Presidente?), l’elezione dei restanti 95 senatori è ancor più discutibile: 1) perché la funzione di revisione costituzionale e la funzione legislativa verrebbero esercitate da soggetti non eletti dal popolo e quindi non responsabili nei confronti del popolo; 2) perché è scandaloso il poco tempo dedicato alle funzioni senatoriali da parte di soggetti che dovrebbero svolgere anche le funzioni di consigliere o sindaco; 3) perché è stato inopportuno “promuovere” i consigli regionali e provinciali a collegi elettorali dopo gli scandali che anche di recente hanno caratterizzato i consigli regionali.
È quindi difficile comprendere la ratio di questa scelta, a meno di non pensar male, e di ritenere che, anche sotto questo profilo, Renzi, in quanto segretario del Pd, abbia voluto riservarsi un potere d’influenza sulle segreterie locali e sulle candidature, che egli non avrebbe avuto qualora fossero stati i cittadini ad eleggere i senatori.
Ed è difficile comprenderne la ratio , anche perché l’esperienza sia tedesca che francese, talvolta richiamata a sproposito, non può essere portata ad esempio. Non l’esperienza tedesca del Bundesrat per la semplice ragione che, come già da me ricordato su queste pagine il 18 novembre, gli ordinamenti federali succedutisi dal 1871 in poi — con la parentesi del nazismo — non hanno mai cancellato le preesistenti identità storico-istituzionali come invece fece il Regno d’Italia con l’unificazione amministrativa del 1865. I Länder non sono quindi i Grandi elettori eletti dai cittadini tedeschi a tal fine, ma sono componenti del Bundesrat e, in quanto tali, sono titolari di diritti “propri” esercitati dai rispettivi governi che hanno a disposizione da un minimo di 3 ad un massimo di 6 voti per ogni deliberazione.
Né può richiamarsi l’esperienza dell’elezione “indiretta” del Senato francese, per tre diverse ragioni. In primo luogo, perché l’elezione del Senato italiano non sarebbe “indiretta” da parte del popolo, perché i Consigli regionali continuerebbero ad essere eletti per svolgere le normali competenze legislative e di controllo loro spettanti, e non allo specifico scopo di eleggere i senatori, come se fossero dei Grandi elettori. La seconda ragione è che, mentre l’art. 2 della Costituzione francese statuisce che il suffragio elettorale può essere anche “indiretto”, ciò non è previsto dalla nostra Costituzione.
Infine, mentre le elezioni senatoriali francesi sono “vere” elezioni che coinvolgono circa 150.000 Grandi elettori nella persona di deputati, consiglieri regionali, consiglieri generali e delegati dei consiglieri municipali, in Italia i consiglieri regionali e provinciali — che, lo ribadisco, non sarebbero Grandi elettori — sarebbero poco più di mille in 21 sezioni elettorali di poche decine di persone: sarebbero designazioni tra colleghi, non elezioni serie.

il Fatto 12.3.15
Benvenuti tra noi
Ainis e Onida, buongiorno corazzieri


E ALLA FINE scoprirono che le riforme renzianissime non sono perfette. Anzi, che sono piene di ombre. Dopo tante settimane di torpore, Valerio Onida e Michele Ainis vergano parole che sono moniti. Ha iniziato Onida sul Corriere della Sera di martedì scorso, con un articolo contro l’Italicum: “Una legge elettorale che non rispetta la reale maggioranza” per dirla come il titolo. “Dietro le scelte sulla legge – scrive il presidente emerito della Consulta – si rivela la tesi già vittoriosamente contrastata nel referendum del 2006, secondo cui agli elettori deve rimettersi solo la scelta dell’unico leader, capo dell’esecutivo, di cui la maggioranza parlamentare è una sorta di appendice”. E poi: “L’altro assioma è che il sistema politico dovrebbe articolarsi solo in due partiti. Ma il bipartitismo è il risultato della storia, non di ingegneria elettorale”. Ieri invece, sempre sul Corsera, Ainis seminava riserve sulla riforma costituzionale appena approvata alla Camera. “Semplifica fin troppo la vita del governo, l’unico pugile che resta davvero in piedi sul ring delle istituzioni. Perché insieme al Parlamento barcolla il capo dello Stato: con un esecutivo stabile perderà il ruolo di commissario della crisi di governo nonché - di fatto - il potere di decidere l’interruzione anticipata della legislatura”. Però.

il Fatto 12.3.15
La mutazione genetica a sinistra
di Franco Arminio


Ho sempre preferito il disagio di stare a sinistra al disagio di stare altrove, ma non capisco l’ossessione di mettere il progresso davanti a tutto. Io non amo il progresso. Amo la vita claudicante, la perplessità, la timidezza, l’affanno. Amo una politica dolce, quieta: praticamente non amo la politica fatta solo per gli umani. Non ci siamo solo noi al mondo e il fatto che ormai siamo tantissimi è già un problema molto grave. Credo a una politica docile, ingenua, incantata, praticamente credo alla poesia.
Per fare qualcosa di sinistra non c'è bisogno di affidarsi a un continuo rimpasto di sigle e progetti che alla fine portano più o meno sempre alla stessa conclusione: pure la sinistra vuole la crescita e si combatte il capitalismo con lo stesso ferro vecchio: l’homo oeconomicus.
L’ho capito bene in una giornata passata a Cavriglia, il paese toscano dove il Pci prendeva quasi l’80 per cento dei voti. Ora lì c’è il Pd. E sono buoni amministratori, solerti e poco propensi alla corruzione. Il problema è il passato. In questa zona ai tempi del Pci c'era una miniera di lignite. Ho scoperto che alcune frazioni di Cavriglia sono state completamente distrutte per far posto alla miniera a cielo aperto. Un scavo forsennato, come quella di un cane che cerca tartufi. Uno scavo incurante di tutto e di tutti. All’inizio degli Anni Ottanta si arriva a demolire un piccolo borgo con un castello e una chiesa. Sembrano cose da Cina o da Nigeria e invece siamo a 30 chilometri da Firenze e a 30 chilometri da Siena.
VIENE il sospetto che se il Partito comunista avesse vinto le elezioni nel ’48 e avesse governato per tutto il tempo che ha governato la Dc, forse avremmo avuto una distruzione del paesaggio anche maggiore di quella prodotta dalla Dc. Può darsi che i Sassi di Matera sarebbero stati rasi al suolo per fare dei parcheggi o delle palazzine. E magari avremmo perso anche i trulli e i nuraghi. Il partito degli operai non poteva anche essere il partito delle colline e degli uccelli.
Fino agli Anni Settanta la questione ecologica era davvero una questione di pochi illuminati e tutti erano rigorosamente fuori dal Partito comunista. In quel glorioso partito, i dirigenti erano onesti, sia a livello locale che nazionale, ma tra la fabbrica e la salute il primato era della fabbrica, vedi Taranto o Marghera.
A Cavriglia il partito non si è opposto all’avanzata della miniera. La frazione di Castelnuovo Sabbioni ora è un piccolo paese morto. Le persone hanno avuto la casa nuova e non hanno perso il lavoro. L’economia della valle era fiorente. La salute della terra non era un problema. La cosa che sorprende è che questa storia non è mai arrivata all'attenzione nazionale. Se fosse accaduta in Calabria o in Campania sarebbe stata raccontata come tipico esempio del malcostume meridionale. I toscani provano a schermare fin che possono i loro errori. Lo hanno fatto anche con la banca di Siena.
Ho il sospetto che nel passaggio di potere che dal Pci ha portato al Pd dopo numerose mutazioni, si è perso qualcosa di fondamentale: prima si combatteva il capitalismo, adesso si mira semplicemente all’esercizio del potere, il capitalismo non è un problema, anzi è l’unico modello che si riesce a concepire.
Tornerò a Cavriglia e in altri luoghi della Toscana. Voglio verificare la mia impressione che il benessere diffuso che questa terra ha raggiunto alla fine ha un po’ spento le persone. I servizi per i cittadini sono abbastanza efficienti, ma c’è poco lirismo in giro. Tra il sacro e l’efficienza, io penso che oggi si debba scegliere il sacro. La sinistra non può stare al mondo accentando questo mondo. Non si tratta solo di battersi per i deboli, non si tratta solo di eliminare le ingiustizie, principi comunque già ampiamente disattesi.
La questione è il futuro di tutte le creature della terra. La sinistra ha senso solo se incrocia democrazia locale e dimensione planetaria. Ma la meta non può essere la crescita, la meta è decentrarci, abitare il pianeta sapendo che si tratta di un piccolo condominio che dobbiamo spartire con gli alberi e gli animali.
La sinistra per vivere ha bisogno di capire la natura teologica di molti nostri problemi di oggi e deve insegnare agli uomini che il mondo non si cambia col potere. Il mondo si cambia standoci dentro con attenzione, ognuno nei suoi luoghi o nei luoghi che ha scelto di abitare. Una nuova alleanza tra gli esseri e le cose, un intreccio continuo di poesia e passione civile.
LA MIA IDEA è che in Italia, specialmente nell’Italia interna, si può impiantare un nuovo umanesimo. La sinistra non può che essere un nuovo umanesimo. Non si può fare quello che si è fatto nel passato a Cavriglia. Il lavoro non può essere un motivo per distruggere la natura. Dobbiamo fare altro: dobbiamo fermarci, diventare gentili, clementi, attenti. Non si può uscire dal capitalismo col comunismo del Novecento, con tutte le sue nobiltà e le sue miserie, questo è l’amaro verdetto che abbiamo davanti.
Un mondo è morto e l’altro ci sta uccidendo. Però la storia non è finita. Oggi ci può essere una nuova, straordinaria militanza al servizio non solo dei nostri egoismi umani, ma di tutte le creature del pianeta. Proviamo a tenere la poesia dentro ogni cosa. E con la poesia anche l’invisibile e l’assenza. Un pensiero ecologista veramente profondo non può non arruolare Dio, la morte e la poesia. Da questa base che tiene insieme il pianeta e ogni città e ogni paese, può nascere un nuovo progetto per un’altra vita e un’altra politica.

Corriere 12.3.15
D’Alema e Boschi, lite sul referendum Cuperlo: il Pd rischia
Guerini: basta minacce alla tenuta del partito


ROMA Massimo D’Alema riparte dalla base, facendo un bagno di militanti romani nello storico circolo dem di via dei Giubbonari, e parla da uomo di sinistra su austerità imposta dalla Germania, Grecia in ginocchio, riforme a rischio democrazia perché «fatte male» a casa nostra, Costituzione e lavoro. Davanti alle telecamere che lo attendono, però, l’ex presidente del Consiglio esterna le sue critiche di merito sulla riforma Renzi-Boschi che abolisce il Senato elettivo e riforma il Titolo V: «Il referendum confermativo tanto sbandierato, per come sarà posto, sarà un plebiscito, una finzione, perché al cittadino verrà chiesto prendere o lasciare. Se, invece, nel quesito si chiedesse “Preferite un Senato eletto direttamente oppure nominato dai consigli regionali?”, vedrete cosa risponderebbe la gente...».
D’Alema si scalda. Dice che le sue proposte sono più riformiste rispetto a a quelle messe in cantiere in Parlamento: «Io infatti voglio che i deputati vengano scelti direttamente dai cittadini che poi era la promessa fatta dal Pd agli italiani». Ma Matteo Renzi dice che sull’Italicum «non si può tornare indietro» e che la legge elettorale non si tocca: «Bene — risponde D’Alema — ma per cancellare i 100 capolista bloccati serve solo un emendamento di tre righe. Mica bisogna ripartire da zero. Altrimenti con l’Italicum avremmo nella stessa lista candidati eletti perché nominati dai segretari e altri perché capaci di raccogliere le preferenze: chi sono più legittimati, i primi o i secondi?». Sarebbe meglio tornare al Mattarellum con i suoi collegi uninominali? «Certo, con l’Italicum, che favorisce le oligarchie come faceva il Porcellum, sarebbe meglio tornare al Mattarellum. Quella sì che era una riforma capace di aumentare il potere dei cittadini, mentre quelle di ora il potere dell’elettore lo fanno arretrare».
Sul referendum a D’Alema risponde Maria Elena Boschi che su La7 dice: «Mi spiace che proprio lui non rispetti la Carta: è l’articolo 138 che lo prevede».
Nel calderone della minoranza del Pd c’è chi, come Gianni Cuperlo, alza ancora di più il tiro: «Su un tema come la qualità della democrazia non è in gioco la sorte del governo ma il destino del Pd. Non è in discussione il rapporto tra maggioranza e minoranza ma l’identità del Pd. Renzi ci pensi bene prima che sia troppo tardi». La parola scissione Cuperlo non la pronuncia ma è chiaro che, se la tenuta del partito viene meno, maggioranza e minoranza dem sarebbero destinate a dividersi.
A Cuperlo risponde il vicesegretario Lorenzo Guerini: «Il Pd ha dato ampia prova di saper discutere al proprio interno, di confrontarsi e, una volta assunta una decisione, di saperla difendere nei passaggi parlamentari. Non credo sia utile continuare a manifestare ogni giorno rischi di tenuta per il partito» .

Corriere 12.3.15
“La battaglia da combattere è sempre la prossima”
I dissidenti dall’ultimatum fragile: «Noi ex pci gli ordini li eseguiamo»
L’ironia dei renziani in Transatlantico: chi non vota contro tiene famiglia...


Groviglio di cavi, telecamere accese nella penombra delle mura antiche.
Pippo Civati.
La sua tecnica, per adescare i cronisti parlamentari, è nota: arriva tutto elegantino, spesso in completo blu, le Clarks per un tocco radical-chic e perché lo aiutano nel passo felpato; l’aria pensosa, quasi turbata. Poi, ti fissa: lo sguardo di uno che ha deciso di dirti qualcosa di definitivo.
I cronisti che ci cascano, ormai, si contano sulle dita di una mano. Eppure, per una volta, alla vigilia del voto per il ddl sulle riforme costituzionali, Civati sta dicendo una roba forte.
«Per gran parte della cosiddetta minoranza del Pd, la battaglia da affrontare è sempre “la prossima”: così è stato sul Jobs act, così è stato e probabilmente sarà in tutti i passaggi delle riforme, compresa quella che sta per essere votata e che io, però, ovviamente, non voterò».
Nessuno osa interromperlo.
«Succede questo: una settimana prima del voto, i dissidenti sono centinaia. Tre giorni prima, sono diventati una cinquantina. A due ore dal voto, se si arriva a una dozzina è un mezzo miracolo».
La descrizione è piuttosto aderente ai fatti: sì, l’ha proprio azzeccata; se ne rende conto e, di lì a poco, scriverà tutto sul suo blog.
( Ieri mattina ).
I quotidiani pubblicano, con un certo rilievo, i numeri della votazione: la riforma del Senato è passata con 357 voti a favore, 125 contro (FI, Sel, Lega, FdI) e 7 astenuti. Tra questi, 3 dem: Capodicasa, Vaccaro e Galli. Altri 7 dem non hanno partecipato al voto: Boccia, Aiello, Bragantini, Pastorino, Pelillo, Fassina e Civati.
Civati è convinto di avere una pizza pagata da Pier Luigi Bersani. È l’ex segretario ad aver montato su una scommessa, dopo aver ordinato alle sue truppe di accodarsi per l’ennesima volta e seguire i piani del comandante Renzi.
«La riforma del Senato si poteva anche votare, ma votare l’Italicum, così com’è, sarà impossibile. Se l’Italicum non cambierà, la disciplina di partito non reggerà più. Con Civati, scettico, sono pronto a giocarmi una pizza».
Poteva almeno giocarsi una bottiglia di Dom Pérignon. Ma va bene: se rischi di pagare, magari ti viene il braccino.
«Messa così, la faccenda è divertente...», dice Davide Zoggia, guardia scelta dei bersaniani alla Camera, ex presidente della provincia di Venezia: un tipo scaltro, veloce, sicuro.
La metta come preferisce.
«Dire che noi rimandiamo sempre la battaglia finale è un po’ riduttivo. Io suggerisco, in sede di analisi, di tener conto di un paio di aspetti».
Il primo?
«Non va sottovalutato il nostro senso di responsabilità...».
Oh, no, anche lei? Questo lo ripete sempre Bersani...
«Sì, ma io le spiego cosa c’è dentro questo concetto. E sa cosa c’è? C’è la nostra storia. Vede, noi veniamo dal Pci e per noi è impensabile non seguire gli ordini del partito. Se seguiamo l’istinto, è impensabile».
Continui.
«Sul Jobs act, io fui uno dei 29 che non votò. Bene: mi crede se le dico che la notte prima e la notte dopo non riuscii a chiudere occhio?».
Le credo. Il secondo motivo per cui alla fine rimandate sempre la battaglia finale?
«Siamo vittima, dobbiamo ammetterlo, di un meccanismo perverso. Mi spiego: quello, cioè Renzi, arriva e dice che okay, ragazzi, i vostri emendamenti sono ottimi, ma io purtroppo non posso toccare niente perché ho un accordo con Berlusconi. Poi però l’accordo con Berlusconi salta e gli emendamenti non si toccano lo stesso. Uno pensa: sto’ Renzi ci avrà mica presi in giro?».
Poi Zoggia aggiunge che un problema di questi ribelli democratici è anche la loro frammentazione. C’è Bersani con i suoi (tra Senato e Camera ha numeri importanti, sulla carta da farci cadere un governo: con gente che sta pure tutti i giorni sui giornali e in tivù, tipo Miguel Gotor e Alfredo D’Attorre, tipo Roberto Speranza e Maurizio Martina, sempre lì a promettere legnate politiche, barricate, rivolte); poi c’è l’area di Gianni Cuperlo: di solito miti come il loro capo; poi c’è Pippo Civati che rappresenta molto se stesso (a Montecitorio, per dire, i civatiani sono come i coccodrilli albini: dovrebbero esistere, ma avvistarli è sempre complicato); infine c’è tutto un gruppo di dem solitari, tipo Rosy Bindi e Francesco Boccia, tipo Stefano Fassina.
Ecco, Fassina: perché questa minoranza al momento di attaccare, ripiega.
«Guardi... spesso molti di loro, nel merito, sono d’accordo con me: poi, però, mentre io voto no al Jobs act, no alla riforma del Senato... loro, sì, è vero: s’accodano».
Perché?
«Mah... È chiaro che alcuni di loro si ostinano, piuttosto inutilmente, a tenere aperta una finestra di colloquio con Renzi...».
E gli altri? Perché non arrivano mai allo scontro?
«Eh, beh, gli altri...».
Gli altri tengono famiglia, o un mutuo, o entrambe le cose, e uscire dal partito e andare in mare aperto sarebbe un rischio enorme: questo dicono in Transatlantico deputati renziani seduti sui divani, rilassati e ironici, certi che anche il loro capo, a Palazzo Chigi, la pensi così.

Repubblica 12.3.15
Scontro nel Pd, torna lo spettro scissione
Cuperlo: “Sulle riforme unità a rischio, Renzi rifletta”. Bersani: “Battaglia di poltrone? La mia può darla a Verdini” Ma la Boschi chiude: “Con le loro proposte indietro di 20 anni”. Minoranza spaccata, in bilico la convention
di Giovanna Casadio


ROMA «Dopo un po’ la corda si spezza... ». La sinistra dem è vicina al punto di non ritorno. In dissenso su tutto - sulle riforme istituzionali di Renzi, sulle sue politiche per il lavoro, sulla gestione del partito - agita lo spettro della scissione. La minaccia Gianni Cuperlo, mentre finora solo Pippo Civati aveva ammesso di essere tentato di mollare il Pd, e in Liguria i civatiani già alle regionali correranno da soli con Sel. Ma dopo la chiusura sull’Italicum di Renzi, sordo all’aut aut di Bersani, è Cuperlo ieri ad avvertire: «Se dalle riforme dovesse uscire un modello di democrazia che confligge con le convinzioni della sinistra, a rischio è l’unità e la tenuta del Pd, spero che Renzi rifletta su questo». E insiste: «Ci pensi il presidente del Consiglio, prima che sia troppo tardi...». Però solo Civati è disposto a dargli ragione. Bersani non ci sta. Scuote la testa l’ex segretario in Transatlantico a Montecitorio quando i cronisti gli chiedono se nel futuro della minoranza dem c’è la scissione: «Il Pd è casa mia, è casa nostra, no a scissioni però è vero che c’è un enorme disagio. Spetta a Renzi, che è il segretario, tenere conto della sensibilità di tutti». Tanto forte è il disagio da diventare irritazione, soprattutto davanti alla rappresentazione degli anti renziani legati alle poltrone. Allora Bersani contrattacca: «La mia poltrona Renzi può darla a Verdini, mi ha ferito leggere alcuni commentatori per i quali questa nostra posizione sulle riforme sarebbe legata alle poltrone».
Il PdR - il Pd di Renzi - è in fibrillazione. E il premier non sembra volere ricucire, né arretrare. Reagisce alla minaccia di scissione e si sfoga: «Posizioni pretestuose». E la ministra Maria Elena Boschi liquida le richieste della sinistra dem: «Con le proposte di modifica della legge elettorale avanzate dalla minoranza del Pd faremmo un salto indietro di 20 anni. Ora mi aspetto lealtà. Comunque non decidiamo io e Renzi se cambia, ma gli organismi del partito». Nessuna apertura quindi, bensì la convinzione che i numeri in Parlamento per mandare avanti le riforme il governo li ha. «Forza Italia potrebbe di nuovo cambiare idea e tornare a votare le riforme», è la previsione della ministra. Del resto il fronte degli anti renziani è spaccato. La convention del 21 marzo a Roma che dovrebbe riunire le diverse correnti della minoranza dem - da “Area riformista” di Roberto Speranza a Rosy Bindi, a Cuperlo e Civati - potrebbe saltare. Forse sarà rinviata. Scettici sulla partecipazione sono Civati e Cuperlo. E anche un “dialogante” come Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro della Camera, che ha trattato sul Jobs Act, riflette: «Non so se ci sono le condizioni ora per la riunione di tutte le minoranze... Non si può parlare così di scissione, io dico sì ai provvedimenti di volta in volta senza ultimatum». Sabato Damiano, Bersani, Speranza, Martina, Stumpo saranno a Bologna all’assemblea di “Area riformista” per lanciare proposte politiche a cominciare dal reddito di cittadinanza e dal rilancio del Mezzogiorno. «Per quanto mi riguarda - osserva Speranza - la parola scissione non fa parte del vocabolario del Pd». Gli fa eco Dario Ginefra: «Non c’è alcuna scissione all’orizzonte».
La «fuga in avanti» di Cuperlo solleva polemiche e accentua le divisioni. Massimo D’Alema evita il dibattito sulla scissione («Non so, mi occupo del merito delle questioni»), però boccia senza appello le riforme istituzionali: «Sono preoccupato per il futuro della democrazia, sono fatte male e per correggere i capilista bloccati nella legge elettorale basterebbero tre righe. Meglio il Mattarellum, che fu una grande riforma». La prova del nove del referendum poi, sulla riforma costituzionale la giudica una «non soluzione, ma una finzione». Boschi replica: «Mi dispiace che proprio D’Alema non rispetti la Costituzione visto che il referendum confermativo è previsto dall’articolo 138».

La Stampa 12.3.15
Pd spaccato, a rischio il divorzio-lampo
In Senato resta l’ipotesi di ridurre il periodo di separazione da tre anni a uno
di Francesca Schianchi


Il Senato fa un passo avanti sulle adozioni, ma rinuncia a farne uno rivoluzionario evitando di dare la possibilità ai single affidatari di un minore di adottarlo: c’era un emendamento del Pd che lo chiedeva, ma siccome nello stesso partito e in maggioranza c’è una fronda contraria, è stato ritirato per evitare lacerazioni traumatiche. Anche perché oggi è previsto un altro voto delicato per gli equilibri di maggioranza: quello sul divorzio breve.
L’emendamento ritirato
La lunga giornata del Senato dedicata al diritto di famiglia inizia discutendo del provvedimento che dà dignità di legge a quella che è una prassi, permettendo alle famiglie affidatarie di un minore, dopo un lungo periodo insieme, quando si è creato un legame affettivo, e ovviamente se il piccolo diventa adottabile, di chiederne l’adozione. L’emendamento di Francesca Puglisi, senatrice dem in segreteria nazionale, chiedeva che la stessa possibilità fosse data ai single, che già oggi per legge possono prendere bimbi in affido: «So che l’ottimo a volte è nemico del bene», motiva la Puglisi il ritiro dell’emendamento, quando, dopo una riunione di gruppo del Pd, si capisce che una parte dei colleghi è contraria, «l’intento dell’emendamento non era aprire scorciatoie per l’adozione dei single, ma di equiparare i diritti dei bambini che vanno in affido familiare a single». Il suo ritiro però ha un effetto immediato: tolto quello scoglio, la legge passa all’unanimità con 197 sì, nessun contrario e nessun astenuto. Ora la norma passa alla Camera, e lì, spiega Giorgio Tonini (Pd), «con la possibilità di discuterne più a lungo», l’emendamento verrà riproposto.
Le spine sul divorzio breve
Lo schema della larga condivisione è quello che si vorrebbe riproporre oggi, quando inizieranno i voti sul divorzio breve, che prevede di abbassare gli attuali tre anni necessari di separazione a uno se si tratta di un addio giudiziale, e sei mesi se è consensuale. Alla Camera fu quasi un plebiscito: più controverso è stato l’iter al Senato, dove ci è voluto quasi un anno alla relatrice Pd Rosanna Filippin per poterlo portare in Aula. E gli ostacoli non sono finiti: in Commissione è stata introdotta una terza ipotesi, il cosiddetto divorzio diretto o divorzio immediato o lampo, cioè senza nemmeno un periodo di separazione necessario, riservato a chi non ha figli minorenni. Ma è su questo punto che rischia di spaccarsi il Pd - una parte dei senatori è contraria - e la maggioranza, visto che, spiega il senatore Giuseppe Marinello, «il Ncd non voterà mai il testo così com’è arrivato oggi in Aula». Così, per riuscire a portare a casa il provvedimento, l’ipotesi a cui si sta lavorando è quella di stralciare la parte relativa al divorzio diretto. Dalla segreteria del Pd l’indicazione arrivata è in quel senso - meglio rinunciare a un pezzo ma approvare il resto - e pure la relatrice Filippin è d’accordo: il fatto però è che l’argomento è così capace di spaccare i partiti e così trasversale (Fi e M5S, almeno in buona parte, sono favorevoli al divorzio diretto) che i dem, dopo una giornata di trattative, a ieri sera ancora non erano certi di avere una maggioranza per far passare lo stralcio.
Oggi si comincia a votare. Comunque vada, sul divorzio diretto il governo non prenderà posizione e si rimetterà all’Aula. L’approvazione arriverà probabilmente martedì, poi, per diventare legge dello Stato, dovrà tornare alla Camera.

Il Sole 12.3.15
Cuperlo: è in gioco la nostra unità - Guerini replica: non è utile paventare rischi per il partito
Nuovo Senato e Italicum. Dopo il sì alla Camera scambio di accuse con la minoranza
D’Alema: sono preoccupato, il referendum sarà finzione
Riforme, nel Pd è alta tensione
di Emilia Patta


ROMA Avanti con la riforma della Rai e della scuola, oggi in Consiglio dei ministri. Il giorno dopo aver incassato l’importante sì della Camera alla “sua” riforma del Senato e del Titolo V, Matteo Renzi non risponde alle polemiche esplose nel suo partito e si concentra sui prossimi dossier. Sono i suoi, dai vicesegretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani alla ministra per le Riforme Maria Elena Boschi, a ripetere quello che il premier pensa e dice: l’Italicum non si cambia, se ne è discusso già molte volte negli organismi di partito, bisogna chiudere il capitolo alla Camera entro l’estate senza ulteriori rimpalli nella “palude” del Senato. Eppure il sì sofferto della minoranza del Pd al Ddl costituzionale pesa, e rischia di trasformarsi in valanga fuori controllo. È Gianni Cuperlo a evocare il fantasma della scissione: «Su un tema come la qualità della democrazia non è in gioco la sorte del governo ma il destino del Pd - scandisce davanti alle telecamere l’ex sfidante di Renzi alle primarie del Pd -. È in gioco il destino e la stessa identità del Pd, Renzi ci pensi prima che sia troppo tardi...». Immediata la replica di Largo del Nazareno: «Sbagliato evocare scissioni, disorienta i nostri elettori», rintuzza Guerini.
La minoranza chiede com’è noto modifiche alla legge elettorale concordata con Silvio Berlusconi, a maggior ragione ora che il patto del Nazareno sembra stracciato, soprattutto nella parte dei capilista bloccati: in questo modo - è il ragionamento che ripete in questi giorni Pier Luigi Bersani - si avrebbe la metà dei deputati “nominati” dai partiti e non scelti dagli elettori in presenza di un sistema monocamerale e di un meccanismo ipermaggioritario. Un vulnus alla democrazia, non certo una questione di poltrone o di candidature alle prossime elezioni. Lo spiega lo stesso Bersani parlando con i cronisti in Transatlantico, dispiaciuto per alcuni commenti apparsi sui giornali che accusavano la minoranza del Pd di guardare alle poltrone: «Mi ha ferito e offeso che qualche commentatore abbia detto che la mia, la nostra, è solo una questione di poltrone. Perché le mia poltrona sono pronto a cederla a Verdini. Ci sono delle idee, non stiamo parlando di ammennicoli ma di democrazia...». Bersani comunque stoppa ogni ipotesi di scissione, prendendo indirettamente le distanze dalle parole di Cuperlo: «Il Pd è casa mia, casa nostra. Non vedo affatto rischi di scissione, ma c’è un disagio di cui bisogna prendere atto, senza rispondere sempre “tiriamo dritto”. Renzi, che è il segretario, ha il dovere di tenere conto della sensibilità di tutti». A stoppare l’ipotesi scissione è anche il capogruppo a Montecitorio Roberto Speranza («non è nel nostro vocabolario»), che sabato prossimo riunirà a Bologna Area riformista. E anche il bersaniano “radicale” Alfredo D’Attorre assicura: «Nessuno di noi lavora per la scissione».
Per i renziani, tuttavia, l’uscita di Cuperlo è la conferma dell’esistenza di un progetto politico a sinistra che il premier intravede dietro le ultime uscite di Maurizio Landini e Laura Boldrini. E non è sfuggito l’attivismo delle ultime ore di Massimo D’Alema, che molti vedono dietro le posizioni più radicali di Cuperlo. L’ex premier proprio ieri sera era nella storica sede di via Giubbonari, a Roma, su posizioni a dir poco critiche: «L’Italicum non si può correggere perché si rischia di ricominciare daccapo? Perché i capilista non siano bloccati basta un emendamento di tre righe. Parliamo pur sempre di buon senso». E ancora: «Renzi dice che decideranno i cittadini con il referendum? Non è questa la soluzione, è ovvio che il referendum ha un carattere plebiscitario perché l’alternativa che viene offerta non è un’alternativa. Se si chiedesse ai cittadini “ma il Senato lo volete eleggere voi o volete che sia nominato dai Consigli regionali”? risponderebbero che lo vogliono eleggere loro».
Il punto è che ormai, come accusa Pippo Civati che sulle riforme ha votato no, quella della minoranza appare come una battaglia di retroguardia dal momento che il Senato, dove i numeri sono più risicati e il loro no avrebbe potuto avere un peso, ha già approvato l’Italicum con i capilista bloccati voluti da Berlusconi e il premio di lista voluto da Renzi. E comprensibilmente il premier vuole chiudere la partita alla Camera, dove i numeri sono per lui più favorevoli. In ogni caso sia l’Italicum alla Camera sia il Ddl Boschi in Senato saranno votati dopo le regionali (probabile data il 31 maggio), nella più che fondata speranza che alla fine Berlusconi ritorni su suoi passi.

Corriere 12.3.15
L’allarme di Pardi: «Il Pd sta guidando lo scempio della Toscana»
di Marco Gasperetti


FIRENZE Il professore è furibondo. E preoccupato per il futuro della sua terra. «Se sarà approvato questo Piano del paesaggio, stravolto dalla raffica di emendamenti deleteri, tra qualche decennio il panorama toscano sarà sfigurato e banalizzato — denuncia — e la deregulation liberista, che è il pensiero dominante del partito della pietra e del mattone, trionferà sovrana». Francesco Pardi, toscano di Pisa, detto Pancho, già docente di Analisi del Territorio alla facoltà di architettura dell’Università di Firenze e senatore dell’Idv, è convinto che sia iniziata una deriva pericolosa e che la Toscana sia uno degli ultimi baluardi di quella filosofia «del Bello e del Razionale» che ne ha fatto un esempio. «Con amarezza, voglio avvertire che si sta distruggendo una delle cose più sensate fatte in Italia: il piano paesaggistico firmato dall’assessore Anna Marson. In commissione il Pd ha iniziato a votare una raffica di emenda-menti di Forza Italia. Gli stessi che i dem avevano presentato ma che, dopo essere stati frenati dal presidente Enrico Rossi, con grande ipocrisia hanno accantonato avallando però quelli dell’opposizione». Il risultato, dice Pardi, rischia di provocare un effetto Attila. «Si cede sull’estrazione del marmo delle Apuane, si arretra sul divieto di gettare cemento lungo la fascia costiera, si soccombe sulla gestione delle discariche, si indietreggia su identità geomorfologiche di assoluto valore mondiale come le Balze del Valdarno, depositi lacustri di straordinaria bellezza. E al grido “rottamiamo tutto” si rischia un effetto Liguria dove negli anni si è fatto scempio del territorio. Purtroppo il Pd è in prima fila a guidare questo processo suicida di abbatti-mento delle regole. Mi appello a Rossi perché intervenga ». Accuse irrazionali? «Perché, è ragionevole distruggere uno dei gruppi montagnosi più significativi d’Italia, quello delle Alpi Apuane, per estrarre carbonato di calcio per fare dentifrici e sbiancanti per la carta? Se aveste bisogno di un dentifricio andreste a scalpellare il Davide di Michelangelo? Per non parlare dei danni per le spiagge di Elba e Versilia, al litorale apuano, ai crinali, ai parchi». A chi lo accusa di appartenere alla categoria di blocca-sviluppo incapaci di trovare alternative alla disoccupazione, Pardi replica con i centinaia di milioni spesi per i danni provocati dal dissesto idro-geologico. «Se quei soldi fossero stati investiti per mantenere gli argini di fiumi, torrenti e fossi, per evitare frane, smottamenti e alluvioni, lo Stato avrebbe risparmiato denaro e dato lavoro a tanti giovani».

il Fatto 12.3.15
Le mani legate di Sergio Mattarella
di Antonio Padellaro


L’altroieri Bersani ha avvertito il presidente Mattarella sui “rischi per la democrazia” legati all’accoppiata tra “una riforma costituzionale che crea un Senato di non eletti e una legge elettorale che, se passassero i capilista bloccati, produrrebbe una Camera di nominati alle dipendenze di un solo leader”. Meglio non si poteva dire anche se l’ex segretario è il principale esponente della minoranza dem che Viroli, su questo giornale, ha definito senza dignità politica “perché dignità impone coerenza fra pensiero e azione”, azione che in questo caso è solo calcolo personale. Ma il problema è un altro: cosa può fare Mattarella per impedire questo scempio? Qui dobbiamo tornare all’infausta rielezione di Napolitano, infausta perché – spacciata come stato di necessità di fronte alla paralisi del Parlamento – rappresentò al contrario la pietra angolare su cui costruire la democrazia autoritaria che ci attende. È stato Napolitano il vero artefice della nuova Costituzione, costruita per un uomo solo al comando. E non importa se e per quanto tempo il comando lo avrà Renzi. Poiché, una volta che il governo concentrerà su di sé il controllo del potere legislativo e di quello giudiziario (la responsabilità civile dei giudici è solo il primo passo), i giochi saranno fatti. Come potrebbe Mattarella fermare questa macchina in corsa? E anche l’ipotesi che possa esercitare una moral suasion sull’Italicum dei nominati appare complicata. Re Giorgio ha legato le mani a Mattarella: missione compiuta.

il Fatto 12.3.15
Non è vostra proprietà
di Sergio Mattarella

intervento dell’allora on. Sergio Mattarella alla Camera dei deputati il 20 ottobre 2005 in occasione del voto sul Ddl di revisione costituzionale del centrodestra

Signor Presidente, tra la metà del 1946 e la fine del 1947, in quest’aula, si è esaminata, predisposta ed approvata la Costituzione della Repubblica. Con l’attuale Costituzione, che vige dal 1948, l’Italia è cresciuta, nella sua democrazia anzitutto, nella sua vita civile, sociale ed economica. In quell’epoca, vi erano forti contrasti, anche in quest’aula. Nell’aprile del 1947 si era formato il primo governo attorno alla Democrazia cristiana, con il Partito comunista e quello socialista all’opposizione. Vi erano contrasti molto forti, contrapposizioni che riguardavano la visione della società, la collocazione internazionale del nostro paese. Vi erano serie questioni di contrasto, un confronto acceso e polemiche molto forti. Eppure, maggioranza e opposizione, insieme, hanno approvato allora la Costituzione. Al banco del governo, quando si trattava di esaminare provvedimenti ordinari o parlare di politica e di confronto tra maggioranza e opposizione, sedevano De Gasperi e i suoi ministri. Ma quando quest’aula si occupava della Costituzione, esaminandone il testo, al banco del governo sedeva la Commissione dei 75, composta da maggioranza e opposizione.
Il governo di allora, il governo De Gasperi, non sedeva ai banchi del governo, per sottolineare la distinzione tra le due dimensioni: quella del confronto tra maggioranza e opposizione e quella che riguarda le regole della Costituzione. Questa lezione di un governo e di una maggioranza che, pur nel forte contrasto che vi era, sapevano mantenere e dimostrare, anche con i gesti formali, la differenza che vi è tra la Costituzione e il confronto normale tra maggioranza e opposizione, in questo momento, è del tutto dimenticata.
Le istituzioni sono comuni: è questo il messaggio costante che in quell’anno e mezzo è venuto da un’Assemblea costituente attraversata – lo ripeto – da forti contrasti politici. Per quanto duro fosse questo contrasto, vi erano la convinzione e la capacità di pensare che dovessero approvare una Costituzione gli uni per gli altri, per sé e per gli altri. Questa lezione e questo esempio sono stati del tutto abbandonati. Oggi, voi del governo e della maggioranza state facendo la “vostra” Costituzione. L’avete preparata e la volete approvare voi, da soli, pensando soltanto alle vostre esigenze, alle vostre opinioni e ai rapporti interni alla vostra maggioranza. Il governo e la maggioranza hanno cercato accordi soltanto al loro interno, nella vicenda che ha accompagnato il formarsi di questa modifica, profonda e radicale, della Costituzione. Il governo e la maggioranza – ripeto – hanno cercato accordi al loro interno e, ogni volta che hanno modificato il testo e trovato l’accordo tra di loro, hanno blindato tale accordo. Avete sistematicamente escluso ogni disponibilità a esaminare le proposte dell’opposizione o anche soltanto a discutere con l’opposizione. Ciò perché non volevate rischiare di modificare gli accordi al vostro interno, i vostri difficili accordi interni. Il modo di procedere di questo governo e di questa maggioranza – lo sottolineo ancora una volta – è stato il contrario di quello seguito in quest’aula, nell’Assemblea costituente, dal governo, dalla maggioranza e dall’opposizione di allora. Dov’è la moderazione di questa maggioranza? Non ve n’è! Dove sono i moderati? Tranne qualche sporadica eccezione, non se ne trovano, perché la moderazione è il contrario dell’atteggiamento seguito in questa vicenda decisiva, importantissima e fondamentale, dal governo e dalla maggioranza. Siete andati avanti, con questa dissennata riforma, al contrario rispetto all’esempio della Costituente, soltanto per non far cadere il governo. Tante volte la Lega ha proclamato e ha annunziato che avrebbe provocato la crisi e che sarebbe uscita dal governo se questa riforma, con questa profonda modifica della Costituzione, non fosse stata approvata. Ebbene, questa modifica è fatta male e lo sapete anche voi. Con questa modifica dissennata avete previsto che la gran parte delle norme di questa riforma entrino in vigore nel 2011. Altre norme ancora entreranno in vigore nel 2016, ossia tra 11 anni. Per esempio, la norma che abbassa il numero dei parlamentari entrerà in vigore tra 11 anni, nel 2016! Sapete anche voi che è fatta male, ma state barattando la Costituzione vigente del 1948 con qualche mese in più di vita per il governo Berlusconi. Questo è l’atteggiamento che ha contrassegnato questa vicenda. Ancora una volta, in questa occasione emerge la concezione che è propria di questo governo e di questa maggioranza, secondo la quale chi vince le elezioni possiede le istituzioni, ne è il proprietario. Questo è un errore. È una concezione profondamente sbagliata. Le istituzioni sono di tutti, di chi è al governo e di chi è all’opposizione. La cosa grave è che, questa volta, vittima di questa vostra concezione è la nostra Costituzione.

il Fatto 12.3.15
D’Alema“

La scissione? Io penso ai contenuti”
di Wa Ma.


Queste riforme riducono il potere dei cittadini e aumentano quello delle oligarchie”. Massimo D’Alema, il giorno dopo l’approvazione della Camera alle riforme costituzionali, non rinuncia a dire la sua. Circolo Giubbonari di Roma, sezione tradizionalmente amica del Lìder Maximo. Dibattito sull’Europa. Ma prima di entrare lui va all’attacco: “C’è una cattiva riforma del bicameralismo. Io ho fatto delle proposte ma nessuno mi ha risposto. Mi è stato detto ‘noi abbiamo vinto il congresso e facciamo come ci pare’. È un argomento un pò singolare”. Polemico e durissimo. Anche rispetto al referendum , che Renzi sbandiera ai quattro venti. “È una finzione per come sarà posto: o vi mangiate questa minestra o si ritorna al passato. Sarà una specie di plebiscito, non è la soluzione”. In altre parole, vede la sconfitta. Un’altra. La minoranza dem per l’ennesima volta mentre esprimeva disappunto, votava sì. E allora ieri Gianni Cuperlo evoca una parola che ogni tanto si sente. Sempre senza conseguenze. Almeno finora: “Scissione”. In altri termini: “C’è in gioco la tenuta del Pd”. Peccato che Bersani lo blocchi subito: “Il Pd è casa mia, è casa nostra”. E lo stesso D’Alema preferisca volare alto: “Non so. Mi occupo del merito delle questioni”. Tradotto da chi di certo lo conosce bene: “Ma dove andiamo? E chi?”. Appunto.

il Fatto 12.3.15
Ripensamenti
Contrordine: I single? Niente adozioni
La senatrice del Pd Puglisi ritira la proposta: Ncd era contrario
di Virginia Della Sala


Un paradosso che non è stato eliminato. I single in Italia potranno continuare ad avere bambini in affido (che può durare massimo due anni ma essere anche prorogato nell’interesse del minore), ma non potranno poi adottarli. Se dovesse passare il disegno di legge, che ieri ha avuto il via libera del Senato, anche i genitori affidatari avrebbero diritto ad adottare i bambini di cui si sono occupati: si eliminerebbe così il doppio binario su cui negli anni si sono sviluppate, separatamente, le leggi relative ad adozione e affidamento. Ma il testo - che ora sarà all’esame della Camera, dopo l’approvazione di palazzo Madama (197 sì, nessun contrario) non contiene la proposta che prevedeva il diritto all’adozione anche da parte dei single affidatari.
ERA L’UNICO aspetto da tempo contestato del disegno di legge, perché percepito come un modo per facilitare l’accesso dei single all’adozione. La mano che ha prima proposto e poi revocato l’emendamento appartiene alla senatrice del Pd Francesca Puglisi: “L’intento di quell’emendamento non era aprire scorciatoie per l’adozione dei single, ma equiparare i diritti dei bambini che tribunale e servizi sociali possono dare in affido a un single, a quelli dei bambini affidati a famiglie regolarmente sposate”.
Un modo per risparmiare traumi ai minori e per adeguarsi ai tempi: l’affido familiare, infatti, negli ultimi cinque anni è calato del 16 per cento. Ma niente da fare. “Ho ritirato l’emendamento - ha spiegato la senatrice - perché so che l’ottimo a volte è nemico del bene e questa legge, se approvata, consente davvero di fare notevoli passi avanti in materia di diritti dei bambini”. A opporsi all’emendamento, in una posizione che avrebbe spaccato la maggioranza, anche Ncd di Angelino Alfano.
Valentina Castaldini, portavoce nazionale, ha definito addirittura “impensabile” approvare il ddl con la modifica della Puglisi: “Avere una madre e un padre, due figure complementari e fondamentali per la crescita di un bambino viene prima di qualunque esigenza personale. Proprio per questo il ddl ribadisce la differenza esistente tra affido e adozione”.

il Fatto 12.3.15
Partiti all’assalto
Il Nazareno del cemento minaccia la Toscana
di Ferruccio Sansa


Il Nazareno del cemento. Ora tocca alla Toscana affrontare l’assalto che Pd e Forza Italia stanno cercando di portare al paesaggio: dalla Lunigiana alla Garfagnana, da Lucca al Valdarno passando per la costa, le dune. Fino alle Apuane con le cave dove Michelangelo andava a cercare il marmo per i suoi capolavori.
Il braccio di ferro va avanti da settimane, sempre più duro mano a mano che ci si avvicina alle elezioni regionali. Al centro il Piano Paesaggistico della Regione Toscana voluto da Anna Marson, assessore all’Urbanistica. Un modello di tutela ambientale.
A UN PASSO dall’approvazione ecco spuntare un mare di emendamenti. Da destra e, inaspettatamente, dal centrosinistra che sostiene Marson. Sono praticamente la fotocopia gli uni degli altri: si prevede che le “direttive” indicate nel piano siano trasformate in semplici “indirizzi”. Termini tecnici, in pratica così si lascerebbe ai comuni mano libera per fare i fatti propri. Ancora: le criticità indicate dal Piano sarebbero da considerare semplici valutazioni. Non tassative.
Insomma, il Piano diventerebbe un colabrodo. Cominciano polemiche, lotte di corridoio, perché qui ballano interessi di centinaia di milioni. Il governatore Enrico Rossi (nella foto), che non si sa esattamente cosa pensi in proposito, ha tentato una mediazione: “Lodo Rossi”, lo ha chiamato qualcuno. Dopo pochi giorni tutto da capo. Ricompaiono gli emendamenti che passeranno in commissione in queste ore. E che rischiano di mettere in pericolo paesaggi tra i più belli e delicati della Toscana. Quindi d’Italia.
Il meccanismo è affinato con il cesello, ma un occhio esperto lo “sgama”. Proprio com’è avvenuto quando i tecnici della Regione Toscana hanno letto i nuovi emendamenti. Dove era scritto che bisogna “evitare” ecco invece “contenere”. Lo stesso discorso vale per le piattaforme turistico-ricettive, gli enormi complessi in riva al mare che potreste trovare a Dubai. Insidiate anche le splendide corti lucchesi costruite nel tardo Medioevo.
Il Piano Marson mirava a evitare che fossero inglobate nella periferia che si espande. Ma gli emendamenti del Nazareno non ci stanno. In Valdarno l’obiettivo sono le balze e i calanchi. Poi le cave delle Apuane. Che devono avere molti sponsor. Gli emendamenti prevedono la loro riapertura praticamente senza limiti. Il testo degli emendamenti merita di essere letto, tocca punte di vera poesia mentre vuole dare il via libera alle ruspe: “Sono anche i macchinari che tagliano la pietra e che spuntano tra il verde delle montagne a ricordare al tempo stesso la potenza della natura e la capacità dell’uomo di inserirvisi”. Roba che nemmeno Carducci!
Fino al capolavoro finale: l’assalto alla via Francigena – l’antica via dei pellegrini – che attraversa tutta la campagna Toscana più intatta. “Il piano – raccontano negli uffici regionali – prevedeva il divieto di nuove lottizzazioni che alterassero la “lettura”, cioè “la visione dei centri storici lungo i crinali”. Divieto cancellato, almeno nelle intenzioni. Ma ora si annuncia battaglia durissima. E Rossi dovrà dire da che parte sta.

il Fatto 12.3.15
E se fosse Christian Rocca?
Tentazioni renziane per il Corriere


Non ditelo a Mario Calabresi, che dal primo giorno alla Stampa lavora per passare alla direzione del Corriere della Sera, ma circola un altro nome per rompere l’impasse dentro Rcs. Chi mettere al posto di Ferruccio de Bortoli, che ad aprile dovrebbe lasciare? A Palazzo Chigi preferiscono i tweet ai giornali, ma certo non dispiace di bonificare via Solferino dopo che De Bortoli ha evocato “lo stantio odore di massoneria” a proposito del patto del Nazareno. E allora, altro che Calabresi, il nome giusto i renziani ce l’hanno: Christian Rocca (ex del Foglio, diretto da un altro renziano organico come Claudio Cerasa). Perché Rocca? Recuperate la copertina agiografica di IL, il mensile del Sole 24 Ore che dirige, dedicata ai 100 giorni di governo: Renzi con sneakers, pizza, iPad, qualche libro (giusto quello di Cerasa) e iperattivo. Proprio l’immagine che Renzi vuole proiettare. Magari anche dal Corriere.

il Fatto 12.3.15
Brutta annata
Rcs vende i gioielli, ma i debiti salgono
Nel bilancio relativo al 2014: i debiti aumentano
Ora è più vicina la cessione dei libri a Mondadori
di Camilla Conti


Milano Si vendono i gioielli del gruppo per coprire le perdite operative dell’azienda e non per ridurre i debiti”. Così parlava lo scorso 7 marzo in un’intervista a Repubblica, Urbano Cairo, azionista di Rcs con circa il 3,6 per cento riferendosi alle trattative in esclusiva con Mondadori per la vendita della società dei Libri della Rizzoli. Se il patron di La7 ci va giù così duro sui conti è perché la situazione del gruppo che edita il Corriere della Sera è critica, avevano commentato a caldo i maligni.
IERI È STATO TOLTO IL VELO al bilancio 2014 che Rcs Mediagroup ha chiuso con un calo del 2,6% dei ricavi consolidati, pari a 1.279 milioni, rispetto al 2013. La perdita netta consolidata risulta dimezzata a 110,8 milioni contro quella di 218,5 milioni di fine 2013 ma l’indebitamento finanziario netto è salito ancora a 482,5 milioni dai 474,3 dell’anno precedente. Cairo aveva puntato il dito sui debiti ricordando che a fine 2011 erano pari 938 milioni e da quel momento Rcs ha incassato 396 milioni sotto forma di aumento di capitale, realizzato dismissioni per altri 397 milioni e ha convertito le azioni di risparmio con un introito di altri 49 milioni. Risultato: “Il debito netto sarebbe dovuto scendere ben sotto i 100 milioni. Ma nel frattempo le perdite di cassa sono ammontate a circa 288 milioni e sono stati fatti investimenti per altri 116 milioni e 15 sono stati spesi in acquisizioni”, aveva attaccato Cairo. Ma l'indebitamento a fine 2014 è salito ancora. Come ridurlo? La strategia del management è quella di concentrarsi sui settori News e Sport (come la Gazzetta) mentre verranno cedute le attività estranee al core business oltre alla eventuale vendita a Mondadori di Rcs Libri che nel 2014 ha consolidato la posizione di secondo operatore di mercato, raggiungendo la quota dell’11,8% (+4,8% rispetto al 2013).
Sullo sfondo, continuano intanto ad agitarsi le grandi manovre fra gli azionisti in vista del 29 marzo quando scadranno i termini per la presentazione delle liste dei candidati per il rinnovo del consiglio di amministrazione. E anche della direzione del Corriere.
La Fiat presieduta da John Elkann è il maggiore azionista con il 16,7% ma è anche l'unico che vorrebbe confermare alla guida della società l’amministratore delegato Pietro Scott Jovane. Contrari, invece Cairo e Diego Della Valle (al 7,3%). Se si creasse una sponda con gli eredi Rotelli e soprattutto con Intesa Sanpaolo (al 4,2%) presieduta da Giovanni Bazoli, il fronte contrapposto alla Fiat raggiungerebbe il 18% del capitale. Nel mezzo restano Mediobanca (con il 6,2%) che è disponibile ad appoggiare solo una lista unitaria presentata dal socio di maggioranza e Unipol (4,6%). Mentre la Pirelli di Tronchetti Provera (al 4,4%) potrebbe fare da ago della bilancia nel disegno dei prossimi equilibri ma – sottolineano alcune fonti – difficilmente si metterà contro Intesa.
LE VOCI sulle possibili alleanze si rincorrono, così come i rumors sull’arrivo di un nuovo azionista che avrebbe rastrellato i titoli sul mercato negli ultimi mesi e, infine, sulla prima linea manageriale: in cambio della conferma di Jovane al timone operativo, Elkann potrebbe concedere agli altri azionisti forti, oltre alla nomina del presidente, anche la scelta di un direttore generale cui affidare lo sviluppo delle attività multimediali. Altri osservatori scommettono, invece, che il vero rimpasto del board sarà rimandato di almeno un anno. Di certo, l’assemblea dei soci su bilancio e rinnovo delle cariche è stata convocata per il 23 aprile.

La Stampa 12.3.15
Scuola, restano gli scatti di anzianità
Ai docenti 400 euro per aggiornarsi
Si procede con un disegno di legge, in Parlamento dalla prossima settimana
Rimarranno i contributi per chi sceglie le paritarie, ma solo fino alla terza media
di Flavia Amabile


È dalla prossima settimana tutti gli occhi saranno puntati sul Parlamento perché la vera partita della Buona Scuola si giocherà lì. Renzi non ha voluto saperne di cambiare idea, disegno di legge aveva deciso dieci giorni fa e disegno di legge sarà. Nemmeno i parlamentari del Pd due sere fa sono riusciti a fargli cambiare idea. Oggi quindi vedrà la luce il disegno di legge che comprenderà due novità emerse due giorni fa. Innanzitutto il governo ha fatto marcia indietro sugli scatti di anzianità. Nessuno li toccherà per non incidere sul reddito futuro degli insegnanti e per bilanciare l’inevitabile delusione che scateneranno le misure contenute nel provvedimento dopo mesi di annunci di ben altro tipo. Molto diversa sarà quindi rispetto a quanto emerso nei mesi scorsi tutto il capitolo del merito, sarà premiato sulla base di «risorse aggiuntive» che verranno precisate in seguito.
Le paritarie
Il secondo punto riguarda le paritarie: non è stato facile arrivarci ma il compromesso raggiunto prevede che potrà usufruire di agevolazioni chi iscriverà i figli alle paritarie ma con l’esclusione delle superiori. Confermata la chiamata diretta dei docenti da parte dei presidi, in una prima fase riguarderà soltanto chi fa parte dell’organico funzionale (o dell’autonomia), in base alla progettazione delle scuole e alle necessità legate all’ampliamento dell’offerta formativa. Si avrà come riferimento un albo distrettuale di insegnanti. Il nodo più delicato è quello delle assunzioni. Da 150mila precari annunciati a settembre si è passati nell’ultima settimana a circa 50mila assunti da settembre mentre dovrebbero essere 100mila o poco più se si prende in considerazione anche il 2016.
Le graduatorie
Ancora da chiarire chi esattamente rientrerà nel piano. «Si partirà dalle Graduatorie ad esaurimento e dai vincitori del concorso 2012», ha spiegato la ministra Maria Elena Boschi. Esclusi gli idonei e molti altri a partire da chi insegna in classi di concorso non più insegnate. In realtà, ha aggiunto Maria Elena Boschi, non ci sono vincoli per il governo se non per il risarcimento di 2mila docenti a seguito della sentenza della Corte di giustizia europea. Fin qui i punti più controversi.
Il governo però promette mai più classi pollaio; scuole aperte anche il pomeriggio; una Carta per rafforzare la dignità sociale del ruolo del docente: per il primo anno 400 euro per tutti i professori, che potranno essere spesi solo per consumi culturali.

Corriere 12.3.15
Scuola, il rebus dei premi al merito Restano gli scatti di anzianità dei prof
Ai docenti 400 euro per libri e spettacoli. Sconto fiscale solo alle paritarie dell’infanzia
di Claudia Voltattorni


ROMA Dietrofront. Gli scatti di anzianità restano. Ogni 9, 15, 21, 28, 35 anni, i docenti avranno il loro aumento di stipendio. Come è stato fino ad oggi. Dopo averli prima cancellati del tutto, poi ridotti al 30 per cento, la Buona Scuola li rimette in campo: al cento per cento continueranno a pesare sullo stipendio dei prof. Ma rimangono anche quelli di merito, tanto sbandierati fin dall’inizio del lavoro sulla riforma renziana della scuola italiana, «per valorizzare la professionalità del docente e ridare dignità al suo ruolo sociale». Nelle intenzioni della Buona Scuola, avrebbero dovuto pesare sulla busta paga per il 70 per cento. Ci saranno ancora. Ma per questo si cercano «risorse fresche», che il premier Renzi ha assicurato riuscirà a trovare con l’aiuto del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.
Il ripensamento sugli scatti lo ha voluto lo stesso Renzi che fino all’ultimo continua ad esaminare, aggiungere, togliere, modificare il testo del disegno di legge sulla riforma preparato dal ministero dell’Istruzione che oggi pomeriggio il Consiglio dei ministri licenzierà e manderà alle Camere per la discussione parlamentare. E all’ultimo minuto entra anche la «Carta degli insegnanti»: 400 euro per il prossimo anno scolastico per tutti i professori da spendere in consumi culturali (libri, teatro, concerti, mostre, audiovideo telematici). Una cosa simile c’era già stata con l’allora ministra dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza. La Carta è un modo «per dare un segnale agli insegnanti, per rafforzare la dignità sociale del ruolo del docente». E forse nella decisione ha pesato il calcolo fatto appena pochi giorni fa dalla Uil Scuola secondo cui lo scatto di merito per uno stipendio medio di un professore sarebbe stato di circa 16 euro lordi al mese.
Resta l’altro nodo cruciale: con quanti professori si farà la Buona Scuola dal primo settembre 2015? Centomila precari assunti a tempo indeterminato sono quelli che vuole il governo: da Graduatorie ad esaurimento e vincitori del concorso 2012. Con il decreto legge ci sarebbe riuscito. Con il ddl tutto si allunga. Anche se ieri la ministra alle Riforme Maria Elena Boschi alla Camera ha promesso: «Manterremo l’impegno a garantire le nuove assunzioni dal primo settembre e ci sono i tempi perché questo possa avvenire attraverso l’approvazione da parte del Parlamento».
Più prof così da aprire le scuole anche il pomeriggio è l’idea del premier che insiste nel puntare moltissimo sull’autonomia dei presidi; si potranno fare la loro squadra con i cosiddetti mentor ; sceglieranno i prof in base al proprio progetto scolastico e premieranno i più meritevoli. «Ma - dice Massimo Di Menna della Uil - così si rischia la rivolta della scuola». Invece «quello della scuola è un lavoro di squadra - aggiunge Mimmo Pantaleo della Flc Cgil - che va valorizzato nel suo insieme». Meglio quindi «definire degli obiettivi che vanno raggiunti con il lavoro di tutti - è la proposta della Cgil - con dei criteri e dei parametri oggettivi».
Si torna indietro, infine, anche sulla detrazione fiscale per chi manda i figli alle scuole paritarie. Secondo il premier sono soprattutto le paritarie dell’infanzia e della primaria ad offrire un servizio pubblico che lo Stato non riesce a garantire: la detrazione riguarderebbe solo questo ciclo di scuole.

Corriere 12.3.15
Tra promesse e dietrofront
I pilastri (in bilico) del piano


Oggi finalmente sapremo con certezza qual è la «gigantesca scommessa educativa», annunciata da Renzi il primo marzo dell’anno scorso. A settembre, il documento sulla «buona scuola» si reggeva su due pilastri: la cancellazione delle graduatorie a esaurimento con l’assunzione di 150 mila insegnanti (la metà senza una cattedra) e un innovativo piano sulle retribuzioni di merito, da subito rivelatosi difficile da attuare e, dopo i primi calcoli, anche iniquo. Oggi di queste due promesse non resta granché: sul merito si cambia completamente strada e comunque ieri dal ministero hanno assicurato che gli scatti di anzianità restano; sulla fine delle supplenze dal primo settembre prossimo e sull’azzeramento delle graduatorie storiche al momento la situazione è di totale caos. Non è detto che la retromarcia di queste ore sia un male e che le soluzioni che si troveranno nelle prossime settimane non si riveleranno migliori del pasticcio che si stava delineando. Il metodo della riforma fatta con «i consigli della nonna» — più volte evocati nei comizi — e con i suggerimenti online non ha prodotto idee degne di nota. Né si è rivelato migliore di un serio confronto tra esperti, forze politiche e anche sindacati.

Il Sole 12.3.15
Istruzione
Retromarcia sul merito dei prof
L’ipotesi di abolire per sempre gli scatti di anzianità sembra tramontare
di Eugenio Bruno e Claudio Tucci


Se non è un clamoroso passo indietro, poco ci manca. Il governo è orientato a mantenere gli aumenti di stipendio automatici per gli insegnanti. La valutazione e il merito faranno capolino nella scuola solo se si riusciranno a trovare risorse aggiuntive. Gli eventuali fondi in più verrebbero assegnati ai presidi a cui sarebbe lasciato il compito di scegliere le modalità di attribuzione ai docenti migliori delle “somme premianti” (si potrebbe demandare tutto anche alla contrattazione d’istituto).
La novità è emersa ieri, e potrebbe trovare conferma oggi nel disegno di legge sulla riforma della scuola atteso nel pomeriggio sul tavolo del Consiglio dei ministri. L’idea di abolire per sempre gli scatti d’anzianità (che sono un unicum in tutta l’orbita statale) era stata annunciata a settembre dall’Esecutivo. Poi, a seguito della consultazione pubblica dei mesi successivi, è stata modificata: si è parlato di limitare l’anzianità di servizio al 30% delle risorse disponibili, e legare al merito il restante 70%. A risorse invariate (quindi queste percentuali si sarebbero dovute applicare nei limiti di 280 milioni di euro - che è il costo attuale di uno scatto d’anzianità).
Adesso la marcia indietro. Con una novità entrata in extremis: la «Carta del prof» dove dovrebbero essere previsti per il primo anno 400 euro per tutti i docenti che potranno essere spesi solo per consumi culturali (libri, teatro, concerti, mostre).
La carriera, con la previsione di due ruoli (mentor e staff), e la valorizzazione del merito finiranno in una norma delega che dovrà riscrivere come (e quale peso) dare alla valutazione. Si è alla caccia di fondi aggiuntivi. Ancora ieri i tecnici della Ragioneria generale dello Stato erano a palazzo Chigi per trovare risorse: si starebbero cercando tra i 60 e gli 80 milioni di euro.
Il pacchetto di stabilizzazione dei docenti precari resterebbe confermato: a partire dal 1° settembre saranno immessi in ruolo circa 100mila insegnanti. Verranno presi in base al fabbisogno degli istituti dalle «Gae», le cosiddette graduatorie a esaurimento, e dai vincitori (non ancora assunti) dell’ultimo concorso Profumo del 2012. Verrebbero quindi esclusi i candidati idonei (dopo che il Miur con una nota dello scorso anno aveva annunciato di volerli comunque stabilizzare). A questo gruppo si aggiungeranno tra i 10-15mila supplenti degli elenchi di istituto, che avranno un contratto a termine e una corsia preferenziale nel concorso da bandire a ottobre. Per far scattare le assunzioni servirà un iter parlamentare veloce. Se ci si dovesse arenare, non è del tutto scartato il piano B: programmare le assunzioni quest’anno sulla base del semplice turn-over e rimandare al 2016 la maxi-stabilizzazione.
Nel ddl ci sarà un rafforzamento dei poteri dei presidi che potranno scegliersi l’organico dell’autonomia. Da quanto si apprende, si creerà un albo provinciale di docenti neo-assunti tra cui i dirigenti scolastici potranno scegliere per potenziare gli insegnamenti indicati nel ddl: musica, educazione fisica e inglese alle primarie; arte, diritto ed economia alle secondarie. Anche nell’ottica di aprire le scuole al territorio nel pomeriggio. I presidi potranno anche derogare alla composizione delle classi per evitare sovraffollamenti.
Altro ritocco dell’ultima ora riguarderebbe gli sgravi alle paritarie: verrebbero concessi soltanto ai genitori che hanno figli iscritti nelle scuole dell’infanzia e della primaria (ma l’area centrista della maggioranza Ncd-Ap preme per estendere il beneficio fino alle superiori). Il pacchetto di norme “fiscali” si completa con il 5 per mille destinato anche alle scuole e lo «school bonus» (cioè un credito d’imposta al 65% per chi investe su nuove strutture, manutenzione, occupabilità degli studenti).
Il ddl conterrà, poi, un rafforzamento dell’alternanza scuola-lavoro: le ore di formazione on the job saliranno dalle attuali 70-80 l’anno (quasi sempre effettuate in quarta classe) ad «almeno 400 ore» nell’ultimo triennio degli istituti tecnici e professionali. Nei licei si scende «ad almeno 200 ore» (sempre nell’ultimo triennio). L’alternanza si potrà fare in azienda, ma anche negli enti pubblici e si dovrà varare la «carta dei diritti degli studenti» impegnati in queste attività formative. Nascerà, inoltre, il «Curriculum dello studente»: le scuole potranno attivare insegnamenti opzionali per andare incontro alle esigenze dei ragazzi (si potranno realizzare, quindi, programmi più flessibili).
Finirà, invece, in norme delega la revisione dell’abilitazione all’insegnamento alle secondarie (oggi dopo la chiusura delle Ssis ci si abilita con percorsi differenti, Tfa e Pas). L’idea del governo è quella di inserire l’abilitazione all’interno della laurea magistrale (così da uscire dall’università con un titolo direttamente valido per salire in cattedra). Per ora continua a non parlarsi del riordino delle classi di concorso (le materie che si possono insegnare). Un passaggio fondamentale se si manterrà l’impegno di tornare a bandire concorsi regolari (ogni tre anni) dal 2016.

Il Sole 12.3.15
L’intervento. Una proposta che lascia perplessi
A che serve la fusione fra Indire e Invalsi?
di Giorgio Allulli


Tra le varie innovazioni contenute nel disegno di legge sulla “Buona scuola” è spuntata, un po’ a sorpresa, la proposta di sciogliere Invalsi e Indire, ovvero i due Enti di ricerca del Miur, per costituire un nuovo Istituto, l’Ipav, ovvero l’Istituto per l’autonomia e la valutazione scolastica. Si tratta di una proposta che lascia francamente molto perplessi per diverse ragioni. Infatti i due Enti, dopo il periodo non facile ed anche un poco turbolento dello sviluppo iniziale, si stanno assestando e negli ultimi tempi stanno finalmente assumendo un assetto più solido, sia sotto l’aspetto della missione e dei compiti da svolgere, sia sotto l’aspetto organizzativo: infatti entrambi hanno da poco superato, non senza difficoltà, la fase “eroica” dell’organico costituito da docenti distaccati più o meno temporaneamente e “prestati” all’attività di ricerca, per assumente una fisionomia professionalmente più matura basata su un organico stabile di ricercatori e collaboratori di ricerca.
L’obiettivo della norma, dice il testo del disegno di legge, è rafforzare l’autonomia del sistema nazionale e garantire l’interazione tra le attività di valutazione, di miglioramento delle scuole, di formazione del personale, di ricerca e di innovazione. Quello che non si capisce è perché mai questi obiettivi non possano essere raggiunti dai due Istituti attraverso un normale coordinamento delle loro attività. Del resto le attuali normative ben differenziano le funzioni ed i ruoli dei due enti: valutazione del sistema scolastico l’Invalsi e documentazione e supporto tecnico al sistema l’Indire; nulla vieta che a partire da queste due diverse missioni si individuino, anche attraverso le indicazioni ministeriali, le modalità di collaborazione e le necessarie sinergie; ed ove queste ultime, per eventuali difficoltà o resistenze interne, non si realizzassero, il Miur, in quanto autorità vigilante, ha tutti gli strumenti per intervenire; anzi è proprio la differenziazione istituzionale a rendere più trasparenti le dinamiche tra gli enti, dinamiche che invece rimarrebbero più opache e di difficile governabilità da parte del Miur se occorrenti all’interno dello stesso organismo. Non sono chiari dunque i vantaggi che si conseguirebbero attraverso lo scioglimento dei due enti e la creazione contestuale del nuovo Istituto. Quelli che sono certi sono invece gli svantaggi conseguenti ad una simile iniziativa; innanzitutto l’inevitabile rallentamento delle attività a seguito delle operazioni di accorpamento: basti pensare a tutti gli adempimenti regolamentari, organizzativi e gestionali conseguenti alla soppressione dei due Istituti ed al trasferimento delle risorse umane, finanziarie e strumentali nel nuovo organismo. In secondo luogo il raddoppio delle dimensioni istituzionali comporterà un aumento delle difficoltà e delle pesantezze gestionali, considerando anche la diversa localizzazione, Roma (Frascati) e Firenze, dei due Istituti. L’accorpamento dei due organici comporterà anche delle inevitabili incertezze del personale riguardo i propri futuri ruoli professionali con la conseguente crescita dei livelli di entropia interna. Tutto questo curiosamente avviene, o dovrebbe avvenire, mentre i due Istituti sono fortemente impegnati nel sostegno all’avvio del nuovo sistema nazionale di Valutazione, rispetto al quale svolgono entrambi un ruolo chiave: di predisposizione degli strumenti di rilevazione, analisi dei Rapporti di autovalutazione e formazione dei valutatori l’Invalsi e di sostegno alle scuole nei processi di miglioramento l’Indire. È dunque una fase delicatissima di una delle più importanti sfide del sistema scolastico italiano, ma la proposta contenuta nel disegno di legge non potrebbe che metterla in seria difficoltà. E se questo dovesse avvenire i cattivi pensieri sarebbero inevitabili.

Il Sole 12.3.15
I nodi della riforma
Un rinvio sinonimo di idee poco chiare


Ve lo ricordate lo screzio tra Maria Chiara Carrozza e Fabrizio Saccomanni a gennaio 2014 sugli scatti degli insegnanti? Prima bloccati, poi sbloccati attingendo alle risorse di un fondo, il «Mof», destinato, in realtà, al miglioramento delle attività formative a vantaggio degli studenti. Per il personale statale gli aumenti automatici di stipendio sono stati aboliti alla fine degli anni ’90. Nella scuola, no in attesa - si diceva allora - di introdurre una progressione di carriera. Ecco perchè è un doppio passo indietro la scelta dell’Esecutivo di mantenere ora gli scatti d’anzianità come unico criterio di aumento salariale. Intanto, si rinuncia, ancora una volta, alla valutazione che non può non entrare in un mondo come l’istruzione (per troppi anni zona franca). Poi, si sbilancia il ddl di riforma che verrà presentato oggi, il cui piatto forte resta solo la stabilizzazione di circa 100mila docenti precari (che non ci chiede nessuno, nemmeno l’Europa, e di cui la scuola non ha bisogno). Il meccanismo di assumere così tanti insegnanti era legato all’idea di aprire alla valutazione e al merito la carriera dei docenti. I due binari dovevano viaggiare in parallelo. Siamo certi che alla fine le risorse per premiare i professori si troveranno. Ma il rinvio, su questo aspetto, a una delega (generica) è davvero un perdere ulteriore terreno. E sinonimo di idee poco chiare. La legge di Stabilità mette sul piatto tre miliardi di euro a regime per la scuola (uno stanziamento mai visto prima), e quasi tutto se ne andrà per il personale. Ci dimentichiamo ancora una volta degli studenti, e delle loro esigenze. Come ai tempi del decreto Carrozza. Possibile che a distanza di anni e, riforma dopo riforma, non si riesce a comprendere come la scuola non sia solo questione di come stabilizzare gli insegnanti precari?

La Stampa 12.3.15
Pronta la Rai modello Renzi: un solo capo scelto dal governo
La proposta in consiglio dei ministri: rappresentati Parlamento, Tesoro e per la prima volta anche i dipendenti
di Fabio Martini


Questa sera, nel salone del Consiglio dei ministri, inizierà a calare il sipario sulla Rai che gli italiani hanno conosciuto negli ultimi 40 anni, la Rai della epocale riforma del 1975: la Rai delle mille voci ma anche della lottizzazione. Del Tg1 sempre filo-governativo e del Tg3 sempre di opposizione. Del canone pagato (ed evaso) a macchia di leopardo. La Rai che passò dal controllo del governo a quello del Parlamento. Oggi il presidente del Consiglio avvierà nel Cdm una discussione tra i suoi ministri attorno ad alcune linee-guide di riforma, destinate a diventare un ddl governativo già da stasera o al massimo nei prossimi giorni. Ma la decisione fondamentale sulla governance della “nuova” Rai è già presa e Matteo Renzi l’ha lasciato intendere l’altra notte, nel corso di un incontro con i parlamentari pd del ramo comunicazione.
Il presidente del Consiglio vuole adottare un modello Spa, con un «capo azienda» (amministratore delegato o un direttore generale), di nomina governativa, con un Cda di 7 membri: tre eletti in seduta comune dal Parlamento (tra questi sarà scelto il Presidente), tre indicati dal ministero dell’Economia e uno in rappresentanza dei dipendenti Rai, novità sul modello tedesco della mitbestimmung, la compartecipazione. Resterebbe la commissione di Vigilanza come “cane da guardia” - non si sa ancora con quanti “denti” - del servizio pubblico. Il tutto è stato chiarito in una bozza di documento preparata da Renzi per il Cdm di oggi: «La Rai non è una municipalizzata di provincia: la prima industria culturale italiana non può sottostare a procedure cavillose o avere l’incubo della Corte dei Conti», «la nostra creatività può gareggiare con i grandi network a livello mondiale, per entrare nei mercati internazionali, per esportare all’estero le fiction che raccontano l’Italia». Per farlo «non servono architetture barocche che complichino le cose, ma una guida manageriale, come quella di ogni grande player internazionale, un capo che possa decidere», che sia messo al riparo dalle «dalle rissosità del Parlamento». E quanto alle tre reti ammiraglie, si va verso una «specializzazione tematica». L’ipotesi sarebbe quella di una RaiUno generalista, una RaiDue per innovazione e sperimentazione, e una RaiTre a carattere culturale, preferibilmente senza pubblicità. Resta ancora aperto il dibattito sul canone tra l’ipotesi del collegamento con la bolletta elettrica, in passato avanzata dal sottosegretario Antonello Giacomelli, e l’idea di Renzi della eliminazione tout court dell’imposta. Consiglio dei ministri importante, quello di oggi ( si varerà anche il ddl scuola) e nel corso del quale nessuno metterà in discussione l’architrave della Rai di Renzi, incardinata su un “capo” di nomina governativa. Snodo controverso: si va verso una Rai sotto la tutela di palazzo Chigi? Interrogativo legittimo agitato dalle opposizioni, ma che troverà una risposta soltanto quando il governo avrà indicato il nome del prescelto. Una scelta che potrebbe alimentare le polemiche, ma potrebbe anche spegnerle, in caso di nomina di alto profilo e di comprovata indipendenza.

Corriere 12.3.15
Zaccaria: ma l’ad non può essere scelto dalla politica
di P. Co.


ROMA «La Corte costituzionale ha sempre espresso pareri nitidissimi: gli organi di governo della concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo non possono essere espressione esclusiva o prevalente del potere esecutivo». Roberto Zaccaria boccia senza mezzi termini le indiscrezioni sulla riforma Rai targata Matteo Renzi. Zaccaria non è solo l’ex presidente della Rai dal 1998 al 2002 ma è (in questo caso quasi soprattutto) uno studioso e un docente del Diritto della comunicazione. Spiega Zaccaria: «A mio modo di vedere, se lo schema per i vertici è quello che si dice, appare improponibile che l’amministratore delegato, nelle cui mani dovrebbe andare la massima concentrazione dei poteri, possa essere non solo indicato dal ministero dell’Economia ma soprattutto votato dal Consiglio dei ministri. Si potrebbe anche accettare l’idea che uno o due consiglieri siano designati dall’esecutivo, ma non certo il detentore del governo aziendale. Il consiglio di amministrazione, così come avviene nella gran parte delle tv pubbliche europee, dev’essere espressione della complessità sociale».
L’ex presidente della Rai osserva poi che «non può essere il legislatore a decidere una riunione delle Camere in seduta comune, ipotesi contemplata dalla Costituzione per casi ben specifici e chiaramente indicati».

Corriere 12.3.15
Bergoglio
Alla ricerca di un equilibrio migliore tra i tanti elogi e l’accusa di populismo
di Massimo Franco


Q uando gli si chiede come sta, a volte il Papa risponde, in italiano: «Sono vivo». E l’impressione è che Francesco stia facendo una constatazione con se stesso, prima che con gli altri. Sembra quasi voler dire: sono qui, resisto, e vado avanti. A due anni dalla sua elezione al Pontificato, il 13 marzo del 2013, in effetti è più vivo che mai. Vivo, non sopravvissuto: al punto che la tentazione di definire il suo come un biennio trionfale diventa prepotente. Ma va frenata. I successi «di pubblico», meglio, «di popolo», sono strabilianti: le folle lo acclamano ovunque, i governi se lo contendono. La sua pedagogia fa scuola. E in politica estera, anche grazie al ruolo del segretario di Stato, Pietro Parolin, è riuscito a restituire al Vaticano una presenza ed una credibilità che non si avvertivano da diversi anni: basta citare la mediazione sulla Siria dell’autunno del 2013 e, di recente, tra gli Stati uniti e Cuba. Eppure, il 2015 restituisce una Roma papale in pieno rivolgimento. Proiettata verso una metamorfosi delle strutture e delle gerarchie, e insieme inquieta.
Nel simbolico cantiere racchiuso tra le Sacre Mura non ci sono solo riformisti operosi ed entusiasti, ma ecclesiastici impauriti, disorientati; e in alcuni casi decisi a resistere, in attesa di un impossibile ritorno al passato. Francesco sa anche quanto il suo stile di comunicazione possa suscitare sconcerto. Quando nel gennaio scorso, ritornando in aereo dal viaggio nelle Filippine e a Sri Lanka, parlò dei cattolici che facevano figli «come conigli», le reazioni sono state almeno di stupore. Il giorno dopo Francesco ha letto i giornali, e si è confidato con i collaboratori. «Mi dispiace tanto, non mi sono fatto capire», avrebbe detto. Tra l’altro, sapeva che avrebbe fornito un pretesto a chi nella Curia, e non solo, tende a presentarlo come un Pontefice troppo ciarliero.
Si tratta di una caricatura alimentata da quanti ritengono Francesco non una novità benefica per la Chiesa cattolica, ma una parentesi anomala accompagnata da qualche perplessità sulle sue capacità di governo: sebbene in realtà abbia esperienza di comando, e la faccia valere. A fine febbraio il professor Guzman Carriquiry Lecour, uruguayano, vicepresidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, ha pronunciato un discorso in un dibattito in Campidoglio a Roma sulle «sfide di Francesco», di cui pochi si sono accorti. Eppure, conteneva indizi preziosi per capire quanto sta accadendo intorno a Jorge Mario Bergoglio. Anche perché Carriquiry è uno dei laici più vicini all’inquilino di Casa Santa Marta. Suo amico da decenni, è una delle pochissime persone che contribuirono a elaborare il famoso documento di Aparecida, in Brasile, nel maggio del 2007, pietra miliare della leadership dell’allora arcivescovo di Buenos Aires sugli episcopati latinoamericani.
Ebbene, Carriquiry ha bollato le «resistenze viscerali, spesso l’invidia e la superbia, il rifiuto sistematico e pieno di pregiudizi che si avvertono in alcune reazioni di settori ultraminoritari in seno alla Chiesa stessa» nei confronti del Papa argentino. Ed ha usato parole allarmate per avvertire che non bisogna «sottovalutare le perplessità e lo sconcerto che possono causare e diffondere i seminatori della confusione e della divisione»; per ribadire che «la riforma della Chiesa non può passare e dipendere da un uomo solo al comando». Quella di Carriquiry è un’analisi cruda e lucida sui rischi che il «modello Bergoglio» venga accolto solo a livello superficiale; e dunque che le sue riforme si rivelino alla lunga tutt’altro che irreversibili. Il problema è dentro il Vaticano, e nei rapporti con la burocrazia e gli episcopati: in primo luogo con quello italiano, che continua ad ubbidire al Papa sudamericano con una punta di frustrazione; e che accoglie alcune delle sue nomine come un’umiliazione, comunque un mistero doloroso rispetto al passato.
Per questo si sente dire da alcuni cardinali che persiste «un pregiudizio antitaliano già emerso prima e durante il Conclave». E, andando oltre, si definisce Francesco come «un Papa latinoamericano che non nasconde una certa ostilità verso ciò che è Nord del mondo». Il giudizio appare un po’ semplicistico, e riflette incomprensioni e malintesi evidentemente irrisolti. Si salda alla sensazione che la figura carismatica di Bergoglio rischi di oscurare tutto ciò che esiste tra lui e il popolo. Secondo queste critiche, è come se esistessero Francesco ed i fedeli, con la Chiesa e gli episcopati ridotti a comparse. Le tensioni si riverberano sulla Cei, la Conferenza episcopale italiana, immersa nel dualismo tra il presidente, Angelo Bagnasco, e il segretario, monsignor Nunzio Galantino, voluto da Francesco; e sullo scontro per la riforma della Curia ed il controllo delle finanze vaticane.
Il «ministro» George Pell, un cardinale australiano dai modi a dir poco sbrigativi, deve fare i conti con una vecchia guardia coriacea e perplessa dalla concentrazione di potere che si sta delineando. È una preoccupazione che Bergoglio sembra avere parzialmente accolto, limando i poteri di controllo di Pell sulle istituzioni economiche della Santa Sede. Ma, per quanto importante, i problemi italiani sono solo un frammento della strategia di Francesco. La sua proiezione internazionale comporta una sfida più profonda, e almeno altrettanto insidiosa: quella di impedire di essere raffigurato e definito secondo categorie che ne distorcono l’identità e gli obiettivi.
Per questo, si avverte la volontà di riequilibrare un’immagine sbilanciata, a volte strumentalmente, sia «da destra» che da «sinistra», per quanto siano definizioni improprie riferite alla Chiesa. Nella cerchia di Casa Santa Marta, la residenza vaticana di Francesco, la preoccupazione è presente da tempo. Se ne trova un’eco esplicita anche nelle parole impietose con le quali il professor Carriquiry fotografa i nemici del Pontefice. «I reazionari concordano e si alimentano», ha scritto, «anche con la figura falsata che pretendono di diffondere ambienti ecclesiastici e mediatici di progressismo “liberal”. Li accomuna l’immagine di un Papa che vuole cambiare insegnamenti dottrinali e morali della Chiesa, e che viene contrapposto ai suoi predecessori... Finiranno, da entrambe le parti, per trattarlo da “populista”, concetto ideologico che serve solo a confondere». Un Bergoglio rivoluzionario, ortodosso e «centrista»: il profilo da consolidare, dopo due anni di pontificato quasi trionfale, è più che mai questo.

Repubblica 12.3.15
Il cardinale Maradiaga, capo del C9
“La Curia non deve essere una burocrazia amministrativa, in due anni di pontificato Bergoglio ha portato freschezza e allegria”
“Papa Francesco è venuto per riparare la Chiesa c’è chi non vuole le riforme ma sarà Gesù a vincere”
di Marco Ansaldo


Il suo richiamo alla semplicità avvicina la gente, è logico che chi era abituato ad altri tempi resista al cambiamento
Si ferma a parlare con noi cardinali anche in corridoio o in ascensore Speriamo che duri molti anni
Divorziati risposati, omosessuali, celibato dei preti: è iniziato un percorso ma lui non intende cambiare il Vangelo

CITTÀ DEL VATICANO Due anni di Papa Francesco. Due anni che hanno cambiato la Chiesa. Nella quale, pure, le tensioni e le resistenze rimangono. Ma da quel 13 marzo 2013 in cui Jorge Mario Bergoglio impose a sé stesso il nome del Santo d’Assisi, il Vaticano appare un luogo trasformato. «Lui è venuto per riparare la Chiesa», dice il cardinale Oscar Andres Rodriguez Maradiaga, il suo principale collaboratore a capo del Consiglio dei 9 porporati chiamati a fare le riforme, da molti considerato come “il vice Papa”.
Eminenza, tutti concordano nella svolta con l’arrivo di Bergoglio. Ma nessuno forse più di lei, che lo conosceva bene prima, e che lo ha fortemente voluto al pontificato, può dirci come è cambiata la Chiesa in questi due anni.
«È cambiata molto. Dal giorno della sua elezione, quando prima di benedirci chiese di pregare per lui, per il Nuovo inizio. Nessuno poteva immaginarlo. Il vescovo di Roma che chiede ai suoi fedeli di pregare per lui».
E il suo programma?
«Fu subito molto chiaro. Scelse il nome di Francesco perché ammirava San Francesco d’Assisi che chiedeva una Chiesa povera per i poveri. E il suo stile vicino, umile e pieno di allegria, ha portato nella Chiesa speranza e aria fresca. Penso che interiormente abbia risposto a quello che il Cristo di San Damiano disse a San Francesco: “Ripara la mia Chiesa”».
Non solo la Chiesa, ma lo stesso Vaticano è cambiato. Ma dove vuole arrivare il Papa esattamente?
«Io penso che il suo proposito sia di semplificare a sufficienza il servizio della Curia vaticana perché non sia una specie di burocrazia amministrativa, ma uno strumento al servizio della Chiesa universale con i criteri del Vangelo. Questa riforma della Curia è stato un desiderio della maggioranza dei cardinali nel pre Conclave. Incluso questo Consiglio dei cardinali di cui faccio parte, e che fu suggerito da diversi di loro. Si desiderava un impulso che venisse dalla base della Chiesa, dai 5 continenti ».
Sempre più spesso però il Pontefice non risparmia critiche alla Curia. C’è chi resiste ai cambiamenti. Chi vincerà?
«Mi sembra logico che chi era abituato ad altri tempi resista a una semplificazione dello stile curiale. Quello che il Papa ci chiede è una testimonianza del Vangelo molto chiara nei suoi criteri. Le sue critiche sono una chiamata “profetica” alla povertà, anche nelle cose esteriori. Questo avvicina di più la gente, specialmente quelli che si sono allontanati. Credo che a vincere sarà il Signore Gesù che guida la Chiesa».
Il Sinodo di ottobre sembra essere decisivo su questioni come la comunione ai divorziati risposati e le aperture agli omosessuali. Ma l’intenzione del Papa è quella di toccare anche questioni dottrinali come il celibato dei sacerdoti?
«Penso che ci sia un errore nei media sul processo di messa a fuoco del Sinodo sulla Famiglia. Non dobbiamo aspettare solo un documento. È un viaggio per trovare le risposte pastorali a una situazione che è molto cambiata. Concentrarsi sulla comunione ai divorziati risposati, o sulle unioni tra persone dello stesso sesso, è ridurre notevolmente la prospettiva. Niente da fare sul celibato dei preti. Sbagliano coloro che pensano che il Santo Padre intenda cambiare il Vangelo. La Chiesa è un’istituzione divina e umana, immanente e trascendente allo stesso tempo. Non si tratta di compiacere il mondo con ciò che il mondo chiede, ma di dare compimento al piano di Dio».
Facciamo un passo indietro, andiamo per un momento alla rinuncia di Benedetto XVI.
Non pensa che proprio grazie a questo gesto clamoroso sia stato possibile arrivare a un Papa come Francesco che ha voluto segnare un taglio netto con il passato?
«Papa Benedetto XVI ha sviluppato un pontificato molto coraggioso e determinato con un magistero prezioso che ci ha arricchito tutti. Ma rendendosi conto di non essere più accompagnato dalla forza fisica, ha avuto il coraggio di dimettersi. Questo passaggio di una grande fede è al tempo stesso un grande esempio per il futuro. Non sono d’accordo quando lei parla di “taglio netto con il passato”. Papa Francesco sa che non ha iniziato la Chiesa di Cristo oggi, ma che è erede di una tradizione di secoli. Il suo compito è quello di coniugare la “tradizione” con la “novità”, cercando la risultante, spinto dallo Spirito Santo».
Ma secondo lei le ragioni delle dimissioni non vanno cercate oltre l’età e la salute di Joseph Ratzinger? Ad esempio: per l’amarezza del caso Vatileaks?
«Penso che ci sia molta leggenda nelle speculazioni sulla rinuncia di Papa Benedetto. Al ritorno dal suo viaggio in Messico e Cuba nel 2012 ha detto ai suoi collaboratori di non sentirsi abbastanza in forze per continuare nel suo servizio come Pontefice, e che stava pensando a rinunciare. Quindi è stata una decisione maturata nella preghiera e nel tempo. Quasi un anno. E non ha terminato il suo servizio amareggiato o triste. Certo, Vatileaks gli ha causato dolore. Ma la sua rinuncia è stata una decisione di fede».
E per lei personalmente cos’è cambiato con Francesco?
«È cambiata soprattutto la vicinanza con il Pontefice. Prima, l’unica possibilità di avere un colloquio con il Santo Padre era attraverso la Casa Pontificia. Ora è lui ad avvicinarsi a noi. Una messa a Casa Santa Marta, un saluto in un corridoio o in ascensore, un incontro sulla strada per l’aula del Sinodo. E l’attitudine fraterna e l’amicizia sono qualcosa che tutti noi apprezziamo enormemente».
Il Papa dice di sé stesso che durerà poco. Lei ci crede?
«Solo Dio sa quanto durerà. Speriamo che viva molti anni per il bene della Chiesa. Quella sua frase fu una battuta. Lui invece è convinto della sua missione e vuole completarla».

il Fatto 12.3.15
Netanyahu, “9 anni di nulla” e le elezioni-referendum
Bibi che ha voluto il voto anticipato perde consensi a favore della sinistra
di Cosimo Caridi


Tel Aviv Benjamin Netanyahu ha trovato un grosso ostacolo nella corsa verso il suo quarto mandato da premier: se stesso. A dicembre, dopo aver cacciato due ministri e indetto elezioni anticipate, la rielezione sembrava scontata. Il centro-sinistra senza leader né idee, appariva inerme. Qualcosa è cambiato. Tanti israeliani si sono scoperti più poveri e insicuri. Gli ultimi sondaggi rivelano un testa a testa tra Likud (23 seggi su 120), partito del premier uscente, e Unione sionista (23-25 seggi), formazione laburista fondata da Tzipi Livni e Yitzhak Herzog, candidato premier.
LA RIMONTA dei democratici sembra più legata alla perdita di consensi di Netanyahu che alle proposte del centro-sinistra. “Nove anni di nulla” è lo slogan più gettonato dai sostenitori di Hergoz. “Bougie”, soprannome del leader laburista, ha un pedigree sionista aristocratico di primo piano: figlio di Chaim Herzog, sesto presidente israeliano, e nipote di Yitzhak HaLevi, rabbino capo d’Israele. Herzog ha impostato la campagna elettorale su temi socioeconomici, in particolare su carovita e poca disponibilità di alloggi a prezzi contenuti. Lasciando invece da parte la questione palestinese e i rapporti con i paesi arabi, argomenti cari alla sinistra, ma sui quali la popolazione israeliana ha storicamente preferito la mano ferma della destra.
Netanyahu si è sempre presentato all’opinione pubblica come Mr. Sicurezza, e per anni la maggioranza del paese ha visto in lui, e nel suo ministro degli Esteri Avigord Lieberman, il baluardo di difesa contro palestinesi, arabi e tutti i “vicini ostili”. Ma anche su questo Netanyahu sembra perdere punti. La campagna militare della scorsa estate contro Hamas a Gaza non è stata una vittoria. Il movimento islamista, anche se duramente colpito, non è stato “cancellato” né completamente disarmato. Inoltre entro marzo l’Iran dovrebbe arrivare a un accordo con gli Usa per la prosecuzione del programma nucleare. Anche se la Casa Bianca ha assicurato che si tratterà solo per scopi civili, molti israeliani considerano inaccettabile la possibilità che Teheran possa accumulare materiale radioattivo utilizzabile per scopi militari.
Su questo punto Netanyahu ha spinto con forza, forse troppa, contro Obama. Si tratta forse di uno dei momenti di maggiore distanza tra il governo a stelle e striscie e quello ebraico, che ogni anno riceve da Washington 3 miliardi di dollari in aiuti militari. Herzog non si è lasciato scappare l’occasione, sottolineando la necessità per Israele di mantenere un rapporto privilegiato con Obama.
NONOSTANTE i passi falsi e il calo di consensi Netanyahu è a oggi il più probabile nuovo premier. Il Likud potrebbe non esser primo partito, ma, come già nel 2009, Bibi potrebbe trovare i numeri per creare un governo. La legge elettorale proporzionale non assicura a chi vince i seggi per governare. Netanyahu può anche perdere il referendum su se stesso, ma non sembra intenzionato a scendere dalla giostra. Per farlo è pronto ad allearsi di nuovo con i partiti di centro, che pochi mesi fa cacciò da governo, ultra-destra e religiosi.

La Stampa 12.3.15
Il sindaco tedesco assediato dai neonazi: “Ho accolto gli stranieri, cacciato via”
Guidava un paesino della Sassonia, costretto a dimettersi: “Manifestazioni sotto casa, temevo per la vita dei miei figli”
di Tonia Mastrobuoni

qui

La Stampa 12.3.15
La Grecia va alla rissa con la Germania
“Allora pagateci i danni di guerra”
Atene, isolata, tenta di far passare Berlino come unico vero nemico
di Tonia Mastrobuoni


Le provocazioni mirate, negli ultimi giorni, stanno aumentando. E non è un caso. Nel tentativo di uscire dall’isolamento totale in cui è piombata dopo settimane di negoziato in Europa, che si è svolto con punte di teatro dell’assurdo (si pensi alla proposta della scorsa settimana di ingaggiare casalinghe e turisti come esattori fiscali), la Grecia sta provando chiaramente a inscenare una «singolar tenzone», un duello a due con la Germania. Costretto a ingoiare un allungamento del negoziato con i creditori, una rinuncia, per ora, alla ristrutturazione del debito, il ritorno della troika e una trattativa per un’agenda seria di riforme, smentiti insomma i punti principali della sua campagna elettorale, Tsipras sta cominciando a subire le pressioni della minoranza interna di Syriza.
Così, mentre ad Atene si moltiplicano anche le voci che l’outsider, il plenipotenziario delle Finanze Yanis Varoufakis, possa essere sacrificato sull’altare di un bilancio amaro del primo mese di governo, l’esecutivo rosso-nero di Tsipras cerca di divincolarsi dall’angolo in cui è finito tra i partner dell’eurozona, cercando l’incidente con Berlino, uno scontro e una reazione forte da parte del governo Merkel, per nascondere il fatto che esistono Paesi ormai esasperati dallo zigzagare di Atene e molto più irritati della Germania come la Spagna, il Portogallo, i Paesi Bassi o la Finlandia. Tuttavia, di questo passo anche per la Cancelliera sarà sempre più difficile tenere insieme il suo partito, quando si tratterà di votare l’eventuale terzo pacchetto greco nel Bundestag.
L’ultima prova di questa strategia piuttosto miope della Grecia è arrivata ieri. Dopo l’infiammato discorso di Alexis Tsipras in Parlamento, che ha definito martedì sera un «dovere morale» per la Germania pagare le riparazioni di guerra, il ministro della Giustizia Nikos Paraskevopoulos ha minacciato addirittura di confiscare il Goethe Institut e altri beni immobiliari di proprietà dello Stato tedesco e vuole che Berlino restituisca migliaia di reperti archeologici. In realtà l’Alta corte greca, nonostante una sentenza della Corte di Giustizia europea abbia rigettato la richiesta di risarcimenti avanzata ad esempio dalle famiglie delle vittime dell’eccidio di Distomo, sta valutando se le richieste siano legittime. E c’è uno studio riservato delle autorità greche, pubblicato nei giorni scorsi dal quotidiano To Vima, che stima il totale delle riparazioni tra 269 e 332 miliardi di euro. Un’enormità.
Nel frattempo, nella stessa sera del discorso di Tsipras sulle riparazioni, il ministro di Stato (una sorta di ministro dei ministri) Nikos Pappas ha sostenuto che Wolfgang Schaeuble è «incompatibile» con un’Europa «democratica e unita». E nei giorni scorsi, il ministro della Difesa Panos Kammenos ha cercato di strappare margini di manovra sul negoziato economico minacciando di spedire i rifugiati che approdano in Grecia direttamente a Berlino. Per ora, a Berlino, le reazioni restano misurate. Ma rischia di essere una calma apparente.

Corriere 12.3.15
Danni di guerra, Atene sfida Berlino
La minaccia di sequestrare beni tedeschi mentre a Bruxelles iniziano i colloqui con l’ex troika
Il portavoce della Merkel: questione risolta legalmente e politicamente, distrae dai problemi reali
di Danilo Taino


Berlino Se l’obiettivo è ricostruire un clima di fiducia tra Atene e il resto dell’eurozona, soprattutto tra Atene e Berlino, la strada che stanno prendendo le discussioni va dalla parte sbagliata. Ieri, a Bruxelles, sono iniziati i colloqui tecnici tra i rappresentanti ellenici e i funzionari di quelle che ora vengono chiamate «istituzioni» e non più troika, cioè Ue, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale. Passaggio importante, anche se per arrivare a una conclusione servirà del tempo. La riunione, però, è stata sovrastata dall’escalation della questione delle riparazioni di guerra alla Grecia da parte della Germania.
La vicenda, non nuova, aveva ripreso quota nelle settimane scorse, ma su un piano solo polemico. Ieri il ministro ellenico della Giustizia, Nicos Paraskevopoulos, ha fatto un passo in più e ha minacciato di sequestrare beni tedeschi in Grecia. La sera prima, martedì, il primo ministro Alexis Tsipras aveva di nuovo sollevato il caso e il Parlamento greco aveva votato di istituire una commissione speciale per esaminarlo.
Berlino ha più volte risposto che la vicenda è chiusa sulla base di riparazioni effettuate in passato, di accordi bilaterali e multilaterali e delle sentenze di tribunali internazionali. Ma Atene sostiene in particolare che i parenti delle vittime di un massacro della Wermacht a Distomo, nel 1944, quando morirono 218 persone, vanno compensati; che per le distruzioni fisiche provocate da quattro anni di occupazione dell’esercito tedesco Berlino non ha mai pagato; e che un prestito ai tedeschi a cui fu costretta la banca centrale greca non è mai stato rimborsato.
Tsipras ha sostenuto che la Germania usa «trucchi legali» per non fare fronte alle sue responsabilità. Un rapporto commissionato da governi ellenici del passato ha stimato i danni che Berlino dovrebbe riparare in una cifra tra i 269 e i 332 miliardi.
La risposta ufficiale del governo di Berlino è che non ci sarà nessuna apertura di discussioni, dal momento che — ha detto il portavoce di Angela Merkel Steffen Seifert — «la questione delle riparazioni e delle compensazioni è stata risolta legalmente e politicamente». Il ministero delle Finanze ha sostenuto che la vicenda è una «distrazione» dai problemi che deve affrontare la Grecia mentre si dovrebbe evitare di sollevare questioni emotive per «guardare avanti assieme».
Il governo tedesco, insomma, pare volere tenere basso lo scontro. L’irritazione nei palazzi della politica berlinese, però, è alta. L’iniziativa greca è vista come una perdita di tempo — e si sottolinea che Atene non ne ha più — e come un tentativo di ricatto a negoziati sugli aiuti in corso. Opinione rafforzata dall’esperienza del 2000, quando Atene lasciò cadere la minaccia di sequestrare beni tedeschi solo dopo che Berlino diede il via libera all’ingresso della Grecia nell’euro. E ribadita dal fatto che Paraskevopoulos abbia detto che deciderà se sequestrare o meno i beni — pare del Goethe-Institut, dell’Istituto archeologico e della scuola tedesca — sulla base di «questioni nazionali».
Nel mondo politico tedesco, poche voci sostengono le richieste greche: solo alcuni membri delle sinistra di Die Linke le hanno definite «giustificate». Per il resto, un misto di irritazione e preoccupazione per quello che è considerato un modo ricattatorio e destinato al fallimento di condurre i negoziati con l’eurozona da parte greca. La minaccia — ha detto il vicepresidente del Parlamento europeo Alexander Lambsdorff – «è irresponsabile» e fa a pezzi «quel che rimane della fiducia» di cui la Grecia avrebbe bisogno nel Bundestag tedesco (che deve approvare ogni piano di aiuti ad Atene).

Il Sole 12.3.15
Per la Grecia l’aiuto non fu solidale
Il piano imposto da Francia e Germania tutelava soprattutto loro
di Luigi Zingales

Pietro Reichlin critica, in modo molto ben argomentato, la mia tesi che il salvataggio greco sia stato gestito per salvare innanzitutto le banche tedesche e francesi penalizzando il popolo greco. Innanzitutto, sostiene Reichlin, i tedeschi volevano un haircut, fu la Banca Centrale Europea (Bce) ad impedirlo per paura del contagio. In secondo luogo, l’haircut c’è stato e pesante. In terzo luogo, le difficoltà della Grecia dipendono da molti fattori strutturali, non dal debito che è stato significativamente ridotto. Quarto, il programma di consolidamento fiscale imposto dalla Troika non è stato troppo severo, è la Grecia che ha vissuto troppo a lungo al di sopra dei propri mezzi. Infine, l’intervento massiccio della Unione Europea dimostra che in Europa esiste la solidarietà fiscale. È colpa di Syriza che pensa che questa solidarietà possa esistere senza alcuna rinuncia alla sovranità fiscale. Tutti questi argomenti sono molto seri e quindi meritano una risposta altrettanto seria.
Innanzitutto vorrei sfatare il mito che non fosse possibile fare un haircut nel 2010, pena un panico che avrebbe coinvolto anche l’Italia. Chi utilizza questo argomento, teoricamente valido, dimentica il ruolo fondamentale della Banca Centrale, individuato dall’economista inglese Bagehot già nel XIX secolo. Il mercato del credito è soggetto ad equilibri multipli. Se tutti credono che un debitore sia solvente, quel debitore riceverà credito e sarà capace di pagare (almeno nel breve periodo) il proprio debito. Se invece tutti i creditori ritengono che un debitore sia insolvente, egli non riceverà credito e diventerà insolvente. È quindi altamente probabile che di fronte al default di un Paese, il mercato tema che altri Paesi possano seguirlo, causando una serie di default a catena.
Le Banche Centrali sono state create proprio per questo motivo. Per prestare in maniera massiccia a creditori solventi duranti le fasi di panico e rassicurare i mercati. La Bce, quindi, avrebbe potuto facilmente tranquillizzare i mercati dopo un default greco con un «whatever it takes». Forse Reichlin implicitamente ritiene che la Bce non potesse farlo, perché neppure l’Italia era ritenuta solvente in quel momento. Ma allora non si capisce perché due anni dopo è stata ritenuta tale da Draghi. La decisione dipende da chi è al governo? Ma è proprio questo che Syriza (giustamente) critica: ormai i governi sono decisi a Francoforte, non nelle elezioni locali.
Reichlin poi sostiene che l’haircut c’è comunque stato e molto pesante. Vero, ma troppo tardi, quando la maggior parte dei creditori privati era scappata, quindi non ha intaccato seriamente lo stock del debito.
Tra l’altro, che l’haircut poi ci sia stato senza un panico generalizzato dimostra il mio punto precedente: se la Bce l’avesse voluto avrebbe potuto farlo nel 2010. È forse una coincidenza che all’epoca il governatore fosse il francese Trichet e le maggiori beneficiarie della decisione di posporre l’haircut siano state le banche francesi?
Reichlin ha perfettamente ragione che la Grecia ha problemi strutturali e che per troppo tempo ha vissuto al di sopra dei propri mezzi. Syriza non sembra capire questo punto ed è un problema. Detto questo, dobbiamo riconoscere che qualsiasi Paese insolvente (e la Grecia lo era) è un Paese che ha vissuto al di sopra dei propri mezzi. Quando finalmente il mercato lo riconosce l’aggiustamento è penoso.
Ma il Fondo Monetario Internazionale è stato creato proprio per attenuare il costo di questo tipo di aggiustamenti. Una manovra del 12% del Pil in 3 anni è una cura da cavallo. Lo stesso Fondo riconosce pubblicamente oggi che la cura è stata troppo intensa (non sbagliata, ma troppo rapida). Il problema è che gli economisti interni al Fondo lo dicevano già nel 2010, ma queste voci sono state tacitate per motivi politici: ovvero per le pressioni che venivano dal vertice del fondo. Chi c’era a capo del Fondo? Guarda a caso un altro francese, che all’epoca nutriva ancora ambizioni presidenziali. Forse che queste ambizioni non hanno giocato alcun ruolo nelle sue decisioni?
Reichlin ha ragione che la Ue ha prestato alla Grecia una quantità ingente di risorse. Ma da quanto mi risulta la stragrande maggioranza di queste risorse è stata utilizzata per ripagare i creditori privati, non per finanziare i nuovi deficit. Reichlin ha anche ragione che, dati i prestiti ottenuti, la Grecia deve attenersi ad una rigida disciplina fiscale. Quello che sembra ignorare è la difficoltà politica di vendere questa disciplina fiscale, quando almeno in parte questa disciplina è dettata da interessi di parte.
Senza alcun aiuto la Grecia avrebbe dovuto fare un aggiustamento ancora più rapido e costoso. Ma non si capisce perché questa debba essere l’alternativa. Fuori dall’Unione europea la Grecia avrebbe potuto accedere ad un piano di aggiustamento del Fmi a condizioni migliori. La Francia e la Germania hanno impedito questa possibilità. È questa la solidarietà europea?

Il Sole 12.3.15
Investitori. L’intervento a sostegno del Tesoro
Grecia, ombre cinesi sull’asta dei bond
di Vittorio Da Rold


Ombre cinesi sull’ultima asta condotta ad Atene dei famosi T-bills, i bond a tre mesi solitamente comprati a piene mani dalle banche greche su “moral suasion” del Tesoro. Stavolta invece ci sarebbero mani di investitori dalla Cina, che è presente in modo massiccio nel Porto del Pireo, fra i sottoscrittori degli 1,3 miliardi di euro di titoli trimestrali venduti ieridal governo greco. L'indiscrezione, che circolava ieri sui mercati, se confermata potrebbe indicare un passo indietro delle banche greche nel rifinanziare il debito da 315,1 miliardi di Atene. Banche che con il 38% di bad loans di media se la passano male.
L’Eurotower guarda con attenzione allo svolgimento dell’asta: l’ingresso di investitori esteri potrebbe spingere la Bce a concedere più liquidità, alzando la soglia imposta alle emissioni a breve, oggi ferma a 15 miliardi di euro all’anno, o concedendo maggiore liquidità d'emergenza, il fondo Ela, oggi fermo a 68,8 miliardi di euro, dopo l’aumento di 500 milioni concesso nell’ultima riunione della Banca centrale a Nicosia.
Atene è sempre più in difficoltà sulla liquidità al punto che avrebbe messo le mani su 555 milioni di euro, dotazione del Fondo di stabilità per gli istituti di credito greci , oltre a voci che parlano di uso delle riserve degli enti di previdenza pubblici, per far fronte alle esigenze di cassa e servizo del debito.
Come se non bastasse Berlino ha chiesto un nuovo esame sulla sostenibilità del debito della Grecia. In un documento di risposta all'interrogazione presentata dal gruppo della sinistra l'esecutivo tedesco ha replicato che «secondo secondo lo scenario attuale la Grecia nel 2020 dovrebbe registrare un debito al 125%, ma gli sviluppi attuali danno indicazioni diverse visto che nel 2012 il rapporto debito/Pil di Atene era pari al 156,9%, nel 2013 era salito al 174,9% e l'anno scorso si è collocato al 176,3%».


Repubblica 12.3.15
Ferguson e il razzismo inconscio
L’intolleranza si manifesta su più livelli: un primo strutturale, uno conscio e un terzo istintivo
Tutti presenti nell’uccisione di Michael Brown
di Alwxander Stille


DOPO una lunga attesa, è arrivata alla conclusione l’indagine sulla morte di Michael Brown, il ragazzo nero non armato ucciso l’anno scorso da un poliziotto a Ferguson, Missouri. Il verdetto del Dipartimento di Giustizia è duplice. Da una parte, esonera il poliziotto bianco da responsabilità criminali sostenendo che non ci sono prove sufficienti a dimostrare che non abbia agito per difendersi nello scontro con Michael Brown. Dall’altra, il Dipartimento di Giustizia ha emanato un secondo rapporto che ha documentato il razzismo, non solo tra gli agenti di Ferguson, ma in tutta l’amministrazione pubblica (con conseguenti dimissioni del capo della polizia). Come si spiega che un poliziotto possa aver agito legalmente uccidendo un uomo non armato, mentre nello stesso tempo agisce in un ambiente permeato di razzismo?
Ci sono varie ragioni. Il razzismo si manifesta su più livelli: un primo livello strutturale, un secondo conscio e un terzo istintivo, inconscio. Tutti presenti in questo caso. Ferguson è un paese sub-urbano piuttosto povero. La popolazione è per due terzi nera, ma l’amministrazione pubblica rimane prevalentemente bianca. Cinquanta dei cinquantatré poliziotti del paese sono bianchi. In più, Ferguson ha una base fiscale debole e ha deciso di finanziarsi con le multe per infrazioni minori. Oltre l’80 percento delle multe sono state fatte pagare alla popolazione nera, mentre la documentazione raccolta dal Dipartimento di Giustizia dimostra che gli amministratori hanno cestinato molte multe di divieto di sosta dei loro amici bianchi.
Il risultato è che numerosi cittadini neri di Ferguson hanno vissuto in un clima di vessazione costante, colpiti in continuazione per infrazioni minori, o addirittura inesistenti, come per esempio camminare in mezzo alla strada. Alcuni hanno perso le loro automobili quando non erano più in grado di pagare le multe. La sensazione — giustificata dalle statistiche — di essere depredati e vessati dalla polizia intenzionata a raccogliere soldi ha inquinato e avvelenato i rapporti tra la comunità nera e gli agenti. Ed è proprio in questo contesto che avviene la morte di Michael Brown. Fu fermato, appunto, perché camminava in strada piuttosto che sul marciapiede e reagì stizzito e arrabbiato quando il poliziotto Darren Wilson cercò di multarlo.
Questo razzismo strutturale è stato rinforzato da altre forme di razzismo. Gli investigatori hanno trovato email di poliziotti di Ferguson apertamente razziste. Nel novembre del 2008, prima dell’elezione di Barack Obama, un poliziotto scrisse che Obama non sarebbe durato come presidente perché «quale uomo nero mantiene un lavoro fisso per quattro anni?». In un altro caso, un poliziotto di Ferguson schernì i residenti neri dicendo che la maggior parte non sapeva neppure chi fosse il padre.
Ma il razzismo funziona anche a livello inconscio ed è forse la forma più difficile, proprio perché non riconosciuta. Uno studio recente su 176 poliziotti, in maggioranza bianchi, ha rivelato che gli agenti tendono a sopravvalutare sistematicamente l’età dei bambini neri rispetto a quelli bianchi. Questa tendenza, per esempio, ha contribuito alla morte del dodicenne di Cleveland, Tamir Rice, ucciso da un poliziotto mentre aveva un pistola giocattolo in un parco giochi. Il poliziotto ha sparato due secondi dopo il suo arrivo, quindi prima di assicurarsi che il ragazzo rappresentasse una vera minaccia. Può darsi che l’agente lo fece senza consapevolezza di un pregiudizio inconscio, ma la tendenza a vedere i ragazzi di colore più grandi, e dunque più minacciosi, di quanto non siano ha sicuramente giocato un ruolo. Uno studio dell’American Psychological Association ha dimostrato che i poliziotti erano più propensi ad associare immagini di persone di colore con animali, in particolare scimmie. I ricercatori hanno evidenziato che chi ha disumanizzato i neri usava maggiormente la forza durante l’arresto di un giovane di colore. Uno studio condotto in Australia, nel quale gli autisti di autobus potevano concedere o negare alcuni privilegi come far salire i passeggeri al di fuori della fermata ufficiale, ha rilevato che i conducenti hanno favorito i passeggeri bianchi rispetto a quelli neri. E ancora, i poliziotti australiani erano più propensi a non multare autisti bianchi piuttosto che neri.
È finita l’era del razzismo dichiarato, persino chi fa battute razziste nega di esserlo. Ma il razzismo inconscio, in una società con tre secoli di schiavitù e di discriminazione legalizzata, è pervasivo e a volte micidiale.

Repubblica 12.3.15
Così trasformano l’innocenza nel crimine più efferato
di Massimo Recalcati


IL FANTASMA di purezza ritorna spettralmente in ogni forma di fondamentalismo. Nella psicologia del terrorista la dedizione alla Causa, sino al sacrificio della propria vita, è assoluta. È una identificazione massiccia che non consente scarti. Il terrorista agisce sempre in nome del Bene. E fare il Bene, agire, consacrare la propria vita alla Causa, non pone alcun limite al Male. Il fantasma di purezza del terrorista elimina alla radice il dubbio e l’incertezza. Ne deriva una seduzione quasi irresistibile: la verità è sempre dalla nostra parte, la verità ci appartiene, è solo nostra. La figura sconcertante del bambino che, pilotato dai terroristi fondamenta-listi, diviene giustiziere fornisce una ulteriore prova (raccapricciante) di questa analisi. La sua mano non trema, non denuncia alcuna fragilità, non conosce incertezza, non ha bisogno di tendersi verso un’altra mano come invece accade solitamente alla mano di un bambino. La mano del bambino eletto alla dignità feroce del giustiziere, del boia dell’infedele, esprime l’incarnazione più efferata dell’innocenza posta al servizio accecato della Causa. Il fantasma di purezza sembra trovare il suo attore ideale.
Con un aggiunta drammatica: il bambino può essere anche più spietato dell’adulto, perché non ha ancora metabolizzato simbolicamente il senso autentico dell’alterità. Il suo mondo è il mondo dei suoi genitori, della sua famiglia, del suo gruppo di appartenenza. La sua soddisfazione consiste nel soddisfare le attese degli adulti che ama. Egli è totalmente immedesimato all’ambiente in cui vive. Il potere del pensiero critico non ha ancora corroso — come accadrà nell’adolescenza — la sua vita. Egli è un cavaliere della fede dell’Altro. Per questa ragione la sua obbedienza può essere cieca, pura, assoluta. È ciò che spinge il pedofilo alla ricerca dei bambini: trovare un corpo a propria totale disposizione, senza limiti, inibizioni, vacillamenti. Trovare qualcuno che gli si affidi ciecamente, che abbandoni ogni pensiero critico. È il cuore perverso del fantasma di purezza.
Possiamo chiederci: non esiste forse una pedofilia intrinseca ad ogni “educazione” totalitaria? Ogni “educazione” totalitaria non si fonda su di un plagio che non lascia scampo alla libertà? Il bambino porta con sé un animo fondamentalista perché non conosce ancora il senso profondo dell’alterità. Egli crede ciecamente nel suo Altro, crede alla sua bandiera, ai suoi ideali, vive per soddisfare l’Altro di cui ha fede. Si può dire davvero che un bambino possa essere un criminale? Si poteva guardare lo sguardo del piccolo Hitler e pronosticare il suo destino sanguinario? Si può davvero vedere nel volto mascherato del piccolo atroce giustiziere il ghigno cinico o esaltato di un assassino? Non è più giusto dire che sono gli adulti che possono fare sempre di un bambino — grazie alla sua fede nell’Altro — lo strumento passivo del loro godimento? Non è questo il centro pedofilico dell’educazione totalitaria?
È indubbio: il crimine più orribile è quello di assoggettare la vita di chi invece si affida a noi per sentirsi protetto. Se la dichiarazione assoluta di innocenza e di purezza ha un risvolto paranoico negli adulti perché attribuisce sempre la responsabilità del Male all’Altro, nei bambini, questa stessa innocenza e purezza, può diventare atroce perché manca in essi un autentico pensiero altruista, una autentica cognizione dell’Altro. Essi possono solo fare la volontà dei loro padroni. Il bambino elevato malignamente alla dignità del giustiziere non può conoscere il tormento della colpa e del perdono e per questo si presta ad essere, se possibile, ancora più spietato dei suoi manipolatori: il boia che, nella sua innocenza e purezza, dovrebbe giustificare un crimine impossibile da giustificare.

Repubblica 12.3.15
Nel 1880 un giornalista americano incontrò l’autore del “Capitale” Ecco l’articolo inedito in Italia
Due chiacchiere col signor Marx e i suoi nipotini
Si trovava in vacanza nel suo cottage a Ramsgate attorniato dalla famiglia
Qual è, gli chiesi a un tratto, la legge ultima dell’esistenza. “La lotta”, mi rispose
di John Swinton


FRA gli uomini più degni di nota del nostro tempo vi è di sicuro Karl Marx, colui che ha giocato un ruolo imperscrutabile eppure decisivo nella politica rivoluzionaria degli ultimi quarant’anni. È uomo scevro da qualsiasi brama di esibizione e di successo, indifferente alla gran fanfaronata della vita e alla messinscena del potere, privo di premure ma infaticabile, dotato di una mente possente, in grado di spaziare e di raggiungere vette sublimi e traboccante di ambiziosi progetti, strumenti logici e scopi pratici.
Egli è stato ed è tuttora più di chiunque altro in Europa, ivi incluso lo stesso Giuseppe Mazzini, l’ispiratore dei tanti terremoti che hanno sconvolto nazioni e fatto crollare dinastie e che minacciano e fanno inorridire oggi teste coronate e ciarlatani matricolati. Da studente a Berlino, da critico della filosofia hegeliana, direttore di giornali e corrispondente di vecchia data del New York Tribune ha avuto modo di dar prova delle proprie qualità e della propria tempra; fondatore e spirito guida dell’un tempo temuta Internazionale nonché autore del Capitale, è stato espulso da mezza Europa, bandito nella quasi totalità dei paesi del continente per trovare infine, negli ultimi trent’anni, rifugio a Londra.
Durante il mio ultimo soggiorno londinese egli si trovava a Ramsgate, la nota località di mare meta abituale degli abitanti della capitale britannica, ed è lì che sono andato a trovarlo nel suo cottage, attorniato dalla famiglia composta di figlie e nipoti. La donna aggraziata e gentile che mi accoglie alla porta, dal cui volto promana un’aura di santità e la cui voce giunge dolce alle mie orecchie, è con tutta evidenza la padrona di casa, la moglie di Karl Marx. Ed è forse quest’ultimo l’uomo sulla sessantina che mi trovo di fronte, la testa enorme, il fare magnanimo, i modi raffinati e cortesi e una massa di lunghi capelli grigi festanti? Il suo modo di conversare mi ha ricordato quello di Socrate, tanto era libero, in grado di spaziare, creativo, incisivo e sincero, con i suoi accenti beffardi, il bagliore delle sue punte umoristiche e la sua giocosa allegria. Egli si è dilungato sulle forze politiche e sui movimenti popolari propri dei vari paesi europei: l’ampia corrente dello spirito russo, i movimenti della mente tedesca, l’azione francese, l’immobilismo inglese. Ha parlato con fiducia e ottimismo della Russia, seguendo un registro filosofico della Germania, in maniera allegra della Francia e rabbuiandosi dell’Inghilterra, riferendosi in particolare in maniera sprezzante alle «riforme atomistiche » che impegnano le giornate dei deputati liberali al parlamento britannico.
Esaminando la realtà europea un paese dopo l’altro e indicandone le peculiarità, gli sviluppi e le personalità, tanto quelle che agiscono in superficie quanto quelle che operano al di sotto di essa, egli è riuscito nell’intento di dimostrare come tutto tenda verso fini che non potranno che realizzarsi. Mentre parlava sono rimasto spesso sorpreso. Appariva infatti chiaro come quest’uomo, del quale sappiamo così poco e sentiamo parlare così di rado, abbia una conoscenza profonda del proprio tempo e come la sua mano sia all’opera ovunque, dalla Senna alla Neva, dagli Urali ai Pirenei, intenta a preparare l’avvento di una nuova era. E questo lavoro, va detto, non è invano; non lo è oggi come non lo è stato in un passato che ha visto la realizzazione di diversi cambiamenti quanto mai opportuni, che ha assistito a tante lotte eroiche e in cui il culmine è stato raggiunto con la fondazione della repubblica francese.
Mentre parlava, la domanda che gli avevo rivolto — «Perché, oggi, lei non è più politicamente attivo?» — è stata percepita come un interrogativo posto da uno sprovveduto, al quale egli non riusciva a rispondere in maniera diretta. Alla mia richiesta di spiegazioni circa il fatto che la sua grande opera, Il Capitale, il campo arato fonte di un così ricco raccolto, non fosse stata tradotta in inglese dall’originale tedesco mentre ne erano già uscite una versione in russo e una in francese, egli è sembrato impossibilitato a rispondere, anche se ha detto che una proposta di traduzione in inglese gli è giunta da New York. Ha aggiunto inoltre che il libro già pubblicato è in realtà solo una piccola parte di un lavoro ben più ampio, che ne conterà alla fine tre, due delle quali ancora inedite, nel quadro di una trilogia su «Terra», «Capitale » e «Credito». La terza parte, ha detto, trova negli Stati Uniti, dove il credito ha avuto un così formidabile sviluppo, un ambito di esemplificazione privilegiato. Il signor Marx è un acuto osservatore degli eventi americani e i suoi commenti relativi ad alcune delle forze che orientano e sostanziano la vita del nostro paese sono stati per me altamente evocativi. A questo proposito, parlando del suo Capitale egli ha affermato che chi volesse leggerlo troverà la traduzione francese, da tanti punti di vista, di molto superiore all’originale tedesco. Il signor Marx si è poi riferito al francese Henri Rochefort e, dal modo in cui ha parlato di alcuni dei suoi seguaci ormai deceduti, dall’impetuoso Bakunin all’acuto Lassalle passando per altri, ho potuto rendermi conto di come il suo genio avesse esercitato un forte influsso su uomini che, in altre circostanze, avrebbero potuto dirigere il corso degli eventi storici. Il pomeriggio va spegnendosi nel crepuscolo di una serata inglese estiva quando il signor Marx, continuando la conversazione, propone di fare una passeggiata attraverso la cittadina di mare e lungo la battigia fino a raggiungere la spiaggia, che troviamo colma di diverse migliaia di persone, per lo più bambini, intente a divertirsi. Lì incontriamo sulla sabbia la sua squadra di familiari: la moglie, che mi aveva già accolto all’ingresso, le due figlie con i loro bambini e i due generi, di cui uno è professore al King’s College di Londra e l’altro, se ricordo bene, un letterato. Un quadretto delizioso, composto da dieci persone in tutto, col padre delle due giovani mogli felici di stare coi loro bambini e la nonna di questi ultimi appagata dalla letizia e dalla serenità della propria indole coniugale. Karl Marx comprende l’arte di essere nonno non meno bene dello stesso Victor Hugo, ma è più fortunato di quest’ultimo nella misura in cui la sua prole coniugata è tuttora in vita a festeggiarne i compleanni.
Al calar della notte, lui e i suoi due generi si separano dalle rispettive famiglie per trascorrere ancora un’oretta col proprio ospite americano. La conversazione si è concentrata a quel punto sul mondo, sull’uomo, sul tempo e sulle idee, mentre i nostri bicchieri tintinnavano in riva al mare. Il treno non aspetta e la notte è ormai vicina. Al di sopra del caos e del brusio che caratterizzano la nostra epoca come ogni epoca, a coronamento delle discussioni avute durante il giorno e delle scene viste in serata, si era fatta strada nella mia mente una domanda riguardante la legge ultima dell’esistenza alla quale desideravo che il saggio che avevo di fronte offrisse una risposta. Tuffandomi quindi negli abissi del linguaggio e innalzandomi a un tempo fino alle vette del massimo trasporto, durante una pausa di silenzio interrogai il rivoluzionario e il filosofo pronunciando le gravi parole «Cos’è?». La sua mente mi è parsa allora quasi capovolgersi, almeno per un attimo, mentre osservava il ruggire del mare di fronte a sé e la folla irrequieta sulla spiaggia. «Cos’è?», avevo chiesto, ed egli ha risposto, in maniera assorta e grave: «La lotta!». In un primo momento mi è sembrato di udire l’eco della disperazione ma, forse, era solo la legge della vita. (Traduzione di Marco Zerbino)

Corriere 12.3.15
Contro il politicamente corretto
Spiegare ai bambini ciò che sesso non è
di Susanna Tamaro


In questi ultimi giorni si è aperto a Trieste un acceso dibattito tra genitori e istituzioni per l’introduzione negli asili del «Gioco del Rispetto», un laboratorio didattico «volto all’abbattimento di quegli stereotipi sociali che imprigionano maschi e femmine in ruoli che nulla hanno a che vedere con la loro natura».
Abbiamo davvero bisogno, mi chiedo, di un programma che insegni ai bambini le gioie del travestimento e alle bambine che possano aspirare a fare mestieri da uomini, in tempi in cui Samantha Cristoforetti ci parla dallo spazio? Il tabù delle professioni solo maschili è caduto ormai da tempo nella nostra società. Ci sono donne nei pompieri, nelle forze dell’ordine, donne che guidano navi da guerra e che pilotano caccia.
Premetto che non conosco i dettagli del progetto e sono sicura della serietà e della buona fede delle persone che lo hanno ideato e approvato — tutto quello che fa lavorare i bambini sull’emotività è giusto e importante — tuttavia questa notizia mi ha suscitato delle riflessioni. Il «facciamo finta che», mi sono chiesta, non appartiene da che mondo è mondo alle modalità di gioco dei bambini? Io, ad esempio, ho sempre provato un vero orrore per i costumi femminili, detestavo le principesse, i pizzi, il colore rosa, se c’era un ruolo che rivendicavo per me era quello del comandante di Fort Alamo o di un capo indiano, e in queste attribuzioni — che avvenivano cinquant’anni fa — nessuno mi ha mai preso in giro né represso in modo tale che io me ne ricordi come di una ferita. Non solo, ma giocando mi facevo sempre chiamare con un nome maschile, perché quella era l’energia che sentivo di avere addosso, e tutti intorno a me stavano al gioco. L’idea che i bambini abbiano bisogno di essere edotti in queste manifestazioni spontanee dell’età ha per me qualcosa di deprimente, perché sottovaluta la libertà e la creatività che c’è in ogni essere umano, specie se è piccolo.
Premetto che appartengo alla generazione che si è abbeverata ai libri della compianta Elena Giannini Belotti; la stessa generazione che, quando ha avuto i figli, non ha potuto far altro che osservare sgomenta che la stragrande maggioranza dei maschi amava fare brum brum, mentre le femmine adoravano correre per casa travestite da fate.
Se fossi cresciuta in questi anni, sicuramente sarei stata classificata come una bambina sofferente di disforia di genere, e sarei stata avviata a un percorso terapeutico adeguato, dato il mio aspetto androgino e la mia predilezione per i mestieri allora proibiti alle donne. Sarei stata più felice? Contemplando con serenità la mia vita, ormai abbastanza lunga, penso di poter con una certa sicurezza dire di no. Sono una natura libera e il venire imprigionata in qualsiasi definizione mi rende insofferente. Per tutta la mia infanzia ho sognato una carriera militare, poi quando mi sono innamorata di un ragazzo, ho desiderato di sposarlo e di fare tanti figli con lui. Alla fine, dopo una vita sentimentale piuttosto intensa, ho privilegiato la mia natura solitaria, condividendo la mia vita in campagna con un’amica.
Per questa ragione mi interrogo sempre sulla centralità che ha preso nella nostra cultura l’urgenza di definire — fin dalla più tenera età — quella che sarà la nostra identità sessuale adulta. L’eros è una parte importantissima della persona e ci sono tante sfumature di eros quante sono gli esseri umani. Questo prepotente insinuarsi dei metodi educativi nella parte più segreta e intima dei bambini è qualcosa di inquietante. Da che mondo è mondo, i piccoli d’uomo hanno scoperto da soli come nascono i figli e cosa fanno gli adulti quando si appartano. Il percorso di queste scoperte coincide con quello del corpo, ed è un percorso fatto di penombre, di cose nascoste, di piccole conquiste, di grandi e improvvise folgorazioni.
Da sempre, i bambini sperimentano tra di loro — protetti da qualche frasca o dall’ombra rassicurante di un letto — quelle che saranno le potenzialità dei loro corpi, lontano dagli sguardi indiscreti degli adulti. È un tempo di scoperta che esige la separazione dal mondo adulto. L’esplorazione del proprio corpo e di quello degli altri è un’attività che è sempre esistita, e che sempre esisterà. Probabilmente soltanto la nostra società malata di frantumazione ha bisogno di farla illuminare dalla sapienza degli specialisti, senza tenere conto del nostro innato senso di pudore.
Tempo fa, una mia amica si è sentita in dovere di spiegare alla figlia tredicenne, in procinto di partire sola per la prima vacanza all’estero, tutto quello che sarebbe successo se avesse avuto un rapporto sessuale. Un lungo silenzio ha accolto le sue parole. «Mamma, possiamo far finta che questa conversazione non sia mai esistita?» ha ribadito la ragazza, imbarazzata.
Con l’entrata nella nostra società del mito dell’educazione sessuale come panacea di tutti i mali, i riflettori sono costantemente puntati su qualcosa che, a mio avviso, dovrebbe restare felicemente nella penombra. Viene il sospetto che tutto questo febbrile desiderio di spingere i nostri ragazzi a conoscere la nomenclatura delle parti intime, il loro uso, declinato in infinite e variegate possibilità, sia in realtà collegato all’inarrestabile declino di quella che una volta veniva chiamata educazione.
Non essendoci più l’educazione, non ci rimane che quella sessuale.
Ma in che cosa consiste l’educazione sessuale, e soprattutto che cos’ha davvero prodotto in tutti questi anni di diffusione scolastica? Dovrebbe essere servita a far conoscere il corpo e le sue esigenze affettive, oltre naturalmente ad evitare malattie e gravidanze indesiderate. È stato davvero così? Se ci guardiamo intorno, non possiamo non notare che il degrado relazionale è purtroppo molto diffuso tra gli adolescenti. Tolta l’educazione della persona nella sua totalità, emerge ciò che sta appena sotto, vale a dire i modelli etologici delle grandi scimmie: il maschio dominante, le femmine ai suoi piedi, e gli esemplari non dominanti sottomessi alle prepotenze del branco.
Esperienze come quelle di Trieste nascono per tentare di arginare questo fenomeno. Serviranno, mi chiedo? Ne usciranno davvero bambini capaci di rispettare l’altro? O sarà soltanto l’ennesima spolverata di politically correct su un problema ben più allarmante? La nostra società sta vivendo una gravissima emergenza educativa, un’emergenza che si sottostima o che si cerca di tenere a bada inventando sempre nuovi spauracchi e sempre nuovi bersagli «oscurantistici» da abbattere.
I bambini, in realtà, sono bombardati di informazioni e di messaggi politicamente corretti, ma questi messaggi non sembrano avere alcun potere educante, se non quello di confondere loro le idee, rendendoli ancora più insicuri e fragili. Si fanno vestire i bambini da principesse, ma quando si tratta di bloccare la vendita di un videogioco che istiga alla violenza sulle donne tutti improvvisamente diventano afasici.
E se fosse giunto il momento di lasciare perdere le forzature ideologiche, da una parte e dall’altra, e di cominciare a parlare seriamente, tra di noi e ai nostri figli, di tutto ciò che sesso non è?

Corriere 12.3.15
Figli d’America, tempo scaduto
Il nuovo saggio del politologo Robert Putnam
La degenerazione del tessuto sociale è un’emergenza


NEW YORK Il 70 per cento dei ragazzi americani con padre e madre poco istruiti cresce in famiglie nelle quali c’è un solo genitore. Solo il 10 per cento dei figli di coniugi laureati, invece, si trova in questa condizione. Redditi troppo bassi non significano soltanto un tenore di vita più modesto, sopra o sotto la soglia di povertà: le forti diseguaglianze producono anche disgregazione delle famiglie, istruzione inadeguata, solitudine dei giovani che non vengono seguiti adeguatamente né aiutati a fare le scelte giuste. Una degenerazione del tessuto sociale che si è manifestata gradualmente e ora è diventata emergenza: nell’America degli anni Sessanta del Novecento le famiglie ad alta e bassa scolarizzazione avevano più o meno la stessa struttura, ora tutto è cambiato.
Dopo la denuncia dell’impatto economico della polarizzazione dei redditi fatta un anno fa da Thomas Piketty, un economista francese, nel suo Capitale , ora arriva quella di Robert Putnam sull’impatto sociale dell’impoverimento delle classi sociali che hanno perso terreno sotto la pressione della deindustrializzazione, dei processi di automazione, della globalizzazione. Our Kids , il nuovo saggio dello scienziato politico di Harvard è uscito da appena due giorni ma fa già discutere, anche per il senso di urgenza che cerca di imprimere alle discussioni su una crisi finita da tempo sul tavolo della politica, ma che fin qui non ha trovato risposte. E invece, incalza Putnam, non si può aspettare che venga completato l’esame scientifico dei fenomeni sociali in atto. Ci vorranno anni, mentre qui bisogna agire subito, altrimenti diventerà troppo tardi, come per il «climate change»: ghiacciai svaniti, livello dei mari in crescita, alluvioni senza precedenti e città semisommerse durante gli uragani, mentre si continua a discutere della natura dei mutamenti climatici e dell’impatto dell’uomo sull’ambiente.
Quindici anni fa con Bowling Alone , potente denuncia dell’impoverimento del «capitale sociale» di un Paese che stava perdendo il suo tessuto associativo e nel quale aumentava l’isolamento dei singoli e dei gruppi, Putnam scosse la coscienza dell’America. Si mosse perfino Bill Clinton che lo chiamò alla Casa Bianca per discutere dei possibili rimedi. Stavolta Putnam, che col suo appassionato saggio sul futuro dei nostri figli spera di incidere sulla campagna per le Presidenziali 2016, si è mosso in anticipo. È stato consultato più volte da Barack Obama (che ha usato le tesi del politologo in alcun suoi discorsi sulla giustizia sociale), ha discusso con Paul Ryan, un leader conservatore molto attento alle questioni sociali anche se nemico dell’aumento della spesa pubblica, mentre il candidato repubblicano alla Casa Bianca Jeb Bush ha voluto vedere il libro in anteprima. Anche il team economico di Hillary Clinton ha incontrato Putnam più di una volta.
Quello del professore di Harvard è un saggio scientifico: 284 pagine di testo zeppe di grafici più cento pagine di note. Ma Putnam ha una capacità unica di coinvolgere il lettore con le sue descrizioni delle trasformazioni sociali delle realtà che ha studiato o che conosce meglio, come quella della sua Port Clinton in Ohio. E riesce a trasformare i grafici in creature viventi che raccontano i percorsi divergenti fatti dalla spesa per i figli nelle famiglie più o meno agiate o quelli dalle madri laureate e non nella ricerca di un impiego e nella capacità di continuare a dedicare parte del tempo alla cura dei figli.
Dietro le statistiche, poi, ci sono le storie: Putnam racconta di ragazzi cresciuti senza guida in famiglie povere, progressivamente devastate dall’apatia, dalla droga, dagli abbandoni del tetto coniugale, mentre scuole e quartieri, che ancora qualche decennio fa erano luoghi di rapporti interclassisti e di riequilibrio sociale, sono sempre più comunità chiuse di una segregazione che non è più solo razziale ma anche sociale: passa attraverso il reddito e l’istruzione e, oltre ai neri e gli ispanici, colpisce ormai anche i ragazzi bianchi, figli delle famiglie del ceto medio impoverito.
Oltre a far discutere, Our Kids è destinato a suscitare critiche. Ad esempio per la sua scelta di rimettere il tema delle classi sociali al centro del dibattito in un Paese che si era illuso di essere privo di divisioni di questo tipo. E poi perché, in qualche modo, accantona la questione razziale. Lo storico Francis Fukuyama ha notato sul «Financial Times» che, leggendo il libro, ci si rende conto che le famiglie degli afroamericani sono state come il canarino nella miniera di carbone: il declino sociale dei loro quartieri nelle città Usa degli Anni 70 e 80 del secolo scorso è ora seguito, più di recente, da quello delle famiglie del proletariato bianco.
Il limite del lavoro di Putnam sta nelle conclusioni. La ricetta proposta dal politologo non è particolarmente originale: più investimenti sociali nella cura dell’infanzia, una riforma della giustizia criminale che riduca le pene detentive per i reati minori in modo da lasciare a casa un numero maggiore di padri, scuole migliori e più attività gratuite per il doposcuola oltre, ovviamente, alle azioni necessarie per favorire un aumento dei redditi minimi. Lo studioso non entra nel merito dei comportamenti politici che hanno portato alla situazione attuale e questo suscita le critiche dei liberal, irritati perché Putnam non mette sotto accusa esplicitamente il «darwinismo sociale» dei conservatori e le politiche fiscali di Bush che hanno favorito l’eccessiva polarizzazione nella distribuzione dei redditi.
Putnam forse non lo ha fatto perché non voleva perdere la possibilità di influenzare, in vista delle elezioni presidenziali, anche una destra che è, sì, antistatalista, ma che ormai è anch’essa seriamente preoccupata per l’impoverimento di gran parte della società. Comunque, tattiche politiche a parte, Putnam cerca di spostare la discussione dal terreno economico del trasferimento del reddito, che pure è necessario, a quello delle regole sociali e dei comportamenti etici. Un terreno che piace a conservatori «illuminati» come David Brooks, che vede nel libro di Putnam un’occasione per spostare la discussione sulla rinascita del ceto medio dal terreno degli sgravi fiscali a quello della ricostruzione delle regole sociali sulle quali deve basarsi l’organizzazione di una famiglia capace di far progredire i suoi figli. Un «vocabolario morale» che, secondo Brooks, non dipende solo dalla consistenza della busta paga e dal benessere materiale.

Repubblica 12.3.15
“Il bosone di Higgs è solo il primo passo ora affronteremo l’universo oscuro”
“Chiuderemo il capitolo del 5% del cosmo che conosciamo e affronteremo il 95% che è ignoto”
“La natura è tutta da scoprire, questo è un momento fantastico per essere fisici”
Il Nobel Carlo Rubbia commenta la riaccensione dell’acceleratore del Cern che riparte con energia doppia
intervista di Elena Dusi


«SE fossi un giovane e mi spiegassero che dell’universo conosciamo solo un misero 5% mi getterei subito nell’impresa di capire il 95 rimanente ». Carlo Rubbia, Nobel per la fisica nel 1984 grazie alla scoperta delle particelle W e Z, ex direttore del Cern (Organizzazione europea per la ricerca nucleare) e senatore a vita dal 2013, commenta oggi la riaccensione del Large Hadron Collider (Lhc), l’acceleratore di particelle del Cern di Ginevra. Dopo la scoperta del bosone di Higgs, annunciata nel 2012, il più grande strumento scientifico del mondo (la lunghezza del suo anello sotterraneo è di 27 chilometri) si è fermato per due anni e ha “rinnovato i motori”. Ora tutto è pronto per ripartire con un’energia doppia (da 6,5 a 13 Tev), mai raggiunta da altri acceleratori di particelle, e domande infinite. L’italiana Fabiola Gianotti sarà direttrice generale del Cern dall’anno prossimo. A Lhc il nostro paese partecipa con ben 600 scienziati coordinati dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.
Cosa osserveremo con il nuovo Lhc?
«Sarà la natura a stabilirlo, noi possiamo solo avanzare ipotesi. Di sicuro però si miglioreranno i dati sul bosone di Higgs. Quelli che abbiamo sono preliminari e saranno approfonditi».
Il bosone di Higgs non è una scoperta già incassata?
«L’Higgs è stata una scoperta importante e una grande esperienza per la scienza europea. Ma ora spalanca una fase nuova per la fisica. Anche quando scoprimmo le particelle W e Z poi fu necessario approfondire la ricerca usando un nuovo acceleratore, il Lep. È stato proprio studiando W e Z con maggior precisione che siamo arrivati a prevedere il quark top e il bosone di Higgs. Lo stesso dovremmo fare oggi. Scavando bene attorno all’Higgs, precisando i dettagli dei suoi decadimenti, potremmo avere sorprese importanti».
Il nuovo Lhc è pronto per l’impresa?
«Farà un lavoro ancora migliore rispetto al passato, ma Lhc è un acceleratore associato a molti segnali di fondo nei suoi dati. Abbiamo progetti ancora più grandi».
Per esempio?
«Ci sono varie ipotesi. La prima è costruire un acceleratore circolare ancora più grande, di circa cento chilometri. Questa macchina potrebbe essere realizzata al Cern, oppure negli Stati Uniti o in Giappone. Anche in Cina ci stanno pensando. Un acceleratore lineare, cioè rettilineo, potrebbe essere ugualmente adatto. Anche in questo caso bisognerebbe raggiungere la lunghezza di un centinaio di chilometri. Infine, ed è l’idea su cui sto lavorando, si potrebbero far scontrare due fasci di muoni, uno positivo e uno negativo. In questo caso l’Higgs verrebbe prodotto in solitudine e si avrebbe un segnale chiaro».
Dal nuovo Lhc ci si aspettano nuove idee sulla supersimmetria.
«L’esistenza della supersimmetria è un’ipotesi che è stata avanzata, ma va approfondita meglio perché finora la massa delle particelle è maggiore rispetto a quanto osservato».
E per quanto riguarda la materia oscura?
«È un grande punto interrogativo. Al momento possiamo osservare i suoi effetti solo sulla forza di gravità dei corpi celesti. Può darsi che il suo effetto finisca lì, oppure che sia associata a una fisica delle particelle elementari ancora da scoprire. In un certo senso, anche della materia oscura l’Higgs è il responsabile, in quanto particella che dà la massa alle altre particelle elementari. Approfondire la ricerca sul bosone è importante dunque anche per decifrare il mistero della materia oscura».
Quali altre sorprese potrebbero arrivare dal nuovo Lhc?
«La natura è ancora tutta da scoprire e questo è un momento fantastico per essere fisici. Completare lo studio dell’Higgs ci permetterà di chiudere il capitolo del 5% dell’universo che conosciamo e affrontare finalmente il 95% che è ignoto».
Il bosone di Higgs è quindi un ponte verso una fisica ancora tutta da immaginare.
«Rappresenta la transizione fra ciò che conosciamo, il modello standard, e la fisica del futuro. Prima la cosmologia avanzava ipotesi che erano quasi modelli filosofici. Ora è diventata una scienza esatta e cerca di rispondere alle domande fondamentali dell’uomo: dove siamo e da dove veniamo? Prendiamo il Big Bang: era nato come un’idea, oggi è un’esperienza reale, che può essere in parte ricreata in laboratorio. Purtroppo abbiamo un solo universo e non possiamo rivivere un altro Big Bang per studiarlo da vicino».