sabato 29 agosto 2009

l’Unità 18.8.09
La ribellione e la mente
di Flore Murartd-Yovanovitch


Non è scendendo in piazza, facendo presenza di corpi e di parole, che si può fare rivoluzione oggi, ma inventando una nuova forma di ribellione. Perché la società è cambiata e per sconfiggere il diffuso “senso di inutilità dell’agire politico” bisogna inventare un nuovo modo di resistere comune. Le modalità di lotta passate hanno d’altronde dimostrato i loro limiti e tocca ora separarsi nettamente invece di rimpiangerle e di augurarsene il ritorno: il ’68 suicida, basato su un falso concetto di desiderio e su una libertà senza identità; il femminismo che pensava di raggiungere una parità attraverso un annullamento dell’altro maschile, invece di capire che essa si costruisce nel rapporto dialettico e vitale col diverso da sé. Entrambi, movimenti che non hanno prodotto una vera e duratura liberazione, per non avere scoperto che essa deve partire prima di tutto da una trasformazione nella psiche.Per inventare una nuova ribellione che sia nonviolenta, bisogna affiancare alla resistenza (alla disobbedienza civile e agli aspetti salvabili, se ci sono, del ’68 e del femminismo) una nuova ricerca sulla mente umana.

Liberazione 26.8.09
Berlusconi a L’Aquila, con il cardinal Bertone
di Paolo Izzo

Caro direttore, e così il prossimo 28 a L’Aquila il nostro premier, partecipando alla Perdonanza celestiniana a fianco del cardinale Tarcisio Bertone (ministro degli Esteri del nostro o del suo Stato?), sarà automaticamente mondato dei suoi peccati carnali in un simoniaco clima di revanchismo cattolico. Una volta intascata l’ambita indulgenza, pagata anche a suon di riforme scolastiche, al capo di governo (nostro o dell’intero Bi-Stato?) resteranno soltanto alcuni peccati veniali tra cui la questione immigrati, le ronde, i rapporti con la Libia di Gheddafi e con la Lega di Bossi, la disumanizzazione della società e la desertificazione della politica. Temi caldi, gira voce, delle imminenti “ore di religione”.

La Stampa e Liberazione 22.8.09
Gli immigrati invisibili
di Paolo Izzo

Che un gommone pieno zeppo di esseri umani possa attraversare senza essere avvistato le poche centinaia di miglia marine che dividono la Libia dall’Italia suona come un’enorme bugia. Ma non, come ha voluto alludere il signor Maroni, una bugia dei sopravvissuti alla tragica traversata. Bensì, l’insostenibile menzogna di noi che stiamo a guardare senza voler vedere. In un pianeta controllato, intercettato, spiato, grandefratellizzato, è una enorme bugia che una imbarcazione che naviga venti giorni non venga vista; mentre su di essa e nel mare intorno, esseri umani muoiono a decine. Nel silenzio colpevole dei nostri occhi.
l’Unità 29.8.09
Conversando con Citto Maselli
«Povera sinistra, ha perso ogni contatto con il suo elettorato»
intervista di Gabriella Gallozzi


Quando Citto Maselli si mette dietro alla macchina da presa c’è sempre da mettere in conto la solita polemica: la destra attraverso i sui fedeli giornali – i nomi delle testate sono superflui, no? – tuona contro lo Stato che «butta» i suoi soldi su film che non faranno «un euro».
L’idea che il cinema, l’arte e la cultura debbano rispondere a criteri di mercato, insomma, ci ha portato esattamente al disastro che tutti noi abbiamo sotto gli occhi. E che proprio Videocracy, il documentario di Erik Gandini «censurato» dalla Rai (gli ha negato lo spazio dei trailers) racconta. E cioè quel lungo processo di «berlusconizzazione» del paese che ha seppellito ogni velleità culturale, trasformandola in puro «intrattenimento» fatto di veline, reality e cannibalismo televisivo. Qualcosa che la sinistra ha capito troppo tardi e sulla quale si è anche adagiata.
È anche questo, infatti, uno dei forti temi di «autocritica» che troviamo nel suo nuovo film: «Le ombre rosse» che passerà fuori concorso a Venezia per arrivare in sala il prossimo 4 settembre per Raicinema. A quarant’anni da «Lettera aperta a un giornale della sera», in cui con occhio critico guardava agli intellettuali del Pci – dei quali ha fatto parte fin dal lontano ’44 per approdare a Rifondazione -, Citto Maselli sceglie nuovamente la via della metafora per indagare sulle mille anime della sinistra di oggi. Posizioni diverse, spaccature, potere.
Insomma, tutto il nostro presente. A cominciare da un titolo di vocazione «fordiana», «Le ombre rosse» che in origine sarebbe dovuto essere un altro, molto più esplicito: «Anni luce». «A spiegare subito – racconta Maselli – la distanza abissale che si è creata negli ultimi anni tra la politica e i suoi elettori»
Uno scollamento epocale, è vero, che come racconterà nel film? «Sotto forma di metafora “Le ombre rosse” si articola su tre piani. Un centro sociale pieno di ragazzi attivissimi, entusiasti, scatenati che cercano di ristabilire il contatto con le persone, col territorio, come si diceva una volta. Hanno pure n centro di accoglienza per i senza casa. Poi c’è un gruppo di artisti, gente di teatro che cerca di mettere insieme un ciclo elisabettiano ma che non trova spazi alla sua creatività. Infine un gruppo di intellettuali e politici dell’establischment con i volti di Herlitzka, Lucia Poli, Ennio Fantastichini».
Riferimenti espliciti, si era detto, a Bertinotti piuttosto che D’Alema, a Fuksas piuttosto che Eco?
«No per carità. Altrimenti avrei fatto il Bagaglino. Sono stato attentissimo perché non ci fosse nessuna riconoscibilità. Mi interessava la metafora, ripeto. La scelta di raccontare le tante anime della sinistra e la sua diversità nelle strategie politiche». Litigiosità, magari?
«La guerra fra correnti e le spaccature, purtroppo, sono sempre state proprie delle sinistra dalla Seconda internazionale in poi. Forse per una tendenza a radicalizzare le proprie posizioni. Del resto se guardiamo all’ultima scissione di Rifondazione non possiamo ignorare neanche le guerre interne al Pd. Ma a me interessava piuttosto raccontare le tante voci».
Come quella degli artisti e della cultura, evidentemente, che non riescono a trovare alcuno spazio? «Ecco, questo è anche uno dei temi centrali. Il principio che la cultura debba rendere in termini economici è il principio della fine. E purtroppo è stato sposato anche dalla sinistra. Non a caso il film è ambientato durante il governo Prodi, tra il 2007 e il 2008. Non si tratta solo dei tagli al Fus che le destre hanno attuato in modo drastico e contro i quali tutta la cultura si sta mobili-
tando. È qualcosa di più grave e di cui è stata responsabile anche la sinistra. Pensare che non ci debba essere l’intervento dello Stato a sostegno della cultura significa eliminare ogni principio di ri-
cerca, di sperimentazione, di innovazione, d’arte. Così si uccide tutto. Non è un caso che la Francia grazie all’intervento pubblico produca ogni anni 240 film contro i 70,80 dell’Italia. Qui serve una vera legge di sistema per il cinema che intervenga a scardinare quell’imbuto costituito da Raicinema e Medusa che bloccano ogni altra forma di produzione. Se non si interviene con una vera legge anti-trust c’è poco da fare». Sulla nuova normativa per il cinema la sinistra ha lavorato a lungo. Purtroppo però non si è fatta, ancora una volta, per la “litigiosità” e poi la caduta del governo Prodi...
«È vero anche in quel caso ci sono state discussioni, confronti e spaccature». Strategie politiche diverse, diciamo. Ma di quelle che rappresenta nel suo film, attraverso, i tre “gruppi” a quale si sente più vicino?
«Con tutta la simbolicità della metafora che tende ovviamente anche all’idealizzazione, mi sento più legato ai ragazzi dei centri sociali. Sono gli unici che lavorano tra la gente, come dovrebbe tornare a fare la politica. È come se avessero recuperato la grande lezione del Pci. Tutti noi che venivamo da ambienti borghesi prima di tutto venivamo mandati nelle borgate, nelle periferie. Tiburtino Terzo, Ponte Mammolo, tra gli operai, tra la gente che viveva nei casermoni malsani dove i ragazzini avevano sempre gli occhi gonfi per l’umidità nei muri. Questo era il rapporto col territorio, con la gente. E pure il tesseramento serviva per conoscere le famiglie. Era un lavoro “umile”, dal basso. Tutto questo è esattamente quello che ha capito la Lega e che ci ha copiato. Mentre la sinistra usa i salotti, la ricerca del potere, il programma televisivo dove apparire. Se si vuole un vero partito di sinistra rinnovato si deve partire proprio da qui: dalla ricerca del rapporto con le persone come ci aveva insegnato il Pci».

l’Unità 29.8.09
Razzismo, il partito dell’odio
di Moni Ovadia


La storia in sé purtroppo non è maestra di vita, lo abbiamo ripetutamente constatato tuttavia, pur nella differenza dei contesti sociali e dell’evoluzione dei tempi, dagli eventi storici è possibile trarre ammaestramenti utili a valutare la nostra epoca laddove si manifestino delle inequivocabili ricorrenze. I rigurgiti di razzismo e di xenofobia che emergono con sempre maggiore virulenza e ferocia nel nostro paese trovano precedenti in altri periodi ed altri luoghi del nostro recente passato. La logica che fermenta e fomenta questa ideologie primitive e apparentate si fonda su assunti palesemente falsi, su presunzioni statistiche distorte e manipolate ma su sinistri schemi di verificata efficacia: l’uso strumentale di sentimenti diffusi come la paura e l’insicurezza già incrementate dalla crisi economica, la ricerca del capro espiatorio, la sua individuazione nello straniero soprattutto se la sua diversità è visibile ad occhio nudo, la sua criminalizzazione tout court, la spoliazione della sua dignità con il cambiamento giuridico del suo status per mezzo di leggi criminali travestite da difesa della gente per bene. Così fecero i nazisti con gli ebrei, così, mutatis mutandis si fa oggi con i rom, con i clandestini e con i rumeni o altri. Non facciamoci ingannare dalle argomentazioni ragionevoli sono solo un ipocrita travestimento delle vere intenzioni, ovvero la semina dell’odio. Un’autentica sicurezza alla quale ogni persona nessuna esclusa ha diritto può nascere solo dalla solidarietà e da un giustizia uguale per tutti. I politici che vellicano e alimentano gli istinti più bassi sanno che l’operazione paga politicamente e per questo se ne servono con cinismo. È patetico e inutile scandalizzarsi per una scritta schifosa. Il pesce puzza dalla testa.

Repubblica 29.8.09
L'aggressione come strategia
di Giuseppe D’Avanzo


Chi abusa del suo potere, prima o poi, non tenterà più di affermare il principio della propria legittimità e mostrerà, senza alcuna finzione ideologica, come la natura più nascosta di quel potere sia la violenza, la violenza pura. Sta accadendo e accade ora a Silvio Berlusconi che, da sempre, dietro il sorriso da intrattenitore occulta il volto di un potere spietato, brutale, efficiente. Era nell´aria. Doveva accadere perché da mesi era in incubazione. Avevamo la cosa sotto gli occhi, se ne potevano scorgere le ombre. Sapevamo, dopo il rimescolamento nell´informazione controllata direttamente o indirettamente dall´Egoarca, che in autunno sarebbe cominciata un´altra stagione: un ciclo di prepotenza che avrebbe demolito i non-conformi, degradato i perplessi, umiliato gli antagonisti, dovunque essi abbiano casa. Dentro la maggioranza o nell´opposizione. Dentro la politica o fuori della politica. Nel mondo dell´impresa, della società, della cultura, dell´informazione.
Nessuno poteva immaginare che l´aggressiva "strategia d´autunno" avrebbe provocato l´inedita e gravissima crisi tra il governo italiano e la Santa Sede aperta dalla rinuncia del segretario di Stato Tarcisio Bertone di sedere accanto al presidente del Consiglio in una cena offerta dall´arcivescovo dell´Aquila nel giorno della "perdonanza".
Perdono mediatico chiedeva Berlusconi al Vaticano e l´aveva ottenuto. Nella sua superbia, l´uomo deve aver pensato che Oltretevere lo avrebbe assolto e "immunizzato" anche per il rito di degradazione che, nello stesso giorno, il Giornale dell´Egoarca ha voluto infliggere al direttore dell´Avvenire, "colpevole" di aver dato voce alle inquietudini del mondo cattolico per l´esempio offerto da chi frequenta minorenni e prostitute, di aver usato parole esplicite per censurare lo stile di vita del capo del governo. Anche contro la Chiesa, Berlusconi ha voluto mostrare la prepotenza del suo potere e la Chiesa ha chiuso la porta che gli era stata aperta.
Nelle ore di questa sconosciuta e improvvisa crisi tra Stato e Chiesa, quel che bussa alla porta di Berlusconi è soltanto la realtà che, per fortuna, alla fine impone le proprie inalterabili condizioni. Per cancellarla, nientificarla, l´Egoarca ha pensato di poter fare affidamento soltanto sul potere ideologico, egemonico e mediatico della sua propaganda, sull´accondiscendenza dei conformi e la pavidità dei prudenti sempre a caccia di un alibi. La "pubblicità" avrebbe dovuto rimuovere ogni storia, ogni evento (dalla "crisi di Casoria" alle stragi di migranti nel canale di Sicilia) sostituendoli con la narrazione unidimensionale e autocelebrativa delle imprese di chi ha il potere e, in virtù di questo possesso, anche la "verità". Forse, si ricorderà la conferenza stampa di Berlusconi di agosto. Il racconto vanaglorioso di un successo ininterrotto, attivo in ogni angolo della Terra. Se le truppe di Mosca si sono fermate alle porte di Tbilisi scongiurando un conflitto Russia-Georgia, il merito è di Berlusconi che ha evitato l´inizio di una nuova Guerra Fredda. Se Barack Obama ha firmato a Mosca il trattato per la limitazione delle armi nucleari, il merito è di Berlusconi che ha favorito «l´avvicinamento» della Casa Bianca al Cremlino. Se l´Alleanza atlantica è ancora vegeta, lo si deve al lavoro di persuasione di Berlusconi che ha convinto il leader turco Erdogan a dare il via libera alla candidatura di Rasmussen. Se «l´Europa non resterà mai più al freddo», il merito è di Berlusconi che ha convinto Erdogan e Putin a stringersi la mano dinanzi al progetto del gasdotto South Stream. Nel mondo meraviglioso di Silvio Berlusconi non c´è ombra né crisi. Non c´è recessione né sfiducia. Non c´è né sofferente né sofferenza. Non ci sono più immigrati clandestini, non c´è crimine nelle città, non c´è più nemmeno la mafia. Regna «la pace sociale» e «nessuno è rimasto indietro» e, per quanto riguarda se medesimo, «non c´è nulla di cui deve scusarsi». Grazie ai «colpi di genio» di Berlusconi, anche i terremotati delle tendopoli all´Aquila sono felici perché «molti sono partiti in crociera e altri sono ospitati in costiera e sono tutti contenti».
Questo racconto fantasioso deve essere unidimensionale, uniforme, standardizzato, senza incrinature. Deve far leva su un primato della menzogna a cui si affida il compito di ridisegnare lo spazio pubblico. Soprattutto deve essere protetto da ogni domanda o dubbio o fatto. A chi non accetta la regola, quel potere ideologico e mediatico riserverà la violenza pura, la distruzione di ogni reputazione, il veleno della calunnia. Guardatevi indietro. E´ accaduto costantemente in questa storia che ha inizio a Casoria il 26 aprile, in un ristorante di periferia dove si festeggiano i 18 anni di una ragazza che, minorenne, Berlusconi ha voluto accanto a cene di governo e feste di Capodanno. Della moglie del capo del governo che dice "basta" e chiede il divorzio perché «frequenta minorenni» e «non sta bene» saranno pubblicate foto a seno nudo, le si inventerà un amante. Lo stesso rito di degradazione sarà imposto al giovane operaio che testimonia le modalità del primo contatto tra il 73enne capo del governo e la minorenne di Napoli; alla prostituta che racconta la notte a Palazzo Grazioli e le abitudini sessuali del capo del governo; al tycoon australiano che edita un Times troppo curioso; al fotografo che immortala l´Egoarca intossicato dalla satiriasi con giovani falene a Villa Certosa; all´editore di un giornale – questo – che si ostina a chiedere conto a Berlusconi, con dieci domande, delle incoerenze delle sue parole nella convinzione che è materia di etica politica e non di moralità privata rendere disponibile la verità in un pubblico dibattito. A questa stessa degradazione è stato ora sottoposto il direttore del giornale della Conferenza episcopale. Berlusconi non si fermerà. Dal cortile di casa, questo potere distruttivo – che ha bisogno di menzogne, silenzio, intimidazione – minaccia di esercitarsi in giro per il mondo aggredendo, dovunque essi siano, in Francia, in Spagna, in Inghilterra, negli Stati Uniti, i giornali che riferiscono della crisi dell´Egoarca, della sua irresponsabilità e inadeguatezza. Sarebbe ridicolo, se non fosse tragico. Quel che si intravede è un uomo solo, circondato da pochi – cattivi - consiglieri, prigioniero di se stesso, del suo delirio di potenza, delle sue favole, incapace di fare i conti con quella realtà che vuole annullare. E´ un uomo, oggi più di ieri, violento e pericoloso perché nella sua crisi trascinerà lo Stato che rappresenta. Come ha fatto ieri, inaugurando il conflitto con la Santa Sede. E domani con chi altro? Non ci si può, non ci si deve rassegnare alla decadenza di un premier che minaccia di precipitare anche il Paese nel suo collasso.

Repubblica 29.8.09
Ondata di adesioni: in 30mila firmano la petizione di Cordero, Rodotà e Zagrebelsky
Giuristi, appello per la libertà di stampa "Vogliono silenziare l´opinione pubblica"
di Vladimiro Polchi


ROMA - Costituzionalisti, premi Nobel, esponenti del mondo della cultura e dello spettacolo. E moltissimi cittadini: circa 30mila in poche ore. È un´ondata d´adesioni all´appello in difesa della libertà di stampa lanciato sul sito internet di Repubblica dai giuristi Franco Cordero, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky: «La citazione in giudizio per diffamazione - scrivono - è interpretabile solo come un tentativo di ridurre al silenzio la libera stampa, di anestetizzare l´opinione pubblica, di isolarci dalla circolazione internazionale delle informazioni, in definitiva di fare del nostro Paese un´eccezione della democrazia».
All´appello dei tre giuristi aderiscono in tanti, tra politici, registi, storici e scrittori: Dario Franceschini, Dario Fo, Franca Rame, Bernardo Bertolucci, Andrea Camilleri, Carlo Verdone, Vittoria Cabello, Fabrizio Gifuni, Francesca Comencini, Giulio Scarpati, Pierfrancesco Favino, Ascanio Celestini, Angelo Barbagallo, Marco Risi, Davide Ferrario, Sandro Veronesi, Carlo Lucarelli, Antonio Scurati, Erri De Luca, Giuseppe Montesano, Domenico Procacci, Enrico Deaglio, Francesco Rosi, Carla Fracci, Beppe Menegatti, Ornella Vanoni, Gabriele Salvatores, Angela Finocchiaro. E ancora, Carlo Ginzburg, Rosario Villari, Tullio Gregory, Corrado Stajano, Giovanni De Luna, Miguel Gotor, Sandro Petraglia, Stefano Rulli, Ottavia Piccolo, Licia Maglietta, Carlo Freccero, Enrico Bertolino, Dori Ghezzi, Monica Guerritore, Ferzan Ozpetek, Milva, Marco Bellocchio, Giuseppe Montesano, Teresa De Sio, Maurizio Nichetti, David Riondino, Franco Battiato, Saverio Costanzo, Carlo Degli Esposti, Massimo Ghini, Ettore Scola, Furio Colombo, Giacomo Marramao, Stefania Sandrelli, Giovanni Soldati, Valerio Mastrandrea, Alessandro Gassman, Paolo Sorrentino. Maurizio Crozza aderisce e osserva: «La mia solidarietà va a Silvio Berlusconi. Dove s´è mai visto un giornalista che pone domandi irriverenti al capo del governo? Un bravo giornalista non assume iniziative, un bravo giornalista scrive sotto dettatura».
Non solo. A criticare l´attacco del presidente del Consiglio a Repubblica sono anche i costituzionalisti. «La sua denuncia - sostiene Michele Ainis, docente di diritto pubblico a Roma Tre - minaccia il ruolo proprio della libera stampa, che è quello di essere antagonista rispetto al potere costituito e cane da guardia del governante di turno. Un giornalista organico al "principe" è una sorta d´ossimoro». Sulla stessa linea, Stefano Merlini, costituzionalista a Firenze: «I giornalisti hanno non solo il diritto ma anche il dovere di informare. E questo dovere si adempie anche ponendo domande scomode a chi esercita funzioni pubbliche. I politici, a differenza dei comuni cittadini, possono essere chiamati a rispondere dei loro comportamenti anche privati, in quanto di interesse per gli elettori. Le domande poste da Repubblica, seppure orientate in una precisa direzione, non possono rappresentare una lesione della privacy del premier».

Repubblica 29.8.09
L’Aifa replica al governo: indietro non si torna. Il 30 settembre il via libera definitivo alla pillola
Aborto, Ru486 negli ospedali dal 15 ottobre
di Michele Bocci


ROMA - A metà ottobre la Ru486 arriverà negli ospedali italiani. Intorno al 15 infatti dovrebbe esserci la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della delibera Aifa sulla pillola abortiva. La trasmissione dell´atto avverrà dopo la riunione del Cda dell´Agenzia per il farmaco che si terrà il 30 settembre e durante la quale sarà riletto il testo già approvato a luglio. Non si torna più indietro: lo sottolineano dall´Aifa. «Abbiamo regolamentato l´utilizzo del farmaco che in alcune regioni si stava già usando - è scritto in un comunicato - L´autorizzazione, fatti i debiti passaggi, è stata un atto dovuto, vista la normativa sul mutuo riconoscimento». Più netto Giovanni Bissoni, assessore alla salute dell´Emilia Romagna e membro del Cda: «L´Aifa ha finito il suo lavoro, non si può discutere la decisione di un organo tecnico. Semmai lo Stato-Regioni potrà lavorare su linee guida sull´utilizzo del farmaco».
Si tratta di risposte alle polemiche sulla pillola abortiva rinfocolatesi di recente, e partite dalla proposta del capogruppo Pdl in Senato Maurizio Gasparri di una inchiesta parlamentare per valutare gli effetti della Ru486 in riferimento alla 194. Tale attività, dicono i tecnici, non impedirà la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, data per scontata anche da Sergio Dompé, presidente Farmindustria: «L´autorizzazione dell´Aifa è stata doverosa - dice - altrimenti chiunque avrebbe potuto fare causa al servizio sanitario nazionale per non averla messa a disposizione. Si tratta di un farmaco usato altrove da anni».
L´Aifa ieri ha riassunto gli effetti della sua decisione. Tra l´altro diventerà illegale prescrivere la pillola fuori dalla 194, si potrà utilizzare entro 49 giorni dall´inizio della gravidanza e non più entro 63, il medico avrà una possibilità di scelta in più, verranno segnalate tutte le complicanze. l´Aifa non cita più il ricovero. A luglio si disse dell´obbligo di 3 giorni in ospedale. Oggi si parla di «maggiore sicurezza della donna, grazie al percorso in ambiente sanitario protetto e ad uno stretto monitoraggio».
Ieri Gasparri ha ribadito la necessità di una inchiesta. Il tema provoca una polemica interna al Pd. Dorina Bianchi, capogruppo del partito in commissione sanità al Senato contesta la contrarietà all´indagine di Livia Turco: «Ci sorprende che la sua pur autorevole posizione sia registrata come quella dell´opposizione e del Pd. Io non sarei contraria a tale indagine». Cesare Cursi, senatore responsabile salute del Pdl, spiega che «l´Aifa ha fatto un passaggio tecnico dovuto. Ma ognuno ha il diritto di chiedersi se il farmaco è dannoso e ogni iniziativa parlamentare o scientifica è utile».

Corriere della Sera 29.8.09
Rutelli: il Pd sia democratico, non di sinistra
di Al. T.


GENOVA — Francesco Rutelli sostiene Dario Franceschini, eppure qui a Genova non può fare a meno di notare che «la perdita di consensi a favore dell’Italia dei Valori è stato causata anche da una leadership che è mancata», quindi anche dalla gestione di Walter Veltroni e del successore. E all’ex leader della Margherita non sembra che le cose stiano andando meglio alla Festa democratica: «Il dibattito mi sembra introverso». Non per timidezza, ma per eccessiva attenzione alle beghe interne: «La discussione non decolla». Neanche il faccia a faccia con Leoluca Orlando. L’ex sindaco di Roma contesta l’antiberlusconismo come collante dell’opposizione: «Dire che Berlusconi è Hitler non ci porta molti voti. Dobbiamo metterci insieme per un’idea di futuro». Orlando è in disaccordo: «Noi non vediamo in Berlusconi solo una serie di errori, ma un sistema, una perversione della cultura politica e della legalità costituzionale». Rutelli non mette un veto assoluto a un’alleanza con l’Idv («ci metteremo anche con loro se necessario») e con l’Udc («ma neanche io voglio mettermi d’accordo con Cuffaro»), ma spiega che il Pd deve «essere la guida». E deve essere «democratico» e non di sinistra come vorrebbe Bersani: «Il Pd è un nuovo inizio: dobbiamo parlare a molte persone».
Non ci riesce, finora, conferma Sergio Chiamparino, candidato mancato per il rammarico di molti al Nord: «È un dibattito rivolto troppo all’interno del partito. E poi dominano ancora le correnti». Non si entusiasma il sindaco di Torino, che si dichiara «indifferente» tra Franceschini e Bersani: «Mi sento garantito da entrambi, ma poco convinto da entrambi». Nessun accenno al terzo incomodo, Ignazio Marino. Quanto alla sinistra, «non possiamo rinunciare a questa parola: ma serve una sinistra moderna, non come quella di adesso che tutela solo chi è già tutelato».

Corriere della Sera 29.8.09
Il genetista Cavalli-Sforza racconta i meccanismi che hanno scandito il progresso dell’Homo sapiens. L’appuntamento al Festival della Mente
L’evoluzione culturale batte quella biologica
Così la specie umana ha conquistato il pianeta
di Luigi Luca Cavalli-Sforza



Che l’uomo sia un ani­male, non vi sono dubbi. Che abbia al­cune caratteristiche diverse dagli altri animali, è chiaro. Ma se ci avviciniamo al problema con il solo aiuto dell’osservazione e del ragio­namento, cioè scientificamente, quali sono queste caratteristiche? Vi sono naturalmente differenze biologiche tra l’uomo e gli animali, anche quelli più vicini a noi. Sappiamo che le differenze biologiche tra individui e tra specie stanno nel programma che serve a un indivi­duo per costruire se stesso. Sappiamo che que­sto programma è scritto nel Dna e l’eredità bio­logica è resa possibile dalla copiatura, a ogni generazione, del Dna di ogni individuo per pas­sare il Dna copiato a un figlio, che la usa come modello per costruire se stesso, ma anche per farne copie per i suoi discendenti e così via. Ma sappiamo che in ogni processo di copiatura possono avvenire errori e gli errori di copiatura del Dna sono trasmissibili, perché i figli costrui­scono se stessi e poi copiano il modello che hanno ricevuto, per passare il programma ai lo­ro figli (introducendo nuovi errori).

Gli errori di copiatura sono chiamati muta­zioni genetiche e sono responsabili dei cambia­menti ereditari. Più spesso questi cambiamenti sono in peggio, perché gli errori di copiatura del Dna sono casuali e possono recare danno anche fatale in un organismo delicato e com­plesso come quello di un vivente. Ma qualcuno può essere benefico, ad esempio vi è sempre una possibilità che uno di essi porti una mag­gior capacità di resistere a una delle tante cau­se di malattie, magari molto diffuse come è, e anche da noi era, la tubercolosi. Se il portatore della mutazione è resistente, così potranno es­sere i suoi figli che portano il Dna copiato e lo trasmettono e il tipo mutato aumenterà auto­maticamente di frequenza nelle generazioni successive. Questo è un esempio di quella che Darwin ha chiamato selezione naturale. Ma spe­cie in organismi lenti come noi, che impieghia­mo trent’anni a riprodurci, in media, e formia­mo coppie che hanno solo pochi figli, possono essere necessarie migliaia di anni, magari an­che molti di più perché una popolazione in cui è avvenuta una mutazione in un individuo di­venga interamente del tipo mutato.
Archeologia e genetica ci hanno mostrato che la nostra separazione dalla scimmia più vi­cina a noi vivente oggi, lo scimpanzé, cominciò circa sei milioni di anni fa in Africa. I nostri più vecchi antenati scesero dagli alberi e sviluppa­rono la capacità di correre sulle gambe e libera­re le mani, cominciando a usarle per fabbricare strumenti: i primi oggi riconosciuti hanno tre milioni di anni. Gli strumenti furono perfezio­nati al punto che un po’ meno di due milioni di anni fa l’uomo cominciò a espandersi, dall’Afri­ca all’Asia e all’Europa, probabilmente anche grazie all’aiuto dell’uso del fuoco. La testa del­l’uomo e con essa il cervello cominciarono a crescere di volume molto presto e l’aumento continuò fino a portare il volume del cervello a quattro volte il valore iniziale, che invece nello scimpanzé e in altri primati rimase invariato. Una delle cause più importanti nell’aumento del cervello fu l’acquisizione del linguaggio, cioè la capacità di articolare i suoni in modo da scambiarci facilmente idee e informazioni. Au­mentò così molto la velocità di quella che chia­miamo evoluzione culturale, cioè l’accumulo di nuove conoscenze. Anche gli animali hanno evoluzione culturale, ma molto meno intensa e meno facilmente trasmessa agli altri che nella nostra specie. Le novità culturali sono nuove idee: invenzioni, scoperte, innovazioni, molte della quali hanno lo scopo di migliorare le con­dizioni di vita. Le novità culturali non sono cambiamenti del Dna; a differenza di essi pos­sono trasmettersi a un largo numero di indivi­dui nel corso di una generazione e con i moder­ni mezzi di comunicazione in tempi brevissi­mi. Inoltre, mentre le novità genetiche, cioè le mutazioni sono casuali, quelle culturali sono di­rette a scopi precisi, di solito benefici.
L’evoluzione biologica ha quindi perduto molta importanza nella nostra specie, perché quella culturale soddisfa le nostre necessità as­sai più presto. Anche per questo, troviamo che le differenze genetiche fra le popolazioni uma­ne viventi oggi sono modeste. Oggi siamo sei miliardi; poco più di 55 mila anni fa eravamo una piccola tribù africana di forse mille o due­mila individui, ma tutti i suoi membri avevano un linguaggio sviluppato come quelli esistenti oggi. Tutti vivevano di caccia, pesca, raccolta di vegetali, cioè di cibo naturale. In un tempo bre­ve si sparsero in tutto il mondo, comprese Ame­rica e Oceania, raggiungendo circa 10 mila anni fa la saturazione demografica permessa dalle ri­sorse locali, che furono sufficienti per arrivare a un numero di abitanti del mondo stimato fra uno e 15 milioni. Ma cominciò allora, in diverse parti del mondo, la produzione del cibo me­diante la coltura di vegetali e l’addomestica­mento di animali e permise una nuova crescita demografica fino ai sei miliardi di oggi, un au­mento di circa mille volte negli ultimi 10 mila anni.
La selezione naturale continua a essere im­portante, ma è ora largamente diretta dalle no­vità prodotte dall’evoluzione culturale assai più che da quella biologica. Per darne un semplice esempio: quando 30 mila anni fa i nostri ante­nati popolarono la Siberia, non ebbero bisogno di attendere la comparsa di mutazioni che per­mettessero la crescita di una fitta pelosità o al­tri meccanismi biologici di difesa dal freddo. Quella pelosità che avevamo in comune con le scimmie, da cui siamo separati da almeno sei milioni di anni, era scomparsa da tempo, forse per i pericoli cui è esposto un animale peloso che vive vicino al fuoco (anch’essa una selezio­ne naturale indotta da un’innovazione). Per po­polare la Siberia si vestirono di pelli di animali cucite con ago e filo e costruirono case molto resistenti al freddo, tutti prodotti di invenzioni utili. In questi e molti altri modi il numero di appartenenti alla nostra specie è aumentato in modo enorme e questo è il grande successo di selezione naturale che dobbiamo largamente all’evoluzione della cultura, ma l’evoluzione biologica ha avuto poco tempo per agire e quel­la culturale ha sopperito largamente alle neces­sità di adattamento ad ambienti diversi. 


Corriere della Sera 29.8.09
Le parole di Cristo nel Corano
Un Gesù più ascetico nei testi islamici
di Giorgio Montefoschi


Per il Corano e l’Islam Gesù non è figlio di Dio e la sua crocifissio­ne è stata «apparente» (nel senso che, secondo alcu­ni, al suo posto, morì un sosia, secondo altri fu un accadimen­to, appunto, solo apparente). È, invece, un grandissimo pro­feta e, privilegio che non è di Maometto, la sua nascita pro­viene dal grembo di una don­na vergine: Maria, oggetto di culto e di venerazione, dichia­rata dal libro sacro «eletta so­pra le donne dei mondi». È il caso unico di una religione che adotta la figura centrale di un’altra, finendo per riconosce­re questa figura come costituti­va della propria identità. Del re­sto, non poche sono le vie di comunicazione tra le due reli­gioni: il Corano mostra stretti legami con l’Antico e il Nuovo Testamento; la biografia di Ma­ometto conferma il valore di quei legami (il suo incontro col monaco cristiano Sergio nella città siriana di Bostra, la concubina cristiana Maria la Copta dalla quale ebbe l’unico figlio maschio); i rapporti tra cristiani e musulmani nella medesima regione geografica mediorientale sono sempre stati fecondi; altrettanto fecon­di vanno considerati i contatti tra i circoli del sufismo e i mo­naci cristiani. Sappiamo che una larga tradizione, costituita da vari scritti cristiani non ca­nonici — come, ad esempio, la Lettera di Giacomo , il Vange­lo di Tommaso , il Vangelo de­gli Ebioniti , il Vangelo degli Egiziani — attesta come le pa­role pronunciate da Gesù nella sua vita, non siano soltanto quelle attribuitegli dai quattro Vangeli. I detti islamici di Ge­sù (edizioni Mondadori-Loren­zo Valla, a cura di Sabino Chia­là, pp. 220, e 24), raccoglie i detti di Gesù che, dall’VIII al XIX secolo dopo Cristo, appaio­no, oltre che nel Corano, nella moltitudine dei trattati religio­si o filosofici, talvolta di gran­de pregio letterario, nei quali si riferiscono detti o insegna­menti attribuiti a vari mistici o asceti e tra questi Gesù. È un libro molto interessante. I let­tori vi troveranno parecchie pa­role simili o quasi a quelle che conoscono dai Vangeli; altre diverse, eppure riconducibili alla medesima verità; altre an­cora completamente scono­sciute; infine, attraverso il Ge­sù dell’Islam, leggeranno l’Islam.
Come il Gesù cristiano, il Ge­sù dell’Islam guarisce i malati e resuscita Lazzaro. Cammina sulle acque e al discepolo che gli viene incontro affondando dice: «Dammi la mano, uomo di poca fede. Se il figlio di Ada­mo avesse la misura di un chic­co o di un atomo di fede sicu­ra, certamente camminerebbe sull’acqua». A chi si preoccupa del proprio sostentamento di­ce: «Non vedete forse gli uccel­li del cielo, che non seminano e non mietono, eppure Dio che è in cielo li sostenta? Man­giate pane d’orzo ed erbe selva­tiche e sappiate che, se neppu­re per quelle cose voi rendete grazie, come potreste farlo per cose superiori a quelle?». A chi gli chiede di insegnargli in che modo un servo può essere ve­ramente devoto verso Dio, ri­sponde: «Devi veramente ama­re Dio con il tuo cuore, agire per lui con tutta la diligenza e la forza di cui sei capace ed es­sere misericordioso con quelli della tua razza come lo sei con te stesso», specificando che «quelli della tua razza» sono tutti i figli di Adamo. Al Getse­mani, conosce la tristezza e la paura della morte; rimprovera i discepoli che non riescono a vegliare con lui; (ma è a loro che chiede di intercedere pres­so Dio per ritardare la sua ora: quindi, non è il Figlio, non chiama suo Padre, non si rivol­ge direttamente a Lui — come in Marco, Matteo e Luca — di­cendo: «Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà»). Finalmente, ai discepoli che, una volta torna­to fra loro, gli raccontano che Giuda si è ucciso impiccando­si, dice che se Giuda «mai si fosse rivolto verso Dio, Dio si sarebbe volto verso di lui» — e così spiega il perdono. Rispet­to al Gesù cristiano, il Gesù del­l’Islam è più ascetico e, se vo­gliamo, più severo. La sua os­sessione è il mondo. Anche il Gesù dei Vangeli ammonisce che la vera vita non è di questo mondo. Le parole che il Gesù dell’Islam pronuncia a condan­na del mondo, sono le stesse o non molto dissimili da quelle pronunciate dal Gesù della tra­dizione cristiana: «La dolcezza del mondo è amarezza dell’al­dilà e l’amarezza in questo mondo è dolcezza dell’aldilà... Non cercate il mondo perden­do voi stessi ma cercate voi stessi lasciando ciò che è in es­so... Se siete miei commensali e compagni, disponetevi a es­sere nemici del mondo e a odiarlo; se non l’avrete fatto, non sarete miei compagni e fratelli». È pure vero, tuttavia, che la congiunzione divina del Padre e del Figlio nella carne, consente al cristiano «ospite del mondo» di guardare al mondo con maggiore indul­genza e una segreta riserva d’amore.

il Riformista 29.8.09
Quali spazi per gli atei?
di Marco Bertinatti


Dopo aver letto l'ultimo editoriale di Marcello Sorgi "Tutti cattolici se i laici non parlano", pubblicato su La Stampa, mi sono chiesto se l'autore intendesse fare della sottile ironia o se fosse serio. Nel secondo caso desidererei domandargli quali siano gli spazi riservati ai laici per esprimere la loro opinione. Già la scelta del vocabolo utilizzato per definire chi non ha ricevuto il "dono della fede" è indicativa del suo timore nei confronti di quell'aggettivo maledetto, "ateo", riservato a chi crede solo nella natura e nell'uomo. E se invece fossero i credenti ad avere qualcosa di troppo? Qual'è il rapporto tra lo spazio riservato agli atei per presentare le loro tesi e quello dedicato ai credenti dai mass media? Dal momento che i decimali per scriverlo sono molti, mi limiterò alla mia personale esperienza proprio con il giornale del quale l'autore è stato anche direttore. Essendo per l'appunto ateo, conosco i fondamenti del cristianesimo meglio della maggioranza dei credenti (secondo Mark Twain le Sacre Scritture sono la base per divenire atei) e pertanto mi è naturale evidenziarne le incongruenze correlandole con i fatti di cronaca. Purtroppo con i miei interventi che La Stampa ha rifiutato di pubblicare potrei realizzare un intero volume. Questa mia esperienza è condivisa da tanti altri che, come me, sono riusciti a liberarsi dal "dono della fede" e desidererebbero confrontarsi con chi non ci è ancora riuscito. Senza questo "dono" il mondo sarebbe certamente un posto migliore in cui vivere (con meno guerre e meno tasse) e questa opinione viene condivisa dalle più brillanti menti, passate e presenti, dell'umanità. Pensieri pericolosi, meglio lasciarli sepolti in quei libri che pochi ormai leggono e che mai troveranno spazio in quell'elettrodomestico che crea le nostre opinioni e dirige la nostra vita.

venerdì 28 agosto 2009

Repubblica Bari 27.8.09
La poetessa libanese nell´estasi del Salento
Joumana Haddad: "Io, donna araba combatto i pregiudizi con la poesia"
intervista di Daniele de Michele, in arte Donpasta


"Nelle mie battaglie ho subito tante sconfitte, rialzarsi è l´atto più bello e forte che esista"
"L´arte deve essere un atto gratuito, non mi piacciono le ideologie e le cause. Credo nel potere della scrittura e dei versi di dare delle scosse"

Domani venerdi 28 di Agosto, nell’ex Convento dei Teatini di Lecce,
alle 20.30, Joumana Haddad, nota poetessa e giornalista libanese, sarà
l’ospite della settima edizione di “Poeti del Mediterraneo”. L’ha
intervistata per La Repubblica Daniele de Michele, in arte Donpasta,
un dj ed economista con la passione per il vino e la cucina. In giugno
scorso è uscito il suo ultimo libro dalla Feltrinelli, Wine Sound
System, con un estratto di una poesia di Joumana come incipit: “Ma io
sono libera prima e dopo di loro, con loro e senza di loro. Credono
che la mia libertà sia loro proprietà.. ed io glielo lascio credere,
e avvengo”.

Cronaca di uno svenimento. Ovvero: che incontra Lilith, la prima donna. Joumana Haddad, poetessa libanese la vidi tempo fa in una libreria romana, "Amore e Psiche". Cerco un suo contatto, sperando in fondo che non mi risponda. Mi chiama, allegra. La voce è candidamente sensuale, elettrizzante. Ha saputo del mio progetto. L´intervista la fa, a patto che sia io a cucinare. Mi rifiuto. Con lei, brucerei anche una omelette. La invito a cena in un posto assai frequentato. Evitiamo i face a face. Sarebbe la cronaca del collasso. Spero ardentemente che non si presenti all´appuntamento. Invitatemi a cena con una gran soubrette, ce la posso fare. Mettetemi al tavolo con una donna come Joumana e rischio l´infarto.
Appuntamento al lido Bosco Verde a Torre Canne. Il pesce è freschissimo e gli aperitivi sono mozzafiato. Involtino di pesce spada con cicorie selvatiche. Ho scelto un posto lontano dai miei amici. Non pare bello farmi vedere pallido in viso mentre mi arrabatto con due domande dette rantolando. Prendo forza. Un goccio di bianco e mi gioco la carta dell´intellettuale engagé.
Donna, poetessa, araba. Passi la vita a combattere i cliché?
«L´unica cosa che faccio è essere la donna che sono. Dire le cose che dico. Credo nei cambiamenti a livello microscopico. Il solo fatto che esistano donne libere nel mondo arabo, che facciano quello che fanno è una lotta contro i cliché. L´anno prossimo esce in Italia Essere donna araba. È una mia riflessione su quello che vuol dire veramente per me l´etichetta "donna araba". In Occidente, anche a causa dei mass media, è una serie di immagini pronte. Velata, frustrata, sottoposta».
Nella lettera ad Amos Oz, durante il bombardamento israeliano al Libano, ti domandi "cosa può fare la poesia per il mondo".
«L´arte deve essere un atto gratuito. Non mi piacciono le ideologie e le cause. Credo nel potere della poesia e della scrittura di dare delle scosse, come la ebbi io leggendo De Sade e Eluard a dodici anni. L´unica cosa che posso dire è quello che fa la poesia per me, in quanto essere umano. Mi aiuta a rendermi conto che sono in vita. La poesia è la coscienza dell´atto, dell´esperienza, nei suoi aspetti positivi e negativi. È un raddoppiamento della vita. Molto più profondo e autentico. È la mia carne come mi piace: senza pelle "protettiva"».
"La mia estasi non è in quel che offro ma in quel che rifiuto". Conta per te più la poesia o la libertà?
«Per me sono intrinsicamente legate. Nella mia lingua, fare poesia è un atto di liberazione».
Non ti scoraggi mai?
«Sempre. Sempre cado. Prima mi arrabbiavo per le mie cadute, ora no. Rialzarsi è l´atto più bello e poetico e forte che esista. Guardo le mie cadute non come una sfortuna, ma come degli inizi. A volte si crede che Lilith debba essere una donna invulnerabile, che non perde e non piange. E´ un modo molto superficiale di immaginarla. Gli errori e le perdite sono comuni a tutti. Lilith sa che è sotto le lacrime, anche nei momenti in cui lei è in ginocchio, che le sue unghie si manifestano».
Come deve essere una Lilith in politica in questi tempi?
«Purtroppo la maggior parte delle donne in politica sono o dei maschiacci o hanno il silicone come utensile del pensiero. La cosa più terribile per una donna è lasciar perdere la femminilità. O diventare un oggetto. Lilith non farebbe mai queste concessioni».
In Oriente le letture pubbliche delle poesie erano una cosa assai frequente. Ti hanno influenzato nelle tue performance?
«La tradizione di utilizzare la poesia nelle piazze è molto vecchia. Ma non c´è più. Ora c´è uno snobismo poetico. Si pensa ormai che la poesia è scritta per essere letta, non per essere recitata. La mia idea era di trasformare la lingua araba in suono, in musica. Di farne danza di voci con le lingue straniere. La carica del testo la ricevi nella tensione musicale così come nel contenuto, quando sei costretto ad abbandonarti ai suoni».
Sei donna di poesia più che di romanzo. Come mai?
«Io sono impaziente in tutto. Nella vita, nei rapporti, nella letteratura. Non mi piacciono le vie indirette. Un romanzo lo vedo come un uomo un po´ freddo e esitante che ha bisogno di ‘preparazione´ prima di passare all´atto. La poesia è l´uomo che cerco. Intenso, diretto, deciso, ti permette un orgasmo in cinque minuti. Vale cento pagine di romanzo. In poche parole metti dentro l´essenza. La poesia è l´urgenza, è la letteratura senza preliminari. I preliminari sono una perdita assoluta di sforzi e di tempo».
Che potrei cucinarti per scusarmi a nome del genere maschile?
«Dovresti dirlo tu. Un piatto con una enorme quantità di peperoncini. Come me. Ovviamente senza zucchero. Come me. Io sono uno zero in cucina. Perciò mi piace l´uomo che cucina. Sono in ammirazione, per non dire in dipendenza. Insieme a Internet è l´invenzione più grandiosa dei tempi moderni».

l’Unità 28.8.09
L’onore degli uomini
di Concita De Gregorio


Abbiate pazienza. Siamo di nuovo qui a parlarvi di censura: sì è vero lo facciamo quasi ogni giorno, sì c’è il rischio che la cosiddetta opinione pubblica si stanchi e si abitui e infine non reagisca. Del resto reagisce già pochissimo. Sì forse bisognerebbe stupire con effetti speciali e provare a dire quel che sta succedendo in questo paese in altro modo, da un elicottero o facendo spogliarello in tv, chissà, magari, può darsi. Tuttavia c’è una ostinata parte di italiani, noi fra questi, che prediligono la parola. Dunque ecco. L’occasione di oggi è la censura, potremmo dire autocensura, con cui la Rai ha vietato la diffusione del promo di un documentario Fandango il 3 settembre a Venezia e di seguito al cinema: Videocracy. Racconta la nascita e lo sviluppo della videocrazia in Italia. Alberto Crespi, che lo ha visto, riferisce: non c’è niente che già non si sappia. L’unico passaggio «per così dire interessante è un’intervista a Lele Mora nella quale il noto agente di personaggi tv, dopo aver paragonato Berlusconi a Mussolini a tutto vantaggio di quest’ultimo, si dichiara mussoliniano e mostra alla telecamera il display del suo telefonino sul quale, al suono di Faccetta nera, appaiono svastiche, croci celtiche e altri orrori del ‘900». Del resto la Lega su Facebook invita a torturare gli immigrati. Aidan White, segretario della Ifj, International federation of journalist, la più grande del mondo commenta la censura Rai dicendo che «quando si raggiunge il punto in cui i responsabili dei media devono scegliere tra i valori etici e il posto di lavoro allora la corruzione prevale e la democrazia è minacciata». Daniele Luttazzi scrive: «Una società resa adulta da un’educazione alla libertà giudicherebbe intollerabile, ovvero riprovevole, la censura». Di passaggio ricordiamo che non si è ancora conclusa la litania delle nomine Rai in specie per la terza rete, molte settimane fa avevamo invocato la decenza di non rinviarle a dopo il congresso Pd di ottobre. Ma Videocracy, dicevamo, è l’occasione del giorno. Molto altro sta accadendo. Il presidente del Consiglio, moderno caudillo, sta preparando la scalata al gruppo che pubblica El Paìs attraverso Telecinco, la società spagnola controllata da Mediaset. Vi raccontiamo nel dettaglio come si sia arrivati alla concreta possibilità che in autunno Berlusconi entri nella proprietà del gruppo Prisa: in palio la possibilità di controllare una delle più autorevoli voci libere d’Europa.
Tutto questo accade in relativo silenzio, mentre l’attenzione dei media si concentra sulle reazioni interne al centrodestra alle parole isolate di Fini, cuneo nell’accordo in corso fra il governo e il Vaticano (lo scambio: niente testamento biologico ed altre prebende al clero in cambio dell’indulgenza sulla condotta del premier, i parroci siano avvertiti) di cui riferisce il Congiurato e su cui Francesca Fornario si diverte in satira. Ieri il New York Times in un lungo editoriale ha ripreso l’iniziativa dell’Unità sul “silenzio delle donne”, il dibattito che da settimane svolgono Nadia Urbinati, Dacia Maraini, Lidia Ravera e decine di altri. Oggi parla Joanna Bourke, storica inglese. Sostiene che il comportamento di Berlusconi «danneggia l’onore degli uomini». Il ragionamento, leggetelo, non fa una piega.

l’Unità 28.8.09
Testamento biologico, resa dei conti contro Fini il laico


L’attacco di Gasparri e Quagliarello a Fini apre ufficialmente le ostilità sul testamento biologico nella maggioranza. È una iniziativa che i finiani leggono come figlia della pressione delle gerarchie cattoliche sul governo dopo quel che Fini ha detto a Genova alla festa del Pd. Certo, Gasparri e Fini avevano sulla questione un conto aperto da quando, dopo la morte di Eluana Englaro, avendo il capogruppo del Pdl dichiarato che aveva pesato nella vicenda la firma non messa da Napolitano in calce al decreto varato dal consiglio dei ministri, Fini lo redarguì dicendo che avrebbe dovuto tacere per rispetto nei confronti della massima autorità della Repubblica. Ma la difesa del lavoro fatto a Palazzo Madama suona soprattutto come un avviso preventivo a chi nella maggioranza mostra dubbi sul ddl: il testo che prevede l’obbligo di idratazione e alimentazione non è figlio di nessuno, è stato anzi per ben due volte approvato dal consiglio dei ministri, prima come decreto e poi come disegno di legge e la linea di governo e maggioranza è quella. Per questo i capigruppo di centro destra daranno indicazione di voto favorevole, pur lasciando la possibilità di votare in dissenso, come già accaduto in Senato. Ma il testo non cambia, soprattutto sull’obbligo di alimentazione e idratazione. Lo ha chiarito il presidente dei deputati del Pdl Fabrizio Cicchitto ieri, dichiarando che questa non può essere definita un norma clericale e che, per i laici come lui, non c’è una superiore autorità che sancisce quale sia l’ortodossia: allusione che i più hanno letto come rivolta proprio a Fini. L’unica mediazione possibile, se così si può definire, è quella alla quale sta lavorando il ministro Sacconi: appprovare subito il divieto di rinuncia al sondino nasogastrico, impedendo che possano ripetersi in futuro casi come quello di Eluana Englaro, e rimandare la discussione sul resto. Nella maggioranza addirittura qualcuno si dice pronto a scommettere su una dichiarazione in tal senso dello stesso Berlusconi in occasione della sua partecipazione, con il cardinal Bertone, alle celebrazioni della perdonanza celestiniana a L’Aquila, dove attraversando la Porta Santa «sinceramente pentiti e confessati», come recita la Bolla di Papa Celestino V del 1294, si ottiene l’indulgenza plenaria per i propri peccati.

l’Unità 28.8.09
La «campagna» di Gianfranco che punta al partito
La prima battaglia, sul biotestamento, ha due obiettivi. Dare un profilo laico allo schieramento e contare tra pidiellini di varia natura (da Della Vedova a Granata) chi sta con lui
di Susanna Turco


Uno strappo nello strappo, se è possibile. Una presa di posizione che più netta non si può, proprio alla vigilia dell’incontro sperabilmente pacificatorio, almeno nell’ottica dell’ala lettiana di Palazzo Chigi, tra il premier Berlusconi e il cardinal Bertone oggi all’Aquila. È ciò che si legge nella determinazione con la quale, l’ultima volta ufficialmente alla festa del Pd, Gianfranco Fini va ripetendo – da mesi in realtà, ai parlamentari a lui più vicini – che il testo sul fine vita deve essere modificato alla Camera. Ma, soprattutto, rifulge nel sorprendente dettaglio che, almeno in privato, la terza carica dello Stato ha preso in considerazione l’ipotesi di votare personalmente contro quella legge. Di alzarsi e schiacciare il bottone, insomma.
Una mossa davvero estrema, del tutto irrituale. Che nessun predecessore ha mai azzardato, come ha avuto modo di verificare lo stesso Fini. Quantomeno irrealizzabile, insomma. Ma utile, anche solo come dichiarazione messa sul piatto, a capire fino a che punto l’ex leader di An sia determinato a portare avanti una battaglia che chi lo conosce bene definisce «frutto non solo di una scelta politica, ma anche di una forte convinzione personale». Non a caso, i cosiddetti finiani non esitano a definire quella sul biotestamento «la campagna d’autunno» del loro leader. Della quale nelle segrete stanze si ricomincerà a parlare al più presto. Per tentare di modificare la legge prima, per dare se necessario voto contrario poi. Con il doppio obiettivo di tentare di dare una fisionomia più «laica» al Pdl e di definire concretamente su quali forze si può contare.
Proprio nella battaglia sul fine vita, infatti, rischia seriamente di prendere corpo quella che il presidente della Camera rifiuta di chiamare corrente, ma che di fatto tale sarebbe: un gruppo a ispirazione unitaria, formato non tanto da ex aennini, e men che meno da ex colonnelli, quanto da pidiellini di varia fattura – dai Della Vedova alle Bongiorno passando per le Perina e i Granata. Nelle prossime settimane c’è da attendersi che costoro prendano posizione, come e più di quanto abbiano già iniziato a fare ieri Bocchino e Urso, fino all’atto finale del voto in Aula.
Il disegno finiano è comunque ormai più che esplicito. Tanto che i cattolici, da monsignor Fisichella al ciellino Lupi, richiamano il presidente della Camera al suo «ruolo super partes».
D’altra parte, dentro il Pdl il fermento sui temi etici è accentuato proprio dalle prese di posizione di Fini e finiani. Con insospettati smottamenti. Ne è la riprova la proposta rilanciata ieri da Gasparri di una indagine conoscitiva contro la Ru486. Una replica tardiva rispetto al Fini di venti giorni fa, che aveva giudicato «bizzarro chiedere che il Parlamento si occupi di un farmaco».

Repubblica 28.8.09
Gianfranco tradito dagli ex colonnelli "Ma ha i numeri per bloccare una legge"
L’ira dei fedelissimi: non è un alieno, con lui si deve trattare
Ronchi: i capigruppo non dovevano permettersi un documento simile
di Alessandra Longo


ROMA - Ma chi si crede di essere Gianfranco Fini che si permette di dare «lezioni di laicità» a quelli del Pdl? Faccia il suo mestiere e non disturbi il manovratore... Maurizio Gasparri era un suo colonnello ma da tempo si è trovato un altro generale. Gaetano Quagliariello era considerato un liberal-radical che ora risponde ad altre logiche. Si sono buttati a corpo morto contro le esternazioni del presidente della Camera, quasi fosse un avversario politico, un agente provocatore. Fini che sente odore di clericalismo nelle scelte del Senato, Fini che riceve i gay e si preoccupa dell´integrazione della «generazione Balotelli», Fini che inorridisce di fronte ai respingimenti in mare di ispirazione leghista e, adesso, anche Fini ricevuto con tutti gli onori alla festa del Pd. Cova da tempo l´incomunicabilità con l´ex leader di An e, parallelamente, il disegno di farne un personaggio solitario e fuori dal coro, quello che gli inglesi chiamano «odd man out», cioè uno che, «per la stranezza dei suoi comportamenti e dei suoi credi, sta da solo sia che sia fuori sia che sia dentro un gruppo».
Ieri l´attacco più duro, più diretto, quello dell´ex missino Gasparri firmato a quattro mani con il collega Quagliariello. Un attacco che spacca, divide, imbarazza. Italo Bocchino, per esempio, vicecapogruppo alla Camera, ex ragazzo di bottega di Pinuccio Tatarella, non avrebbe mai fatto un comunicato così, pur considerando il testo Calabrò «un buon testo»: «Non avrei mai usato quell´espressione "non accettiamo lezioni di laicità". E, anzi, darei un consiglio a Berlusconi e ai coordinatori del partito. Devono discutere del testamento biologico con Fini anche in sede politica, non considerandolo esclusivamente il presidente della Camera». Ecco il punto. Quanti vivono ancora Fini come un grande capo organico al Pdl? «Nessuno può pensare – dice Bocchino – che il suo attuale ruolo istituzionale lo costringa all´imbalsamazione. Lui è il coleader del Pdl, sta lavorando alla destra del futuro, con un approccio molto simile a quello di Sarkozy e Cameron. Starei attento ad avvalorare la tesi di un Fini politicamente isolato. Fini ha i numeri all´interno del gruppo Pdl, anche per mettere la legge su un binario morto. Conosco i 270 deputati del partito e so quel che dico. Dentro gli ex di Forza Italia c´è un filone liberale cui va aggiunto un filone lealista di ex aennini. Numeri abbondanti. Sconsiglio lo scontro».
Un «socio fondatore» del Pdl: così lo aveva definito, all´indomani del congresso, il ministro Andrea Ronchi polemizzando con il suo collega di governo Altero Matteoli, convinto che il Capo ormai fosse uno solo, e cioè Berlusconi. Adesso anche Ronchi va dicendo ai suoi che «non ci si doveva permettere di fare un documento come quello diffuso dai capigruppo al Senato».
Palese mancanza di rispetto, crisi di rigetto per "l´alieno", quasi Fini fosse un abusivo, un "clandestino". Già lo vivevano così, del resto, parecchi dei suoi nell´ultimo, terremotato periodo di An. Marcello Veneziani, dal suo osservatorio esterno, pensa che il presidente della Camera sia colpevolmente finito «in un altrove imprecisato». L´onorevole Fabio Granata s´indigna invece per il trattamento che gli viene riservato: «Ci manca che introducano il reato di clandestinità dentro il partito e poi lo cacciano! A questo punto con Gasparri mi sento unito da un´unica fede: quella romanista».
Qualcuno tira fuori la storia, familiare anche nel Pd, delle «diversità di opinioni che sono una ricchezza: «Il Pdl non è un monolite, è votato da milioni di persone, è comprensibile che ci siano approcci diversi...». Basta che Fini, dice Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera, «ammetta, come sa, di essere minoritario, rispetti laicamente le posizioni degli altri sul testamento biologico e, soprattutto, non scenda in campo».
Guai a toccare il nervo sensibile della dignità dell´uomo, della laicità dello Stato, dei rapporti con il Vaticano. S´incrina «il partito-monolite». Inizia la conta del chi sta con chi. «Almeno 50, 60 deputati del Pdl sarebbero pronti a non votare il testo del Senato», assicura Benedetto Della Vedova, ritenuto ascoltatissimo interlocutore di Fini sui temi eticamente sensibili». Il documento Gasparri/Quagliariello è dedicato proprio a loro, ai possibili dissidenti e al loro Capo, numero due fuori linea: la smettano di sparigliare, vadano altrove a dar lezioni.

Corriere della Sera 28.8.09
Fini e la scelta di un percorso ai margini del Pdl
L’isolamento di un leader
Ai confini del centrodestra
di Massimo Franco


In bilico fra ruolo istituzionale e convinzioni politiche, Fini sembra disposto ad accettare anche l’eventualità di un progressivo distacco dalla maggioranza che lo ha eletto ai vertici di Montecitorio.

La schiettezza e l’eterodossia di Gianfranco Fini lo stanno facendo diventare un’icona davvero trasversale. Gli applausi del centrosinistra al presidente della Camera, durante la festa del Pd a Genova dell’altro ieri, erano sinceri. E le sue critiche alle rudezze xenofobe e antivaticane di alcuni esponenti della Lega, in teoria potevano ricevere il consenso di gran parte del Pdl. Ma l’ex leader di An sta assumendo un ruolo da battitore così libero da sorprendere tutti e da correre il rischio dell’isolamento.
Probabilmente, se le sue durezze si fossero limitate al partito di Umberto Bossi, Fini avrebbe riscosso applausi da gran parte del Pdl. Ma il di più polemico riservato ad una subalternità del governo alla Lega sull’immigrazione, e l’ennesima stoccata al Vaticano hanno dilatato la sensazione di un percorso coraggiosamente solitario. E, almeno agli occhi degli alleati, rischiano di inchiodarlo al cliché del bastian contrario: il potenziale destabilizzatore di una coalizione forte ma anche nervosa, in questa fase. Si tratta di un profilo che finisce per depotenziare l’impatto delle sue critiche. Il modo in cui il centrodestra ha accolto l’ultima esternazione materializza la terra bruciata.
Le parole sarcastiche con le quali ieri i vertici parlamentari del Pdl al Senato hanno respinto la «lezione di laicità» di Fini sono un indizio; e non il solo. La Chiesa si sta affidando ad un gelo che rivela una punta di delusione verso un leader osservato a lungo come interlocutore e referente. E l’incontro fra Silvio Berlusconi ed il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ieri si è concluso con una nota che ribadisce in modo perfino sospetto la solidità dei rapporti con la Lega. Di fatto, rappresenta la smentita di palazzo Chigi alle tesi finiane e tende a sottolinearne la solitudine.
D’altronde, è un braccio di ferro in atto da mesi, e che riflette una percezione diversa della coalizione.
L’idea del presidente della Camera di un centrodestra «plurale» racchiude quella, rivelatasi finora infondata, di un premier avviato ad un rapido logoramento; e dunque incapace di rappresentare tutta la maggioranza. Può darsi che fra qualche anno l’approccio di Fini si riveli quasi profetico. Per il momento, però, può dare l’impressione, vera o sbagliata che sia, di una figura istituzionale a metà strada fra rigore e impazienza. E, se pure è difficile ignorare alcune sue considerazioni sulla politica governativa verso gli immigrati, l’accoglienza entusiastica che riceve nel Pd lo sovraespone; ed aumenta i sospetti della coalizione.
Le conseguenze sono paradossali. Un Fini trasversale e pronto a rivendicare il proprio ruolo non fazioso, rispettoso delle ragioni del Parlamento e degli avversari, viene percepito come uomo di parte sui temi etici; e come avversario se non del governo, dell’asse fra Pdl e Lega che riflette fedelmente i rapporti di forza interni. E si tira addosso gli strali non solo degli alleati, ma di un’Udc pronta ad imputargli una sintonia col Pd ed i radicali sul biotestamento: un’irritazione che dà voce alle preoccupazioni vaticane. Eppure, difficilmente Fini tornerà indietro. Per quanto scomoda e tale da ridurre il suo peso politico, la silhouette che si è scelto sembra piacergli. Non è chiaro dove lo porterà. Per ora, lo colloca ai confini, se non ai margini di un centrodestra col quale si identifica sempre più ad intermittenza.

il Riformista 28.8.09
Il piano di Fini per fermare la balena bianca del Pdl
Sul bio-testamento prepara la trappola del voto segreto
Dio perdona, Fini no Guerra aperta nel Pdl
Nel giorno della Perdonanza per Berlusconi, si apre un conflitto senza precedenti sul rapporto con la Chiesa. I capigruppo del Senato replicano al presidente della Camera.
di Alessandro De Angelis


Biotestamento. Pronta la strategia: i suoi proveranno a stravolgerlo in commissione, mentre con il ddl Granata sulla cittadinanza aprono al dialogo coi cattolici. A quel punto si tratta. Sacconi ha già dato segnali di apertura. Ma Gianfranco alza il tiro e prepara l'arma finale: il voto segreto. Ieri un altra picconata: «No a un partito populista».

Che il suo affondo sul biotestamento alla festa del Pd («Quando il testo arriverà alla Camera farò di tutto per correggerlo anche perché sul fine vita spetta al parlamento decidere e non alla Chiesa») potesse produrre un salto di qualità dello scontro all'interno del Pdl, Fini lo aveva già previsto. Tanto che aveva già pronto un altro colpo in canna. Proprio sul partito: «Il Pdl - ha detto all'Espresso - non può essere strutturalmente un partito populista. È obbligato a esprimere una avanzata cultura di governo». Quale? «Quella liberale, laica e modernizzatrice». Già, liberale e laica. Altro colpo, visto che ieri è insorto mezzo Pdl (quello cattolico) sul biotestamento. Del resto sono giorni che Fini sta mettendo a punto con i suoi fedelissimi la sua trappola autunnale al governo.
Di reazioni, alla picconata sul biotestamento, ce ne sono state eccome, da parte chi, nel Pdl, ha in mente una nuova balena azzurra. Come Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello, che ieri hanno vergato un durissimo comunicato verso il presidente della Camera: «Auspichiamo che il dibattito alla Camera possa migliorare ulteriormente il testo della legge, ma non possiamo accettare lezioni di laicità». Tutto secondo copione, per Gianfranco. L'obiettivo resta far saltare la legge sul testamento biologico.
Il piano è stato già messo punto nei particolari. Si parte dalla discussione in commissione Affari sociali della Camera, dove il presidente è Giuseppe Palombo - un medico che pur essendo vicino a Berlusconi non gradisce il testo licenziato dal Senato - e il capogruppo del Pdl è Lucio Barani, un ex socialista che va in giro col garofano nel taschino. Due, insomma, che dovrebbero favorire la discussione. E che comunque non pensano, per dirla con un ex aennino di matrice cattolica, che «per compensare qualche trasgressione di Berlusconi serve una legge senza senso sul testamento biologico». In quella sede, visto che si possono iscrivere a parlare anche parlamentari che fanno parte di altre commissioni, Fini ha dato l'ordine di scuderia di tirarla per le lunghe, di far circolare le opinioni, di far innervosire chi vuole chiudere in fretta la questione, come i teocon del Pdl. Marcello De Angelis, Benedetto della Vedova, Fabio Granata e gli altri spareranno ad alzo zero sui punti principali del testo licenziato dal Senato. Uno dopo l'altro: l'obbligo di alimentazione e nutrizione; le disposizioni che mettono la volontà del mandatario e della famiglia sotto il magistrato; tutti i rimandi lessicali con cui si ribadisce, a ogni paragrafo del testo attuale, che «si vieta ogni forma di eutanasia» visto che disposizioni in tal senso sono già nel codice penale.
La convinzione del presidente della Camera è che sul provvedimento si giochi una partita non solo di civiltà ma che anche necessaria per costruire un Pdl né monarchico né democristiano. Per questo Fini ha scelto una manovra complicata, ma tutta politica. Perché se con una mano ha dato uno stop alle ingerenze vaticane, con l'altra ha offerto (al Vaticano) un segno di pace. A Genova ha bollato come «razziste» le politiche della Lega (schierandosi implicitamente con quel mondo cattolico che da giorni sostiene la stessa tesi). Ma il segnale vero è parlamentare. Fabio Granata ha messo a punto un disegno di legge - cofirmatario Andrea Sarubbi del Pd - per favorire la cittadinanza dei nuovi italiani. Spiega Granata: «La Chiesa non può essere ascoltata solo sul tema della vita e ignorata su quello della solidarietà. E il ddl riguarda l'integrazione della cosiddetta generazione Balotelli attaverso il principio dello ius soli temperato. Non solo introduciamo il passaggio dai dieci ai cinque anni per ottenere la cittadinanza italiana ma anche requisiti di volontà politica come il giuramento sulla Costituzione».
Ricapitolando. Mentre, a fine settembre, in commissione Affari sociali il Pdl si scontrerà sul biotestamento la proposta Granata potrebbe produrre qualche effetto in una parte del mondo cattolico, parlamentare e non. A quel punto, si tratta. In tal senso Fini ha apprezzato il tentativo si Sacconi di arrivare a una fuoriuscita soft dal pantano in cui si è incanalata la discussione: «Sulla fine vita - ha detto il ministro - il governo si è espresso a favore del diritto inalienabile all'alimentazione e all'idratazione per chi non è autosufficiente. Per attenuare la conflittualità parlamentare potremmo ipotizzare l'immediata approvazione di queste norme rinviando a soluzioni più condivise quelle relative alle dichiarazioni anticipate di trattamento». E non è un caso che a una riunione svoltasi un paio di settimane fa con un folto gruppo di parlamentari azzurri che vogliono ammorbidire il testo del Senato, da Beatrice Lorenzin a Giorgio Stracquadanio, il presidente della Camera abbia mandato il suo Silvano Moffa. Il percorso in due tempi ipotizzato da Sacconi - una leggina sul modello Eluana subito e sul testamento si vedrà - per Fini è un passo in avanti. Ma non basta. La leggina - pur riguardando un numero limitato di casi - fa comunque passare un principio che Fini contesta radicalmente: «Non si tratta di favorire la morte ma di prendere atto dell'impossibilità di impedirla e far decidere la persona, i familiari, il medico» ha detto a Genova. Praticamente quella norma sarebbe la consacrazione dell'accanimento terapeutico. Meglio di una soluzione del genere - dicono gli uomini del presidente - sarebbe affidate il tutto a regolamenti varati dal ministero.
Per Fini non c'è fretta. Anche perché, e qui siamo al secondo tempo della sua strategia, il dibattito parlamentare, qualora in commissione non si dovessero incassare risultati consistenti, è davvero una partita aperta. E al quartier generale dell'ex capo di An ostentato ottimismo. Innanzitutto perché sui temi eticamente sensibili, che riguardano la coscienza e che non fanno parte del programma di governo, la fiducia non si può mettere. Ma soprattutto perché su molti articoli i parlamentari potrebbero chiedere il voto segreto. E il presidente lo concederebbe volentieri. Anzi ha già in mente di farlo. Del resto il precedente c'è stato già al Senato. Alla Camera però i numeri sono diversi. E c'è molto più trasversalismo tra i poli. Non è un dettaglio, visto che statisticamente il voto segreto in questa legislatura non ha portato fortuna all'esecutivo (un caso su tutti: la norma sui medici spia). A conti fatti, tra socialisti non sacconiani, laici di Forza Italia, ex aennini vicini al presidente della Camera, radicali e Pd su nessun provvedimento ci possono essere certezza matematiche. Col voto segreto. E nella trappola di Gianfranco né il governo né la segreteria di Stato vaticana hanno interesse a cadere.

Repubblica 28.8.09
Insabbiare
di Ezio Mauro


Non potendo rispondere, se non con la menzogna, Silvio Berlusconi ha deciso di portare in tribunale le dieci domande di Repubblica, per chiedere ai giudici di fermarle, in modo che non sia più possibile chiedergli conto di vicende che non ha mai saputo chiarire: insabbiando così – almeno in Italia – la pubblica vergogna di comportamenti privati che sono al centro di uno scandalo internazionale e lo perseguitano politicamente.
è la prima volta, nella memoria di un Paese libero, che un uomo politico fa causa alle domande che gli vengono rivolte. Ed è la misura delle difficoltà e delle paure che popolano l´estate dell´uomo più potente d´Italia. La questione è semplice: poiché è incapace di dire la verità sul "ciarpame politico" che ha creato con le sue stesse mani e che da mesi lo circonda, il Capo del governo chiede alla magistratura di bloccare l´accertamento della verità, impedendo la libera attività giornalistica d´inchiesta, che ha prodotto quelle domande senza risposta.
In questa svolta c´è l´insofferenza per ogni controllo, per qualsiasi critica, per qualunque spazio giornalistico d´indagine che sfugga al dominio proprietario o all´intimidazione di un potere che si concepisce come assoluto, e inattaccabile. Berlusconi, nel suo atto giudiziario contro Repubblica vuole infatti colpire e impedire anche la citazione in Italia delle inchieste dei giornali stranieri, in modo che il Paese resti all´oscuro e sotto controllo. Ognuno vede quanto sia debole un potere che ha paura delle domande, e pensa che basti tenere al buio i concittadini per farla franca.
Tutto questo – la richiesta agli imprenditori di non fare pubblicità sul nostro giornale, l´accusa di eversione, l´attacco ai "delinquenti", la causa alle domande – da parte di un premier che è anche editore, e che usa ogni mezzo contro la libertà di stampa, nel silenzio generale. Altro che calunnie: ormai, dovrebbe essere l´Italia a sentirsi vilipesa dai comportamenti di quest´uomo.

Repubblica 28.8.09
La menzogna come potere
di Giuseppe D’Avanzo


Avanzare delle domande a un uomo politico nell´Italia meravigliosa di Silvio Berlusconi è già un´offesa che esige un castigo?
L´Egoarca ritiene che sollecitare delle risposte dinanzi alle incoerenze delle dichiarazioni pubbliche del capo del governo sia diffamatorio e vada punito e che quelle domande debbano essere cancellate d´imperio per mano di un giudice e debba essere interdetto al giornale di riproporle all´opinione pubblica. È interessante leggere, nell´atto di citazione firmato da Silvio Berlusconi, perché le dieci domande che Repubblica propone al presidente del consiglio sono «retoriche, insinuanti, diffamatorie».
Sono retoriche, sostiene Berlusconi, perché «non mirano a ottenere una risposta dal destinatario, ma sono volte a insinuare l´idea che la persona "interrogata" si rifiuti di rispondere». Sono diffamatorie perché attribuiscono «comportamenti incresciosi, mai tenuti» e inducono il lettore «a recepire come circostanze vere, realtà di fatto inesistenti». Peraltro, «è sufficiente porre mente alle dichiarazioni già rese in pubblico dalle persone interessate, per riconoscerne la falsità, l´offensività e il carattere diffamatorio di quelle domande che proprio "domande" non sono».
Come fin dal primo giorno di questo caso squisitamente politico, una volta di più, Berlusconi ci dimostra quanto, nel dispositivo del suo sistema politico, la menzogna abbia un primato assoluto e come già abbiamo avuto modo di dire, una sua funzione specifica. Distruttiva, punitiva e creatrice allo stesso tempo. Distruttiva della trama stessa della realtà; punitiva della reputazione di chi non occulta i "duri fatti"; creatrice di una narrazione fantastica che nega eventi, parole e luoghi per sostituirli con una scena di cartapesta popolata di nemici e immaginari complotti politici.
Non c´è, infatti, nessuna delle dieci domande che non nasca dentro un fatto e non c´è nessun fatto che nasca al di fuori di testimonianze dirette, di circostanze accertate e mai smentite, dei racconti contraddittori di Berlusconi.
È utile ora mettersi sotto gli occhi queste benedette domande. Le prime due affiorano dai festeggiamenti di una ragazza di Napoli, Noemi, che diventa maggiorenne. È Veronica Lario ad accusare Berlusconi di «frequentare minorenni». È Berlusconi che decide di andare in tv a smentire di frequentare minorenni. Nel farlo, in pubblico, l´Egoarca giura di aver incontrato la minorenne «soltanto tre o quattro volte alla presenza dei genitori». Questi sono fatti. Come è un fatto che le parole di Berlusconi sono demolite da circostanze, svelate da Repubblica, che il capo del governo o non può smentire o deve ammettere: non conosceva i genitori della minorenne (le ha telefonato per la prima volta nell´autunno del 2008 guardandone un portfolio); l´ha incontrata da sola per lo meno in due occasioni (una cena offerta dal governo e nelle vacanze del Capodanno 2009). La terza domanda chiede conto al presidente del consiglio delle promesse di candidature offerte a ragazze che lo chiamano "papi". La circostanza è indiscutibile, riferita da più testimoni e direttamente dalla stessa minorenne di Napoli. La quarta, la quinta, la sesta e settima domanda ruotano intorno agli incontri del capo del governo con prostitute che potrebbero averlo reso vulnerabile fino a compromettere gli affari di Stato. La vita disordinata di Berlusconi è diventata ormai "storia nota", ammessa a collo torto dallo stesso capo del governo e in palese contraddizione con le sue politiche pubbliche (marcia nel Family day, vuole punire con il carcere i clienti delle prostitute). La sua ricattabilità – un fatto – è dimostrata dai documenti sonori e visivi che le ospiti retribuite di Palazzo Grazioli hanno raccolto finanche nella camera da letto del Presidente del Consiglio. L´ottava domanda è politica: può un uomo con queste abitudini volere la presidenza della Repubblica? Chi non glielo chiederebbe? La nona nasce, ancora una volta, dalle parole di Berlusconi. È Berlusconi che annuncia in pubblico «un progetto eversivo» di questo giornale. È un fatto. È lecito che il giornale chieda al presidente del Consiglio se intenda muovere le burocrazie della sicurezza, spioni e tutte quelle pratiche che seguono (intercettazioni su tutto). Non è minacciato l´interesse nazionale, non si vuole scalzarlo dal governo e manipolare la "sovranità popolare"? In questo lucidissimo delirio paranoico, Berlusconi potrebbe aver deciso, forse ha deciso, di usare la mano forte contro giornalisti, magistrati e testimoni. Che ne dia conto. Grazie. La decima domanda infine (e ancora una volta) non ha nulla di retorico né di insinuante. È Veronica Lario che svela di essersi rivolta agli amici più cari del marito per invocare un aiuto per chi, come Berlusconi, «non sta bene». È un fatto. Come è un fatto che, oggi, nel cerchio stretto del capo del governo, sono disposti ad ammettere che è la satiriasi, la sexual addiction a rendere instabile Berlusconi.
Questa la realtà dei fatti, questi i comportamenti tenuti, queste le domande che chiedono ancora oggi – anzi, oggi con maggiore urgenza di ieri – una risposta. Dieci risposte chiare, per favore. È un diritto chiederle per un giornale, è un dovere per un uomo di governo offrirle perché l´interesse pubblico dell´affare è evidente.
Si discute della qualità dello spazio democratico e la citazione di Berlusconi ne è una conferma. E dunque, anche a costo di ripetersi, tutta la faccenda gira intorno a un solo problema: fino a che punto il premier può ingannare l´opinione pubblica mentendo, in questo caso, sulle candidature delle "veline", sulla sua amicizia con una minorenne e tacendo lo stato delle sue condizioni psicofisiche? Non è sempre una minaccia per la res publica la menzogna? La menzogna di chi governa non va bandita incondizionatamente dal discorso pubblico se si vuole salvaguardare il vincolo tra governati e governanti? Con la sua richiesta all´ordine giudiziario di impedire la pubblicazione di domande alle quali non può rispondere, abbiamo una rumorosa conferma di un´opinione che già s´era affacciata in questi mesi: Berlusconi vuole insegnarci che, al di fuori della sua verità, non ce ne può essere un´altra. Vuole ricordarci che la memoria individuale e collettiva è a suo appannaggio, una sua proprietà, manipolabile a piacere. La sua ultima mossa conferma un uso della menzogna come la funzione distruttiva di un potere che elimina l´irruzione del reale e nasconde i fatti, questa volta anche per decisione giudiziaria. La mordacchia (come chiamarla?) che Berlusconi chiede al magistrato di imporre mostra il nuovo volto, finora occultato dal sorriso, di un potere spietato. È il paradigma di una macchina politica che intimorisce. È la tecnica di una politica che rende flessibili le qualifiche "vero", "falso" nel virtuale politico e televisivo che Berlusconi domina. È una strategia che vuole ridurre i fatti a trascurabili opinioni lasciando campo libero a una menzogna deliberata che soffoca la realtà e quando c´è chi non è disposto ad accettare né ad abituarsi a quella menzogna invoca il potere punitivo dello Stato per impedire anche il dubbio, anche una domanda. Come è chiaro ormai da mesi, quest´affare ci interroga tutti. Siamo disposti a ridurre la complessità del reale a dato manipolabile, e quindi superfluo. Possiamo o è già vietato, chiederci quale funzione specifica e drammatica abbia la menzogna nell´epoca dell´immagine, della Finktionpolitik? Sono i "falsi indiscutibili" di Berlusconi a rendere rassegnata l´opinione pubblica italiana o il «carnevale permanente» l´ha già uccisa? Di questo discutiamo, di questo ancora discuteremo, quale che sia la decisione di un giudice, quale che sia il silenzio di un´informazione conformista. La questione è in fondo questa: l´opinione pubblica può fare delle domande al potere?

l’Unità 28.8.09
Tagliare «Che tempo che fa»? L’allarme di Giulietti: «Anche Report e Iacona rischiano»
La missione di Masi. Dopo aver rotto con Sky potrebbe essere richiamato nell’area di governo
Da Fazio alla Gabanelli: la destra prepara l’autunno
di Stefano Miliani


I programmi di punta della teza rete nel mirino della maggiornaza. E visto che vanno bene e costano la metà della media delle altre tele generaliste, la manovra sa - ancora una volta - di censura.

Il Pdl ha Raitre e i suoi migliori alfieri davvero nel cuore. Ce l’ha tanto a cuore dal voler decidere le sue sorti dalle stanze riservate di Palazzo Grazioli. L’obiettivo è togliersi dai piedi il direttore Paolo Ruffini e ridurre gli spazi di gente come Fazio e Serena Dandini. Giuseppe Giulietti, dopo aver rivelato ieri a l’Unità come il Pdl miri a prendere possesso di ogni struttura della tv pubblica, ora svela che nel mirino ci sono i programmi di punta del terzo canale. «C’è uno schema chiaro – spiega il portavoce dell’associazione Articolo 21 – Va espulso dal video tutto quanto dà fastidio a Berlusconi. Vogliono tagliare Che tempo che fa di Fazio a una sera a settimana, non lasciare più 5 serate a Parla con me perché il Pdl non vuole una striscia serale di satira e informazione, mentre autori come Iacona e la Gabanelli dovrebbero capire l’antifona e regolarsi». Messa così, diventa un’aggravante imperdonabile che in prima serata Raitre vada benissimo quando fa informazione, costi la metà delle altre reti generaliste, abbia il 9,9-10% in media di share e perfino ottimi incassi pubblicitari proprio grazie a Ballarò o Fazio. Troppi peccati tutti insieme: a Raitre sentono benissimo che brutta aria tira per i direttori di Raitre e Tg3. Eppure i loro mandati non siano in scadenza.
IL PIANO DEL DG
Sul classico accavallarsi di voci sulle nomine pare quanto meno improbabile che il Pdl pensi davvero a Mimun a capo della terza rete e per semplice scelta strategica: troppo smaccato e clamoroso, quel nome troverebbe troppi muri contrari. Anche a destra. Perciò si cerca qualcuno che faccia da alibi e risulti accettabile da più parti. Lo stesso discorso varrebbe per il Tg3 se si concretizzasse, per esempio, la candidatura di Mentana. L’importante, per la maggioranza, è decidere da sola. Per Giulietti l’esecutore del piano è il direttore generale Masi: «Dopo la rottura con Sky, dopo le nomine, in Rai si dice pubblicamente, e a destra, che una volta compiuta la missione entro fine anno lui potrebbe uscire dalla tv per essere richiamato nell’area di governo. Però ormai nella tv di Stato tanti professionisti, anche di destra, non ne possono più di vedere la rete diventata il satellite di Mediaset. Ormai bisogna parlare di Media-Rai, neppure di Rai-Set. Per questo come associazione vogliamo fare una petizione pubblica da mandare al presidente della Rai Garimberti: certi programmi sgraditi al premier e amati dal pubblico spariranno?».
«Oggi vogliono normalizzare l’unica rete che si distacca culturalmente dalle altre cinque tv generaliste politicamente allineate», conferma Giorgio Van Straten, consigliere d’amministrazione a Viale Mazzini indicato dal Pd. «E confermo: il problema sono programmi e autori come Fazio, Report, Serena Dandini, vogliono cancellare perfino Daria Bignardi da Raidue. Chiunque guiderà Raitre dovrà garantire che non si smantelli questo tipo di tv. Paolo Ruffini, l’attuale direttore di rete, mi pare inattaccabile: ha lavorato molto bene». Quanto al Pd, si dice da più parti che sia il partito a bloccare le nomine di Raitre prima del congresso di ottobre. Da ambienti Rai arriva un’altra ricostruzione: la proposta di confermare Ruffini a Raitre e di mettere Bianca Berlinguer a guida del Tg3 è stata fatta, ma il centro destra l’aveva bloccata perché vede l’attuale direttore di rete come fumo negli occhi. I due consiglieri dell’opposizione, Van Straten e Rizzo Nervo, vorrebbero fare le nomine entro il secondo cda di settembre, a metà mese. Non a ottobre.

Corriere della Sera 28.8.09
Pillola abortiva, indagine in Senato
La Carfagna: la Ru 486 aumenterà gli aborti. Opposizione contraria
di Margherita De Bac


ROMA — Si stringe la mor­sa di governo e Parlamento sulla pillola abortiva. In Sena­to partirà un’indagine conosci­tiva, su richiesta del capogrup­po Pdl Maurizio Gasparri che prima dell’estate aveva già an­ticipato la novità suscitando la reazione contraria di Fini: «Sentiremo tecnici ed esperti in modo da farci un’idea sugli effetti della Ru 486 e per capi­re se è rispettata la legge sul­l’aborto. Sostenere che sia un farmaco è come dire che la vi­ta è una malattia. Il nodo è sa­pere come verrà utilizzata».
La maggioranza lo sostiene. «Sono state dette molte scioc­chezze sul fatto che si tratti di un metodo facile e meno dolo­roso — denuncia il sottosegre­tario al Welfare, Eugenia Roc­cella —. Alcuni casi di morte non sono stati valutati duran­te la procedura di registrazio­ne da parte delle autorità tecni­che italiane. Il Parlamento ha tutti i motivi di voler approfon­dire » .
Per il ministro Mara Carfa­gna, Pari Opportunità, c’è il ri­schio che la pillola «diventi un anticoncezionale post rappor­to. Si svuota il senso della vita. Il numero di aborti potrebbe aumentare, invece bisogna so­stenere le donne a portare avanti una gravidanza difficile da sostenere dal punto di vista economico». Ancora più netta la posizione di Angelino Alfa­no: «Sono assolutamente con­trario alla Ru 486», e poi preci­sa: «Non parlo da ministro del­la Giustizia ma da deputato al Parlamento», L’indagine verrà formalizza­ta nel prossimo ufficio di presi­denza, fissa i tempi il presiden­te della Commissione Sanità, Antonio Tomassini: «Gli ele­menti per avviare il lavoro non mancano. Conoscevo la volontà di Gasparri e ne ho già parlato con i colleghi. Non sono da escludere iniziative politiche». Il governo per il momento sta a guardare, aspetta la delibera conclusiva dell’Aifa, e potrebbe interveni­re se davvero la Ru 486 non ri­sultasse ben ingabbiata nella legge italiana.
Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è favorevole: «Cre­do sia opportuno approfondi­re le conoscenze su un meto­do poco noto». Legittima l’ini­ziativa secondo Fabrizio Cic­chitto, capogruppo Pdl alla Ca­mera: «Dopo l’approvazione da parte dell’Aifa il governo de­ve definire i regolamenti attua­tivi che non devono essere ispirati a schemi ideologici di alcun tipo».
La pillola è quasi giunta al traguardo dopo il sì del Cda dell’Aifa, a luglio, manca solo la delibera applicativa, attesa per fine settembre. Si insisterà sull’obbligo che venga rispetta­ta la 194 e sul consenso infor­mato. Si pensa di ricorrere al modello francese, un questio­nario molto dettagliato che la donna sottoscrive come prova di consapevolezza dei rischi.
No all’indagine conoscitiva da parte dell’opposizione. Per Livia Turco, Pd, «la campagna della maggioranza è indegna e inaccettabile. Il governo si ac­canisce e dimentica battaglie importanti sul fronte di pre­venzione e tutela sociale della maternità». «Sarebbe inutile e inopportuna, potrebbe consi­stere solo in una verifica dei dati sulla sperimentazione, la­voro già compiuto dalla Came­ra nella legislatura preceden­te. È una proposta strumenta­le », insiste Vittoria Franco, Pd. Paolo Ferrero, Rifondazione comunista: «Meglio un’inchie­sta sulla morte di Giuliani». Massimiliano Iervolino, Radi­cali, accusa Alemanno di aver lanciato un allarme infondato: «Altro che metodo poco noto, la Ru 486 è in vendita negli Sta­ti Uniti e in gran parte d’Euro­pa » .

Corriere della Sera 28.8.09
Bari, spuntano fondi neri per «pagare» i partiti
La pm Digeronimo scherza: dopo mi toccherà lasciare la toga
di Fabrizio Caccia



BARI — «Dopo quest'inchie­sta mi toccherà lasciare la magi­stratura e allora, vedrete, avrò tanto tempo libero per parlare anche con voi...», scherza Desi­rée Digeronimo prima d'infilar­si nel suo ufficio senza dire al­tro ai cronisti. Il pm antimafia che indaga sulla Sanitopoli pu­gliese, tornata lunedì scorso dalle ferie, ha già iniziato a spul­ciare i conti correnti dei vari manager e imprenditori finiti nell'inchiesta: sarebbero emer­se, dai primi riscontri, «opera­zioni finanziarie sospette» e «di­strazioni di somme» che fareb­bero pensare ad azioni di rici­claggio del denaro. A quale scopo? E' questo il punto cruciale della sua indagi­ne (i filoni di Sanitopoli a Bari sono quattro, affidati a tre magi­strati, ndr). La Digeronimo non lo dice, ma sembra davvero in­tenzionata a capire se dietro cer­te voci di bilancio delle aziende (del tipo: manutenzione, spese di pubblicità e marketing...) vi siano celati strumenti di finan­ziamento occulto dei partiti. Oppure tangenti.
L'ipotesi, insomma, è quella di fondi neri (costituiti anche evadendo il fisco) utilizzati in tutti questi anni per ottenere in cambio dal Palazzo appalti, no­mine, accreditamenti e incari­chi per forniture.
Perciò, il lavoro di setaccio nelle banche ora si complica e i dati acquisiti andranno incro­ciati via via, per verificare even­tuali passaggi di denaro, con quelli contenuti nei bilanci se­questrati dai carabinieri a fine luglio nelle sedi dei cinque par­titi del centrosinistra che so­stengono la giunta regionale di Nichi Vendola (Pd, Rifondazio­ne comunista, Sinistra e Liber­tà, Lista Emiliano e Socialisti Autonomisti). Il sospetto, infat­ti, già evidenziato nei mesi scor­si dal pm antimafia, è che pro­prio «all'interno della pubblica amministrazione» vi fosse «un' organizzazione criminale ten­dente a condizionare le scelte della stessa allo scopo di perse­guire progetti illeciti».
Un'associazione a delinquere (15 finora gli indagati) finalizza­ta alla corruzione e alla concus­sione.
E ai vertici di questo comita­to d'affari, secondo il magistra­to, c'era Alberto Tedesco, l'ex as­sessore regionale alla Sanità dei Socialisti Autonomisti, di­messosi dall'incarico dopo esse­re stato iscritto nel registro del­la procura, ma ripescato poi dal Pd in Senato al posto dell'euro­deputato De Castro («Mai fatto pressioni, io ho sempre aiutato la Sanità...», così si è difeso Te­desco, da parte sua).
Intanto, a Palazzo di Giusti­zia, è arrivato ieri il nuovo pro­curatore capo, Antonio Laudati. Una visita-lampo, informale (s' insedierà ufficialmente il pros­simo 9 settembre) per incontra­re il suo predecessore Antonio Marzano e fare il punto coi ma­gistrati di Sanitopoli. Così, per un giorno, è dovuto rientrare dalle ferie anche Giuseppe Scel­si, il pm che ha acceso un faro sui traffici dell'imprenditore Gianpaolo Tarantini: non solo feste in Costa Smeralda ed escort a palazzo Grazioli, ma an­che protesi ortopediche piazza­te, secondo l'accusa, negli ospe­dali pugliesi grazie a mazzette, auto di lusso, donne e cocaina offerte a noti primari. Da Scelsi e Digeronimo, ieri, neppure una parola. Dopo l'attacco du­rissimo sferratole tre settimane fa, con una lettera appello, dal governatore della Puglia Nichi Vendola ('La sua indagine, dot­toressa Digeronimo, sta diven­tando lo strumento di una cam­pagna contro di me, qualcuno scientificamente sta costruen­do la mia morte...'), il magistra­to risponde solo col silenzio. A settembre, tra pochi giorni, par­lerà per lei il Csm.

Corriere della Sera 28.8.09
Per la prima volta i «Quaderni del carcere» in edizione anastatica. Una perla filologica ricca di spunti politici molto attuali
Così Gramsci disobbedì a Marx
Contro le sue indicazioni, applicò il «cesarismo» a Napoleone III, Mussolini e forse anche Stalin
di Luciano Canfora


Le note contenute in questo documento, come negli altri, sono un rapido promemoria da rivedere e controllare minutamente 
Scrittura fluida. Lo stile del leader sardo spontaneo e maturo è frutto anche del lungo tirocinio giornalistico

Èun bel regalo per i fi­lologi l’edizione ana­statica dei 29 Quader­ni del carcere (e tre di traduzioni) di Antonio Gramsci. L’iniziativa è realizza­ta congiuntamente da «L’Unio­ne Sarda», quotidiano che que­st’anno compie 120 anni, e dall’Istituto della Enci­clopedia Italiana, che ha già dato avvio — coi Qua­derni di traduzioni — alla finalmente critica «edi­zione nazionale» dell’intera opera gramsciana. L’ideale sarebbe stata l’edizione fac-simile dei Quaderni , che invece sono raggruppati, nell’edi­zione anastatica, in diciotto tomi, il quattordicesi­mo dei quali rispecchia — opportunamente — il formato grande (da registro) dei Quaderni 10, 12, 13 e 18. L’edizione fac-simile avrebbe permesso di poter studiare anche quei dettagli paleografici (co­lore dell’inchiostro, struttura fisica del manoscrit­to etc.) che sono fondamentali per qualunque ana­lisi filologica seria.
Il cammino percorso, da quando Togliatti al San Carlo di Napoli (29 aprile 1944) annunciò l’esi­stenza dei Quaderni , è stato lungo e accidentato. In principio ci fu l’edizione cosiddetta «temati­ca », pilotata da Togliatti (e Giulio Einaudi) politi­camente fondamentale ma filologicamente pazze­sca. Poi, dopo un quarto di secolo (1975), la cosid­detta «edizione critica» di Valentino Gerratana, che per lo meno restituiva l’integrità del testo ma non comprendeva né metteva a frutto il dato pri­mario del modo di scrivere, e quindi di comporre, cui Gramsci era costretto dalla situazione pratica in cui si trovò. Poi vennero gli studi di Gianni Francioni: L’officina gramsciana (Bibliopolis) è del 1984. Francioni mise al centro della ricerca sui 
Quaderni il dato fondamentale: «Il problema cru­ciale dei Quaderni del carcere — come egli scrive — è quello della loro cronologia». (La cosiddetta «edizione critica» suggeriva, a torto, l’idea che la successione numerica dei Quaderni da 1 a 29 fos­se anche cronologica. Invece quella numerazione non è d’autore ed è almeno in parte casuale).
Francioni, guardando direttamente gli autogra­fi, mise alla base della ricostruzione la dinamica compositiva di Gramsci, determinata dalla regola carceraria di non poter disporre in cella di più di due quaderni contemporaneamente. Egli «inco­minciava » il medesimo quaderno in più punti di­versi; e inoltre stabiliva raccordi tra di essi. E, so­prattutto, aveva creato un gruppo a parte di Qua­derni «speciali» in cui far confluire la rielaborazio­ne più matura di parti — anche ampie — già scrit­te. Questi Quaderni speciali sono importanti non solo perché racchiudono, sistematicamente, se­conde redazioni d’autore le quali, raffrontate con le prime stesure, fanno comprendere lo sviluppo di un pensiero (e spesso si tratta di tematiche capi­tali), ma perché sono più vicine alla forma-libro verso cui la miriade di riflessioni avviate da Gram­sci soprattutto nei «Miscellanei» doveva convo­gliarsi.
Beninteso, anche queste per Gramsci erano ste­sure provvisorie, ma è evidente a noi lettori che rappresentano uno stadio avanzato. Severamente egli avverte al principio del Quaderno 11 (Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura ), «il mag­giormente elaborato e organizzato tra tutti i mono­grafici » (così Francioni): «Le note contenute in questo quaderno, come negli altri, sono state scrit­te a penna corrente, per segnare un rapido prome­moria. Esse sono tutte da rivedere e controllare mi­nutamente, perché contengono certamente inesat­tezze, falsi accostamenti, anacronismi. Scritte sen­za aver presenti i libri cui si accenna, è possibile che, dopo il controllo, debbano essere radicalmen­te corrette proprio perché il contrario di ciò che è scritto risulta vero». (Anche nella trascrizione di questa avvertenza si nota l’utilità dell’anastatica. L’autografo rivela infatti che è scritto «risulta» e non l’insensato «risulti», come trascrisse Gerrata­na. L’autografo mostra chiaramente che Gramsci scrive normalmente la «t» come una «l» tagliata donde l’illusione che sulla piccolissima lettera fina­le della parola ci sia un puntino!). L’anastatica è corredata da eccellenti prefazioni paleografiche e critiche, quaderno per quaderno, redatte da Fran­cioni. Il quale, in certo senso, ci dà oggi — grazie a questa edizione — un’idea concreta del grande la­voro che sta preparando per l’edizione nazionale dei Quaderni.
Ma veniamo ai vantaggi filologici dell’anastati­ca. Gramsci, come abbiamo visto, dice di aver scritto «a penna corrente» ( currenti calamo ) « per segnare un rapido promemoria». La sua grafia non solo è estremamente posata e regolare, ma quasi sempre priva di correzioni e ripensamenti stilistici. Poiché siamo certi che non v’è «alle spal­le » di questi quaderni una «brutta copia» andata persa, è di immediata evidenza — ora che abbia­mo davanti l’autografo — che Gramsci compone­va direttamente in forma stilisticamente già com­piuta le sue pagine. Solo l’autografo poteva con­sentirci questa considerazione, che è rilevante ri­spetto al quesito (che invero è d’obbligo di fronte ad ogni significativo autore): come componeva, e quindi come scriveva, Gramsci? Il suo costante ad­destramento linguistico (traduzioni dai fratelli Grimm, da Goethe, dal saggio di Finck sui ceppi linguistici, da numerosi narratori russi, esercizi di lingua inglese: tutto questo è nei Quaderni A, B, C, ma traduzioni appaiono anche in altri quader­ni), l’interesse suo costante per la «questione del­la lingua in Italia», sono tra i fattori che aiutano a comprendere lo straordinario fenomeno di una scrittura così spontaneamente matura. Ma c’è an­che il lunghissimo suo tirocinio giornalistico, pa­lestra straordinariamente efficace al fine di impor­re allo scrivente il costume di dire direttamente, e senza contorsioni stilistiche o ornamenti profes­sorali, ciò che intende dire. Per valutare la sua pro­sa l’autografo è dunque la base primaria.
C’è poi l’altro aspetto: la riela­borazione e l’ampliamento di parti già scritte. Anche qui re­gna l’essenzialità: e la scarsa di­sponibilità di carta dovuta alle stupide restrizioni carcerarie ha avuto la sua parte. Ma bisogne­rebbe avviare un’indagine siste­matica sulle sue varianti d’auto­re. Si capirebbe molto di più in profondità quello che avvenne nel suo instancabi­le laboratorio mentale. Vorrei fare solo qualche esempio. Un tema di straordinaria importanza, te­orica e politica, è per lui il fenomeno del «cesari­smo ». È già di per sé significativo che egli lo assu­ma e gli dia quel rilievo di categoria sommamente utile alla comprensione della storia otto-novecen­tesca. Marx, nella prefazione alla seconda edizio­ne del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte ( giugno 1869) aveva perentoriamente «vietato» l’uso di ce­sarismo fuori dello studio della storia antica. Gramsci «disobbedisce» senza alcun problema, anzi ingigantisce, giustamente, quella categoria, divenuta — con la guerra e le rivoluzioni del dopo­guerra — uno strumento ermeneutico prezioso. La prima stesura del paragrafo cesarismo è nel «miscellaneo» Quaderno 9, la seconda, quasi rad­doppiata, è nello «speciale» Quaderno 13. Il feno­meno che si coglie raffrontando le varianti è l’atte­nuazione della polarità tra il cesarismo «progressi­vo » e «regressivo»: polarità che, pure, costituisce il punto di partenza della riflessione. Nel secondo capoverso della stesura A (Quaderno 9) Napoleone III, in opposizione al I, costituisce il prototipo del «cesarismo regressivo». Invece nel lunghissimo nuovo capoverso aggiunto nella stesura B (Quaderno 13) si dice di Napoleone III che «il suo Cesarismo (…) è obbiettivamente progressivo sebbene non come quello di Cesare e Napoleone I», perché «la forma sociale esistente non aveva ancora esaurito le sue possibilità di sviluppo etc.».
La riflessione non è oziosamente classificatoria né meramente storiografica. Basti pensare che con l’esemplificazione Gramsci si spinge fino al presente: fino al governo Mac Donald (un laburista che guida un ministero di conservatori) ed al governo di Mussolini: «Così in Italia nell’ottobre ’22, fino al distacco dei popolari e poi gradatamente fino al 3 gennaio ’25 e ancora fino all’8 novembre ’26 si ebbe un moto politico-storico in cui diverse gradazioni di cesarismo si succedettero fino a una forma più pura e permanente, sebbene anch’essa non immobile e statica». Il grande assente, il non detto, di questa pagina è Stalin (siamo nel 1934), anch’egli emerso vincente da un aspro conflitto di classi (operai, contadini, «nep-men»). Orbe­ne, se si considera che la pre­messa da cui Gramsci parte è che il cesarismo «esprime sempre la soluzione ar­bitrale, affidata ad una grande personalità, di una situazione storico-politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica» (di forze cioè che «si equilibrano in modo che la con­tinuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca») la riflessione ha del­le implicazioni molto attuali.
In queste pagine — nella prima e soprattutto nella seconda stesura — è racchiuso un giudizio meditato sia sull’esperienza del fascismo che — probabilmente — su quella dello stalinismo, con­siderati non già con l’occhio e il tono agitatorio di chi è immerso nella lotta e ne è parte, ma assunti in una razionalità della storia di cui la categoria del «cesarismo» è la chiave. Ed è forse una chiave primaria per intendere l’intero corpus gramscia­no carcerario, cioè successivo alla sconfitta ed al progressivo affermarsi del «Cesare». 

Sei anni di riflessioni in prigione
Arrestato dalla polizia fascista nel novembre del 1926, il leader del Partito comunista d’Italia Antonio Gramsci (1891-1937) inizia nel 1929, quando si trova nella prigione pugliese di Turi, la stesura dei suoi Quaderni del carcere , contenenti studi e riflessioni di vario genere. È un lavoro di grande impegno che prosegue fino al 1935.
Intanto Gramsci viene trasferito in clinica per le sue gravi condizioni di salute, che lo portano alla morte nel 1937. I suoi manoscritti, grazie alla cognata Tania, sono poi trasferiti in Unione Sovietica, dove vengono affidati alla dirigenza del Pci. È il segretario del partito, Palmiro Togliatti, che ne rivela l’esistenza nel 1944 e sovrintende alla prima pubblicazione presso Einaudi, tra il 1948 e il 1951. Si tratta di un’edizione tematica, allestita senza scrupoli filologici, cui segue soltanto nel 1975 l’edizione critica curata da Valentino Gerratana, sempre edita da Einaudi.

l’Unità 28.8.09
I nazisti in libertà
di Franco Giustolisi


Girano tranquilli, indisturbati, liberi per il mondo, i più in Germania e in Austria. Eppure sono assassini, anzi pluriassassini. Eppure sono stati condannati all'ergastolo con sentenze definitive. Eppure si sono macchiati di delitti che ogni civiltà rifiuta: stupri, rapine, violenze di ogni tipo, massacri a danno di civili inermi perché vecchi, perché donne, perché bambini, perché adulti che avevano per le mani solo arnesi casalinghi o di lavoro. Sono una ventina, scherani delle SS, che insieme alle camice nere di Salò hanno sparso sangue nel nostro paese, fra l'8 settembre del 1943 e il 25 aprile del 1945. Un mare di sangue perché le loro vittime, la cui conta che ora l'Anpi nazionale chiede che venga fatta, assommano a decine e decine di migliaia, compresi i nostri soldatini ammazzati dopo che avevano alzato bandiera bianca.
Nei loro naturali e giusti alloggiamenti di questi carnefici ce ne sono soltanto due: Erich Priebke, uno degli sterminatori delle Ardeatine, la sua storia è troppo nota per raccontarla ancora, è agli arresti domiciliari con licenza di passeggiate cittadine; e Michael Seifert, ucraino di fregole hitleriane: dei circa cinquanta prigionieri uccisi nel lager di Bolzano, lui, da solo e nei modi più efferati, ne fece fuori dodici o tredici. Non si conosce la misteriosa ragione per cui dal Canada, dove si era rifugiato dopo la guerra, fu estradato in Italia, a differenza di tutti gli altri suoi colleghi in criminalità. Ora è nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Quando nel giugno del 1994 fu scoperto l'armadio della vergogna, di cui i fascisti di ieri, di oggi e probabilmente di domani si ostinano pervicacemente a negare l'esistenza, i 695 fascicoli che conteneva, ingialliti, polverosi, slabbrati, molti neanche tradotti dall'inglese o dal tedesco, furono distribuiti alle procure militari territoriali. Ci vollero circa due anni per questa ripartizione, si arrivò così a mezzo secolo e un anno di distanza dai fatti.
È vero che in 415 di quei fascicoli c'erano già da allora i nomi dei nazifascisti assassini, ma molti di loro, l'enorme maggioranza, era passata nell'aldilà per motivi naturali o in combattimento o per sacrosante vendette. Idem per i testimoni. Ma è anche vero, non ne ho le prove, ma sarei pronto a comportarmi alla Muzio Scevola se mi venisse dimostrato il contrario, che quella montagna di carte fu trattata, in generale, con sufficiente distacco, se non con estrema faciloneria. Tutt'al più furono inviate lettere in burocratese alle alle autorità tedesche. E le risposte furono dello stesso tenore, altrimenti non si spiega come mai l'ufficiale nazista Otmar Mühlauser che comandò i plotoni di esecuzione a Cefalonia, la cui esistenza in vita fu scoperta in Germania, dove peraltro i suoi delitti furono prescritti, viene processato in Italia soltanto oggi, prossima udienza a novembre del 2009: i suoi delitti risalgono al settembre del 1943. Fecero a questo andazzo eccezione le procure militari di Torino, Verona e La Spezia. Con enorme dispendio di energie e, necessariamente, di denaro, furono scoperti criminali ancora in vita, furono messi su i relativi processi, tra cui quelli per le stragi di Sant'Anna di Stazzema e di Marzabotto, ambedue passati in giudicato. E furono emesse le relative sentenze: ergastoli. I beneficiari, anzi i maleficiari sono circa venti, il circa è d'obbligo in quanto alcuni nel frattempo potrebbero essere deceduti, ma nessuno di loro ha neanche visto da lontano una parvenza di sbarre. All'apertura dell'anno giudiziario l'11 febbraio di quest'anno, il procuratore generale presso la Corte militare di appello, Fabrizio Fabretti, ha rilevato questa enorme anomalia: possibile che le sentenze non vengano eseguite? Nessuno ha risposto. Né il ministro degli Esteri, Franco Frattini, che sempre di più sembra la classica rana degli apologhi di Esopo e di Fedro, quella che sta per scoppiare a seguito di una botta di presunzione. Né il ministro della Difesa Ignazio La Russa, che tuttavia ha dalla sua parte la scusante di essere quanto meno discendente politico di coloro che con rara efficacia dettero una mano alle SS, cioè i repubblichini. Né il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, che pensa solo a bloccare le intercettazioni e al dolo per cui qualsiasi cosa faccia il suo capo nessuno lo può toccare. Né il suo capo, infine, sino a quando personaggi che si ammantano della qualifica di giornalisti, come quel Franco Gizzi, fratello del capoufficio stampa della Regione pidiellina dell'Abruzzo - lo ha scritto Gian Antonio Stella sul "Corriere della Sera" - si rivolgeranno a lui con affermazioni del tipo «...ci ha fatto sognare...»
Ma un appello, rispettoso al massimo, va rivolto anche al capo dello Stato. Secondo me, giustamente, lui è intervenuto sulla mancata estradizione del terrorista rosso Cesare Battisti, condannato all'ergastolo dalla giustizia italiana. Ma anche la giustizia militare è italiana. Allora perché questa discrasia?
Al termine del processo di primo grado per la strage di Fivizzano, conclusosi con la condanna a vita di 9 nazisti, il presidente Agostino Quistelli ha commentato: «Spero che la condanna venga eseguita. Lo spero per il popolo in nome del quale ho emesso la sentenza e in nome della giustizia, che deve essere pienamente compiuta. Altrimenti che senso ha un processo?»
P.S. In Germania, paese da dove arrivarono i lanzichenecchi di Hitler, è stato condannato all'ergastolo il nazista responsabile della strage di Falzano di Cortona In Italia, paese delle vittime, si è atteso pazientemente la morte dell'ultimo massacratore di Cefalonia. Per non infastidire lui o chi altri? Viva questa germania, abbasso questa Italia.

Repubblica 28.8.09
Siamo tutti emigranti
Perché l´italiano rimane nomade
Un volume degli annali Einaudi dedicato al fenomeno
di Michele Smargiassi


Uno stereotipo che si rivela falso: prima i poveracci eravamo noi e ora sono gli altri
Oggi ci si continua a spostare per lavoro anche se in forme diverse dal passato

Una bella mattina di giugno del 1907, a bordo del transatlantico Kaiser Wilhelm, Alfred Stieglitz scatta la sua foto più famosa, ammirata perfino da Picasso: sul ponte di terza classe, un´umanità malvestita attende paziente la fine del viaggio. The Steerage è ancora oggi, per il pubblico di massa, e ahimè anche per molti storici della fotografia, l´icona della grande migrazione negli Usa a cavallo del ´900. C´è un problema, però: quella nave va in direzione sbagliata. Fa rotta verso l´Europa, precisamente Brema, Germania. L´autore stesso ce ne informa: ma pochi ne tengono conto. Lo stereotipo è più potente: gli emigranti partono soltanto, non tornano mai. E invece sì, tornarono, in tanti. Tra il 1861 e il 1941 uscirono dai patri confini venti milioni di italiani: ma alla fine dei conti i rientri furono più degli espatri permanenti. Più che una strada a senso unico, la rotta di quei bastimenti pieni di speranze somiglia a un circuito.
Incrostata da troppi luoghi comuni, la storia delle migrazioni italiane è ampiamente da riscrivere. Forse perché una tradizione storiografica specialistica sui grandi movimenti di popoli nell´era moderna in realtà non esiste: la pubblicistica esplosa negli ultimi anni, sotto l´impatto emotivo delle "carrette del mare", è cresciuta su un vuoto analitico di oltre due secoli. Gli emigranti, in fondo, sono apolidi anche in questo: lo storico del paese d´origine ha sempre pensato che a occuparsene dovesse essere il collega del paese di destinazione, e viceversa. A occuparsene, alla fine, sono stati solo i romanzi, la memorialistica, le tradizioni orali, qualche fotografo con coscienza. Intonsa dal bisturi critico dello storico, la memoria della nostra emigrazione è fondata ancora sull´oleografia sentimental-miserabilista da Mamma mia dammi cento lire. A cui hanno dovuto ricorrere anche i benintenzionati che di recente hanno tentato di contrapporre al "cattivismo" xenofobo dei governanti la storia speculare dei nostri "clandestini" di un secolo fa. Col risultato involontario di produrre un nuovo stereotipo, solidale ma incompleto: prima i poveracci con la valigia di cartone eravamo noi, adesso i poveracci sono loro. Invece no: la valigia, magari più robusta e alla moda, noi l´abbiamo ancora, e loro l´hanno sempre avuta. La mappa delle migrazioni non è un senso unico alternato, è fatta a rete: nel tempo, magari, certe maglie si stringono e altre s´allargano, ma la trama non si rompe mai, e vibra in tutte le direzioni. Al punto che l´Annale numero 24 della Storia d´Italia Einaudi, dedicato appunto alle Migrazioni e curato da Paola Corti e Matteo Sanfilippo (803 pagine, 95 euro), parte negando alla radice la distinzione classica tra popoli sedentari e popoli nomadi, e fa conflagrare deliberatamente i concetti di emigrazione e immigrazione in quello di mobilità di tempo lungo che, se non riuscirà ad attenuare certi sciovinismi attuali, almeno può togliere loro molti pretesti.
Lanciata come un molo nel Mediterraneo, la Penisola è luogo di movimenti umani per vocazione, si sa anche senza aver letto Braudel. Ma quanto e come, questo dettagliato sguardo d´insieme finalmente ce lo fa apprezzare in pieno. I nostri confini sono sempre stati attraversati simultaneamente in entrata e in uscita. Migrazioni più che invasioni furono quelle di Goti, Longobardi e Normanni; ma anche le dominazioni angioine o aragonesi produssero andirivieni di gruppi, con relativi problemi e conflitti di integrazione. Tratta di schiavi, fuga individuale e collettiva di esuli politici o di eretici religiosi, trapianti di comunità artigiane, accoglienze o ostracismi etnici (ebrei, rom): la bilancia degli arrivi e delle partenze bascula nei secoli per grandi e piccoli pesi, ma nulla ha mai potuto arrestarne il movimento. Uniche strategie: tentare di dare misura, ritmo, regola. L´accoglienza dello straniero è stata una faticosa, perenne negoziazione esplosa a volte in violenza e pogrom, ma altre volte foriera di integrazione e strutture: nei fondachi delle città marinare maturò la prima globalizzazione, e la parola forestiero nacque per indicare lo straniero che ha acquisito il diritto al rispetto nella terra di trapianto.
Del resto, il concetto di clandestino debutta solo con gli stati nazionali, cioè molto tardi. È la labilità storica delle "identità di carta" che da secoli produce i sans-papiers: chi si muove non sente di abbandonare una nazionalità, ma una piccola comunità di uomini e cose (un dialetto, un paesaggio, una cucina). Il siciliano è tanto straniero a Milano quanto a Berna o a Chicago. Clandestini sono le migliaia di emigranti italiani (25 mila all´anno nella Francia degli anni Venti: da far impallidire le odierne polemiche su Lampedusa) che perfino negli anni in cui l´emigrazione è incoraggiata (come strumento di quel "colonialismo da poveri" che la retorica fascista trasformerà nella retorica del "genio italico nel mondo") varcano le frontiere senza quei documenti che per loro sono imposizioni burocratiche di uno Stato astratto. Per loro conta solo quella ricerca di vita migliore che era dei nostri nonni e che rivediamo quasi identica nelle colorate famiglie del pianerottolo accanto. Progetti esistenziali che includono la possibilità del ritorno, che non tagliano mai integralmente i ponti: famiglie "transnazionali" che mantengono saldissimi legami a cavallo di migliaia di chilometri erano anche quelle dei ´mericani nostri, leggere le loro lettere per credere.
Chi pensa che oggi noi siamo diventati i sedentari (dunque titolari di un escludente ius loci) e solo loro siano i nomadi, non sa vedere che i bastimenti partono ancora. Si chiamano magari treni ad alta velocità. Non solo la precarietà del lavoro, ma anche la facilità dei collegamenti mascherano da pendolarismo la nuova emigrazione interna, che oggi è meglio chiamare "mobilità senza sradicamento": chi negli anni Sessanta era obbligato a cambiar casa per inseguire un salario, oggi può tenere separati (ma uniti da poche ore di viaggio) residenza e lavoro, e così non finisce nelle statistiche migratorie. In cerca di habitat migliori o più economici emigriamo negli hinterland, a caccia di una carriera piantiamo la tenda in una città dopo l´altra. Mentre le partenze dei nostri figli laureati per lunghi master all´estero, che magari diventano lavoro, sono meno strazianti di certi episodi del libro Cuore, ma numericamente non indifferenti.
Insomma, ci muoviamo tutti. "Siamo tutti migranti" non è uno slogan da corteo dei centri sociali, è una realtà sociologica. A cui i poteri fanno resistenza, perché può mettere in crisi un valore-scudo, forse l´ultimo baluardo del comunitarismo egoista: il diritto di cittadinanza. Non a caso l´Annale si chiude sulla storia tormentata di questo concetto giuridico scivoloso e contraddittorio: sono cittadini italiani persone che l´Italia non l´hanno mai vista (gli eredi degli emigrati), ma faticano a diventarlo persone che in Italia lavorano e pagano tasse da lustri.

Repubblica 28.8.09
Il discorso contro le discriminazioni in un concerto a Bucarest
Madonna difende i Rom e il pubblico la fischia


Madonna difende i Rom in Romania, ricorda le discriminazioni che tutti i popoli nomadi hanno subìto in passato nei paesi dell´Est. Parla al microfono dal palco del suo concerto, ospitato in un grande parco pubblico di Bucarest e la platea di 60 mila spettatori prima rumoreggia, poi la sommerge di buu, fischi e insulti. È successo l´altra sera e la sorprendente reazione dei fan contro il loro idolo rivela quanto il pregiudizio contro gli zingari sia ancora profondo nell´area. «Mi è stato riferito che nell´Europa dell´Est c´è ancora molta discriminazione nei confronti dei Rom e degli zingari in generale, e questo mi rende davvero molto triste», ha detto Madonna suscitando subito i fischi e gli insulti del pubblico. «Noi non crediamo nella discriminazione» ha aggiunto, «noi crediamo nella libertà e in uguali diritti per tutti». Ionut Dinu, 23 anni, fan di Madonna ha spiegato così la reazione: «Ho fischiato perché ciò che ha voluto dirci suonava falso». In Romania vivono circa due milioni di Rom, anche se secondo i dati ufficiali sarebbero soltanto 500 mila. Madonna non ha reagito e ha continuato normalmente il suo concerto, al quale tra l´altro prendevano parte anche alcuni artisti gitani molto applauditi dal pubblico. Mentre nella vita quotidiana i nomadi continuano ad essere discriminati, infatti, il rispetto degli europei dell´Est per la musica e la danza tradizionale gitana non è mai diminuito.
(c.m.)

Corriere della Sera 28.8.09
Migliaia di centri di lettura in pochi anni, tutto andrà in digitale. Scompariranno i diritti d’autore
E Pechino fotocopia la cultura del mondo
di Armando Torno


La Cina sta moltiplicando le biblioteche. Se nel 1949 ne aveva 55, ora sono migliaia con centinaia di milioni di volumi.
Raccoglie, fotocopia, digitalizza le principali opere letterarie, economiche e scientifiche per creare il più grande giacimento culturale del mondo. È un universo che oscilla tra la bibliotecaria Li Chun, che raccoglie storie orali, e la Biblioteca nazionale di Pechino. E la Cina non rispetta pienamente le nostre norme sul diritto d’autore.
Presto la più grande raccolta mai esistita sarà disponibile nelle biblioteche La speranza di Li Chun: riavremo i 50 mila volumi distrutti dal terremoto

Li Chun dirigeva la biblioteca del Beichuan, distrutta dal terremo­to nel maggio del 2008. È arriva­ta a Milano al convegno dell’Ifla — l’Onu dei libri — con il suo abito tradi­zionale per ricevere un premio. La accom­pagnava Li Kaicheng, della biblioteca del­lo Mianzhu. Entrambi parlano solo cinese e queste testimonianze si devono alla cor­tesia del professor Zhang Xiaolin, che ha tradotto dapprima in inglese le loro paro­le.
«La mia biblioteca — ricorda Li Chun — è ancora sotto il fango, come migliaia di persone. Appartengo alla minoranza Qiang, uno dei 56 gruppi etnici riconosciu­ti dalla Repubblica Popolare Cinese. Erava­mo 200 mila e 20 mila sono morti». La sua voce si scioglie con un filo di emozione e ricorda: «I Qiang sono una stirpe antichis­sima, con una storia che risale alla secon­da dinastia — le prime testimonianze so­no del 1760 a.C. — e da loro discendono, tra gli altri, anche i tibetani. Nel terremoto ho perso mio padre e mio fratello maggio­re e sono viva perché mi trovavo nell’atti­gua copisteria, dove ho potuto rifugiarmi sotto un tavolo. Sono rimasta sepolta dalle macerie per 75 ore; una mia collega è stata travolta, un’altra morì dopo l’arrivo dei soc­corsi ». Ha il braccio sini­stro offeso ma lo sguar­do sereno. Continua: «Nella mia vita mi sono prima occupata dei bam­bini all’asilo, poi ho in­segnato alle elementari, quindi ho deciso di de­dicarmi alla biblioteca.
Al momento del terre­moto avevamo 50 mila volumi, buona parte dei quali erano mano­scritti con trascrizioni di racconti orali, contenenti le storie della mia gente. Gli stampati non costituiscono un problema, perché di essi c’è una copia a Pechino, ma il resto è irrimediabilmente perduto».
Ora, grazie al Prins Claus Fund, una sor­ta di Emergency della cultura (fondato il 6 settembre 1996 per celebrare il settantesi­mo compleanno del principe Claus di Olanda), almeno una parte dei libri del Bei­chuan sarà ricomperata. Anche se, precisa Li Chun, «i resti con il fango rimarranno così come sono e sia la città che la bibliote­ca verranno ricostruite altrove». Questa donna testimonia con il suo abito una fie­rezza antica, una cultura che si perde nel tempo. Prima di salutarci aggiunge le se­guenti parole: «Il terremoto ha lasciato tanto dolore, ma noi ricostruiremo, racco­glieremo ancora libri e storie, daremo vita ad altri manoscritti. Li porteremo, come abbiamo fatto in precedenza, alla gente. Usciranno, come i precedenti, dalla biblio­teca per raggiungere case isolate e zone impervie. Il libro deve inseguire le perso­ne, non viceversa».
Che dire? Il viso dolcissimo di Li Chun è l’immagine della Cina, di quanto sta avve­nendo nel Paese al quale ormai occorre guardare con attenzione anche per le bi­blioteche. Sempre a Milano, per il conve­gno Ifla, è arrivato Ben Gu, uno dei vicedi­rettori della Nazionale di Pechino. In una chiavetta aveva i dati relativi al 2006. Parla­no da soli, è inutile aggiungere aggettivi: in Cina vi sono 2.777 biblioteche pubbli­che che hanno superato i 400 milioni di volumi, 3.901 sono le universitarie; istituti di ricerca, aziende e di­partimenti governativi raggiungono le 10 mila, l’esercito ne ha 94 che corrispondono ad altret­tante scuole militari. Le sindacali sono 26 mila, le ospedaliere 19 mila, quelle scolastiche 130 mila e ad esse vanno ag­giunte le raccolte del partito, delle quali non ci sono dati. Nel 1949 le biblioteche cinesi erano 55.
Tutto questo è avvenuto improvvisamen­te, giacché la Nazionale di Pechino ha un secolo ma le altre sono state fondate in buona parte nell’ultimo ventennio. E il fe­nomeno — come sottolinea Mauro Guerri­ni, presidente italiano Ifla e sodale di Ben Gu — «è in forte espansione». Sono stati aperti corsi per bibliotecari e si è creata una bibliografia nazionale a cominciare dal 1987, la stessa che dal 1994 è online. Due dati che raffrontati ai nostri fanno im­pressione: in Italia essa nacque nel 1888, e venne rifondata nel 1958, negli Usa nel 1830. «La Cina — dichiara Guerrini — sta costituendo importanti biblioteche carta­cee utilizzando e riproducendo per scopo interno le principali pubblicazioni di carat­tere letterario, economico e scientifico del mondo». Parole prudenti che si possono tradurre così: tutte le opere più importanti sono raccolte e poi digitalizzate in Cina, dove tra non molto ci sarà la più incredibi­le raccolta di dati culturali che mai sia sta­ta tentata sul nostro pianeta. Qualche esempio? Dalle grandi storie dell’Occiden­te ai classici, dalle raccolte di leggi ai saggi strategici contemporanei — comperati, tradotti e messi online — via via fino alla letteratura e ai testi religiosi. Immaginate­vi in qualche chiavetta la Storia dei Papi di von Pastor o l’ Enciclopedia di Diderot e d’Alembert, i Rerum Italicarum Scripto­res di Muratori o i testi greci e latini del­la Teubner.
Non spetta a noi trarre conclusioni.
Ma forse è il caso di aggiungere in mar­gine che la Cina non rispetta piena­mente le nostre norme sul diritto d’autore e il dibattito in questi giorni crea­to da Google, che non lo gradisce, può tra­sformarsi in una bomba che non sappia­mo quando esploderà. Insomma, la retri­buzione del lavoro intellettuale conoscerà giorni sempre più difficili, anzi si avvia ver­so la zona delle cifre irrisorie. È forse agli sgoccioli l’epoca degli scrittori miliardari; e, se questi lo diventeranno, non sarà per i diritti d’autore. Le ricadute? Difficile preve­dere cosa comporta l’abbassamento, o il crollo, dei pagamenti del lavoro intellettua­le, ma non occorrono sforzi per pensare al­le riduzioni che colpiranno i compensi de­gli insegnanti e di coloro che fanno ricerca lontano da scopi industriali. Gli intellettua­li ben remunerati, liberi e critici del pote­re, possono insomma considerarsi una pa­rentesi.

Corriere della Sera 28.8.09
Se il comitato per la cultura confisca il libro dello storico
di Pierluigi Battista



Angelo Del Boca è uno storico serio. Le sue ricerche sul colo­nialismo italiano (nefandezze compre­se) sono rigorose e documentate e ben lo sapeva Indro Montanelli che proprio su queste colonne ingaggiò con lui un’epica battaglia sui comportamenti italiani in Abissinia e onestamente finì per rendere onore al vincitore della ten­zone storiografica. Del Boca ha scritto un libro, A un passo della forca (Baldini Castoldi Dalai) che in linea teorica, es­sendo un ritratto tutt’altro che disdice­vole della resistenza anti-italiana in Li­bia e delle gesta di Mohamed Fekini, non dovrebbe dispiacere al colonnello Gheddafi. Ma essendo uno storico se­rio, e non un volgare panegirista di regi­me, Del Boca viene censurato in Libia. Il suo libro è sparito a Tripoli. La dittatura libica non dà spazio agli storici seri.
Non è un paradosso, è la differenza tra una democrazia e un sistema liberti­cida che fa circolare i libri solo se con­formi alla volontà capricciosa e volubile del dittatore. La grottesca «colpa» com­messa da Del Boca (è stato proprio lui a raccontarlo al manifesto ) sarebbe quel­la di «aver esaltato i Senussi e il loro ruolo nell’indipendenza». Per Ghedda­fi, una verità inammissibile. E dunque il libro viene sottoposto a un provvedi­mento di confisca da parte della temibi­le «Direzione generale per la stampa del Comitato Popolare generale per la cultura e l’informazione» di Tripoli, il nome pomposo e magniloquente che designa l’inquisizione libica dai cui vole­ri dipende la circolazione in Libia di ogni prodotto stampato.
Del Boca si dice giustamente disgu­stato del comportamento censorio del­la Libia. Ha ragione a indignarsi. Pur­ché sia disposto a indignarsi anche per la mostruosa rete di delazione e di re­pressione che il regime di Gheddafi ha da quarant’anni tessuto ai danni dei li­bri e delle persone non gradite (e trop­po spesso fisicamente eliminate) alla nomenklatura rivoluzionaria di Tripoli. Nelle democrazie le librerie rigurgitano di volumi critici con il sistema, nelle ti­rannie è tutto proibito. Per quanto in crisi, svuotate, sfibrate, le democrazie promuovono la libera ricerca storica. Le dittature invece temono la verità storica più di ogni altra cosa. Per questo è dove­rosa la solidarietà a Del Boca, l’ultima vittima di un elenco sterminato di uomi­ni e donne censurati in Libia. 


il Riformista 28.8.09
«La Libia mi censura e la Farnesina mi ignora»
Angelo Del Boca. Lo storico rompe con il regime. Denuncia il silenzio governativo. E rivela che una volta il raìs prese la penna...
di Emanuele Giordana



All'ambasciata libica di Roma c'è un'onorificenza che aspetta Angelo Del Boca che però non la ritirerà. Né andrà ai festeggiamenti dei quarant'anni che si terranno a fine settembre alla rappresentanza diplomatica in Italia. Dopo che il suo libro sull'eroe della resistenza libica Mohamed Fekini è stato censurato in Libia, lo storico del colonialismo italiano rivela che non è la prima censura che Gheddafi in persona ha fatto sui suoi libri e si dice stupito del silenzio delle istituzioni italiane sulla decisione attuale del ministero della cultura di Tripoli.
Ma, aggiunge, Berlusconi fa bene ad andare a celebrare lo storico accordo siglato un anno fa a Bengasi anche se è fuori luogo l'idea delle frecce tricolori e nell'accordo manca un elemento fondamentale: la richiesta alla Libia - che non ha una Costituzione - di garantire i diritti civili e umani, un aspetto politico che non può essere bypassato da un protocollo che premia i due paesi sotto l'aspetto commerciale. «Mi ha meravigliato - dice l'autore di A un passo dalla forca - il silenzio dell'ambasciata libica ma soprattutto del ministro degli esteri alla notizia della censura del mio libro in Libia. Resto stupefatto che non abbia sentito, non dico il dovere di promuovere un'iniziativa, ma nemmeno la sensibilità di ascoltare la mia voce e le mie ragioni. Non chiedo al ministro Frattini di difendermi coi libici ma almeno una telefonata per sentire la voce di un connazionale..»
Non è la prima volta che la politica ignora le sue ragioni...
Ci abbiamo messo anni per veder riconosciuta la verità storica delle atrocità coloniali e quando lancia la proposta di una giornata della memoria per ricordare 500mila africani morti a causa delle guerre coloniali registrai silenzio. Certo la proposta non arrivò in parlamento per la caduta del governo Prodi ma mi sarei aspettato che il nuovo governo la facesse sua. Sono aspetti che riguardano l'Italia, non i singoli governi.
Berlusconi fa bene ad andare in Libia?
Per quell'accordo dell'agosto 2008 siglato a Bengasi ho lavorato anch'io con anni di battaglie. Fa bene il presidente del consiglio ad andare a celebrarlo anche se l'accordo ha una grossa pecca: ottimo sotto il punto di vista commerciale, che riconosce vantaggi a Italia e Libia, e generoso sul piano degli indennizzi, manca però di due elementi: un elenco delle "malefatte" italiane, come Berlusconi le ha definite, e la richiesta che Tripoli si adegui al riconoscimento dei diritti umani e civili specie per quei migranti rinchiusi nei centri di detenzione. Infine, un conto è andare un conto è andarci con le frecce tricolori, la massima espressione coreografica, se vogliamo dir così, del simbolo nazionale. Fuori luogo.
Lei è stato invitato?
Sono stato invitato alle celebrazioni di Roma del 23 settembre ma non ci andrò. Come non andrò a ritirare l'onorificenza che la Libia mi vuole consegnare. Si arriva a un punto in cui bisogna dire basta. Come ho scritto su il manifesto denunciando la censura del mio ultimo libro, forse il mio è il destino di tutti i terzomondisti...dopo trent'anni di lavoro per ricostruire una storia scritta da 100mila vittime e tante battaglie per chiedere le scuse ufficiali e il giusto indennizzo. Ma del resto non è la prima censura. Il rais, di suo pugno, leggendo capitolo per capitolo la traduzione in arabo del mio Dal Fascismo a Gheddafi, cancellò le parti che non gli piacevano...
Perché allora non protestò?
Intanto lo venni a sapere solo a cose fatte dal mio traduttore e ovviamente feci le mie rimostranze all'editore che mi promise che in una futura edizione avrebbe rimediato. Eppoi il traduttore era ancora in vita...adesso è morto e mi sento di dirlo anche perché quest'ultima vicenda mi obbliga a ricordarlo.
Censurano lei anche per colpire la famiglia Fekini?
Forse è il motivo principale anche se la sostanza non cambia. Fekini fu un uomo valoroso e una grande combattente, un eroe della resistenza di una famiglia nobile e orgogliosa che forse fa ombra a Gheddafi che, ricordiamolo dunque, non è un uomo della resistenza. È un uomo che ha preso il potere con un colpo di stato. Sia ben chiaro: io ho lavorato per ricostruire la storia dell'epopea coloniale e post coloniale riconoscendo a Gheddafi i suoi meriti ma senza nasconderne i torti, compresa la stagione terroristica. Questo è il lavoro di uno storico. Ed è triste che nel mio paese il ministro degli Esteri abbia preferito ignorare l'accaduto.

Corriere della Sera 28.8.09
La storia dei rapporti tra Italia e Tripoli
Quando Mussolini e Nenni furono processati insieme per la Libia
di Sergio Romano


Tutti e due erano contrari alla conquista e organizzarono manifestazioni contro la partenza delle reclute
Gheddafi ha trattato a lungo l’Italia come un nemico secolare, ma i rapporti di affari tra i due Paesi ci sono sempre stati

La conquista della Libia nel 1911 disegnò una nuova e paradossale geografia politica italiana.
L’impresa piacque ai nazionalisti di Luigi Federzoni, a molti intellettuali de La Voce di Giuseppe Prezzolini, al poeta Giovanni Pascoli, al «vate» Gabriele D’Annunzio, al Corriere della Sera di Luigi Albertini, a La Stampa di Alfredo Frassati.
Piacque anche a parecchi diplomatici, a qualche sindacalista rivoluzionario e ai socialisti riformisti. Ma non, anche se per ragioni diverse, a Gaetano Salvemini, a Benito Mussolini, a Pietro Nenni e a Luigi Bollati, ambasciatore e segretario generale del ministero degli Esteri. Salvemini scrisse che la Tripolitania e la Cirenaica erano uno «scatolone di sabbia».
Il socialista Mussolini sostenne che era un Paese povero dove il governo avrebbe sprecato denari di cui sarebbe stato meglio fare uso in Italia, e si comportò di conseguenza inscenando una sorta di rivolta popolare contro la partenza delle reclute. Il repubblicano Nenni (sarebbe divenuto socialista qualche anno dopo) guidò 3.000 persone alla conquista della stazione di Forlì per impedire il passaggio dei treni. E Luigi Bollati, secondo i suoi collaboratori, fu «freddo e riservato».
Fra i suoi tanti paradossi la guerra ebbe persino l’effetto di creare un rapporto di simpatia e di amicizia fra due uomini che dieci anni dopo si sarebbero duramente combattuti.
Mussolini e Nenni vennero processati per direttissima, condannati e «alloggiati» insieme per qualche mese nel carcere di Bologna.
Ancora più paradossale, per molti aspetti, è l’atteggiamento dell’uomo che decise la conquista e dichiarò guerra alla Turchia. Giovanni Giolitti fu un colonialista algido, scettico, distaccato.
S’imbarcò nel conflitto perché la Francia si stava impadronendo del Marocco e i due vilayet turchi dell’Africa settentrionale (Tripolitania e Cirenaica) erano ormai le ultime poltrone rimaste libere in un teatro dove francesi e inglesi avevano conquistato i posti migliori. Vinse, ma non volle mai servirsi della vittoria per soffiare sul fuoco del nazionalismo e della retorica patriottica. E fece tesoro di quella esperienza per raccomandare, alla vigilia della Grande guerra, una politica di neutralità a cui rimase coerentemente fedele sino alla fine del conflitto. Durante le operazioni in Libia aveva capito che l’esercito disponeva di una limitata capacità d’intervento e che molti generali non erano all’altezza della situazione. Era convinto che l’Italia, nel 1915, non fosse in grado di affrontare una prova molto più severa di quella che aveva superato nel 1912.
Le preoccupazioni di Giolitti furono confermate dagli avvenimenti. L’Italia vinse la guerra di Libia a tavolino ma dovette scontrarsi con la guerriglia dei beduini in Tripolitania e la resistenza meglio organizzata di una forte congregazione religiosa, la Senussia, in Cirenaica. Durante il conflitto europeo, gli effettivi ridotti delle truppe italiane dovettero attestarsi sulla costa e limitarsi al controllo delle principali città. La riconquista cominciò prima dell’avvento del fascismo, quando il ministro delle Colonie era Giovanni Amendola e il governatore a Tripoli Giovanni Volpi, l’industriale finanziere che aveva partecipato ai negoziati di pace nel 1912. Le cose andarono bene in Tripolitania, male in Cirenaica dove le truppe italiane dovettero battersi contro l’uomo ritratto nel «santino» che il colonnello Gheddafi si è cucito sul petto durante la sua recente visita in Italia. Si chiamava Omar el Mukhtar e fu un valoroso combattente a cui gli italiani, dopo la sua cattura, avrebbero dovuto rendere l’onore delle armi. Ma il comandante della spedizione era Rodolfo Graziani, un soldataccio brutale e privo di qualsiasi virtù cavalleresca che aveva deciso di trattare il nemico sconfitto come un criminale e un traditore. La riconquista non fu più dura e spietata delle numerose campagne con cui altre potenze coloniali riconquistarono territori perduti. I francesi in Algeria e in Marocco, gli inglesi in Egitto, nel Sudan e in Sud Africa, gli spagnoli nei loro possedimenti marocchini e i tedeschi nella terra degli herrero non furono meno spietati degli italiani. Ma l’impiccagione di Omar el Mukhtar fu contemporaneamente un crimine e un errore politico.
Il governatorato di Italo Balbo, dal 1934 al 1940, fu alquanto diverso e segnato da avvenimenti notevoli sul piano politico e sociale. Balbo fu un costruttore e un organizzatore. Esiliato in colonia dalla gelosia di Mussolini, fece della Libia una sorta di principato dove egli regnava, come il duca d’Este nella sua Ferrara, circondato e adulato da una piccola corte. Ma la visita di Mussolini nel 1937 fu un successo che l’Italia, con una diversa politica, avrebbe potuto sfruttare. E l’arrivo di 30.000 coloni in due successive spedizioni (1938 e 1939) fu per molti aspetti, insieme alle bonifiche e alla costruzione di nuove città nella penisola, il New Deal italiano.
Ucciso per un errore dalla contraerea mentre rientrava a Tripoli sul suo aereo dopo una ispezione del fronte, Balbo ebbe la fortuna di non vedere né la partenza di molti italiani nel 1942 né la perdita della Libia nel 1943. Ma sarebbe stato lieto di apprendere che i coloni erano rimasti fedeli alla loro nuova patria. Nel 1947, sommando quelli che erano rimasti e quelli che erano tornati, la colonia agricola italiana ammontava a circa 15.000 persone. Molti poderi vennero venduti negli anni seguenti, ma i rapporti degli italiani con re Idris, dopo la costituzione del regno di Libia, furono complessivamente felici.
Nel settembre del 1969, quando Gheddafi prese il potere, gli italiani erano 24.988. Di questi 6000 partirono subito. Di quelli che rimasero 1500 erano agricoltori, 3000 impiegati in imprese italiane, gli altri piccoli industriali, commercianti, artigiani.
Partirono dopo il decreto del 21 luglio 1970 con cui il governo rivoluzionario confiscò le loro terre (40.000 ettari) e le loro proprietà immobiliari.
Comincia da quel momento una specie di tragicommedia. Gheddafi non perde occasione per trattare l’Italia alla stregua di un nemico secolare e di servirsi del passato coloniale per cementare il sentimento nazionale di un Paese che non aveva, sino alla conquista italiana, alcuna identità storica. Ma gli affari sono un’altra cosa. Il petrolio, scoperto sin dagli anni Trenta, diventa la base di un accordo con l’Eni che continua, fra alti e bassi, sino ai nostri giorni. Il diagramma dei rapporti politici italo-libici sembra quello di un sismografo, ma questo non impedisce all’Italia di essere il maggiore cliente e il maggior Paese fornitore. I coloni cacciati nel 1970 non possono tornare neppure per deporre un mazzo di fiori sulle tombe dei loro morti, ma si forma in Libia, nel frattempo, una nuova colonia italiana composta da tecnici, professionisti, rappresentanti di commercio, dirigenti d’impresa.
Non basta. Come il partito della guerra, nel 1911, fu costituito da una variopinta coalizione di persone provenienti dalla destra e dalla sinistra, così il partito della conciliazione, in questi ultimi anni, ha rappresentata un’area della politica italiana che comprende Lamberto Dini, Romano Prodi e Silvio Berlusconi. La migliore rappresentazione possibile dei rapporti dell’Italia con la Libia (e viceversa) è nei versi in cui due poeti romani, Ovidio e Marziale, descrissero gli amori difficili: non posso vivere né con te né senza di te.