Legge elettorale
D’Alema: «Scegliere il modello tedesco
accompagnato da riforme costituzionali»
Le riforme, istituzionali e della legge elettorale, sono «necessarie», Silvio Berlusconi «non vuole» perché «vede il miraggio delle elezioni», ma questo danneggia il paese. Lo dice il vice-premier Massimo D’Alema, in una intervista al Tg1.
«Le riforme sono necessarie, questa legislatura ha come missione le riforme, chi si oppone produce un danno al paese». Bisogna «correggere una legge elettorale sbagliata e fare anche alcune riforme della Costituzione». «Berlusconi non vuole, - aggiunge - vede il miraggio delle elezioni, è alla ricerca di una rivincita personale. Ma tutto questo non ha nulla a che vedere con gli interessi del Paese».
Per D’Alema una riforma istituzionale che «accompagni» quella elettorale, dovrebbe contemplare, tra l’altro il primo ministro eletto dal Parlamento, la sfiducia costruttiva, una sola Camera legislativa e una che rappresenti le regioni.
«Credo che il massimo consenso vada al modello tedesco che ha il vantaggio di ridurre la frammentazione. Credo che possa essere accompagnato anche da riforme costituzionali» aggiunge il vicepresidente del Consiglio.
Tra le riforme, D’Alema indica la possibilità di avere una Camera con funzione legislativa e una che rappresenti le Regioni e la sfiducia costruttiva. Insomma quella che disegna D’Alema è una riforma complessa non solo elettorale ma anche costituzionale che quindi richiede la ricerca di un’ampia maggioranza ma anche tempi abbastanza lunghi.
Da D’Alema anche una battuta sulla immediata attualità politica in questi giorni in cui il dibattito politico è tutto orientato sulla tenuta del governo: «Un chiarimento politico è necessario: il presidente del Consiglio lo ha chiesto e ritengo abbia ottenuto un primo risultato».
l’Unità 27.10.07
L’appello. Lettera aperta ai costituenti del Pd sul futuro de «l’Unità»
L’assemblea dei redattori
Caro Prodi, caro Veltroni,
cari Costituenti,
oggi è un giorno speciale per voi, per il centrosinistra italiano, ma sono giorni complicati per l’Unità, che è una delle voci più autorevoli e articolate di questo stesso centrosinistra. Oggi il futuro del giornale pare molto incerto, con prospettive per alcuni aspetti inquietanti. Molti giornali e molti osservatori parlano di noi e si pongono, come noi, delle domande: davvero arrivano gli Angelucci, proprietari di Libero? E qual è il loro progetto? Quali garanzie ci danno gli eventuali nuovi editori in termini di autonomia del giornale e per ciò che concerne la sua collocazione storica?
Sono, noi crediamo, domande legittime. Che ora rivolgiamo anche a voi: non credete che la costruzione del Partito democratico abbia ancora bisogno - nella sua pluralità - di una voce come quella de l’Unità, che abbia ancora bisogno di muoversi all’interno di un panorama dell’informazione in cui non vengano meno pezzi importanti, proprio in un momento di costruzione e di crescita come questo? Non credete che ci sia bisogno di voci forti, che rispondano a progetti editoriali chiari, e che pure i lettori abbiano diritto di sapere con limpidezza che lingua parla il loro giornale?
Per quanto ci riguarda, in questo quadro ribadiamo alcuni punti fermi, validi per chiunque si ponga alla testa della società editrice del giornale. Intanto l’autonomia dell’Unità e di chi ci lavora, che va tutelata come bene prezioso per la libera informazione di questo paese. È un bene che non è in vendita. Sono necessarie strategie e risorse che consentano lo sviluppo del giornale, garantendo anche l’occupazione e la dignità dei suoi dipendenti. Ne va garantita la collocazione storica nel panorama della stampa democratica, come pure la sua vocazione di giornale nazionale.
La presidente della Nie, Marialina Marcucci, in un’intervista fa intendere che i giochi sono ancora aperti. Vi sarebbero più soggetti interessati ad entrare nel capitale azionario del giornale. Eppure, dettagliate ricostruzioni giornalistiche ci dicono altro. Ci dicono che l’accordo preliminare con gli Angelucci è già stato firmato, e che sono in corso tutte le verifiche tecniche del caso.
Il quadro è confuso. Lunedì il Cdr avrà un chiarimento diretto con la presidente del Cda, si spera esauriente. Quello che però appare chiaro è che l’azienda ha bisogno di capitali freschi, e altrettanto evidente è come negli ultimi mesi il giornale abbia continuato a «galleggiare» senza opportuni investimenti, senza il rilancio promesso, senza cogliere appieno tutte le opportunità che una fase storica come quella della nascita del Partito democratico poteva offrire.
Ci si augura che presto emergano novità. Che altri si facciano sentire, che si mettano in atto tutte le iniziative volte a favorire ulteriori investimenti nell’Unità, sapendo che il mercato ha già dato segno di valutare positivamente le potenzialità d’espansione del giornale.
Il fatto è, cari costituenti, che l’Unità è un giornale vivo. È, e vuole continuare ad essere, anche il vostro giornale. È dentro il dibattito politico. Continua a rappresentare una ricchezza per il pluralismo dell’informazione, una voce libera tanto più necessaria oggi, con un quadro politico così in fibrillazione. Quale può essere il destino dell’Unità, se il suo editore è lo stesso di Libero? Quale può essere la logica editoriale di questa operazione siglata, non certo a caso, proprio alla vigilia della nascita del Partito democratico? Quali garanzie vengono date ai redattori de l’Unità, ai suoi lettori e al centrosinistra nel suo complesso? È in gioco la vita stessa de l’Unità. La difenderemo con determinazione. Questa non è solo la nostra battaglia, è la battaglia di tutti.
Repubblica 27.10.07
Destra & sinistra
Che cosa vuol dire aver perso l’identità
di Massimo L. Salvadori
Tramontano le vecchie distinzioni. Ma crescono le sfide. Un saggio di Marco Revelli
Oggi nel mondo dominano nuove oligarchie onnipotenti
La politica, dice l´autore, ha perso il suo supporto materiale
I due termini sono ben presenti nel linguaggio pubblico
Marco Revelli è uno studioso che nel suo impegno intellettuale mette passione. Lo si vede anche nel suo ultimo libro, Sinistra Destra. L´identità smarrita (Laterza, pagg. 272, euro 15), che potrebbe altresì intitolarsi, mi pare, «Avventure e disavventure della Sinistra e della Destra verso l´ignoto». Un saggio vivo e interessante.
Il compito ch´egli si è posto è triplice: identificare Sinistra e Destra nei loro valori fondanti e contenuti concettuali; seguire tappe significative della loro evoluzione; ragionare su che cosa ne resta in un mondo come l´attuale il quale presenta tratti del tutto inediti rispetto al passato. L´interrogativo che alla fine incombe è il seguente: una volta smarrite le rispettive identità, cosa rimane, quale il disordine, e quali i compiti possibili di una Sinistra che molti suppongono stia conoscendo la scomposizione finale dei tratti che la storia le aveva in passato conferito?
L´intrigo, insomma, con cui Revelli si misura è che da un lato i termini di destra e sinistra restano ben presenti nel linguaggio pubblico, ma dall´altro la loro identità è, appunto, «smarrita», mentre cresce, magmatico, il centro. Di fronte alla possibilità di una ricostruzione delle identità, Revelli, per prudenza, preferisce tacere, poiché vede l´ostacolo: l´enorme difficoltà dei soggetti, a partire da quello amato, la Sinistra, di ridarsi forma e riprendere sostanza nel mondo globalizzato.
La Destra e la Sinistra hanno costituito le loro tavole contrapposte - ricostruisce l´autore - secondo questi essenziali tratti identificativi. Da una parte la bandiera del progresso, il significato positivo conferito al divenire, il valore dell´eguaglianza, dell´autodirezione, della democrazia, l´approccio razionalistico e progettuale nella lotta per cambiare le cose, l´amore per il logos; dall´altra la bandiera della conservazione, l´appello ai beni della tradizione, il valore delle diseguaglianze, dell´eterodirezione, degli ordinamenti gerarchici, l´ostilità al razionalismo accusato di antistoricità, l´amore per il mythos. Questi i modelli staticamente tratteggiati; modelli che poi nel farsi concreto della storia hanno subito contaminazioni e incroci.
Per addentrarsi nelle vicende di siffatti modelli e relative contaminazioni, Revelli si appoggia per la destra alle classificazioni di René Rémond, per la sinistra di Georges Lefranc. E ne ricava l´individuazione di tre destre e tre sinistre. Le destre sono quella tradizionalista, che si caratterizza nel senso di un intransigente inegualitarismo e assolutismo; l´orleanista, che recupera il senso della storia ma ambisce a gestire il movimento senza sostanziali mutamenti nel segno della continuità, piega liberalismo e elementi di democrazia al primato delle buone élites; la bonapartista, la destra anomala che usa la rivoluzione e il suffragio universale contro le istituzioni parlamentari, vuole le masse nazionalizzate nello Stato autoritario, distrugge sia le sinistre sia le altre destre.
Ed ecco le sinistre: la liberale e parlamentare, che intende l´eguaglianza in maniera «relativamente ristretta», è nemica dei privilegi artificiali, si estende dalla borghesia agli strati inferiori, è individualista, affida la sua rappresentanza alle minoranze acculturate e professionalizzate; la sinistra democratica, rispecchiata dapprima nella costituzione giacobina del 1793, la quale patrocina in via di principio l´accesso di tutti alla partecipazione politica, tende ad assumere un tratto iperpolitico per il ruolo che affida al governo dei virtuosi contro i suoi nemici; la sinistra egualitaria, sociale, che, partendo da Jacques Roux, da Babeuf e Maréchal e arrivando a Marx e Lenin, oppone i ricchi ai poveri, i borghesi ai lavoratori, persegue il grande salto dall´eguaglianza formale alla sostanziale, la mobilitazione delle masse contro gli sfruttatori, la proprietà comune, l´autodeterminazione del popolo e in attesa che questa sia matura ne affida la causa alla dittatura dei pochi.
Fissate le categorie, indicati i grandi tipi della sinistra, Revelli - che, e non capisco perché, sorvola sulle sinistre che hanno scritto la storia della seconda metà dell´Ottocento e del Novecento, vale a dire il socialismo rivoluzionario e riformista, la socialdemocrazia e il comunismo al potere, il socialismo liberale (che hanno, tra l´altro, offerto esempi di tante «contaminazioni») - corre al mondo d´oggi, all´ultimo Novecento «quando - scrive - il dibattito su destra e sinistra subisce una brusca modificazione», in cui la vecchia grammatica non appare più in grado di servire alla coniugazione del discorso politico e sociale e la distinzione tra destra e sinistra viene vieppiù giudicata obsoleta.
Sia che un Alex Langer esca a dire che il movimento ecologista non può essere né di destra né di sinistra, un Chistopher Lasch che le distinzioni tra destra e sinistra si sono ridotte a dissensi tattici, o un Anthony Giddens che troppe cruciali questioni nel mondo non portano segni leggibili con le vecchie categorie e che, defunto il socialismo come «teoria di gestione dell´economia, una delle principali linee divisorie tra destra e sinistra è scomparsa», ebbene la questione dell´identità smarrita, naturalmente anche della destra ma soprattutto della sinistra, giganteggia perché il panorama storico e sociale è qualitativamente mutato.
E che sia così mutato Revelli, a mio avviso giustamente, concorda, e spiega a sua volta perché. Con l´avvento della fase postindustriale che in misura crescente riduce il peso della classe operaia e del lavoro dipendente nelle forme tradizionali, si è spezzato il tradizionale cordone ombelicale tra il soggetto economico-sociale e la sinistra politica organizzata tesa a dirigerlo e a costruire un nuovo ordine. Con la crisi dello Stato nazionale in quanto spazio politico definito della dialettica conflittuale destra-sinistra, ha preso il sopravvento la dimensione dello spazio globalizzato indefinito, in cui grandeggiano «le nuove oligarchie onnipotenti» che dominano finanza, industria, allocazione delle risorse, mezzi di comunicazione. In conseguenza, «è davvero la politica ad aver perduto il proprio supporto materiale». Svuotati la sovranità dello Stato, l´autonomia della politica dalle sfere della moralità e dell´economia, i diritti universali, democrazia e legittimità quali fondamenti del potere. In luogo dello spazio solido degli Stati determinati è andato costituendosi un immenso universale spazio liquido, nel quale «la dinamica egualitaria», anima costitutiva e trainante della sinistra conosce un processo di sospensione e persino di rovesciamento.
Il quadro delineato da Revelli nel descrivere il mondo globalizzato, con molti riferimenti a Ulrich Beck e Zygmunt Bauman, credo colga bene le tendenze di fondo, ma credo anche che egli, nel farlo, prema troppo l´acceleratore nel ritenere dissolta la sovranità degli Stati non soltanto piccoli e medi ma anche grandi e nel vedere il potere delle oligarchie dominanti collocarsi, per effetto della «rivoluzione spaziale», al di sopra del globo in posizione di piena autonoma dalla politica. A mio giudizio, le cose stanno in parte sostanziale altrimenti. Né gli Stati Uniti, né la Russia, la Cina, l´India, l´Unione Europea si configurano come realtà statali in cui il potere politico abbia cessato di detenere un sostanzioso potere. Quanto alle grandi oligarchie economiche, esse sì agiscono al di là di ogni confine, ma hanno baricentri che si innervano nei grandi Stati, con le quali mantengono rapporti organici. Mirano in molti casi, e con successo, a vanificare l´autonomia della politica, ma non sempre riescono a farla da padroni). Occorre tener conto delle tendenze, ma anche dei loro limiti (e su questo tema stimolanti riflessioni ha svolto recentemente Sabino Cassese).
Revelli vede imporsi nuove gerarchie di «signori» e «servi della gleba», la democrazia conoscere una deriva accentuatamente oligarchica, nel quadro di un´inedita «rifeudalizzazione» che fa emergere tutta la profondità del «vulnus inferto al principio di eguaglianza dalla mutazione socio-spaziale in corso». E la sinistra, che fa e che può fare? Convengo con lui pienamente che la sinistra in quanto soggetto all´altezza di inediti compiti in vero boccheggi, e appaia smarrita culturalmente e inefficace praticamente. Ma, se il quadro delle diseguaglianze sociali e politiche è quello che delinea Revelli, bisogna davvero escludere che il morto batta infine un colpo? Se non sarà in grado di farlo, se alle sfide non seguiranno le risposte, allora bisognerà concludere che l´identità della sinistra è non solo smarrita, ma perduta. Di fronte alla possibilità che gli «accenni di alternativa» alla crisi in atto non prendano corpo, l´autore così tira le somme: in tal caso «il mondo che abbiamo di fronte sarà assai peggiore di quello (non certo dolce) che abbiamo alle spalle».
Corriere della Sera 27.10.07
Giordano: «Bravo il governatore, sugli stipendi sono con lui»
di Maria Teresa Meli
«Sono in totale sintonia con il governatore di Bankitalia E questo non mi crea nessun turbamento»
ROMA — «Ancora una volta mi capita di essere in totale sintonia con il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi »: a parlare così è il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano.
Ma non provoca qualche imbarazzo al leader del Prc questa presa di posizione a favore del numero uno di Bankitalia? «Sinceramente — è la risposta immediata di Giordano — ciò non mi provoca nessun turbamento, né alcuna crisi di identità. Anzi». Allora è vero che Rifondazione comunista, come registra un tam tam degli ultimi giorni, potrebbe appoggiare un governo guidato da Draghi, benché Fausto Bertinotti abbia detto e ridetto che di esecutivi tecnici non vuol sentir parlare? «Non è di questo che stiamo discutendo, non mi faccia dire cose che non ho detto», replica il segretario di Rifondazione comunista, il quale, però, non sembra voler eludere l'argomento «governatore Bankitalia» perché subito dopo aggiunge con un sospiro: «Certo è meglio Draghi di Padoa-Schioppa».
Sembrerebbe un scenario inedito quello che vede il Prc marciare all'unisono con il governatore della Banca d'Italia, ma Giordano assicura che così non è: «Quel che ha detto Draghi evidenzia che nel nostro Paese esiste una gigantesca questione retributiva e salariale». E ancora, nuovamente in sintonia con Draghi: «Il governatore di Bankitalia è assolutamente nel giusto quando sottolinea che bisogna far tornare a crescere in modo stabile le retribuzioni, che in Italia sono assestate ai livelli più bassi rispetto al resto d'Europa ». E al leader di Rifondazione comunista è assai piaciuto un altro passaggio dell'intervento di Mario Draghi: «Il governatore ha anche sottolineato il tasso di precarizzazione dovuto alla cosiddetta flessibilità e come questo colpisce le fasce giovanili e mi pare che abbia anche criticato i processi di accumulazione e la rendita perché vanno a discapito degli investimenti ».
Insomma un Giordano in sorprendente sintonia con il governatore di Bankitalia: «Non c'è proprio niente di sorprendente — obietta lui —, io sono molto soddisfatto delle dichiarazioni di Draghi, che parte da una cultura economica diversa dalla nostra ma che è infinitamente meglio di tanti esponenti del Partito democratico. Perciò lo voglio ripetere con forza: non provo proprio nessun imbarazzo a dare ragione al governatore di Bankitalia. E a questo proposito vorrei ricordare che proprio lo stesso Draghi recentemente ha più volte autorevolmente posto la questione dell'armonizzazione della tassazione delle rendite finanziarie ». Per farla breve, Giordano vuole dire: «Non siamo noi comunisti a fare questa proposta come pretendono di far credere i centristi della coalizione. Recentemente tutta la sinistra ha fatto una proposta unitaria per trovare le risorse per sostenere l'incremento dei livelli retributivi. E queste risorse possono essere proprio ricavate dall'armonizzazione della tassazione delle rendite finanziarie, come accade in tutto il resto d'Europa».
E Giordano prosegue il suo ragionamento ad alta voce con una punta di veleno: «Anche i sindacati hanno dato ragione a Draghi. Che cosa dice in proposito Veltroni? Aspettiamo di saperlo, perché non si capisce mai cosa voglia veramente il Partito democratico». E se volesse la stessa cosa di Rifondazione, un governo guidato da un personaggio di peso, un personaggio il cui identikit potrebbe corrispondere a un uomo come Draghi? «Di questo non parlo, l'ho già detto. Ripeto: meglio Draghi di Padoa- Schioppa ma altro non voglio aggiungere », taglia corto Giordano chiudendo la conversazione.
Corriere della Sera 27.10.07
La piazza, il Parlamento e il movimentismo della senilità comunista
di Piero Ostellino
Sinistra radicale al governo e in piazza. Per dimenticare i fallimenti del marxismo
Una volta, se un partito al governo non ne condivideva più le politiche, usciva dalla maggioranza e il governo cadeva. Oggi, un partito al governo che non ne condivida le politiche organizza una manifestazione di piazza (dice) «per stimolare il governo». E' una versione aggiornata del Pci berlingueriano, «partito di lotta e di governo», che, a sua volta, era la prosecuzione della «doppiezza» del Pci togliattiano che predicava la rivoluzione in piazza e praticava il consociativismo con la Democrazia cristiana in Parlamento. Il rivoluzionarismo di piazza e il consociativismo parlamentare hanno bloccato la modernizzazione del Paese, ma hanno anche garantito una certa stabilità sociale. I governi della Prima repubblica non duravano mediamente più di un anno e cadevano quando in Parlamento la lotta — che a Montecitorio era chiamata pudicamente «questione sociale » — prevaleva sulla governabilità, complici anche le molte anime della Dc.
Oggi, i governi, all'interno dei quali c'è chi lotta e governa, sono più stabili, ma non governano per la semplice ragione che i due termini non sono compatibili in una democrazia liberale e in un sistema economico capitalistico e di mercato. Così, la scelta di manifestare in piazza e di restare contemporaneamente al governo è per i partiti della sinistra comunista anche una soluzione consolatoria per le rinunce in sede di governo ai propri principi e alle proprie politiche. Si sputano in piazza i rospi che si sono ingoiati in Consiglio dei ministri, sperando che la piazza non veda che sono rospi, ma li interpreti come «lotta».
Farei, però, torto alla sinistra comunista se dicessi che la sua è una furbata per continuare a viaggiare in auto blu e conservare la propria base elettorale.
Oltre tutto, sarebbe una furbata destinata a durare poco: prima o poi la base si accorgerebbe che sono rospi e la abbandonerebbe per fondare una forza più autenticamente di opposizione. E' piuttosto una dichiarazione di fallimento da parte di chi ha rinunciato alla rivoluzione proletaria ma, al contempo, non ha ancora capito che il comunismo non lo si instaura democraticamente e in un Paese industrialmente avanzato. E' lo stesso errore di previsione — al quale avrebbe riparato il genio di Lenin e di Mao — nel quale erano incorsi i marxisti puri, fedeli interpreti di Marx, i quali si aspettavano che il capitalismo crollasse sotto il peso delle proprie contraddizioni in Germania, il Paese industrialmente più avanzato d'Europa. Lenin avrebbe fornito all'impotente determinismo marxiano — privo altresì di una dottrina dello Stato di transizione al comunismo dopo la rivoluzione vittoriosa — non solo gli strumenti per fare la rivoluzione dove non sarebbe mai scoppiata spontaneamente, ma anche e soprattutto per governare il dopo: un partito di rivoluzionari di professione e il centralismo democratico. Mao avrebbe innestato sulla rivolta nazionalista e anti-coloniale cinese la rivoluzione contadina in luogo di quella del proletariato.
Le circostanze storiche, la struttura sociale ed economica, la sovrastruttura culturale dell'Italia d'oggi non sono paragonabili a quelle della Russia dei primi anni e della Cina di tutta la prima la metà del Novecento. Né Bertinotti né Diliberto hanno le risorse intellettuali e quelle politiche per offrire al loro tardo-marxismo gli strumenti per sperare di instaurare nell'Italia democratica ed economicamente avanzata un regime che assomigli alla loro utopia comunista. Così, quello stare al governo e in piazza è solo una forma di estraniamento e di disadattamento psicologico — non dubito affatto della loro vocazione democratica —di fronte alla vittoria della democrazia liberale e del capitalismo. Parafrasando Lenin, il movimentismo come malattia senile del comunismo.
postellino@corriere.it
Corriere della Sera 27.10.07
Parigi. L'epoca cubista
Picasso mi baciò: profumava di mele
di Evgenij Evtushenko
Sono 350 le opere di Pablo Picasso, esposte in questi giorni al Museo parigino a lui dedicato, al numero cinque di rue de Thorigny (catalogo Flammarion). Il gran ciclo del cubismo picassiano, cézaniano, analitico, ermetico, sintetico, rococò, decorativo... Dal 1912 al 1920. L'occasione? I cento anni delle Demoiselles d'Avignon (1907). «Siamo i primitivi di una nuova civiltà» diceva, in proposito, Guillaume Apollinaire.
Che straordinario uomo e pittore, Picasso. Ne ho un ricordo limpido. Nella primavera del 1963 sono stato suo ospite nella casa- studio al Sud della Francia.
Un ometto basso con il viso rugoso da vecchia saggia lucertola, la quale chissà quante volte aveva lasciato la propria coda nelle mani di coloro che la volevano afferrare e addomesticare, mi mostrava le sue opere. Lui stesso però non le guardava, guardava me.
Sembrava che gli occhi giocosi, scintillanti dalla curiosità, mi scomponessero in vari elementi e poi mi ricomponessero di nuovo in altre combinazioni che solo l'immaginazione di quest'uomo poteva dominare.
La cornice del quadro Il ratto delle Sabine, dipinto nelle tonalità rosa sporco, dondolava, poggiata sulla sua pianella eschimese in pelle di foca con la punta in su messa a piede nudo.
Le braccia coperte da peli bianchi un po' buffi, con la fulmineità di un mago, mi mostravano ora le composizioni mitologiche a olio, ora i disegni a inchiostro alle opere di Dostoevskij, ora gli schizzi simbolici a matita.
Le interrelazioni sicure e noncuranti delle mani di Picasso con le sue opere assomigliavano a quelle delle mani di un puparo con i suoi protagonisti, condotti alla grande sfilata con l'aiuto dei fili appena visibili. I lavori danzavano nelle mani, s'inchinavano, sparivano...
«E allora? Ti è piaciuto qualcosa? Onestamente, però... Quello che ti è piaciuto, te lo regalo...».
Picasso cercava proprio di penetrarmi con lo sguardo. Borbottai che onestamente preferivo «il periodo blu» e non questi ultimi lavori.
Due uomini con facce olivastre tese da membri di un'organizzazione clandestina, che non mi erano stati presentati per nome, evidentemente per motivi di segretezza (Picasso aveva chiesto al fotoreporter dell'Humanité di non fotografarli), si guardarono negli occhi con ancora più tensione.
Inaspettatamente per tutti Picasso scoppiò a ridere entusiasta, chiese dello champagne che apparve immediatamente sul vassoio nelle mani della padrona di casa, come se fosse stato creato dal nulla davanti a noi dall'immaginazione del genio.
«È ancora viva la madre Russia! È viva! — gridava Picasso, agitando il bicchiere —. È vivo lo spirito di Nastasja Filippovna di Dostoevskij che getta il denaro nel fuoco. Perché ogni mia firma, anche sotto un disegno mediocre, vale non meno di una decina di migliaia di dollari!».
Picasso mi abbracciò e mi diede un bacio. Profumava di mele fresche e di colore fresco.
I due giovanotti con le facce olivastre tese nel frattempo avevano arrotolato tre tele, indicate con un gesto da padrone e, senza salutare, si erano dissolti in un mondo immenso, pieno di prigioni e complotti.
(Traduzione di Ljudmilla Psenitsnaja)
Nell'immagine Pablo Picasso: «Natura morta» (1912)
Nell'immagine Pablo Picasso: «Natura morta» (1912)
PICASSO CUBISTA, Parigi, Musée Picasso, sino al 7/1. Tel. +331/42712521
il manifesto 27.10.07
Allarme «Unità», da Gramsci a Feltri
di Roberta Carlini
Non è ancora ufficiale, ma sembra fatta: il giornale che fu organo del Pci sta per essere comperato dalla famiglia Angelucci, proprietaria di «Libero». Allarme in redazione. Ma anche nel Pd, furioso Veltroni. Dietro la vendita una manovra per sottrarre il giornale all'influenza del suo ex direttore, che avrebbe voluto altri acquirenti
La grana dell'Unità scoppia sotto il trono sul quale sarà oggi incoronato Walter Veltroni. Ai 2.800 costituenti che oggi si riuniranno alla Fiera di Rho-Pero arriva il grido di dolore dell'assemblea dei redattori del quotidiano, sotto la forma di una lettera aperta, nella quale si chiede ai costituenti del Pd di non lasciare andare al macero il quotidiano fondato a Antonio Gramsci. «Avete bisogno di una voce come quella dell'Unità». Che sta per finire dritta dritta nel patrimonio della famiglia Angelucci, ras delle cliniche private (3.000 posti letto tra Lazio e Puglia) nonché editore del quotidiano di destra Libero. Famiglia che con un bel pacco di soldi e una trattativa lampo ha soffiato l'Unità ad altri pretendenti, troppo tentennanti benché benedetti dall'ex-direttore dell'Unità Veltroni. Una storiaccia, che spacca il Pd - anzi, gli ex-ds dentro il Pd -, fa infuriare la redazione, sconcerta i lettori e lascia a secco i veltroniani. Sui quali si appuntano le residue speranze di chi non riesce a digerire l'ultimo passaggio della storia dell'Unità, da Antonio Gramsci a Vittorio Feltri.
L'operazione, anticipata nei giorni scorsi da alcuni quotidiani, pare ormai già fatta. Sul piatto gli Angelucci hanno già messo 17 milioni. A vendere non è il partito - che non è più proprietario del giornale - ma gli azionisti dell'Ad. Ossia quei soci privati che, dopo la chiusura dell'Unità, si misero in cordata per riaprire il quotidiano, il quale però, in virtù dell'impegno preso dai gruppi parlamentari, restava e resta destinatario dei fondi pubblici come giornale del partito. L'Ad controlla l'82% della Nieche, insieme a un'altra società messa su dall'Unipol e altre cooperative controlla poi la Nse, proprietaria della testata. Dunque comprando Ad gli Angelucci assumerebbero il controllo della testata, che potrebbero poi rendere totalitario se rilevassero anche le quote delle coop. Per questo i 17 milioni di cui si parla potrebbero salire almeno a 25.
Anche se la presidente del cda Marialina Marcucci smentisce che il giornale sia in vendita, l'operazione pare pronta sin nei dettagli. Sulla cessione delle quote ci sarebbe già un preliminare scritto, mentre gli uomini degli Angelucci stanno già scartabellando i conti del giornale per la due diligence. Pare anche che sia scritto nero su bianco il rispetto del piano industriale appena varato: la qual cosa viene apprezzata dall'amministratore delegato dell'Unità, Giorgio Poidomani; il quale però, senza entrare in valutazioni sulla portata politica dell'operazione, e ammettendo che c'è un problema, nel fatto che lo stesso editore avrà «due giornali con una netta contrapposizione di linea, come Libero e l'Unità», sottolinea una cruda realtà: «La crisi dell'editoria c'è, da tre anni perdiamo copie e denaro e riusciamo a limitare i danni solo in virtù di una gestione attentissima e sacrifici: serve una spinta di entusiasmo, investimenti, rilancio». Soldi. Ma gli Angelucci sono stati i soli, a mettere soldi sul piatto de l'Unità? E che fine hanno fatto le altre cordate di petrolieri e costruttori, forieri di altrettanti conflitti di interesse ma con pedigree più democratico?
Sono le stesse domande che pone il sindacato interno del quotidiano. Finora nulla di ufficiale è stato comunicato ai dipendenti. Solo lunedì il Comitato di redazione incontrà Marcucci, per poi riferire a un'assemblea generale che si preannuncia infuocata. «Non abbiamo idea di quale sia il progetto editoriale», dice Roberto Brunelli del Cdr, il cui comunicato diffuso ieri mette esplicitamente in relazione le manovre sull'Unità con le vicende del partito democratico. «C'è un nuovo partito, c'è il centrosinistra in mutamento. Chi compra e chi non compra lo fa in questo quadro, rispetto al quale la collocazione dell'Unità non è certo indifferente», dice Brunelli. Dove il «chi compra» ha i piedi in molte staffe: da imprenditore, dipende dal potere politico circa le decisioni di politica sanitaria; da editore, vuole stare a destra e a manca. «Ha ragione Furio Colombo, quando nota che in nessun posto al mondo un solo editore controlla giornali di destra e di sinistra», dice Enrico Fierro, inviato dell'Unità, che attribuisce «un ruolo nefasto a Marcucci e all'attuale proprietà», che avrebbero allontanato altri candidati. Il riferimento è alle voci di una trattativa con Moratti, condotta attraverso l'editore Dalai. Ma c'è anche chi parla di un'altra possibile cordata, fatta da editori locali. L'una e l'altra avrebbero avuto caratteri più accettabili, e soprattutto la benedizione attiva di Walter Veltroni.
L'offerta Angelucci affonda queste manovre. Al punto da far ipotizzare a qualcuno che sia questo il vero obiettivo: soffiare il giornale all'area di influenza veltroniana, anche a caro prezzo - e secondo rumors della redazione il prezzo sarebbe salato, sui 50 milioni in totale (ma questa cifra viene giudicata invece poco attendibile dall'amministrazione dell'Unità). Fatto sta che l'interesse degli Angelucci pare confortato da una parte degli ex ds, e soprattutto dal tesoriere Sposetti: tra le voci che ieri si sono levate a commentare con preoccupazione le vicende dell'Unità, non si sono sentiti i dalemiani. Mentre Piero Fassino si sarebbe fatto vivo con una telefonata al direttore Padellaro, dicendosi poco informato su tutta la vicenda ma rassicurandolo sulla tenuta della direzione. Lo stesso direttore, rispondendo a una lettera di Pietro Folena, ha scritto ieri: «Le proprietà possono cambiare, che cambino le nostre teste è più difficile».
il Riformista 27.10.07
Gay. Polemiche sulla pubblicità contro la discriminazione sessuale
Suggerisce l’idea che l’omosessualità sia inevitabile
Campagna Homosexuel, più che uno shock una sciocchezza
di Francesco Longo
Franco Grillini è molto contento per la campagna contro le discriminazioni - lanciata dalla Regione Toscana - il cui concetto è così riassumibile: "omosessuali si nasce". Ma se omofobi non si nasce, c'è il rischio che, dopo una campagna così, forse ci si muoia.
Lo slogan del manifesto annuncia: «l'orientamento sessuale non è una scelta», ed è accompagnato dall'immagine di un neonato che porta al polso un braccialetto con su scritto “homosexuel”. L'intenzione del messaggio è piuttosto evidente: si tratta di una campagna contro le discriminazioni sessuali, e le associazioni dei gay infatti applaudono soddisfatte.
I detrattori parlano invece di campagna shock, mentre forse si dovrebbe parlare di una campagna sciocca, capace di tradire il proprio intento nel momento stesso in cui tenta di enunciarlo.
Ciò che la campagna si incarica di diffondere è infatti l'idea che gli omosessuali non devono essere trattati in modo diverso, ghettizzati, ridicolizzati, etc. Benissimo.
C'è però un tale divario tra quello che il manifesto cerca di dire e il modo con cui lo enuncia, che le premesse teoriche paiono annientarsi mentre vengono espresse. L'immagine racconta la storia di una separazione, di una differenza irriducibile tra gli esseri umani, quelli che nascono eterosessuali e quelli che nascono omosessuali.
Per come è stata costruita questa campagna, l'idea di uguaglianza svanisce. Mentre il manifesto lavora per affermare che non bisogna nutrire diffidenza o distacco (che cioè niente ci deve tenere lontani da un omosessuale) è all'opera qualcosa che perverte e dissolve il messaggio stesso. Questa campagna infatti marca definitivamente la differenza: sottolinea che quella differenza sessuale è proprio il discrimine, il nucleo fondamentale, primario, con cui si possono raggruppare, e distinguere gli uomini e le donne. Invece di dire “noi e loro” siamo fatti tutti della stessa pasta e poi, che qualcuno sia eterosessuale e altri no, non importa, resta che siamo tutti esseri umani; questo manifesto annuncia che in realtà le cose non stanno affatto così. Nasciamo separati. Siamo stirpi diverse. La vita di un omosessuale e quella di un eterosessuale sono distinte fin dall'origine, e seppure in qualche punto le vite potranno incontrarsi, questo non dovrà ingannarci, la verità è che si viaggia, già dalla notte dei tempi, su binari paralleli. Invece di farci capire che siamo uguali, insinua il sospetto che non lo siamo.
Ciò che la campagna vorrebbe sostenere, che l'orientamento sessuale non deve creare circospezione o attriti, viene ritrattato implicitamente da ciò che viene rappresentato. Lì sul polso dove di solito i bambini portano scritto il loro nome, il nome è sparito, perché l'identità coincide e si esaurisce nella propria spinta sessuale.
Ma in questo messaggio fuori controllo si può notare anche un altro curioso elemento.
Un frequente bersaglio delle comunità gay è il concetto di Natura. Questo concetto viene demolito perché è capace di alimentare frasi che definiscono gli atteggiamenti omosessuali come "contro-Natura". Solo disfacendosi del concetto di Natura si può evitare che qualcuno possa essere tacciato di trasgredirne, col comportamento, le regole. A vedere bene questa immagine, però, qualcosa suona ulteriormente stonato. Nel neonato omosessuale, nell'idea stessa che l'omosessualità non sia qualcosa che si sviluppa col tempo, ma che è qualcosa di inevitabile, innata, spontanea, un dato di fatto inalterabile, si vede rispuntare con una forza inaudita un'antica idea, proprio quella della Natura e delle sue imperscrutabili leggi. Omosessuali forse ci si nascerà, imprudenti chissà.