sabato 27 ottobre 2007

l’Unità 27.10.07
Legge elettorale
D’Alema: «Scegliere il modello tedesco
accompagnato da riforme costituzionali»


Le riforme, istituzionali e della legge elettorale, sono «necessarie», Silvio Berlusconi «non vuole» perché «vede il miraggio delle elezioni», ma questo danneggia il paese. Lo dice il vice-premier Massimo D’Alema, in una intervista al Tg1.
«Le riforme sono necessarie, questa legislatura ha come missione le riforme, chi si oppone produce un danno al paese». Bisogna «correggere una legge elettorale sbagliata e fare anche alcune riforme della Costituzione». «Berlusconi non vuole, - aggiunge - vede il miraggio delle elezioni, è alla ricerca di una rivincita personale. Ma tutto questo non ha nulla a che vedere con gli interessi del Paese».
Per D’Alema una riforma istituzionale che «accompagni» quella elettorale, dovrebbe contemplare, tra l’altro il primo ministro eletto dal Parlamento, la sfiducia costruttiva, una sola Camera legislativa e una che rappresenti le regioni.
«Credo che il massimo consenso vada al modello tedesco che ha il vantaggio di ridurre la frammentazione. Credo che possa essere accompagnato anche da riforme costituzionali» aggiunge il vicepresidente del Consiglio.
Tra le riforme, D’Alema indica la possibilità di avere una Camera con funzione legislativa e una che rappresenti le Regioni e la sfiducia costruttiva. Insomma quella che disegna D’Alema è una riforma complessa non solo elettorale ma anche costituzionale che quindi richiede la ricerca di un’ampia maggioranza ma anche tempi abbastanza lunghi.
Da D’Alema anche una battuta sulla immediata attualità politica in questi giorni in cui il dibattito politico è tutto orientato sulla tenuta del governo: «Un chiarimento politico è necessario: il presidente del Consiglio lo ha chiesto e ritengo abbia ottenuto un primo risultato».

l’Unità 27.10.07
L’appello. Lettera aperta ai costituenti del Pd sul futuro de «l’Unità»
L’assemblea dei redattori


Caro Prodi, caro Veltroni,
cari Costituenti,
oggi è un giorno speciale per voi, per il centrosinistra italiano, ma sono giorni complicati per l’Unità, che è una delle voci più autorevoli e articolate di questo stesso centrosinistra. Oggi il futuro del giornale pare molto incerto, con prospettive per alcuni aspetti inquietanti. Molti giornali e molti osservatori parlano di noi e si pongono, come noi, delle domande: davvero arrivano gli Angelucci, proprietari di Libero? E qual è il loro progetto? Quali garanzie ci danno gli eventuali nuovi editori in termini di autonomia del giornale e per ciò che concerne la sua collocazione storica?
Sono, noi crediamo, domande legittime. Che ora rivolgiamo anche a voi: non credete che la costruzione del Partito democratico abbia ancora bisogno - nella sua pluralità - di una voce come quella de l’Unità, che abbia ancora bisogno di muoversi all’interno di un panorama dell’informazione in cui non vengano meno pezzi importanti, proprio in un momento di costruzione e di crescita come questo? Non credete che ci sia bisogno di voci forti, che rispondano a progetti editoriali chiari, e che pure i lettori abbiano diritto di sapere con limpidezza che lingua parla il loro giornale?
Per quanto ci riguarda, in questo quadro ribadiamo alcuni punti fermi, validi per chiunque si ponga alla testa della società editrice del giornale. Intanto l’autonomia dell’Unità e di chi ci lavora, che va tutelata come bene prezioso per la libera informazione di questo paese. È un bene che non è in vendita. Sono necessarie strategie e risorse che consentano lo sviluppo del giornale, garantendo anche l’occupazione e la dignità dei suoi dipendenti. Ne va garantita la collocazione storica nel panorama della stampa democratica, come pure la sua vocazione di giornale nazionale.
La presidente della Nie, Marialina Marcucci, in un’intervista fa intendere che i giochi sono ancora aperti. Vi sarebbero più soggetti interessati ad entrare nel capitale azionario del giornale. Eppure, dettagliate ricostruzioni giornalistiche ci dicono altro. Ci dicono che l’accordo preliminare con gli Angelucci è già stato firmato, e che sono in corso tutte le verifiche tecniche del caso.
Il quadro è confuso. Lunedì il Cdr avrà un chiarimento diretto con la presidente del Cda, si spera esauriente. Quello che però appare chiaro è che l’azienda ha bisogno di capitali freschi, e altrettanto evidente è come negli ultimi mesi il giornale abbia continuato a «galleggiare» senza opportuni investimenti, senza il rilancio promesso, senza cogliere appieno tutte le opportunità che una fase storica come quella della nascita del Partito democratico poteva offrire.
Ci si augura che presto emergano novità. Che altri si facciano sentire, che si mettano in atto tutte le iniziative volte a favorire ulteriori investimenti nell’Unità, sapendo che il mercato ha già dato segno di valutare positivamente le potenzialità d’espansione del giornale.
Il fatto è, cari costituenti, che l’Unità è un giornale vivo. È, e vuole continuare ad essere, anche il vostro giornale. È dentro il dibattito politico. Continua a rappresentare una ricchezza per il pluralismo dell’informazione, una voce libera tanto più necessaria oggi, con un quadro politico così in fibrillazione. Quale può essere il destino dell’Unità, se il suo editore è lo stesso di Libero? Quale può essere la logica editoriale di questa operazione siglata, non certo a caso, proprio alla vigilia della nascita del Partito democratico? Quali garanzie vengono date ai redattori de l’Unità, ai suoi lettori e al centrosinistra nel suo complesso? È in gioco la vita stessa de l’Unità. La difenderemo con determinazione. Questa non è solo la nostra battaglia, è la battaglia di tutti.

Repubblica 27.10.07
Destra & sinistra
Che cosa vuol dire aver perso l’identità
di Massimo L. Salvadori


Tramontano le vecchie distinzioni. Ma crescono le sfide. Un saggio di Marco Revelli
Oggi nel mondo dominano nuove oligarchie onnipotenti
La politica, dice l´autore, ha perso il suo supporto materiale
I due termini sono ben presenti nel linguaggio pubblico

Marco Revelli è uno studioso che nel suo impegno intellettuale mette passione. Lo si vede anche nel suo ultimo libro, Sinistra Destra. L´identità smarrita (Laterza, pagg. 272, euro 15), che potrebbe altresì intitolarsi, mi pare, «Avventure e disavventure della Sinistra e della Destra verso l´ignoto». Un saggio vivo e interessante.
Il compito ch´egli si è posto è triplice: identificare Sinistra e Destra nei loro valori fondanti e contenuti concettuali; seguire tappe significative della loro evoluzione; ragionare su che cosa ne resta in un mondo come l´attuale il quale presenta tratti del tutto inediti rispetto al passato. L´interrogativo che alla fine incombe è il seguente: una volta smarrite le rispettive identità, cosa rimane, quale il disordine, e quali i compiti possibili di una Sinistra che molti suppongono stia conoscendo la scomposizione finale dei tratti che la storia le aveva in passato conferito?
L´intrigo, insomma, con cui Revelli si misura è che da un lato i termini di destra e sinistra restano ben presenti nel linguaggio pubblico, ma dall´altro la loro identità è, appunto, «smarrita», mentre cresce, magmatico, il centro. Di fronte alla possibilità di una ricostruzione delle identità, Revelli, per prudenza, preferisce tacere, poiché vede l´ostacolo: l´enorme difficoltà dei soggetti, a partire da quello amato, la Sinistra, di ridarsi forma e riprendere sostanza nel mondo globalizzato.
La Destra e la Sinistra hanno costituito le loro tavole contrapposte - ricostruisce l´autore - secondo questi essenziali tratti identificativi. Da una parte la bandiera del progresso, il significato positivo conferito al divenire, il valore dell´eguaglianza, dell´autodirezione, della democrazia, l´approccio razionalistico e progettuale nella lotta per cambiare le cose, l´amore per il logos; dall´altra la bandiera della conservazione, l´appello ai beni della tradizione, il valore delle diseguaglianze, dell´eterodirezione, degli ordinamenti gerarchici, l´ostilità al razionalismo accusato di antistoricità, l´amore per il mythos. Questi i modelli staticamente tratteggiati; modelli che poi nel farsi concreto della storia hanno subito contaminazioni e incroci.
Per addentrarsi nelle vicende di siffatti modelli e relative contaminazioni, Revelli si appoggia per la destra alle classificazioni di René Rémond, per la sinistra di Georges Lefranc. E ne ricava l´individuazione di tre destre e tre sinistre. Le destre sono quella tradizionalista, che si caratterizza nel senso di un intransigente inegualitarismo e assolutismo; l´orleanista, che recupera il senso della storia ma ambisce a gestire il movimento senza sostanziali mutamenti nel segno della continuità, piega liberalismo e elementi di democrazia al primato delle buone élites; la bonapartista, la destra anomala che usa la rivoluzione e il suffragio universale contro le istituzioni parlamentari, vuole le masse nazionalizzate nello Stato autoritario, distrugge sia le sinistre sia le altre destre.
Ed ecco le sinistre: la liberale e parlamentare, che intende l´eguaglianza in maniera «relativamente ristretta», è nemica dei privilegi artificiali, si estende dalla borghesia agli strati inferiori, è individualista, affida la sua rappresentanza alle minoranze acculturate e professionalizzate; la sinistra democratica, rispecchiata dapprima nella costituzione giacobina del 1793, la quale patrocina in via di principio l´accesso di tutti alla partecipazione politica, tende ad assumere un tratto iperpolitico per il ruolo che affida al governo dei virtuosi contro i suoi nemici; la sinistra egualitaria, sociale, che, partendo da Jacques Roux, da Babeuf e Maréchal e arrivando a Marx e Lenin, oppone i ricchi ai poveri, i borghesi ai lavoratori, persegue il grande salto dall´eguaglianza formale alla sostanziale, la mobilitazione delle masse contro gli sfruttatori, la proprietà comune, l´autodeterminazione del popolo e in attesa che questa sia matura ne affida la causa alla dittatura dei pochi.
Fissate le categorie, indicati i grandi tipi della sinistra, Revelli - che, e non capisco perché, sorvola sulle sinistre che hanno scritto la storia della seconda metà dell´Ottocento e del Novecento, vale a dire il socialismo rivoluzionario e riformista, la socialdemocrazia e il comunismo al potere, il socialismo liberale (che hanno, tra l´altro, offerto esempi di tante «contaminazioni») - corre al mondo d´oggi, all´ultimo Novecento «quando - scrive - il dibattito su destra e sinistra subisce una brusca modificazione», in cui la vecchia grammatica non appare più in grado di servire alla coniugazione del discorso politico e sociale e la distinzione tra destra e sinistra viene vieppiù giudicata obsoleta.
Sia che un Alex Langer esca a dire che il movimento ecologista non può essere né di destra né di sinistra, un Chistopher Lasch che le distinzioni tra destra e sinistra si sono ridotte a dissensi tattici, o un Anthony Giddens che troppe cruciali questioni nel mondo non portano segni leggibili con le vecchie categorie e che, defunto il socialismo come «teoria di gestione dell´economia, una delle principali linee divisorie tra destra e sinistra è scomparsa», ebbene la questione dell´identità smarrita, naturalmente anche della destra ma soprattutto della sinistra, giganteggia perché il panorama storico e sociale è qualitativamente mutato.
E che sia così mutato Revelli, a mio avviso giustamente, concorda, e spiega a sua volta perché. Con l´avvento della fase postindustriale che in misura crescente riduce il peso della classe operaia e del lavoro dipendente nelle forme tradizionali, si è spezzato il tradizionale cordone ombelicale tra il soggetto economico-sociale e la sinistra politica organizzata tesa a dirigerlo e a costruire un nuovo ordine. Con la crisi dello Stato nazionale in quanto spazio politico definito della dialettica conflittuale destra-sinistra, ha preso il sopravvento la dimensione dello spazio globalizzato indefinito, in cui grandeggiano «le nuove oligarchie onnipotenti» che dominano finanza, industria, allocazione delle risorse, mezzi di comunicazione. In conseguenza, «è davvero la politica ad aver perduto il proprio supporto materiale». Svuotati la sovranità dello Stato, l´autonomia della politica dalle sfere della moralità e dell´economia, i diritti universali, democrazia e legittimità quali fondamenti del potere. In luogo dello spazio solido degli Stati determinati è andato costituendosi un immenso universale spazio liquido, nel quale «la dinamica egualitaria», anima costitutiva e trainante della sinistra conosce un processo di sospensione e persino di rovesciamento.
Il quadro delineato da Revelli nel descrivere il mondo globalizzato, con molti riferimenti a Ulrich Beck e Zygmunt Bauman, credo colga bene le tendenze di fondo, ma credo anche che egli, nel farlo, prema troppo l´acceleratore nel ritenere dissolta la sovranità degli Stati non soltanto piccoli e medi ma anche grandi e nel vedere il potere delle oligarchie dominanti collocarsi, per effetto della «rivoluzione spaziale», al di sopra del globo in posizione di piena autonoma dalla politica. A mio giudizio, le cose stanno in parte sostanziale altrimenti. Né gli Stati Uniti, né la Russia, la Cina, l´India, l´Unione Europea si configurano come realtà statali in cui il potere politico abbia cessato di detenere un sostanzioso potere. Quanto alle grandi oligarchie economiche, esse sì agiscono al di là di ogni confine, ma hanno baricentri che si innervano nei grandi Stati, con le quali mantengono rapporti organici. Mirano in molti casi, e con successo, a vanificare l´autonomia della politica, ma non sempre riescono a farla da padroni). Occorre tener conto delle tendenze, ma anche dei loro limiti (e su questo tema stimolanti riflessioni ha svolto recentemente Sabino Cassese).
Revelli vede imporsi nuove gerarchie di «signori» e «servi della gleba», la democrazia conoscere una deriva accentuatamente oligarchica, nel quadro di un´inedita «rifeudalizzazione» che fa emergere tutta la profondità del «vulnus inferto al principio di eguaglianza dalla mutazione socio-spaziale in corso». E la sinistra, che fa e che può fare? Convengo con lui pienamente che la sinistra in quanto soggetto all´altezza di inediti compiti in vero boccheggi, e appaia smarrita culturalmente e inefficace praticamente. Ma, se il quadro delle diseguaglianze sociali e politiche è quello che delinea Revelli, bisogna davvero escludere che il morto batta infine un colpo? Se non sarà in grado di farlo, se alle sfide non seguiranno le risposte, allora bisognerà concludere che l´identità della sinistra è non solo smarrita, ma perduta. Di fronte alla possibilità che gli «accenni di alternativa» alla crisi in atto non prendano corpo, l´autore così tira le somme: in tal caso «il mondo che abbiamo di fronte sarà assai peggiore di quello (non certo dolce) che abbiamo alle spalle».

Corriere della Sera 27.10.07
Giordano: «Bravo il governatore, sugli stipendi sono con lui»
di Maria Teresa Meli


«Sono in totale sintonia con il governatore di Bankitalia E questo non mi crea nessun turbamento»

ROMA — «Ancora una volta mi capita di essere in totale sintonia con il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi »: a parlare così è il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano.
Ma non provoca qualche imbarazzo al leader del Prc questa presa di posizione a favore del numero uno di Bankitalia? «Sinceramente — è la risposta immediata di Giordano — ciò non mi provoca nessun turbamento, né alcuna crisi di identità. Anzi». Allora è vero che Rifondazione comunista, come registra un tam tam degli ultimi giorni, potrebbe appoggiare un governo guidato da Draghi, benché Fausto Bertinotti abbia detto e ridetto che di esecutivi tecnici non vuol sentir parlare? «Non è di questo che stiamo discutendo, non mi faccia dire cose che non ho detto», replica il segretario di Rifondazione comunista, il quale, però, non sembra voler eludere l'argomento «governatore Bankitalia» perché subito dopo aggiunge con un sospiro: «Certo è meglio Draghi di Padoa-Schioppa».
Sembrerebbe un scenario inedito quello che vede il Prc marciare all'unisono con il governatore della Banca d'Italia, ma Giordano assicura che così non è: «Quel che ha detto Draghi evidenzia che nel nostro Paese esiste una gigantesca questione retributiva e salariale». E ancora, nuovamente in sintonia con Draghi: «Il governatore di Bankitalia è assolutamente nel giusto quando sottolinea che bisogna far tornare a crescere in modo stabile le retribuzioni, che in Italia sono assestate ai livelli più bassi rispetto al resto d'Europa ». E al leader di Rifondazione comunista è assai piaciuto un altro passaggio dell'intervento di Mario Draghi: «Il governatore ha anche sottolineato il tasso di precarizzazione dovuto alla cosiddetta flessibilità e come questo colpisce le fasce giovanili e mi pare che abbia anche criticato i processi di accumulazione e la rendita perché vanno a discapito degli investimenti ».
Insomma un Giordano in sorprendente sintonia con il governatore di Bankitalia: «Non c'è proprio niente di sorprendente — obietta lui —, io sono molto soddisfatto delle dichiarazioni di Draghi, che parte da una cultura economica diversa dalla nostra ma che è infinitamente meglio di tanti esponenti del Partito democratico. Perciò lo voglio ripetere con forza: non provo proprio nessun imbarazzo a dare ragione al governatore di Bankitalia. E a questo proposito vorrei ricordare che proprio lo stesso Draghi recentemente ha più volte autorevolmente posto la questione dell'armonizzazione della tassazione delle rendite finanziarie ». Per farla breve, Giordano vuole dire: «Non siamo noi comunisti a fare questa proposta come pretendono di far credere i centristi della coalizione. Recentemente tutta la sinistra ha fatto una proposta unitaria per trovare le risorse per sostenere l'incremento dei livelli retributivi. E queste risorse possono essere proprio ricavate dall'armonizzazione della tassazione delle rendite finanziarie, come accade in tutto il resto d'Europa».
E Giordano prosegue il suo ragionamento ad alta voce con una punta di veleno: «Anche i sindacati hanno dato ragione a Draghi. Che cosa dice in proposito Veltroni? Aspettiamo di saperlo, perché non si capisce mai cosa voglia veramente il Partito democratico». E se volesse la stessa cosa di Rifondazione, un governo guidato da un personaggio di peso, un personaggio il cui identikit potrebbe corrispondere a un uomo come Draghi? «Di questo non parlo, l'ho già detto. Ripeto: meglio Draghi di Padoa- Schioppa ma altro non voglio aggiungere », taglia corto Giordano chiudendo la conversazione.

Corriere della Sera 27.10.07
La piazza, il Parlamento e il movimentismo della senilità comunista
di Piero Ostellino


Sinistra radicale al governo e in piazza. Per dimenticare i fallimenti del marxismo

Una volta, se un partito al governo non ne condivideva più le politiche, usciva dalla maggioranza e il governo cadeva. Oggi, un partito al governo che non ne condivida le politiche organizza una manifestazione di piazza (dice) «per stimolare il governo». E' una versione aggiornata del Pci berlingueriano, «partito di lotta e di governo», che, a sua volta, era la prosecuzione della «doppiezza» del Pci togliattiano che predicava la rivoluzione in piazza e praticava il consociativismo con la Democrazia cristiana in Parlamento. Il rivoluzionarismo di piazza e il consociativismo parlamentare hanno bloccato la modernizzazione del Paese, ma hanno anche garantito una certa stabilità sociale. I governi della Prima repubblica non duravano mediamente più di un anno e cadevano quando in Parlamento la lotta — che a Montecitorio era chiamata pudicamente «questione sociale » — prevaleva sulla governabilità, complici anche le molte anime della Dc.
Oggi, i governi, all'interno dei quali c'è chi lotta e governa, sono più stabili, ma non governano per la semplice ragione che i due termini non sono compatibili in una democrazia liberale e in un sistema economico capitalistico e di mercato. Così, la scelta di manifestare in piazza e di restare contemporaneamente al governo è per i partiti della sinistra comunista anche una soluzione consolatoria per le rinunce in sede di governo ai propri principi e alle proprie politiche. Si sputano in piazza i rospi che si sono ingoiati in Consiglio dei ministri, sperando che la piazza non veda che sono rospi, ma li interpreti come «lotta».
Farei, però, torto alla sinistra comunista se dicessi che la sua è una furbata per continuare a viaggiare in auto blu e conservare la propria base elettorale.
Oltre tutto, sarebbe una furbata destinata a durare poco: prima o poi la base si accorgerebbe che sono rospi e la abbandonerebbe per fondare una forza più autenticamente di opposizione. E' piuttosto una dichiarazione di fallimento da parte di chi ha rinunciato alla rivoluzione proletaria ma, al contempo, non ha ancora capito che il comunismo non lo si instaura democraticamente e in un Paese industrialmente avanzato. E' lo stesso errore di previsione — al quale avrebbe riparato il genio di Lenin e di Mao — nel quale erano incorsi i marxisti puri, fedeli interpreti di Marx, i quali si aspettavano che il capitalismo crollasse sotto il peso delle proprie contraddizioni in Germania, il Paese industrialmente più avanzato d'Europa. Lenin avrebbe fornito all'impotente determinismo marxiano — privo altresì di una dottrina dello Stato di transizione al comunismo dopo la rivoluzione vittoriosa — non solo gli strumenti per fare la rivoluzione dove non sarebbe mai scoppiata spontaneamente, ma anche e soprattutto per governare il dopo: un partito di rivoluzionari di professione e il centralismo democratico. Mao avrebbe innestato sulla rivolta nazionalista e anti-coloniale cinese la rivoluzione contadina in luogo di quella del proletariato.
Le circostanze storiche, la struttura sociale ed economica, la sovrastruttura culturale dell'Italia d'oggi non sono paragonabili a quelle della Russia dei primi anni e della Cina di tutta la prima la metà del Novecento. Né Bertinotti né Diliberto hanno le risorse intellettuali e quelle politiche per offrire al loro tardo-marxismo gli strumenti per sperare di instaurare nell'Italia democratica ed economicamente avanzata un regime che assomigli alla loro utopia comunista. Così, quello stare al governo e in piazza è solo una forma di estraniamento e di disadattamento psicologico — non dubito affatto della loro vocazione democratica —di fronte alla vittoria della democrazia liberale e del capitalismo. Parafrasando Lenin, il movimentismo come malattia senile del comunismo.
postellino@corriere.it

Corriere della Sera 27.10.07
Parigi. L'epoca cubista
Picasso mi baciò: profumava di mele
di Evgenij Evtushenko


Sono 350 le opere di Pablo Picasso, esposte in questi giorni al Museo parigino a lui dedicato, al numero cinque di rue de Thorigny (catalogo Flammarion). Il gran ciclo del cubismo picassiano, cézaniano, analitico, ermetico, sintetico, rococò, decorativo... Dal 1912 al 1920. L'occasione? I cento anni delle Demoiselles d'Avignon (1907). «Siamo i primitivi di una nuova civiltà» diceva, in proposito, Guillaume Apollinaire.
Che straordinario uomo e pittore, Picasso. Ne ho un ricordo limpido. Nella primavera del 1963 sono stato suo ospite nella casa- studio al Sud della Francia.
Un ometto basso con il viso rugoso da vecchia saggia lucertola, la quale chissà quante volte aveva lasciato la propria coda nelle mani di coloro che la volevano afferrare e addomesticare, mi mostrava le sue opere. Lui stesso però non le guardava, guardava me.
Sembrava che gli occhi giocosi, scintillanti dalla curiosità, mi scomponessero in vari elementi e poi mi ricomponessero di nuovo in altre combinazioni che solo l'immaginazione di quest'uomo poteva dominare.
La cornice del quadro Il ratto delle Sabine, dipinto nelle tonalità rosa sporco, dondolava, poggiata sulla sua pianella eschimese in pelle di foca con la punta in su messa a piede nudo.
Le braccia coperte da peli bianchi un po' buffi, con la fulmineità di un mago, mi mostravano ora le composizioni mitologiche a olio, ora i disegni a inchiostro alle opere di Dostoevskij, ora gli schizzi simbolici a matita.
Le interrelazioni sicure e noncuranti delle mani di Picasso con le sue opere assomigliavano a quelle delle mani di un puparo con i suoi protagonisti, condotti alla grande sfilata con l'aiuto dei fili appena visibili. I lavori danzavano nelle mani, s'inchinavano, sparivano...
«E allora? Ti è piaciuto qualcosa? Onestamente, però... Quello che ti è piaciuto, te lo regalo...».
Picasso cercava proprio di penetrarmi con lo sguardo. Borbottai che onestamente preferivo «il periodo blu» e non questi ultimi lavori.
Due uomini con facce olivastre tese da membri di un'organizzazione clandestina, che non mi erano stati presentati per nome, evidentemente per motivi di segretezza (Picasso aveva chiesto al fotoreporter dell'Humanité di non fotografarli), si guardarono negli occhi con ancora più tensione.
Inaspettatamente per tutti Picasso scoppiò a ridere entusiasta, chiese dello champagne che apparve immediatamente sul vassoio nelle mani della padrona di casa, come se fosse stato creato dal nulla davanti a noi dall'immaginazione del genio.
«È ancora viva la madre Russia! È viva! — gridava Picasso, agitando il bicchiere —. È vivo lo spirito di Nastasja Filippovna di Dostoevskij che getta il denaro nel fuoco. Perché ogni mia firma, anche sotto un disegno mediocre, vale non meno di una decina di migliaia di dollari!».
Picasso mi abbracciò e mi diede un bacio. Profumava di mele fresche e di colore fresco.
I due giovanotti con le facce olivastre tese nel frattempo avevano arrotolato tre tele, indicate con un gesto da padrone e, senza salutare, si erano dissolti in un mondo immenso, pieno di prigioni e complotti.
(Traduzione di Ljudmilla Psenitsnaja)
Nell'immagine Pablo Picasso: «Natura morta» (1912)


PICASSO CUBISTA, Parigi, Musée Picasso, sino al 7/1. Tel. +331/42712521


il manifesto 27.10.07
Allarme «Unità», da Gramsci a Feltri
di Roberta Carlini


Non è ancora ufficiale, ma sembra fatta: il giornale che fu organo del Pci sta per essere comperato dalla famiglia Angelucci, proprietaria di «Libero». Allarme in redazione. Ma anche nel Pd, furioso Veltroni. Dietro la vendita una manovra per sottrarre il giornale all'influenza del suo ex direttore, che avrebbe voluto altri acquirenti

La grana dell'Unità scoppia sotto il trono sul quale sarà oggi incoronato Walter Veltroni. Ai 2.800 costituenti che oggi si riuniranno alla Fiera di Rho-Pero arriva il grido di dolore dell'assemblea dei redattori del quotidiano, sotto la forma di una lettera aperta, nella quale si chiede ai costituenti del Pd di non lasciare andare al macero il quotidiano fondato a Antonio Gramsci. «Avete bisogno di una voce come quella dell'Unità». Che sta per finire dritta dritta nel patrimonio della famiglia Angelucci, ras delle cliniche private (3.000 posti letto tra Lazio e Puglia) nonché editore del quotidiano di destra Libero. Famiglia che con un bel pacco di soldi e una trattativa lampo ha soffiato l'Unità ad altri pretendenti, troppo tentennanti benché benedetti dall'ex-direttore dell'Unità Veltroni. Una storiaccia, che spacca il Pd - anzi, gli ex-ds dentro il Pd -, fa infuriare la redazione, sconcerta i lettori e lascia a secco i veltroniani. Sui quali si appuntano le residue speranze di chi non riesce a digerire l'ultimo passaggio della storia dell'Unità, da Antonio Gramsci a Vittorio Feltri.
L'operazione, anticipata nei giorni scorsi da alcuni quotidiani, pare ormai già fatta. Sul piatto gli Angelucci hanno già messo 17 milioni. A vendere non è il partito - che non è più proprietario del giornale - ma gli azionisti dell'Ad. Ossia quei soci privati che, dopo la chiusura dell'Unità, si misero in cordata per riaprire il quotidiano, il quale però, in virtù dell'impegno preso dai gruppi parlamentari, restava e resta destinatario dei fondi pubblici come giornale del partito. L'Ad controlla l'82% della Nieche, insieme a un'altra società messa su dall'Unipol e altre cooperative controlla poi la Nse, proprietaria della testata. Dunque comprando Ad gli Angelucci assumerebbero il controllo della testata, che potrebbero poi rendere totalitario se rilevassero anche le quote delle coop. Per questo i 17 milioni di cui si parla potrebbero salire almeno a 25.
Anche se la presidente del cda Marialina Marcucci smentisce che il giornale sia in vendita, l'operazione pare pronta sin nei dettagli. Sulla cessione delle quote ci sarebbe già un preliminare scritto, mentre gli uomini degli Angelucci stanno già scartabellando i conti del giornale per la due diligence. Pare anche che sia scritto nero su bianco il rispetto del piano industriale appena varato: la qual cosa viene apprezzata dall'amministratore delegato dell'Unità, Giorgio Poidomani; il quale però, senza entrare in valutazioni sulla portata politica dell'operazione, e ammettendo che c'è un problema, nel fatto che lo stesso editore avrà «due giornali con una netta contrapposizione di linea, come Libero e l'Unità», sottolinea una cruda realtà: «La crisi dell'editoria c'è, da tre anni perdiamo copie e denaro e riusciamo a limitare i danni solo in virtù di una gestione attentissima e sacrifici: serve una spinta di entusiasmo, investimenti, rilancio». Soldi. Ma gli Angelucci sono stati i soli, a mettere soldi sul piatto de l'Unità? E che fine hanno fatto le altre cordate di petrolieri e costruttori, forieri di altrettanti conflitti di interesse ma con pedigree più democratico?
Sono le stesse domande che pone il sindacato interno del quotidiano. Finora nulla di ufficiale è stato comunicato ai dipendenti. Solo lunedì il Comitato di redazione incontrà Marcucci, per poi riferire a un'assemblea generale che si preannuncia infuocata. «Non abbiamo idea di quale sia il progetto editoriale», dice Roberto Brunelli del Cdr, il cui comunicato diffuso ieri mette esplicitamente in relazione le manovre sull'Unità con le vicende del partito democratico. «C'è un nuovo partito, c'è il centrosinistra in mutamento. Chi compra e chi non compra lo fa in questo quadro, rispetto al quale la collocazione dell'Unità non è certo indifferente», dice Brunelli. Dove il «chi compra» ha i piedi in molte staffe: da imprenditore, dipende dal potere politico circa le decisioni di politica sanitaria; da editore, vuole stare a destra e a manca. «Ha ragione Furio Colombo, quando nota che in nessun posto al mondo un solo editore controlla giornali di destra e di sinistra», dice Enrico Fierro, inviato dell'Unità, che attribuisce «un ruolo nefasto a Marcucci e all'attuale proprietà», che avrebbero allontanato altri candidati. Il riferimento è alle voci di una trattativa con Moratti, condotta attraverso l'editore Dalai. Ma c'è anche chi parla di un'altra possibile cordata, fatta da editori locali. L'una e l'altra avrebbero avuto caratteri più accettabili, e soprattutto la benedizione attiva di Walter Veltroni.
L'offerta Angelucci affonda queste manovre. Al punto da far ipotizzare a qualcuno che sia questo il vero obiettivo: soffiare il giornale all'area di influenza veltroniana, anche a caro prezzo - e secondo rumors della redazione il prezzo sarebbe salato, sui 50 milioni in totale (ma questa cifra viene giudicata invece poco attendibile dall'amministrazione dell'Unità). Fatto sta che l'interesse degli Angelucci pare confortato da una parte degli ex ds, e soprattutto dal tesoriere Sposetti: tra le voci che ieri si sono levate a commentare con preoccupazione le vicende dell'Unità, non si sono sentiti i dalemiani. Mentre Piero Fassino si sarebbe fatto vivo con una telefonata al direttore Padellaro, dicendosi poco informato su tutta la vicenda ma rassicurandolo sulla tenuta della direzione. Lo stesso direttore, rispondendo a una lettera di Pietro Folena, ha scritto ieri: «Le proprietà possono cambiare, che cambino le nostre teste è più difficile».

il Riformista 27.10.07
Gay. Polemiche sulla pubblicità contro la discriminazione sessuale
Suggerisce l’idea che l’omosessualità sia inevitabile
Campagna Homosexuel, più che uno shock una sciocchezza
di Francesco Longo


Franco Grillini è molto contento per la campagna contro le discriminazioni - lanciata dalla Regione Toscana - il cui concetto è così riassumibile: "omosessuali si nasce". Ma se omofobi non si nasce, c'è il rischio che, dopo una campagna così, forse ci si muoia.
Lo slogan del manifesto annuncia: «l'orientamento sessuale non è una scelta», ed è accompagnato dall'immagine di un neonato che porta al polso un braccialetto con su scritto “homosexuel”. L'intenzione del messaggio è piuttosto evidente: si tratta di una campagna contro le discriminazioni sessuali, e le associazioni dei gay infatti applaudono soddisfatte.
I detrattori parlano invece di campagna shock, mentre forse si dovrebbe parlare di una campagna sciocca, capace di tradire il proprio intento nel momento stesso in cui tenta di enunciarlo.
Ciò che la campagna si incarica di diffondere è infatti l'idea che gli omosessuali non devono essere trattati in modo diverso, ghettizzati, ridicolizzati, etc. Benissimo.
C'è però un tale divario tra quello che il manifesto cerca di dire e il modo con cui lo enuncia, che le premesse teoriche paiono annientarsi mentre vengono espresse. L'immagine racconta la storia di una separazione, di una differenza irriducibile tra gli esseri umani, quelli che nascono eterosessuali e quelli che nascono omosessuali.
Per come è stata costruita questa campagna, l'idea di uguaglianza svanisce. Mentre il manifesto lavora per affermare che non bisogna nutrire diffidenza o distacco (che cioè niente ci deve tenere lontani da un omosessuale) è all'opera qualcosa che perverte e dissolve il messaggio stesso. Questa campagna infatti marca definitivamente la differenza: sottolinea che quella differenza sessuale è proprio il discrimine, il nucleo fondamentale, primario, con cui si possono raggruppare, e distinguere gli uomini e le donne. Invece di dire “noi e loro” siamo fatti tutti della stessa pasta e poi, che qualcuno sia eterosessuale e altri no, non importa, resta che siamo tutti esseri umani; questo manifesto annuncia che in realtà le cose non stanno affatto così. Nasciamo separati. Siamo stirpi diverse. La vita di un omosessuale e quella di un eterosessuale sono distinte fin dall'origine, e seppure in qualche punto le vite potranno incontrarsi, questo non dovrà ingannarci, la verità è che si viaggia, già dalla notte dei tempi, su binari paralleli. Invece di farci capire che siamo uguali, insinua il sospetto che non lo siamo.
Ciò che la campagna vorrebbe sostenere, che l'orientamento sessuale non deve creare circospezione o attriti, viene ritrattato implicitamente da ciò che viene rappresentato. Lì sul polso dove di solito i bambini portano scritto il loro nome, il nome è sparito, perché l'identità coincide e si esaurisce nella propria spinta sessuale.
Ma in questo messaggio fuori controllo si può notare anche un altro curioso elemento.
Un frequente bersaglio delle comunità gay è il concetto di Natura. Questo concetto viene demolito perché è capace di alimentare frasi che definiscono gli atteggiamenti omosessuali come "contro-Natura". Solo disfacendosi del concetto di Natura si può evitare che qualcuno possa essere tacciato di trasgredirne, col comportamento, le regole. A vedere bene questa immagine, però, qualcosa suona ulteriormente stonato. Nel neonato omosessuale, nell'idea stessa che l'omosessualità non sia qualcosa che si sviluppa col tempo, ma che è qualcosa di inevitabile, innata, spontanea, un dato di fatto inalterabile, si vede rispuntare con una forza inaudita un'antica idea, proprio quella della Natura e delle sue imperscrutabili leggi. Omosessuali forse ci si nascerà, imprudenti chissà.

venerdì 26 ottobre 2007

l’Unità 26.10.07
Le inchieste del giornale fanno infuriare Bertone. Mauro: «Inaccettabile»
Tra Vaticano e «Repubblica» ora è scontro


Le “spese” dello Stato per assicurare ovunque l’ora di Religione (e l’assenza di quella di Educazione civica), l’Ici pagato dalla Chiesa di malavoglia, con molti edifici delle curie esenti (e i Comuni ci rimettono 400 milioni di eruo l’anno), i percorsi non sempre limpidi dell’8 per mille (fra opere di bene e pubblicità): le inchieste de La Repubblica mandano su tutte le furie la Chiesa. E il segretario di Stato Vaticano s’arrabbia: «Finiamola con questa storia dei finanziamenti alla Chiesa: l’apertura alla fede in Dio porta solo frutti a favore della società» è la evangelica “teoria” di Tarcisio Bertone. Cita i cartelli dei lavoratori dell’ospedale pediatrico voluto dal vaticano (e gestito insieme alla Regione Lazio) che contestano il mancato rispetto di alcuni accordi lavoro. «Problema vero, reale». Condanna il manifesto sull’omosessualità con al centro un neonato. Insomma, parla di tuto a margine della conferenza stampa per ricordare il concerto di Ennio Morricone e dell’Arma che si terrà in Vaticano. Ma i toni più aspri li lascia al giornale romano: «C’è un quotidiano che ogni settimana deve tirare fuori iniziative di questo genere».
Quel «finiamola» chiama il direttore del quotidiano Ezio Mauro ad una risposta: «Finiamola? E perché? - si domanda il direttore - Chi lo decide? In nome di quale potestà? Forse la Santa Sede ritiene di poter bloccare il libero lavoro di un giornale a suo piacimento? Pensa di poter decidere se un'inchiesta dev’essere pubblicata "ogni settimana" o con una diversa cadenza?». La Chiesa va all’attacco di chi esercita diritti costituzionalmente garantiti, come quello d’informare. «La confutazione - scrive Mauro, che ricorda come nessuna precisazione è stata mai mossa agli articoli a firma Curzio Maltese, l’ultimo del quale è uscito proprio - a quanto pare, anche se è incredibile dirlo, riguarda la legittimità stessa di affrontare questi temi. Come se esistesse, lo abbiamo già detto, un'inedita servitù giornalistica dell'Italia verso la Santa Sede».

l’Unità 26.10.07
«L’Unità non è in vendita, sì a nuovi soci»
La presidente di Nie sull’ingresso di Angelucci. Il Cdr: lunedì l’incontro con l’azienda


«L’Unità non è assolutamente in vendita. Però da parecchio tempo, non da oggi ma da anni, diciamo che saremmo felicissimi se qualcuno si aggiungesse alla cordata degli azionisti». Parola - in un’intervista ad Affaritaliani.it - di Marialina Marcucci, il presidente del consiglio di amministrazione della Nie, la società che edita il quotidiano. «Non sto parlando di un ingresso degli Angelucci, perché sinceramente non parlo degli Angelucci in particolare - precisa Marcucci, con riferimento all’ipotesi che i proprietari di Riformista e Libero acquistino anche l’Unità - . Dico che ci sono delle dimostrazioni di interesse da varie parti a entrare e ad aggiungersi alla compagine azionaria de l’Unità. Punto. E a questo noi siamo interessati da sempre». Tra gli interessati ad entrare ci sono anche gli Angelucci? «Posso dire - continua - che sono parecchie le manifestazioni di interesse, i nomi sono stati tanti. Tutti italiani, nessuno straniero». Alla domanda se la chiusura dell’operazione sia questione di giorni, risponde: «Nell’immediato non c’è assolutamente niente». Sull’incontro urgente chiesto dal Cdr de l’Unità per avere chiarimenti sulle eventuali operazioni di vendita del giornale, Marialina Marcucci afferma: «Non ho ricevuto alcuna richiesta di incontro, arriverà. Nella formula che ho spiegato, però, sarebbe un vantaggio per l’azienda e non il contrario. Sui giornalisti - aggiunge - non ho niente da dire perché, ripeto, non ho ricevuto alcuna richiesta di chiarimento».
Il Cdr, da parte sua, prende atto della risposta della presidente della Nie, e puntualizza che «urgenti chiarimenti su eventuali cambiamenti degli assetti proprietari del giornale sono stati formalmente avanzati già dal 18 ottobre scorso, e che mercoledì 24 a Marialina Marcucci è stata inoltrata una richiesta ufficiale d’incontro, che è stato fissato per lunedì 29».

l’Unità 26.10.07
Quale sarà il futuro de l’Unità?
di Pietro Folena


Caro direttore,
apprendo dal comunicato del Cdr dell’Unità che il tuo giornale starebbe per essere acquistato dal gruppo Angelucci, già editore del Riformista e di Libero.
Che un imprenditore voglia comprare un quotidiano è cosa piuttosto normale e, di per sé, persino incoraggiante. E, tuttavia, l’Unità è un giornale particolare. Un giornale che ha una storia e una collocazione politica.
Devo dire, ad onor del vero, che questa collocazione è cambiata, molto, da quando essa è rinata. Oggi l’Unita, sotto la tua direzione (legittimamente, per carità) è pienamente organo dei Ds e del Partito democratico. Quando, te ne ricorderai, la rifondammo, avevamo in mente qualcosa di un po’ diverso: un giornale collocato a sinistra ma non organico al partito dei democratici di sinistra.
Non mi sorprende più di tanto la coincidenza temporale tra la formazione del Pd e l’interessamento del gruppo Angelucci che, come sai, quando ero coordinatore del partito nella segreteria di Walter Veltroni, abbiamo voluto che non proseguisse la propria presenza nella proprietà dell’Unità, non per un’antipatia preconcetta, quanto perché il progetto editoriale era altro.
Il Corriere della Sera ricostruisce la vicenda ricordando che il gruppo Angelucci intendeva quella presenza quale viatico per le proprie attività imprenditoriali. C’è da augurarsi che adesso le cose non siano negli stessi termini.
Come dicevo, proprietà e progetto editoriale sono strettamente legati.
Non ho cambiato idea da allora. Penso che l’Unità dovrebbe appartenere in primo luogo ai lettori, attraverso una società partecipata dagli stessi. E, quindi, che il progetto editoriale dovrebbe essere conseguente a questa impostazione: un giornale non di partito, ma della sinistra.
Se fossi nel ruolo che avevo quando l’Unità rinacque, lavorerei per questo. Siccome non lo sono (senza alcun rimpianto), lascio questa idea alla valutazione di chi può, ma soprattutto dei lettori.
Spero che Angelucci non acquisti l’Unità. Ripeto: non perché abbia qualcosa contro quel gruppo, ma perché l’Unità potrebbe/dovrebbe essere altro.

Repubblica 26.10.07
Nel campo di battaglia della Cgil incrociano le armi Pd e Cosa rossa
Statali, scuola, pensionati, agroalimentare e metalmeccanici sono con Mussi
L'ortodossia diessina allinea i tessili, i trasporti, i chimici, gli edili, tlc e credito
di Alberto Statera


ARSENICO e vecchi merletti nella palazzina rosa salmone della Cgil in Corso d´Italia dove, a parte l´intonaco, la tavolozza con tutte le sfumature del rosso, dal vermiglio al rosa tenero, produce la gouache da cui dovrebbe uscire la storica ristrutturazione della sinistra italiana. Riformisti, radicali, massimalisti, socialisti, neocomunisti, veterocomunisti, liberisti di sinistra veri e immaginari - oves et boves et omnia pecora campi - è qui, nella più grande, ricca, solida e strutturata organizzazione della sinistra che, venuti meno da un pezzo il centralismo, la cinghia di trasmissione e il collateralismo, si compone e si scompone come in uno specchio il mosaico dei partiti nascenti, il Pd e la Cosa rossa.
Al centro della scena i duellanti Guglielmo Epifani, soprannominato «il giovane Werther» dall´ex sindacalista apostata Giuliano Cazzola, e Giorgio Cremaschi, il «Che» dei metalmeccanici della Fiom, che con la sua «Rete 28 aprile» si colloca molto più a sinistra di Rifondazione comunista e che con Gianni Rinaldini, dopo la sconfitta del no nel referendum sul welfare, ha compiuto lo strappo nel parlamentino confederale votando contro il documento della maggioranza e rompendo per la prima volta l´unità sancita dal congresso di Rimini del 2006. Ma sotto è tutto un ribollire, come se la cinghia di trasmissione dei tempi andati avesse cambiato senso, non più dai partiti al sindacato, ma dal sindacato ai partiti.
Naturali peristalsi, sono solo naturali peristalsi per Sergio Chiamparino, sindaco di Torino e antico segretario della Cgil piemontese, perché «il Partito democratico è destinato a riscrivere la geografia sindacale e gli altri, quelli del no-Tav e no-tutto non sono certo zuzzerelloni, loro si muovono sul sindacato per aggregare i conflitti ai fini della loro proposta politica di cose rosse».
Chissà se Chiamparino ha messo il suo zampino anche nella decisione di Sergio Marchionne, l´a.d. in maglioncino blu che frequenta qualche volta in trattoria, di anticipare 30 euro sul contratto dei lavoratori della Fiat, per «l´importante collaborazione al successo del gruppo», creando il paradosso-Torino, dove il Lingotto vota contro l´accordo sul welfare, ma il manager dei miracoli, il più osannnato dell´italico capitalismo nel quale si agitano tanti nani e ballerine superpagati, «va più a sinistra sull´idea di impresa di Giordano e anche di Cremaschi», secondo un´immagine di cui il sindaco di Torino rivendica orgogliosamente il copyright. Il contrario, naturalmente, di quel che divisa il «Che» della Fiom, che vede invece in quei trenta denari «un segnale politico, un attacco grave al sistema contrattuale. La Fiat, Montezemolo e la politica che dicono: guardate, a voi operai ci pensiamo noi capitalisti, altro che il sindacato». Una specie di provocazione politica come la marcia dei 40 mila di romitiana memoria?
Le «geografia» politica di cui parla Chiamparino, nella palazzina rosa salmone di Corso d´Italia, dove nell´ufficio d´angolo soggiornò indimenticato Luciano Lama che duettava alla pari con Gianni Agnelli, è oggi una specie di puzzle irresoluibile. Bisogna mettere insieme informatori di varie ascendenze per venirne in qualche modo a capo. Diciamo all´ingrosso: area ex-diesse 80 per cento, area Prc più Pdci 20 per cento. Ma che c´è in realtà sotto questi cappelli? Prendiamo la segreteria: Achille Passoni, Nicoletta Rocchi, Mauro Guzzonato e Marigia Maulucci, quella che denunciò accoratamente sull´»Unità» l´Opa in corso della Cosa rossa sulla Cgil, sarebbero nell´ortodossia diciamo fassiniana; Paolo Nerozzi, Carla Cantone, Fulvio Fammoni, Morena Piccinini sono invece con l´area Mussi-Salvi; Paola Agnello Modica oscilla e Epifani-Werther, col fascinoso sorriso stentato alla Harrison Ford, come fu descritto da una sua simpatica collaboratrice, cerca di mediare.
Nei dipartimenti, negli istituti e negli enti della ricca galassia prevale alla grande la Cosa rossa, peraltro in conflitto al suo interno, con sei dirigenti divisi equamente tra area Mussi e area Angius, contro i tre dell´ex area Fassino. Nelle categorie, l´ortodossia diessina e forse adesso veltroniana allinea i Tessili con Valeria Fedeli, i Trasporti con Fabrizio Solari, i Chimici con Alberto Morselli, gli Edili con Franco Martini, le Telecomunicazioni con Emilio Miceli e il Credito con Domenico Moccia.
Funzione Pubblica, Scuola, Pensionati, Agroalimentare e Metalmeccanici, quest´ultima l´ex aristocrazia operaia che terremota le alleanze, sono invece in maggioranza con l´area Mussi-Salvi-Angius, che ha anche i segretari generali di Lombardia, Lazio, Puglia, Emilia Romagna, più qualche segretario di capoluogo.
«Sembra tornato il tempo degli Unni», chiosa il vecchio saggio Giuliano Cazzola, ex compagno considerato oggi un po´ destrorso, che ricorda quando Sergio Cofferati, il Cinese, lasciava il vertice della Cgil da trionfatore: aveva sconfitto Berlusconi, aveva portato milioni di lavoratori e pensionati in piazza e, modesto, rientrava in Pirelli come un novello Cincinnato. In realtà si progettava un nuovo partito del lavoro, la Cgil col Correntone diesse, collocato alla sinistra della Quercia, con la benedizione di Nanni Moretti, di Pancho Pardi e del rutilante mondo dei girotondini. L´operazione fallì, un po´ perché Cofferati non se la sentì di portare fino in fondo lo strappo, un po´ perché Bertinotti non è che gradisse troppo il Cinese, nonostante nel 1994 ne avesse appoggiato l´ascesa in Cgil contro Alfiero Grandi, candidato di Bruno Trentin.
La storia, in qualche modo, si ripete perché la Cgil può essere oggi la massa critica di un nuovo partito della sinistra: «Se il Partito democratico vince la sua sfida - ci dice speranzoso Chiamparino - il postulato è la riapertura di un processo di unità sindacale improntato all´autonomia, dico autonomia e non indipendenza, come dice invece Cremaschi».
Balle, secondo Cazzola, che vede come naturale interlocutore del partito di Veltroni più la Cisl che la Cgil balcanizzata dagli scontri su quella tavolozza tra le varie gradazioni di rosso. Per non dire di Renata Polverini, leader dell´Ugl, il sindacato di destra che lei ha portato a contare qualcosa, la quale, a rischio di sentirsi definire una succursale della Cgil dai suoi amici di An, solidarizza con Epifani-Harrison Ford: «Lui, poveretto, si è esposto troppo quando ha detto che il programma di Prodi era il suo programma. Ma poi ha capito e ha fatto marcia indietro, pur in una condizione difficilissima, schiacciato com´è tra Cosa rossa e Partito democratico. Quanto a noi, presunta succursale della Cgil, cosa che considero tutto sommato un complimento, il fatto è che finalmente si è capito che non è solo la sinistra ad avere la privativa sulla tutela dei ceti più deboli».
Per Cremaschi la questione è un po´ diversa: «Siamo di fronte alla crisi più grave nella storia della Cgil, che, come è ormai evidente, ha una leadership non all´altezza della situazione». Non è il solo a pensarlo, tanto che già ci si chiede se il tormentato segretario generale sarà in grado di contrastare la fuga confederale dal Partito democratico alla Cosa rossa, una specie dei Psiup del nuovo millennio.
Crisi o non crisi, la galassia rossastra governata da Epifani resta il caposaldo più forte della sinistra in ristrutturazione tra Partito democratico e Cosa rossa, ambita da tutti, da Veltroni, come da Mussi, Diliberto, Giordano e soci. Quattro milioni e mezzo e più di iscritti, 14 mila mila sindacalisti, tremila sedi nel territorio, un miliardo di euro come «giro d´affari» stimato, perché dati ufficiali non ne esistono. Una forza reale così non esiste a sinistra, dopo che le cooperative si sono impaniate con i furbetti velleitari scalatori d´Italia.
Correva il 1992 quando l´allora sindacalista della Cgil Fausto Bertinotti, nemico giurato di Cofferati, descriveva con angoscia al sottoscritto, suscitando vasto scandalo a sinistra, una «dolorosa omologazione del sindacato al sistema dei partiti, una voglia nient´affatto repressa dei sindacalisti di farsi ceto politico, di farsi Stato». Oggi, con il suo collega sindacalista della Cisl Franco Marini, Bertinotti siede in persona, ai vertici dello Stato.
Il campo di battaglia a sinistra resta la palazzina rosa salmone in Corso d´Italia dove soggiornarono Di Vittorio e Lama, come in una cinghia di trasmissione che gira al contrario.

Repubblica 26.10.07
Domenica saranno beatificati 498 preti uccisi dai Repubblicani che combattevano Franco. E il passato torna a dividere il Paese
di Alberto Flores d’Arcais


Domenica a Roma il Papa consegnerà al culto i martiri cattolici della guerra civile. Una cerimonia che sta dividendo la Spagna, un paese che non è ancora riuscito a chiudere i conti con il passato franchista E che ora è attraversato da un lacerante conflitto tra Stato e Chiesa

JuanDuarte aveva 24 anni, era un seminarista, un diacono che aspettava con ansia i pochi mesi che lo dividevano dall´essere ordinato sacerdote. Era il novembre del 1936, da poco più di tre mesi il "golpe" di Francisco Franco aveva fatto precipitare la Spagna in quella che sarebbe stata una guerra civile terribile e sanguinosa. Juan era in vacanza a Yunquera, un piccolo villaggio vicino a Malaga che, pur trovandosi nel sudovest del paese, non era ancora caduto nelle mani dell´esercito franchista.
Il 7 novembre venne arrestato dalle milizie repubblicane, torturato orrendamente per una settimana e infine ucciso. È uno dei 498 "martiri" che verranno beatificati domenica a San Pietro. L´uomo più adatto per parlare di Juan Duarte è José Andres Torres Mora.
Ex capo di gabinetto di Zapatero, deputato socialista è il teorico della Ley de Memoria Historica, la legge che riconosce e allarga i diritti (e le misure a favore) delle vittime della guerra civile (e della dittatura franchista) che mercoledì prossimo verrà approvata dalle Cortes, il parlamento spagnolo.
Torres Mora è l´uomo giusto, perché è anche il pronipote di Juan Duarte. E domenica, insieme con i suoi familiari, sarà in Vaticano a rendere omaggio al prozio martire. «Per me è un viaggio importante, è importante sia sul piano personale che su quello politico», mi spiega parlando dall´aeroporto dove è in attesa di prendere il volo delle 19 per Roma. «È giusto che ci vada, per rendere omaggio al mio prozio, ma anche perché sono un deputato socialista che ha voluto con forza la legge sulla memoria».
«No, non credo che le due cose si contraddicano; - prosegue - io non sono credente ma in Vaticano ci voglio essere perché è giusto che ci sia. Del resto nessuno si meraviglia se un non credente si reca in chiesa per un funerale di un amico o di un parente. Mi costa molto fare una distinzione tra il mio omaggio privato e il mio essere un uomo pubblico, ma non trovo che sia una situazione paradossale. La mia non è una contraddizione. Nel primo paragrafo del primo articolo della legge sulla memoria si parla di tutte le persone assassinate, vittime della guerra civile, indipendentemente dal loro credo politico o religioso; è una legge che si riferisce anche ai martiri della chiesa cattolica».
Racconta la storia che tante volte gli hanno raccontato in famiglia, «di come mio prozio venne torturato, castrato, di come lo abbiano cosparso di benzina, di come gli abbiano dato fuoco fino a una morte terribile». Non se la sente di condannare la chiesa solo perché i martiri beatificati sono solo quelli di una parte (la franchista), anche se ci furono molti sacerdoti uccisi anche tra le file repubblicane: «Per me, che sono laico, la chiesa è un´istituzione privata, ha tutto il diritto di scegliere chi vuole beatificare; è un po´ come se il partito comunista volesse commemorare i vecchi stalinisti, hanno il diritto di farlo. Io sono entrato nel partito socialista quando avevo 17 anni, poco prima delle elezioni del 1977, perché credevo in certi ideali. I miei genitori durante il franchismo erano emigrati in Germania a cercare lavoro, tra i miei familiari ci sono altri socialisti, i miei parenti di Malaga hanno idee diverse, ma sono stati i primi a essere contenti che anche io andassi in Vaticano. Senza presunzione, diciamo che sono la prova vivente della riconciliazione nazionale».
La beatificazione dei 498 "martiri", così come la legge sulla memoria storica, più che riconciliare sta di nuovo dividendo la Spagna, evocando i fantasmi mai sopiti di una guerra civile che ha toccato praticamente tutte le famiglie del paese. Con la destra che accusa il governo di Zapatero di voler cancellare la storia del franchismo, con la Chiesa che spiega che dietro la beatificazione non si nasconde nessun progetto politico e nessun risentimento, «ma solo il sentimento della riconciliazione». Poco importa che i vescovi abbiano premuto sul papa (inizialmente contrario) perché le beatificazioni (un processo locale) venissero fatte a Roma, «sono i socialisti - dicono i documenti della Conferenza Episcopale - che vogliono riaprire le ferite della guerra civile».
José Maria Ridao è uno degli intellettuali emergenti della nuova Spagna, romanziere, storico e saggista, un elettore socialista che non fa mancare critiche all´attuale governo. Ridao ha una visione diversa, fuori dai vecchi schemi della guerra civile, di un paese spaccato in due. «Intanto dobbiamo dire che oggi la chiesa cattolica conta sul piano sociale sempre di meno. Conta politicamente e vuole contare di più, e il processo di beatificazione è insieme un problema ideologico e una risposta politica alla legge della memoria. Le dico chiaramente quello che penso: io sono d´accordo con i contenuti della ley de memoria ma sostengo che non c´era alcun bisogno di fare una legge. Gli indennizzi alle vittime si possono dare senza dover votare in parlamento; cercare e riaprire le fosse comuni per dare sepoltura a chi non l´ha ancora avuta dopo 70 anni è un dovere dello Stato; cancellare i segni del franchismo dalle strade e dai comuni è un compito dei poteri locali. La verità è che l´agenda ideologica di Zapatero è opposta a quella di Aznar ma usa gli stessi metodi. Come Aznar voleva rendere accettabile il franchismo, voleva banalizzare la dittatura, che fu una dittatura feroce e responsabile di migliaia di morti, così Zapatero lo vuole cancellare. Mi piace citare una frase di Tucidide, "la politica serve perché l´odio non sia eterno"; quello che succede in questi giorni è esattamente il contrario».
Non è d´accordo Fernando Vallespin, presidente del Cis, il "centro de investigaciones sociologicas" (tipo il nostro Censis). «Io credo che il fatto che ci sia la beatificazione domenica e si voti la legge sulla memoria tre giorni dopo sia solo una coincidenza. Perché se ne discute solo oggi, trent´anni dopo il processo di transizione alla democrazia? Allora tutti erano d´accordo che per superare le ferite della guerra civile e della dittatura fosse necessario dimenticare; un processo curioso e interessante, quello di annullare la memoria. Ha funzionato; ma oggi che la democrazia si è consolidata trovo giusto che chi per quaranta anni è stato costretto al silenzio voglia parlare, che la memoria dimenticata venga riscoperta. Non credo sia un caso che questa legge sia opera dei politici della generazione di Zapatero, quelli tra i 40 e i 50 anni che sono cresciuti nella democrazia, che erano adolescenti quando la Spagna ha ritrovato le libere elezioni».
Perfecto Andres Ibanez è un magistrato molto conosciuto, giudice del Tribunal Supremo. «I due avvenimenti, beatificazione e legge della memoria, sono forse casuali come tempistica, ma è una coincidenza un po´ sospetta. Mi spiego: la chiesa spagnola è molto belligerante, è una sorta di partito politico, o almeno parte di un partito politico. Con la beatificazione di 498 "martiri", che sono tutti dello stesso campo, il franchismo, intende rivendicare ex post il valore politico del golpe militare del 1936. La chiesa spagnola non ha mai fatto veramente autocritica per l´appoggio che diede alla dittatura; quanto alla legge sulla memoria da un punto di vista giuridico credo che non abbia lacune; non la conosco ancora a fondo, anche perché deve essere ancora approvata. Però, e guardi che io non sono tenero con il governo Zapatero, le critiche della destra mi sembrano pretestuose».
Di beatificazione, di martiri e di leggi della memoria si parla molto sui giornali, si discute in modo acceso alle Cortes, ma non sembra che il tema stia appassionando particolarmente l´opinione pubblica. Perché se è vero che quasi ogni famiglia spagnola ha una vittima da piangere (sia in campo repubblicano che tra i nazionalisti) i giovani, ad esempio, sentono la guerra civile come qualcosa di sempre più distante. Del resto sono passati quasi settanta anni, come se all´alba della Seconda Guerra mondiale si discutesse ancora delle vittime della guerra franco-prussiana. Ed è un tema che, stando a tutti gli interpellati, non sarà neanche uno di quelli principali nella prossima campagna elettorale (si vota nel marzo 2008).
Ludolfo Paramio è considerato l´ideologo del premier spagnolo. Con lui ha lavorato, e lavora ancora, a stretto contatto, e rivendica la necessità della legge sulla memoria: «Tutti i sondaggi ci dicono che la maggioranza degli spagnoli è d´accordo, il fatto che tre giorni prima del voto ci sia la beatificazione non mi preoccupa, e non credo neanche che su questi temi il paese sia veramente diviso. Era giusto farla, anche se oggi, quasi settanta anni dopo, riguarda solo una minoranza degli spagnoli».

Repubblica 26.10.07
L’Italia che non rilascia ricevute
Dai muratori agli psicologi, cresce l'esercito degli evasori
Un professionista su due evita di rilasciare l´attestazione di pagamenti
di Luisa Grion


ROMA - Pagare è dovuto, ottenere la ricevuta è un optional, una rarità, un vero miracolo. Bisogna chiederla - meglio se due volte - a chi dovrebbe volontariamente compilarla, e non è detto che la richiesta sia esaudita. L´irregolarità fiscale è una prassi: schiere di insegnanti che fanno ripetizioni private, baby sitter, artigiani, commercianti, ma anche liberi professionisti incassano il compenso del loro lavoro completamente in nero.
L´Eures, l´istituto di Ricerche economiche e sociali, elaborando un rapporto sull´evasione in Italia ha indagato su 41 categorie professionali scoprendo che - nella stragrande maggioranza dei casi - i pagamenti ottenuti non hanno alcuna documentazione fiscale. L´indagine è stata fatta chiedendo ad un campione di clienti di raccontare le esperienze in proposito, e di specificare chi lascia loro ricevuta e chi no. E nella stragrande maggioranza dei casi il cliente rimane a mani vuote. Non solo: fatta eccezione per pochi casi il fenomeno risulta in aumento rispetto agli ultimi tre anni. Se fra parrucchieri, badanti e colf (grazie anche alla regolarizzazione del lavoro degli immigrati) gli illeciti sono diminuiti, negli altri 38 casi segnano un ulteriore sviluppo.
Per chi si trova a dover mandare i figli a ripetizioni private, per esempio, la ricevuta è un documento sconosciuto. Non viene rilasciata nel 79,4 per cento dei casi: la media dell´esborso, in caso di scuole superiori, si aggira sui 30 euro all´ora che sono incassati dal professore completamente in nero. Sui servizi alla famiglia - baby sitter e badanti - l´illecito fiscale sfiora il 73 per cento, va un po´ meglio con le colf (65,4).
Poi certo c´è il capitolo artigiani: la Cgia di Mestre contesta i dati asserendo che a non rilasciare lo scontrino sono dopo lavoristi e pensionati che si spacciano per artigiani e non solo tali, ma secondo l´Eures la categoria rilascia ricevuta solo 3 volte su 10. La maglia nera va ai muratori (73,2 per cento d´evasione da mancata ricevuta), ma il lavoro nero è molto diffuso anche fra tappezzieri, falegnami, fabbri, elettricisti, idraulici, gommisti. Tutti pronti a riparare il danno purché del pagamento non resti alcuna traccia. Seguono a ruota i centri estetici (secondo gli intervistati non rilasciano ricevuta nel 37, 4 per cento dei casi), i parrucchieri (quasi il 31) e le lavanderie (21,7).
Per quanto riguarda le categorie che commercializzano prodotti, fra i più virtuosi ci sono i farmacisti (2 per cento d´irregolarità), mentre la palma dell´illecito va ai rivenditori di materiali edili e di piastrelle (37 per cento in nero).
Infine la categoria dei liberi professionisti, che in genere non ha molto da invidiare agli artigiani. Passando dagli architetti, agli psicologi, dagli avvocati o geometri la percezione non cambia: quasi uno su due non rilascia scontrino. Fra i commercialisti, medici, dentisti, veterinari e notai la percentuale però si dimezza, anche perché in questo caso sono gli stessi clienti a chiedere più spesso la fattura.

Repubblica 26.10.07
L’Unità, le garanzie di Angelucci
Firmato il preliminare. Accordo per mantenere il personale
La Marcucci: "Sì a nuovi soci ma non è una vendita". Resterà nell'azionariato
di Aldo Fontanarosa e Andrea Greco


ROMA - Il preliminare di acquisto è stato firmato solo poche ore fa, mercoledì. Per opzionare il quotidiano L´Unità, Giampaolo Angelucci (romano, 35 anni, reuccio della sanità privata, 3000 posti letto tra Lazio e Puglia) è disposto a staccare un assegno da 17 milioni e a farsi carico di tutti i debiti, che sono comunque a un livello fisiologico. Da oggi Angelucci, erede del gruppo di famiglia Tosinvest, avrà il diritto di studiare i conti del quotidiano, custoditi nella "data room", la stanza dei numeri. Quando l´investigazione sui conti sarà terminata, Angelucci potrà confermare o abbassare la sua offerta economica. A meno di contrattempi, l´imprenditore - che ha già in mano il quotidiano di destra Libero e il quotidiano Il Riformista - farà sua L´Unità entro quest´anno. Sul piano formale, la Tosinvest prenderà la Ad Srl. Questa società a responsabilità limitata controlla oltre l´80 percento della casa editrice del giornale (la Nie). A cascata, Angelucci dovrà anche prelevare o affittare la testata (il marchio de L´Unità), che fa capo ad un´altra società. Cosa che può portare la spesa complessiva dell´operazione Unità parecchio più in alto.
La famiglia Angelucci era già entrata nel quotidiano fondato da Gramsci nella sua precedente vita, e con una quota importante: il 24,5 percento. Poi era arrivata la breve ma drammatica chiusura del giornale, nel luglio 2000. Adesso gli Angelucci ritornano, ma provano a farlo in punta di piedi. Tra i loro impegni, c´è il mantenimento dei posti di lavoro e ovviamente della linea politica della testata, come subito chiesto dalla redazione. D´altra parte, il nuovo editore ha interesse a dribblare l´inevitabile gioco delle interpretazioni politiche. L´arrivo degli Angelucci è più gradito a D´Alema oppure a Veltroni? E come va letto alla luce della nascita del Partito Democratico? Gli interrogativi si sprecano, in queste ore.
Figura di continuità tra l´attuale gestione e quella futura sarà Marialina Marcucci, imprenditrice lucchese e fondatrice di Videomusic che nel 2005 divenne vicepresidente della Giunta regionale toscana. Oggi è presente nella complicata compagine azionaria e resterà - sembra - anche nella prossima.
In queste ore, la Marcucci veste i panni del pompiere. «L´Unità - dice - non è assolutamente in vendita. Certo, da tempo diciamo che saremmo felici se qualcuno si aggiungesse alla cordata degli azionisti. E questo può portare anche a dei cambiamenti: qualcuno può uscire mentre qualcun altro entra. E´ fisiologico. Gli Angelucci? Non sto parlando di un loro ingresso. Dico solo che ci sono dimostrazioni di interesse per entrare nella compagine azionaria de L´Unità. Sono imprenditori italiani, nessuno di passaporto straniero. Punto. Ma nell´immediato non c´è assolutamente niente».
Assolutamente niente, giura lei. Quest´estate, la Marcucci si è affrettata a smentire anche la precedente puntata di questo caso. Ad agosto il settimanale Panorama ha scritto di una possibile vendita dell´Unità alla famiglia Moratti. La vendita, poi, non c´è stata. Ma la trattativa, ancora oggi, trova tante conferme.

Corriere della Sera 26.10.07
Il documentario. «Il pensiero non basta per capire Auschwitz»
Saverio Costanzo ci è tornato con gli studenti
di G.Ma.


ROMA — «Auschwitz 2006». S'intitola così il film-documento di Saverio Costanzo sul viaggio di 250 giovani delle scuole superiori di Roma nella località più sinistramente nota della storia del Novecento.
Un viaggio che si ripete ormai per la terza volta, ripreso in passato da altri registi di qualità come Mimmo Calopresti e Ascanio Celestini. Promossa dal sindaco Walter Veltroni e dalla Comunità ebraica della capitale, in collaborazione con l'Associazione nazionale ex deportati, l'iniziativa fa parte di quel discorso sulla memoria e l'Olocausto sempre più necessario per far conoscere alle nuove generazioni lo scenario dello sterminio più grande ed efferato. «Ad Auschwitz bisogna andarci di persona - assicura Costanzo, regista di film intensi come
Private e In memoria di me - L'immaginazione non è sufficiente, il contatto fisico con quel posto di orrore e dolore, è ciò che fa la profonda differenza».
Lui quel viaggio l'aveva già fatto. «Qualche anno fa, per conto mio. Ma l'idea di ripeterlo insieme con tanti ragazzi e soprattutto con sei testimoni di quella tragedia a farci da guida, mi ha convinto ad accettare il progetto ».
Solo due giorni di trasferta, ma a volte anche 48 bastano per aprire le teste e i cuori. «Al di là dell'inevitabile commozione, mi hanno colpito le domande degli studenti. Dirette fino quasi alla crudezza. Forse un adulto non oserebbe mai rivolgersi a dei sopravvissuti chiedendo certi dettagli, certe precisazioni. Come il discorso del perdono, del rancore, del senso di colpa per essersi salvati rispetto agli altri che non ce l'hanno fatta... E poi se avevano paura di morire, e perché dopo tutto quello che avevano passato, tornassero ancora lì».
Tra le testimonianze più intense, ricorda Saverio Costanzo, quella di Sami Modiano, anche lui ex deportato, per la prima volta impegnato nel progetto «Noi ricordiamo », che finora ha coinvolto un migliaio di studenti e che nel 2008, ventesimo anniversario della scomparsa di Primo Levi, gli renderà omaggio portando il prossimo gruppo anche a visitare la fabbrica di Buna Monowitz, dove lo scrittore lavorò.
«Un incontro civile con la storia, che ha arricchito molto anche me — conclude il regista —. Dopo un viaggio del genere torni a casa con un mistero dentro: come è stato possibile? Per quanto uno cerchi di capire, ti rendi conto che esistono delle dinamiche diaboliche a cui è impossibile dare una risposta. E' come voler arrivare alle radici del male. Che sono sempre più profonde e più tenaci di quanto chiunque possa immaginare».

il manifesto 26.10.07
Non è stata una semplice manifestazione, né una resistenza identitaria. Cerchiamo di capire cosa potrà essere
Sinistra, ricominciamo dal venti ottobre
di Marco Revelli


Il meccanismo della rappresentanza politica - spina dorsale delle moderne democrazie di partito - si è inceppato. Serve una nuova «polifonia» che non si esaurisce nelle istituzioni

Indubbiamente la scommessa era alta. Riguardava la possibilità o meno della sopravvivenza di una sinistra nel nostro paese, nel quadro di una vera e propria mutazione genetica del sistema politico. Questo era il rischio annunciato dal doppio evento della «consultazione» sindacale sul protocollo sul welfare, da una parte, e delle cosiddette «primarie» del non ancor nato Partito democratico, dall'altra, col loro comune carattere di «mobilitazione dall'alto» e l'intreccio di decisionismo burocratico e di plebiscitarismo subalterno che li ha caratterizzati entrambi. E questo era il neppur molto celato desiderio dell'establishment economico e finanziario, dalla Confindustria alla proprietà dei grandi quotidiani nazionali, tutti a tifare per la sopravvivenza della legge 30 e per la nascita del partito di «tutti gli italiani». Per la trasformazione del sindacato in apparato di organizzazione del consenso e per la costruzione di un grande centro egemonico capace di monopolizzare l'intero spazio politico non ancora occupato dai populismi di destra.
Questo, d'altra parte - la comprensione del carattere eccezionale della posta in gioco - è all'origine della straordinaria «mobilitazione dal basso» del 20 ottobre, che a quella prospettiva ha imposto una sostanziosa e massiccia ipoteca. Non si spiega altrimenti la dimensione imprevista e imprevedibile della partecipazione - quella galassia di donne e di uomini che si è condensata tra piazza della Repubblica e piazza San Giovanni intorno al corpo militante dei due partiti che ci avevano creduto, Rifondazione comunista e il Pdci, ma moltiplicandone per tre, quattro volte il numero, circondandoci e sommergendoci - se non con una lucida consapevolezza del carattere non contingente, né «tattico», del momento politico e di ciò che si stava decidendo. Solo un'incurabile ottusità politica, unita all'incultura del nostro giornalismo di regime e a una vocazione all'occultamento e alla menzogna, hanno potuto far precipitare la portata in qualche misura «epocale» dell'alternativa che si era chiamati a sciogliere nell'asfittico fondo d'imbuto della questione del governo, strutturando il grottesco gioco di specchi di una «manifestazione contro Prodi» e una «manifestazione a sostegno di Prodi». Bastava guardare le facce serie, intente, sotto il palco multiculturale e multietnico, a ascoltare le voci di tutte le età lì raccolte, interpretare gli applausi convinti e anche i silenzi non distratti, per capire che quella piazza guardava ben al di là della cronaca di breve periodo di un governo dalla morte più o meno annunciata. E più in alto.
E tuttavia la questione del governo, con la sua ossessiva centralità mediatica, può essere utile per aiutarci a meglio mettere a fuoco alcuni aspetti «di sistema» della mutazione in atto. Intanto perché quella che si era configurata dopo la risicata vittoria del 2006, e che si è lentamente logorata nel corso di quest'anno e mezzo, era l'ultima, estrema opportunità - offerta a quella parte d'Italia che non voleva arrendersi alla deriva affaristico-populistica sintetizzata nel berlusconismo - di salvare il salvabile. Di opporre una qualche diga alla degradazione dello spazio pubblico. Ne ero convinto allora, a urne appena chiuse. Ne resto convinto ora, che quell'opportunità è stata malauguratamente sprecata. E poi perché i meccanismi che stanno all'origine di quel logoramento e di questa crisi - le sue cause reali, non gli espedienti di copertura tirati fuori nel gioco del cerino in corso - la dicono lunga sulla sua natura. Li sintetizzerei in due formule: crisi di legittimazione e ristrutturazione del sistema politico. Detto in modo più volgare: abbandono del proprio elettorato e nascita del Partito democratico.
Il primo aspetto è evidente. Prodi annaspa perché il suo governo ha deluso tutti. Non solo l'elettorato di sinistra. Non solo gli «incontentabili» della «sinistra radicale» (che, poveracci, non hanno avuto proprio nulla di ciò che era stato loro promesso). O quei «piantagrane» dei loro rappresentanti (che, se vogliamo dirla tutta, si sono letteralmente svenati per sostenere un governo spesso insostenibile). Ma anche i cosiddetti «moderati». «Quelli che il liberismo non gli basta mai», e pensano che senza una sinistra troppo implicata con lavoratori dipendenti e precari e popolazioni dei territori, potrebbero portare a casa molta più deregolazione e detassazione, meno spesa e più sviluppo, più cemento, più tutto, giocando sui vincoli dell'Unione europea e sulle logiche di mercato. E non è solo perché le coalizioni larghe sono strutturalmente instabili, finiscono per allungarsi troppo e per strapparsi spesso, o per paralizzarsi nei veti incrociati. Ma soprattutto perché si è inceppato il vecchio meccanismo della rappresentanza politica, spina dorsale delle moderne democrazie di partito, il quale garantiva un sia pur debole rapporto tra insediamenti sociali e presenze istituzionali. Tra soggetti collettivi e rappresentanti politici, stretti da un sia pur debole mandato, in un quadro socio-economico in cui la negoziazione e la redistribuzione erano la regola. Oggi, i vincoli sono sempre meno «verticali» (tra rappresentanti e rappresentati) e sempre più orizzontali (tra i rappresentanti dei diversi partiti coalizzati e dei diversi stati-nazione, connessi tra loro da vincoli comuni e tutto sommato da un comune sentire di stampo oligarchico). E d'altra parte le possibilità di negoziazione e di redistribuzione si assottigliano, in contesti di ipercompetitività globale e di semi-monopolio di entità trans-nazionali, che inceppano se non addirittura mettono fuori gioco anche i residui delle tradizionali politiche keynesiane.
Il secondo aspetto - la nascita del Partito democratico - è meno evidente nella sua carica destabilizzante. Si presenta anzi come una grande operazione di normalizzazione e stabilizzazione, ma il suo potenziale distruttivo dell'attuale quadro politico e del governo è persino più dirompente della delusione dell'elettorato. Quella che si tenta, infatti, non è una semplice operazione algebrica. Né un mero cambio di «contenitore» per elementi se non omogenei, comunque compatibili. E', al contrario, il tentativo di fusione di due culture politiche e di due storie la cui polarizzazione e la cui competizione hanno costituito il tratto qualificante di quasi quarant'anni di storia repubblicana. Un'operazione altamente a rischio (fusioni di tal genere sono improbe persino in campo economico e industriale), destinata a mutare natura - a cambiare il Dna - di due partiti che, per giunta, sono i pilastri centrali che sostengono il governo in carica. E a segnare un tratto forte di discontinuità e di «rottura» nell'assetto complessivo del nostro sistema politico.
Ora, operazioni di questo tipo vengono di solito tentate in un quadro di precauzione rispetto ai possibili contraccolpi sulla sfera del governo e dello Stato: o quando si è all'opposizione. Oppure quando si gode di amplissime maggioranze. Azzardarlo nella condizione del governo attuale, con una maggioranza risicatissima, e con equilibri di per sé a rischio, significa davvero sfidare, con goliardica irresponsabilità, la sorte. Tentare un doppio salto mortale al buio. Comunque terremotare la base su cui poggia il «proprio» governo, senza sapere quale esito avrà la scossa. Né sembra bastare, a attenuarne le conseguenze, l'escamotage che è stato inventato: la neutralizzazione di storia e cultura. La rimozione di entrambe, nell'incapacità di rielaborarle, e la riconversione del vizio in virtù nella retorica della politica non «ideologica», e del rifiuto del passato in quanto luogo di divisioni e contrapposizioni «pericolose». Anzi, il rimedio sembra peggiore del male: ci consegna, tutti, a un panorama politico incerto e imprevedibile, dove l'unica cosa sicura è la discontinuità con ogni presente e ogni passato.
Per questo il lascito della piazza del 20 ottobre è così impegnativo. Essa lancia due messaggi, che sono quelli che abbiamo ascoltato dal palco, e che sembravano davvero il comun denominatore di una folla unita e plurale. Dice, da una parte che «noi ci siamo». Che nell'Italia di domani c'è una sinistra che ha corpo e volontà. Che vuole esistere e prendere la parola. Ma aggiunge, dall'altra parte, che quella sinistra o sarà diversa da tutte quelle esistite fin'ora, o non sarà. O saprà reinventarsi nel nuovo habitat, radicalmente mutato, che la frattura storica apertasi sotto i nostri piedi ha prodotto e ci impone, o quel varco tenuto aperto in extremis, con un'impennata di intelligenza e di orgoglio, si chiuderà. E reinventare una sinistra per il XXI secolo, in un contesto in sé ostile (strutturalmente incompatibile con lo stesso concetto di sinistra così come l'ha conosciuto la modernità), con uno spazio pubblico esploso, un meccanismo della rappresentanza lesionato al limite dell'inagibilità, un universo del lavoro frantumato e eroso dal cancro della precarizzazione e delle delocalizzazioni, appare impresa davvero improba. Tanto più se i vecchi miti e i valori fondanti della modernità industriale in cui ci siamo formati, si rovesciano nel proprio contrario: progresso e sviluppo trasformati da simboli dell'emancipazione in minacce mortali e potenze distruttive; i grandi organismi organizzativi, le strutture capaci di trasformare l'Io in Noi, rovesciati da strumenti di liberazione in apparati di disciplinamento; la stessa democrazia, sussunta dal sistema dei media, svuotata dei soggetti reali e piegata sempre più alla logica della rappresentazione virtuale, trasformata da forma della partecipazione in dispositivo di assoggettamento...
Non basterà, temo, srotolare le vecchie bandiere e inalberare il proprio orgoglio di comunisti. Non basterà neppure - lo dico con disperazione - ritornare con la mente alle buone, ragionevoli, politiche keynesiane, riaffermando testardamente la centralità del conflitto capitale-lavoro, in un mondo in cui il capitale entra direttamente dentro le forme della vita: trasforma noi, le nostre conoscenze, i nostri linguaggi e relazioni, in mezzi di produzione (in capitale fisso), e i nostri Tfr, il nostro salario differito, le nostre vecchiaie, in prodotti derivati (in capitale finanziario), usando nel contempo i nostri desideri e i nostri bisogni come componenti del comando. Occorrerà uno sforzo congiunto e complesso, diversificato per livelli, capaci, ognuno, di ascolto e di autonomia, che nessun contenitore unico, nessuna forma «organica» e univoca (quale era fino a ieri la forma-partito) potrà esaurire. Livelli con tempi e linguaggi diversi: impellente e istantaneo, per così dire, quello della presenza elettorale, il più facile da immaginare (un'unica lista, un unico simbolo, un'immagine credibile di un'entità non frammentata e litigiosa, capace di attrarre tutto ciò che non subisce la seduzione veltroniana), e il più difficile da realizzare in tempi utili (avrebbe dovuto compiersi sei mesi fa, non domani). Più lento, necessariamente lento, quello culturale, bisognoso di paziente riflessione, di pacata e insieme radicale analisi di un patrimonio culturale da non ripudiare ma da rivisitare criticamente. Pervasivo e polifonico, infine, quello sociale, aderente alle «coscienze di luogo», alle specificità soggettive, capaci di racconto e di ascolto. E tutti e tre, in qualche modo, in reciproco rispetto e ascolto.

Aprile on line 25.10.07
Sinistra, superiamo gli ostacoli
di Pietro Folena


L'intervento. Non è la stessa cosa fare la sinistra basandosi su accordi di vertice o farla con il protagonismo del suo popolo. Nel primo caso essa sarà sempre in balia delle convenienze momentanee di questo o quell'altro dei partecipanti. Nel secondo, invece, sarà una soggettività vera che non si scioglierà al primo stormir di fronde

Fabio Mussi ha compiuto ieri (mercoledì 24 ottobre, ndr), nell'intervista che ha rilasciato al Manifesto, un'operazione politica sincera e coraggiosa.
Mi sono trovato spesso in disaccordo, negli ultimi due anni, con i compagni dell'ex Correntone (e non solo con loro). Ad esempio sulla sottovalutazione del percorso che poi ha portato al Partito democratico. Mi pare che l'esperienza della sinistra diessina, che in un certo senso aveva il dovere di rappresentare la punta più avanzata di un possibile percorso unitario a sinistra, sia apparsa troppo timida.
Per questo l'intervista di Mussi mi ha particolarmente colpito. Perché dice delle cose giuste, che la maggioranza dei militanti della sinistra pensa da tempo e contiene anche un paio di proposte coraggiose e non scontate: i gruppi unitari in parlamento e un soggetto unitario della sinistra.

Sempre ieri però il vertice dei segretari ha partorito una proposta meno avanzata: una federazione tra i gruppi e una federazione tra i partiti. Io penso che non basti. Lo dico per l'esperienza fatta nei Ds. Allora la cosiddetta "Fed" non partorì assolutamente nulla. Non ci sono motivi per dubitare che lo stesso potrebbe facilmente accadere alla Federazione rossa.
Comunque, i risultati del vertice sono già un inizio. E' importante che finalmente si sia decisa una data per gli Stati generali e, soprattutto, che saranno aperti alle realtà associative e di movimento. Ora il compito di chi vuole l'unità è quello di spingersi oltre, di proporre e immaginare ipotesi più avanzate e portarle all'assemblea di dicembre.

Senza per questo però farsi illusioni. Del resto le resistenze al modello tedesco sono abbastanza rivelatrici. Così come la contrarietà alle primarie sulla leadership. Trovo piuttosto singolare il ragionamento che si fa su questo punto, per il quale far scegliere i dirigenti agli elettori non appartiene alla cultura della sinistra. Io penso al contrario che dare la parola al popolo (per davvero, presentando proposte diverse) sia sempre di sinistra. In ogni caso lo è di più che delegare ai dirigenti il compito di scegliersi da soli.
Questi sono solo alcuni dei nodi che oggi vengono al pettine, nodi che denunciano il ritardo politico e culturale che ostacola l'unità a sinistra. Io temo che a scioglierli non possano essere i gruppi dirigenti. Penso, al contrario, che il popolo sia già arrivato al traguardo e aspetti che ci arrivino anche i vertici. Il 20 ottobre ha prodotto qualcosa che è andato ben al di là della volontà dei partiti. Ha reso evidente che l'unità della sinistra in un solo soggetto politico (plurale, federale, quel che si vuole, ma un solo soggetto politico) è un'esigenza che va oltre l'appuntamento di una manifestazione o di una elezione.

Pur cogliendo gli aspetti positivi usciti dal vertice di ieri, bisogna sgombrare il campo dal sottofondo di non detti, dalla timidezza sul percorso unitario, dalla tentazione di "gestire" una spinta unitaria che rischia quasi di sfuggire di mano. Invece che, al contrario, cavalcarla.
E, allora, il punto è superare gli ostacoli. Come? Con il coraggio e la generosità. Il coraggio di interpellare il popolo per davvero e non per ratificare decisioni già prese. La generosità dei gruppi dirigenti non di fare un passo indietro, ma uno avanti. Il passo è fare "guidare" e "dirigere" davvero un popolo della sinistra che ha già deciso dove andare ma che non farà sconti se non sapremo dargli ascolto.
Per questo il metodo è sostanza. Non è la stessa cosa fare la sinistra basandosi su accordi di vertice o farla con il protagonismo del suo popolo. Nel primo caso essa sarà sempre in balia delle convenienze momentanee di questo o quell'altro dei partecipanti. Nel secondo, invece, sarà una soggettività vera che non si scioglierà al primo stormir di fronde.
Le primarie su tutto - programma, simbolo, nome del nuovo partito e poi dirigenti e leadership - oggi forse sono l'idea di una minoranza, giudicata con antipatica sufficienza. Ma credo che non ci siano strade migliori di questa per fare la sinistra.

il manifesto e La Rinascita della sinistra 26.10.07
«No a governi tecnici o istituzionali. Se cade si torna a votare»
Intervista di Matteo Bartocci ad Oliviero Diliberto


No ad un governo tecnico o istituzionale se l'esecutivo di Prodi dovesse cadere, questo il commento del segretario dei Comunisti italiani intervistato oggi dal Manifesto

«E' ormai evidente che Prodi si deve guardare dai centristi», ed il riferimento è anche al comportamento di Di Pietro sul ponte di Messina definito da Diliberto «uno scandalo».
Per il leader del Pdci «il gioco è ormai evidente: il versante moderato e conservatore vuole far cadere un governo che, ancorché molto moderato, è comunque sostenuto dalle sinistre».
E le pressioni non arrivano solo dal centro ma sono anche internazionali, «i venti di guerra in Iran aumentano» e Bush con la sua amministrazione sta lavorando «ad un governo senza comunisti, con un altro presidente del consiglio e un diverso ministro degli esteri».
Alla proposta del presidente della Camera di un governo istituzionale dopo Prodi Diliberto è contrario, «c'è un problema di legittimità democratica. Questo governo è stato votato e per noi se si cade si torna a votare».
Le difficoltà del governo nascono anche dalla nascita del Pd: «manca un interlocutore perché oggettivamente ce n'è anche un altro».
Il problema resta quello della legge con cui andare al voto, «per noi» afferma Diliberto «il modello regionale è perfetto, garantisce rappresentatività e bipolarismo ed evita tentazioni neodemocristiane».
E se si dovesse andare al voto con questa legge rimarrebbe in piedi la federazione della sinistra? Per il segretario del Pdci questo è certo, questo «non è un cartello elettorale ma un progetto politico».
E a testimonianza di ciò Diliberto ricorda l'assemblea della sinistra convocata per l'8 e 9 dicembre, «un fatto positivo, aperto anche a chi non fa parte dei quattro partiti della sinistra».
In merito alle polemiche sulla possibilità di un simbolo comune della confederazione, il leader dei Comunisti italiani ribadisce che se lo si farà «dovrà richiamare necessariamente il tema del lavoro», mentre «falce e martello resteranno il simbolo del Pdci».
A quasi una settimana dal 20 ottobre Diliberto definisce quel giorno «una grande manifestazione di sinistra, dove i comunisti erano la gran parte. E tuttavia in tantissimi non erano comunisti», elogiando poi pubblicamente il coraggio con cui Mussi «ha riconosciuto che è stato un grande errore non partecipare».
Il 7 novembre sarà il novantesimo anniversario della Rivoluzione d'ottobre, un grande appuntamento a cui Diliberto, unico segretario straniero, prenderà a parte direttamente a Mosca parlando dal palco con Zhuganov durante la manifestazione.
«Un segno di rispetto» per il leader dei Comunisti italiani «che abbiano chiesto a me di parlare da quel palco». Ricordando come «solo da noi è uno scandalo parlare di cose di questo genere», forse anche perché «non abbiamo mai fatto una rivoluzione».
C'è ancora qualche possibilità? Per Diliberto «essendo un comunista è chiaro che mi sento un rivoluzionario. Ma se la proponessi in Italia mi ricovererebbero al manicomio. Molto più modestamente mi accontenterei di fare qualche buona riforma».
Ma l'«album di famiglia» del manifesto lo porteresti sulla Piazza Rossa?
Per allora sono sicuro di avere tutte le figurine.

Terapia del dolore. Italia in ritardo, mancano i centri
La Società Italiana di Cure Palliative (SICP), in occasione della presentazione del congresso nazionale che si terrà a Perugia dal 13 al 16 novembre, ha denunciato il fatto che per i 250.000 malati terminali italiani esistono solo 114 'hospice' che garantiscono le cure palliative a chi è colpito da malattie incurabili, a cominciare dai tumori. Mancherebbero circa 200 strutture, per la realizzazione delle quali sono già stati stanziati i fondi necessari: 206 mln di euro tra il 1999 e il 2002 e altri 100 con la Finanziaria 2006. La distribuzione dei centri già operativi non è omogenea: il Nord è in testa con l'Emilia-Romagna e il Sud in coda con la Sicilia. Secondo Franco Zucco, Presidente della SICP, 'manca un modello nazionale per lo sviluppo della rete che integri gli hospice con le cure domiciliari'. Da qui l'intenzione del Ministro della Salute Turco di presentare un Piano nazionale per le cure palliative. (Corriere della Sera: pag. 19, Il Sole 24 Ore: pag. 32, Libero: pag 33 - 24 ottobre 2007- segnalazione di Francesco Troccoli)

Liberazione 26.10.07
Inizia con un paradosso la segreteria Veltroni
E l'Unità finì nelle mani del padrone di Libero
di Antonella Marrone



L'Unità sta per avere un nuovo editore. E' di ieri la notizia che sarà di fatto concluso, entro breve, un accordo con la famiglia Angelucci. Una salvezza per il giornale. Ma un'ombra inquietante sul suo destino quantomeno politico. Angelucci: un nome, un programma, per l'Unità. Come dimenticare che questa esuberante famiglia di imprenditori e possessori di cliniche ed ospedali, non è la prima volta che si trova fra gli azionisti del quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Gli Angelucci erano quelli che stavano nella Uem - la società che crocifisse l'Unità nel 2000 - con un decoroso 20% e che poi, in zona Cesarini, si sfilarono all'inglese prima della debacle totale e senza aver ottenuto quello che, all'epoca, si diceva fosse il vero interesse della loro società, la Tosinvest: un accordo con la Regione Lazio per l'Ospedale San Raffaele. L'accordo venne concluso in seguito, quando alla Regione c'era Storace, e gli Angelucci si erano da poco comprati Libero . Già, proprio il quotidiano diretto da Vittorio Feltri. Il che ci porta a fare subito una prima amara considerazione. In questo paese, la cui vera anima è manifestamente cerchiobbottista, è possibile essere proprietari di due quotidiani con linee editoriali opposte (gli Angelucci hanno anche il Riformista , ma lì siamo almeno ad un quarto grado di parentela con l'Unità !) e vivere sereni, senza che nessuno ne rimanga stupito. Eppure tutti sanno che entrare nel mondo della carta stampata e fare un quotidiano non è il massimo del business. Devi metterci dentro un bel po' di chincaglieria per poter fatturare qualcosa di decente in edicola. Quindi il fine non è trarre profitto dalla carta stampata ma da altro. L'Unità non naviga nella pubblicità. Resta la politica. Veltroni non ha mai avuto un buon feeling con questa intraprendente società di "ospedalieri". Non sappiamo se lo abbia avuto, questo feeling, con l'Unità dopo averne lasciato la direzione. Certo è che da un po' di tempo, sull'onda di un perdita rilevante di vendite, considerando la difficoltà degli azionisti a reperire nuove somme, ma, molto più prosaicamente, avendo Veltroni totale ed incontrastato appoggio da uno dei maggiori organi di informazione, La Repubblica , i beni informati raccontano che il nuovo segretario del Pd non sapesse che cosa farne del quotidiano ex Ds. Comunque dopo la notizia dell'acquisto da parte degli Angelucci, qualche molla è scattata nel riflessivo Walter che deve aver colto il paradosso in cui rischia di cadere se il giornale di Gramsci condivide l'editore con il giornale di Feltri. .E pare che si sia prodigato nel rassicurare gli amici del giornale che è tutto sotto controllo. Quindi tornano gli Angelucci. Prendendosi questa volta una bella fetta (si dice l'84%) della società AD, azionista di maggioranza della Nie, società editrice del quotidiano. Per farne che? La versione più accreditata è che dietro a questa operazione ci sia Ugo Sposetti, inflessibile tesoriere degli ex Ds e che vicino a lui ci sia l'attuale Ministro degli Esteri. 
Ora, parliamoci chiaro. D'Alema spunta fuori ogni volta che si parla di trabochetti o trappoloni a Veltroni. In questo caso, si tratterebbe di sottrargli l'Unità, togliere di mezzo alcune firme poco simpatizzanti (evidentemente Colombo, Travaglio e Padellaro) e rompere un po' le scatole al suo miglior nemico. Ma la ricostruzione potrebbe rilvelarsi fantasiosa, meno, in ogni caso, di quella che vuole gli Angelucci come "messi" di Veltroni. Resta il fatto che questa vicenda, poco trasparente, si insinua come un fantasma tra i pensieri che il segretario del Pd sta riordinando per sabato prossimo a Rho, si presenta come una notevole ed imprevista seccatura. Come uscirne? Mah, in fondo che male c'è ad essere editori di "Libero", ma anche de "L'Unità".