sabato 19 settembre 2009

il manifesto 19.9.09
Ignazio Marino: «Siamo in guerra? Allora dobbiamo ritirare le truppe»
Intervista al candidato alla segreteria del Partito democratico
nelle edicole, domani qui

il manifesto 18.9.09
La guerra, la democrazia e i nostri obiettivi
di Loris Campetti
qui

Liberazione 18.9.09
L'Italia va in guerra
di Angelo d'Orsi

Dunque in guerra si muore. E il Paese lo scopre quando a soccombere sono i suoi figli, i giovani che abbiamo inviato in Afghanistan, come ha asserito impassibile il ministro della Difesa, a "difendere la nostra libertà contro il terrorismo". E mentre costui aggiunge i soliti insulti agli attaccanti ("infami vigliacchi"), il suo collega agli Esteri si riempie la bocca con "l'orgoglio italiano".
Lessico di guerra, per un fatto bellico. Si scopre pure, quindi, che l'Italia è in guerra: la parola che Mussolini definiva "paurosa e fascinatrice", dopo l'orgia di sangue e di ferro e di fuoco del Ventennio, a cui era seguita un'era sostanzialmente di pace, è stata accuratamente bandita, in tutti i conflitti dell'era post-bipolare, dalla Prima Guerra del Golfo in poi. Da allora, nondimeno, i nostri militari li abbiamo visti costantemente in azione; ma hanno compiuto interventi umanitari, operazioni di polizia internazionale, o addirittura di peacekeeping, e quant'altro: di guerra non si doveva, non si poteva parlare.
Ora, davanti a questi morti, che diremo? E potremo ancora dire qualcosa?
La Federazione Nazionale della Stampa si è premurata di rinviare la manifestazione del 19 per la libertà di informazione, il primo vero tentativo di scuotere i dormienti in un Paese ormai assuefatto alla sopraffazione e aduso al silenzio. A maggior ragione, in una società cloroformizzata, che ascolta il nuovo duce dagli schermi a reti unificate, sarà difficile proferire parole critiche: quando la Patria è in gioco, debbono tacere i contrasti. Questa, almeno, era la regola ferrea di epoche che si pensava fossero definitivamente alle nostre spalle: ma allora, almeno, si sapeva di essere in guerra, e la guerra era consentita dall'ordinamento vigente. Poi venne un'altra guerra, quella partigiana, che fu scontro sociale, conflitto civile e insieme guerra di liberazione nazionale: e portò, con la fine del fascismo, anche la Costituzione e la Repubblica.
E si dà il caso che, molto saggiamente, i padri costituenti - provati dalle troppe guerre del mezzo secolo precedente, ma soprattutto consci che del nesso robusto tra guerra e fascismo - elaborassero un articolo (il n. 11) che proibiva la partecipazione italiana a ogni guerra: e, con la solennità del caso, si servissero di un verbo impegnativo come "ripudiare". Precisavano altresì che in quella ripulsa erano comprese le guerre "come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali". Ma, allora, cosa è accaduto? La Costituzione davvero non vale più nulla? Allora ce lo si dica. E il primo a dirlo dovrebbe esser il suo supremo garante, il Presidente della Repubblica.
Non risulta abrogato, quell'articolo, che anzi, ne son convinto, è uno dei più condivisi dell'intera Carta del 1948: ma Paese, istituzioni e "informazione", tacciono, o plaudono, versando lacrime ipocrite, tra ignavia e complicità.

Liberazione 18.9.09
Il rinvio della Fnsi non convince l'arcipelago pacifista. E parte una proposta
Ferrero: «Mobilitiamoci in ogni città per il ritiro delle truppe»
di Checchino Antonini

M a come? Rinviare la manifestazione per il diritto all'informazione perché in Afghanistan c'è stata l'ennesima strage di guerra in uno scenario di guerra? Come se la stampa "embedded" non c'entri nulla con i depistaggi dell'opinione pubblica anche sulle missioni militari all'estero.
Spostare tutto di un paio di settimane non convince, basta consultare il termometro Facebook, settori ampi di mediattivismo, di movimento pacifista, di sinistra radicale. «Il nostro Il nostro Paese ha bisogno di riflettere collettivamente su questa immane tragedia e sugli assurdi motivi che ci hanno portato e ci portano ancora oggi a piangere morti italiani, non certo di chiudersi in sè stesso», dice a Liberazione il segretario di Rifondazione comunista , Paolo Ferrero , che propone agli organizzatori di trasformare la giornata di sabato «in una grande manifestazione non solo per la libertà di stampa ma anche a favore delle ragioni della pace». Tutte le prefetture d'Italia, suggerisce al resto della gauche la Federazione della sinistra di alternativa (Prc, Pdci e Socialismo 2000), potrebbero essere dopodomani teatro di una mobilitazione diffusa per il ritiro delle truppe. Nelle prossime ore si capirà quanta eco avrà questo appello presso i soggetti che animarono, solo pochi anni orsono, quella che fu definita la seconda potenza mondiale. Liberazione ha sentito alcune voci. Voci che prendono parola ma ancora non si parlano.
«La Cgil a suo tempo, nel congresso del 2002, votò solennemente il no alla guerra in Afghanistan e la richiesta del ritiro delle truppe, cosa che ha confermato nel congresso successivo. Per cui è chiaro che anche dal movimento sindacale, o almeno dalla Cgil, deve oggi venire con forza la richiesta della fine dell'intervento militare italiano in Afghanistan», ricorda Giorgio Cremaschi , della Rete 28 aprile . Ma da Corso Italia, la più grande confederazione sindacale si limita ad aggiungere al cordoglio per le vittime la necessità di ripensare la strategia. E si condivide «pienamente il rinvio deciso dalla Fnsi della manifestazione per la libertà di stampa prevista per sabato». Eppure, esorta dal sito di Carta , Gigi Sullo, «se esiste un movimento per la pace, farebbe bene a farsi sentire, accantonando depressioni e sfiducie. Si tratta di riportare a casa vivi i ""nostri ragazzi"». Quelli che tutti piangono ogni volta che muoiono. Salvo poi invocare nuove e più micidiali regole di ingaggio.
«La lotta per la pace non va in ferie, anche quando si perde. E' un modo di esistere», dice don Albino Bizzotto , dei Beati i costruttori di pace reduce da un lungo sciopero della fame per attirare l'attenzione sul Dal Molin. Obiettivo raggiunto solo in parte. Il digiuno viene proseguito da altri pacifisti ma la stampa proprio non se ne accorge. In questi giorni, con interviste dai microfoni della padovana Radio Cooperativa , Bizzotto stava promuovendo la giornata di sabato. E' consapevole che la questione della libertà di stampa non si ferma «alle esondazioni del primo ministro». Battersi per obiettivi concreti (contro le missioni, le basi e gli F35 o il pacchetto sicurezza) e contro scelte di politica internazionale «fatte con poca buona fede da tutti i governi» sia urgente ma non sfugge al sacerdote veneto che «in questi giorni la stampa batterà sull'aspetto emotivo, noi si rischia di restare all'angolo, di non trovare spazi».
«Non sono riuscito a parlare con la Fnsi, telefoni erano roventi, e non conosco le motivazioni del rinvio ma se l'avessi convocata io l'avrei fatta la manifestazione», spiega anche Flavio Lotti della Tavola per la pace che aveva aderito e sarebbe sceso a Roma con la bandiera della pace più grande che ha. «Non è grave - continua - che ci si fermi per il cordoglio ma che ci si fermi solo per esprimere solidarietà nazionale e non per discutere sul perché sia accaduta l' escalation afgana e cosa fare per uscirne, per evitare altre morti. E' grave che dal servizio pubblico arrivino solo "lacrime di Stato" e non servizi che ci aiutino a comprendere la situazione. Se avessi le forze farei manifestazioni in ogni città, davanti alle sedi politiche, della Rai e dei giornali».
«Davvero li piangiamo - interviene Raffaella Bolini , responsabile internazionale dell' Arci - quei morti sono lavoratori, cittadini, italiani, impiegati presso le forze armate. E laggiù c'è una guerra e nella guerra si muore». La notizia è arrivata all'Arci durante i lavori della presidenza nazionale. «E'evidente l'utilizzo politico di un evento come questo - ricorda Bolini - l'abbiamo già vissuto altre volte, se si volesse davvero onorare la memoria di questi poveri morti governo, parlamento, politica, dovrebbero rispondere a una domanda: "Che stiamo a fare lì? L'occupazione dell'Afghanistan ha prodotto un disastro, lo dicono gli osservatori Ue, lo sanno tutti che è un pantano. E il movimento pacifista se avesse la forza dovrebbe imporre questo dibattito».
«Male ha fatto l'Fnsi ad annullare la manifestazione, avallando un clima di falsa unità nazionale. La libertà di stampa è fatta anche di tanti cronisti morti sui fronti di guerra e una simile manifestazione avrebbe potuto parlare anche della guerra e delle sue conseguenze. Per parte nostra continueremo a impegnarci perchè il nostro paese torni a rispettare l'articolo 11 della Costituzione oramai da tempo calpestato dai governi di centrodestra e centrosinistra», annunciano per Sinistra critica, Salvatore Cannavò e Franco Turigliatto . «Contro le richieste che vengono anche dalla presidenza Obama di un ulteriore impegno italiano in Afghanistan, ribadiamo con ancora maggior forza che c'è un'unica soluzione per evitare che si versi altro sangue: il ritiro delle truppe di invasione», scrive il portavoce Cobas , Piero Bernocchi , invitando il movimento no-war e gli amanti della pace a riprendere la mobilitazione. E il Pcl di Marco Ferrando chiede «a tutte le sinistre italiane di promuovere immediatamente una mobilitazione nazionale con manifestazione a Roma sotto i palazzi del governo».

il Riformista 19.9.09
Parla la Bonino: «Sarebbe da pazzi andarsene»
di Alessandro Calvi

«Solo un irresponsabile può dirlo. Del resto anche col governo di centrosinistra accadeva lo stesso. Così come viene richiesta, questa conferenza sarebbe inadeguata e rischia di diventare inutile».

«La credibilità istituzionale di paese è uno degli asset più importanti in politica estera». Emma Bonino ce l'ha con le divisioni che nel centrodestra e nel centrosinistra si sono manifestate dopo l'attentato che a Kabul ha provocato la morte di 6 soldati italiani. Quanto alla soluzione del rebus afgano, l'idea di una conferenza internazionale va bene ma andrebbe rivista, coinvolgendo anche i vicini come Iran e Cina.
Onorevole Bonino, l'esplosione di Kabul sembra aver confuso le idee un po' a tutti. Il centrodestra, ad esempio, da Berlusconi a Bossi e La Russa, è sembrato vacillare.

Guardi, quando al governo c'è una coalizione accade sempre così. Anche col governo Prodi abbiamo avuto lo stesso problema. Questo accade perché in questo paese qualcuno ha difficoltà a capire cosa significa rivestire un ruolo istituzionale. Ognuno parla ai propri elettori, convinto che poi nessun altro legga quelle dichiarazioni ma, in un mondo globale, non funziona così. Qualcuno dovrebbe spiegare che la credibilità istituzionale di un paese è uno degli asset più importanti in politica estera.

Si riferisce a Bossi?

Bossi è il leader di una delle forze politiche più condizionanti ed è anche un ministro. Quello che ha detto è stato tradotto in arabo e pubblicato in tutto il mondo. Ma, lo ripeto, questo discorso non sono mai riuscito a farlo capire neppure ai miei colleghi nel governo precedente. È una cattiva abitudine che non riusciamo a perdere. In aula, ad esempio, Antonio Di Pietro ha parlato di ritiro, a dimostrazione che i populismi, ovunque siano collocati, poi alla fine convergono.

Il presidente della Repubblica rispondendo ai giornalisti ha detto di girare al premier le domande sulle divisioni nel governo e però ha osservato di non rilevare divisioni sul fronte opposto, il Pd.

Questo è vero, neppure io ne ho viste. Ho visto soltanto Di Pietro su una posizione diversa. Il problema è lì. Però, guardi, ognuno si barcamena ma credo che tutti saremmo d'accordo sul principio che sarebbe meglio che l'Afghanistan si reggesse da solo e che potessimo andar via. Il problema del venir via o meno, però, dipende dalle condizioni date e non si può risolvere in termini ideologici.

E quali sono a suo parere queste condizioni?

L'idea ribadita da Brown, Sarkozy e Merkel di una conferenza internazionale è opportuna. Si tratta, peraltro, di una richiesta italiana avanzata prima dello scorso G8. Il problema però è quello di ricalibrarne i contenuti. Un semplice rafforzamento militare, infatti, non mi pare che risponda ai problemi che, nel frattempo, si sono ingranditi. Così come viene richiesta, invece questa conferenza sembra la solita conferenza con lo stesso formato di tutte le conferenze sull'Afghanistan che abbiamo già visto, da Bonn a Londra, da Parigi a L'Aja. Sarebbe una conferenza di donatori e di coloro che hanno truppe sul campo. Sarebbe inadeguata e rischierebbe di diventare inutile. Io invece ritengo che sia fondamentale un approccio regionale perché l'Afghanistan non si stabilizza soltanto dall'interno.

Ma intorno ci sono anche paesi come l'Iran. Non starà proponendo di sedersi al tavolo anche con l'Iran?

E invece dico proprio questo. O c'è un impegno regionale o non si va da nessuna parte. Ne sono convinta, pur capendo le difficoltà diplomatiche della cosa.

Quanto alla missione, è da modificare o no?

Va rivisto il fatto che ogni contingente abbia regole di ingaggio proprie. E si deve riflettere su come si combinano le forze sul campo. Anche le intelligences a volte non si parlano. E la mancanza di intelligence è fonte di errori e incidenti.

Anche Avvenire dice che andarsene ora lascerebbe campo libero a violenza e caos.

A nessuno che guardi all'Afghanistan con l'ottica della responsabilità internazionale può venire in mente di dire: andiamocene. Altro è dire che la missione sia migliorabile.

l’Unità 19.9.09
Sanaa, l’onore di famiglia e l’ignoranza che uccide
di Elena Doni

La scrittrice: in Marocco leggi avanzate che tutelano le donne, la religione non ha ispirato l’assassino. L’Italia, la cittadinanza e i diritti
Pluridentità. Non è facile la vita di chi nasce in un paese diverso da quello dei genitori. La sua identità è ricca e complessa
Seconda generazione. La società capisca che esistono i nuovi italiani. Importanti per tutti la conoscenza reciproca e il dialogo

L’ha detto in televisione, lo ripete a tutti, la mamma di Sanaa: «Perdono mio marito, Sanaa ha sbagliato». Il suo viso duro, da contadina, incorniciato dal hijab, è chiuso a difesa dell’« onore» familiare. Successe così anche con la madre di Hina, la ragazza che a Brescia fu uccisa dal padre. Al processo quando fu letta la sentenza che lo condannava a trent’anni la madre di Hina, impassibile al funerale della figlia, ebbe una crisi di nervi e dovette essere portata via in ambulanza.
Sapevano già, quelle madri, cosa sarebbe toccato alle figlie che avevano scelto di vivere con il ragazzo di cui si erano innamorate? Forse sì, ma certo i padri erano sicuri che le loro mogli non si sarebbero opposte al loro modo di fare giustizia. In nome di cosa? «Dell’onore della famiglia» hanno detto gli omicidi in entrambi i casi. Ne abbiamo parlato con Sumaya Abdel Qader, autrice del libro Porto il velo, adoro i Queen, nata a Perugia da una famiglia giordano-palestinese, laureata in biologia e portavoce delle donne musulmane in Europa. Quale onore, fondato su quali leggi? Della religione, del paese d’origine, delle tradizioni tribali? «La religione? Assolutamente no. Chi lo pensa ignora che nell’etica musulmana la misericordia è fondamentale: «La Mia misericordia precede la Mia giustizia» è scritto nel Corano. Né davvero possono essere state le leggi del paese d’origine della famiglia di Sanaa a ispirare questo delitto. E quanto a leggi del paese di provenienza, è vero il contrario: il Marocco si è dotato di leggi di grande apertura verso i diritti delle donne. È stato il re stesso a volerle, come ha voluto l’istruzione obbligatoria per tutti. È quello che sta succedendo anche in Giordania, per iniziativa della regina Rania sono state abolite le attenuanti quando un crimine è commesso contro una donna. Né credo che in Marocco esistano tradizioni tribali che contemplano il delitto per difendere l’onore della famiglia. È l’ignoranza a dettare questi comportamenti». La senatrice Vittoria Franco, responsabile nel Pd delle Pari Opportunità, nel deplorare il comportamento del padre di Sanaa «fuori dalla storia e dalla umana comprensione», ha detto che «unica consolazione è che il processo di integrazione di queste ragazze immigrate nella nostra società, che le spinge verso la libertà e l’emancipazione, è un processo inarrestabile». E ha aggiunto che è importante garantire a queste giovani piena cittadinanza e la solidarietà di tutte le donne. Non crede, che sarebbe ancora più urgente esigere dagli uomini che chiedono il permesso di soggiorno di conoscere, oltre alla nostra lingua, anche le leggi più importanti e i costumi in uso in Italia?
«La pluridentità di chi nasce e cresce in un paese diverso da quello dei genitori non è facile da vivere. È un’identità complessa ma anche ricca. Spesso poco valorizzata e anzi guardata con sospetto. È necessario un approccio plurimo: anzitutto interno alle nostre comunità, con i genitori, che spesso sanno ben poco della vita dei loro figli, non ne conoscono la vita quotidiana, il modo di lavorare a scuola, di fare i compiti a casa. Ma è importante anche ascoltare i figli, capire il loro desiderio di avere un amico, un’amica. Un altro punto fondamentale è l’insegnamento della religione musulmana: della quale è giusto mostrare la bellezza e la profondità, ma che non deve mai essere insegnata “a contrasto”. Non si deve mai dire: “loro fanno questo, noi questo non lo facciamo”. E quando i figli crescono è molto importante seguire il dibattito interno tra i giovani, che spesso si trovano soli ad affrontare crisi identitarie, difficoltà quotidiane, ambiguità».
E da parte italiana cosa è opportuno fare? «La società italiana deve capire che esistono ormai i nuovi italiani, imparare a conoscere persone che sono italiane ma hanno alle spalle storie private e background diversi. La cittadinanza non è solo un pezzo di carta, è qualcosa di più importante». Peraltro ben difficile da conquistare. Lei da quanto tempo lo aspetta?
«Da 31 anni, più o meno da quando sono nata. Finalmente è arrivato il decreto d’approvazione. Dovrei diventare presto italiana a tutti gli effetti. Ma tornando ai problemi della pluridentità: è importante per tutti gli immigrati conoscere l’ambiente in cui si vive. Io non amo la parola “integrazione”, che spesso viene intesa come assorbimento, preferisco parlare di interazione e cooperazione per il bene comune».
Non pensa che l’Italia dovrebbe esigere la conoscenza della lingua e delle nostre leggi principali anche da chi chiede il permesso di soggiorno? «Forse sarebbe troppo chiedere da persone immigrate da poco tempo. Ma certo è importante lavorare in questa direzione. E noi collaboriamo attivamente con associazioni laiche italiane, e spesso con le parrocchie. E un processo di conoscenza reciproca che si sta diffondendo in Europa. Come Forum delle donne musulmane abbiamo presentato il nostro programma al Parlamento Europeo e ora vogliamo approfondire il lavoro di conoscenza reciproca in Italia». ❖

Corriere della Sera 19.9.09
Le ragazze islamiche sospese tra due culture
di Marco Imarisio

Li hanno battezzati «G2», seconda generazione. Sono un milione di ragazzi e ragazze (ogni anno se ne aggiungono centomila) figli di immigrati ma cresciuti in Italia. Si chiamano Tarah, Meryem, Abdallah.
Sospesi tra due mondi e due culture, cercano di generarne una nuova.
Ma qualche volta la cultura del Paese di adozione li respinge. E quella del Paese di origine può arrivare a ucciderli, come è successo a Sanaa.
Tahra e Meryem: se mettiamo il velo non ci salutano più

TREVISO — «Allora, praticamente, quest’estate ho letto un sacco di Cora­no. Così due settimane fa decido di mettermi il velo e di prendere l’auto­bus, il solito 61, quello che da San Pe­lagio arriva a Ponzano. Tieni presente che in genere quando salgo mi saluta­no tutti, anche le sedie. Bene, quella volta sembravo invisibile. Eppure la voce e la manina che agitavo per fare ciao era la solita, la mia. Quando mi sono seduta la signora accanto a me, che conosco bene, si è alzata ed è ri­masta in piedi. Cosa puoi dirgli? Poa­reti , sono fatti così».
Tahra Essiya ride anche con gli oc­chi, la sua allegria è contagiosa. Con la carica che si ritrova venderebbe fri­goriferi al Polo Nord, figurarsi i vec­chi libri di quinta, esposti in precario equilibrio sui gradini del Duca degli Abruzzi, venerabile istituzione scola­stica trevigiana. Magari senza voler­lo, ma rappresenta una avanguardia. Un prototipo. «G2», li hanno battezza­ti, seconda generazione. Un milione di ragazzi e ragazze, queste le stime della Fondazione Agnelli, ogni anno centomila di più. Sospesi tra due mondi e due culture, ne generano una completamente nuova, o almeno vorrebbero. I suoi genitori sono arri­vati da Skhirat, Marocco, che aveva tre anni. Adesso che ne ha 19 e cam­bia più cellulari di Paris Hilton, paro­le sue, si è messa a studiare l’arabo perché sente che l’italiano e il dialetto veneto non bastano più. Racconta di aver dato il suo cuore a Laura Pausini, quando nell’iPod parte la strofa «i miei occhi sono isole dove non viaggi mai» si commuove sempre. Ma an­che Mondo Marcio non è male e i vec­chi Articolo 31 la facevano tanto ride­re. Il papà è operaio alla Pagnossin, dalla settimana scorsa l’hanno messo in mobilità. La mamma fa le pulizie in giro per la provincia. Quest’anno Tarah si iscrive all’università, va di fretta perché deve studiare, il test per l’ammissione alla facoltà di Servizi so­ciali è andato male, c’è da preparare l’esame di ripescaggio. «E ci puoi scommettere un milione che lo pas­so ». Lo dice mettendo su una espres­sione da ispettore Callaghan, sembra un broncio ma poi arriva un’altra risa­ta. È stata incerta fino all’ultimo, per­ché il suo sogno era fare la poliziotta, oppure andare all’Accademia milita­re.
«Serietà, sicurezza e giustizia. Io credo in questi valori».
L’aspirante poliziotta risulta indige­sta allo sceriffo, quel Giancarlo Genti­lini ex sindaco e noto autore di battu­te simpaticissime, come quella sugli immigrati-leprotti da impallinare al­l’apertura della caccia. Assieme alla sua amica Meryem Fourdaus, 21 an­ni, studentessa di Economia a Padova e commessa in un negozio del centro, padre operaio cassintegrato, madre addetta alle pulizie in una casa di cu­ra, ha creato il movimento «Seconda generazione». Nel 2008 hanno orga­nizzato la preghiera segreta in un par­cheggio della periferia, spiazzando le autorità cittadine. Quest’anno lo han­no rifatto, affittando da un privato una stanza nell’ex Coop di via delle Puglie. L’ingresso è quasi sempre ad­dobbato di bandiere italiane.
La ribellione di Tahra e Meryem non ha motivi religiosi. «È un urlo ri­volto alla città e ai nostri padri» dico­no. Non sopportano il divieto di mo­schea e la rassegnazione dei loro vec­chi nell’accettarlo. «Noi siamo italia­ne, ma solo fino a quando comincia­mo a parlare. Dopo, torniamo a esse­re quelle là, emarginate. Cittadini di serie B. Dal punto di vista dei diritti veniamo percepite come fossimo ap­pena sbarcate a Lampedusa». Vittorio Filippi, trevigiano, docente di sociolo­gia a Ca’ Foscari, ha studiato la rabbia della seconda generazione. La sua cit­tà, assieme a Vicenza, anche in que­sto è il laboratorio di un Veneto già laboratorio di suo con i 70.466 alunni stranieri nelle scuole, 26.074 dei quali nati in Italia. «A quelle ragazze viene negata una diversa identità alla quale sentono di avere diritto. Così finisco­no per cercarne un’altra nei loro valo­ri, riscoprono la religione e la cultura di provenienza nella quale finiscono per trovare un fattore di ancoraggio. La loro battaglia per la moschea 'se­greta' si spiega anche così».
Mentre si dirige al vecchio super­mercato, Tahra sa che oggi si parla di padri e figlie. Di generazioni troppo di­verse e di una ragazza della sua stessa età, Sanaa, alla quale non è stato con­cesso neppure il tempo per ribellarsi. «Avrò letto 60 mila articoli sulla sto­ria di Pordenone. Ci dev’essere altro, un motivo più grande. E comunque: solo Allah dà la vita e la toglie. Solo lui. Sta scritto nel Corano». Lei non ha problemi con i genitori e neppure le sue sette cugine. Parlano tutte con «Francesco», soprannome del nonno camionista, che a 57 anni è il patriarca della famiglia Essiya. Vivono tutti in una casa del quartiere San Pelagio, a bassa densità di immigrati. Quando Tahra ha raccontato al padre la faccen­da del velo e dell’autobus, lui ha rispo­sto con una sola parola: «Toglitelo».
Ma il copione del giovane che se­gue il modello occidentale scontran­dosi con la famiglia di origine è di at­tualità anche a Treviso. Due anni fa, una ragazza di 17 anni denunciò il pa­dre che l’aveva portata in Marocco per un matrimonio combinato. E tante storie simili non riescono a valicare la mura di casa. «Conosco due genitori molto fedeli alla tradizione, ma con mentalità aperta. Uno dei loro figli fre­quentava la cosiddetta banda della bandana. Hanno indossato i costumi tipici marocchini e sono andati al McDonald’s dove i ragazzi si davano appuntamento. Il loro ragazzo non è più tornato lì per vergogna». Abdal­lah Khezraij, mediatore culturale, è il titolare di Hilal, il circolo di viale Mon­fenera diventato punto d’incontro per tutte le etnie, italiani compresi, a col­pi di buona cucina. «La G2, come la chiamate voi, è minata alla base da questo conflitto generazionale. Due vi­sioni diverse e vale anche per me. Mio figlio ha 10 anni e mi diverte vederlo fare mosse di breakdance. Ma se di­ventasse un fanatico di queste cose, non so come la prenderei».
All’ora della preghiera, la moschea segreta nel supermercato è piena. Da una porta si intravedono i tappeti, una pila di copie del Corano appoggia­te su uno scaffale bianco. Molti anzia­ni, cinque donne con il velo. Il sorriso di Tahra si spegne. «Quella ragazza, Sanaa, che adesso piangete come fos­se una di voi: era davvero italiana, ma non aveva la cittadinanza. Uguale, ma senza passaporto. Come me, che so­no qui da 16 anni. La doppia identità culturale, che a me sembra una ric­chezza, viene giudicata un’insidia. E allora molti della seconda generazio­ne, sentendosi rifiutati, si riavvicina­no alle loro origini, alla loro religio­ne ». Saluta con un gesto della mano ed entra nella stanza delle preghiere. «Ciao, italiano vero». A pensarci be­ne, la storiella iniziale, quella sul Cora­no e sul velo, non fa più così ridere.

l’Unità 19.9.09
Terzo millennio
Ha ancora più senso nel mondo in crisi parlare di destra e sinistra
di Nadia Urbinati

L’esplosione della crisi finanziaria ha fatto emergere concezioni razziste Bobbio aveva con grande acume intravisto i sintomi di questa rinascita antidemocratica Il «come» si risponde all’immigrazione è la misura della moderna democrazia

«Destra e sinistra», il classico di Norberto Bobbio

Quando uscì questo libro, le categorie di "destra" e "sinistra" sembravano anacronistiche. Norberto Bobbio lo scrisse per contestare questa opinione e dimostrare, col suo inconfondibile metodo che combinava esame analitico dei concetti e riferimenti storici, che quella distinzione era invece non solo pertinente ma anche irrinunciabile, soprattutto nelle società democratiche. Di anacronistico c'era semmai l'abitudine a identificare quelle categorie con le ideologie emerse durante la guerra fredda, quando autorevoli studiosi liberali avevano attribuito a destra e sinistra una identica, seppure opposta nei fini, propensione illiberale e totalitaria: nell'un caso per realizzare l'utopia della perfetta libertà e nell'altro per resistere a quell'utopia con determinazione e anche violenza. Bobbio dimostrava con forti e chiari argomenti che anche quando ne fossero state spuntate le ali estreme e radicali, destra e sinistra restavano comunque distinte, significando anzi «contrapposti programmi rispetto a molti problemi» per i quali la politica ordinaria era chiamata a dare risposte e proporre soluzioni.
(...) Ribadita la rilevanza della politica dicotomica, Bobbio proponeva quello che è l'argomento centrale del volume: in una democrazia costituzionale, il discrimine tra destra e sinistra ruota intorno alla questione dell'eguaglianza, non della libertà. Qualora destra e sinistra accettino le regole del giuoco parlamentare e rispettino le libertà costituzionali (qualora cioè si dia confronto politico democratico), l'estensione e l'intensità della libertà si misurano in relazione all'interpretazione dell'eguaglianza, il principio fondamentale dell'ordine democratico. E mentre la destra tende a essere inegualitaria e a proporre o attuare politiche che effettivamente rendono i cittadini
meno eguali, la sinistra ha l'eguaglianza come sua stella polare e cerca di promuovere politiche che contrastino le diseguaglianze.
(...) Nell'Italia del presente, l'ideologia di destra parla di eguali ma all'interno di un ordine gerarchico che ha al primo posto la «mono-etnia» (i membri della nazione) prima degli esseri umani, e poi via via, gli "uomini" prima delle "donne", gli "eterosessuali" prima degli "omosessuali", i fisicamente normali prima dei disabili; infine, "noi italiani" prima e contro gli "altri", immigrati o non italiani. È in ragione di questa visione sostanziale di eguaglianza degli eguali che la democrazia viene interpretata da destra, così da coniugarsi a concezioni identitarie forti e chiuse all'universalismo, spesso razziste e violente. È su questo fronte che si misura oggi la differenza tra destra e sinistra. Anche per la sinistra la cittadinanza democratica è un'identità che non include né può includere tutti; però, la sua filosofia ha ben chiaro che le distinzioni politiche all'interno della famiglia umana sono frutto di convenzioni, benché importanti e non rinunciabili; per questo, alla distinzione politica, la sinistra non fa corrispondere una diseguaglianza sostanziale. Ciò comporta ritenere che tutte le persone meritino rispetto, e che essere minoranza culturale o religiosa non debba mai diventare ragione di discriminazione e offesa perché è la legge, il rispetto della legge soltanto che stabilisce il discrimine tra giusto e sbagliato, non l'opinione della maggioranza.
(...)
A quindici anni di distanza, destra e sinistra sono ancora ben riconoscibili, anzi forse lo sono di più, perché ai tradizionali argomenti se n'è nel frattempo aggiunto uno molto controverso, quello relativo all'immigrazione, un tema che nel volgere di pochi anni è diventato una "questione" sociale e di ordine pubblico che mentre può aprire nuovi fronti di discriminazione, rischia anche di oscurare i basilari valori democratici e liberali. Non è azzardato dire che nei paesi europei la rinascita della cultura politica di destra abbia proceduto parallelamente all'incremento dei flussi migratori; l'acutizzarsi della crisi finanziaria globale ha funto da acceleratore della diffusione di concezioni inegualitarie e razziste tra larghe fasce di popolazione, con evidenti rischi per le libertà costituzionali di tutti, anche dei cittadini della stessa nazione. Bobbio aveva con grande acume intravisto i sintomi di questa rinascita antidemocratica, mostrando come le disuguaglianze sociali ed economiche tra le aree del pianeta avrebbero raggiunto proporzioni tali da coinvolgere drammaticamente e direttamente l'Occidente, perché i disperati del mondo avrebbero necessariamente cercato la sopravvivenza laddove c'era più benessere. «Il comunismo è fallito». Ma la sfida che esso aveva lanciato è rimasta irrisolta: il "pianeta dei naufraghi" è la nuova realtà di destituzione che nessuna frontiera riuscirà a contenere. «Di fronte a questa realtà, la distinzione fra la destra e la sinistra, per la quale l'ideale dell'eguaglianza è sempre stato la stella polare cui ha guardato e continua a guardare, è nettissima». La conclusione di Bobbio era pessimista e molto lucida (pessimista perché lucida). Dopo alcuni decenni di crescita economica e di consolidamento della democrazia, i paesi del primo mondo l'Italia in modo emblematico assistono a un arretramento sia sul piano del benessere che su quello delle promesse democratiche. Non soltanto perché aumentano le diseguaglianze tra ricchi e poveri all' interno della stessa nazione di cittadini, con il decurtamento dei servizi sociali, delle opportunità culturali e soprattutto dei diritti associati al lavoro, ma anche a causa di un evidente restringimento delle libertà civili primarie, esito fatale della recrudescenza dell'ideologia razzista e xenofoba. Se la rinascita della civiltà europea nel secondo dopoguerra era stata accompagnata da un arretramento ideologico e politico delle tre principali ragioni di diseguaglianza «la classe, la razza e il sesso» il ritorno prepotente dell' ideologia della destra in questi ultimi anni ha invertito quella tendenza. Le nostre società sono diventate più polarizzate e quindi più diseguali in tutti e tre i domini di relazioni sociali che classe, razza e sesso designano: la povertà ha avuto addirittura un riconoscimento legale con l'istituzione della "social card" (una vera e propria tessera di povertà), un arretramento evidente rispetto all'idea di cittadinanza sociale; il razzismo ha avuto pieno riconoscimento con l'istituzione della legge sull'immigrazione clandestina e delle "ronde" formate da cittadini ordinari con compiti di sorveglianza mirata rispetto alla presenza di immigrati; la discriminazione sessuale ha registrato un'impennata altrettanto evidente con le testimonianze ininterrotte di violenze sulle donne, abuso della loro dignità e del loro corpo, usato come merce di scambio per l'acquisizione di beni come il lavoro o la carriera. Bobbio parlava a ragione di un «grandioso movimento storico» di destra, un fenomeno che poteva essere valutato nelle sue conseguenze solo qualora lo si fosse confrontato con altri periodi storici del passato e giudicato alla luce dei principi democratici dell'eguale libertà contenuti nelle costituzioni democratiche. Rispetto a questo fenomeno egemonico, due sono i rischi di fronte ai quali si trova la sinistra: quello di abbracciare un fastidioso moralismo ovvero di radicalizzare le proprie posizioni; e quello di imboccare la strada compromissoria o dell'accomodamento con la cultura dominante della destra abbandonando la propria specificità ideale. Averne consapevolezza è un punto di partenza imprescindibile. Dopodiché, uno spiraglio di ottimismo ci viene dalla certezza che «l' umanità non è giunta affatto alla fine della storia, ma è forse soltanto al principio». A titolo "provocatorio" lo aveva detto il pessimista Bobbio nel 1998. Dopo oltre dieci anni quella provocazione suona come la più ragionevole certezza della persistenza della diade destra e sinistra. ❖

l’Unità 19.9.09
La comunità degli individui liberati
di Bruno Gravagnuolo

A Modena fino a domani il Festival della Filosofia alle prese con il concetto di comunità. Ma in una chiave alternativa rispetto all’uso conservatore del termine. Ne parlano Remo Bodei, Salvatore Natoli, Carlo Sini e Carlo Galli

La tradizione. A destra Il legame comunitario è una piovra contro i singoli

Inutile nasconderlo. La nozione di «comunità», per storia, significato ed uso, non appartiene alla costellazione delle idee progressiste. Al contrario, fin da quando nel 1877 il sociologo Ferdinand Toennies, preceduto in Germania da una robusta tradizione romantica, la lanciò nell’arena delle idee filosofiche, «comunità» fu subito sinonimo di insieme di legami naturali, che avvolgevano prescrittivamente il singolo. Fino a dar senso all’interezza della sua vita. E il tutto contro l’aridità e l’anarchia meccanica della Civiltà tecnica. Democratica, anonima, atea e senza valori. Perché invasa da troppi valori in lotta tra di loro, come ribadì Max Weber dopo Toennies. Però malgrado tutti questi presupposti, accade che il Festival della filosofia di Modena in onda sulle piazze a Modena, Carpi e Sassuolo da ieri a domani sera abbia scelto a tema dei suoi lavori proprio questa idea. Incurante delle controindicazioni culturali e politiche. E anche del fatto che «comunità», declinata come «Umma», radici e territorio, sia ormai il cavallo di battaglia di fondamentalismi e nuove destre etniciste (inclusa la nostra Lega). Perché dunque «comunità», dopo le scelte più ambivalenti o divaganti degli anni trascorsi, come «felicità» o «vita»?
Ce lo siamo fatto spiegare da alcuni dei protagonisti della kermesse, ai quali tra gli altri è stato affidato il compito di ridefinire e misurarre il concetto di comunità oggi. Magari passandoci attraverso, per rovesciarlo come un guanto.
Remo Bodei, direttore del comitatto scientifico del Festival, è molto esplicito a riguardo: «Ovvio che a tutta prima la nozione di comunità suggerisca qualcosa di compatto, di localistico e gerarchico. Ma la proposta è quella di analizzarla da tutti i punti di vista, a partire dal dato innegabile che c’è stato un recupero della comunità come pulsione e desiderio. Dentro i processi di secolarizzazione, e dentro la polemica sul relativismo». Nondimeno, prosegue Bodei, «il punto è proporre una visione conflittuale della comunità, riconoscendone il bisogno, e insieme la pluralità, la multiformità. All’interno delle comunità e dei singoli». Traduciamo: l’individuo anche quello moderno o postmoderno psichicamente nasce dentro una relazione. Tende a far comunità, magari piccola con gli altri. Tuttavia ciascuno fa comunità a suo modo e non è detto che la Comunità sia una sola e imperativa. Ciascuno insomma si sceglie la sua forma di vita in comune, e può uscirne. È così professore? «Certo, da un punto di vista laico la comunità democratica citando Einaudi non può che essere un’ anarchia degli spiriti sotto la sovranità della legge. Perciò essa nel moderno si dà come articolazione e conflitto: regolati». Bodei ricorda che il vissuto comunitario viene analizzato a Modena in chiave molteplice. Come rabbia, nostalgia, solitudine, esilio. Come insieme di luoghi mobili, dove le comunità, anche sotto l’impulso dei processi economici post-fordisti, si fanno e si disfano. E si vedrà nelle relazioni di Severino, Bodei stesso, Maramao, Augè, Turnaturi (il «segreto» nei gruppi di potere). E conclude Bodei con la metafora del Buon governo di Ambrogio Lorenzetti: Comunità, secondo l’etimo «creativo» dell’artista nel 1340, è la con-cordia dove i cittadini tirano ciascuno da una parte la stessa corda che li unisce. Come nelle lotte civili del Machiavelli conflittualista e repubblicano.
Tocca a Salvatore Natoli, filosofo «pagano», autore di una relazione sulla «fiducia» come molla di comunità libere e non oppressive. «Fiducia dice non è un negozio giuridico, ma un patto emotivo: si dà e si riceve. La comuntà moderna può nascere solo da una rottura di appartenenenze, alla quale segue la libera capacità di ricostruire legami. Perché non si tratta di regeredire all’Antico indifferenziato gerarchico. ma di rifare per ciascuno comunità con l’altro. Dall’interno del singolo e preservando l’altro senza eliminarlo o inglobarlo». E c’è in Natoli malgrado l’apparenza una profonda critica dell’individualismo imperante. Cioè: illusoriamente l’individualismo liberale proclama la sovranità del soggetto. In realtà è il contrario. Infatti a quell’individualismo corrisponde un affidamento gerarchico, dove vincono le scelte strumentali dei più forti. Fino all’impersonale «dominio del cinismo e della finanza astratta», senza fiducia stabile, senza istanze normative e senza responsabilità verso l’altro, che come tale diviene invisibile.
Parla Carlo Sini, già ordinario di teoretica a Milano, studioso heideggeriano e della Tecnica. «È indubbio dice che la nostra società si va imbarbarendo. Tra disgegazione, indifferenza diffusa e populismo salvifico. Perché? Perché si è inaridita ogni fonte di ethos comune. Manca cioè una istanza mediatrice e responsaibile, che sappia farsi carico del “comune”, come capacità di sentire l’altro in quanto nostro, pur restando altro». E qui Sini usa una metafora manzonianna. Quella del frate che alla fine della peste nei Promessi sposi lascia andre i «risanati» e chiede loro perdono per quanta poca caritas è stata loro riservata durante la malattia. «In realtà spiega Sini mancano i padri e i fratelli simbolici, in grado di trasmetterci la pietas e la caritas. Di fronte alla morte, alla comune sofferenza e alla solitudine delle scelte. La comunità? Non è certo il, territorio né la Chiesa gerarchica e dogmatica. Ma la capacità di ciascuno di farsi carico, di sentirsi “con”. Fuori da dogmi o da fusioni mistiche». Conclusione di Sini: «La comunità non può essere che un sogno di tutti e di ciascuno. Una costruzione dinamica e una civiltà delle relazioni. Non già una realtà data e naturale a cui obbedire come a una piovra».
Chi di «comunità» all’inizio non vuol sentir parlare è Carlo Galli, storico delle dottrine politiche a Bologna: «Mi fa venire i brividi dichiara e non per caso a Modena parlo di individuo». Perché? «Perché già Cartesio e Hobbes la consideravano un incubo, a cui contrappore il sogno razionale dell’individuo pensante, che feconda ordini politici, magari assoluti». Con l’ottocento però, con Hegel e Marx, «è l’individuo a diventare
un sogno, sciolto nel linguaggio, nella storia, nello spirito e nella classe. Finché Nietzsche nel 900 rovescia tutto: individui e comunità sono entrambi sogni, fantasmi». Conclusione? «Se ne conclude che l’individuo nasce contro la comunità, ma la rimpiange e non può farne a meno. Talché, meglio privilegiare comunque l’individuo che sogna se stesso e progetta laicamente una comunità. Senza che la comunità lo renda schiavo però». Insomma, spiega Galli, l’individuo può diventare «progetto», legame non oppressivo con gli altri, capace di «far fiorire un proprio disegno nell’eguale dignità con gli altri, senza violenza e senza dominio». Puro liberalismo, tutto ciò? Niente affatto per Galli. Piuttosto comunità come processo comune e condiviso della liberazione di tutti: «Società fraterna senza padri». Ma così la comunità non somiglia un po’ al «comunismo», almeno come ideale regolativo? ●

l’Unità 19.9.09
La crisi globale che muove l’etica
di Peter Sloterdijk

Il verso «Devi cambiare la tua vita» ci dà la forma originaria del richiamo per tutti e per nessuno. Esso, certo, si rivolge ad un destinatario particolare, ma accanto a lui parla anche a tutti gli altri. Chi lo riceve senza difese, esperisce con esso l’incontro con il sublime sotto forma di richiesta rivolta personalmente. Sublime è ciò che pone davanti agli occhi dell’osservatore la possibilità del suo sprofondare nello smisuratamente grande grazie alla presenza attuale di qualcosa che lo sopraffa, e il cui compimento è temporaneamente sospeso. Il sublime, il cui culmine è puntato su di me, è personale come la morte e inafferrabile come il mondo. Per Rilke esso era la dimensione dionisiaca dell’arte, che si rivolgeva a lui dalla statua mutilata di Apollo e lo riempiva della sensazione di un incontro con qualcosa di infinitamente superiore. Oggi, al contrario, non si sente più questa voce autorevole nelle opere d’arte. L’autorità imperativa non giunge nemmeno più dalle «religioni» decadute, né dai concili ecclesiatici, per non dire dai consigli dei saggi, sempre che questa espressione si possa ancora usare senza un tono ironico.
L’unica autorità che oggi può dire «Cambia la tua vita!» è la crisi globale, che da qualche tempo tutti hanno la percezione abbia iniziato ad inviare i suoi apostoli. Essa possiede autorità perché si richiama a qualcosa d’inconcepibile, di cui essa stessa è la prima manifestazione – la catastrofe globale. Non serve essere muniti di alcuna antenna religiosa per capire la ragione per la quale la Grande Catastrofe sarebbe diventata la dea del secolo. Avendo a sua disposizione l’aura dello smisurato, riceve anche i caratteri che sino ad oggi sono stati conferiti alle potenze trascendentali: resta nascosta ma si rende già percepibile attraverso i segni; sta arrivando ma i suoi sintomi sono già autenticamente presenti; si rivela ad intelligenze individuali sotto forma di visioni accecanti e supera, al contempo, le capacità umane di comprensione; chiama alcuni a suo servizio e li trasforma in suoi profeti; in suo nome i suoi delegati si rivolgono al mondo circostante, ma vengono da molti percepiti come scocciatori. Nel complesso le cose non le vanno diversamente da come andavano per il dio del monoteismo quando entrò in scena tremila anni fa: anche il suo messaggio era troppo grande per il mondo e solo pochi erano pronti a cambiare la loro vita per esso. Ma, oggi come allora, il rifiuto dei molti acuisce la tensione che si stende sui collettivi umani. Da quando ha avuto inizio la crisi globale, con i suoi parziali svelamenti, l’imperativo assoluto ha assunto nel mondo un nuovo aspetto, sotto forma di un monito preciso rivolto a tutti e a nessuno: cambia la tua vita! Altrimenti presto o tardi il suo pieno disvelamento vi dimostrerà ciò che vi siete persi nel periodo dei suoi primi segni premonitori!
IL MALESSERE DELL’ETICA
Su questo sfondo è possibile chiarire da dove provenga il malessere degli attuali dibattiti etici, indipendentemente dal fatto che la loro impostazione sia accademica o pubblica. Esso è la conseguenza della discrepanza tra le mostruosità che incombono dai tempi della Guerra Fredda dopo il 1945 e il carattere inoffensivo e paralizzante di tutti i discorsi correnti – a prescindere dal fatto che argomentino sul piano dell’etica delle intenzioni o della morale, dell’etica del discorso o della situazione, per non parlare degli inutili tentativi di rianimare le dottrine dei valori e quelle delle virtù. Anche lo stracitato ritorno della «religione» non è molto più che un sintomo di un disagio che attende di trovare soluzione in una formulazione lucida del problema.
UMANITÀ A DUE VELOCITÀ
In verità l’etica può trovare fondamento solo nell’esperienza del sublime, oggi come all’origine dei processi che hanno condotto alle prime secessioni etiche. Al suo appello l’umanità a due velocità ha iniziato la sua campagna attraverso il tempo. Solo il sublime è in grado di sollevare quella pretesa eccessiva che fa prendere agli uomini la strada verso l’impossibile. Ciò che prendeva il nome di «religione» ha sempre avuto rilevanza solo in qualità di veicolo dell’imperativo assoluto, redatto poi in modo differente a seconda dei tempi e dei luoghi. Il resto è quel genere di chiacchiera cui giustamente Wittgenstein dice che bisogna mettere fine.
Per coloro che hanno interessi di carattere teologico ne consegue il fatto che l’unico dio e la catastrofe hanno più cose in comune di quante non ne siano state registrate sin qui, non da ultimo l’irritazione verso gli uomini che non sono riusciti a decidersi se credere all’uno o all’altra. Nella finzione non c’è solo la «sospensione volontaria dell’incredulità» citata da Coleridge, senza la quale non sarebbe possibile nessuna relazione estetica. Ancora più gravida di conseguenze è la sospensione volontaria della credenza nel reale, senza la quale non è possibile realizzare nessun arrangement pratico con ciò che è dato. I singoli non si orientano nella realtà, se non ci mette lo zampino l’irrealtà. Chi non crede, non sa distinguere tra passato e futuro: se la catastrofe sia passata e sia necessario imparare da essa qualcosa, oppure essa debba ancora venire e possa essere evitata con misure appropriate – il Non-voler-Credere sistema le cose in modo che il grado desiderato di sviluppo venga raggiunto.
Traduzione di Laura Pagliara

l’Unità 19.9.09
Amore e fratellanza universale
di Moni Ovadia

La foto di un gesto stupido e volgare colto per caso in una città della cosiddetta "terra santa" ha la capacità di esprimere il senso di un dramma di quel luogo molto più di lunghe e complesse analisi. Una di queste istantanee l’ho ricevuta qualche giorno fa sulla posta elettronica accompagnata da questa didascalia: "Un colono getta del vino addosso ad una donna palestinese in via Shuhada a Hebron. L’atteggiamento di certi coloni nei confronti dei loro vicini palestinesi specialmente nei pressi di Nablus nel Nord e a Hebron nel sud spesso è stato quello del disprezzo e della violenza". La foto della fotografa Rina Castelnuovo ed è stata pubblicata sul New York Times. La donna su cui viene gettato il vino è abbigliata alla maniera tradizionale delle mussulmane, il colono che getta il vino in segno di sfregio è un giovane ebreo ortodosso. Anche il suo abbigliamento e alcuni dettagli lo identificano per tale. In testa porta la kippà o yarmulka come si dice in yiddish, dalla cinta dei pantaloni gli fuoriescono le frange del talleth katan la veste rituale che l’ebreo osservante deve indossare sotto la camicia a contatto con la pelle, le frange, tzitziot gli ricordano i precetti negativi o positivi che deve osservare e che danno senso alla sua identità, ai lati delle tempie porta cernecchi superfluenti: le peyot mistiche. Questi segni sono forse le stimmate di qualche fanatismo o integralismo? No! non lo sono. Per secoli nella diaspora hanno identificato una delle più luminose spiritualità della storia È la peggiore delle malattie che colpiscono le religioni che li rende minacciosi: il nazionalismo, la peste di ogni spiritualità. Oggi gli ebrei festeggiano il capodanno, è una straordinaria occasione per ricordare che il messaggio della Torah è soprattutto un messaggio di giustizia, amore e fratellanza universale. A tutti shanà tovà. Buon anno.❖

Repubblica 19.9.09
I sicari della libertà
di Giorgio Bocca

Che cosa è la libertà di stampa? Per stare al presente e al concreto è qualcosa che l´attuale capo del governo non ha mai apprezzato né coltivato. Guglielmo Zucconi e il sottoscritto, chiamati nel 1983 come esperti d´informazione a preparare il telegiornale di Canale 5, la sua televisione, ci trovammo di fronte a questa sorpresa (nostra non sua): che a lui l´informazione importava solo in quanto pubblicità e potere.
E che, avendo già l´una e l´altra con la struttura di Publitalia e con l´alleanza con Craxi, del telegiornale avrebbe fatto volentieri a meno. Infatti lo ritardò per anni. La libertà di stampa per Silvio è un lusso, una stranezza, uno snobismo che viene dopo la pubblicità e «il fare», inteso come buon affare.
Che cosa è la libertà di stampa? Per stare al presente e al concreto è un bene di cui l´uomo moderno non può fare a meno e che rimpiange se ne è privato. Generazioni di uomini sono vissute senza democrazia e senza libertà d´informazione nei secoli passati. Oggi, dopo la Riforma, le rivoluzioni borghesi, l´Enciclopedia, la libertà d´informazione è diventata necessaria e fortemente desiderata come l´aria che si respira. Oggi la conoscenza dei rapporti tra gli individui e lo stato, fra gli individui e le Chiese non può più essere nascosta sotto la cappa delle sacralità, oggi è diventato un diritto naturale. Tutto ciò è ostico e forse incomprensibile al nostro capo del governo. Egli è solito dire che il nostro è uno strano paese, dove la RAI e i giornali che appartengono allo stato si permettono di essere critici verso un governo democraticamente eletto. E lo ripete di continuo, credendo di aver trovato l´argomento inoppugnabile, che invece è la dimostrazione della sua estraneità alla democrazia, dove lo Stato non è la stessa cosa del Governo, e dove la libertà d´informazione non è la stessa cosa, anzi molto diversa, dalla pubblicità, semmai un suo necessario correttivo.
Che cosa è oggi in Italia la libertà di stampa? Direi che è il contrario del berlusconismo attivista e ingordo. La trasmissione televisiva a reti riunite in occasione della consegna delle prime case ai terremotati abruzzesi è stata una riedizione delle «opere del regime» mussoliniano, cioè propaganda. La libertà di stampa è la presa di cognizione e di coscienza del suo insostituibile valore in una società civile e moderna. E allora come può un uomo, che si crede «fatale» come Berlusconi, volere, anzi pretendere, uno spettacolo così arcaico di un autocrate che non ammette critiche, interruzioni, domande, e che in pubblico rivendica meriti ridicoli, come di aver salvato il mondo dalla crisi economica, e l´Italia dai malvagi catastrofisti che preferiscono al bene del paese la sua rovina.
La libertà di stampa è anche questo: di essere l´unico freno, l´unica difesa che restino quando si scatenano le maree autoritarie, assurde ma reali. La libertà di stampa non è un lusso e non è un capriccio, è una conquista dell´homo sapiens, che i vari autoritarismi credono di poter sostituire con le tentazioni del denaro e del comando. La rinuncia alla libertà di stampa equivale a un suicidio per la società moderna, la pesantissima crisi economica per cui stiamo passando è in notevole parte dovuta proprio ai limiti che le avidità imperanti hanno imposto all´informazione e alla conoscenza. La libertà di stampa è la voglia di verità, la voglia di conoscenza, innate in ogni essere che ambisca a essere homo sapiens. Il buon informatore deve sapere che questa libertà non è illimitata e irresponsabile, che come tutte le libertà deve rispettare le libertà degli altri, ma nella mia lunga esperienza di giornalista mi pare di aver capito che la libera informazione è oggi, forse, l´unica difesa a nostra disposizione contro le irresponsabilità della scienza e del progresso senza limiti e ragione. E anche l´unico freno alle ricorrenti follie degli uomini che non dormono mai, che non invecchiano mai, che, come il nostro, rivendicano il diritto al potere assoluto, all´obbedienza totale del popolo, che poi amano chiamare sovrano. La libera informazione è il nostro specchio: serve a vedere come siamo e a quali tentazioni esposti.

Repubblica 19.9.09
Ideologia e politica /1
Così si costruisce la democrazia
di Marc Augé

La libertà reale di ciascuna persona è la condizione necessaria del bene comune per tutti

Sì, il bene comune e l´idea di comunità sono consustanziali all´idea di umanità. Ma, come ci mostra la storia, esistono solo allo stato di ideale e di progetto. Da solo, l´individuo non può esistere; del resto, per definizione non nasce mai solo, ma dentro universi già simbolicamente costituiti che gli impongono in maniera più o meno severa un insieme di relazioni possibili o persino obbligate: «a dire il vero, è quello che chiamiamo sano di mente che si aliena scrive Lévi-Strauss poiché acconsente a vivere in un mondo definibile unicamente dalla relazione tra l´io e l´altro. La salute mentale individuale implica la partecipazione alla vita sociale, così come il rifiuto di aderirvi (ma, anche in questo caso, secondo modalità che essa impone) corrisponde alla comparsa di turbe mentali».
In un mondo sovraccarico di significati simbolici (la prima etnologia ha studiato proprio mondi di questo tipo) è del tutto evidente che l´idea di libertà individuale non ha senso. Il senso sociale è l´insieme delle relazioni per le quali si definisce e attraverso le quali si costruisce ogni identità. Dal punto di vista dell´individuo, l´a priori del simbolico genera unicamente relazioni obbligate e comunità subite.
Ma noi conosciamo anche gli effetti del totalitarismo intellettuale prodotti, a un´altra scala, dalle grandi ideologie politiche o politico-religiose di ieri e di oggi, che per questa ragione chiamiamo appunto "totalitarie". In questo caso non si tratta più, se si segue Hannah Arendt, di un sovraccarico di senso, ma dell´espulsione di ogni senso possibile: «Mentre l´isolamento concerne soltanto l´aspetto politico della vita, l´estraneazione concerne la vita umana nel suo insieme. Il regime totalitario, al pari di ogni tirannide, non può certo esistere senza distruggere il settore pubblico, senza distruggere con l´isolamento le capacità politiche degli uomini. Ma esso come forma di governo è nuovo in quanto, lungi dall´accontentarsi dell´isolamento, distrugge anche la vita privata. Si basa sull´estraneazione, sul senso di non-appartenenza al mondo, che è fra le più radicali e disperate esperienze umane». (Il sistema totalitario, terza parte de Le origini del totalitarismo, 1951, trad. it. Milano 1967, pag. 651).
La comunità come realizzazione del bene comune non può essere che un risultato provvisorio e sempre incompiuto. Il suo punto di partenza può trovarsi solo nel rifiuto di ogni senso stabilito e più ancora di ciò che Hannah Arendt chiama "estraneazione", cioè il naufragio del corpo e dei beni dell´individualità privata e dell´appartenenza al mondo. E il processo che conduce alla comunità non può che essere inverso rispetto a quello di tutti i totalitarismi. Il consenso all´incompiutezza e la coscienza della necessità del divenire distinguono così la democrazia da tutti gli altri regimi politici.
La democrazia è sempre da costruire: è pienamente se stessa solo se continua a proiettare nell´avvenire il riferimento rispetto al quale intende definirsi. La sua frontiera è un orizzonte. In democrazia, il rispetto della costituzione esistente e la conservazione dell´ordine stabilito sono soltanto degli imperativi pratici relativi e provvisori, poiché la costituzione cambierà e le norme pure.
Pensiamo, per prendere un esempio semplice, vicino e spettacolare, a tutto quanto era vietato o impensabile nei paesi dell´Europa Occidentale appena sessant´anni fa, tanto nell´ambito dei costumi (statuto della donna, divorzio, omosessualità), quanto nella sfera strettamente politica (voto alle donne, maggiore età). Lo spirito democratico, come lo spirito scientifico, non si soddisfa di ciò che è acquisito e sa che la verità è sempre da conquistare, che l´esistenza politica precede sempre la sua essenza.
L´idea di progresso, in questa prospettiva, non procede né dall´orgoglio, né dall´ingenuità, ma dalla semplice constatazione dell´insufficienza del presente e delle frontiere che sono ancora da varcare per partire alla ricerca di soluzioni certo ma anche di nuovi problemi da risolvere.
Quelli che invocano il progresso non parlano a nome di un sapere preesistente; hanno semplicemente la convinzione, modesta e tenace, che la libertà reale di ciascun individuo umano sia la condizione necessaria del bene comune per tutti. Si ispirano così allo spirito scientifico. Non c´è niente di più modesto dello spirito scientifico: esso non parte mai da una totalità compiuta come quella che sta alla base delle ideologie, ma esplora le frontiere dell´ignoto con l´ambizione di spostarle.
(Traduzione di Michelina Borsari) © Consorzio per il festivalfilosofia

Repubblica 19.9.09
Ideologia e politica /2
Questa società salvata dalla menzogna
Perché la verità è indesiderabile? Dai libri ai film un´analisi di come sia necessario falsificare le cose per l´ordine sociale
di Slavoj Zizek

Che significato possiamo dare all´affermazione ricorrente che viviamo in un´epoca post-ideologica? La mia prima tesi è che, a causa della sua onnipervasività, l´ideologia oggi appare come il suo opposto, come non-ideologia: come l´essenza della nostra identità umana al di sotto di tutte le etichette ideologiche. Ecco perché un´opera straordinaria come Le benevole di Jonathan Littell risulta così traumatica, soprattutto per i tedeschi: fornisce un resoconto romanzesco dell´Olocausto narrato in prima persona da un tedesco, l´Obersturmbannfuehrer delle SS Maximilian Aue. Il problema è precisamente: come rendere il modo in cui i carnefici nazisti hanno vissuto e simbolizzato la loro incresciosa situazione senza provocare pietà o addirittura giustificare? Oppure, per metterla in termini un po´ meno eleganti: ciò che Littell offre è un Primo Levi nazista in versione romanzesca – come tale, egli ha una fondamentale lezione freudiana da insegnarci: dobbiamo rigettare l´idea che per combattere la demonizzazione dell´Altro sia necessario soggettivizzarlo, ascoltarne la storia, comprendere il modo in cui egli percepisce la situazione – o, come ha detto un partigiano del dialogo in Medio Oriente: «Il nemico è qualcuno di cui non abbiamo ancora udito la storia». Tuttavia, c´è un chiaro limite a questo procedimento: riusciamo anche solo a immaginare di invitare un violento criminale nazista a raccontarci la sua storia? Siamo disposti ad affermare che Hitler era un nemico perché la sua storia non è stata udita? Questo dettaglio di vita personale può forse "redimere" gli orrori generati dal suo regno, renderlo "più umano"? Heinrich Heydrich, l´architetto dell´Olocausto, amava trascorre le serate a suonare gli ultimi quartetti per archi di Beethoven. La nostra esperienza più elementare di soggettività è quella della "ricchezza della mia vita interiore": questo è ciò che "sono veramente", in contrapposizione alle determinazioni simboliche e ai mandati che assumo nella vita pubblica (padre, professore...). La prima lezione della psicoanalisi ci dice che questa "ricchezza di vita interiore" è sostanzialmente un imbroglio: uno schermo, una falsa distanza la cui funzione è, per così dire, salvare la mia apparenza, rendere palpabile (accessibile al mio narcisismo immaginario) la mia vera identità socio-simbolica. Uno dei modi per attuare la critica dell´ideologia, perciò, consiste nell´inventare strategie per smascherare questa ipocrisia di "vita interiore" e delle sue "sincere" emozioni.
L´esperienza che abbiamo della nostra vita dall´interno, la storia di noi che raccontiamo a noi stessi per giustificare quanto facciamo, è dunque una menzogna – la verità risiede all´esterno, in ciò che facciamo. Qui sta la difficile lezione del libro di Littell: ci presenta un uomo di cui ascoltiamo l´intera storia e che, tuttavia, dovrebbe restare nostro nemico. Ciò che è realmente insopportabile dei criminali nazisti non sono le cose terrificanti che hanno commesso, ma il fatto di essere rimasti "umani, troppo umani" mentre le commettevano. (...).
È interessante notare come l´"umanizzazione" sia sempre più presente nella recente ondata di film di grande successo sui supereroi (Spiderman, Batman, Hancock...) – i critici si entusiasmano per come questi film vadano oltre il piatto personaggio da fumetto e si soffermano ad analizzare le insicurezze, le debolezze, i dubbi, le paure e le angosce dell´eroe soprannaturale, la sua lotta con i demoni interiori, il suo confronto con il lato oscuro di sé, eccetera, come se tutto ciò rendesse la superproduzione commerciale in qualche modo più "artistica". Ma c´è di più, molto di più nel Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan. Il nuovo procuratore distrettuale Harvey Dent alla fine del film muore. Batman e il suo amico poliziotto Gordon intuiscono lo sconforto in cui cadrebbe la città se si rivelassero gli omicidi di Dent. Batman convince Gordon a preservare l´immagine di Dent facendo credere che sia lui il responsabile degli omicidi; Gordon allora distrugge il Bat-segnale e ne consegue una caccia all´uomo contro Batman. La necessità della menzogna per sostenere il morale pubblico è il messaggio finale del film: solo una menzogna può redimerci.
Non c´è da stupirsi, allora, se la sola persona veritiera del film sia Joker, il malvagio per eccellenza. Ma cos´è Joker, che vuole scoprire la realtà sotto la Maschera, convinto che lo svelamento distruggerà l´ordine sociale? Non è un uomo senza maschera, al contrario, è un uomo pienamente identificato con la propria maschera, lui È la sua maschera – non c´è nulla, nessun "ragazzo comune" sotto quella maschera. Il successo straordinario del film non fa riflettere sul fatto che tocca un nervo della nostra costellazione ideologico-politica: l´indesiderabilità della verità? A questo punto, la domanda da fare è: perché, in questo nostro preciso momento, c´è un tale rinnovato bisogno di Menzogna per mantenere il sistema sociale?
(traduzione di Laura Pagliara)

Saggi paralleli Ortodossi ma anche ribelli, due protagonisti del mondo che fu vicino al Pci mettono in discussione il loro impegno /1
Corriere della Sera 19.9.09
Asor Rosa, un requiem per la fine degli ultimi intellettuali brontosauri
Il «ceto colto» di sinistra, autocritica a metà
di Pierluigi Battista


Un po’ se ne dispera. Ma un po’ se ne compiace. Gli intellettuali si estinguo­no per un «cataclisma culturale» para­gonabile al «mutamento ciclopico di clima» che i paleontologi indicano come causa della fine dei brontosauri. Ma l’artefice della sug­gestiva comparazione, Alberto Asor Rosa, affron­ta con spirito ambivalente la «cerimonia degli ad­dii » dell’intellettuale moderno messa a punto con Simonetta Fiori nel Grande silenzio pubblicato da Laterza. L’intellettuale spodestato, il maestro del pensiero oramai ripudiato, ripercorre autobiogra­ficamente le tappe di una storia finita. Sottoline­andone i tratti velleitari, eppure rivendicandone i frammenti di grandezza. Un requiem intonato con l’ironia da un intellettuale che contraddittoria­mente riassume in sé gli opposti plasticamente raffigurati dall’intervistatrice Fiori: eterodosso nel­l’ortodossia, «paladino della classe operaia e di­fensore della letteratura altoborghese. Rovesciato­re d’altari ma anche militante disciplinato. Anima­tore del Sessantotto e accademico rispettato».
La sincerità di un approccio autobiografico si misura sulla mancanza di indulgenza con cui si affrontano gli errori del passato. Asor Rosa supe­ra l’esame. Ma non a pieni voti. È spietato con gli errori collettivi del «ceto dei colti» con cui si è identificato, ma lo è molto di meno con se stesso o, se si vuole, con la rielaborazione soggettiva con cui Asor Rosa ha interpretato una storia costellata di errori. Lui è sempre stato un metro avanti al mondo cui ha appartenuto con prestigio e autore­volezza. Ma mai che quella distanza fosse stata af­frontata fino al punto di rischiare una rottura o una lacerazione. Con Scrittori e popolo ha compiu­to in giovane età una delle riletture più demolito­rie della tradizione culturale ufficiale della sini­stra italiana. Ma in questo libro si erge a difensore della storia patria minacciata da non si sa bene quale iconoclastica spinta «neo revisionista». È stato il meno comunista degli intellettuali del Pci, ma al momento giusto, quando Occhetto — di cui peraltro era ascoltatissimo consigliere culturale — decise di cambiare le insegne del partito, lui si oppose con ira e veemenza. Scrive adesso che Occhetto condusse la svolta come un «bambino viziato », che «scassò tutto», che scelse di «smontare radicalmente il suo partito». Ma non spende una parola sul fragore apocalittico con cui il Muro di Berlino stava venendo giù. Dice che «il passato mi ha riserbato una montagna di delusioni» e che è mancata «all’intellighenzia di sinistra una seria discussione sulla storia comunista italiana, nel bene e nel male». Ma sembra incline più a ricavarne il «bene», minimizzando il «male» o addirittura dirottandolo interamente su Craxi, descritto in queste pagine con toni di autentica indignazione retroattiva. Anche se, sul comunismo (almeno sul­la storia comunista), Craxi aveva ragione, e il Pci torto.
La storia degli intellettuali di sinistra che affio­ra da questo libro è ricca, piena di risultati prezio­si, di figure che è giusto rimpiangere, di libri che per fortuna sono stati scritti, di battaglie che è sta­to bene condurre: i nuovi dinosauri hanno anche molte voci in attivo nel bilancio della loro esisten­za. Asor Rosa giustamente in questo libro vanta una lettura straordinariamente profonda di Dante e di Marx. Oggi, purtroppo, finiti gli intellettuali si legge male, poco, disordinatamente, superficial­mente. E se è vero che la fondazione di una rivi­sta, l’impegno culturale in un’aula universitaria, la partecipazione talvolta nevrotica al dibattito pub­blico, persino le liturgie e i riti e il lessico che han­no dato anima e forme al «ceto dei colti» oggi può muovere a un benevolo sorriso intriso di no­stalgia per una storia destinata a partorire «mon­tagne di delusioni», è anche vero che lo scenario odierno non autorizza neanche un minimo di otti­mismo. Asor Rosa di questa storia (finita) è stato testimone e protagonista. Naturale che la sua scomparsa venga interpretata come una grande perdita per tutti. Non come un lutto irreparabile ma come il passaggio di un’epoca che smentisce l’assunto progressista che la storia sia orientata verso il meglio. Un passaggio che alimenta il ri­spetto per il «mondo di ieri». Anche se innesca in chi lo ha vissuto intensamente un «grande silen­zio » . 
Alberto Asor Rosa pubblica con Simonetta Fiori «Il grande silenzio» (Laterza, pp. 181, e 12)

Saggi paralleli Ortodossi ma anche ribelli, due protagonisti del mondo che fu vicino al Pci mettono in discussione il loro impegno
Corriere della Sera 19.9.09
Magri, la lunga marcia in cerca della Terza via che non è mai esistita
Le occasioni perdute dei comunisti italiani
di Paolo Franchi

Il sarto di Ulm, che dà il nome a questa «possibile storia del Pci» di Lucio Magri, edita dal Saggiatore, è il protagonista di un famoso apologo di Bertolt Brecht, citato da Pietro Ingrao in una delle tante appassionate assemblee chiamate, nell’89, a decidere sul nome del Pci. Voleva a tutti i costi, il sarto, costruire un apparecchio che gli consentisse di volare. Un giorno, convinto di esserci riuscito, andò dal vescovo, che spalancò la finestra e lo sfidò a provarlo. Il sarto, manco a dirlo, si schiantò miseramente al suolo. Ma qualche secolo dopo gli uomini riuscirono a volare.
Niente «chicche» per i giornalisti, niente rivelazioni, niente retroscena finalmente disvelati, le note più personali dedicate semmai alla vita quotidiana di quella comunità tuttora così poco indagata che fu, al vertice e alla base, il Pci (molto belle le pagine sugli anni 50 e 60). È del comunismo che si parla. Il tracollo del­l’Unione Sovietica e di quello che un tempo si chiama­va il movimento comunista internazionale, così come la fine del Pci, ne segnerebbero certo una sconfitta, ro­vinosa quanto annunciata, ma non certo la definitiva, ingloriosa archiviazione. E la storia del comunismo ita­liano su cui Magri si diffonde è una storia «possibile» non solo per la sua parzialità, ma soprattutto perché l’autore, che, pagandone i prezzi, l’ha attraversata «da sinistra» per oltre cinquant’anni, ma con orgoglio la rivendica tutta come propria, cerca di coglierne quelle che gli paiono le potenzialità inespresse, o lasciate più o meno colpevolmente cadere, o non sviluppate. Con ogni probabilità non oggi, ma domani, o dopodomani chissà, potrebbero tornare utili a degli inconsapevoli eredi del sarto di Ulm che volessero di nuovo provarsi a volare. In fondo, dice Magri, «il Pci è morto da tem­po, ma l’Italia tanto bene non sta».
Su quest’ultima considerazione — basta guardarsi attorno — anche chi è alieno da nostalgie reducisti­che fatica a non concordare. Ma, reso omaggio alla co­erenza (apologo per apologo, il celebre soldato di Na­poleone avrebbe parlato di tigna) di chi, a vent’anni dalla Bolognina, naviga così dichiaratamente contro­corrente, resta da stabilire quali sarebbero mai state queste potenzialità che, se pienamente espresse, avrebbero potuto consentire al Pci, restando seppure a modo suo comunista, di sopravvivere, e in buono stato di salute, al crollo del «comunismo reale». Ma­gri, che con tutta la sua eterodossia è ben più ortodos­so di quanto un lettore non addentro alla storia e alle cronache del Pci possa immaginare, resta convinto, convintissimo che il comunismo italiano avrebbe po­tuto non solo salvarsi, ma tornare a navigare in mare aperto solo inclinando a sinistra l’asse della sua politi­ca, delle sue alleanze sociali, della sua cultura, delle sue relazioni internazionali. E, per restare ai tempi a noi più vicini, compendia questa sua convinzione in un giudizio politico assai favorevole sull’ultimo Berlin­guer, sul Berlinguer cioè che, archiviata la politica di solidarietà nazionale e forse (forse) anche il compro­messo storico, disperatamente cerca di muovere il Pci alla ricerca dei movimenti e della Terza via e, a rischio di decretarne l’isolamento politico, ne rivendica la «di­versità » da tutti gli altri partiti, moralmente degenera­ti e ridotti ormai al rango di organizzazioni di puro potere e di clientela. Se Berlinguer non fosse caduto nel pieno della lotta per affermare questa svolta, e so­prattutto se buona parte del gruppo dirigente comuni­sta (i miglioristi e non solo) non gli avesse messo tan­to piombo nelle ali, altro che Achille Occhetto: il Pci, radicalmente rinnovato sì, ma senza svellere le sue ra­dici e oscurare la sua tradizione, si sarebbe salvato, e la stessa crisi della Prima Repubblica avrebbe preso un segno assai diverso.
Chi scrive, come qualche lettore sa, la pensa, sugli anni Ottanta e sull’ultimo Berlinguer, esattamente al­l’opposto. Fuoriuscite «da sinistra» alla crisi del Pci e del comunismo non ce n’erano, Norberto Bobbio ave­va tutte le ragioni del mondo certo quando trovava «so­spetta » la precipitazione con cui, negli anni di Occhet­to, il Pci buttava a mare «il vecchio carico», ma pure quando affermava che, tra quella comunista e quella socialdemocratica, una terza via non esisteva. E la svol­ta di Occhetto fu un pasticcio non per la volontà di su­perare l’identità (o la ragione sociale) comunista, ma per la pretesa di farlo senza scegliere chiaramente, fuo­ri ma anche dentro i confini nazionali, il socialismo de­mocratico. Ma di questo non ci sogneremmo mai di convincere Magri. Che è cocciuto. E proprio per que­sto, con i tempi che corrono, merita qualcosa di più di un generico apprezzamento.
Lucio Magri è in libreria con «Il sarto di Ulm» (il Saggiatore, pp. 455, e 21)

Corriere della Sera 19.9.09
Opposizione in piazza
«Aborto libero a 16 anni»: la nuova legge divide la Spagna
di Elisabetta Rosaspina

A Madrid La Chiesa e i Popolari preparano manifestazioni
Consiglio di Stato favorevole alla nuova normativa


MADRID — Purché i genitori almeno lo sappiano: l’aborto li­bero a 16 anni si avvia a diven­tare un diritto garantito dalla legge, in Spagna, ma il Consi­glio di Stato, pur non opponen­do obiezioni di tipo costituzio­nale, chiede al governo di trova­re il modo che padri e madri non siano tenuti completamen­te all’oscuro. A meno che si pos­sa profilare un conflitto fami­gliare. In tal caso, e sulla sola pa­rola della giovanissima interes­sata, i genitori non saranno in­formati. E se l’adolescente in­cinta, come è capitato, dovesse avere meno di 16 anni, sarà un giudice tutelare a risolvere eventuali divergenze famiglia­ri.
Il cammino della riforma del­l’attuale normativa sull’interru­zione di gravidanza, che risale al 1985, prosegue tra raccoman­dazioni e consigli degli organi di vigilanza, ma senza modifi­che sostanziali ai punti che han­no provocato le polemiche più violente nell’opinione pubbli­ca. Ieri mattina, ricevendo le conclusioni del Consiglio di Sta­to, non vincolanti, la ministra dell’Uguaglianza, Bibiana Aído, si è mostrata raggiante e coope­rativa: «Terremo conto di tutti i suggerimenti» promette. An­che se il tempo stringe: la mini­stra della Sanità, Trinidad Jimé­nez, prevede che il testo (immu­tato) della nuova legge sarà sot­toposto in seconda lettura al Consiglio dei ministri già il 25 settembre, fra una settimana.
Secondo il Consiglio di Stato il diritto di tutti alla vita, garan­tito e tutelato dall’articolo 15 della Costituzione, non si riferi­sce anche al feto, che si limita a essere un «bene giuridico pro­tetto ». Quanto all’interesse del nascituro, sarebbe salvaguarda­to dalle informazioni scientifi­che che vengono fornite alla madre sulla natura dell’aborto e sugli aiuti di cui potrà usufrui­re se decidesse di proseguire la gravidanza. Il Consiglio parte dalla convinzione che la donna sia responsabile e non prenda decisioni così serie alla leggera, e che l’interferenza di terzi — un medico, il partner o un giu­dice —, sia un limite inutile alla sua autodeterminazione.
Sui tempi, il parere del Consi­glio è leggermente restrittivo ri­spetto a quello del governo: 14 settimane di tempo per aborti­re liberamente potrebbero esse­re ridotte a 12, come nella mag­gioranza dei Paesi dell’Unione europea. Fermo restando il per­messo di interrompere la gravi­danza entro la 22esima settima­na se si dovessero riscontrare malformazioni al feto o rischi per la salute fisica o psichica della donna. Con quest’ultima motivazione finora si poteva abortire praticamente senza un limite di tempo massimo. Il che, secondo il Consiglio di Sta­to, ha finito per trasformare la Spagna nel «paradiso del turi­smo dell’aborto». L’opposizione si prepara a da­re battaglia. Il Partito Popolare in aula, le associazioni per la di­fesa della vita in piazza. Per il 17 ottobre è convocata una ma­nifestazione a Madrid che mira a emulare le dimostrazioni del 18 giugno 2005 e del 30 dicem­bre 2007, quando centinaia di migliaia di persone protestaro­no contro il governo socialista per la legalizzazione dei matri­moni omosessuali e la politica sociale di Zapatero.

Corriere della Sera 19.9.09
In mille pagine la storia dei soprusi sui moriscos
Falcones: «Racconto lo scontro di civiltà nella Spagna del Cinquecento»
Cristiani contro musulmani: un romanzo sull’altro fanatismo religioso
di Elisabetta Rosaspina

Il primo romanzo dello scrittore di Barcellona ha venduto in tutto il mondo quattro milioni di copie 
Gli stupri di donne islamiche ci furono davvero, e anche i figli generati dalla violenza dei preti cattolici 
I fatti sono reali, ho verificato i dettagli, ma è un romanzo d’avventura. Il lettore deve divertirsi

BARCELLONA — Senza paura della volubilità del successo, Ildefonso Falcones, avvocato 51enne di Barcellona, si sottopone al controesame, l’opera seconda. Abbandonato, a pagina 660 circa, l’ormai maturo Arnau Estanyol davanti all’altare maggiore della sua Cattedrale del Mare, nel caldo ferragosto del 1384, lo scrittore e avvocato di Barcellona riparte, dopo un viaggio di quasi due secoli, dal rintocco delle campane della chiesa di Juviles, borgo murato della Sierra Nevada, in Andalusia. Sono le 10 di mattina della gelida domenica 12 dicembre 1568 e qui comincia l’avventura di un altro adolescente, Fernando, che cresce, soffre, combatte, ama, lungo un migliaio di pagine, nel pieno del conflitto tra cristiani e musulmani. Un bagno di san­gue, passione e fanatismi. «Fanatismo religioso — precisa Falcones —. È un li­bro contro il fanatismo religioso, in que­sto caso però cristiano». Se Arnau era un arrampicatore sociale in versione me­dioevale, Fernando è un idealista, il cui destino è complicato fin dal suo concepi­mento, frutto della violenza di un sacer­dote cattolico su una musulmana, Aisha. Una dei 300.000 moriscos spagno­li, i musulmani convertiti spesso con la forza, ma non per questo risparmiati dal­l’espulsione collettiva ordinata da re Fi­lippo III nel 1609.
«Non erano immigrati clandestini. Erano spagnoli per davvero — non di­mentica lo scrittore —, da 800 anni». Fernando non è un eroe: «Si muove nel grigio. A Cordoba, dove lo confina la sconfitta, dimentica la sua cultura mu­sulmana — gli rinfaccia il suo autore —. Ma l’ambiguità esiste anche nei perso­naggi positivi». Intrappolato tra due mondi, tra due amori, tra i geni nemici che gli scorrono tumultuosamente nelle vene, Fernando non riuscirà a conciliarli e, alla fine, dovrà scegliere. Ma non del tutto. E non tutto sarà perduto. La mano di Fatima , che dà il titolo al libro in fon­do è un amuleto neutrale: «La Madonna di Fatima è sacra ai cristiani come lo è ai musulmani; Fatima la figlia del profe­ta », osserva Falcones.
Sfidare il suo record personale, oltre 4 milioni di copie vendute della Catte­drale del Mare, il primo romanzo, non pare un azzardo all’autore: «Quattro mi­lioni?
Non saprei dirlo con sicurezza», pare sinceramente disinteressato. Ignora pure quante copie abbia venduto in Spagna il suo secondogenito il giorno del debutto in libreria, il 10 giugno scorso: ne sono volate via 50.000. Falcones convalida il dato con un cenno del capo, più per educazione che per convinzione. Però è al corrente che, in Italia, uno staff di traduttori si è diviso le 950 pagine del nuovo romanzo per poterlo consegnare in tempo utile alla tipografia e rispettare la data fissata da Longanesi per l’appun­tamento con il pubblico, il 5 novembre prossimo. Non sapeva, ma non lo mera­viglia che l’editore-poeta Enrique Muril­lo gli abbia dato il benvenuto nel «club dei pronipoti di Blasco Ibáñez», il primo autore spagnolo apparso nella classifica del «New York Times». Chi altro c’è nel club?, s’informa, moderatamente curio­so. Le star delle vendite internazionali, a cominciare da Carlos Ruiz Zafón, Arturo Pérez-Reverte, Julia Navarro, Matilde Asensi, Javier Serra...: «Encantado! — sorride, contento —. Dopo 40 anni di dittatura e di censura in Spagna, era normale che si producesse un’esplosione letteraria che prima sarebbe stata impossibile. C’è voluto tempo, il Paese era imprigionato in una letteratura endogamica. Ora utilizziamo anche noi un linguaggio universale e abbiamo successo». Tanto che gli editori, forse per la crisi, si arroccano attorno alle firme collaudate, come beni rifugio: «Normale anche questo. Le case editrici guardano ai bilanci come qualunque altra azienda. È un problema strettamente commerciale. È sempre esistito e sempre esisterà».
Che direbbe a un lettore italiano per convincerlo che le mille pagine de La mano di Fatima non lo deluderanno do­po 
La Cattedrale del Mare ? Come garan­tirgli che non si arrenderà dopo il primo centinaio? «La formula è la stessa — spiega —. I fatti storici sono reali, ma è un romanzo d’avventura: succedono co­se, intendo. Il lettore deve divertirsi. Non può passare mezz’ora di lettura sen­za che sia ancora accaduto qualcosa. Il mio obiettivo è che arrivi alla millesima pagina e chiuda il libro soddisfatto». Senza dubbi.
Per questo, ha verificato ogni detta­glio, perfino soppesato la lapide di un sarcofago della moschea di Cordoba, per valutare se il protagonista poteva sol­levarla per nascondervi un Corano. I fat­ti sono storici, ma Fernando è inventato: «Però potrebbe essere esistito. Gli stu­pri ci furono davvero, e anche i figli ge­nerati da quella violenza, come confer­ma una lettera dell’allora ambasciatore di Parigi che lamentava la proliferazione di bambini dagli occhi azzurri attribuiti ai sacerdoti locali». Non ci sarà ancora un po’ di senso di colpa collettivo nel subconscio spagnolo per ciò che accad­de nell’Andalusia della fine del XVI seco­lo? «Non c’è motivo per cui uno spagno­lo di oggi debba sentirsi responsabile di ciò che è successo 400 anni fa. Ma è vero che la Spagna è vissuta sotto una pressio­ne importante della chiesa e il senso del peccato ci è stato inculcato fin da picco­li, con l’educazione religiosa impartita nelle scuole ancora fino a pochi decenni fa». Ora la scuola è laica e la chiesa spes­so è in conflitto con il governo: «Uno scontro eccessivo e utilizzato politica­mente. La chiesa manifesta le sue opi­nioni, come qualunque altro gruppo so­ciale. E probabilmente, in futuro, le sue posizioni evolveranno per quadrare me­glio con il pensiero e le condotte della società».
Già La Mano di Fatima pare sentire l’influenza del femminismo, con quattro donne in primo piano: «Sì, Aisha, la ma­dre, guidata dall’unico desiderio di tene­re unita la famiglia. Fatima, la prima mo­glie di Fernando, musulmana, sensuale e combattiva. Isabel, la seconda sposa, cristiana, che vive il sesso come un pec­cato. E infine Rafaela, l’ultima moglie, anche lei cristiana, che incarna la fami­glia e il senso del dovere». Il suo ideale, fra le quattro? «Nessuna. La mia donna ideale è un’intellettuale e nessuna delle quattro lo è». Forse la protagonista del prossimo romanzo, un altro paio di seco­li più avanti.

Corriere della Sera 19.9.09
Mercoledì in edicola Nasce il nuovo giornale di Padellaro e Travaglio
Il Fatto si presenta: niente soldi pubblici


ROMA — Mercoledì 23 settembre parte il Fatto Quotidiano , il nuovo giornale di Antonio Padellaro. A presentarlo ieri mattina nella sede della stampa estera è stato lo stesso direttore insieme a Marco Travaglio, Furio Colombo e le altre firme che si sono unite a questa impresa di quotidiano «costruito e finanziato dal basso». Sedici pagine, sei giorni di uscita, un costo di 1,20 euro a copia, per raccontare i fatti «senza il condizionamento di un edito­re- padrone» e una scelta di campo: rinuncia­re ai finanziamenti pubblici. Linea editoriale dichiarata: «La Costituzione».
La partenza viene giudicata «più che positi­va »: 27 mila abbonamenti (di cui una parte consistente on line, con versione in pdf), rac­colti prima ancora dell’uscita in edicola. Agli ex giornalisti dell’ Unità , che rappresentano gran parte della redazione, si sono aggiunte altre firme come Peter Gomez e Marco Lillo, provenienti dall’ Espresso , Luca Telese (ex Il Giornale) insieme a Beatrice Borromeo, che ha lavorato ad «Annozero» con Michele Santo­ro.
«Ci rivolgiamo — ha detto Padellaro — an­che ai colleghi stranieri i quali, in queste ulti­me settimane, ci hanno chiesto cosa ci spin­gesse fare un nuovo giornale in un momento di crisi del settore editoriale, sottoposto an­che all'artiglieria pesante di Silvio Berlusconi. Ma è proprio per questo che serve una reazio­ne ». E quindi, «sarà centrale l’opposizione al premier», anche se, ha precisato Gomez, «ciò non significa essere filo-opposizione».

venerdì 18 settembre 2009

l’Unità 18.9.09
Intervista a Pietro Ingrao
«Basta con questa guerra, ma il movimento pacifista si è quasi spento»
La tragedia di Kabul: «Non è con i soldati che si batte il fondamentalismo. Guai a rassegnarsi, lo dobbiamo alle vittime e alla pena delle loro famiglie»
di Pietro Spataro


L’articolo 11. La Costituzione autorizza la partecipazione solo a guerre di difesa
Quella in Afghanistan è un’altra guerra
Le risposte della sinistra. Purtroppo ci sono divisioni anche pesanti
Ma quei morti ci rimandano alla dimensione mondiale della prova

«Sento mia la pena di quei poveri genitori...». È segnato dall’amarezza lo sguardo di Pietro Ingrao mentre vede scorrere in tv le immagini dell’ultimo massacro che ha spezzato la vita di sei ragazzi italiani a Kabul. Resta in silenzio nella sua casa di Piazza Bologna circondato dalle foto della sua vita. Cerca le parole con cura guardando fisso davanti a sé.
Nomina la parola pace e dice, quasi con un peso sul cuore: «Il movimento pacifista s’è quasi spento...». Ma il vecchio leader della sinistra non si rassegna. «È ancora forte la sete di un mondo nuovo». Ricorda un articolo della Costituzione, il numero undici, che gli è molto caro.
Allora, Ingrao che cosa provi davanti a queste drammatiche immagini che arrivano da Kabul? «Dolore e rabbia. Dolore nel vedere ancora questo pianeta insanguinato dalla guerra e chino a contare i morti in terre che invece avrebbero bisogno di pace e civiltà. E rabbia, rabbia perché, ancora oggi e dopo tanti lutti, il mio Paese è ferito e turbato dall’ammazzarsi fra gli uomini».
Cito le date di nascita di quei soldati morti: 1972, 1974, 1977, 1983. Poco più che ragazzi... «Sono passato attraverso decenni di massacri totali dopo i quali avevamo giurato al nostro cuore e a noi stessi che il ricorso alle armi lo avremmo consentito solo per difendere la libertà del nostro Paese. Adesso dinanzi a noi stanno quei ragazzi».
Che cosa ti senti di dire ai loro genitori? «Che sono vicino alla loro pena infinita. Anche se io, se fossi stato al governo, non avrei mandato i loro figli in Afghanistan. A quei padri e a quelle madri dico: dobbiamo cercare le vie nuove per non far morire più i nostri soldati».
Ma perché siamo arrivati a questo punto? «Perché la pace non è e non è mai stata un fatto spontaneo. Anzi se ripercorro con la mente il secolo amaro e terribile in cui sono vissuto vedo che mi sono trovato subito in compagnia della guerra, anche quando erano appena finite le carneficine umane».
Allora, la pace è impossibile?
«Se guardo all’esperienza di tanti popoli e di tante generazioni starei per rispondere: sì. Però poi mi ricordo anche che in pagine vincolanti delle nostre leggi abbiamo dichiarato il contrario. Ricordi l’articolo 11 della Costituzione? Lì sta scritto che è consentita al nostro Paese solo la guerra di difesa. Io dico con grande amarezza: non mi pare che l’impresa di quei soldati italiani in Afghanistan possa essere definita guerra di difesa».
Ma come si fa a far rispettare quell’articolo della Costituzione che tu, insieme con Scalfaro, avete richiamato più volte in questi anni?
«Credo che possa pesare solo un’azione compatta di popolo. Sai anche però quanto in questa enorme questione pesi di fatto l’azione dei massimi reggitori dello Stato».
Circa un anno fa, dopo l’ennesima strage a Gaza, hai scritto una poesia che pubblicammo su “l’Unità”. Un verso diceva: “bombe fiorenti e furenti che cantano l’inno della morte”. Dobbiamo rassegnarci al dominio della bomba?
«No. Quei versi esprimevano un’ardente speranza: anche i morti di oggi chiamano ancora a quei pensieri».
Ingrao, ma che fine ha fatto il movimento pacifista? «S’è quasi spento. Lo so che sono parole amare, ma bisogna guardare in faccia le cose. Dobbiamo rassegnarci a questa conclusione? Eppure in Italia e altrove non s’è ancora spenta la sete di un mondo diverso. Bisogna ricominciare a tessere una tela».
Ma che cosa si può fare concretamente? Dobbiamo ritirarci dall’Afghanistan? «In quel paese purtroppo agiscono forze locali che non mi piacciono e che sono segnate da ideologie fondamentaliste. E però non possiamo sconfiggerle mandando soldati dall’Occidente ad ammazzarli. Adopero una parola che può sembrare folle in questo momento. Dico: c’è bisogno di dialogo e di depositare in un angolo le armi. Come realizzare una svolta simile è difficile dirlo. Ma questa è la grande questione che vedo squadernata in questi momenti di dolore e di lacrime».
Quei morti non pongono domande anche alla sinistra? «Sì. La sinistra italiana ha molti nodi da affrontare purtroppo. È divisa, anche in modo pesante. Ma quei morti ci rimandano alla dimensione mondiale della prova. Ci ricordano crudamente che lo scenario è mondiale e che se non si affrontano le questioni del terzo mondo non riusciremo a costruire una via di salvezza».
Proprio in un’intervista a “l’Unità” hai detto qualche mese fa che Barack Obama è l’unica novità nel mondo. Ma sta facendo di tutto per fermare la guerra?
«La risposta è troppo difficile. Credo che anche lui abbia molto cammino da fare».❖

l’Unità 18.9.09
Colloquio con Gino Strada: «In Afghanistan è vera guerra. Dobbiamo ritirarci subito»
Il fondatore di Emergency: per il nostro contingente militare spendiamo ogni giorno 3 milioni di euro. Con quei soldi laggiù si potevano costruire 600 ospedali e 10mila scuole
di Rachele Gonnelli


La missione. «Basta ipocrisie, non si può usare la parola pace
Dobbiamo chiederci cosa ci stiamo a fare»

Per Gino Strada il sangue non ha un colore diverso a seconda della bandiera e il dispiacere è lo stesso per i soldati italiani uccisi ieri e per tutte le altre vittime della guerra. Non riesce neppure a capire perchè la Fnsi abbia rinunciato alla manifestazione di sabato per la libertà di informazione. «Con decine di morti ogni giorno...donne, bambini...non so, dev’essere per il clima di guerra. Stiamo vivendo da anni in un clima di guerra senza dircelo, anche se solo ultimamente è passata l’ipocrisia di chiamarla “missione di pace”. Un clima che sta avvelenando la coscienza civile, creando intolleranza, criminalità verso il diverso, lo straniero, l’altro da sè. È anche questo, la guerra».
Il lascito di una casta, lo chiama. «I politici di 30 anni fa non lo avrebbero fatto in spregio della Costituzione». Il 7 novembre del 2001: «l’entrata in guerra dell’Italia decisa dal 92 percento del Parlamento italiano, il voto più bipartisan della storia della Repubblica», per puro «servilismo verso gli Stati Uniti». «Che cosa ci avevano fatto i talebani? Niente. E poi cosa avevano fatto anche agli americani?». Forse non è troppo semplice, recentemente anche negli Usa gli analisti cominciano a porsi la stessa domanda: perchè siamo lì, cosa ci stiamo a fare?. Non c’erano afghani nel commando dei terroristi delle Torri gemelle. Ma la rappresaglia di Bush scattò lì, con Enduring Freedom, il 7 ottobre. Per colpire le basi di Bin Laden, si disse. Otto anni dopo più del l’80 percento dell’Afghanistan è tornato sotto il controllo dei talebani, di Bin Laden non c’è traccia, sono morti 1.403 militari stranieri, spesi centinaia di milioni di euro e il Paese è più povero e più criminale, produce il 90 percento dell’oppio del mondo.
Dopo otto anni l’unico centro di rianimazione è quello di Emergency a Kabul, sei letti di terapia intensiva per 25 milioni di persone. Spendiamo 3 milioni di euro al giorno per la guerra. Sai cosa avremmo potuto con questi soldi in Italia per i poveri, gli emarginati, chi ha bisogno. In moneta afghana invece avremmo potuto aprire 600 ospedali e 10 mila scuole». A Khost gli americani hanno costruito una strada, a Kajaki una diga, la Banca Mondiale lo scorso giugno ha stanziato altri 600 milioni di dollari di aiuti per la popolazione afghana...«Se si devono costruire dighe e ponti si mandino commando di ingegneri, non aerei telecomandati e bombe. Non tremila baionette, o fucili, per sostenere il dittatorello di turno». Quanto ai soldi della cooperazione internazionale, «noi non abbiamo ricevuto una lira quindi non so dice il fondatore di Emergency ma gli afghani che si lamentano, anche ora alle presidenziali, dicono che i soldi sono serviti soprattutto a ingrassare funzionari ministeriali e signorotti della guerra».
Lasciare il Paese, allora, andarsene unilateralmente o tutti insieme, e lasciare ai fanatici mujaeddin partita vinta? Non una bella prospettiva anche fosse realizzabile. «Finchè c’è l’occupazione militare ci sarà la guerra. Emergency lavora in Afghanistan da 10 anni, da tempi non sospetti. Abbiamo curato 2 milioni e 200 mila afghani, il 10 percento della popolazione. In pratica una famiglia su due, sono famiglie con centinaia di persone, ha ricevuto nostre cure. Per questo a Laskhargah non è mai stato torto un capello al nostro personale internazionale. Tutti dovrebbero porre fine a questa guerra e lasciare che gli afghani trovino la loro soluzione attraverso il dialogo, che per la verità non si è mai interrotto, tra le varie fazioni di talebani, mujaeddin e questo governo. Qual è l’obbiettivo di questa guerra?». Domanda che torna. «Le ultime due guerre internazionaliè la spiegazione di Strada sono legate ai giacimenti di gas e petrolio. In Iraq perchè ci sono, l’Afghanistan invece è sulla via di transito dal Kazakistan e dalle altre ex repubbliche sovietiche». Pipeline di sangue.
La nuova strategia McChrystal o la conferenza sull’Afghanistan, inutile parlarne con un chirurgo. Ad inquietarlo è che dei 35 feriti civili dell’attentato all’ospedale di Emergency a Kabul ne sono arrivati solo tre. Gli altri sono stati dirottati all’ospedale militare detto “dei 400 letti”, «struttura del tutto inadeguata, ma lì possono essere interrogati senza paroline dolci». ❖

Liberazione 17.9.09
Notizie filtrate da generali, segreti di Stato e censure mirate. Quando la stampa è in libertà condizionata L'informazione sotto tutela militare
Come fare giornalismo in Israele
di Riccardo Valsecchi



Gerusalemme. Il mestiere del giornalista nello Stato d'Israele non è certo facile. Ogni operatore deve essere accreditato presso il Government Press Office (GPO), l'Ufficio Stampa Governativo con sede in Gerusalemme, alle dirette dipendenze del gabinetto del Primo Ministro. Qualsiasi corrispondente straniero, poi, deve seguire un lungo iter burocratico - fino a novanta giorni -, con varie discriminanti che potrebbero ostacolare l'assegnazione della Press Card: per esempio lo status di freelance, la propria storia professionale, la "non familiarità" dell'impiegato di servizio con il media per cui si lavora o il motivo per la richiesta dell'accredito. A tutti, infine, è richiesta la firma su un documento che vincola la pubblicazione di qualsiasi materiale video, audio, fotografico e testuale riguardante argomenti militari o di sicurezza nazionale, previa supervisione della censura militare. La Lt. Col. Avital Leibovich, portavoce dell'Ufficio Stampa Internazionale dell'Esercito Israeliano, non ha dubbi in proposito:«Siamo un paese in guerra e la censura è assolutamente necessaria come strumento di difesa».
La costituzione israeliana prevede una legge per la censura basata sulla "norma d'emergenza" promulgata nel 1945 durante il mandato britannico, che autorizzava l'interdizione di pubblicazioni locali o internazionali e il taglio di collegamenti tra le agenzie stampa, al fine di eludere il passaggio d'informazioni coperte da segreto militare. L'organismo attuale preposto al controllo è l'Ufficio della Censura Militare, un distaccamento dell'Aman, l'intelligence militare israeliana. La censura militare è assolutamente indipendente dall'Ufficio del Primo Ministro, onde evitare il sovrapporsi d'interessi nazionali e politici.
La linea guida che regola l'attività censoria è definita in un accordo tra IDF - Israel Defense Forces - e un comitato di editori: la censura non può intervenire su tematiche politiche, opinioni o valutazioni personali, a meno che vadano a ledere informazioni classificate come top-secret; la pubblicazione di materiale che possa recare beneficio alla forza nemica o danneggiare lo stato d'Israele, i suoi cittadini, la loro sicurezza, come quella degli ebrei costretti a emigrare da nazioni ostili a Israele, è vietata; IDF e comitato editoriale si riservano, in caso di conflitto, di fornire un elenco di specifici argomenti la cui pubblicazione non verrà consentita al fine di garantire la sicurezza nazionale. Il mancato rispetto delle norme sopra citate potrebbe significare la persecuzione legale, l'arresto, l'espulsione o la preclusione del visto di entrata in territorio israeliano.
«Nella mia lunga esperienza come corrispondente straniera a Gerusalemme,» racconta la giornalista tedesca Inge Günther, direttrice della sede locale del Frankfurter Rundschau, «posso dire che la censura militare israeliana si attiene a standard di professionalità e discrezione assolutamente elevati. Non ci sono particolari episodi di cui potrei lamentarmi. Diversa è la situazione per quello che riguarda le informazioni e le fonti fornite dagli uffici stampa militari o governativi sul tema dello scontro israeliano-palestinese: ma questo è un problema di entrambe le parti in causa. La propaganda, manipolazione, disinformazione e mistificazione è una caratteristica propria di questo conflitto».
Mikhael Manekin, ex soldato nella pluridecorata Brigata Golani, è uno degli ideatori di "Breaking the Silence", organizzazione che si occupa della raccolta e diffusione delle testimonianze di veterani dell'esercito israeliano durante la Seconda Intifada:«Nessuno di noi rinnega ciò che ha fatto per la propria patria, però crediamo che mostrare il lato oscuro delle operazioni militari svolte dall'esercito israeliano durante il conflitto sia doveroso in una società democratica». La galleria fotografica, i filmati e i racconti presenti sul sito dell'associazione mostrano esplicitamente soprusi e angherie perpetrate contro civili palestinesi:«Tutto il materiale che pubblichiamo è sottoposto alla supervisione dell'IDF, eppure non abbiamo mai avuto problemi o ostacoli. Non è la censura militare a boicottare il nostro lavoro, piuttosto la comunità stessa in cui viviamo, a cominciare dai partiti politici fino ad arrivare alla gente comune: i soldati, spesso ancora in servizio, che ci contattano per poter raccontare la loro versione della guerra in Gaza, chiedono di rimanere anonimi non tanto per paura della censura, ma piuttosto per il timore di essere additati come traditori della patria dai compagni, dai propri familiari, dall'opinione pubblica».
«La censura,» spiega Mr Amir Ofek, portavoce del Ministero degli Affari Esteri, «non è atta ad assicurare che si scrivano "carinerie" su Israele. Ciò si può verificare leggendo i giornali europei, i quali spesso riportano posizioni critiche nei nostri confronti». Di diverso parere la Prof. Galia Golan, docente in scienze politiche presso il Centro Interdisciplinare di Herzliya, Tel Aviv:«Certo la metodologia con cui opera la censura militare è migliorata rispetto a vent'anni fa, ma ci sono molti argomenti che non si possono trattare. È noto, per esempio, che i giornalisti israeliani spesso attendono che certe notizie vengano riportate prima all'estero, perché così sono liberi dal vincolo della censura».
La Prof. Golan racconta la sua esperienza riguardo le recenti guerre in Libano e Gaza:«Durante la seconda guerra libanese e il conflitto in Gaza, i media, sia governativi che privati, non sono sembrati imparziali: dai servizi televisivi sembrava che Israele fosse sotto assedio, bombardata tutto il tempo, mentre in realtà pochissimi sono stati i missili lanciati verso il nostro territorio. In un certo senso la situazione era abbastanza divertente: gli inviati delle televisioni nazionali che si trovavano ad Ashkelon, Beersheba, alcune delle località apparentemente più colpite, contattati a ogni ora, mostravano un certo imbarazzo, dal momento che non avevano assolutamente nulla da mostrare. Il risultato è stato che, alla fine delle ostilità, gli israeliani non avevano alcuna idea del motivo per cui l'opinione pubblica internazionale si fosse schierata contro. I nostri media non avevano mostrato nulla di ciò che si vedeva all'estero. In una conferenza all'Università dove lavoro, la rappresentante di una di queste Tv private disse che era stata la censura a operare i tagli. Come cittadina, non posso accettarlo: credo che ci fosse margine per mostrare molte altre scene senza intaccare la sicurezza».
Ron Ben-Yishai è la leggenda del giornalismo israeliano. Opinionista e commentatore per la televisione pubblica, corrispondente di guerra per "Channel 1" e "Time Magazine", è noto al pubblico internazionale per la parte nel pluripremiato film d'animazione di Ari Folman Valzer con Bashir : «Nella mia carriera ho coperto in prima linea conflitti in tutte le parti del mondo: Cipro, Afghanistan, Yugoslavia, Colombia, Cecenia, Nagorno-Karabakh, Iraq, e, ovviamente, il conflitto israeliano-palestinese. Se devo essere sincero da nessun altra parte ho trovato la professionalità e competenza della censura militare israeliana nel garantire la sicurezza nazionale senza ledere la libertà di stampa».
Controverso però è stato il rapporto tra governo/forze militari israeliane e stampa, soprattutto estera, durante il conflitto a Gaza, quando è stato vietato l'accesso alla zona dall'8 Novembre 2008 fino al cessate-il-fuoco del 18 Gennaio 2009: «Qui si fa confusione di competenze,» ribatte la Lt. Col. Leibovich, «l'accesso o meno nei territori occupati è di competenza del governo. Ritengo che i giornalisti dovessero essere autorizzati a entrare a Gaza». Nonostante la Corte Suprema avesse autorizzato l'accesso già dal 29 Dicembre 2008, l'IDF ne precluse l'entrata, con poche eccezioni, fino alla fine del conflitto. Ron Ben-Yishai, che fu uno dei pochissimi a operare nei territori, non ha dubbi: «Vietare l'accesso dei giornalisti a Gaza è stata una vergogna».
Ma che cosa pensano gli israeliani dei propri media e della censura militare? «Non è un tema di cui si parla spesso,» chiude la Prof. Golan, «sembra che le persone non si accorgano, o non si vogliano accorgere, dell'univocità dell'informazione. Prima dell'Intifada, vent'anni fa, c'era molta discussione sul tema, sia per televisione che per radio, ma oggi non più: io credo che non sarà possibile almeno fino a quando persisterà questo clima di guerra».


l’Unità 18.9.09
Il Tribunale accoglie il ricorso del Movimento difesa cittadini. Influirà sul Testamento biologico
Sconfessati l’ordinanza Sacconi e il testo del Senato. Il ministro: subito la «leggina Eluana»
Il Tar: non si può imporre l’alimentazione artificiale
di N.L.


Il Tar del Lazio: alimentazione e idratazione forzata non si possono imporre a nessuno. Una sentenza che «chiarisce ambiguità» per Marino, Pd. Sacconi vuole subito la «leggina» che impone i trattamenti.
Ignazio Marino: «La sentenza chiarisce: non si possono discriminare i pazienti»

L’alimentazione e l’idratazione forzata non possono essere imposte. A nessuno, né in stato cosciente, né incosciente, e anche se si trova in stato vegetativo un cittadino può esprimere, ex post, la propria volontà di interrompere terapie giudicate inutili. Volontà che possono essere ricostruite, per non discriminare tra pazienti che possono esprimere il loro consenso. Il Tar si rifà al «diritto di rango costituzionale della libertà personale», inviolabile secondo l’art. 13 della Costituzione.
A sette mesi dal caso Eluana, il Tar del Lazio di fatto boccia il cuore della legge sul testamento biologico passata al Senato, ora in commissione alla Camera. Il tribunale regionale ha accolto il ricorso del «Movimento di difesa dei cittadini» contro l’ordinanza del ministro Sacconi emanata l’anno scorso, che imponeva alimentazione e idratazione forzata. Principi contenuti nel testo Calabrò: sono trattamenti che il malato in stato vegetativo non può rifiutare neppure con una dichiarazione anticipata di trattamento.
Ignazio Marino del Pd, afferma invece che la sentenza «chiarisce molte ambiguità» che si sono create sul caso Englaro, perché afferma che non si possono imporre l'alimentazione e l'idratazione artificiale ad un paziente, nemmeno se si trovi in stato vegetativo permanente». L’imposizione, secondo il chirurgo, causerebbe «delle discriminazioni tra due pazienti, tra due cittadini italiani, che devono avere gli stessi identici diritti rispetto alla scelta delle terapie, come prevede del resto la nostra Costituzione».
Il ministro del Welfare Sacconi riparte all’attacco e tuona che «è ancora più urgente la “norma Englaro”». Sarebbe la «leggina» che impone come «inalienabile diritto» alimentazione e idratazione forzata. Il ministro fa un pressing sulla soluzione lampo rilanciata ieri da Eugenia Roccella, «nel caso alla Camera si allungassero i tempi». La «leggina», varata dal consiglio dei ministri a febbraio (per bloccare la scelta del padre di Eluana), è «ferma al Senato», spiega Roccella.
RISPETTO DELLA COSTITUZIONE
Una sentenza «molto importante», commenta Vittoria Franco del Pd: «Conferma quanto sostenuto dalla sentenza della Corte di Cassazione a proposito del caso Englaro: stabiliva che la libertà della persona rispetto alle terapie è una libertà assoluta». «Il ministro getta benzina sul fuoco», per Livia Turco, Pd, «la norma che vorrebbe è un' imposizione che impedirebbe il più elementare sentimento di pietas e di rispetto della persona umana». La notizia è accolta con soddisfazione dai radicali, apprezzata anche dall Fp Cgil Medici.
La sentenza del Tar si inserisce nella discussione sulla legge del biotestamento, che Marino spera sia cambiata in modo «equilibrato». Come la vorrebbe il presidente della Camera, Fini. Ieri a Montecitorio ha avuto un colloquio con Savino Pezzotta, dell’ Udc: «Abbiamo parlato di laicità e della riflessione che oggi impone la multireligiosità», ha raccontato l’ex segretario della Cisl. Il fronte teocon del Pdl fa muro, Maurizio Gasparri bolla sprezzate come «fantasie amministrative» la sentenza del Tar. ❖

l’Unità 18.9.09
Seicento vittime nel mare libico lo scorso marzo. Erano due navi cariche di disperati
La strage dei migranti Dalla Libia solo silenzi
di Alessandro Leogrande


La scoperta dei magistrati di Bari durante le indagini su un giro di prostituzione nigeriana
Il Pm di Bari, Scelsi, ha chiesto la collaborazione dei colleghi africani. A marzo un incontro tra i magistrati per far luce sulla tragedia ma non c’è stato alcun riscontro. I testimoni in carcere o rimpatriati.

Un silenzio inquietante. Dalla Libia non giunge alcuna collaborazione per accertare le responsabilità del terribile naufragio avvenuto a fine marzo. Finora l’unica conferma delle proporzioni dell’ecatombe è data – come riportato su l’Unità di ieri – dalle conversazioni tra un trafficante del sesso residente in Italia e un connection-man in Libia, in cui si ribadisce insistentemente che i boat people affondati quella notte erano due, e non uno, e le persone morte quasi seicento.
La Procura antimafia di Bari ha scoperto per caso il disastro indagando sulla tratta di ragazze nigeriane costrette alla prostituzione in Italia. Trenta di loro erano a bordo di una delle due imbarcazioni naufragate, insieme a uomini e donne che avevano pagato per il viaggio. Dopo aver iscritto «connection man» nel registro degli indagati per strage colposa, il pm Giuseppe Scelsi ha chiesto, tramite rogatoria internazionale, la collaborazione della magistratura libica nel fornire accertamenti investigativi.
INCONTRO
Ora sappiamo che l’incontro tra magistrati italiani e libici è avvenuto in Italia, nella scorsa primavera, grazie alla mediazione dell’Oim (Organizzazione mondiale delle migrazioni) una delle pochissime organizzazioni internazionali ad avere una propria sede in Libia. Dopo quell’incontro, nonostante la promessa da parte dei magistrati libici di interessarsi al caso, non è pervenuto però alcun riscontro investigativo. Una nube di silenzio sembra avvolgere il naufragio, per altro avvenuto a pochi chilometri da Tripoli, e quindi in acque che non sono di competenza italiana. Con i pochi dati raccolti è difficile ricostruire che cosa sia veramente accaduto quella notte, in che modo il viaggio sia stato organizzato, perché – come si legge nelle intercettazioni – “le barche si siano spezzate in due”. I superstiti, che pure potrebbero fornire una testimonianza molto importante, sono stati rimpatriati o incarcerati nei centri per migranti. All’ambasciata nigeriana di Tripoli (dalla Nigeria provenivano, oltre alle 30 ragazze destinate alla prostituzione, altri migranti imbarcati) rammentano solo la notizia ufficiale in cui si diceva di una sola barca affondata.
CONNECTION MAN
L’unica cosa certa, come confermato dalla Procura di Bari, è che «connection man», benché residente in Libia, è di nazionalità nigeriana, e che i morti, stando alle intercettazioni, dovrebbero davvero essere seicento. Tuttavia «connection man» è ancora a piede libero, e l’inchiesta risulta bloccata. La magistratura italiana non può fare indagini al di là del Mediterraneo. Per essere precisi: non può neanche mettere sotto controllo il telefono di «connection-man», dal momento che quell’utenza è stata rilasciata in Libia. È stato possibile intercettare le conversazioni in cui si parlava del disastro solo perché era sotto controllo l’altra utenza, quella del trafficante residente in Italia. Pertanto ogni accertamento spetta alla magistratura libica. E qui emerge il nodo del problema, che ha a che fare con la natura del potere giudiziario nella Jamahiriyya. Questo non è autonomo, dipende strettamente dal potere politi-
Commissione d’inchiesta
La necessità di una indagine in Libia da parte del Parlamento
co: in una struttura piramidale dipende direttamente dalla Guida della Rivoluzione. Non è dunque azzardato quindi ipotizzare che a decidere se rispondere o meno alla rogatoria internazionale della procura barese sia proprio l’entourage di Gheddafi.
Il Trattato di Amicizia Italia-Libia sembra soprassedere sul fatto che il partner mediterraneo sia uno stato illiberale. Ma tant’è... Per fare un po’ di luce sul disastro di fine marzo – come chiesto dal deputato radicale Matteo Mecacci – l’unica strada percorribile è forse quella di una commissione parlamentare d’inchiesta sui disastri in mare, a partire da quello che si configura come il più grave naufragio della storia dell’immigrazione verso l’Italia. ❖

l’Unità 18.9.09
«Respingimenti», la parola alla Corte europea per i diritti dell’uomo
di Gabriele Del Grande


La Corte europea dei diritti umani deciderà sulla legittimità della politica del governo sull’immigrazione. Il commissario europeo Barrot ha di recente lanciato un appello al rispetto del principio del «non respingimento».

È stato depositato a Strasburgo il ricorso dei ventiquattro rifugiati somali ed eritrei che facevano parte del gruppo dei 227 migranti che furono respinti in Libia il 6 maggio scorso. Fu il primo della lunga serie di «respingimenti» che ha messo l’Italia sotto osservazione da parte delle Nazioni Unite e delle principali organizzazioni umanitarie. L’Unità ha già raccontato le storie di alcuni di quegli uomini. Storie che dimostrano senza ombra di dubbio che si trattava di perseguitati politici. Uomini, dunque, che avrebbero avuto il diritto d’asilo, se solo fosse stato permesso loro di presentare la domanda alle autorità del nostro paese. Questa possibilità, invece, è stata negata. Ed è su questo che si fonda il ricorso dell’avvocato Anton Giulio Lana, del foro di Roma.
Fa appello all’articolo 3 della «Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali», che vieta la tortura e la riammissione in Paesi terzi dove esista un effettivo rischio di tortura e trattamenti inumani e degradanti; all’articolo 13, che stabilisce il diritto a un ricorso effettivo; e all’articolo 4 del quarto protocollo, che vieta espressamente le deportazioni collettive.
LE VIOLAZIONI
Tutti articoli che, secondo l’avvocato Lana, sarebbero stati violati, dal momento che le persone sono state respinte senza nessuna identificazione, in modo collettivo, senza permettere di presentare richiesta d’asilo politico e tantomeno di poter fare ricorso. E sono state respinte in Libia, dove è documentata la pratica di torture e trattamenti inumani e degradanti nei campi di detenzione. E se è vero che i fatti sono occorsi in acque internazionali, è altrettanto vero che i respinti sono stati fatti salire a bordo di unità marittime italiane, che in base all’articolo 4 del codice di navigazione sono sotto la giurisdizione dello Stato italiano. E quindi sotto il Testo unico sull’immigrazione, come modificato dalla legge Bossi-Fini, che vieta espressamente il respingimento in frontiera "nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari" (articolo 10, comma 4, Testo unico sull’immigrazione).
Adesso si dovranno aspettare i tempi della pronuncia della Corte europea. Il caso non rientra nei provvedimenti di urgenza, in quanto i 24 ricorrenti sono già stati respinti in Libia. Pertanto potrebbero passare mesi prima che la Corte dichiari l’ammissibilità dei ricorsi e notifichi al governo italiano l’apertura delle indagini.
Per un’eventuale sentenza invece, potrebbero passare anni. Basti pensare che ancora non è stata pronunciata la sentenza per i respingimenti in Libia effettuati da Lampedusa nel 2005. Ad ogni modo, una volta che il ricorso sarà dichiarato ammissibile, ci saranno 12 settimane di tempo perché soggetti terzi depositino i loro interventi presso la Corte, in quello che si annuncia come un ricorso chiave per il destino delle politiche di contrasto all’immigrazione nel Mediterraneo. ❖

l’Unità 18.9.09
Vittime di camorra
A un anno dal massacro
di Jean-Rene Bilongo


Con un pensiero commosso rivolto ai sei militari caduti ieri in Afghanistan, la diaspora straniera ricorda oggi
un’altra strage: l’eccidio di San Gennaro. Un’ecatombe che vide, esattamente un anno fa, sei immigrati di color ebano inspiegabilmente crivellati di pallottole a Castelvolturno, una striscia di terra del casertano alla periferia nord della megalopoli partenopea. Fu la spavalda reazione della comunità nera dinanzi ai teoremi liquidatori dell’accaduto, relegato con maliziosa disinvoltura a semplice regolamento di conti tra malavitosi, a suscitare il dibattito. Tra colpevolisti ed innocentisti. Un anno dopo, Castelvolturno sembra essere rimasta uguale a sè stessa. Stressata, sfiatata. Traboccante di problemi. Antichi e nuovi. E mentre la Corte di Assise di S. Maria Capua Vetere si accinge ad avviare le udienze a Setola e ai suoi accoliti, con il Comune di Castelvolturno costituitosi parte civile in un processo i cui imputati sono accusati di strage aggravata dal terrorismo e dall’odio razziale, gli immigrati continuano le loro perenni peregrinazioni di miseri dannati in un contesto propenso a considerarli come fonte di depravazione e di degrado. Il modo migliore di onorare i morti, dice il saggio, è di aiutare i vivi. Impresa piuttosto ardua in una società che vede trionfare etno-centrismo ed egocentrismo, in cui si afferma persino che gli immigrati debbano essere «aiutati», ma paradossalmente a casa loro. Eppure basta dare un’occhiata alla Treccani per afferrare l’essenza del sostantivo immigrato: tale è chi si è trasferito in un altro paese. Con legittime aspirazioni. Coniugando doveri e diritti. Senza bisogno n di buonismo morboso, di subdolo rigidismo dai connotati xenofobi. L’immigrazione è un tema che richiede ragionevolezza, equilibrio, lungimiranza. Perché si tratta anzitutto di uomini. In carne e ossa.❖

Repubblica 18.9.09
Libertà di stampa a rischio in Italia il caso approda al parlamento Ue
A piazza del Popolo il 3 ottobre. Volantini a Bruxelles: "Il premier vuole intimidire i giornali"
di Vladimiro Polchi


ROMA - Il parlamento europeo terrà l´8 ottobre un dibattito sulla libertà di informazione in Italia, accogliendo una proposta del gruppo liberaldemocratico. La Commissione risponderà in aula lo stesso giorno. Il dibattito si terrà a Bruxelles, mentre nella plenaria di Strasburgo del 19-22 ottobre si voterà una risoluzione sull´argomento. E ieri volantini e adesivi sulla libertà di stampa («Berlusconi cerca di intimidire stampa e portavoce Ue») sono stati distribuiti al summit Ue dall´Associazione della stampa internazionale (Api), Reporter senza frontiere (Rsf) e Federazione internazionale dei giornalisti (Ifj).
In segno di lutto per l´attentato di Kabul slitta la manifestazione per la libertà d´informazione, indetta dalla Federazione nazionale della stampa. «Il rinvio è stato deciso per una ragione molto seria – spiega il segretario del sindacato dei giornalisti, Franco Siddi – e cioè la tragedia di Kabul, ma la manifestazione non si archivia, perché i problemi non sono archiviati». La mobilitazione, prevista per il 19 settembre, si terrà il 3 ottobre alla stessa ora (dalle 16 alle 19) sempre a piazza del Popolo a Roma. «Due settimane di rinvio non fanno sgonfiare il tema – aggiunge il presidente della Federazione, Roberto Natale – perché il problema della libertà d´informazione non è possibile che magicamente si dissolva: era presente da mesi». Intanto il portavoce dell´associazione Articolo 21, Giuseppe Giulietti, annuncia due iniziative: la prima avrà luogo in caso di approvazione della legge sulle intercettazioni, con la presentazione di un esposto alla Corte di Giustizia di Strasburgo; la seconda, insieme al senatore del Pd Vincenzo Vita, è la presentazione di un esposto all´Antitrust e all´Agcom contro le dichiarazioni sui media pronunciate Berlusconi a Porta a Porta.
E continuano a correre le adesioni all´appello in difesa della libertà di stampa lanciato su Repubblica dai giuristi Cordero, Rodotà e Zagrebelsky: superata quota 390mila firme. Dopo i direttori dei maggiori giornali europei, si allunga la lista delle adesioni illustri: firma la poetessa polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996, il settimo Nobel dopo le adesioni dei giorni scorsi di Dario Fo, Nadime Gordimer, Guenter Grass, Edmund Phelps, José Saramago e Betty Williams. Hanno deciso di sostenere l´appello l´americano Roane Carey, managing editor di The Nation e il direttore del Financial Times, Lionel Barber. Firma Edgar Morin filosofo e sociologo francese e Orlando Figes, storico britannico. Aderiscono Graham Watson, eurodeputato britannico dell´Alde, Louis Michel, commissario europeo per lo sviluppo e gli aiuti umanitari, l´ex eurodeputato Francois Bayrou, la parlamentare europea Sylvie Goulard dell´Eldr e Sylvana Koch-Mehrin, vicepresidente del gruppo Eldr. Sottoscrive l´appello l´Aied, l´associazione italiana per l´educazione demografica.

Repubblica 18.9.09
L’ora di religione e una pari dignità che non c’è
risponde Corrado Augias


Gentile Augias, se ci fosse la «pari dignità» dell'ora di religione rispetto alle altre materiedovrebbe essere studiata al pari delle altre. Ma non è così. La Chiesa vuole che la religione sia presente, ma non che sia studiata seriamente. Una conoscenza approfondita rischierebbe di evidenziare la distanza che c'è tra certe posizioni della Chiesa e il messaggio di Cristo. Meglio una blanda ignoranza
Miriam Della Croce miriamdellacroce@tiscali.it

G entile Augias, il ministro Gelmini ha detto: «L'Italia non può non riconoscere l'importanza della religione cattolica nella nostra storia e tradizione». Ma a giudicare dai risultati che ottiene l'insegnamento questa importanza non emerge. Un qualsiasi allievo dell'ultimo anno delle superiori sa molto più di storia, di matematica, o di qualsiasi altra materia che non di religione. Allora dove sta la pari dignità?
Attilio Doni Genova attiliodoni@tiscali.it

L a pari dignità dell'insegnamento della religione (cattolica) può essere sostenuta solo con la più sfacciata ipocrisia. Ecco uno dei tanti paradossi al quale raramente si pensa: nelle università esistono cattedre di storia del cristianesimo affidate spesso a studiosi di vaglia. Nessun laureato però, brillante che sia, potrà andare ad insegnare la materia a meno che non abbia il crisma delle autorità cattoliche. La Costituzione (art. 33) stabilisce che «l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento». Per la religione questo non vale. Il prof Remo Cacitti (cattedra alla Statale di Milano) mi ha fatto il seguente esempio: «Di fronte ai vangeli secondo cui Gesù aveva quattro fratelli e alcune sorelle (Mc 6,3; Mt 12,46; Gv 7,3; At 1,14), il docente può farsi persuaso che si tratti di veri e propri fratelli e sorelle; però non potrà mai insegnarlo pena la revoca dell'incarico per difformità dalla dottrina ufficiale della Chiesa». Basterebbe questo a dimostrare l'assurda situazione nella quale ci siamo cacciati. Tanto più che i risultati dell'insegnamento sono (pedagogicamente) deplorevoli. Mi scrive Elisa Merlo (ex prof di religione): «Basterebbe qualche domanda ad allievi delle scuole superiori. Ad esempio che cosa è la Messa, o il significato di un sacramento, o dell'Immacolata Concezione e via di seguito. Bisogna aggiungere che raramente il docente di religione dà un voto insufficiente, e questo avvantaggia gli alunni che scelgono di "studiare" la materia». Che l'ignoranza di molti cattolici italiani sulla loro religione sia immensa ho potuto constatarlo di persona.

Repubblica 18.9.09
Filosofia, l´edizione 2009 del riconoscimento
A Giacomo Marramao il premio Karl-Otto Apel


ROMA - A vincere l´edizione 2009 del "Premio Internazionale per la Filosofia Karl-Otto Apel" è Giacomo Marramao. Fra i temi salienti del suo percorso filosofico, ci sono gli studi sulla secolarizzazione e sul politico, la riflessione sul problema del tempo e l´analisi del fenomeno della globalizzazione. L´approccio filosofico e politico delineato da Marramao pone al centro della discussione i linguaggi e i contenuti attraverso i quali la modernità ha pensato se stessa e la propria storia. La cerimonia di premiazione si svolgerà domenica prossima, nella cittadina di Acquappesa, sulla costa tirrenica cosentina.
Nella prima edizione il riconoscimento internazionale è andato al padre del pensiero debole, Gianni Vattimo. Nella seconda edizione il designato è stato Raúl Fornet-Betancourt, filosofo e teologo di origini cubane, ideatore della trasformazione interculturale della filosofia.

Repubblica 18.9.09
L’edizione americana, agli inizi di ottobre, annunciata dal "New York Times"
Esce il libro rosso di Jung “Santo Graal dell’inconscio”
Un diario privato che raccoglie la sua "discesa negli inferi" della psiche iniziata dopo la rottura con Freud. Il volume è stato tenuto a lungo segreto dagli eredi
di Luciana Sica


sce agli inizi di ottobre nelle librerie americane uno dei più favoleggiati inediti di Carl Gustav Jung, il Libro Rosso, 205 grandi pagine scritte in tedesco dal fondatore svizzero della psicologia analitica, tra gli allievi più geniali ed eterodossi di Freud, il maestro amato ma non idolatrato e poi in qualche modo "tradito". Lo scrive Sara Corbett nel prossimo numero del magazine del New York Times in un lungo articolo intitolato "Il Santo Graal dell´Inconscio". L´editore del Libro è W.W. Norton, il curatore è lo storico della psicologia Sonu Shamdasani, indiano nato a Singapore e cresciuto in Inghilterra, coordinatore delle "Philemon series", progetto che punta alla pubblicazione di tutta l´opera di Jung rimasta inedita.
Quel diario privatissimo di Jung raccolto gelosamente in una cartella di pelle rossa, zeppo di decorazioni e disegni in stile Art déco, ne rievoca la celebre e comunque misteriosa "discesa negli inferi", quel periodo di confusione datato tra il 1914 e il ´30 segnato dal "confronto con l´inconscio", a tratti da terrificanti esperienze anche di natura psicotica - sogni paurosi, visioni allucinatorie, incontri con folle di spiriti, dei e demoni, suoni sinistri. Un viaggio negli abissi della psiche, come un prolungato esperimento con la mescalina con il gravissimo rischio di una progressiva perdita di sé, che Jung ha annotato dettagliatamente, ma in forma sempre molto riservata, temendo l´esposizione pubblica di un volume che - come lui stesso ebbe a scrivere col senno del poi - «a un osservatore superficiale sembrerà pura follia».
Non a caso il volume è stato tenuto a lungo segreto dagli eredi di Jung, scomparso nel ´61. Prima ben chiuso nei cassetti di case private, poi messo al sicuro nel deposito di una banca svizzera, l´United Bank of Switzerland, per ventitré anni. Shamdasani - che considera il Libro Rosso di Jung l´equivalente di Così parlò Zarathustra nell´opera di Nietzsche - ha cominciato a lavorare all´inedito nel ´97. «Il suo è stato un lavoro enorme, dal punto di vista non solo di una corretta traduzione ma soprattutto del rigore filologico, tenendo conto che Jung non ha mai smesso, per tutta la vita, di rimaneggiare quelle pagine»: a dirlo è Luigi Zoja, analista e studioso junghiano di fama. A lui la Bollati Boringhieri, che pubblicherà il Libro non prima della fine del 2010, avrebbe voluto affidarne la cura ma Zoja ha rifiutato un incarico che considera incompatibile con i suoi impegni.
Quello che sarà interessante capire è come l´opera junghiana potrà essere riletta alla luce della pubblicazione di un Libro così singolare che - in una forma decisamente più letteraria che scientifica - anticipa comunque i grandi temi proposti da Jung al pensiero psicologico del Novecento: il processo di individuazione, l´Ombra e l´inconscio collettivo, gli archetipi e il Sé. «Certamente - è l´idea di Mario Trevi, tra i teorici più brillanti dello junghismo non solo italiano - questo Libro costituirà un documento imprescindibile anche per chi come me ama lo Jung empirico, critico, ermeneutico, probabilista».
Da un punto di vista storico, la "traversata notturna" di Jung sta tutta dentro la vicenda del movimento psicoanalitico delle origini. È proprio quando si rompe l´amicizia con Freud - un fratello maggiore se non un padre in un certo senso amato e odiato - che si scatena "il magma fuso e incandescente" dell´inconscio. Jung - che con Simboli e trasformazioni della libido segna i primi contrasti con il fondatore viennese della psicoanalisi - perde un sostegno fondamentale, un amico che lo aveva protetto anche contro se stesso.
Il "torrente di lava" che rischia di travolgere Jung poco alla volta - ci vorranno anni - rientra, smette di debordare, di provocare deliri ad occhi aperti. L´io e l´inconscio, il bellissimo libro del ´28, segna in qualche modo la fuoriuscita da un pericoloso tunnel. Di quegli anni in cui lo psichiatra svizzero è stato senz´altro su un crinale, sapevamo soprattutto attraverso l´autobiografia scritta con Aniela Jaffé, Ricordi sogni riflessioni (ad esempio: «L´intera casa era piena come se ci fosse una folla, totalmente piena zeppa di spiriti...»). Ora il Libro Rosso ci dirà più esattamente di che pasta fosse fatta quell´"immaginazione attiva", quella vicenda non solo personale nel segno della più estrema creatività.

Corriere della Sera 18.9.09
Un saggio ripercorre il difficile rapporto fra laicità e religione in Italia: uno strumento per comprendere le difficoltà di oggi
Quel sogno fallito di Cavour
La separazione fra Stato e Chiesa, che lui avrebbe voluto, viene tradita da 150 anni


di Sergio Romano



Il testamento biologico, la pillola Ru486, l’insegnamento religioso nelle scuole, il giudizio delle gerarchie ecclesiastiche sulle frequentazioni femminili del presi­dente del Consiglio e, naturalmente, il «caso Boffo» sono soltanto gli ultimi episodi di un problema, quello dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa, che domina da centocinquant’anni, con fasi alterne, la vita nazionale.
Il punto di partenza potrebbero essere i due discorsi di Cavour alla Camera e al Sena­to nel marzo e nell’aprile del 1861. Forte dei grandi successi ottenuti nei mesi precedenti, Cavour non esitò a porre il problema di Ro­ma e a interpellare direttamente Pio IX: «San­to Padre, il potere temporale per voi non è più garanzia di indipendenza. Rinunciate ad esso e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche (…) noi siamo pronti a proclamare nell’Italia questo gran principio: libera Chiesa in libero Stato».
Come scrive Roberto Pertici in un libro edi­to dal Mulino — Chiesa e Stato in Italia. Dal­la Grande guerra al nuovo Concordato (1914-1984) — Cavour conosceva e apprezzava il ruolo della religione nelle società politiche, ma aveva letto Tocqueville ed era convinto che soltanto una netta separazione dello Stato dalla Chiesa, come negli Stati Uniti, avrebbe permesso al sentimento religioso di esprimersi con la massima libertà e spontaneità. Occorreva quindi spogliare la Chiesa di tutti gli anacronistici privilegi accumulati nel corso dei secoli e al tempo stesso spogliare lo Stato di tutti i diritti d’ingerenza negli affari ecclesiastici che i re e gli imperatori avevano conquistato per se stessi soprattutto negli ultimi decenni dell’Ancien Régime e nell’era napoleonica. Separazione, nel linguaggio politico di Cavour, era sinonimo di libertà.
Non credo che vi sia un altro programma politico, nella storia dell’Italia unita, che sia stato altrettanto citato, invocato, elogiato, ma sostanzialmente ignorato, bistrattato e spesso spudoratamente contraddetto.
Con qualche esagerazione si potrebbe affermare che il libro di Pertici è la storia di un progetto fallito o, per meglio dire, di tutto ciò che l’Italia ha fatto o tentato di fare per allontanarsi dalla generosa visione di Cavour. Nata da una iniziativa del Senato e completata da un’appendice (circa 300 pagine) in cui so­no riprodotti i dibattiti parla­mentari (da quello sulla rati­fica dei Patti Lateranensi a quello del 1984 sulla revisio­ne del Concordato), questa opera è scritta nello stile e nello spirito di al­cuni grandi predecessori dell’autore, da Fran­cesco Ruffini a Stefano Jacini, da Arturo Car­lo Jemolo a Francesco Margiotta Broglio; ed è l’opera di cui abbiamo bisogno per farci strada nella giungla dei nostri improvvisati dibattiti quotidiani.
Torniamo all’Italia del dopo Cavour. La leg­ge delle guarentigie, approvata dal Parlamen­to italiano dopo la presa di Roma, ebbe il me­rito di creare una cornice all’interno della quale Stato e Chiesa poterono convivere, più o meno bene, per quasi sessant’anni. Ma fu piena di contraddizioni e incongruenze fra cui la principale fu quella di creare un sovra­no senza territorio. Il papa sarebbe stato trat­tato alla stregua di un re e avrebbe avuto, tra l’altro, il diritto d’inviare e ricevere ambascia­tori, ma la terra su cui sorgevano i suoi palaz­zi sarebbe stata parte integrante del Regno d’Italia. La Grande guerra, come ricorda Perti­ci, convinse la Chiesa che la formula era terri­bilmente scomoda, se non addirittura perico­losa; e la vittoria dell’Italia nel conflitto la per­suase che era inutile attendere la morte natu­rale del regno blasfemo dei Savoia.
Cominciò da quel momento un negoziato decennale, che si concluse nel 1929 con la fir­ma dei Patti Lateranensi. Grazie al Trattato la Chiesa ebbe nuovamente uno Stato, anche se molto piccolo, e grazie al Concordato con­quistò prerogative e privilegi che erano l’esat­to opposto del grande disegno delineato da Cavour.
La Conciliazione ebbe molti padri ma il merito maggiore, come sempre accade in questi casi, andò a colui che ne gestì l’ultima fase, vale a dire all’«uomo inviato dalla Prov­videnza ». Dieci anni dopo, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, la Chiesa capì che il ruolo avuto da Mussolini nei Patti Latera­nensi avrebbe potuto screditarli agli occhi degli antifascisti dopo la fine dei regime e corse ai ripari cercando di stipulare qualche controassicurazione. Rinvio il lettore alle pa­gine del libro in cui Pertici descrive un incon­tro in Svizzera nell’agosto del 1938 fra monsi­gnor Mariano Rampolla, ni­pote del segretario di Stato di Leone XIII, e due comuni­sti (Ambrogio Donini ed Emi­lio Sereni). Rampolla chiese quale fosse la posizione del loro partito e fu lieto di ap­prendere che il Pci non ave­va alcuna intenzione di ri­mettere in discussione il Trattato del 1929. Ma appre­se anche con preoccupazio­ne «che il crollo del fascismo avrebbe segnato la caduta del regime concor­datario ». La linea della Chiesa da quel mo­mento fu netta. Il Trattato e il Concordato erano pezzi complementari di una stessa co­struzione e la sorte dell’uno avrebbe inevita­bilmente segnato la sorte dell’altro: simul stabunt, simul cadunt . Questa posizione trionfò nell’Assemblea Costituente, grazie a Togliatti, e la vittoria della Chiesa rafforzò considerevolmente, negli anni seguenti, l’egemonia cattolica sulla società italiana.
Un nuovo capitolo si apre quando la legge sul divorzio comincia il suo difficile percor­so parlamentare nella seconda metà degli an­ni Sessanta. La Santa Sede sostenne che il di­vorzio avrebbe violato lo spirito e le norme del Concordato. Aveva ragione giuridicamen­te ma, come sostenne Giuseppe Saragat, allo­ra presidente della Repubblica, moralmente e politicamente torto: moralmente perché quelle norme erano state stipulate con Mus­solini e salvate grazie a un accordo con i co­munisti, politicamente perché «tutte le na­zioni civili hanno il divorzio».
L’approvazione della legge e la sua confer­ma dopo il referendum del maggio 1974 eb­bero l’effetto di convincere la Chiesa che la difesa del Concordato del 1929 era diventata impossibile e che un nuovo negoziato era or­mai inevitabile. Ma anche in questo caso le trattative durarono dieci anni. Pertici ne de­scrive molto bene i passaggi e dimostra che il nuovo Concordato ha avuto almeno due meriti. Ha valorizzato i comportamenti degli individui e il loro diritto di scegliere fra l’of­ferta della Chiesa e quella delle istituzioni statali; e ha affermato e salvaguardato il prin­cipio del pluralismo religioso.
Anche il Concordato, come ogni trattato, può essere tuttavia interpretato in un senso o nell’altro e risponde in ultima analisi ai rap­porti di forza tra coloro che lo hanno firma­to. Oggi la Chiesa si serve della debolezza del­la politica italiana per affermare con vigore la propria interpretazione e piegarlo alle li­nee della propria politica. Questa affermazio­ne, beninteso, è mia, non di Pertici, che è un eccellente storico e conclude la sua storia nel 1984.

Corriere della Sera 18.9.09
Nel romanzo di Shahriar Mandanipour la prefigurazione della vicenda di Neda, vittima del regime
A Teheran l’amore sfida la censura
«La tirannia ci ha resi forti, ora gli scrittori incalzano il potere»
di Livia Manera



In una Teheran misteriosa e caotica, dove il profumo dei fiori di primave­ra si mescola al puzzo di monossido di carbonio e le motociclette diven­tano taxi improvvisati in un traffico da de­lirio, una ragazza che manifesta davanti al­l’università sta per diventare l’eroina di una storia più grande di lei. «La ragazza non sa che esattamente sette minuti e set­te secondi dopo, al culmine degli scontri tra polizia, studenti e militanti nel Partito di Dio, sarà travolta nel caos delle cariche e delle fughe, cadrà all’indietro, batterà la testa su uno spigolo di cemento e chiude­rà i suoi occhi orientali per sempre». Rara­mente un’opera letteraria ha anticipato con maggiore puntualità una tragedia co­me la morte di Neda Agha-Soltan, la ragaz­za iraniana uccisa negli scontri tra studen­ti e polizia lo scorso giugno, la cui morte ripresa in video è diventata l’anima delle proteste durante l’ultimo contestatissimo trionfo elettorale di Ahmadinejad. Ma di puntualità davvero si tratta, se si pensa che Censura. Una storia d’amore irania­na , il romanzo di Shahriar Mandanipour che Rizzoli ha appena mandato in libreria nella traduzione di Flavio Santi (pp. 370, e 19,50), è uscito negli Stati Uniti proprio du­rante le passate elezioni in Iran. Ed è di­ventato immediatamente un «caso» sui giornali e nei circoli letterari americani per molti buoni motivi, a cominciare al suo inizio tristemente profetico. Gli altri motivi sono legati al metodo postmoder­no usato dall’autore per interrogarsi sui li­miti e le possibilità dello storytelling in uno Stato totalitario. Su cosa significhi cioè «narrare» in un Paese dove l’immagi­nazione può condurre alla galera; dove il linguaggio deve farsi ipercreativo per aggi­rare divieti culturali durissimi; e dove il semplice dare forma a una storia d’amore tra un ragazzo (Dara) e una ragazza (Sara) diventa una sfida, sullo sfondo di un Pae­se dove due giovani non sposati non pos­sono né incontrarsi né tenersi per mano né guardarsi negli occhi in pubblico.
Ma per capire meglio dove nasce l’inte­resse per un libro complesso come Censu­ra , bisogna andare a pagina 16, dove Shahriar Mandanipour — o il suo alter ego letterario — si presenta al lettore di­cendo: «Sono uno scrittore iraniano stan­co di scrivere storie cupe e amare, popola­te da fantasmi e narratori passati da tem­po a miglior vita, con prevedibili finali di morte e distruzione». Uno scrittore cin­quantenne, aggiungiamo noi, che scrive in farsi per un pubblico che non può leg­gerlo (essendo in Iran censurato) e pensa in inglese per un pubblico americano col­to; che è stato critico cinematografico, di­rettore di una rivista letteraria e autore di racconti, prima di emigrare negli Stati Uni­ti nel 2006, dove Harvard gli ha offerto un posto di writer in residence che occupa tuttora.
Pieno di energia, ironico, erudito e am­biziosissimo, Mandanipour ha scritto un romanzo che è tre cose in una: la storia di un amore segreto tra due giovani nella cu­pa Teheran di oggi; la storia dello scrittore di quella storia costretto, per poterla raccontare, ad aggirare con mille compromessi l’inevitabile censura; e una riflessione su il modo in cui arte e vita possono mescolarsi nella realtà e sulla pagina. Chi ha visto i film di Michel Gondry o ha letto Diario di un anno cattivo di Coetzee sa di che cosa stiamo parlando.
Con queste premesse, ecco che la storia di Dara (trent’anni) e del suo amore per Sara (ventidue) diventa un escamotage per parlare d’altro. Dunque: Dara vede Sa­ra per la prima volta a una dimostrazione davanti all’università. Comincia a seguirla in biblioteca ma, siccome non può parlar­le, escogita un sistema per mandarle mes­saggi cifrati attraverso i libri che la ragaz­za prende in prestito (un classico persia­no ma anche Saint-Exupéry, Bram Stoker e Kundera). Impossibilitati a incontrarsi in pubblico, Sara e Dara si danno appuntamento in luoghi affollati: un museo, un pronto soccorso. E mentre la loro storia d’amore si incendia senza consumarsi, l’autore che la racconta è costretto a misurarsi con la penna del censore che la passa al vaglio (molte frasi sono cancellate) e a cercare di aggirare i suoi divieti. Tutto questo mentre la storia d’amore che continua a scorrere sulla pagina perde importanza a scapito delle avventure creative dell’auto­re e i personaggi gli sfuggono di mano (al punto che verso la fine il censore s’inna­mora di Sara e chiede allo scrittore di ucci­dere Dara per avere via libera con la ragaz­za).
Dunque è la censura la vera protagoni­sta di questo romanzo. Una censura eleva­bile ad arte che è la vera ragione, secondo Mandanipour, per cui «gli scrittori irania­ni sono diventati i più educati, i più male­ducati, i più romantici, i più pornografici, i più politici, i più realisti e i più postmo­derni del mondo». Non grazie alla nostra cara vecchia libertà di espressione che può intimorire le menti più navigate. Ma grazie a una tirannia che nella sua stupidi­tà non si accorge di essersi trasformata nella madre di tutte le metafore.

Corriere della Sera Roma 18.9.09
Vincere l’anoressia
Va in scena «Le Preziose» con quattro giovani attrici
di Emilia Costantini


Anoressia. Una malattia che ha radici antiche, ma è modernissima. Per la prima volta viene portata in teatro. Al Piccolo Eliseo sabato e do­menica va in scena «Le Prezio­se », uno spettacolo nato da un testo medico: «L’anores­sia. Storia, psicopatologia e cli­nica di un’epidemia moder­na » di Ludovica Costantino. In palcoscenico quattro giova­ni attrici, Sara Carlenzi, Valen­tina Gristina, Giada Olivetti e Micol Pavoncello, con la regia di Massimo Monaci.
Spiega l’autrice, medico psi­coanalista: «Lo spettacolo trae ispirazione dal mio libro, ma poi spicca il volo e trasci­na lo spettatore in un viaggio fantastico attraverso il tempo, per parlarci della donna e del­la sua realtà irrazionale che da sempre è stata temuta e osteg­giata dagli uomini». Il testo te­atrale ha preso vita dalla colla­borazione di un gruppo di donne: letterate, poetese, filo­sofe e naturalmente psichia­tre, unite da un’importante ri­cerca sulla realtà psichica che conduce all’anoressia. Spiega Monaci, giovane direttore del­l’Eliseo, qui in veste di regista: «È un percorso che indaga su 2500 anni di storia, a partire dall’antica Grecia, quando il costruirsi del logos occidenta­le, che aveva penalizzato la vi­ta della donna perché 'irrazio­nale', fece sì che l’uomo occi­dentale perdesse il rapporto con il mondo della fantasia in­conscia. La sfida è quella di rappresentare una ricerca così intima e profonda, con il lin­guaggio del teatro».
Ma si può stabilire una data di nascita di questa malattia? Risponde la Costantino: «Va precisato che l’anoressia colpi­sce solo l’Occidente. Solo le donne che appartengono al cosiddetto mondo ricco ed evoluto possono caderne vitti­me ». E quelle orientali? «Solo quando entrano in contatto con l’Occidente. L’anoressia esiste da sempre, solo che pri­ma non veniva riconosciuta come tale. Durante l’Illumini­smo, l’affermazione della ra­gione sul sentimento, della ra­zionalità dell’uomo sull’irra­zionalità della donna, accen­de la miccia. Dalla seconda metà dell’Ottocento, quando parte il processo di evoluzio­ne femminile, si trasforma in una malattia grave sotto il pro­filo psicopatologico e sociale. Negli ultimi vent’anni, il feno­meno ha subito un’accelera­zione preoccupante. Ormai è diventata un’epidemia».
Perché il titolo «Le Prezio­se », che sembra parafrasare una celebre commedia di Mo­lière, «Le preziose ridicole»? Risponde Monaci: «Nel seco­lo dei lumi, venivano chiama­te 'preziose', anche in forma dispregiativa e Molière ne è il testimone, proprio quelle don­ne che, appartenenti a una classe sociale culturalmente elevata, si riunivano per discu­tere e prendere coscienza dei propri diritti e della loro iden­tità. In un certo senso, erano delle antesignane di un fem­minismo non rivoluzionario, come quello che sarebbe ve­nuto in seguito, ma di sicuro impatto sul piano sociale».
Si può guarire davvero e de­finitivamente dall’anoressia? «Assolutamente sì - conclude la Costantino - purché si ritro­vi e si rivendichi la propria ir­razionalità, la fantasia, quel primitivismo che purtroppo tutti noi abbiamo perso».