giovedì 16 luglio 2015

Repubblica 16.7.15
Che cosa ci insegna l’imbecillità di massa
Elogio semiserio dei nostri difetti ai tempi della società digitale e della fine dei sogni collettivi
di Maurizio Ferraris


Per più di un motivo, quello della imbecillità di massa si presenta come un vasto problema. Anzitutto perché si presta più di ogni altro tema alla ritorsione del tu quoque trascendentale: chi sei tu, quale intelligenza puoi vantare, quale autorità puoi invocare per dare dell’imbecille non solo a me, ma addirittura a delle moltitudini? Quale patente di intelligenza ti autorizza a sollevarti al di sopra del mondo? Se c’è un momento in cui una persona intelligente appare irrimediabilmente stupida è quando pretende di sollevarsi sulla massa, per esempio quando Heidegger sostiene che «chi pensa in grande può anche
errare in grande», o quando Valéry apre M. Teste con un madornale «La stupidità non è il mio forte». Da questo punto di vista, l’imbecillità di élite (quella che per esempio si manifesta nei “centri di eccellenza” che sono fioriti in una università devastata qualche anno fa) sembra ancora più acuta dell’imbecillità di massa. Quest’ultima, però, ha dalla sua il peso della quantità, e, come diceva Hegel (altro filosofo in cui si può trovare una quantità di affermazioni stupide), il quantitativo trapassa necessariamente nel qualitativo.
Per verificarlo, basterà leggere Nello sciame. Visioni del digitale del filosofo coreano naturalizzato tedesco Byung-Chul Han appena tradotto da Nottetempo. Una filippica contro il digitale basata sulla contrapposizione (in sé non meno inconsistente di «la stupidità non è il mio forte») tra l’informazione «cumulativa e additiva» e la verità «esclusiva e selettiva».
Al digitale vengono imputati tutti i mali del mondo: egoismo, liberismo, nichilismo, coazione, oscenità, calo del desiderio, ma anche cose un po’ speciali come il fatto che (i corsivi sono dell’autore), diversamente dall’ Iliade , «l’indignazione digitale non è cantabile », o che oggi viviamo «in un tempo di morti viventi , nel quale non solo l’esser-nati ma anche il morire sono divenuti impossibili ». Anche il gomito del tennista dipende dal digitale? No. Tuttavia Byung-Chul Han ci va vicino quando parla di «artrosi digitale delle dita» (che sarebbe risultata fatale a Heidegger dal momento che, scrive altrove Byung-Chul Han, «la mano di Heidegger pensa invece che agire»). Malgrado questa menomazione, nel digitale «Dispongo dell’Altro come se lo tenessi tra il pollice e l’indice ». Anche in questo caso, i corsivi sono dell’autore, che segnala una circostanza anatomicamente implausibile anche senza artrosi digitale (provate a tenere anche solo un telefonino tra il pollice e l’indice: con cosa scrivete? Con il naso?) e antropologicamente problematica (per quello che riguarda la mia personale esperienza, ho piuttosto l’impressione che sia l’Altro a disporre di me).
Immagino il tu quoque trascendentale, e mi ci rassegno. Ognuno di noi è un portatore, più o meno sano, di imbecillità. Joseph de Maistre ha potuto scrivere un libro monumentale e magnifico, l’ Esame della filosofia di Bacone, in cui enumerava i segni evidenti di imbecillità ravvisabili negli scritti del Lord Cancelliere, il padre della scienza moderna, un cui brano è posto in esergo della Critica della ragion pura . A un certo punto, dopo aver osservato che nella sua Storia di Enrico VII , Bacone scrive che il re assiste alla celebrazione delle feste di Natale il 27 dicembre, de Maistre svolge una considerazione capitale: «Ci sono mille prove che spesso scriveva per pura abitudine meccanica e per esercitare le dita ».
Ecco la vera origine della imbecillità collettiva. Noi non siamo affatto più imbecilli dei nostri antenati, anzi, è altamente probabile che siamo molto più intelligenti di loro. Meno mangioni (avete fatto caso a quanto si mangia nei romanzi dell’Ottocento?), meno beoni (provate a contare il numero di birre che si beve Maigret in una giornata di lavoro), più liberali e meno autoritari o inclini al fanatismo (i roghi delle streghe non sono più prassi corrente), mediamente più istruiti e alfabetizzati. E proprio qui è il problema.
Oggi l’imbecillità è, per così dire, molto più documentata e diffusa, perché quello che un tempo era la prerogativa di Bacone, scrivere per esercitare le dita, è diventata la più diffusa delle consuetudini. Non ci sono vite che passano senza lasciar tracce. E fra le tracce non ci sono fondi di cassetto, appunti, scartafacci. Tutto è pubblicato, letteralmente, alla velocità della luce. A questo punto, apparirà ovvio che l’imbecillità, che costituisce il basso continuo dell’umano proprio come l’intelligenza ne è la punta emersa e sporadica, venga alla ribalta con una evidenza mai sperimentata in precedenza.
Del 10 giugno 1940 ci rimane il testo, espressione di imbecillità di élite, di Mussolini, che si spinge sino a precisare che dichiara guerra a Francia e Inghilterra ma non alla Svizzera o alla Turchia, e l’immagine dell’imbecillità di massa della folla plaudente ed esaltata. Oggi avremmo milioni di post e di tweet, variazioni del discorso dell’imbecille di élite, magari aggravate dal fatto che, per quanto imbecille, Mussolini lo era molto meno di tanti altri accorsi in Piazza Venezia.
Questa circostanza, per assurdo che possa sembrare, ha un versante positivo, su cui vorrei portare conclusivamente l’attenzione. L’imbecillità iper-documentata rende radicalmente impossibile farsi illusioni sul genere umano, e concretamente su ognuno di noi. Illusioni che sono alla base di programmi di palingenesi sociale miseramente falliti, appunto perché muovevano dall’assunto che l’umanità fosse meglio di quella che è.
Per aiutare l’umanità, per migliorare ognuno di noi, bisogna partire dall’assunto inverso, quello della prevalenza di Genny ‘a carogna. E ciò che un tempo era riservato a pochi, che si chiudevano in stanza la notte a leggere Tito Livio per conoscere le debolezze umane, oggi è disponibile, direbbe Byung-Chul Han, «tra il pollice e l’indice», e insegna da solo più di Montaigne e di Spinoza. Ed è per questo che, venuto meno il sogno della intelligenza collettiva con cui si era salutato l’avvento del digitale, conviene giocarsi la carta della imbecillità di massa come fonte di insegnamento e di ammonimento.
Corriere 16.7.15
«Quando Martini disse a Ratzinger: la Curia non cambia, devi lasciare»
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO Padre Silvano Fausti raccontava che il momento era stato quando Benedetto XVI e Carlo Maria Martini si videro per l’ultima volta. Milano, incontro mondiale delle Famiglie, 2 giugno 2012, il cardinale malato da tempo era uscito dall’Aloisium di Gallarate per raggiungere il Papa. Fu allora che si guardarono negli occhi e Martini, che sarebbe morto il 31 agosto, disse a Ratzinger: la Curia non si riforma, non ti resta che lasciare. Benedetto XVI era tornato sfinito dal viaggio a Cuba, a fine marzo. In estate cominciò a parlarne ai collaboratori più stretti che tentavano di dissuaderlo, a dicembre convocò il concistoro dove creò sei cardinali e neanche un europeo per «riequilibrare» il Collegio, l’11 febbraio 2013 dichiarò la sua «rinuncia» al pontificato. Dimissioni «già programmate» dall’inizio del papato — se le cose non fossero andate come dovevano —, fin da quando al Conclave del 2005 Martini spostò i suoi consensi su Ratzinger per evitare i «giochi sporchi» che puntavano a eliminare tutti e due ed eleggere «uno di Curia, molto strisciante, che non ci è riuscito», rivela il padre gesuita.
Silvano Fausti è morto il 24 giugno a 75 anni, dopo una lunga malattia. Biblista e teologo, una delle voci più ascoltate e lette del pensiero cristiano contemporaneo, era la persona più vicina a Carlo Maria Martini, il cardinale lo aveva scelto come guida spirituale e confessore, si confidava con lui. Il retroscena affidato tre mesi prima di morire a glistatigenerali.com — l’intervista video è stata ora diffusa in Rete — corrisponde a ciò che padre Fausti raccontava in privato nella cascina di Villapizzone, alla periferia di Milano, dove viveva da 37 anni con altri gesuiti nella comunità che aveva fondato. Quasi un testamento che, a proposito di Ratzinger e Martini, risale ai giorni del Conclave di dieci anni fa. Erano le due personalità più autorevoli e, racconta Fausti, «i due che avevano più voti, un po’ di più Martini» (già allora malato di Parkinson), uno per i «conservatori» e l’altro per i «progressisti». C’era una manovra per «far cadere ambedue» ed eleggere il cardinale «molto strisciante» di Curia. «Scoperto il trucco, Martini è andato la sera da Ratzinger e gli ha detto: accetta domani di diventare Papa con i miei voti» . Si trattava di fare pulizia. «Gli aveva detto: accetta tu, che sei in Curia da trent’anni e sei intelligente e onesto: se riesci a riformare la Curia bene, se no te ne vai».
Martini, rivela Fausti, disse che il Papa fece poi un discorso «che denunciava queste manovre sporche e ha fatto arrossire molti cardinali». Il 24 aprile 2005, nell’omelia di inizio pontificato, Benedetto XVI disse: «Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi». Padre Fausti ricorda anche il gesto che avrebbe fatto Ratzinger, il 28 aprile 2009 nell’Aquila devastata dal terremoto. Era previsto solo un omaggio, ma Benedetto XVI seminò il panico varcando la porta santa della basilica pericolante di Collemaggio per deporre il suo pallio sulla teca di Celestino V, il Papa del «gran rifiuto». Ratzinger e Martini, pur diversi, si riconoscevano e si stimavano. «Cercavano sempre di metterli contro per fare notizia. Mentre, con Wojtyla, Martini dava ogni anno le dimissioni…». Le dimissioni di Benedetto XVI erano una possibilità dall’inizio del pontificato, spiega Fausti. Finché a Milano, quel giorno, Martini gli disse «è proprio ora, qui non si riesce a fare nulla». Nell’ultima intervista, Martini parlò di una Chiesa «rimasta indietro di 200 anni: come mai non si scuote?».
Ratzinger non è scappato davanti ai lupi, nonostante attacchi e veleni interni che fino a Vatileaks ne hanno funestato il pontificato. Sa che è urgente agire e fare pulizia, ma sente di non averne più la forza. Ci vuole una scossa. Nella sua rinuncia «in piena libertà» dice che «per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo» che «negli ultimi mesi» gli è venuto a mancare. Il conclave, di lì a un mese, eleggerà Jorge Mario Bergoglio. Padre Fausti, nel video, sorride: «Quando ho visto Francesco vescovo di Roma ho cantato il nunc dimittis , finalmente!, ho aspettato dai tempi di Gregorio Magno un Papa così...».
La Stampa 16.7.15
SuL’Illuminista un Fenoglio a 360 gradi
di Lorenzo Mondo


Nell’eco dei settant’anni dalla guerra di Liberazione, la rivista L’Illuminista è uscita con un numero triplo dedicato interamente a «Beppe Fenoglio». E’ un volume di 800 pagine curato da Gabriele Pedullà, uno dei più agguerriti critici dello scrittore di Alba. E merita il più vivo apprezzamento per una serie di ragioni. E’ introdotto intanto da un’ampia cronologia della vita di Fenoglio, basata sulle testimonianze dirette che offrono «un ritratto a più facce, quasi ‘cubista’, di un narratore altrimenti famoso per il suo riserbo a la sua impenetrabilità».
Segue poi una antologia della critica che rappresenta una grande novità. Raccoglie infatti tutti gli articoli e i saggi che accompagnarono la prima uscita dei suoi libri (con qualche aggiunta ulteriore particolarmente significativa). E’ un contributo prezioso per gli studiosi e gli ammiratori di Fenoglio, documenta infatti dal vivo le impressioni e i giudizi dei primi lettori, disegnando l’accidentata parabola della sua fortuna. Condizionata, oltreché dall’intelligenza di un critico, dalla temperie culturale e politica. Registriamo così, facendo seguito alle incomprensioni di Vittorini, le ottuse denunce che gli vennero mosse per lesa Resistenza e leso Neorealismo (successivamente ritrattate, nel perdurante imbarazzo per il paradosso rappresentato dal massimo cantore della Resistenza che si proclamava monarchico e anticomunista).
Ma non mancò fin dai primordi un blocco di ferventi estimatori, come Giuseppe De Robertis, Pietro Citati, Giorgio Bàrberi Squarotti, e la battagliera Anna Banti che non darà tregua, anche sotto il profilo politico, ai detrattori. Le oscillazioni e riserve si stemperarono quando uscì nel 1959 Primavera di bellezza, fino a quando i romanzi postumi, Una questione privata e Il partigiano Johnny, decretarono la sua apoteosi.
Tra le rare eccezioni, la sordità di Pasolini che si fa curiosamente censore «purista» del linguaggio fenogliano. Ma egli gode ormai di grande consenso anche tra le nuove generazioni, e viene proclamato uno dei vertici della letteratura novecentesca. Avvertendo che l’ispirazione resistenziale e langarola, pur imprescindibile, è soltanto una delle modalità in cui si esprime il suo sentimento tragico della vita, intriso di visionarie, «metafisiche» suggestioni.
Per dirla con Giovanni Raboni, non bisogna dimenticare che le Langhe svolgono in lui «anche un ruolo violentemente immaginario, che non sono solo il suo Mississippi ma anche, in qualche modo, la sua contea di Yoknapatawpha». (Dove vengono suggeriti, con ardita metafora, i nomi di Twain e di Faulkner).
La Stampa 16.7.15
Al “contabile” di Auschwitz quattro anni per 300 mila morti
Condannato in Germania l’ex SS Gröning: “Era lì di sua scelta”
di Tonia Mastrobuoni


Il male non è mai banale. Non importa che Oskar Gröning sia stato un «povero, piccolo sottufficiale», ignaro di tante cose che accadevano ad Auschwitz, come ha dichiarato durante il processo. È colpevole. Il tribunale di Lüneburg lo ha condannato ieri a quattro anni di carcere per concorso nell’omicidio di 300 mila persone. È più di quanto aveva chiesto l’accusa, tre anni e mezzo. Anche se era solo una «ruota nell’ingranaggio», il 94enne ex SS è considerato complice dello sterminio. Tuttavia, non è ancora chiaro se le sue precarie condizioni di salute gli consentiranno di scontare la pena in carcere: saranno i magistrati a deciderlo.
La difesa aveva chiesto l’assoluzione per il «contabile di Auschwitz», come è stato battezzato, perché il suo lavoro consisteva «solo» nello smistamento dei soldi e dei beni dei prigionieri che arrivavano nel campo. Ma i giudici hanno respinto l’idea che per questo motivo non si fosse reso corresponsabile delle atrocità dei nazisti. Lo stesso Gröning, all’avvio del processo, ha detto che «non c’è dubbio che moralmente sono stato complice» delle uccisioni di massa. E nelle udienze si era scusato più volte, si era detto «pentito». Tuttavia, nel corso degli interrogatori, ha ammesso di «non riuscirsi ad immaginare» che un ebreo potesse mai uscire vivo dalla più atroce fabbrica di morte dei nazisti. Ha ammesso anche che all’epoca pensava che «se gli ebrei sono i nemici, è normale che in guerra vengano uccisi».
Come ha spiegato il giudice Franz Kompisch nelle sue motivazioni della sentenza, Gröning ha scelto consapevolmente di lavorare nel campo di sterminio. Auschwitz era «una macchina dedicata nel suo insieme all’uccisione di esseri umani». Ecco perché la sentenza di colpevolezza. Del resto, alcuni sopravvissuti che hanno testimoniato al processo non lo ritenevano affatto innocente.
Sopravvissuta lo perdona
Eva Pusztai-Fahidi, arrivata nel 1944 con la famiglia dopo giorni di viaggio infernali, ha perso 49 famigliari nei campi di concentramento e di sterminio, tra cui i genitori e una sorella: «un ufficiale delle SS ad Auschwitz era più potente di dio in terra», ha raccontato.
Durante le udienze non sono mancati i colpi di scena. Una sopravvissuta dei campi, Eva Kor, ha stretto due volte la mano all’imputato, sottolineando che «il mio perdono non lo assolve affatto dalle sue colpe». Ma «nel nome di 49 testimoni», gli avvocati Cornelius Nestler e Thomas Walther das Verhalten hanno condannato il suo gesto. Del resto, Gröning stesso ha ammesso di aver assistito a delle atrocità e di aver chiesto la prima volta un trasferimento quando vide un ufficiale delle SS ammazzare un neonato sbattendolo contro un camion per farlo smettere di piangere.
Una delle ultime testimonianze del processo è stata quella di Irene Weiss, che oggi vive in Virginia, negli Stati Uniti. Nel 1944 aveva 13 anni. Arrivò ad Auschwitz dall’Ungheria, pressata con 80 persone in un vagone per il bestiame. La sua famiglia fu sterminata. Lei sopravvisse perché fu incaricata di smistare gli effetti personali in una stanza accanto alle camere a gas. Notte e giorno fu costretta ad ascoltare le grida atroci dei condannati a morte. Durante il processo, ha guardato Gröning negli occhi e gli ha detto: «Che lei non si consideri un esecutore ma una ruota nell’ingranaggio, per me non fa differenza. Se sedesse qui, nella sua uniforme da SS, io tremerei, e tutto l’orrore che ho vissuto a 13 anni sarebbe di nuovo qui». Quell’uniforme, ha aggiunto, «è per me un simbolo di quanto in basso possa sprofondare il genere umano».
Il Sole 16.7.15
La tripla bolla cinese, grande rischio per l’economia globale
di Mara Monti


Ormai è chiaro a tutti, la Cina è la combinazione di una tripla bolla: quella del credito, quella degli investimenti e la bolla più grande di tutti i tempi, quella immobiliare. Ecco perché Pechino rappresenta il rischio più grande per l’economia globale. Quanto basta per essere preoccupati: a cominciare dalla deflazione. Per una economica fortemente orientata all’export, se i prezzi alla produzione scendono, i mercati occidentali rischiano di essere invasi da merce sempre più a basso costo. Se, allo stesso modo, scendono i prezzi al consumo, i prodotti che l’Europa esporta in Cina si troveranno a dover fronteggiare le aspettative di un mercato persuaso che prima o poi i prezzi si abbasseranno. Ad accentuare questo rischio, il crollo dei prezzi delle case, i deflussi valutari a livelli record, la crescita dei depositi che stanno rallentando bruscamente e il mercato del lavoro che mostra segni di fibrillazione.
A questo si aggiunge l’indebolimento dei dati economici cinesi dal rallentamento dell’export a un Pil che, nonostante la fiammata di ieri, si è contratto trimestre dopo trimestre. Segnali preoccupanti che finora trasparivano dall’economia, ma non dall’andamento delle Borse cinesi. Le quali hanno continuato a correre dando l’impressione che l’andamento fosse un segnale di una solida crescita economica, ma in realtà stava già rallentando. Una spiegazione di questa “distrazione” è stata la mossa a sorpresa della People’s Bank of China (PBoC) con l’allentamento della politica monetaria, realizzato senza svalutare la moneta. Lo yuan si è così apprezzato mentre i politici hanno iniettato liquidità sul mercato interno, andando in questo modo ad alimentare una mini bolla sui listini cinesi. Che cosa ha fatto esplodere la bolla? Forse gli investitori erano distratti perché concentrati su altri rischi, dalla Grecia, ai rialzi dei tassi americani, al prezzo del petrolio, ponendo poca attenzione su quanto stava accadendo in Cina.
Il risveglio degli investitori ha riportato l’attenzione su un rischio più pesante di un’eventuale Grexit, non ultimo il possibile contagio sul listino di Hong Kong e su altri mercati azionari asiatici. Gli Stati Uniti non sembrano per ora preoccupati da quanto sta succedendo a Pechino forti per i propri solidi fondamentali che restano un paracadute per la crescita globale.
Il Sole 16.7.15
Cina: l’economia corre, la Borsa frena
Il Pil cresce del 7% e supera le attese, ma il listino di Shanghai torna a perdere (-3%)
di Corrado Poggi


Un raggio di sole per l’economia reale e una doccia fredda per i mercati finanziari. La consueta divergenza che si riscontra in tempi di politiche aggressive di stimolo alla crescita, si è verificata anche ieri con decisione alla Borsa di Shanghai dopo che il governo ha reso noto il dato di crescita del Pil nel secondo trimestre, risultato, con un +7% su base annua, lievemente superiore alle attese degli analisti (+6,9%) e in linea con la performance dei tre mesi precedenti. Il riflesso immediato degli investitori, peraltro scottati da un mese orribile, è stato quello di tornare a vendere i titoli sul calcolo che l’esecutivo sarà ora meno incentivato a continuare a premere sull’acceleratore delle manovre espansive e degli investimenti straordinari.
Posto che questo rimane ancora possibile visto che la situazione è estremamente fluida, la reazione del mercato di Shanghai è indicativa del grado di tensione e incertezza che si respira al momento sulla piazza. Con la flessione del 3,03% accusata ieri, il Shanghai Composite Index, nonostante tre sedute consecutive di rialzi che le avevano permesso di risalire circa del 13%, si trova ora sotto del 26,3% rispetto al massimo di questa fase congiunturale toccato il 12 giugno scorso. Nel mezzo sono andati bruciati oltre 3000 miliardi di dollari, numeri da capogiro che tuttavia vanno contestualizzati con quelli ancora più incredibili registrati nel corso dell’ultimo anno, quando la borsa ha guadagnato circa il 150%.
La ragione di questo andamento irrazionale, spiegano gli esperti, è da ricercare proprio nelle politiche del governo che allo scopo di centrare l’obiettivo di crescita dell’economia del 7% annuo hanno incentivato con ogni mezzo i cittadini a investire nei mercati azionari ora che il settore immobiliare, dopo anni di crescita bulimica, è giunto al limite della saturazione. Per consentire il massimo flusso possibile di liquidità verso la Borsa, le autorità cinesi hanno persino permesso ai privati di impegnare la propria casa come collaterale e questo ha scatenato una speculazione indiscriminata sui mercati con gli investitori che si sono gettati in massa a comprare i “growth stocks” senza alcuna considerazione per i livelli di valutazione già raggiunti.
Quando un mese fa è stato toccato l’apice ed è iniziata la fase discendente, la medesima speculazione indiscriminata ha tuttavia funzionato anche al ribasso e gli investitori si sono affrettati a vendere in massa i titoli anche perché per molti di quelli che avevano comprato a margine, cioè con soldi presi a prestito dai broker, sono scattate le richieste di rientro immediato. Due settimane fa il governo è così intervenuto nuovamente con misure draconiane: divieto per gli azionisti che detengono quote superiori al 5% di una società di vendere per sei mesi, taglio dei tassi di interessi a nuovi minimi storici, limiti alle possibilità di vendere allo scoperto, sospensione di tutte le Ipo e rilassamento degli standard per accedere a prestiti e finanziamenti.
Tutte mosse che ci si aspettava potessero avere un effetto esplosivo sulla Borsa e invece l’impatto è stato modesto e di breve durata. Nei giorni scorsi le autorità hanno pertanto permesso un’altra misura straordinaria: la sospensione delle attività di trading sui titoli a maggior rischio di ribasso, il che peraltro non ha fatto altro che concentrare le vendite sugli stock rimasti in quotazione. Ieri ne risultavano sospesi ancora 696, circa un quarto del totale, sebbene in netto miglioramento rispetto a una settimana fa quando erano 1.476.
Alla luce di quella che già ora è la peggiore correzione dal 1992, alcuni analisti ritengono che la Borsa di Shanghai sia ormai entrata in un mercato dell’orso destinato a durare anni. Non tutti ad ogni sposano la tesi catastrofista. Se da una parte il capoeconomista uscente del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard, si è detto certo che le autorità cinesi dispongano degli strumenti per evitare un ulteriore deterioramento dei mercati, dall’altra alcune banche di investimento hanno invitato a rimanere vigili alle occasioni offerte dal momento. «Noi rimaniamo pienamente investiti nel mercato», ha dichiarato Robert Bao, money manager di Fidelity, che si è detto «alquanto fiducioso nei fondamentali dell’economia». Simile l’analisi di Kinger Lau, strategist di Goldman Sachs, secondo cui il governo cinese manterrà il suo pieno supporto all’economia permettendo ai mercati di mettere a segno un rally di oltre il 20% nei prossimi dodici mesi. Al momento tuttavia la prudenza sembra d’obbligo e sembra essere la linea seguita dagli investitori stranieri che ieri per il settimo giorno consecutivo hanno tolto capitale dal mercato azionario di Shanghai tramite un trading link con Hong Kong. È la striscia più lunga da quando questo canale finanziario è stato istituito lo scorso novembre.
La Stampa 16.7.15
La Cina: il Pil cresce del 7%. Ma le Borse sono scettiche
Il governo: obiettivi centrati. Dubbi degli analisti, Shanghai perde il 3,2%
di Ilaria Maria Sala


Come per miracolo, l’economia cinese nel secondo trimestre dell’anno è cresciuta del 7%: esattamente come avevano specificato i pianificatori economici di Pechino all’inizio dell’anno. Nel corso delle ultime settimane le aspettative erano state raffreddate dagli stessi economisti governativi, che avevano diffuso notizie di una crescita del 6,8%, ma alla fine, ieri, ecco che la crescita ha aderito in tutto e per tutto al programma. E la dice lunga che il portavoce del centro nazionale di statistica, Sheng Laiyun, abbia reputato necessario ribadire in conferenza stampa che «queste statistiche sono del tutto veritiere».
L’istituto di statistica
Dunque, vista la sorpresa, ecco che di nuovo tutti gli analisti cercano di leggere fra le righe per determinare fino a che punto sia possibile prendere alla lettera questa percentuale di crescita: la vecchia tradizione nell’arte dell’interpretare le statistiche ufficiali cinesi voleva che si confrontasse il consumo elettrico con la crescita annunciata, per sottolinearne le discrepanze più eclatanti. Ormai però alcuni analisti indipendenti, fra cui Andy Xie, mettono in guardia da questa pratica, dal momento che anche le autorità locali ormai la conoscono, e se necessario sono dunque pronti a «massaggiare» anche i dati sul consumo elettrico.
Tabulare tutti gli altri dati è un compito che richiederà qualche settimana, ma se gli analisti non governativi fanno l’unanimità nel pensare che la crescita cinese sia inferiore a questo magico 7% (che è pur sempre la crescita più basa degli ultimi venti anni) di circa uno o due punti percentuali, i vari dati economici – esportazioni e importazioni, consumo interno, prezzi dell’immobiliare, output industriale e consumi di energia ed acqua, fra le altre cose – presentano un’economia un po’ asfittica, per la Cina, e ancora non al riparo dal rischio deflazione.
Dunque, pochi vogliono specificare una percentuale di crescita credibile, ma i più leggono nell’annuncio ufficiale la conferma di una tendenza di stabilizzazione dell’economia cinese, in un’area che andrebbe dal 5 al 7% di crescita del Pil. Questa, poi, è stata definita dal Segretario Generale di Partito e Presidente cinese, Xi Jinping, «la nuova normalità», e quindi tutto è più o meno in linea. Fra i dati su cui sembra esserci unanimità, però, è che ad aiutare la crescita siano stati i servizi, più della produzione industriale. E le recenti scosse sul mercato azionario avrebbero avuto scarso impatto sui numeri del secondo trimestre, considerando che negli ultimi mesi l’andamento delle Borse sembra essere piuttosto separato dall’economia reale, ma l’iperattività nel settore dei servizi finanziari potrebbe aver contribuito fino all’1,3% alla crescita complessiva del Pil.
Mercati giù
A questo proposito, però, va notato che ieri, mentre i regolatori finanziari avevano deciso di ripristinare la vendita di numerosi titoli di Borsa che erano stati sospesi prima del massiccio intervento governativo volto arrestare la vertiginosa caduta di mercato, di nuovo questi hanno cominciato a perdere di valore. Molte aziende hanno raggiunto la fluttuazione massima del 10%, e sono state così nuovamente sospese, mentre, come prima, ecco che i titoli delle aziende di Stato sono cresciuti di svariati punti percentuali. Ugualmente, la Borsa di Shanghai ha chiuso la sessione di mercoledì con un -3,2%, ignorando dunque la notizia positiva della crescita del 7% del Pil nazionale.
Repubblica 16.7.15
Quei nuovi poveri con lo stipendio
di Chiara Saraceno


NEL 2014 , dopo tre anni di aumenti costanti, la diffusione della povertà si è fermata. Le buone notizie finiscono qui e mi sembra difficile considerarle, come è stato detto, “non negative”. Non c’è stato, infatti, nessun miglioramento nella percentuale di famiglie e individui che vivono in povertà relativa e nemmeno di quelli che vivono nella più grave povertà assoluta, rispettivamente un milione e 470mila famiglie e 4 milioni e 102mila individui.
Non solo, la povertà assoluta continua a rimanere particolarmente elevata tra i minori, il 10 per cento, pari a più di un milione di minori e i giovani tra i 18 e i 34 anni, l’8 per cento, pari a 857mila.
Qualche miglioramento c’è stato solo per particolari sottogruppi, come le coppie con due figli (che tuttavia peggiorano un po’ dal punto di vista della povertà relativa), le famiglie con persone di riferimento in età tra i 45 e i 54 anni e le famiglie che vivono i piccoli comuni, specie nel Mezzogiorno. C’è stato, a prima vista sorprendentemente, un miglioramento anche per le famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione (anche se queste continuano ad avere l’incidenza di povertà assoluta più alta), forse perché più che negli anni precedenti vedono al proprio interno occupati o ritirati dal lavoro. È infatti aumentato in questi anni il numero delle famiglie in cui è la donna ad essere occupata.
Ed è noto come in molti casi sia la pensione di un genitore anziano a mantenere anche le famiglie dei figli adulti disoccupati. Avere una occupazione, tuttavia, non sempre è sufficiente per tenere fuori dalla povertà se stessi e la propria famiglia, specie se si è operai o assimilati. Un reddito modesto, specie se è il solo e se ci sono figli minori, può non essere sufficiente a far fronte ai bisogni di una famiglia.
Sono anche rimaste tutte le caratteristiche tipiche della distribuzione della povertà in Italia. Accanto alla ricordata forte incidenza della povertà minorile, dovuta soprattutto alla diffusione della povertà nelle famiglie con tre o più figli, e al fenomeno dei lavoratori poveri, il dualismo territoriale, con un tasso di povertà assoluta nel Mezzogiorno doppio di quello del centro-Nord: 8,6 per cento a fronte del 4,2 per centro del Nord e al 4,8 per cento del Mezzogiorno.
Questi tre elementi suggeriscono la necessità di andare oltre le sole politiche dell’offerta di lavoro fatte sin qui. Occorre investire nel contrasto alla povertà minorile e ai suoi effetti, tramite interventi mirati nella scuola, ma non solo, ed anche tramite trasferimenti diretti che integrino redditi da lavoro troppo modesti in modo non frammentario, quando non fuori bersaglio. Occorre anche favorire l’occupazione femminile, specie nei ceti più modesti, agendo sia sul lato della domanda, sia su quello dei servizi di cura, lasciati invece privi di investimenti in questi anni. Ed occorre anche prevedere un reddito di garanzia per chi, più o meno temporaneamente, non riesce ad inserirsi nel mercato del lavoro o non in modo tale da riceverne un reddito sufficiente a sé e alla propria famiglia.
I dati forniti dall’Istat quest’anno consentono anche di confrontare la situazione degli stranieri (residenti regolarmente) e delle famiglie di stranieri con quella degli autoctoni. Tra le famiglie di stranieri l’incidenza della povertà assoluta è quasi sei volte quella tra gli autoctoni, 23,4 per cento rispetto a 4,3 per cento. Le famiglie miste sembrano più protette, anche perché è più frequente che sia l’uomo ad essere italiano, ma sempre molto più vulnerabili di quelle tutte autoctone, con il 12,9% di povere assolute. La differenza tra italiani e stranieri è molto maggiore al nord che al sud, stante la maggiore diffusione della povertà tra le famiglie italiane in queste ultime regioni. Si conferma che gli stranieri in Italia, per le loro caratteristiche in termini di qualifiche professionali, ma anche per il tipo di domanda di lavoro che trovano, appartengono allo strato socio-economico più basso della società, condividendo, in modo accentuato, le vulnerabilità sperimentate anche dagli italiani che si trovano nelle stesse condizioni. Anche in questo caso, i più a rischio sono i minori e i giovani.
Corriere 16.7.15
Così Orfini è finito nell’angolo stretto tra il sindaco e il premier
Resta poco tempo per decidere con il Giubileo in arrivo
intervista di Fabrizio Roncone


La politica è anche perfidia (oltreché «sangue e merda», come disse definitivo Rino Formica, socialista di un’altra epoca e di un’altra categoria).
Nella sede del Pd, dentro il vecchio Collegio Nazareno, uno gli fa: «Matté, è vero che diventi vicesindaco?».
Matteo Orfini si volta piano, mettendo su quella smorfia — un miscuglio di ironia e fastidio — che gli avrete visto in tivù nei giorni terribili di Mafia Capitale, quando sotto i colpi portati dal primo faldone dell’inchiesta il partito romano veniva giù in un fumo di polvere e macerie e a lui, come commissario straordinario, toccò il compito di andarlo a difendere (secondo il giudizio di numerosi osservatori, fece bene il suo lavoro: dimostrando lucidità, coraggio, forza dialettica).
Comunque no, non farà il vicesindaco di Ignazio Marino.
Escluso.
Degradato sul campo, lui che è deputato e presidente dei democratici.
No, troppo.
Certo il problema — un problemone, va — resta: aveva promesso a Matteo Renzi di gestire e magari risolvere il grosso guaio del Campidoglio e invece la scena rimane tremenda, incontrollabile, con la giunta che continua a perdere assessori (per dimissioni o per manette), il sindaco che perde consenso ogni ora che passa e adesso sembra essere un’impresa pure trovare il sostituto del suo vice, Luigi Nieri, che ha tolto il disturbo martedì sera.
Matteo Orfini sa che l’altro Matteo è deluso e preoccupato. Quindi, nervoso. Molto nervoso.
Perché Renzi aveva già individuato la soluzione. Nel suo stile. Veloce, istintivo, netto. Dopo essere rimasto in silenzio per mesi, la sera del 16 giugno scorso andò a sedersi nel salotto di Bruno Vespa. Una frase e mezza: «Se Marino non è capace, vada a casa».
Lo dice il premier-segretario, dovrebbe bastare. E invece non basta né a Ignazio Marino (chi ne conosce i sentieri testardi del carattere, gli scarti emotivi, non si stupisce) né a lui, Orfini.
Anzi: secondo alcune ricostruzioni Orfini addirittura affronta Renzi con dosi di risentimento — tipo: io ci metto la faccia, non puoi umiliarmi, ti ho detto che risolverò la questione e devi darmi fiducia — e la cosa sorprendente è che Renzi incassa, gli riaffida la pratica, decide di vedere di cosa è capace.
Ecco, appunto.
Orfini ha 40 anni, ma ha cominciato subito, da ragazzo: frequenta il liceo Mamiani di Roma quando Botteghe oscure non è un supermercato ma ancora la leggendaria sede del Pci, per quattro anni è il segretario della sezione Ds di piazza Mazzini, avrebbe anche una certa passione per l’archeologia ma poi, un pomeriggio, in sezione si presenta Massimo D’Alema (che ancora abita lì, a due passi, mentre Orfini s’è trasferito con la compagna al Tufello, in periferia).
Di D’Alema diventa assistente, poi portavoce. Prima di litigarci furiosamente e sedersi da solo, subito stimato e autorevole, sullo scranno di Montecitorio, gli ruba la camminata («Anche se io le scarpe le compro da Decathlon») e una certa, forte cultura politica. Quella che gli fa credere di poter bonificare la palude del Pd romano come insegnavano alle Frattocchie, dove studiavano i quadri del Pci.
Con metodo e rigore, determinazione e passione.
Affida a un economista come Fabrizio Barca una severa indagine sui circoli. Parla una volta al giorno con Marino (l’ultima volta, ieri pomeriggio, dal vivo). E poi incontra magistrati, ascolta, intuisce. Va alla Festa dell’Unità e scalda la platea: «Renzi, su Marino, ha sbagliato. Invece di liquidare il problema Roma con una battuta, dovrebbe aiutarci». Rilascia interviste dure: «Nel partito abbiamo usato la ruspa».
Però non funziona.
Lo sa lui, lo sa Renzi.
Gliel’hanno detto: «Guarda, Orfini, che ormai abbiamo poco tempo. La città è candidata alle Olimpiadi, tra qualche mese inizierà il Giubileo straordinario e a questo punto non possiamo nemmeno più rischiare di andare al voto a giugno. Nei sondaggi siamo bassissimi, al Campidoglio può finirci un grillino qualsiasi».
Un guaio.
Senza nemmeno poter fare una telefonata a Massimo.
Repubblica 16.7.15
Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale di Sel
“Vendola sarebbe un candidato di straordinaria qualità”
intervista di Mauro Favale

ROMA . «Ho l’impressione che se qualcuno glielo chiedesse rischierebbe di essere maltrattato». Nicola Fratoianni sorride e incassa. Davanti all’ipotesi che Nichi Vendola possa essere la carta coperta di Sel nella trattativa sul Campidoglio dopo le dimissioni di Luigi Nieri, il coordinatore nazionale del partito prova a sgombrare il tavolo: «Nichi viene da una lunga, importante e faticosa esperienza amministrativa e ho qualche fondata idea che questa ricostruzione non sia molto realistica. Certo, la sua sarebbe sicuramente una figura di straordinaria qualità».
Intanto, però, Sel a Roma ha perso un ruolo chiave ed è fuori dalla giunta. A quali condizioni potreste rientrare? «La discussione sui posti non ci appassiona. Come non stanno in piedi ipotesi fantasiose secondo cui, perso un vicesindaco, si possano “acquistare” due assessorati. Se stiamo a questo non ci sediamo a nessun tavolo».
Qual è il punto, allora?
«La politica. Cosa si fa a Roma. Cosa il governo fa con la capitale. Se la mette in condizioni di operare intervenendo sul patto di stabilità e su un piano di rientro che strangola ogni possibilità operativa. Se e quando arrivano i fondi per il Giubileo. Se, insomma, questa amministrazione ha l’ossigeno politico per operare o se si procede con un commissariamento mascherato. Se lo si vuol fare, lo si faccia in modo formale».
Il vostro ora è un “appoggio esterno”: cosa succede adesso?
«La nostra presenza in giunta è venuta meno, è un dato di fatto. Luigi, per noi, ha rappresentato una figura fondamentale in quella squadra, oltre ad essere un ottimo amministratore vittima di un’indegna campagna che si è scatenata intorno a lui al di là di qualsiasi ipotesi di coinvolgimento giudiziario. Detto ciò, Marino a Roma rappresenta un’alternativa agli interessi criminali e l’occasione per determinare una discontinuità duratura».
Il Pd romano vi invita a non rompere l’alleanza.
«Nonostante le enormi difficoltà a livello nazionale, nessuno ha mai pensato di far cadere le amministrazioni locali. L’esperienza della capitale la consideriamo importante ma non è a tutti i costi. Bisogna valutare se ci sono gli spazi per concentrarsi non solo sulla doverosa battaglia di legalità ma anche per incrociare le emergenze sociali. Altrimenti c’è il rischio di venire percepiti come in un fortino assediato, separato dai problemi delle persone in carne ed ossa».
Credo che se qualcuno glielo chiedesse rischierebbe di essere maltrattato... La discussione sui posti non ci appassiona, ma sta di fatto che la nostra presenza in giunta è venuta meno.
Repubblica 16.7.15
Vendola vicesindaco ecco la trattativa Pd-Sel per il Campidoglio
Orfini:non sarò io il numero due di Marino
E Alfano rinvia la decisione sullo scioglimento
di Giovanna Vitale


ROMA . È Nichi Vendola l’arma segreta che Sel intende utilizzare per uscire dall’angolo in cui le dimissioni del vicesindaco Nieri l’hanno ricacciata, salvare l’alleanza che due anni fa ha riportato il centrosinistra in Campidoglio e pure al governo della Regione Lazio, costringere il Pd ad alzare il livello del rimpasto della giunta romana con personalità alla medesima altezza.
È la mossa del cavallo. Che potrebbe davvero risolvere la complicatissima partita a scacchi che in queste ore ha come posta in palio la sopravvivenza dell’amministrazione Marino. Una manovra che la seconda gamba della maggioranza capitolina ha già studiato, ma intende agire con calma. Prima si dovranno avviare una serie di verifiche all’interno del partito locale e nazionale: stasera il coordinatore Fratoianni dovrebbe vedere il chirurgo dem, l’indomani toccherà al gruppo consiliare, lunedì sarà poi l’intera segreteria a riunirsi sul “caso Roma”, intessendo contestualmente un dialogo con il Pd.
Nel frattempo, la strategia messa in campo è quella del diversivo. Del gioco a carte coperte. E perciò «da questo momento in poi Sel è in appoggio esterno alla giunta Marino », scrive su Facebook Massimiliano Smeriglio, responsabile economico e vicepresidente del Lazio. «Ora sta al sindaco spiegare alla città cosa vuol fare e con quale squadra ». Il messaggio è chiaro: la palla passa al primo cittadino, a lui spetta fare i nomi, indicare con quale esecutivo vuole andare avanti e su quale programma. Se il pacchetto complessivo convincerà l’ala sinistra della coalizione, allora - e soltanto allora - si potrà sfoderare l’asso di cuori: quel Nichi Vendola disposto, a condizioni precise, a entrarein giunta con una delega pesante come quella alla Cultura. In attesa di capire la percorribilità dell’opzione più hard: fare il vicesindaco.
A confermarlo è stato indirettamente lo stesso Matteo Orfini, il commissario del partito cittadino incaricato da Renzi di sbrogliare la matassa: «Io non farò il numero 2 in Campidoglio», ha replicato alle indiscrezioni di stampa, «e non è neanche detto che alla fine sia qualcuno del Pd». Il sigillo su una trattativa con Sel che di fatto è già cominciata. E della quale ieri il presidente dei Democratici ha a lungo parlato con lo stesso Marino, che prima di volare a Losanna per la riunione del Cio cita Che Guevara: «La più grande dote di un rivoluzionario è studiare ».
Un’oretta di colloquio al Nazareno per tirare le somme, valutare quanto pesino i vendoliani - numeri alla mano - per la tenuta della maggioranza, sondare la disponibilità del sindaco ad accettare una presenza tanto ingombrante. E anche per avere un riscontro sull’incontro mattutino di Marino con il prefetto Gabrielli. Utile per concordare tempi e modi del rimpasto prossimo venturo.
La dead line per il salto di qualità invocato ormai un mese fa dal premier è stata infatti spostata a dopo la relazione del ministro Alfano sullo scioglimento del Campidoglio. Prima, doveva iniziare all’indomani del parere di Gabrielli, consegnato l’8 luglio, ma Marino e il Pd si sono fatti trovare impreparati. Ora tutto dovrebbe consumarsi entro fine mese, sempre che Alfano - che ha 90 giorni per condividere il suo verdetto in consiglio dei ministri - sciolga la riserva.
L’inquilino del Viminale non sembra avere fretta. Le dissonanze fra la relazione della Commissione prefettizia e le opposte conclusioni cui è addivenuto l’ex capo della Protezione civile consigliano prudenza. Tant’è che Alfano ha messo al lavoro sui due documenti un pool di prefetti. Per capire se il no allo scioglimento enunciato da Gabrielli sia fondato. Oppure se, come in un gigantesco gioco dell’oca, si debba tornare al punto di partenza. Nel qual caso, il rimpasto di giunta sarebbe inutile. E la crisi irreversibile. Fermo restando la data già cerchiata in rosso sul calendario: il 28 luglio, quando Renzi dovrebbe parlare alla Festa dell’Unità di Roma. E pronunciare la parola decisiva.
Corriere 16.7.15
In Campidoglio anche Sel prende le distanze
Il partito passa all’appoggio esterno, ma tra i nomi per il vicesindaco si fa pure quello di Vendola
di Alessandro Capponi


ROMA La «fase due», quella del rilancio e della «supergiunta», rallenta prima ancora di cominciare. Dopo l’addio del vicesindaco Luigi Nieri, adesso è Sel a sfilarsi dalla maggioranza e a scegliere «l’appoggio esterno». Così, adesso, «in questa situazione è difficile reggere», dicono i parlamentari renziani. Dopo aver perso o liquidato sette assessori in due anni, ora Marino deve risolvere anche la «grana» di una maggioranza che, oggi, in questo clima di strategie da rimpasto, appare spaccata. Ma non è l’unico problema.
Ignazio Marino, che al mattino cita Ernesto Guevara e al pomeriggio vola a Losanna per presentare la candidatura di Roma 2024, a metà giornata incontra il commissario del Pd romano, Matteo Orfini. Riunione non semplice: perché Orfini vorrebbe un rimpasto corposo — c’è chi dice che voglia cambiare metà della squadra, almeno quattro o cinque assessori — e così Marino, che nelle scorse settimane aveva provato a proporre soluzioni più «chirurgiche», attende proposte. Solo che il punto è: chi accetta di imbarcarsi in un’avventura che, in attesa della decisione di Alfano sullo scioglimento, appare comunque complicata? C’è una cosa che dice Matteo Orfini: «Non è neanche detto che il prossimo vicesindaco sia del Pd».
Così non si può escludere nulla: neanche che in questa trattativa che dovrebbe condurre alla «fase due» il posto che fu di Luigi Nieri venga confermato a Sel — così da ritrovare la sintonia di coalizione — con l’ingresso in squadra di personalità di livello nazionale. Tra i papabili, secondo i rumors del Campidoglio, lo stesso Nichi Vendola.
Difficile fare previsioni, naturalmente: visto che la stessa vicesegretario del Pd, Debora Serracchiani, spiega che dopo la relazione del prefetto Gabrielli, che dà parere negativo allo scioglimento del Comune, e le parole del procuratore Pignatone che individuano «una discontinuità e anche la possibilità di continuare l’azione di governo attendiamo fiduciosi la relazione del ministro Alfano. Da quel momento in poi sarà possibile ragionare sulla maggioranza politica e anche sugli assetti». Di certo, la soluzione per Roma non è semplice: una volta risolta la partita del vicesindaco (tra gli altri candidati sembra esserci Alfonso Sabella, il magistrato antimafia adesso assessore alla Legalità della Capitale) rimangono sul tavolo sia le altre caselle da sistemare sia, appunto, la partita con Sel. Per il vicepresidente della Regione, Massimiliano Smeriglio, «la verità è che Sel, a Roma, da ora è in appoggio esterno alla giunta Marino. Adesso sta al sindaco spiegare alla città cosa vuole fare e con quale squadra». E la replica del Pd non si fa attendere: «È un errore». Non sarebbe il primo, a Roma, e c’è chi dice che rischierebbe di essere l’ultimo.
La Stampa 16.7.15
Il manuale con tutte le repliche “anti-gufi”
Numeri, certezze, smentite
Il vademecum sulla scuola per i deputati del Pd
di I. Lom.


Se qualcuno domanda: «Quali sono i poteri del dirigente scolastico? Ha ragione chi dice che diventerà il padrone incontrastato della propria scuola?». Dovete rispondere «Assolutamente no. Le decisioni rimarranno collegiali ed il dirigente sarà valutato ogni tre anni sulla base di criteri stringenti da un nucleo di ispettori ministeriali. A questa valutazione sarà connessa la sua retribuzione di risultato». È proprio vero che la Buona Scuola ha ferito l’orgoglio mediatico di Matteo Renzi. C’è una mail che circola in queste ore tra deputati e senatori del Pd. Con un allegato, e un titolo con il solito hashtag: «#buonascuola Domande e Risposte». Sono 25 in tutto, confezionate dai delegati alla comunicazione e alla documentazione del Gruppo Pd, con una funzione: «Cercare di agevolare il vostro lavoro di contatto con le persone sul territorio e le vostre frequentazioni». Leggi: elettori e show televisivi. I parlamentari hanno così il loro bignami per affrontare cittadini arrabbiati e soprattutto rispondere ai tanti gufi che svolazzano nei talk tv.
Tra le domande considerate più frequenti, in cima c’è ovviamente quella sul nuovo preside, considerato da insegnanti e sindacati una sorta di padre-padrone. Favorirà il clientelismo? Il Pd consiglia di rispondere così: «Neanche per sogno. Al dirigente scolastico è affidato il compito di conferire incarichi ai docenti solo sulla base dell’offerta formativa». Se invece si passa alle scuole private e all’accusa di averle agevolate, il buon deputato del Pd che affronterà la mamma o l’insegnante della scuola pubblica un po’ incacchiata su questo, dovrà essere molto convincente. Basterà dire: «La Buona Scuola non stanzia soldi per le scuole private, e rilancia invece gli investimenti su quelle pubbliche». E ancora: «Abbiamo aumentato i controlli contro i diplomifici attraverso un piano straordinario di verifica dei requisisti delle scuole paritarie».
Di certo l’interlocutore non farà mancare un riferimento malizioso ai precari. Ma il quizzario del Pd anche su questo capitolo offre una soluzione. La domanda, insidiosa, potrebbe essere: «Perché non sono stati assunti tutti i precari? Possibile che l’unico criterio sia lo svuotamento delle Gae e non l’eliminazione del precariato?». Il deputato del Pd avrà pronti sorriso e risposta: «Le oltre 100 mila assunzioni previste dalla riforma vanno ben oltre il turn-over e profilano oltre 50 mila immissioni aggiuntive».
Numeri, numeri, numeri. Precisi nel contestualizzare, chirurgici nei richiami al testo della riforma e nessuna sbavatura troppo polemica. Così Renzi vuole i suoi uomini, già ampiamente indottrinati in un corso di comunicazione offerto ai gruppi parlamentari. Le ammaccature del Pd e del governo per le proteste sulla scuola si sono fatte sentire, in piazza e nella curva dei consensi, e il premier-segretario sa che i tantissimi insegnanti che sono anche elettori del Pd non dimenticano facilmente. E così dopo essere salito in cattedra in un video, con lavagna e gessetto, dopo il bombardamento di slide su Twitter, arriva anche il questionario precompilato. Gli esami di televisione dei deputati Pd non finiscono mai.
Corriere 16.7.15
Ora proviamo a dare un ruolo (e un’anima) al nuovo Senato
di Michele Ainis


La madre di tutte le riforme (quella costituzionale) è incinta da trent’anni. Nel frattempo il nascituro si è ritrovato orfano dei suoi molti papà, da Craxi a De Mita, da Berlusconi a Letta. Gli rimane l’ultimo, il più determinato. Matteo Renzi, quando promette, fa: divorzio breve, Italicum, Province, banche popolari, Jobs act, scuola. Anche a costo d’usare le maniere spicce (maxiemendamento e voto di fiducia). Ma in questo caso no, non è possibile. Se vuoi cambiare la Costituzione, per vincere devi convincere. Da qui il rinvio a settembre del voto finale, benché il premier l’avesse annunziato entro il 10 giugno.
Poco male, tanto ormai siamo pazienti come Giobbe. Purché in sala parto non sbuchi fuori un rospo, anziché un bel principino.
Quanto al nuovo Senato, più che un rischio è una certezza. Nessuno ha ancora capito che diavolo dovrebbe fare, e come, e perché. Sappiamo soltanto che sarà composto da 5 senatori a vita, 22 sindaci, 73 consiglieri regionali. Tutti a costo zero, e con funzioni zero. Sarebbe il caso di rifletterci, spendendo al meglio questo tempo supplementare che si è concessa la politica. Invece lorsignori s’avvitano in estenuanti discussioni sull’elettività dei senatori. Errore: partiamo dalle competenze, non dalle appartenenze. Cerchiamo di recuperare qualche contrappeso, avendo rinunziato al superpeso del bicameralismo paritario. E trasformiamo Palazzo Madama — istituzione in croce — nel crocevia delle nostre istituzioni.
Qualcosa nel testo di riforma c’è, però i silenzi contano più delle parole. C’è una funzione di raccordo del Senato con i territori: da un lato le Regioni, dall’altro l’Europa. Basterà a restituire un’anima alla nuova creatura? Diciamo che basta per la geografia, non per la storia. E la nostra storia è innervata dal ruolo degli enti locali, più di recente dal rapporto con l’Unione Europea. Ma è innervata — anche e soprattutto — dai contributi dell’associazionismo, delle categorie produttive, delle rappresentanze d’interessi. Non a caso l’articolo 2 della Costituzione individua nelle «formazioni sociali» la sede in cui ciascuno può arricchire la propria personalità. E non a caso i costituenti disegnarono il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, aprendolo al mondo della produzione e delle imprese. Con la riforma il Cnel tira le cuoia, pace all’anima sua. Alla prova dei fatti, non lo rimpiangeremo. Ma non possiamo lasciare i gruppi organizzati orfani di qualsivoglia rapporto con lo Stato. Serve un canale istituzionale: quale, se non proprio il Senato?
E c’è poi il capitolo delle garanzie. Domani come ieri, il Senato contribuirà ad eleggere il presidente della Repubblica, i giudici costituzionali, i membri del Consiglio superiore della magistratura. Però adesso i senatori sono la metà dei deputati; in futuro diventeranno un sesto (100 contro 630). Ergo, i garanti indosseranno un abito politico, in quanto espressi dalla Camera politica, a sua volta espressa con un premio in seggi per il maggior partito. E no, non va bene. C’è bisogno di rafforzare gli organi di garanzia, non d’indebolirli. Tanto più mentre perdiamo la garanzia fin qui rappresentata dal Senato: quante leggi ad personam avrebbe incassato Berlusconi, senza il pollice verso di Palazzo Madama?
Da ciò l’esigenza di correggere il testo di riforma, d’aggiungervi qualche riga d’inchiostro. Per esempio introducendo uno scrutinio rigoroso della seconda Camera nella scelta delle authority , i nuovi garanti. O sviluppando i poteri d’inchiesta del Senato, che viceversa la riforma circoscrive al funzionamento delle autonomie territoriali. Non si tratta di tenere impegnati i senatori, che altrimenti avrebbero ben poco da fare. Si tratta di salvaguardare gli equilibri della democrazia. Dopo di che, certo: ogni funzione richiede un funzionario. E l’elezione di secondo grado non funziona, non assicura la qualità dei senatori.
Ma non è detto che l’alternativa sia soltanto la loro elezione popolare. Potrebbe essere efficace un mix, pescandone un drappello da alcune categorie qualificate, come gli ex presidenti della Consulta. Quando il Senato tratta questioni regionali, potrebbe essere utile integrarlo con i governatori, come propone il documento sottoscritto dalla minoranza del Pd. Insomma pensiamoci, d’altronde alle nostre latitudini la fantasia non manca. È il tempo che ci manca, ne abbiamo sprecato troppo.
Repubblica 16.7.15
Danny Yatom, ex capo del Mossad
“Israele ricominci a dialogare con gli Stati Uniti”
di Fabio Scuto


GERUSALEMME . «Controlli e ispezioni». Sono queste le due parole chiave che il mondo dell’intelligence israeliano non vede rigorose nell’accordo sul nucleare firmato a Vienna. Il linguaggio dei militari è diverso da quello dei politici, ma la sostanza non cambia, cauto e guardingo quello del “mondo delle ombre” che ha operato per anni per ritardare al massimo l’arrivo dell’Iran fra le potenze nucleari. «Solo il tempo ci potrà dire se questo accordo servirà allo scopo — dice a Repubblica il generale Danny Yatom, ex capo del Mossad, lo spionaggio esterno israeliano — dal modo con cui sono abituati a operare gli iraniani, temo che questo sia un pessimo accordo».
Generale Yatom, da che parte vogliamo cominciare?
«Dai controlli, che dovranno essere molto severi. Ma gli iraniani hanno tutto il tempo di “ripulire” i siti nucleari da ogni traccia di attività non conforme agli accordi. Quindi bisognerà vedere come funzioneranno le ispezioni e se gli iraniani diranno la verità su cosa hanno fatto negli ultimi 30 anni. Ha ragione Obama quando dice che questo è un accordo basato non sulla fiducia, ma sulle verifiche».
Usa ed Europa vi invitano a leggere con attenzione le 150 pagine dell’accordo. ..
«Sarà, ma il 5+1 ha rinunciato con troppa facilità a impedire che l’Iran possa riattivare rapidamente il nucleare verso scopi militari. Secondo l’intesa l’Iran potrà continuare la ricerca e lo sviluppo, se mantiene tali capacità può arricchire rapidamente l’uranio ben oltre il 4% e arrivare a una concentrazione del 90%».
Fra quanto? Tre, sei mesi, un anno?
«Fra i tre e i nove mesi, non ha molta importanza quando esattamente. La cosa più assurda è che tra 5 anni sarà tolto l’embargo alla vendita di armi convenzionali, l’Iran potrà acquistare tank, missili, aerei e navi da guerra mentre rimane uno dei focolari del terrorismo nel mondo».
Esiste ancora, o è mai esistita, un’opzione militare?
«Ciò che Israele deve fare ora è riavvicinarsi agli Stati Uniti e non litigare con la Casa Bianca. L’opzione militare c’è, ma sulla base di questo accordo non è più rilevante a meno che non siano talmente esorbitanti le violazioni da provocare un attacco; esistendo ormai un accordo fra Iran e superpotenze non sarebbe facile per Israele attaccare. Dobbiamo invece tornare a dialogare con gli Usa e l’Europa anche per tutto quel che riguarda l’intelligence, assicurarsi che l’Iran non vìoli i trattatati e rimanga sotto controllo. Israele può senz’altro contribuire con le sue conoscenze ».
La reticenza delle grandi potenze a confrontarsi con la minaccia dello Stato Islamico potrebbe aver spinto verso un accordo frettoloso, sperando che l’Iran faccia “il lavoro sporco”?
«Gli iraniani che sono coinvolti fino al collo nei combattimenti in Siria, Iraq e Yemen, non credo che vogliano accollarsi la guerra all’Is. La soluzione è che Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Stati del Golfo costituiscano una forza comune che combatta e distrugga il Califfato. Hanno eserciti forti e buoni soldati per fermare 45 mila terroristi armati solo di mitra e jeep».
La Stampa 16.7.15
Perché Israele ora si sente abbandonato
di Maurizio Molinari


Per immergersi nella reazione di Israele all’intesa di Vienna sul nucleare iraniano bisogna mettersi in fila da Rachmo, la mensa degli operai di «Machanè Yehuda», il mercato popolare di Gerusalemme.
In fila davanti alla cucina ci sono manovali, verdurai e appassionati di hummus assieme ad un’anziana molto determinata che tiene banco sull’Iran. Si chiama Chanka, è nata in Transilvania 79 anni fa, vive a Gerusalemme da prima della nascita dello Stato, e scherza con il cuoco parlando arabo con accento ashkenazita. «Cosa è tutto questo chiasso per Vienna? Siamo sempre stati soli e lo saremo anche ora» dice Chanka, trovando l’assenso di chi è in fila con lei. «Mai illudersi di essere protetti dal mondo» aggiunge un venditore di frutta. E’ l’umore che «Yedioth Aharonot», il giornale più diffuso, trasforma nel titolo a tutta pagina «Il mondo si arrende all’Iran» per descrivere una resa delle maggiori potenze al regime più ostile al popolo ebraico con modalità, contenuti e linguaggio tali da evocare Monaco 1938, quando Francia e Gran Bretagna sacrificarono la Cecoslovacchia a Hitler e Mussolini nella vana speranza di «salvare la pace» ma in realtà precipitando l’Europa in guerra. Pur sapendo di «dover far tutto da soli», come ripete Chanka, sin dalla nascita dello Stato, questa volta l’amarezza di Israele si distingue per la sensazione di essere stata abbandonata anche dal presidente del Paese più vicino, gli Stati Uniti. Meydan Ben Barak, già regista della «war room» del consiglio di sicurezza nazionale del governo Netanyahu, spiega così la differenza fra l’America e Obama: «Come nazione resta la nostra migliore alleata, siamo legati da molte e importanti intese, ma a Vienna l’amministrazione ha avallato un accordo molto negativo per noi, che peggiora la nostra situazione in Medio Oriente». Il motivo è nel giubilo di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, per l’accordo sul nucleare. «Nasrallah gioisce perché in quanto alleato dell’Iran - spiega Ben Barak - riceverà più armi e fondi da Teheran grazie alla fine delle sanzioni. Hezbollah sarà più forte come lo saranno le milizie sciite in Siria, Iraq, Yemen e altrove». Si tratta dello schieramento militare che più minaccia Israele. Le analisi sul tavolo di Netanyahu disegnano lo scenario di attacchi contemporanei, missilistici e non, da Sud Libano, Gaza e Golan da parte di «alleati dell’Iran». Il pericolo non è solo l’atomica di Teheran «che l’accordo rende possibile», come dice Yuval Steinitz consigliere del premier, ma l’accresciuta minaccia di attacchi convenzionali e terroristici grazie alle nuove, ingenti risorse, a cui Teheran avrà accesso con la fine delle sanzioni. Per gli israeliani significa sentirsi assediati, e in pericolo, come non avveniva dal 1967, quando gli Stati arabi guidati dall’Egitto di Nasser minacciavano la loro «distruzione totale». Ecco perché torna, nei mercati come fra gli analisti, la discussione sull’opzione militare ovvero un attacco preventivo contro il nemico più minaccioso in grado di allontanare il pericolo, proprio come avvenne con la guerra dei Sei Giorni. Avi, 35 anni, autista di bus con tre figli, dice: «Se abbiamo Tzahal è per affrontare queste situazioni». E Ben Barak aggiunge: «Abbiamo molte capacità difensive, l’intelligence su cui possiamo contare è formidabile e sarà presto più efficace». Israele sa di potersi difendere da Teheran ma non cela la delusione per essere stata lasciata sola. Anche se vi sono voci, come Uzi Eilam, ex capo della commissione nucleare nazionale, che danno un’altra lettura: «L’accordo allontana di 10 anni l’atomica iraniana e in questa regione è un periodo molto lungo, può giovare alla nostra sicurezza».
Repubblica 15.7.15
L’Iran e il fronte saudita
di Renzo Guolo


L’ACCORDO di Vienna sul nucleare iraniano manda in fibrillazione il sistema di alleanze degli Stati Uniti. Non solo Israele ma anche l’Arabia Saudita considera l’intesa un “errore storico”. A Ryad il finale di partita era atteso: la mancata presenza di re Salman in maggio al summit di Camp David nel quale Obama puntava a rassicurare gli alleati del Golfo era un segnale evidente. Non per questo il colpo è stato meno duro. La scelta di Obama, infatti, ridisegna il Medioriente. È evidente che per la Casa Bianca il pericolo non è più la Repubblica Islamica ma il radicalismo sunnita che, attraverso lo Stato Islamico, mette in discussione gli assetti geopolitici della regione e funziona da magnete per il terrorismo. In questa logica l’Iran, acerrimo rivale dei sauditi, può svolgere, per motivi politici e religiosi, un importante ruolo di contenimento dello jihadismo sunnita. Sono queste valutazioni che hanno condotto l’amministrazione Obama a chiudere l’accordo rimettendo nel great game mediorientale Teheran. Per l’Arabia Saudita lo sdoganamento iraniano rappresenta una formidabile battuta d’arresto nella lunga marcia per diventare potenza regionale egemone. Ruolo conteso proprio dagli iraniani. Certo, a Vienna si è discusso di nucleare ma nessuno è cosi cieco da non comprendere che con quell’accordo l’Iran viene legittimato come potenza d’influenza. D’ ora in poi i dossier di Riad si complicano. A partire dal teatro mesopotamico, dove i sauditi sostengono forze ostili a Teheran e svolgono il ruolo di protettori confessionali dei sunniti. Sarà ora ancora più difficile esigere che l’Iran sia esclusa dalla gestione dei conflitti in Siria e Iraq. Se sin qui gli iraniani, che insieme ai loro alleati Hezbollah hanno messo gli stivali sul terreno per frenare l’avanzata dell’Is, facevano parte solo di fatto dell’alleanza che si oppone al Califfato, da oggi lo scambio politico implicito all’accordo sul nucleare li catapulta al centro della scena. Con grande rabbia di Riad, che ora potrebbe dosare il suo impegno su quel fronte per evitare che Teheran appaia come la forza decisiva nello sconfiggere le forze di Al Baghdadi. Ma i riverberi arrivano sino allo Yemen dove, con la protezione iraniana, gli sciiti puntano a un diverso assetto di potere.
Ai danni politici prodotti dallo sdoganamento iraniano, si aggiungono quelli legati a fattori religiosi. Seguaci di un wahabbismo purista e intransigente ostile agli sciiti ritenuti “eretici”, i sauditi non gradiscono affatto il rafforzamento del prestigio degli odiati duodecimani. Non da ultimi gli effetti sul petrolio. L’ingresso degli iraniani nel grande gioco del mercato petrolifero prelude a un ribasso del prezzo del barile mettendo in discussione le strategie di mercato dei Paesi del Golfo. Mentre la rimozione delle sanzioni sugli idrocarburi consentirà a Teheran non solo di incassare valuta per rammodernare le tecnologie estrattive ma anche di destinare parte delle royalties a finanziare lo sviluppo degli armamenti convenzionali. Insomma, un problema su tutti i fronti per Riad.
Non è escluso, dunque, che i sauditi cerchino di mettere in difficoltà gli odiati rivali, ogni qual volta ve ne sarà occasione. Puntando a mostrarne l’inaffidabilità sistemica. Anche esasperando tensioni che inducano Teheran a reagire con modalità che possono far riemergere i fantasmi del passato. Vienna chiude, dunque, un conflitto tra antichi nemici ma apre un fronte, non meno problematico, tra Washington e i suoi alleati strategici in Medioriente.
Corriere 16.7.15
L’ora decisiva per i riformisti
Hanno vinto Rouhani e Zarif La battaglia con i conservatori ora si sposta al fronte interno E a febbraio ci sono le elezioni


Nelle edicole della Repubblica Islamica, ieri, l’unico giornale critico dell’accordo nucleare era l’ultraconservatore Kayhan. Ma in un video della festa, i giovani lo deridevano mettendolo sullo stesso piano di Netanyahu: «Condoglianze Israele, condoglianze Kayhan».
Oggi gli eroi della piazza sono il presidente Rouhani e il ministro degli Esteri Zarif — e lo sono con il pieno appoggio della Guida Suprema Ali Khamenei. Ma anche altri due nomi erano sulla bocca dei giovani ieri: Mir Hossein Mousavi, leader del Movimento Verde del 2009, e l’ex presidente riformista Khatami — benché il primo sia agli arresti domiciliari e il secondo non possa essere nominato dai giornali. Così all’indomani dell’apertura al mondo, molti iraniani si chiedono cosa cambierà negli equilibri di potere e nelle libertà personali all’interno del Paese.
Un test importante saranno le elezioni di febbraio. Si sceglierà il nuovo parlamento e si prospetta già un’alleanza tra moderati e riformisti per porre fine alla maggioranza ultraconservatrice. «Ora Rouhani e Zarif sono più popolari che mai. Alcuni politici vicini a loro si preparano a lanciare una lista per le elezioni», spiega Farahmand Alipour, esule riformista già membro della campagna elettorale di Karroubi, l’altro leader del Movimento Verde. «Il governo di Rouhani non è riformista come Khatami o come i leader del 2009, ma sono tecnocrati che conoscono il mondo e l’economia, per cui noi riformisti li appoggiamo. In più noi chiediamo maggiori libertà sociali e culturali».
Ci sono anche due nuovi partiti riformisti sulla scena: uno è Ettehad Mellat (Unità nazionale iraniana) e include diversi membri del riformista Mosharekat (Partecipazione) bandito dopo il 2009. L’altro è Nedaye Iranian (Voce degli iraniani) di Sadegh Kharazi, ex ambasciatore a Parigi vicino alla Guida Suprema (suo zio è stato ministro degli Esteri, sua sorella è sposata con uno dei figli di Khamenei). «Ahmadinejad è finito, è un pezzo di storia ormai, ma la sua scuola di pensiero vive ancora, e dobbiamo annientarli», ci ha detto ricevendoci nel suo ufficio a Teheran. «Sì, è vero, ci sono ancora molte persone in prigione», ha ammesso. «Ma confidiamo in questo governo. La Guida Suprema è una persona aperta, ma siamo un Paese metà tra tradizione e modernità, i cambiamenti bruschi portano al collasso».
C’è chi ha detto al Financial Times che «per evitare l’ascesa di movimenti riformisti con una forte base sociale, il regime ha capito che è meglio autorizzare partiti domabili, in modo da incanalare così la richiesta di cambiamento. È come un vaccino per rendere il regime immune da una ribellione riformista considerata pericolosa come l’Ebola». Le elezioni di febbraio saranno importanti anche perché si eleggerà l’Assemblea degli Esperti, l’organo che nominerà la prossima Guida Suprema dopo la morte del 76enne Khamenei. I candidati, come pure quelli per il parlamento, devono essere approvati dal Consiglio dei Guardiani (per metà direttamente nominato dalla stessa Guida).
Di certo l’apertura al mondo ha riacceso la speranza. «Da ieri tantissime cose sono cambiate — dice Alipour — e non solo nelle relazioni tra l’Iran e l’estero. Nel discorso di ieri di Rouhani c’era un messaggio chiaro. Ha parlato chiaramente contro i conservatori: ha detto che possono criticare l’accordo ma non permetterà che tolgano la speranza alla gente. Per due anni i riformisti hanno lamentato che si è occupato solo del nucleare e si è dimenticato delle altre promesse. Ieri ha fatto capire che adesso si comincia sul fronte interno. D’altra parte, se siamo stati in grado di parlare con gli Stati Uniti, che sono stati i nostri nemici per 35 anni, perché non possiamo farlo tra di noi?». Rouhani si troverà al centro tra i progressisti che chiedono maggiori diritti e gli ultraconservatori che considerano anche le donne negli stadi una minaccia alla sopravvivenza del regime. Non sarà facile.
Repubblica 16.7.15
Per gli iraniani è come il crollo del Muro di Berlino
Il futuro. In queste ore i giovani sperano di viaggiare, partecipare e tornare a essere cittadini del mondo
di Azadeh Moaveni


SE DOVESSI scegliere una parola per provare a raccontare quello che pensano le persone normali in Iran, senza dubbio sceglierei speranza. In queste ore ci sono così tante persone che sperano nel mio Paese di origine: sperano di poter comprare cibo migliore per la loro famiglia perché i prezzi dei beni alimentari scenderanno con la fine delle sanzioni, sperano di poter lavorare appieno avendo accesso a tutte le tecnologie disponibili, sperano di viaggiare, partecipare e tornare ad essere cittadini del mondo.
Penso ai giovani soprattutto: a tutti quelli che sognano di studiare all’estero, ma non hanno mai potuto farlo, che volevano prendere un diploma universitario online ma non hanno mai potuto iscriversi ai corsi, a quelli che meritano di avere le stesse possibilità che hanno i loro coetanei che studiano nel resto del mondo. E penso a chi sogna di andare in vacanza in Turchia o a Dubai. In Iran c’è la classe media più istruita della regione, che ha sempre amato viaggiare, una classe media moderata e desiderosa di confrontarsi con il resto del mondo, ma che per anni ha perso la possibilità di essere cosmopolita e si è ridotta a chiudersi su se stessa: come è successo alla classe media irachena negli anni di Saddam Hussein. Fino a oggi potevano viaggiare solo i molto ricchi: oggi 18 milioni di persone sperano di potersi aprire di nuovo al mondo, di leggere i giornali che tutti leggono, accedere agli stessi siti Internet, scaricare libri da Amazon e partecipare alla conversazione globale.
Per questo fra gli iraniani più liberali c’è chi parla di questo accordo come dell’equivalente della caduta del Muro.
Poi c’è l’economia: l’Iran è un paese ricco di risorse naturali e pieno di potenzialità. Se venissero sfruttate, come non è stato possibile finora, sono pronta a scommettere che in 10 anni questa si trasformerà in una delle 10 economie più ricche del mondo, superando la Turchia, come era una volta. Penso alla speranza degli imprenditori, che non dovranno più rivolgersi al mercato nero per avere i pezzi di ricambio necessari per i loro macchinari e potranno finalmente pagarli il giusto e non tre volte il prezzo reale come è accaduto finora.
Per questo oggi mi sento ottimista.
Tante persone dicono che non ci si può fidare dell’Iran, ma credo che questo accordo sia ricco di clausole di controllo e che il controllo ci sarà. Penso anche che quando l’ayatollah Khamenei mette tutto il suo peso dietro a un’intesa, quell’intesa sarà rispettata.
Qual era del resto l’alternativa? Attacchi militari su Isfahan e sulle altre centrali, nuova tensione, possibili reazioni. Sedersi a un tavolo e cercare una soluzione negoziale come questi sei Paesi hanno fatto con l’Iran era la cosa più giusta. A chi dice che l’Iran non rispetterà i patti, rispondo che per anni ha detto “no” a ogni accordo: se ora è arrivato un “sì” significa che c’è la volontà di mettere da parte o almeno interrompere la tensione. Ci saranno, certo, quelli che sono contrari: sono una minoranza di persone, molte delle quali corrotte, che dalle sanzioni hanno guadagnato molto, creando un’economia sotterranea.
Tutti gli altri staranno ad ascoltare Khamenei.
Del resto, anche in America la strada dell’accordo non è semplice: ma da cittadina americana penso che chi si oppone a questo accordo si oppone principalmente alle politiche di Obama, qualunque esse siano. A queste persone chiedo che alternativa ci sarebbe oggi per far scendere la tensione in Medio Oriente e arginare il dilagare dell’Is. Riguardo al pubblico americano, posso sperare che la retorica del confronto con Teheran venga presto archiviata e che una nuova, giovane, classe di diplomatici aiuti a far capire al mondo che il tempo dello scontro aperto è finito.
Quanto a me, spero di poter tornare a Teheran: manco dal 2009 e da lontano ho visto nascere nuove mode, nuovi esperimenti tecnologici, nuovi movimenti sociali, come quello degli ambientalisti. Mi piacerebbe andare a guardare tutto questo con i miei occhi e davvero capire se il Muro è crollato anche per l’Iran.
(testo raccolto da Francesca Caferri)
L’AUTRICE Azadeh Moaveni è una giornalista e scrittrice irano-americana Fra i suoi libri pubblicati in Italia “Lipstick Jihad” e “Viaggio di nozze a Teheran” (ed. Newton Compton)
La Stampa 16.7.15
“Ha avuto ragione Barack. Ora il mondo è più sicuro”
Albright: “Sono importanti le verifiche, sarà un test per l’Onu. Per il successo è stata fondamentale la coppia Rohani-Zarif”
intervista di Francesco Semprini


«L’accordo di Vienna è un test importante per le Nazioni Unite, per dimostrare che il loro sistema funziona, che sono in grado di vigilare sul rispetto degli impegni presi, e che i P5 sono pronti a nuove convergenze su altri dossier, in particolare quelli relativi alla sicurezza globale». Nel giorno in cui il mondo assiste alla sigla dell’accordo sul nucleare iraniano, Madeleine K. Albright, prima donna a capo del Dipartimento di Stato Usa, è all’Onu per la presentazione del nuovo rapporto della Commissione su «Sicurezza globale, Giustizia e Governance». Per lei è sempre un gradito ritorno, un’opportunità per ripercorrere significativi momenti della carriera diplomatica. I contrasti con Boutros Boutros-Ghali sul genocidio in Rwanda e le opportunità mancate dall’Onu su quello di Srebrenica, quando era ambasciatrice al Palazzo di Vetro. Prima di giungere alla guida del dipartimento di Stato, voluta con forza da Bill Clinton, per gestire dossier delicati come la guerra in Bosnia-Erzegovina e il processo di pace in Medio Oriente.
Madam Albright, lei oggi è qui a parlare di «Sicurezza globale» in un contesto in cui l’accordo di Vienna sembra destinato a mutare le dinamiche...
«Quello raggiunto a Vienna è un grande accordo. Mi sono congratulata personalmente con l’amministrazione di Barack Obama e con gli altri membri del gruppo 5+1. Si tratta di un traguardo molto atteso e, mi auguro, l’inizio di un nuovo momento storico».
Quali sono le opportunità di questo nuovo momento storico?
«Come ha ricordato durante questi lavori la mia ex collega, Ellen Laipson, le Nazioni Unite hanno in primo luogo una grande opportunità per dimostrare che il loro sistema funziona».
Cosa intende precisamente?
«L’Aeia, di concerto con il Consiglio di Sicurezza, sono stati gli attori principali del lungo negoziato. E lo saranno nella fase successiva all’accordo affinché vigilino in maniera chiara sul rispetto degli impegni che l’Iran ha preso».
Come ex ambasciatrice all’Onu è consapevole che ci sono molte complicazioni nei rapporti tra i P-5 del Cds, pensa che questo accordo aiuterà ad avvicinare le posizioni dell’Occidente con quelle di Russia e Cina, su altri dossier?
«Io guardo i fatti, è fuori discussione che i Paesi del 5+1 hanno fatto un lavoro incredibile in questo negoziato. E il voto sulla risoluzione addizionale previsto per la prossima settimana lo certificherà. Penso quindi che questo debba essere d’esempio di come le cose possono funzionare quando si ha un obiettivo comune. Anche in questo senso l’accordo è un test per l’Onu».
È stato importante il cambio di leadership a Teheran?
«Penso che ci sia stata una combinazione di fattori che ha giocato a favore dell’accordo, superando l’impasse che durava da anni. Tra questi il binomio che si è affermato alla guida della Repubblica islamica, il presidente Hassan Rohani e il ministro degli Esteri, Javad Zarif, hanno avuto un ruolo determinante. Così come lo ha avuto il team di negoziatori che ha lavorato in queste ultime fasi. È tutto parte di un sistema che ha funzionato».
Israele, e gran parte dei repubblicani, dicono però che il mondo ora è in pericolo...
«Il presidente Obama ha detto che la condizione affinché questa intesa funzioni è che tutto quello che è contenuto nelle 159 pagine dell’accordo sia verificabile, riscontrato e accertato. Vedremo ora se lo sarà».
Quindi lei non crede che il mondo è meno sicuro?
«Non credo che il mondo sia esposto a maggiori rischi. Ripeto la condizione, leggendo ciò che ha sottolineato il presidente Obama, è che tutto deve essere costantemente verificato, ci deve essere trasparenza da parte dell’Iran. Detto questo penso che se effettivamente questo accordo fermerà il progetto di Teheran di dotarsi della bomba atomica, si tratta di un importante passo in avanti in termini di sicurezza».
Possiamo dire quindi che Obama incassa un importante risultato?
«È un grande risultato per il mondo e in particolare per la regione, aspetto cruciale direi in questo momento».
La Stampa 16.7.15
Obama agli americani: “L’alternativa all’accordo era la guerra con l’Iran”
Il presidente Usa attacca i repubblicani: se la vogliono, lo dicano
Ma il Congresso può bocciarlo, 13 senatori democratici in bilico
di Paolo Mastrolilli


«L’alternativa era la guerra. Chi la vuole, abbia il coraggio di dirlo». Non poteva essere più esplicito, il presidente Obama, nel difendere l’accordo nucleare con l’Iran. Ora però la battaglia si trasferisce al Congresso, dove la Casa Bianca ha bisogno del voto positivo di almeno 34 senatori per far sopravvivere l’intesa. Al momento, secondo i calcoli fatti dal «Washington Post», i suoi avversari contano su 54 no, e quindi devono convincere 13 rappresentanti democratici nella Camera alta a prendere posizione contro il loro presidente.
L’offensiva mediatica
Obama aveva cominciato l’offensiva per difendere l’accordo già martedì sera, con un’intervista a Tom Friedman del «New York Times», in cui aveva chiesto di valutare l’intesa sulla base della sua capacità di impedire all’Iran di ottenere la bomba atomica, non su quella di cambiare la Repubblica islamica. Ieri pomeriggio ha allargato l’operazione con una conferenza stampa alla Casa Bianca. «La nostra priorità - ha ricordato - era evitare che Teheran costruisse un’arma nucleare, e questo obiettivo è stato raggiunto. Naturalmente io spero che si possa costruire sull’accordo, e avviare una conversazione con l’Iran affinché assuma posizioni meno ostili. Non ci conto, però, e non ci scommetto su». Questo argomento risponde ai critici che volevano un accordo capace di smantellare il programma nucleare, e nello stesso tempo pretendere un cambiamento della linea politica della Repubblica islamica.
L’altro punto contestato è che l’intesa consente a Teheran di conservare le sue capacità atomiche, e ricevere miliardi di dollari finora congelati che potrà usare per sviluppare le sue armi convenzionali, finanziare gruppi terroristici come Hezbollah, e ingerire in maniera negativa sugli equilibri mediorientali. «Non stiamo normalizzando le relazioni con l’Iran», ha risposto il Presidente, e quindi tutto il contenzioso che non riguarda il programma nucleare resta aperto. «Ai critici dell’accordo, però, io chiedo una cosa: qual è la vostra alternativa? Finora non l’ho sentita». La risposta, secondo Obama, è una sola: «L’alternativa era fra la soluzione diplomatica della questione attraverso il negoziato, o quella militare. Se i repubblicani o Israele ritengono che sarebbe stato meglio fare la guerra, lo dicano apertamente».
È vero infatti che Teheran potrebbe violare l’accordo, ma il sistema di ispezioni creato dall’intesa consente di controllarlo come ora sarebbe impossibile e di reagire ad eventuali violazioni, anche se in caso di obiezioni richiederà fino a 24 giorni per poter entrare nei siti contesi. Quanto alle armi convenzionali, le preoccupazioni di Israele e degli altri critici sono legittime, ma per evitare il rischio bisogna potenziare soprattutto l’intelligence e la capacità operativa di bloccare eventuali iniziative minacciose.
L’alternativa qui era lasciare le cose come stavano, e cioè consentire all’Iran di continuare le operazioni di ingerenza e riarmo che già conduceva senza controllo. Obama non si illude che Teheran userà i circa 150 miliardi di dollari liberati per costruire asili, ma questo è un rischio che bisognava correre se si riteneva più pericoloso il programma nucleare. Il presidente si è risentito, quando gli hanno chiesto perché non ha collegato l’intesa alla liberazione dei 4 americani detenuti in Iran: «È assurdo pensare che non ci lavoriamo, ma legare questo tema al negoziato avrebbe consentito a Teheran di usarlo per ottenere concessioni».
La sfida in Congresso
La sfida ora si trasferisce in Congresso, dove i repubblicani sono compatti contro l’accordo. Per fermarlo, però, hanno bisogno della maggioranza di due terzi, necessaria a superare il veto promesso da Obama contro qualunque legge che deragli l’intesa. Le lobby sensibili alle critiche venute in particolare da Israele sono già al lavoro, per premere sui 13 democratici incerti come Bennet, Cardin, Casey, Donnelly, Kaine, Nelson, Warner, Menendez, Wyden, Schumer, affinché voltino le spalle al loro presidente. Hillary Clinton però ha difeso l’accordo e così ha serrato i ranghi del partito, chiarendo che non si può puntare sulla sua vittoria alle presidenziali del 2016 per annullarlo.
Repubblica 16.7.15
Ellade addio la fine di un amore nato dai sogni di Goethe e Schiller
di Maurizio Bettini


I media e l’opinione pubblica di Berlino e dintorni adesso descrivono il popolo greco come “levantino”, infido e fannullone. Siamo lontani dalla passione coltivata dai grandi artisti del passato: segno che le cosiddette “radici culturali” mutano continuamente

Durante le innumerevoli fasi della crisi greca, si è assistito a un proliferare di citazioni, rimandi, allusioni all’antica Ellade. In Italia la Grecia è stata più volte ricordata come la patria della democrazia, dunque come una terra a cui l’Europa deve troppo per poterla umiliare: pur se la democrazia ateniese, per la verità, non si sarebbe mai sognata di proporre un referendum come quello indetto dal premier Tsipras. Da quando in qua, avrebbero detto gli ateniesi, anche le donne decidono sulle cose degli uomini? Queste cose succedono solo nelle commedie di Aristofane. Qualcuno poi ha evocato il sacrificio di Leonida, e la vittoria di Maratona, quasi fossero il baluardo che difese l’Europa dalla dominazione orientale: che cosa sarebbe oggi di noi, se quella volta i Greci non avessero fermato i Persiani? Magari dimenticando che, solo 150 anni dopo, furono i Greci, guidati da Alessandro, a invadere a loro volta l’impero persiano — e certo non lo fecero per esportare la democrazia. Oltre all’Italia anche la Francia si è scoperta filellena. In uno dei tanti momenti in cui pareva che l’accordo fosse stato raggiunto, Manuel Valls ha twittato in greco «l’Europa è la Grecia!», mentre il ministro Emmanuel Macron, parlando di economia, non esitava a citare Aristotele. Facile concludere che il tema delle “radici culturali”, in questo caso quelle elleniche, ha giocato un ruolo importante nel dibattito nato attorno alla crisi greca. Questo almeno in Italia e in Francia. Ma in Germania?
Al contrario di altri paesi, i tedeschi non si sono dimostrati particolarmente filelleni. A cominciare dalla copertina della rivista Focus , che recava un’Afrodite di Milo in vesti di accattona, per finire con la proposta, subito ripresa dalla Bild , di vendere le isole dell’Egeo per ripagare il debito. I greci dovranno pur rinunziare a qualcosa, e pazienza per la schiuma da cui nacque la dea. Si sa, la comunicazione si fonda su uno scambio di immagini, più spesso di stereotipi: e se in alcuni paesi, come Italia e Francia, i greci hanno spesso assunto le luminose sembianze di Pericle, in altri esibiscono piuttosto volti astuti e sottili, “levantini”. Per i tedeschi sembra contare molto di più il “debito” che la Grecia ha con loro (pur se non solo con loro), che non il “debito” che essi hanno verso la cultura ellenica. Un cambio di prospettiva davvero rimarchevole.
Se infatti c’è stato un paese che, nel passato, si è mostrato filelleno, questo è proprio la Germania. Non solo perché la poesia e la filosofia tedesca sono state influenzate dai greci molto più di quanto sia avvenuto altrove, ma perché per decenni i tedeschi si sono presentati al mondo come i “veri Greci”, gli unici degni eredi di Omero, di Pindaro e di Platone. Se Schiller vedeva nella Germania «la nuova Grecia del futuro», Goethe aveva addirittura immaginato un incontro fra Faust ed Elena — la donna più bella del mondo — in un’Arcadia favolosa: da questa travolgente passione venne concepito un figlio, Euforione, in cui si fondevano lo spirito ellenico e quello nordico. Quanto a Hölderlin, la sua nostalgia per la Grecia fu tale che nel 1802 tentò di raggiungerla a piedi dalla Germania: e quando il suo viaggio terminò, nelle Alpi Svizzere, perché fu aggredito lungo la strada, egli rinunziò a proseguire perché interpretò quell’incidente come un segno inviatogli da Apollo.
Ma anche senza andare così indietro nel tempo, il filellenismo diffuso fra i tedeschi emerge ancora da una vignetta di Kostas Mitropoulos risalente ai primi anni Ottanta. Vi si vede un curioso personaggio in abito di guerriero greco, e di fronte a lui un uomo piccolo, bruno, con i baffetti e un berrettino sulla testa. La scena è manifestamente ambientata in una stazione ferroviaria greca. Dunque il guerriero si rivolge all’altro con queste parole: «Andra moi ennepe Mousa… », citando cioè il primo verso dell’ Odissea : e l’ometto bruno commenta «Ah, costui deve essere un tedesco! ». Il problema è che non c’è nulla di così presente, anzi così acutamente contemporaneo, come le cosiddette “radici culturali”. Le quali invece di rimandare saldamente al passato, come il loro “radicamento” sembra suggerire, tutto al contrario mutano, si rivoltano, scompaiono a seconda delle opportunità del momento. In piena crisi greca lo storico Martin Schulze Wessel ha sottolineato l’importanza delle «radici religiose ortodosse » della Grecia, dunque più vicina alla Russia che non al resto dell’Europa. Bisanzio ha preso il posto di Atene. Quanto alle “radici cristiane dell’Europa”, richiamo che a dispetto delle polemiche non fu introdotto nel preambolo della costituzione europea, fra i non molti paesi che ne fanno effettivamente menzione nella propria carta, c’è l’Ungheria: quella che ha blindato i propri confini col filo spinato per impedire l’accesso ai migranti musulmani. Il fatto è che le “radici culturali” non sono solo mutevoli, ma anche molto plasmabili. Probabilmente Orban ha voluto evocare quelle, cristiane, d’Ungheria, non per esaltare il motto «amerai il prossimo tuo come te stesso», ma piuttosto il comandamento che recita «non avrai altro Dio all’infuori di me». Salvare la Grecia è necessario per rispettare prima di tutto i diritti umani, non solo le nostre “radici”.
L’AUTORE Saggista, insegna Filologia classica all’Università di Siena Dirige la collana Mythologica di Einaudi
Corriere 16.7.15
Issing: è inutile illudersi, meglio fuori dall’euro
intervista di Danilo Taino


BERLINO Otmar Issing è stato capo economista e membro del Direttivo della Banca centrale europea. Oggi è presidente del Centro di studi finanziari della Goethe-Universität di Francoforte. Ieri era a Berlino per un dibattito su temi europei aperto da una relazione di Mario Monti. Prima, ha rilasciato questa intervista al Corriere .
Professore, il programma per la Grecia deciso dai governi supererà la settimana?
«Dipende dai parlamenti. Piuttosto, dovremo vedere se, una volta approvato, funzionerà. C’è una lunga strada da percorrere prima che i soldi arrivino ad Atene. Il tutto è stato reso più incerto dal fatto che Alexis Tsipras ha dichiarato che a quel programma non crede, anche se l’ha firmato».
In Germania lo scetticismo sta aumentando.
«Molti economisti sono critici. D’altra parte, però, programmi di aiuto in Irlanda, in Portogallo, in Spagna hanno funzionato. E aveva iniziato a funzionare anche quello greco: nella seconda metà dell’anno scorso la ripresa era iniziata».
Molti pensano che l’uscita di Atene dall’euro sarebbe stata una scelta migliore.
«Ero e sono dell’opinione che si dovesse fare molto prima. Si sarebbe dovuto impiegare il denaro non per salvare le banche ma per sostenere direttamente la gente. Con aiuti concreti e riforme concrete, dal catasto alla ricostruzione di un sistema fiscale. Sono stati persi un sacco di soldi. E altri se ne perderanno: tutti sanno che il debito greco non è sostenibile. Quello è denaro che gli europei, anche i Paesi più poveri della Grecia, hanno perso».
Andrebbe dunque tagliato, il debito?
«Quello semmai potrebbe essere l’ultimo atto di un intervento: se lo tagli all’inizio la Grecia riprende a produrlo. In ogni caso, le regole dell’Eurozona impediscono un taglio del debito: sarebbe un finanziamento tra Stati, vietato dai trattati. Inoltre, cosa importantissima, dopo un default sul debito la Bce non potrebbe più fare operazioni di rifinanziamento con le banche greche».
È per questo che rimane favorevole alla Grexit?
«Sì, sono dalla parte di Wolfgang Schäuble. Se la Grecia uscisse dall’euro, faremmo una conferenza sul suo debito e la questione verrebbe risolta. Atene potrebbe essere aiutata comunque. Quello che mi preoccupa e che mi fa arrabbiare è che l’Europa è riuscita a fare l’opposto di quello che voleva: ha inasprito i rapporti tra Paesi, guardi cosa succede tra Germania e Grecia».
Per Atene sarebbe stato più utile uscire?
«Mah. L’attuale governo greco non dà alcuna prospettiva di futuro al Paese. Propone soluzioni che hanno già fallito ovunque. Temo che non sarebbe in grado di gestire alcun cambiamento di regime monetario».
Si dice che l’unica strada per l’Europa sia l’unione politica, a questo punto.
«Mi pare chiaro che ora non c’è alcuna possibilità di creare un’unione politica. Si tratterebbe di cambiare i trattati europei, di andare incontro a molti referendum, alcuni Paesi come la Germania dovrebbero rivedere la costituzione. Ma in Europa sono tutti scettici: in quanti referendum vincerebbe il no? Mi sembra una strana idea. Farebbe aumentare i conflitti tra Paesi, ancora più di oggi che siamo alle prese solo con la moneta».
Pensa che l’euro sia stata una cattiva idea?
«Per rispondere occorrerebbe sapere cosa sarebbe successo se non fosse stato introdotto. Negli Anni Novanta, le svalutazioni della lira italiana minacciavano l’esistenza del mercato unico europeo. Certo, se questa crisi va avanti così potrei essere costretto ad ammetterlo, che fu una cattiva idea».
Non crede che la Germania dovrebbe rendere più chiara la sua leadership europea?
«Io odio, quasi, l’idea di leadership tedesca. Preferirei che gli europei si attenessero alle regole. Al “pacta sunt servanda”. Mi piacerebbe che anche in Italia lo si dicesse. Per il suo passato, alla Germania è troppo difficile essere leader: quando sembra in quella posizione… Guardi cosa succede in Grecia».
Angela Merkel ha vinto o ha perso lo scorso week-end?
«Era una situazione lose-lose, non si poteva vincere dopo quello che Tsipras e Varoufakis avevano fatto e detto. Poi bisogna dire che Merkel non vuole mai arrivare a una soluzione in cui Germania e Francia non sono dalla stessa parte».
Come giudica l’azione della Bce delle scorse settimane?
«La mia maggiore preoccupazione è che ha assunto un ruolo politico. La prima colpa è dei governi che l’hanno costretta a farlo: se dava liquidità alle banche greche le teneva in piedi, se non la dava le faceva crollare. Ha dovuto fare il lavoro che non hanno fatto i politici. Temo che, prima o poi, qualcuno solleverà questioni di legittimità democratica».
Il Fondo parteciperà anche al terzo bail-out greco?
«In Grecia ha esteso molto il suo ruolo e oggi deve spiegare al Mali perché deve aiutare gli europei. Per l’Fmi sarà difficile abbandonare Atene; ma ha detto che quando è troppo è troppo».
Pessimista.
«L’atmosfera è avvelenata».
Corriere 16.7.15
Le illusioni del fronte antieuropeo
di Aldo Cazzullo


Dunque la vacanza ateniese non è stata gratis. Anzi. Il conto del semestre pueblo unido del duo Tsipras -Varoufakis, e della brigata internazionale portatasi in supporto ad Atene, è durissimo. E a pagarlo saranno i greci. Non gli armatori, le ragazze chic di Kolonaki, i magnati con i conti all’estero; ma i pensionati, gli studenti, i poveri, il variegato fronte che ha sostenuto Syriza e i suoi alleati della destra nazionalista, ha votato No al referendum, e ora subisce un piano molto più punitivo di quello che avevano ottenuto i vecchi, screditati partiti.
E il conto dei populismi rischia di essere altrettanto salato in altri Paesi. A cominciare dal nostro.
Intendiamoci: c’è poco da esultare per la vittoria della linea del rigore. Esiste ormai una questione tedesca. La Germania ha raggiunto con la pace l’obiettivo che aveva fallito scatenando due guerre mondiali: conquistare l’egemonia in Europa. Non ne sta facendo un uso generoso, e neppure lungimirante. Tsipras l’hanno creato un po’ anche la Merkel e Schäuble: se fossero stati meno arcigni prima, non si sarebbero ritrovati poi ad Atene un governo rossobruno. Il punto è che la strana alleanza dei populisti — siano di destra, di sinistra o post ideologici — ha trovato terreno fertile anche lontano dall’Egeo. La rivolta contro i partiti tradizionali, le forme consuete di rappresentanza, le istituzioni europee e l’austerity teutonica percorre l’intero continente, e prende forme molto diverse. Legittime, comprensibili; ma non indolori.
In Spagna, dove si vota tra quattro mesi, il movimento degli Indignati ha filiato sia Podemos, una forza di sinistra in aperta polemica con il partito socialista, sia Ciudadanos, centristi che insidiano i popolari di Rajoy. In Francia il populismo ha il volto nazionalista di Marine Le Pen. In Italia il fronte rossobruno di Atene ha un sostegno che va da Fassina a Salvini e alla Meloni, passando per i falchi di Forza Italia e per il Movimento 5 Stelle, ai massimi storici nei sondaggi. In mezzo, postdemocristiani che non toccano palla da anni, Berlusconi che oscilla tra il rancore verso la Merkel e gli interessi aziendali, e Renzi che in Europa fatica molto a farsi ascoltare sia sull’emergenza migranti, sia sulla necessità di nuovi investimenti per lo sviluppo. È inevitabile che le sirene del populismo antieuropeo e antitedesco traggano consensi da questa situazione. Ma sarebbe illusorio pensare che l’uscita dalla moneta unica, o il rifiuto dell’Europa, siano una liberazione gioiosa.
Contro la dura logica di Berlino e di Bruxelles si sono scontrati tutti i governi italiani. Sia quelli, presto diventati impopolarissimi e condannati alla damnatio memoriae (Amato 1992, Monti 2012), chiamati a porre rimedio ai disastri altrui. Sia quelli eletti dal popolo con promesse destinate all’amara verifica dei rapporti di forza continentali: nella moneta unica siamo entrati ai tempi di Prodi con una tassa, chiamata nobilmente eurotassa anche se servì anche a coprire magagne nostrane, e ci siamo rimasti ai tempi di Berlusconi rinunciando all’illusione elettorale delle due aliquote secche al 23 e 33%. Ora Salvini ne promette una sola al 15, uguale per tutti, con ulteriori detrazioni a garantire la progressività: sarebbe meraviglioso, no?
La verità è che la battaglia contro l’austerity e per la crescita passa attraverso una tela faticosa di alleanze internazionali, di riforme interne, di tagli alla spesa (finora finiti nei libri più che nei bilanci), e infine attraverso un confronto durissimo con una cancelliera che ha vinto tre elezioni, si appresta a vincerne una quarta nel 2017 e dietro ha una grande coalizione e un Paese solido. Insomma: sarà un viaggio lungo e difficile; e, come dimostra il caso Tsipras, le scorciatoie sono tutte bloccate.
Il Sole 16.7.15
Il vero sconfitto del vertice? La Germania
Verso il terzo bailout. Nonostante le apparenze Berlino e l’Europa metteranno nuovamente mano al portafoglio dando ancora decine di miliardi alla Grecia
di Gideon Rachman


L’umiliazione della Grecia, il trionfo della Germania onnipotente, il sovvertimento della democrazia in Europa, così titolavano molti quotidiani europei lunedì mattina.
Che assurdità. Se c’è qualcuno che ha capitolato, quella è la Germania. Il governo tedesco ha appena concesso in linea di principio un altro salvataggio plurimiliardario alla Grecia, il terzo a oggi. In cambio, ha avuto la promessa di riforme economiche da parte di un governo greco che ha fatto chiaramente capire di essere in profondo disaccordo con tutto quello che ha appena accettato. Il governo Syriza farà chiaramente tutto il possibile per contrastare l’accordo appena siglato. Se questa è una vittoria tedesca, non vorrei assistere alla sconfitta…
E poi questa storia della democrazia sovvertita in Grecia, anche questa è un’assurdità. Il referendum greco del 5 luglio voleva dire in sostanza che il resto dell’Eurozona avrebbe dovuto continuare a prestare miliardi alla Grecia, ma a condizioni dettate da Atene. Irrealistico. Il vero ostacolo alla libertà greca non è la natura non democratica dell’Ue, ma il fatto che la Grecia è in bancarotta.
Quasi tutti i commenti sulla perdita della sovranità greca nell’intesa di massima appena siglata riguardavano il fondo di privatizzazioni di 50 miliardi di euro che verrà controllato dai creditori stranieri. Dato il livello di corruzione e clientelismo dei precedenti governi greci, l’idea sembra ottima. Ma con la netta opposizione di Syriza alle privatizzazioni è molto improbabile che vengano messi insieme 50 miliardi di euro.
Il dilemma per i cittadini greci è penoso, ovviamente. Ero ad Atene la settimana scorsa e mi sono sentito molto male per tante delle persone che ho incontrato, che avevano paura di perdere il lavoro, i risparmi e di non avere più un futuro. Ma l’idea che sia tutta colpa dell’Europa crudele che ha irragionevolmente imposto l’austerity a un Paese sano, è un’illazione neo-sinistroide. La Grecia è stata mal governata per decenni e ha vissuto ben oltre i suoi mezzi.
Quando è scoppiata la crisi, il governo greco aveva un disavanzo di bilancio che superava il 10% del Pil e il settore privato si rifiutava di prestare soldi al Paese. Senza gli aiuti di Fmi e Ue, l’adeguamento all’austerità sarebbe stato immediato e molto più brutale. E nemmeno l’idea che i creditori della Grecia sono stati così inflessibili è vera. I creditori privati avevano già subito una riduzione del valore nominale del debito (haircut) nel 2012 e un notevole allungamento delle scadenze.
E poi, anche i cittadini tedeschi, olandesi, finlandesi e altri hanno tutto il diritto di preoccuparsi. Al momento dell’adesione all’euro era stato detto loro che il Trattato che istituiva la moneta unica prevedeva una clausola di “no bail-out” e questo per rassicurare i contribuenti che non avrebbero mai dovuto pagare i conti di altri Paesi dell’Eurozona.
Sono stati già concessi bail-out a Spagna, Portogallo e Irlanda, oltre a tre pacchetti per la Grecia. Un nuovo prestito di 85 miliardi di euro alla Grecia equivarrebbe a quasi il doppio del Pil annuo della Serbia, un Paese di media grandezza della stessa regione. E nonostante sia stato detto in lungo e in largo che i perfidi europei si rifiutano di cancellare il debito greco, è molto improbabile che la Grecia restituisca tutti i 320 miliardi di euro che già deve, questo è evidente.
E stranamente le denunce più forti alla perfidia dell’Eurozona nel rifiutarsi di cancellare il debito greco sono venute proprio da economisti che vivono in Paesi i cui contribuenti non sono propriamente un modello di responsabilità.
Quest’ultima iterazione della crisi greca inoltre ha visto acuirsi la spaccatura tra Francia e Germania. Il governo francese è emerso come quello che è riuscito a far restare la Grecia nell’euro e ad allentare l’austerità. La Francia ha sicuramente i suoi buoni motivi per prendere le parti della Grecia, per dimostrare una solidarietà europea, geopolitica e via dicendo. Ma se fossi stato un contribuente tedesco, sarei rimasto basito alla vista del presidente Hollande che abbraccia il premier Tsipras, all’uscita del summit.
Anche la Francia, in effetti, ha le sue ragioni per cercare di invertire il corso di austerità in Europa. Stiamo parlando di un Paese che non registra un pareggio di bilancio, dico uno solo, dalla metà degli anni Settanta. E i governi francesi hanno le stesse difficoltà della Grecia a spingere per le riforme strutturali dell’economia. Dopo quest’ultima crisi, i francesi torneranno probabilmente alla carica con grandi idee per “consolidare” l’Eurozona come una previdenza sociale europea. Chi pensano che la pagherà, mi chiedo?
Quanto ai tedeschi, all’ultimo incontro hanno chiaramente spinto per una Grexit, ovvero l’idea di far uscire la Grecia dall’Eurozona. Poi hanno fatto un passo indietro dopo diversi richiami, come quello del ministro degli Esteri di Lussemburgo secondo il quale uno sviluppo del genere sarebbe «fatale per la reputazione della Germania nell’Ue e nel mondo». Anziché rischiare un tale scenario, il governo tedesco ha accettato l’ennesimo salvataggio della Grecia. Ma in realtà l’euro sta già avvelenando l’atteggiamento dei tedeschi nei confronti dell’Europa e quello dell’Europa nei confronti dei tedeschi.
Tutta questa saga mi fa venire in mente le parole del grande tedesco Karl Marx che diceva: «La Storia si ripete due volte, prima come tragedia, poi come farsa». E l’ultima intesa sul debito greco riesce a essere farsa e tragedia insieme.
Traduzione di Francesca Novajra