sabato 22 marzo 2014


l’Unità 22.3.14
Scontro sui contratti. E rispunta l’articolo 18
I ministri Guidi e Poletti non escludono di riprendere il tema della flessibilità in uscita
Camusso: «Chiederemo cambiamenti alle Camere sulle norme varate, poi decideremo il da farsi»
Si annuncia battaglia in Parlamento sul lavoro a termine
Fassina: «Se resta così non lo voto»
di Luigina Venturelli


Materia delicata, il lavoro. Per ogni decisione presa dalla politica (il decreto Poletti sui contratti a termine), ce ne sono sempre molte altre che dovranno o potranno accompagnarla (il resto del Jobs Act contenuto nel disegno di legge delega). E tra le tante polemiche che puntualmente si scatenano, quella sulla cancellazione dell’articolo 18 non manca mai. Il governo Renzi non fa eccezione. Per quanto la carne al fuoco sia già molta, con la sinistra del Pd e la Cgil pronti a dar battaglia sulla liberalizzazione dei contratti a termine, e le riforme degli ammortizzatori sociali e della pubblica amministrazione tutte da discutere, sul piatto della discussione è finita ieri anche la più celebre norma dello Statuto dei lavoratori.
IN ETERNA DISCUSSIONE
A lanciare la prima pietra è stata, ieri mattina, il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi: «La mia opinione personale è che bisogna semplificare. E che la flessibilità delle regole, sia in ingresso che in uscita, comporti lo smantellamento di questo sistema di burocrazia, norme, vincoli che allo stato dell’arte mi sembra non siano serviti a nulla». Un riferimento ai licenziamenti senza giusta causa che il ministro competente, Giuliano Poletti, non poteva evitare di commentare: «Voglio discutere di articolo 18 solo all’interno di un ragionamento generale. Abbiamo già fatto tanti danni sbagliando a fissare un unico punto, quando invece lavoriamo in un contesto complesso. È un tema che va correttamente mantenuto all’interno di un quadro generale e della revisione della legislazione del lavoro » ha precisato il responsabile del Welfare, intervenendo nel pomeriggio al forum di Cernobbio.
Parole prudenti, che per ora cercano di non entrare nel merito della questione. Ma che nemmeno possono considerarsi una smentita o una chiara chiusura sull’argomento. Anzi: «Dal punto di vista concettuale» ha proseguito Poletti, «è difficilmente sostenibile che la decisione di avere e mantenere nel tempo un rapporto di lavoro sia affidata a un magistrato. Io continuo a credere che il rapporto tra un lavoratore e un’impresa sia figlio di una libera scelta, anche se è giusto che ci sia una tutela della parte meno forte».
«ANCORA DISOCCUPAZIONE»
Per il momento, però, le priorità del governo sono altre. E non potrebbe essere diversamente, visto il 2014 sarà ancora caratterizzato da «problemi acutissimi di disoccupazione». Probabilmente più acuti di quelli vissuti finora, ha spiegato il ministro, perché «la crisi non ha ancora scaricato tutti gli effetti sul lavoro» e «ci sono aziende che hanno chiuso 3 o 4 anni fa, con persone che adesso sono in cassa integrazione e hanno strumenti di tutela». Ma quando questi avranno esaurito i loro effetti, «ci troveremo in una terra di mezzo dove avremo gli esiti finali della crisi e gli effetti positivi delle politiche avviate».
Le speranze dell’esecutivo, per dare risposte «a un’Italia che non ne può più, che non ha un reddito congruo o vive in povertà, e a imprenditori che non lavorano più come vorrebbero», sono riposte del decreto legge appena entrato in vigore sui contratti a termine. Norme di cui il governo «monitorerà il passaggio parlamentare» ha assicurato Poletti, pur «pronto ad apportare modifiche se verrà dimostrato che le misure non funzioneranno». Ma l’apertura del ministro ai cambiamenti è solo eventuale. Rimandata al futuro, tra «6 o 9 mesi», nel caso i risultati della riforma si dimostrino scarsi. Per ora «gli avviamenti al lavoro sono stati al 68% contratti a termine», dunque l’esecutivo «risponderà dal 68% in su».
In parlamento, dunque si preannuncia aria di battaglia. Con la Cgil che si prepara a confrontarsi con i gruppi parlamentari per chiedere modifiche al decreto e con l’ex viceministro Stefano Fassina che annuncia voto contrario e attacca: «Sarebbe meno grave l’eliminazione dell’articolo 18, almeno ci sarebbe un contratto a tempo indeterminato seppure interrompibile in qualunque momento. Siamo di fronte a una regressione del mercato del lavoro». Dichiarazioni che rispecchiano i malumori della sinistra Pd, con i Giovani democratici dell’Emilia-Romagna, tra gli altri, che parlano di «porcata pazzesca» e di «ennesimo contratto a zero tutele».
A difendere il decreto Poletti, invece, sono il centrodestra e le controparti datoriali. «Misure da tempo attese, che vanno nella direzione più volte indicata » commenta Rete Imprese Italia. «Ci auguriamo che questo provvedimento non venga distorto dal passaggio parlamentare » ribadisce il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi.

La Stampa 22.3.14
Decreto Lavoro, scontro a sinistra
di Francesco Spini
qui

il Fatto 22.3.14
Lavoro, la riforma è in vigore
La Guidi: meno vincoli sull’art. 18


Il Decreto legge sul Lavoro annunciato nel Consiglio dei ministri del 12 marzo, quello delle “slides”, è stato pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale e dunque è operativo. Si tratta di una parte del “Jobs Act” di Renzi, relativo alle norme sui contratti a termine che vengono maggiormente liberalizzati così come viene reso più agevole per le imprese anche l’apprendistato. Le norme più innovative, invece, come il contratto unico, sono rinviate a una legge delega dai tempi incerti. Non è un caso, quindi, se sul decreto si siano già sviluppate le prime polemiche. La Cgil ha chiesto di modificarlo perché così com’è “aumenta la precarietà”. Un giudizio drastico viene anche dall’ex sottosegretario del Pd, Stefano Fassina, secondo cui il decreto “è peggio della riforma dell’articolo 18” e quindi non va votato. Lo stesso ministro Giuliano Poletti un po’ gof - famente ha dichiarato che prima di vedere degli effetti positivi “ci vorranno 3-4 anni”. La sua collega Federica Guidi, invece, ha auspicato una nuova riforma dello stesso articolo 18: “Bisogna semplificare e snellire sia in ingresso che in uscita”.

il Fatto 22.3.14
Renzi parte re e torna suddito
Il premier non ottiene nessun risultato concreto in Europa e dice “Il fiscal compact va rispettato”
di Stefano Feltri


Il Fiscal compact è un impegno che il nostro Paese ha preso e come tutte le regole che ci siamo dati confermiamo l’impegno”. Alla fine è soltanto questa frase che conta: in Parlamento il premier Matteo Renzi aveva definito “anacronistico” il vincolo del deficit al 3 per cento del Pil (è di vent’anni fa), ma a Bruxelles promette di rispettare la gabbia più contemporanea, quella che impone fin nella Costituzione il pareggio in bilancio. E per rispettarlo subito bisognerebbe fare quella correzione di bilancio da 4-5 miliardi di euro strutturali che la Commissione europea chiede, inascoltata, da mesi.
DI SOLITO le conferenze stampa alla fine del Consiglio europeo servono ai capi di governo a vantarsi dei risultati ottenuti durante i lunghi negoziati notturni, a presentare come epiche vittorie nazionali gli scialbi compromessi che di solito si nascondono dietro le frasi del comunicato finale del Consiglio. Renzi invece parla soprattutto del semestre di presidenza italiano che comincerà a luglio, di quello che il governo vuole fare, di tutte le occasioni che ci saranno per incontrare gli altri leader, sei mesi che devono diventare “l’occasione di una grande scommessa sull’Europa”. Risultati che può vantare dalla due giorni europea: nessuno concreto, ma “non siamo mica venuti qui a farci dare la bollinatura alle nostre riforme”. Poco è filtrato della colazione tra il premier e il presidente del Consiglio europeo, Herman van Rompuy. L’incontro con il presidente della Commissione José Barroso, giovedì, non era andato benissimo, nessuna concessione sul deficit e nessun via libera preventivo: prima di avallare le riforme di spesa, come il taglio delle tasse in busta paga, la Commissione vuole vedere i provvedimenti di legge che attuano la spending review. Renzi contesta questa lettura, dice che sono “ricostruzioni fuori dalla realtà” e che comunque il suo obiettivo è “far sorridere le famiglie italiane”, non i due leader europei che, ci tiene a ricordarlo il premier, “sono in scadenza di mandato”.
In questi due giorni Renzi ha fatto poco per rassicurare i suoi interlocutori europei che sono ammirati dalla forza politica del giovane leader, ma un po’ perplessi sulla sua disinvoltura contabile. L’idea di scorporare la spesa per il cofinanziamento dei fondi strutturali dal deficit (cioè il contributo dell’Italia ai progetti europei) non è un tabù a Bruxelles. Ma preoccupa il fatto che la priorità del premier non sembri affatto rilanciare i progetti di infrastrutture che con quel trucco contabile si potrebbero finanziare, ma guadagnare margini di manovra per tagliare le tasse prima delle elezioni europee. L’argomento usato da Renzi - “siamo contribuenti netti”, cioè diamo all’Europa più di quanto riceviamo - è di quelli usati da sempre dalla Gran Bretagna e dai Paesi più euroscettici: non funzionerà mai per convincere la Commissione.
E visto che tutta la credibilità delle coperture delle promesse renziane si fonda sulla revisione della spesa, attaccare il commissario Carlo Cottarelli nella conferenza stampa di Bruxelles non è stata forse la scelta tattica migliore. “Il piano di Cottarelli è un buon punto di partenza”, ha detto il premier, che poi ha subito precisato: “Ma alcune cose non mi hanno convinto”. Tipo l’ipotesi di intervenire sulle pensioni, che Cottarelli continua a riproporre. La scelta di spostare il commissario dal Tesoro a palazzo Chigi sembra sempre di più un modo per ridurlo al rango di consulente (qualche giorno fa l’aveva retrocesso a “commercialista”) che offre suggerimenti, non certo prescrizioni.
SOLO RENZI è così concentrato sull’economia. Gli altri leader sono molto più preoccupati dalla crisi ucraina e di come contenere l’avanzata di Vladimir Putin. Il Consiglio europeo firma una prima parte politica di un “accordo di associazione” che serve ad ancorare Kiev alla Ue, mentre arrivano sanzioni per altri 12 soggetti vicini a Putin. Ma la grande battaglia, quella sull’energia, quella per emancipare l’Europa e l’Ucraina dalla dipendenza dal gas russo, ancora non è davvero cominciata, la Germania invita alla cautela. Di Russia Renzi si scorda di parlare, in conferenza stampa. Quando glielo ricordano si scusa, ma non c’è più tempo: deve tornare subito a Roma.

il Fatto 22.3.14
Etichetta stracciata
Twitter, gaffe e maniche di camicia: Bruxelles-show
Un podio al posto del tavolo, poca formalità e qualche figuraccia
E Squinzi lo smentisce sul entusiasmo della Merkel
di Stefano Feltri


Lo stile è il suo, in trasferta si nota anche di più: su Twitter Matteo Renzi commenta il suo debutto al “Consiglio d’Europa”, che però è un’istituzione completamente diversa da quella in cui si è impegnato in questi due giorni, cioè il Consiglio europeo (gli fanno notare l’errore e, dopo alcune ore, il Tweet sparisce). In conferenza stampa racconta il suo stupore per aver scoperto “una usanza che non conoscevo”: cioè che durante la riunione del Consiglio tra i capi di governo “si parla continuamente, anche mentre si mangia”.
RENZI non ha la confidenza con i riti dell’Europa che aveva Mario Monti e neppure il rispetto assoluto che era di Enrico Letta. Bruxelles è soltanto uno sfondo diverso per mandare gli stessi messaggi di ottimismo renziano alle famiglie italiane che vedranno il premier al Tg.
La piccola sala stampa dell’Italia nel seminterrato del palazzo di Justus Lipsius cambia per il nuovo premier: via il tavolo verde da cui Monti raccontava i duelli con Angela Merkel, ecco il podio per Matteo, che interviene da solo, come sempre. Il resto della squadra europea, dall’ambasciatore Stefano Sannino al sottosegretario Sandro Gozi, restano silenziosi in disparte. La cena deve essere tutta per il premier, che arriva trafelato come sempre, “a young man in a hurry”, il giovanotto che va di fretta, lo hanno chiamato Financial Times ed Economist. Appena entra nella saletta si toglie anche la giacca e la affida a una signora bionda (responsabile del cerimoniale, abituata a ben alti formalismi), si arrotola le maniche della camicia bianca e comincia lo show dal podio. Parlare di Europa non è la cosa che gli riesce più facile, dietro gli europeismi obbligati si intravede l’insofferenza (“la Commissione si chiama così ma non è una commissione d’esame”). Al premier però piace - un po’ come piaceva a Silvio Berlusconi - il genere di racconto “io e i grandi della Terra”.
Ha anche rievocato la cena di lunedì scorso a Berlino, con la Merkel e gli imprenditori tedeschi. Subito gli replica dall’Italia il capo della Confindustria Giorgio Squinzi, uno dei pochi italiani non renziani rimasti: “Devo sfatare il clima idilliaco descritto per l’incontro di lunedì tra Merkel e Renzi. Io ero alla cena e lei è molto austera nei nostri confronti: non è che ci abbia accolto a baci e abbracci, ha detto che non possiamo derogare alle regole”.
DETTAGLI, minuzie, quisquilie per Renzi che da Bruxelles torna con la sicurezza di aver interpretato perfettamente quel misto di scetticismo e sopportazione che domina tra gli italiani quando pensano all’Europa. Anche da Bruxelles il premier vuole prima di tutto essere in sintonia col suo pubblico, tutto il resto - i tecnicismi sul deficit e anche la crisi Ucraina - è secondario. Non cita mai, neppure una volta, il documento conclusivo del Consiglio, quando invece Monti e Letta si impegnavano in minuziose analisi del testo.
Renzi supera anche l’inevitabile test di Ivo Caizzi: il veterano dei corrispondenti da Bruxelles, del Corriere della Sera, ha fatto perdere la calma più volte a Mario Monti e perfino a Fabrizio Saccomanni, con le sue domande. Renzi lo ascolta e poi lo neutralizza: “Bene, raccogliamo un po’ di domande così rispondo a tutte insieme” (scegliendo con una certa cura quali dimenticare e quali no).
In altri momenti - quelli più drammatici della crisi dell’euro - la disinvoltura renziana avrebbe inorridito le vestali delle forme europee. Oggi no, c’è un clima di smobilitazione, tutti i presidenti sono in scadenza, incluso il padrone di casa Herman van Rompuy. Che Renzi pronuncia con una correttezza rara, con la “u” che si legge quasi “o”. Sembra che il premier improvvisi, ma anche ostentare dilettantismo è una scelta. E uno stile che, per ora, funziona.


Alberto D’Argenio su Repubblica:
Le riforme piacciono all’Unione e ai partner, la spesa pubblica meno.
Nemmeno alla Merkel, sottolinea da Milano il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, presente lunedì scorso alla cena tra il premier e la cancelliera a conclusione del vertice italo-tedesco: «Ero seduto alla sinistra della Merkel e Renzi era a destra. La Merkel era molto austera nei nostri confronti e non è vero che ci ha accolto a baci e abbracci - ha aggiunto - e ci ha detto che non possiamo derogare dalla regole». Squinzi non promuove Renzi: «Si sta preparando per le interrogazioni, quando farà qualcosa vedremo».
Del resto anche il presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso avverte: «Se c’è un Paese che vuole cambiare le regole può proporre e vedere se passa con l’unanimità di tutti i governi, ma credo non che ci sarà un accordo su questo punto». Il portoghese ricorda al governo che «i paesi che stanno crescendo hanno fatto riforme e tagli, quella di cambiare le regole è un'idea semplicistica perché non è spendendo di più che facciamo più crescita».

Repubblica 22.3.14
L’ira del premier su Squinzi “Invece di dirmi grazie mi accusa”
“Ha tempo da perdere, che ne sa dell’incontro con Angela?”
di Goffredo De Marchis


FERITO dalle parole sul viaggio a Berlino, Matteo Renzi vorrebbe cavarsela con una battuta velenosa: «Beato Squinzi che quando va ai convegni ha tempo da perdere con polemiche inutili». Il premier è appena tornato dal consiglio europeo.
POSTA su Twitter una foto dei faldoni con le richieste dei comuni per l’edilizia scolastica. Ma non riesce a fare finta di niente davanti all’attacco del presidente di Confindustria.
È irritato e stupito: «Cosa ne sa Squinzi del mio colloquio con la Merkel? Lui non c’era. C’era invece alla cena, che è durata quasi due ore, con gli imprenditori tedeschi. Una cena che abbiamo organizzato noi e che è servita a mettere in cantiere alleanze e affari. Invece di attaccarmi dovrebbe dirci grazie ».
Renzi perciò non si aspettava l’attacco del leader degli industriali. «È inspiegabile », ripete con i suoi interlocutori. Ma si rifiuta di chiamare Squinzi per un chiarimento. Incarica Graziano Delrio di sondare gli umori di Viale dell’Astronomia. Il sottosegretario a Palazzo Chigi ottiene una marcia indietro, almeno in privato. «Fanno sapere che Squinzi non voleva assolutamente polemizzare ». Non basta, certo. Alle critiche pubbliche, se si punta alla pace, dovranno seguire delle precisazioni altrettanto pubbliche. Altrimenti Renzi non si spaventerà per l’apertura di un nuovo fronte. «Anche perché gli imprenditori hanno già portato a casa qualcosa 
FERITO dalle parole sul viaggio a Berlino, Matteo Renzi vorrebbe cavarsela con una battuta velenosa: «Beato Squinzi che quando va ai convegni ha tempo da perdere con polemiche inutili». Il premier è appena tornato dal consiglio europeo.
POSTA su Twitter una foto dei faldoni con le richieste dei comuni per l’edilizia scolastica. Ma non riesce a fare finta di niente davanti all’attacco del presidente di Confindustria.
È irritato e stupito: «Cosa ne sa Squinzi del mio colloquio con la Merkel? Lui non c’era. C’era invece alla cena, che è durata quasi due ore, con gli imprenditori tedeschi. Una cena che abbiamo organizzato noi e che è servita a mettere in cantiere alleanze e affari. Invece di attaccarmi dovrebbe dirci grazie ».
Renzi perciò non si aspettava l’attacco del leader degli industriali. «È inspiegabile », ripete con i suoi interlocutori. Ma si rifiuta di chiamare Squinzi per un chiarimento. Incarica Graziano Delrio di sondare gli umori di Viale dell’Astronomia. Il sottosegretario a Palazzo Chigi ottiene una marcia indietro, almeno in privato. «Fanno sapere che Squinzi non voleva assolutamente polemizzare ». Non basta, certo. Alle critiche pubbliche, se si punta alla pace, dovranno seguire delle precisazioni altrettanto pubbliche. Altrimenti Renzi non si spaventerà per l’apertura di un nuovo fronte. «Anche perché gli imprenditori hanno già portato a casa qualcosa - ragionano a Palazzo Chigi - . Il decreto sul lavoro di Poletti lo hanno giudicato positivo. Arriverà la riduzione dei costi dell’energia. E il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione, checchè ne dica Squinzi, avverrà con tempi garantiti». Allora rimane la sensazione di un attacco a freddo. Con qualche motivo di fondo. «Si possono esprimere giudizi sui provvedimenti, ma il riferimento a Berlino non l’accetto - spiega ancora il premier ai fedelissimi - . Quel viaggio è stato una grande occasione anche per gli industriali».
Al momento della scelta tra il taglio dell’Irpef o dell’Irap, l’imposta che grava sulle aziende, Confindustria comunicò in via riservata al governo di sentirsi non solo delusa ma tradita. In fondo la spallata definitiva al governo Letta venne proprio da Squinzi con una serie di “cazzotti” da Ko. Fino alla minaccia di rivolgersi a Giorgio Napolitano, in assenza di risposte concrete da parte dell’esecutivo. Fu un atto di sfiducia clamoroso. Erano i giorni che precedettero il licenziamento di Letta e la nascita del governo Renzi. Una volta a Palazzo Chigi però il neopremier non sente di avere debiti di gratitudine. E destina 10 miliardi di risorse pubbliche ai 10 milioni di italiani che guadagnano fino a 1500 euro al mese. Quel giorno, due mercoledì fa, i vertici dell’associazione degli imprenditori sono davanti alla televisione. Ascoltano un messaggio che è destinato anche a loro. Che li mette sullo stesso piano dei sindacati. «Io mi rivolgo agli italiani – dice Renzi - non alle categorie o alle associazioni di settore». È la rottura del metodo della concertazione e non funziona a senso unico, solo verso le organizzazioni dei lavoratori.
Il premier non ha cambiato idea. Al taglio dell’Irap ha destinato poco preferendo intervenire, per il sostegno alle imprese, su altre materie. Ma sa che c’è un malessere diffuso e sa che Squinzi è atteso proprio venerdì e sabato a una prova del fuoco con la piccola impresa riunita a Bari. Da quel comparto vengono le critiche più forti al governo e a Viale dell’Astronomia. Si fa fatica a digerire il mancato intervento sull’imposta delle attività produttive. È dunque possibile che il presidente di Confindustria abbia messo le mani avanti per non essere travolto da una contestazione interna. Questo è il sospetto di Palazzo Chigi. «Ma non è un nostro problema», osserva Renzi parlando con i suoi collaboratori. E comunque Squinzi non doveva intervenire sui colloqui con Angela Merkel. Un tema troppo delicato per il governo impegnato a stabilire nuove regole e nuovi equilibri nel rapporto con la Germania. E sul quale Renzi non accetta interventi a gamba tesa come quello di Squinzi. ragionano a Palazzo Chigi - . Il decreto sul lavoro di Poletti lo hanno giudicato positivo. Arriverà la riduzione dei costi dell’energia. E il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione, checchè ne dica Squinzi, avverrà con tempi garantiti». Allora rimane la sensazione di un attacco a freddo. Con qualche motivo di fondo. «Si possono esprimere giudizi sui provvedimenti, ma il riferimento a Berlino non l’accetto - spiega ancora il premier ai fedelissimi - . Quel viaggio è stato una grande occasione anche per gli industriali».
Al momento della scelta tra il taglio dell’Irpef o dell’Irap, l’imposta che grava sulle aziende, Confindustria comunicò in via riservata al governo di sentirsi non solo delusa ma tradita. In fondo la spallata definitiva al governo Letta venne proprio da Squinzi con una serie di “cazzotti” da Ko. Fino alla minaccia di rivolgersi a Giorgio Napolitano, in assenza di risposte concrete da parte dell’esecutivo. Fu un atto di sfiducia clamoroso. Erano i giorni che precedettero il licenziamento di Letta e la nascita del governo Renzi. Una volta a Palazzo Chigi però il neopremier non sente di avere debiti di gratitudine. E destina 10 miliardi di risorse pubbliche ai 10 milioni di italiani che guadagnano fino a 1500 euro al mese. Quel giorno, due mercoledì fa, i vertici dell’associazione degli imprenditori sono davanti alla televisione. Ascoltano un messaggio che è destinato anche a loro. Che li mette sullo stesso piano dei sindacati. «Io mi rivolgo agli italiani - dice Renzi - non alle categorie o alle associazioni di settore». È la rottura del metodo della concertazione e non funziona a senso unico, solo verso le organizzazioni dei lavoratori.
Il premier non ha cambiato idea. Al taglio dell’Irap ha destinato poco preferendo intervenire, per il sostegno alle imprese, su altre materie. Ma sa che c’è un malessere diffuso e sa che Squinzi è atteso proprio venerdì e sabato a una prova del fuoco con la piccola impresa riunita a Bari. Da quel comparto vengono le critiche più forti al governo e a Viale dell’Astronomia. Si fa fatica a digerire il mancato intervento sull’imposta delle attività produttive. È dunque possibile che il presidente di Confindustria abbia messo le mani avanti per non essere travolto da una contestazione interna. Questo è il sospetto di Palazzo Chigi. «Ma non è un nostro problema», osserva Renzi parlando con i suoi collaboratori. E comunque Squinzi non doveva intervenire sui colloqui con Angela Merkel. Un tema troppo delicato per il governo impegnato a stabilire nuove regole e nuovi equilibri nel rapporto con la Germania. E sul quale Renzi non accetta interventi a gamba tesa come quello di Squinzi.

Corriere 22.3.14
Sta emergendo una realtà meno rosea sulla due giorni europea di Matteo Renzi
La sponda europea si sta rivelando sempre più scivolosa
di Massimo Franco


Lentamente, sta emergendo una realtà meno rosea sulla due giorni europea di Matteo Renzi. Le aperture di credito della Commissione e della stessa cancelliera tedesca Angela Merkel cominciano ad apparire limitate e guardinghe; e gli ostacoli e i «no», più corposi di quanto il premier ed i suoi interlocutori abbiano fatto capire. Il presidente del Consiglio ha lasciato Bruxelles attaccando «un’Europa che si occupi di vincoli astratti e lontani dalla gente»: un’Ue che, a suo avviso, non si accorge che «nel frattempo stiamo perdendo un’intera generazione». Sa di poter diventare una sorta di capofila di quanti vogliono correggere le politiche di austerità.
Nella sua visione, il semestre di presidenza italiana del Consiglio europeo dovrà essere in grado di affrontare «le questioni vere, a partire dalla disoccupazione». Ma in generale le reazioni appaiono fredde. Josè Manuel Barroso, presidente della Commissione, ha ribadito che appoggerà le riforme annunciate dal premier italiano. Ma «non si cresce con la spesa», ha aggiunto. Ed ha voluto spiegare agli italiani «che non imponiamo nulla. È tutto scritto nei Trattati, che vanno rispettati altrimenti l’Ue non funziona. Per cambiare i Trattati occorre l’unanimità».
Sono parole che riducono i margini di flessibilità chiesti dal premier per fare investimenti fino a sfiorare e forse superare il 3 per cento del rapporto tra deficit e Prodotto interno lordo. E lasciano prevedere tensioni con gli altri governi. Il rischio è che prevalga l’impressione di un progetto dettato da calcoli elettorali. E non soltanto sull’ipotesi di riduzione delle tasse, ma sulle stesse misure ambiziose illustrate a Bruxelles e prima a Berlino.
Tra l’altro, gli accenti prudenti notati nel ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, tendono a evocare vecchi dualismi come quello tra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti: un contrasto che nel 2011 portò alla caduta del governo di centrodestra e all’arrivo del «tecnico» Mario Monti. Non si è a questo punto. Anzi, l’accelerazione di Renzi rimane forte, nonostante resistenze evidenti e a volte strumentali; e l’opinione pubblica spera che ce la faccia. Il problema è che le sponde cercate a livello continentale si stanno rivelando scivolose. L’ipotesi di superare il 3 per cento senza pagare un prezzo in termini di procedure di infrazione e di isolamento, resta un azzardo.
Un critico severo dell’esecutivo di Enrico Letta e sostenitore iniziale di Renzi come il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ieri ha dato giudizi irritualmente severi sull’operato di Palazzo Chigi. Sottolineando la freddezza della Merkel nei confronti del premier a Berlino; ironizzando sugli annunci di Renzi nel presentare i suoi provvedimenti; rifiutandosi di dare giudizi su un capo del governo che, a suo avviso, «sta ancora facendo i compiti a casa». Sono prese di posizione che segnalano come minimo un certo nervosismo; e non aiutano a costruire intorno al governo quel clima di fiducia invocato in questa fase difficile. Ma forse è bene che Renzi si prepari a tagliare la spesa pubblica avendo un quadro fedele di difficoltà acuite dalla volontà di fare presto.

Corriere 22.3.14
Il premier e il debito «per colpe altrui»
L’insofferenza per il peso dell’eredità di un’altra classe politica
di Marco Galluzzo


BRUXELLES — Si toglie la giacca, resta in maniche di camicia, prende in giro il suo portavoce, scherza con i colori (juventini) della cravatta di un cronista, inverte la struttura delle conferenze stampa europee: elimina il tavolo che usavano gli altri premier, resta solo con un podio davanti alla stampa, non risponde ad una domanda per volta, ne prende sei una dopo l’altra, le appunta, e risponde tutto d’un fiato. Una lunga risposta a tanti interrogativi e poi via, «dobbiamo scappare, ce ne torniamo in Italia».
Matteo Renzi ammette un noviziato, «qui sono un novellino, sono stato anche ad imparare», ma al primo Consiglio europeo ordinario rompe protocolli e scompagina alcune tradizioni. Ha chiarito i dubbi dei media? Sicuramente ha sorpreso. E tenuto la sua linea: «Rispetteremo tutte le regole europee, ma è chiaro che l’Italia non può continuare a pagare solo per i debiti del passato, deve cominciare a pagare per il suo futuro».
È il cuore del messaggio che sta cercando di imporre all’attenzione dei partner: la Ue ha bisogno dell’Italia e non può non prendere in considerazione la necessità di una flessibilità negli investimenti pubblici. I trattati europei li rispetterà, con tutti i vincoli di bilancio, ma è certo che si batterà per cambiare alcune clausole, e questo perché «devo dare risposte alle famiglie italiane e ai nostri figli non solo rispondere degli errori dei padri». In sintesi non possiamo occuparci solo del fardello del debito e «lo dico da padre: spendiamo più per gli interessi sul debito che per scuola e università. Questo atteggiamento ha radici storiche, ma la politica vincerà se riusciremo a invertire».
Questione politica prima che tecnica: di questo il premier discute nelle pause del Consiglio con gli altri leader, mentre trova orecchie pronte ad ascoltare persino in Cameron e nell’olandese Mark Rutte, suo coetaneo. Per i vertici istituzionali della Ue, Barroso e Van Rompuy, c’è un margine di ambiguità che non viene chiarito. Per lui è tutto molto chiaro: l’Italia rispetterà le regole dei trattati sulle regole di bilancio, ma non potrà rispondere solo a questi impegni, ne ha altri e altrettanto importanti, «il mio obiettivo è far sorridere i cittadini italiani», non il presidente della Commissione o del Consiglio europeo.
L’esordio in conferenza è volutamente informale: «Ma quanti siete? Tutti italiani? Potremmo fare una spending review pure sulla stampa. Solo noi la dobbiamo fare? Scherzo...». Il riassunto dei lavori del vertice è esposto con un certo distacco, «si lavora anche quando si cena». Mentre va via dal palazzo del Consiglio lo circondano decine di telecamere: si concede, nei corridoi si crea una sorta di mucchione itinerante che ricorda le giornate europee del Cavaliere. Lo stile si mischia ai contenuti.
Anche se assicura che non era la sede, che nessun tipo di richiesta è stato avanzato in modo formale, comunque insiste, «va trovata una soluzione al meccanismo burocratico», ovvero alla gabbia di limiti di bilancio entro cui il nostro Paese è costretto. E l’esempio è circostanziato: oggi l’Italia spende più per pagare gli interessi sul debito accumulato da una classe politica che non è più al potere («e per questo si è arrivati alla nostra generazione») che per l’educazione. Per Renzi qualcosa non torna, «se noi non abbiamo la possibilità di cofinanziare i fondi europei perché superiamo i limiti del patto è evidente che non solo diamo x e riceviamo x meno il 30, ma poi non riusciamo a spendere x meno 30 perché la nostra parte per cofinanziare viene bloccata dal patto di Stabilità».
Un paradosso e un controsenso: «Non riusciamo più a investire sul nostro futuro, è uno schema che va cambiato», commenta tornando a Roma. Abbiamo performance economiche di tutto rispetto, l’avanzo primario, i record della nostra manifattura, l’export, ma delle regole «anacronistiche» ci impediscono di invertire la tendenza. E se Barroso e Van Rompuy sorridono «sono contento per loro, ma il mio obiettivo è far sorridere le famiglie italiane. L’Italia non prende ordini». L’offensiva contro «i vincoli astratti» della Ue è appena cominciata: Barroso gli ricorda che «non si cresce con la spesa pubblica», lui non la pensa allo stesso modo .

il Fatto 22.3.14
Per l’uomo della cricca Renzi e Carrai “sono la stessa testa”
L’amico che ha pagato l’affitto al sindaco teneva i rapporti del Comune con il costruttore Fusi
di Davide Vecchi


Ci si rimette con il progetto in mano a vedere cosa si può fare traendone il meglio reciprocamente? Perché il meglio dovete trarne voi come imprenditori e noi come Comune”. Così Marco Carrai parlava a Lorenzo Nencini, incaricato da Riccardo Fusi a creare rapporti nell’amministrazione guidata da Matteo Renzi. Tanto che poi lo stesso Fusi incontrerà di persona il sindaco. L’intercettazione è del 2 settembre 2009. La giunta dell’attuale premier si era da poco insediata.
QUELLO che oggi si dichiara solo un amico del premier e che ha confermato di avergli pagato casa per tre anni in centro a Firenze, abitazione in cui Renzi prese anche la residenza, all’epoca parlava a nome dell’amministrazione comunale. Pur non avendo incarichi formali. Quelli sarebbero arrivati dopo. Come consigliere particolare del sindaco, il 25 settembre, nonostante già fosse responsabile dell’associazione Noi Link creata per raccogliere fondi a favore dell’attività di Renzi. Poi lo sarà anche della Fondazione Big Bang e siederà in Firenze Parcheggi prima di insediarsi alla guida dell’Adf, società che gestisce l’aeroporto cittadino e nell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze. “Non sono un politico, sono un imprenditore”, ha ribadito più volte negli ultimi giorni Carrai. Eppure queste intercettazioni dimostrano che la parola di Carrai valeva quanto quella di Renzi . “Sono la stessa testa”, almeno per i suoi interlocutori.
Il due settembre Nencini telefona a Fusi per riferire l’esito degli incontri avuti in mattinata. “Sono appena rientrato in ufficio dopo quell’incontro che ti avevo detto (…) lì ho incontrato tutti: sindaco, vice sindaco... quindi Renzi, Nardella... e poi sono andato a pranzo con questo Cerrai (Carrai, annotano gli inquirenti)... questo Cerrai oltre a essere il migliore amico di Renzi è proprio non si può neanche dire il ‘braccio destro’ è la solita testa; nel senso che quello che dice Cerrai è quello che dice Renzi e viceversa (...) ha potere decisionale”. I due, riferisce ancora Nencini, hanno parlato dei progetti che stanno particolarmente a cuore alla Btp di Fusi, lavori oggi ancora bloccati: l’area del Panificio militare e quella della Manifattura Tabacchi. Io, riferisce Nencini, ho detto: “Guarda... Marco... a noi non ci pare il vero... se ci si crea la possibilità di sedersi a un tavolo e sfruttare al meglio quell’area ... ma sfruttare vuol dire ... per il Comune che ne tragga il miglior beneficio e per noi imprenditori se ne tragga perlomeno il nostro (...) ci fa solo piacere ma con l’amministrazione di prima avevan fatto uguale... perché ...”. “Si ... si... so tutto... so tutto... so tutto”, lo interrompe Carrai. “In finale - conclude Nencini - mi ha detto: “Dammi questi dieci... una decina di giorni... mi riunisco con tutti ... ti richiamo ... ci si rivede... si mette le cose sul tavolo... e si snocciola il problema... e si decide che fare”. I contatti proseguono.
SI ARRIVA all’incontro tra Fusi e Renzi il 21 ottobre. Questa volta è l’imprenditore a chiamare Nencini e spiegare come portare a casa la partita dei lavori. Nencini, dice Fusi, tiene i rapporti con Carrai, mentre Egiziano Maestrelli (altro imprenditore toscano) ha contatti con l’allora vicesindaco, poi parlamentare e ora candidato a sindaco di Firenze, Dario Nardella.
“Sono uscito ora”, esordisce Fusi , alle 20.50. “Ho fatto un incontro fino ad ora con il sindaco (...) e quindi praticamente a me ha dato tutte le linee guida (...) più ha detto... ha già dato mandato all’avvocatura del comune di procedere in questo senso... mi ha autorizzato a dire che io stasera ho incontrato lui (…) e quindi te domani mattina se tu vai lì a parlare con Carrai tu gli puoi dire tranquillamente quello che ho detto io ‘le linee guida le ha già date il sindaco”. Nencini ribatte: “Sì, ma vedrai lui le saprà di già... perché come te chiami me sicuramente Renzi avrà chiamato Carrai”.
Fusi: “Sì ma per non mettere in difficoltà nessuno (...) perché ognuno dei suoi parla... con te ci parla Carrai ... con il Maestrelli gli telefona quell’altro ... Nardella”. Prosegue Fusi. “Lui mi fa: ‘Riccardo le linee guida sono queste, te dai all’avvocato Traina queste linee... si va avanti così... perché io lo voglio fare in tempi da record’.. quindi te domattina tu vai lì e tu gli dici in questo modo”.
I LAVORI non sono mai iniziati: Fusi, coinvolto nell’inchiesta sui grandi appalti della cosiddetta Cricca, è finito in carcere. Ma i progetti sono in Comune e lunedì prossimo arriveranno sui banchi del Consiglio comunale che voterà il regolamento urbanistico che riguarda le strutture care a Fusi. Va detto che l’area da costruire prevista nel progetto iniziale è stata ridotta da 100 mila metri quadrati a 88 mila. Da allora Carrai ha deciso di lasciare ogni tipo di incarico a Palazzo Vecchio. Si è seduto a Firenze Parcheggi e poi in Adf, preoccupandosi però di pagare l’affitto della residenza fiorentina dell’amico Matteo, almeno fino al 23 gennaio 2014.
Oggi Carrai è all’estero. La Procura, che ha aperto un fascicolo su via degli Alfani, attende il suo rientro per sentirlo come persona informata sui fatti. Lui ieri ha contattato un penalista.

il Fatto 22.3.14
Di Battista (M5S): il premier truffò, Orlando intervenga

Il caso della pensione di Matteo Renzi finisce in Parlamento. Anzi, sul tavolo del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, sottoposto del premier, a cui è rivolta l’interrogazione parlamentare di Alessandro Di Battista. Il deputato M5S prende le mosse dall’articolo del nostro Marco Lillo che aveva sollevato l’anomalia: il 27 ottobre 2003, un giorno prima della candidatura a presidente della Provincia di Firenze, Renzi viene assunto come dirigente dalla società di famiglia, la Chili Srl. In base alla legge, una volta eletto gode dell’aspettativa prevista e quindi contributi pensionistici e accantonamento per il Tfr, vengono versati dalla Provincia e poi dal Comune. Si tratta di 3.240 euro al mese più gli oltre 28 mila euro di Tfr. Per la stessa pratica l’ex ministra Idem è stata indagata a Ravenna per aver “truffato il Comune”. Cosa intende fare “il Ministro” su Renzi chiede Di Battista?

il Fatto 22.3.14
Moretti difendo lo stipendio Renzi lo taglia:”capirà”
Il numero uno di Ferrovie (873 mila euro nel 2012) si ribella: “i dirigenti andranno via”. Dietro lo scontro, la mancata nomina a ministro
di Stefano Feltri e Carlo Tecce


La ritorsione di Mauro Moretti covava dal 21 febbraio. Quando Matteo Renzi, trafelato, uscì dal colloquio con Giorgio Napolitano con la lista dei ministri senza l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato che, ormai pronto al salto in politica, aveva già riunito i più stretti collaboratori per un brindisi di commiato. Va letta con questa premessa la minaccia d’addio di Moretti, che s’è scagliato contro Renzi per l’annunciato taglio agli stipendi: “Lo Stato può fare quello che desidera, sconterà poi il fatto che una buona parte di manager andrà via. Questo lo deve mettere in conto”. E chi lo deve mettere in conto, Renzi, lo liquida con una battuta rapida, non equivocabile: “Confermo l’intervento, Moretti capirà”. Il numero uno di Ferrovie, che s’immaginava già ministro del Lavoro dopo otto anni a occuparsi di treni e rotaie, dovrebbe rinunciare a una parte consistente degli 873.666 euro, già considerati risibili rispetto ai colleghi europei: “Il mio omologo tedesco prende 3 milioni”, arringa Moretti. Nel pomeriggio, torna in difesa: “Mi fido di Renzi”
La lotta di Scaroni per restare come presidente
I milioni per i manager sono abituali nelle grandi aziende con azionista il Tesoro. Ormai il totonomine impazza e le indiscrezioni si rincorrono. Seppur i nuovi vincoli ministeriali spingano Paolo Scaroni verso l’uscita da Eni, ci sarà un estremo tentativo per ottenere una conferma col ruolo minore di presidente (quello attuale, Giuseppe Recchi, è in corsa per la presidenza di Telecom). Scaroni ha nove anni di relazioni da spendere, soprattutto con i russi: il governo teme il rischio di avere complicazioni geopolitiche se la strategia del cane a sei zampe verrà stravolta. Ma per praticare il rinnovamento senza rivoluzioni traumatiche, la candidatura più solida è quella di Leonardo Maugeri, fiorentino, ora consulente di Barack Obama, già capo dell’ufficio studi di Eni, poi uscito dall’azienda per insegnare ad Harvard. Il contatto tra Renzi e Maugeri sarebbe diretto, qualcuno evoca un coinvolgimento di Marco Carrai che non sa più come smentire questo ruolo da “Gianni Letta del renzismo” che, giura lui, è solo un’invenzione dei giornali: in queste settimane di trattative e indiscrezioni, s’è vociferato anche di un incontro a Roma tra Renzi e Maugeri.
La “cena conviviale” per la compagnia telefonica
Il prossimo assetto di Telecom va a incocciare la delicata tornata di nomine. Oltre a Recchi, anche Flavio Cattaneo farà il suo ingresso in Telecom: consigliere indipendente, per il momento, quindi non coinvolto nella gestione. Da anni Cattaneo è considerato un papabile per la poltrona di ad di Telecom. Alberto Nagel, capo di Mediobanca (che è azionista della holding di controllo di Telecom, Telco) lo stima molto, tanto che dell’ipotesi di promuovere Cattaneo – in procinto di lasciare Terna – al posto dell’attuale ad Marco Patuano si sarebbe discusso anche durante una cena a casa Nagel, a Milano, qualche giorno fa. Cattaneo smentisce “categoricamente” anche di essere stato alla cena. Da Mediobanca precisano che era un ricevimento conviviale e che non è lì che si prendono decisioni simili: in vista della assemblea Telecom, Nagel sostiene la lista che vede Patuano come candidato a fare ancora l’ad. Un domani chissà. Se Maugeri dovesse conquistare Eni, il posto vacante di Enel – pare scontata la separazione dopo tre mandati di Fulvio Conti – potrebbe spettare a Francesco Caio, mister Agenda Digitale, molto vicino a Enrico Letta. Ma la promozione di Francesco Starace, che gestisce con approvazione unanime la controllata Enel Green Power, è molto probabile. Un po’ ovunque, senza una destinazione ancora precisa, aleggia il ritorno di Franco Bernabé: Finmeccanica, un’ipotesi; Poste, un’avventura. Perché per la poliedrica società di servizi, palazzo Chigi vorrebbe un manager di finanza, e pare sia meno difficile del previsto convincere l’apprezzato amministratore delegato di Generali, Mario Greco. In movimento, dopo la breve esperienza al Tesoro, c’è pure Fabrizio Saccomanni. Altro economista in corsa: Lorenzo Bini Smaghi, presidente di Snam. Quando parte un toto-nomine, Bini Smaghi c’è sempre.

il Fatto 22.3.14
Dai 2,2 milioni di Sarmi ai 750mila di Pietro Ciucci


È STATO esattamente di 873.666,03 euro il compenso 2012 dell’a.d. Fs, Mauro Moretti, che oggi ha rinfocolato le polemiche sugli stipendi dei manager di nomina pubblica quando non politica. Il presidente della stessa società, Lamberto Cardia è stato remunerato sempre nel 2012 secondo il sito del Mef con 300 mila euro tondi tondi, più del collega Franco Bassanini della Cdp (280 mila), ma molto meno di Giovanni Gorno Tempini, a.d della Cassa che ha incassato 1,035 milioni per guidare la leva finanziaria per eccellenza del Tesoro. Ma a guidare la lista tra le aziende a partecipazione pubblica non quotate c’è certamente la guida operativa di Poste, Massimo Sarmi, con oltre 2,2 milioni per le doppie cariche di a.d. e d.g. Al suo presidente, Giovanni Ialongo, sono andati comunque oltre 900 mila euro. Di tutto rispetto anche la retribuzione annua del presidente dello stesso ente, Andrea Monorchio, ex direttore generale del Tesoro: poco meno di 226 mila euro. Tra i manager più pagati c'è anche Domenico Arcuri, nel 2012 remunerato con quasi 800 mila euro. Dietro di lui l’amministratore unico di Anas, Pietro Ciucci (750 mila).

il Fatto 22.3.14
Il senatore Pd Massimo Mucchetti
“In Senato processiamo i top manager in scadenza”
intervista di Stefano Feltri


Conoscere per decidere: la commissione Industria del Senato, guidata dal senatore Pd Massimo Mucchetti, sta analizzando i risultati delle grandi aziende controllate dallo Stato e interrogando i loro top manager. Obiettivo: approvare una risoluzione che dia al governo un indirizzo su come comportarsi nella stagione delle nomine pubbliche in corso. Sotto esame ci sono i risultati di Terna, Finmeccanica Enel ed Eni sulla base di una trentina di quesiti inviati a Flavio Cattaneo, Alessandro Pansa, Fulvio Conti e Paolo Scaroni, i capi azienda in scadenza.
Il sottosegretario Angelo Rughetti ha detto: tutti a casa i manager che hanno fatto piú
di tre mandati. Senatore Mucchetti, è d’accordo?

Tuttia casa è un cult sull’8 settembre. L’Italia di oggi è diversa da quella del 1943. Ma il governo Renzi non può non voltare pagina. Il criterio dei tre mandati è ragionevole, ma prim’ancora vengono i risultati. Ci fosse un Jack Welch me lo terrei vent’anni.

Ne vede in giro?

Neanche l’ombra, ma qualche bravo c’è. Le aziende pubbliche hanno bisogno di manager capaci, meglio se senza padrini.

Come Vittorio Colao e Andrea Guerra?

Due star. Peccato per noi che, da persone serie, intendano onorare gli impegni che già hanno con Vodafone e Luxottica. A parlarne ancora rischiamo di stendere cortine fumogene sulle scelte vere.

Direte al governo chi licenziare e chi confermare?

La designazione degli amministratori spetta al ministro dell’Economia in raccordo con il premier e i ministri dei settori di riferimento. La nomina alle assemblee. Ma prima va dato un giudizio sui risultati. E questo lo può dare anche il Parlamento. Si potrà poi cambiare uno che ha fatto bene perché si ha l’asso nella manica. Arduo riconfermare chi ha deluso.

Queste pagelle non le dovrebbe dare il Tesoro?

Il ministero sta cominciando, in passato questo lavoro non é stato fatto. O non se ne è dato conto né al parlamento né al pubblico.

Avete giá sentito i vertici di Terna e Fin-meccanica e presto sentirete Enel ed Eni.
Prime impressioni?

I mercati apprezzano la lunga gestione di Flavio Cattaneo e quella, appena iniziata, di Alessandro Pansa. Ma nella valutazione finale entreranno anche altri aspetti.

E su Eni ed Enel?

Non posso anticipare i liberi convincimenti che la commissione si farà al termine dei lavori.

Da giornalista lei si é occupato molto dell’Eni.

Ricordo i rapporti dell’Eni con il Cremlino. I contratti take or pay, l’affare Yukos. Nel 2005 un pericoloso contratto con Gazprom venne fermato dai consiglieri Clo’, Colombo e Fruscio.

Colombo l’attuale presidente dell’Enel

Sí, proprio lui.

Giuseppe Recchi, presidente uscente dell’Eni, ora punta alla poltronissima di Telecom. Si ipotizza quindi un passaggio di Scaroni alla presidenza di Eni e magari Conti a quella Enel.

Pochi se ne sono accorti, ma a metà marzo Eni ed Enel hanno stabilito che il presidente del loro consiglio sia indipendente fin dalla prima nomina. Scaroni e Conti non hanno questa caratteristica.

Nel vostro questionario valutate anche i profili etici. Il governo può indicare un inquisito in un cda?

La direttiva del Tesoro esclude chi abbia subito condanne o sia stato rinviato a giudizio per taluni reati o chi abbia patteggiato, a meno che, dico io, non sia intervenuta l’estinzione del reato. Ma resta al governo il giudizio di opportunità.

Valutate anche le remunerazioni.

Cattaneo sta sui 3 milioni all’anno, Pansa intorno a 1,1 milioni. Valuteremo anche i paracadute di fine mandato, che non sempre ci sono, e il rapporto tra la top compensation e il costo del lavoro medio pro capite.

Scaroni incassa 6,4 milioni, Conti oltre 4...

Più ricche buonuscite.

Sono i comitati per le remunerazioni a fissare queste cifre. A prezzi di mercato, dicono.

Troppo spesso in questi comitati si consumano favori reciproci. Si sente perfino dire che, se non si paga tanto, il mercato penalizza. Ma non è vero. Finmeccanica guadagna in Borsa avendo tagliato i principali compensi. Total va meglio di Eni pur pagando il suo presidente e direttore generale la metà del nostro. Ma la tesi per cui il capo delle Fs deve guadagnare di meno di un conduttore tv è populismo puro.

Chiedete conto anche delle spese per le relazioni esterne. Come mai?

Attraverso pubblicità, sponsorizzazioni e consulenze, i capi azienda possono creare il consenso attorno a sé nella politica e nei media. Non dico che lo fanno, ma lo potrebbero fare.

Repubblica 22.3.14
Ma la vera trincea è a Palazzo Chigi i super-dirigenti resistono allo sfoltimento
Inapplicata la norma che prevede una riduzione del 20%
di Federico Fubini



È LA sfida della porta accanto. Renzi punta molto sul taglio del costo dei dirigenti dello Stato per far quadrare i conti di quest’anno. Probabilmente però nemmeno il premier immagina quanto vicina a sé sia la fonte del problema che sta cercando di risolvere.
NON esiste in Italia un’amministrazione importante e emblematica come la presidenza del Consiglio, ma forse non ce n’è neppure una così pronta a sfidare tutto e tutti pur di non arretrare di un millimetro dai propri privilegi.
Da mesi Palazzo Chigi avrebbe dovuto procedere a una riduzione dei dirigenti di prima fascia in eccesso, secondo quanto impone la legge 95 del 15 giugno 2012. Quest’ultima, passata dal governo di Mario Monti, prevede una «riduzione delle dotazioni organiche dirigenziali» del 20%. In sostanza, a partire della presidenza del Consiglio, Monti aveva già deciso il taglio di un direttore generale di ministero ogni cinque.
A Palazzo Chigi non è successo. Forse ancora più sorprendente è che i mandarini della presidenza del Consiglio ancora oggi preferiscono sfidare la legge e smentire se stessi, pur di non piegarsi ai loro obblighi e procedere a quei tagli. Neanche il cambio di governo e del segretario generale della presidenza del Consiglio, con l’uscita di Roberto Garofoli e l’arrivo di Mauro Bonaretti, sembra aver sbloccato la situazione.
Per capire perché bisogna fare un passo indietro, al 2012. Le legge Monti del 15 giugno di quell’anno prevede che il 20% dei dirigenti di prima fascia siano messi in pensione non appena maturano il diritto, peraltro godendo di un trattamento privilegiato: possono ritirarsi godendo delle condizioni precedenti alla riforma Fornero.
Il problema è che per decidere se un organico è in soprannumero, bisogna prima sapere com’è composto. E per fare luce su questo aspetto è necessario che l’amministrazione coinvolta pubblichi i propri «ruoli dirigenziali », cioè un elenco di coloro che ne fanno parte e da quando. Peccato però che sul sito Internet del governo quell’aggiornamento sui dirigenti di prima fascia di Palazzo Chigi sia stato tenuto fermo, per l’appunto, al primo giugno 2012. Congelato esattamente due settimane prima che la legge Monti lanciasse i tagli in caso di soprannumero negli organici in attività al 15 giugno. E poiché i «ruoli» di Palazzo Chigi non sono mai stati aggiornati per il pubblico, non sono neppure stati dichiarati esuberi e pensionamenti fra i dirigenti. Una scelta in violazione del decreto 33 del 2013 sulla trasparenza delle amministrazioni che, di fatto, aiuta anche a eludere la legge sul taglio degli alti dirigenti.
Il 2 dicembre scorso Repubblica segnalò il caso e due giorni dopo Garofoli, allora segretario generale di Palazzo Chigi, rispose con una lettera. Il numero uno dei mandarini di governo promise: «La Presidenza (...) provvederà nelle prossime ore ad adempiere gli obblighi di pubblicità», cioè ad aggiornare lo stato degli organici sul proprio sito Internet come fanno tutti gli altri ministeri. Da allora sono passati quasi quattro mesi e quella promessa è stata tradita. È successo l’opposto di ciò su cui Garofoli si era impegnato. Anziché «adempiere gli obblighi di pubblicità», Palazzo Chigi ha rimosso dal sito anche gli organici vecchi di quasi due anni. Si può forse essere perdonati se si pensa che lo ha fatto perché una loro attenta lettura faceva sospettare che, in effetti, ci sono dirigenti da mettere in esubero.
Nel frattempo Garofoli, uscito da Palazzo Chigi con l’avvento di Renzi, è stato premiato con il posto di capo gabinetto del nuovo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Il suo successore Mauro Bonaretti, un fedelissimo del sottosegretario alla presidenza Graziano Delrio, per ora non ha cambiato nulla di ciò che ha lasciato Garofoli. I «ruoli» dei dirigenti di prima fascia restano nella nebbia e, con loro, vi resta qualunque riduzione del personale e dei relativi costi.
Per Renzi non è un dettaglio, ma un test decisivo: sarà difficile per lui chiedere sacrifici ai manager pubblici in tutt’Italia, se non riesce a far rispettare la legge a quelli che lavorano nel suo stesso corridoio. Carlo Cottarelli, il commissario alla spending review, ha mostrato al premier che i più alti dirigenti dello Stato guadagnano molto più rispetto dei colleghi degli altri Paesi europei. I loro compensi sono di 12,6 volte il reddito medio pro-capite degli italiani, contro le 4,9 volte della Germania e le 6,4 della Francia. È ora di rimediare. Ma prima o poi qualcuno a Palazzo Chigi dovrà decidersi a dare l’esempio nella direzione giusta. Non nell’altra.

l’Unità 22.3.14
Lista Tsipras senza le firme Appello di Spinelli a Boldrini
La garante: «Da rivedere le regole che impongono di raccogliere almeno tremila sottoscrizioni in ogni regione. È sproporzionato rispetto agli abitanti»
di Caterina Lupi


Si terrà mercoledì prossimo l’incontro richiesto dalla lista Tsipras e subito concesso dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, sulle modalità di presentazione delle liste per le elezioni europee. Sulle regole del voto di fine maggio la Camera inizierà a brevissimo l’esame del testo approvato giovedì dal Senato e che ora torna a Montecitorio in seconda lettura. E la lista de L’Altra Europa, alle prese con più difficoltà del previsto nella raccolta delle firme per potersi presentare alla competizione del 25 maggio, punta a un “ritocco” perché l’impresa diventi più facile.
È con quest’intenzione, di fatto, che Barbara Spinelli, nel comitato dei garanti e candidata della Lista Tsipras, ha chiesto un incontro urgente alla Boldrini, per far presente «un problema che con un semplice emendamento potrebbe trovare soluzione nell’ambito di quello stesso provvedimento di legge». Ed ecco il punto: le liste delle forze non presenti in Parlamento che si vogliono presentare alle europee vanno sottoscritte da almeno 30mila cittadini in ogni singola circoscrizione elettorale, per un totale quindi di 150mila firme. Il vincolo ulteriore però è che almeno il 10% di quelle firme, quindi almeno 3mila, siano raccolte in ogni singola Regione. «Noi riteniamo tale norma- scrive Barbara Spinelli palesemente ingiusta. La Lombardia, ad esempio, che ha 9.939milioni di abitanti viene considerata allo stesso modo della Valle d’Aosta che ha una popolazione di circa 128mila abitanti. Entrambe devono raccogliere tremila firme almeno. Pena l’invalidazione della lista per tutta la circoscrizione Nord Ovest». «Facciamo quindi appello alla sua sensibilità e al suo alto ruolo di garante del funzionamento di un istituto fondante della nostra democrazia, quale il Parlamento, affinché sia possibile nella discussione alla Camera inserire nel testo di legge sopra citato un emendamento che preveda un criterio di proporzionalità, anche a scaglioni, tra il numero delle firme richieste e quello degli abitanti di ogni Regione».
Perché tremila firme per Regione non sono poi molte, ma evidentemente rischiano di essere uno scoglio per una lista come quella legata al nome di Tsipras, reduce da una serie di incidenti interni che di sicuro non hanno giovato alla sua capacità di convincere e trovare sostegno. Tra candidati che se ne sono andati sbattendo la porta, scontri e liti interne, sembra infatti che L’Altra Europa non abbia avuto un attimo di pace. Ultimo divorzio eccellente, quello di Andrea Camilleri e Paolo Flores D’Arcasi, che hanno lasciato il comitato dei garanti accusando gli altri di essere stati estromessi dalla gestione delle candidature di Taranto. Un vicenda, questa, legata alla candidatura di Antonia Battaglia, attivista di Peacelink, che ha deciso di uscire di scena e abbandonare il campo, protestando per la presenza in lista di due esponenti di Sel. Del resto lo stesso Camilleri si era già ritirato dalla corsa, tornando subito indietro sulla sua candidatura. E nella breve vita della Lista, non è ancora tutto, perché ci sono da mettere nel conto le liti sulla candidatura dell’ex no global Luca Casarini - sostenuto dai tre garanti Spinelli, Viale, Revelli e dallo stesso Tsipras ma visto come fumo negli occhi da Camilleri, Flores e Gallino - che alla fine è riuscito a piazzarsi tra i candidati, senza evitare però di scatenare altri mal di pancia.
Altro caso, l’esclusione dalle liste dell’imprenditrice palermitana Valeria Grasso, trovata a prendere parte a un’iniziativa di Fratelli d’Italia, di cui del resto in molti siti web veniva data come rappresentante, nonostante le sue rassicurazioni sul non aver mai avuto lei, alcuna tessera di partito. Un’esclusione in seguito alla quale la Grasso si è congedata con parole pesantissime: «Sono venuta a conoscenza della mia esclusione dalla lista senza aver ricevuto nessun avviso o chiamata diretta da alcuno dei garanti. Il silenzio intorno mi ha fatto sentire sola come quando ho dovuto affrontare le conseguenze delle denunce alla richiesta del pizzo», è il parallelo che ha voluto fare.

il Fatto 22.7.14
Ardue imprese
Tsipras, le firme incagliate in Val d’Aosta
di Salvatore Cannavò


Al Comitato Tsipras ne sono sicuri: “Noi le 150 mila firme necessarie a presentare le liste non solo le raccogliamo ma le superiamo”. Dichiarazione spavalda ma supportata dal fatto che in meno di due settimane le adesioni raccolte dai promotori sono state già 44 mila. Il problema di questa iniziativa elettorale nata dall’appello di un gruppo di intellettuali, tra cui Barbara Spinelli, Marco Revelli, Luciano Gallino, in vista delle prossime europee e sponsorizzata dal leader della sinistra greca, Alexis Tsipras, è che sarà difficile vincere la “guerra” di Val d’Aosta. La piccola regione al confine della Francia, infatti, per effetto della legge che regole le elezioni europee, quella del 1979, è una barriera decisiva per chiunque voglia presentare a Strasburgo un simbolo tutto nuovo. In questo caso, infatti, in assenza di un simbolo già presente nelle varie assemblee legislative, europea o nazionali, le firme da raccogliere e da certificare sono almeno 30 mila per ognuna delle cinque circoscrizioni nazionali (Nordovest, Nordest, Centro, Sud e Isole). Ma di queste trentamila, almeno il 10%, cioè tremila, devono essere raccolte in una sola regione, sia essa la Lombardia, con 9 milioni di abitanti, o, appunto, la Val d’Aosta, che di abitanti ne ha poco più di 100 mila. Se manca questo requisito, la lista viene invalidata in tutta la circoscrizione, in questo caso il Nordovest dove ci sono città come Torino e Milano. Un’eventualità che renderebbe vana qualunque aspirazione parlamentare.
PER QUESTO, ieri, Barbara Spinelli, che della lista Tsipras è anche candidata, ha scritto alla Presidente della Camera, Laura Boldrini, per chiedere un incontro urgente in modo da poter sanare, in qualche modo l’anomalia. “Facciamo appello alla Sua sensibilità - scrive la giornalista-scrittrice - affinché sia possibile nella discussione alla Camera inserire nel testo di legge sopra citato un emendamento”. Il riferimento di Spinelli è al testo legislativo, appena approvato dal Senato, che modifica alcune norme, tra cui la parità di genere, per le elezioni europee. Il testo sta per passare alla Camera e ci sarebbe il tempo per inserire, come chiede Spinelli, “un criterio di proporzionalità, anche a scaglioni, tra il numero delle firme richieste e quello degli abitanti di ogni regione”. L’ipotesi è di rapportare il numero di firme agli abitanti e poter scendere, così, in Val d’Aosta a 1000-1500 firme.
“Il problema - spiegano dal comitato - è che questa legge non è mai stata applicata, nessuno la conosce e nessuno si è cimentato con la Val d’Aosta. In passato c’è sempre stata una deroga all’ultimo minuto per abbassare la soglia di firme richieste”. Boldrini, che è stata eletta alla Camera sulle liste di Sel, a sua volta impegnata nel sostegno a Tsipras, ha accettato di incontrare il Comitato mercoledì prossimo. Lei stessa non conosceva l’esistenza di questo obbligo. I promotori della lista, però, non vogliono passare per “lagnosi” e insistono sul risultato ottenuto finora. La lista, del resto, continua a riscuotere un certo credito da parte dei sondaggisti. Per la terza rilevazione successiva, infatti, l’istituto Ixè che fornisce le rilevazioni alla trasmissione Agorà di Rai3, ieri dava la lista al 6,1%, ormai stabile da circa un mese. Un risultato molto al di sopra delle aspettative di chi, una volta raccolta le firme, avrà come obiettivo il superamento della soglia del 4% fissato dalla legge elettorale.

l’Unità 22.3.14
Grillo in tv a ruota libera contro il Pd e Napolitano
Il leader dei 5 Stelle intervistato da Mentana: «Il premier? Un bamboccione. Strappare il Fiscal Compact»
di Rachele Gonnelli


Torna in tv a ora di cena, Beppe Grillo, in una anticipazione del Tg de La7 dell’intervista data a Enrico Mentana e trasmessa in tarda serata nel programma Bersaglio Mobile. Parla di Europa? per modo di dire. Torna sul latte versato, sulla mancata collaborazione con Pierluigi Bersani dopo le politiche, che tante critiche e spaccature interne ai Cinque Stelle ha generato. Sembra quasi giustificarsi: era tutto già deciso, l’arrivo di Letta a Palazzo Chigi dato per scontato nell’invito a pranzo dell’ambasciatore inglese un mese prima del voto. Invito che Grillo e Casaleggio avrebbero rifiutato perchè, appunto, c’era Letta. «Povero Gargamella, i giochi erano già fatti, i suoi l’hanno mandato al massacro». In ogni caso - è l’altra giustificazione - «Bersani sapeva che gli avrei detto di no, lui voleva solo qualche senatore per governare lui».
Altro che europee, l’attacco è sempre al Pd. «Ora il bamboccione che è lì - intende Matteo Renzi - farà la stessa politica, continua l'agenda di Monti, di Letta, delle banche centrali», e poi a Bruxelles «è stato preso per il culo», «è finto, uno che resuscita un morto come Berlusconi... In tre si mettono in una stanza e fanno la legge elettorale? Ma con quale diritto?». Di nuovo politica interna: «E la cattiveria di dire ti do 80 euro, ti pago la pizza... Non c'è niente di scritto». Ce l’ha anche con Napolitano e la Boldrini «che non dovrebbe dirigere la Camera». E l’Europa? l’euro?. Vuole buttare il Fiscal Kompact ma più che altro è una boutade, non spiega. Del resto, a parte le ironie dello show, l’Europa è di fatto assente dalla campagna M5S. L’idea di pretendere «l’eliminazione immediata del Fiscal Compact» - non si sa se s’intende dalla Costituzione italiana né cosa c’entri in ogni caso il Parlamento europeo - e gli eurobond, minacciando un improbabile referendum per il ritorno della lira, non sembra appassionare né gli attivisti né gli elettori Cinque Stelle. Appassiona di più il referendum in Ucraina. E infatti Grillo ne parla, dando ragione a Putin.
Intanto della composizione delle liste elettorali non si sa niente. Qualche attivista timidamente chiede sul blog se ci saranno le parlamentarie, tanto più che con il voto di preferenza, è più importante operare una scelta dei nomi che sia realmente rappresentativa. Ma non c’è risposta. Si dà per scontato che decideranno tutto Grillo, Casaleggio e i fedelissimi.
La campagna elettorale però è già partita. Con due tour, di cui uno a pagamento. È lo stesso Beppe Grillo che ha già dato il via a un cartellone di omizi- show dal significativo titolo «Te la do io l’Europa». Otto spettacoli al chiuso, da Ancona a Catania e da Milano a Firenze nella prima metà di aprile. La prevendita è già iniziata e i biglietti costano da un minimo di 20 euro a 33 euro a testa, al Palalottomatica di Roma per la data finale del 14 aprile. Il comunicato che pubblicizza gli spettacoli parla di «un mostro» che «si aggira per l’Europa». Non è però il comunismo evocato come spettro nell’incipit del Manifesto di Karl Marx. Questa volta «si chiama euro», sta scritto. Uno spettro molto più concreto, sonante, eppure non meno evanescente, se si considera che non è affatto chiaro a chi finiranno gli euro - appunto - del pubblico pagante: a Grillo leader o a Grillo artista comico?.
L’altro è un giro «minore», è il non-ci-fermate-tour che fa tappa a Napoli il prossimo martedì. Star dell’occasione: il campione del grillismo parlamentare ortodosso, il giovane e telegenico Alessandro Di Battista. Qui c’è anche un camper più piccolo e si muove sfruttando le «ferie forzate» - così si legge sui manifesti - dei 26 parlamentari sospesi dalla presidenza della Camera per la bagarre in aula durante l’approvazione del decreto Imu-Bankitalia. Alcuni sono più presenti di altri, come Giorgio Sorial o Simone Valente. L’obiettivo è chiaramente quello di non lasciare la campagna elettorale per le europee unicamente agli sparsi e spesso improvvisati gruppi locali. Il M5S fa una grossa scommessa sul voto del 25 maggio, dichiarata sul blog di Grillo: «Trasformare il voto europeo in voto nazionale ». Diventare la lista italiana più votata - è il miraggio evocato dallo staff - consentirebbe di chiedere al Quirinale lo scioglimento delle Camere e le elezioni anticipate. Possibile recuperare 11 punti percentuali rispetto al più recente sondaggio Ixé che dà solidamente in testa il Pd?. È secondario. L’importante è «nazionalizzare» il voto e strutturare i suoi consensi. L’uscita dall’euro non appassiona gli italiani.

il Fatto 22.3.14
Intervista a La7
Grillo: “Ho le prove, Bersani mandato al massacro per far posto a Letta”
“Un mese prima che andasse al governo, l’ambasciatore inglese invitò a pranzo me e Casaleggio: ‘Di là c’è Enrico che vuole parlarvi’. Ce ne andammo subito”
di Luca De Carolis


Al Comitato Tsipras ne sono sicuri: “Noi le 150 mila firme necessarie a presentare le liste non solo le raccogliamo ma le superiamo”. Dichiarazione spavalda ma supportata dal fatto che in meno di due settimane le adesioni raccolte dai promotori sono state già 44 mila. Il problema di questa iniziativa elettorale nata dall’appello di un gruppo di intellettuali, tra cui Barbara Spinelli, Marco Revelli, Luciano Gallino, in vista delle prossime europee e sponsorizzata dal leader della sinistra greca, Alexis Tsipras, è che sarà difficile vincere la “guerra” di Val d’Aosta. La piccola regione al confine della Francia, infatti, per effetto della legge che regole le elezioni europee, quella del 1979, è una barriera decisiva per chiunque voglia presentare a Strasburgo un simbolo tutto nuovo. In questo caso, infatti, in assenza di un simbolo già presente nelle varie assemblee legislative, europea o nazionali, le firme da raccogliere e da certificare sono almeno 30 mila per ognuna delle cinque circoscrizioni nazionali (Nordovest, Nordest, Centro, Sud e Isole). Ma di queste trentamila, almeno il 10%, cioè tremila, devono essere raccolte in una sola regione, sia essa la Lombardia, con 9 milioni di abitanti, o, appunto, la Val d’Aosta, che di abitanti ne ha poco più di 100 mila. Se manca questo requisito, la lista viene invalidata in tutta la circoscrizione, in questo caso il Nordovest dove ci sono città come Torino e Milano. Un’eventualità che renderebbe vana qualunque aspirazione parlamentare. PER QUESTO, ieri, Barbara Spinelli, che della lista Tsipras è anche candidata, ha scritto alla Presidente della Camera, Laura Boldrini, per chiedere un incontro urgente in modo da poter sanare, in qualche modo l’anomalia. “Facciamo appello alla Sua sensibilità - scrive la giornalista-scrittrice - affinché sia possibile nella discussione alla Camera inserire nel testo di legge sopra citato un emendamento”. Il riferimento di Spinelli è al testo legislativo, appena approvato dal Senato, che modifica alcune norme, tra cui la parità di genere, per le elezioni europee. Il testo sta per passare alla Camera e ci sarebbe il tempo per inserire, come chiede Spinelli, “un criterio di proporzionalità, anche a scaglioni, tra il numero delle firme richieste e quello degli abitanti di ogni regione”. L’ipotesi è di rapportare il numero di firme agli abitanti e poter scendere, così, in Val d’Aosta a 1000-1500 firme. “Il problema - spiegano dal comitato - è che questa legge non è mai stata applicata, nessuno la conosce e nessuno si è cimentato con la Val d’Aosta. In passato c’è sempre stata una deroga all’ultimo minuto per abbassare la soglia di firme richieste”. Boldrini, che è stata eletta alla Camera sulle liste di Sel, a sua volta impegnata nel sostegno a Tsipras, ha accettato di incontrare il Comitato mercoledì prossimo. Lei stessa non conosceva l’esistenza di questo obbligo. I promotori della lista, però, non vogliono passare per “lagnosi” e insistono sul risultato ottenuto finora. La lista, del resto, continua a riscuotere un certo credito da parte dei sondaggisti. Per la terza rilevazione successiva, infatti, l’istituto Ixè che fornisce le rilevazioni alla trasmissione Agorà di Rai3, ieri dava la lista al 6,1%, ormai stabile da circa un mese. Un risultato molto al di sopra delle aspettative di chi, una volta raccolta le firme, avrà come obiettivo il superamento della soglia del 4% fissato dalla legge elettorale. Le verità di Grillo, di nuovo sul piccolo schermo. Con un aneddoto pesante, sul Letta già pronto per il dopo Bersani “tanto che l’ambasciatore inglese mi aveva organizzato un pranzo con lui”. Una posizione rumorosa in politica estera: “Rispetto il referendum della Crimea”. E un bersaglio costante, Renzi, “bugiardo e cattivo”. Camicia bianca, abbronzatura perfetta, Beppe Grillo risponde per 67 minuti alle domande di Enrico Mentana in un’intervista registrata per Bersaglio Mobile, su La 7, andata in onda ieri sera. Un cambio di strategia in vista delle Europee. “Perché in televisione ora?” inizia Mentana. E Grillo parte a raffica: “Non ho nulla contro la tv, ci sono nato, ma voglio starci a mio agio, non in in situazioni gestite da altri. Sono stufo di sentire balle su di noi”. Il giornalista tornerà alla carica: “Questa intervista è un lancio per lo spettacolo (il Te la do io l’Europa Tour, ndr)? E l’ artista si scoprirà: “Può darsi, voglio vedere se la gente è ancora disposta a pagare il biglietto per vedermi”.
SI PARTE con Renzi, e Grillo è subito feroce: “Non riesco neanche più a prenderlo per il culo: è cattivo, spietato, mente su tutto”. Durante l’intervista lo chiama “pupazzo”, “sciocchino”, “ebetino”, “bambinone”. E poi: “In Europa lo hanno preso per il culo. Ma non voglio neppure nominarlo”. Poi Grillo piazza l’inedito: “Bersani l’hanno mandato al macello dai suoi, c’era un piano e io ho la prova. Un mese prima di Gargamella (l’ex segretario Pd, ndr) l’ambasciatore inglese invita me e Casaleggio a pranzo. Arrivo e scopro che al piano di sopra c’è Letta che aspetta. Me ne sono andato, ero lì per mangiare con l’ambasciatore, non con lui”. Ovviamente si parla molto di Europa. “Strappiamo il fiscal compact” ribadisce. Poi precisa: “Si può uscire unilateralmente dall’euro, ma prima andremo in Europa a chiedere la revisione dei trattati. Se non accettano faremo un referendum per decidere”. Qual è l’obiettivo di M5S alle Europee? “La forbice è tra il 20 e il 25 per cento. Se prendiamo un voto in più del Pd cosa potranno dire quelli al governo”. Mentana ribatte: “E se la gente voterà per Renzi?”. Replica : “Vuol dire che questo Paese è da recuperare”. Grillo scende in dettagli: “I candidati li sceglieremo on line”, con un doppio turno. E annuncia: “Alle Europee metteremo il recall come esiste negli Stati Uniti. Se gli elettori che ti hanno mandato in Europa ti sconfessano on line torni a casa o paghi 250mila euro. Voglio il vincolo di mandato: quando c’erano i galantuomini poteva non esserci, ora no”. Quanto agli espulsi “li abbiamo mandati via dopo tre gradi di giudizio, qualcuno aveva sentito l’odore dei soldi”. Si torna sulla politica estera, e Grillo spariglia: “C’è stato un referendum sulla Crimea, con 150 ispettori dell’Onu che hanno visionato: vi ha partecipato l’85 per cento degli aventi diritto, il 95 per cento ha detto sì. Io lo rispetto”. E ancora: “In Ucraina un governo eletto democraticamente è stato mandato via dalla piazza. Chi ha sparato sulla folla? Non i russi: forze occulte, magari gli americani”. Talvolta scivola: sulla legge Acerbo (la chiama Acerbi), su qualche dato. Ribattezza Mentana “Basaglia”, come il padre dell’omonima legge che chiuse i manicomi , non si capisce se per scherzo. Ridono forte. Si parla di Expo: “È un caso che due giorni dopo che entriamo lì partono gli arresti? Ora la magistratura si sente spalleggiata da una forza politica”. Elogia Casaleggio: “Senza di lui non ci sarebbe stato il Movimento, è un grande organizzatore. I soldi dalla pubblicità sul mio blog? Lo gestisce una società: l’anno scorso la Casaleggio è andata in rosso e il mio 740 è zero da 3 anni e mezzo”. Quindi, Napolitano: “Un 80enne che si raddoppia la carica dopo che aveva promesso di non farlo e che cancella i nastri delle conversazioni con Mancino”. E su Tsipras: “Mi piace abbastanza, dice più o meno le cose che diciamo noi. Ma non capisco perché gli italiani dovrebbero votarlo”. Sorriso, fine. Ma la campagna è appena all’inizio.

il Fatto 22.3.14
Questione Morale
Il Pd santifica Berlinguer e non pensa a Genovese
di Fabrizio d’Esposito


A ciascuno il suo Berlinguer. Dieci anni fa, nel ventennale della morte dell’ultimo, vero segretario generale del Pci, secondo la definizione del compianto Edmondo Berselli, la retorica comunista fu un po’ meno ipocrita dello tsunami di questi giorni, complice il film veltroniano. Una pellicola che rilancia il mito del Berlinguer santino e dunque sfugge e svicola dal duro compito di fare i conti con l’eredità berlingueriana. Sì, soprattutto con la questione morale. In un video del fattoquotidiano.it   la giovane vestale renziana Maria Elena Boschi è la perfetta rappresentazione di questa nuova doppiezza. Prima celebra la questione morale, poi di fronte alle domande sui quattro impresentabili del Pd al governo (Barracciu , Bubbico, Del Basso De Caro, De Filippo, senza dimenticare la richiesta d’arresto per Francantonio Genovese) scappa imbarazzata e silente. La questione morale è più che mai attuale (litania purtroppo che si alza ogni volta che si ricorda “Enrico”), anche a sinistra, e giova ricordare che fu proprio il Pci di Berlinguer a coniare l’espressione “mani pulite”. Era il 1975 e i manifesti per le amministrative avevano uno slogan fortissimo: “Noi abbiamo le mani pulite”.
Quando Fassino lo faceva giocare con la morte
L’altra sera, a Roma, all’anteprima dell’opera di Walter Veltroni c’era tutta la classe dirigente postcomunista che dieci anni fa tentò di regolare i conti con il berlinguerismo. A partire dalla questione morale, ovviamente. Il colpo più duro lo portò Piero Fassino, oggi sindaco renziano di Torino (e autocandidatosi al Quirinale tra un anno), nella sua autobiografia Per passione: “Mi è capitato spesso di pensare a Berlinguer come a un campione di scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita... guardando la scacchiera il campione si accorge che, con la prossima mossa, l’avversario gli darà scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire un minuto prima che l’altro muova”. Parole tremende, che si inseriscono nel pieno della ridondante riscoperta a sinistra di una parola d’ordine: riformista. La metafora fassiniana è fin troppo chiara. La solitudine dello scacchista Berlinguer è colpa del “ripiegamento nella predicazione moralistica” (Il Riformista del 28 agosto 2003). E questo ripiegamento, cioè “la questione morale, il mito di una propria irriducibile diversità antropologica, la parola d’ordine dell’austerità, è lo specchio di questa crisi” (sempre Il Riformista). Insomma, Berlinguer rinchiuse il Pci “in un ghetto”. Fassino all’epoca era con D’Alema e la condanna della questione morale divenne il tratto distintivo, che piaccia o no, della nuova sinistra riformista . Non solo per giustificare la normalità e il gestionismo di governo (con relativi scandali e inchieste), ma anche e soprattutto per dare un senso al dialogo con Silvio Berlusconi. Ieri Craxi, oggi Berlusconi. Fu addirittura Cesare Romiti a rinfacciarlo proprio a Fassino in un dibattito: “Enrico Berlinguer era un uomo di grande onestà morale. Evidentemente non voleva unirsi a un’altra forza politica perché per lui c’era un problema di moralità, c’era una questione che non poteva accettare”. Ieri il Psi, oggi Forza Italia.
I riformisti volevano dimenticarlo. Poi hanno preferito annetterlo
Tutto il filone riformista per la serie “Dimenticare Berlinguer”, dal titolo del libro di Miriam Mafai, trova la sua ragion d’essere nell’esponente del Pci più alto in grado che nell’estate del 1981 si oppose alla questione morale di Berlinguer, nella nota intervista a Eugenio Scalfari per La Repubblica: Giorgio Napolitano, capo dello Stato da otto anni e ospite d’onore l’altra sera all’anteprima del film. La prima reazione di Napolitano fu quella di telefonare a Gerardo Chiaromonte: “Eravamo entrambi sbigottiti perché in quella clamorosa esternazione di Berlinguer coglievamo un’esasperazione pericolosa come non mai, una sorta di rinuncia a fare politica visto che non riconoscevamo più alcun interlocutore valido e negavamo che gli altri partiti, ridotti a ‘macchine di potere e di clientela’, esprimessero posizioni e programmi con cui potessimo e dovessimo confrontarci”. Analoghe dichiarazioni, in quegli anni, le faranno D’Alema, Luciano Violante e, nei fatti, lo stesso Veltroni. Quest’ultimo, infatti, condusse la campagna elettorale del 2008 senza mai citare il suo avversario Berlusconi. Guai a demonizzarlo o a parlare dei suoi guai giudiziari o dei suoi conflitti d’interessi. Il paradosso è che tutto questo ha condotto l’odierna sinistra del Pd in un guado, senza i cosiddetti pensieri lunghi. I tatticismi che hanno consumato e dilapidato voti e credibilità da un lato hanno causato le accuse di Berlusconi sulla “sinistra giustizialista e comunista, dall’altro hanno fatto diventare Berlinguer un’icona di tutti quelli che non votano più la “ditta”, perché nauseati e sfiduciati. Ecco Antonio Di Pietro nel dicembre del 2003 contro i dalemiani: “Noi della questione morale facciamo una battaglia politica e questa battaglia viene vista con sofferenze”. L’unica eredità berlingueriana che i presenti dell’altra sera hanno custodito a lungo è quella del compromesso storico. Alias consociativismo e larghe intese. Ma si può mettere sullo stesso piano il dramma di Moro e Berlinguer con gli inciuci di D’Alema e Berlusconi, prima, e Renzi e Verdini, poi?
Il futuro è il bimbo fiorentino “che si è mangiato i comunisti”
Oggi a tirare fuori dal guado il Pd c’è Matteo Renzi, ex democristiano che è stato soprannominato “il bambino che si è mangiato i comunisti”. Allo stesso tempo la nostalgia per Berlinguer, seppure nell’eterna forma di santino, torna far piangere i postcomunisti. Prima o poi bisognerà ripartire da lì. Dalla questione morale. Dalle mani pulite.

Repubblica 22.3.14
Giorgia e Berlinguer
di Alessandra Longo


Che il «muro» fra destra e sinistra, quelle vere, non ci sia più da tempo lo dimostra anche il tweet dedicato da Giorgia Meloni al film-documentario di Walter Veltroni su Enrico Berlinguer. Ecco il testo: «Vedo “Quando c’era Berlinguer” e mi dico: dovrà tornare il tempo dei politici semplici, onesti e coraggiosi, di ogni idea». Omaggio al segretario del Pci dell’ex giovane camerata. Alleanza Nazionale, con Fini, sdoganò a Fiuggi Antonio Gramsci, mettendolo nel Pantheon delle proprie letture, ora tocca a Berlinguer. Di fronte alla storia del leader comunista, alla sua onestà intellettuale, al suo rigore, la Meloni twitta senza filtro: magari ce ne fossero altri, così. Di destra, anche di sinistra, purché puliti. E una volta tanto come non darle ragione.

Corriere 22.3.14
Occhetto e il film su Berlinguer: manchiamo noi, che siamo i suoi figli
intervista di Monica Guerzoni


ROMA — Achille Occhetto, le è piaciuto «C’era una volta Berlinguer»?
«È un film emozionante, si vede il rapporto di Berlinguer con il suo popolo. Le grandi vittorie del divorzio e dell’aborto, con quelle meravigliose piazze... Alcuni momenti mi hanno ricordato fatti ed eventi della mia vita politica, anche con lui».
Però nel film di Walter Veltroni lei è del tutto assente.
«Il fatto che io non ci sia, ha colpito anche me. Non manco soltanto io, manca tutta la generazione berlingueriana. I suoi figli, coloro che allora erano chiamati i colonnelli».
D’Alema, Fassino, Petruccioli, Turco, Mussi... E lei.
«Io ero molto vicino a lui. Potei vedere le difficoltà, la solitudine, l’amarezza dell’ultimo periodo. Nel 1984, quando gli presentai il programma della campagna elettorale con le tappe di Padova e di Comiso, lui mi guardò con un sorriso amaro».
E cosa le disse?
«“Un po’ pesante... Padova e Comiso? Ci andrò, se sarò ancora vivo”. Rimasi di ghiaccio. Lo vedevo stanco, colpito da una sorta di isolamento politico che, nell’ultimo anno, aveva anche risvolti umani. Dopo il malore a Padova, a me toccò sostituirlo a Comiso quando era ancora in coma e ricordo la tensione dei compagni. Tornato a Roma dovetti andare in tv a dare la drammatica notizia».
Ricordi dolorosi.
«Sì, che vale la pena raccontare. Nel libro La gioiosa macchina da guerra scrivo di quando Berlinguer venne in Sicilia durante la campagna sul divorzio. Io ero segretario regionale e dovevo scrivere quella parte del comizio che riguardava la regione. Eravamo in albergo, con Antonio Tatò, Berlinguer passeggiava alle mie spalle e all’improvviso mi fece una domanda. “E se cambiassimo nome al Pci? Lenin lo ha cambiato per molto meno”».
E lei?
«Io ero comunista fedelissimo e rimasi di stucco, ma lui insisteva, voleva sapere quale nome avrei messo io al partito. “Partito comunista democratico”, risposi. Berlinguer disse che era troppo poco, perché si poteva pensare che fino ad allora non eravamo stati democratici. Quelle parole davano il senso dell’irrequietezza, svelavano la sua esigenza di cambiamenti profondi».
Cambiamenti che Berlinguer non ha potuto fare.
«È così, purtroppo. Se li avesse fatti lui sarebbe stato più agevole, per il prestigio che aveva nel partito».
La tesi del film è che il Pci finisce con Berlinguer.
«Non sono d’accordo, è una tesi molto oleografica. Dopo la sua morte il Pci c’è ancora, con Natta entra in una fase di transizione dovuta al declino internazionale. Ma il Pci era vivo, tanto che molti ancora mi rimproverano per averlo chiuso».
Si è pentito?
«No, è stato l’ultimo grande atto di amore, ha impedito che andassimo a sbattere come il Partito comunista francese. Nelle narrazioni che sento sembra si sia passati direttamente da Berlinguer a Renzi e che in mezzo ci sia un vuoto. Ci vorrebbe un comitato di psichiatri per spiegare queste ricostruzioni».
Renzi nel film non c’è. Perché le sembra che Veltroni salti da Berlinguer al nuovo premier?
«Premesso che non me lo sarei mai aspettato, ci sono spiegazioni politiche e ce n’è una psicologica. Io sono stato visto come un dissacratore e c’è la rimozione di un grande dolore, il che conferma che il Pci era vivo».
Il film l’ha convinta, o no?
«Come memoria di temi e non come critica osservo che sulle donne c’è appena un cenno, mentre lui fece discorsi importantissimi. E disse cose profetiche sull’ecologia e la centralità dell’ambiente».
Quando si gira un film bisogna fare delle scelte...
«Berlinguer lanciò per primo il tema della riforma della politica, importante quanto poi dimenticato, considerato non moderno rispetto alla modernità di Bettino Craxi. Fu una pagina molto dolorosa per Berlinguer, sulla quale si poteva affondare di più il bisturi».

Repubblica 22.3.14
Nuova tegola sul pd Genovese, il Gip dispone il blocco dei beni
di A. Z.

il Fatto 22.3.14
Moretti difendo lo stipendio Renzi lo taglia:”capirà”
Il numero uno di Ferrovie (873 mila euro nel 2012) si ribella: “i dirigenti andranno via”. Dietro lo scontro, la mancata nomina a ministro
di Stefano Feltri e Carlo Tecce

La ritorsione di Mauro Moretti covava dal 21 febbraio. Quando Matteo Renzi, trafelato, uscì dal colloquio con Giorgio Napolitano con la lista dei ministri senza l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato che, ormai pronto al salto in politica, aveva già riunito i più stretti collaboratori per un brindisi di commiato. Va letta con questa premessa la minaccia d’addio di Moretti, che s’è scagliato contro Renzi per l’annunciato taglio agli stipendi: “Lo Stato può fare quello che desidera, sconterà poi il fatto che una buona parte di manager andrà via. Questo lo deve mettere in conto”. E chi lo deve mettere in conto, Renzi, lo liquida con una battuta rapida, non equivocabile: “Confermo l’intervento, Moretti capirà”. Il numero uno di Ferrovie, che s’immaginava già ministro del Lavoro dopo otto anni a occuparsi di treni e rotaie, dovrebbe rinunciare a una parte consistente degli 873.666 euro, già considerati risibili rispetto ai colleghi europei: “Il mio omologo tedesco prende 3 milioni”, arringa Moretti. Nel pomeriggio, torna in difesa: “Mi fido di Renzi”
La lotta di Scaroni per restare come presidente
I milioni per i manager sono abituali nelle grandi aziende con azionista il Tesoro. Ormai il totonomine impazza e le indiscrezioni si rincorrono. Seppur i nuovi vincoli ministeriali spingano Paolo Scaroni verso l’uscita da Eni, ci sarà un estremo tentativo per ottenere una conferma col ruolo minore di presidente (quello attuale, Giuseppe Recchi, è in corsa per la presidenza di Telecom). Scaroni ha nove anni di relazioni da spendere, soprattutto con i russi: il governo teme il rischio di avere complicazioni geopolitiche se la strategia del cane a sei zampe verrà stravolta. Ma per praticare il rinnovamento senza rivoluzioni traumatiche, la candidatura più solida è quella di Leonardo Maugeri, fiorentino, ora consulente di Barack Obama, già capo dell’ufficio studi di Eni, poi uscito dall’azienda per insegnare ad Harvard. Il contatto tra Renzi e Maugeri sarebbe diretto, qualcuno evoca un coinvolgimento di Marco Carrai che non sa più come smentire questo ruolo da “Gianni Letta del renzismo” che, giura lui, è solo un’invenzione dei giornali: in queste settimane di trattative e indiscrezioni, s’è vociferato anche di un incontro a Roma tra Renzi e Maugeri.
La “cena conviviale” per la compagnia telefonica
Il prossimo assetto di Telecom va a incocciare la delicata tornata di nomine. Oltre a Recchi, anche Flavio Cattaneo farà il suo ingresso in Telecom: consigliere indipendente, per il momento, quindi non coinvolto nella gestione. Da anni Cattaneo è considerato un papabile per la poltrona di ad di Telecom. Alberto Nagel, capo di Mediobanca (che è azionista della holding di controllo di Telecom, Telco) lo stima molto, tanto che dell’ipotesi di promuovere Cattaneo – in procinto di lasciare Terna – al posto dell’attuale ad Marco Patuano si sarebbe discusso anche durante una cena a casa Nagel, a Milano, qualche giorno fa. Cattaneo smentisce “categoricamente” anche di essere stato alla cena. Da Mediobanca precisano che era un ricevimento conviviale e che non è lì che si prendono decisioni simili: in vista della assemblea Telecom, Nagel sostiene la lista che vede Patuano come candidato a fare ancora l’ad. Un domani chissà. Se Maugeri dovesse conquistare Eni, il posto vacante di Enel – pare scontata la separazione dopo tre mandati di Fulvio Conti – potrebbe spettare a Francesco Caio, mister Agenda Digitale, molto vicino a Enrico Letta. Ma la promozione di Francesco Starace, che gestisce con approvazione unanime la controllata Enel Green Power, è molto probabile. Un po’ ovunque, senza una destinazione ancora precisa, aleggia il ritorno di Franco Bernabé: Finmeccanica, un’ipotesi; Poste, un’avventura. Perché per la poliedrica società di servizi, palazzo Chigi vorrebbe un manager di finanza, e pare sia meno difficile del previsto convincere l’apprezzato amministratore delegato di Generali, Mario Greco. In movimento, dopo la breve esperienza al Tesoro, c’è pure Fabrizio Saccomanni. Altro economista in corsa: Lorenzo Bini Smaghi, presidente di Snam. Quando parte un toto-nomine, Bini Smaghi c’è sempre.

il Fatto 22.3.14
Dai 2,2 milioni di Sarmi ai 750mila di Pietro Ciucci

È STATO esattamente di 873.666,03 euro il compenso 2012 dell’a.d. Fs, Mauro Moretti, che oggi ha rinfocolato le polemiche sugli stipendi dei manager di nomina pubblica quando non politica. Il presidente della stessa società, Lamberto Cardia è stato remunerato sempre nel 2012 secondo il sito del Mef con 300 mila euro tondi tondi, più del collega Franco Bassanini della Cdp (280 mila), ma molto meno di Giovanni Gorno Tempini, a.d della Cassa che ha incassato 1,035 milioni per guidare la leva finanziaria per eccellenza del Tesoro. Ma a guidare la lista tra le aziende a partecipazione pubblica non quotate c’è certamente la guida operativa di Poste, Massimo Sarmi, con oltre 2,2 milioni per le doppie cariche di a.d. e d.g. Al suo presidente, Giovanni Ialongo, sono andati comunque oltre 900 mila euro. Di tutto rispetto anche la retribuzione annua del presidente dello stesso ente, Andrea Monorchio, ex direttore generale del Tesoro: poco meno di 226 mila euro. Tra i manager più pagati c'è anche Domenico Arcuri, nel 2012 remunerato con quasi 800 mila euro. Dietro di lui l’amministratore unico di Anas, Pietro Ciucci (750 mila).

il Fatto 22.3.14
Il senatore Pd Massimo Mucchetti
“In Senato processiamo i top manager in scadenza”
intervista di Stefano Feltri

Conoscere per decidere: la commissione Industria del Senato, guidata dal senatore Pd Massimo Mucchetti, sta analizzando i risultati delle grandi aziende controllate dallo Stato e interrogando i loro top manager. Obiettivo: approvare una risoluzione che dia al governo un indirizzo su come comportarsi nella stagione delle nomine pubbliche in corso. Sotto esame ci sono i risultati di Terna, Finmeccanica Enel ed Eni sulla base di una trentina di quesiti inviati a Flavio Cattaneo, Alessandro Pansa, Fulvio Conti e Paolo Scaroni, i capi azienda in scadenza.
Il sottosegretario Angelo Rughetti ha detto: tutti a casa i manager che hanno fatto piú
di tre mandati. Senatore Mucchetti, è d’accordo?

Tuttia casa è un cult sull’8 settembre. L’Italia di oggi è diversa da quella del 1943. Ma il governo Renzi non può non voltare pagina. Il criterio dei tre mandati è ragionevole, ma prim’ancora vengono i risultati. Ci fosse un Jack Welch me lo terrei vent’anni.

Ne vede in giro?

Neanche l’ombra, ma qualche bravo c’è. Le aziende pubbliche hanno bisogno di manager capaci, meglio se senza padrini.

Come Vittorio Colao e Andrea Guerra?

Due star. Peccato per noi che, da persone serie, intendano onorare gli impegni che già hanno con Vodafone e Luxottica. A parlarne ancora rischiamo di stendere cortine fumogene sulle scelte vere.

Direte al governo chi licenziare e chi confermare?

La designazione degli amministratori spetta al ministro dell’Economia in raccordo con il premier e i ministri dei settori di riferimento. La nomina alle assemblee. Ma prima va dato un giudizio sui risultati. E questo lo può dare anche il Parlamento. Si potrà poi cambiare uno che ha fatto bene perché si ha l’asso nella manica. Arduo riconfermare chi ha deluso.

Queste pagelle non le dovrebbe dare il Tesoro?

Il ministero sta cominciando, in passato questo lavoro non é stato fatto. O non se ne è dato conto né al parlamento né al pubblico.

Avete giá sentito i vertici di Terna e Fin-meccanica e presto sentirete Enel ed Eni.
Prime impressioni?

I mercati apprezzano la lunga gestione di Flavio Cattaneo e quella, appena iniziata, di Alessandro Pansa. Ma nella valutazione finale entreranno anche altri aspetti.

E su Eni ed Enel?

Non posso anticipare i liberi convincimenti che la commissione si farà al termine dei lavori.

Da giornalista lei si é occupato molto dell’Eni.

Ricordo i rapporti dell’Eni con il Cremlino. I contratti take or pay, l’affare Yukos. Nel 2005 un pericoloso contratto con Gazprom venne fermato dai consiglieri Clo’, Colombo e Fruscio.

Colombo l’attuale presidente dell’Enel

Sí, proprio lui.

Giuseppe Recchi, presidente uscente dell’Eni, ora punta alla poltronissima di Telecom. Si ipotizza quindi un passaggio di Scaroni alla presidenza di Eni e magari Conti a quella Enel.

Pochi se ne sono accorti, ma a metà marzo Eni ed Enel hanno stabilito che il presidente del loro consiglio sia indipendente fin dalla prima nomina. Scaroni e Conti non hanno questa caratteristica.

Nel vostro questionario valutate anche i profili etici. Il governo può indicare un inquisito in un cda?

La direttiva del Tesoro esclude chi abbia subito condanne o sia stato rinviato a giudizio per taluni reati o chi abbia patteggiato, a meno che, dico io, non sia intervenuta l’estinzione del reato. Ma resta al governo il giudizio di opportunità.

Valutate anche le remunerazioni.

Cattaneo sta sui 3 milioni all’anno, Pansa intorno a 1,1 milioni. Valuteremo anche i paracadute di fine mandato, che non sempre ci sono, e il rapporto tra la top compensation e il costo del lavoro medio pro capite.

Scaroni incassa 6,4 milioni, Conti oltre 4...

Più ricche buonuscite.

Sono i comitati per le remunerazioni a fissare queste cifre. A prezzi di mercato, dicono.

Troppo spesso in questi comitati si consumano favori reciproci. Si sente perfino dire che, se non si paga tanto, il mercato penalizza. Ma non è vero. Finmeccanica guadagna in Borsa avendo tagliato i principali compensi. Total va meglio di Eni pur pagando il suo presidente e direttore generale la metà del nostro. Ma la tesi per cui il capo delle Fs deve guadagnare di meno di un conduttore tv è populismo puro.

Chiedete conto anche delle spese per le relazioni esterne. Come mai?

Attraverso pubblicità, sponsorizzazioni e consulenze, i capi azienda possono creare il consenso attorno a sé nella politica e nei media. Non dico che lo fanno, ma lo potrebbero fare.

Repubblica 22.3.14
Ma la vera trincea è a Palazzo Chigi i super-dirigenti resistono allo sfoltimento
Inapplicata la norma che prevede una riduzione del 20%
di Federico Fubini

È LA sfida della porta accanto. Renzi punta molto sul taglio del costo dei dirigenti dello Stato per far quadrare i conti di quest’anno. Probabilmente però nemmeno il premier immagina quanto vicina a sé sia la fonte del problema che sta cercando di risolvere.
NON esiste in Italia un’amministrazione importante e emblematica come la presidenza del Consiglio, ma forse non ce n’è neppure una così pronta a sfidare tutto e tutti pur di non arretrare di un millimetro dai propri privilegi.
Da mesi Palazzo Chigi avrebbe dovuto procedere a una riduzione dei dirigenti di prima fascia in eccesso, secondo quanto impone la legge 95 del 15 giugno 2012. Quest’ultima, passata dal governo di Mario Monti, prevede una «riduzione delle dotazioni organiche dirigenziali» del 20%. In sostanza, a partire della presidenza del Consiglio, Monti aveva già deciso il taglio di un direttore generale di ministero ogni cinque.
A Palazzo Chigi non è successo. Forse ancora più sorprendente è che i mandarini della presidenza del Consiglio ancora oggi preferiscono sfidare la legge e smentire se stessi, pur di non piegarsi ai loro obblighi e procedere a quei tagli. Neanche il cambio di governo e del segretario generale della presidenza del Consiglio, con l’uscita di Roberto Garofoli e l’arrivo di Mauro Bonaretti, sembra aver sbloccato la situazione.
Per capire perché bisogna fare un passo indietro, al 2012. Le legge Monti del 15 giugno di quell’anno prevede che il 20% dei dirigenti di prima fascia siano messi in pensione non appena maturano il diritto, peraltro godendo di un trattamento privilegiato: possono ritirarsi godendo delle condizioni precedenti alla riforma Fornero.
Il problema è che per decidere se un organico è in soprannumero, bisogna prima sapere com’è composto. E per fare luce su questo aspetto è necessario che l’amministrazione coinvolta pubblichi i propri «ruoli dirigenziali », cioè un elenco di coloro che ne fanno parte e da quando. Peccato però che sul sito Internet del governo quell’aggiornamento sui dirigenti di prima fascia di Palazzo Chigi sia stato tenuto fermo, per l’appunto, al primo giugno 2012. Congelato esattamente due settimane prima che la legge Monti lanciasse i tagli in caso di soprannumero negli organici in attività al 15 giugno. E poiché i «ruoli» di Palazzo Chigi non sono mai stati aggiornati per il pubblico, non sono neppure stati dichiarati esuberi e pensionamenti fra i dirigenti. Una scelta in violazione del decreto 33 del 2013 sulla trasparenza delle amministrazioni che, di fatto, aiuta anche a eludere la legge sul taglio degli alti dirigenti.
Il 2 dicembre scorso Repubblica segnalò il caso e due giorni dopo Garofoli, allora segretario generale di Palazzo Chigi, rispose con una lettera. Il numero uno dei mandarini di governo promise: «La Presidenza (...) provvederà nelle prossime ore ad adempiere gli obblighi di pubblicità», cioè ad aggiornare lo stato degli organici sul proprio sito Internet come fanno tutti gli altri ministeri. Da allora sono passati quasi quattro mesi e quella promessa è stata tradita. È successo l’opposto di ciò su cui Garofoli si era impegnato. Anziché «adempiere gli obblighi di pubblicità», Palazzo Chigi ha rimosso dal sito anche gli organici vecchi di quasi due anni. Si può forse essere perdonati se si pensa che lo ha fatto perché una loro attenta lettura faceva sospettare che, in effetti, ci sono dirigenti da mettere in esubero.
Nel frattempo Garofoli, uscito da Palazzo Chigi con l’avvento di Renzi, è stato premiato con il posto di capo gabinetto del nuovo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Il suo successore Mauro Bonaretti, un fedelissimo del sottosegretario alla presidenza Graziano Delrio, per ora non ha cambiato nulla di ciò che ha lasciato Garofoli. I «ruoli» dei dirigenti di prima fascia restano nella nebbia e, con loro, vi resta qualunque riduzione del personale e dei relativi costi.
Per Renzi non è un dettaglio, ma un test decisivo: sarà difficile per lui chiedere sacrifici ai manager pubblici in tutt’Italia, se non riesce a far rispettare la legge a quelli che lavorano nel suo stesso corridoio. Carlo Cottarelli, il commissario alla spending review, ha mostrato al premier che i più alti dirigenti dello Stato guadagnano molto più rispetto dei colleghi degli altri Paesi europei. I loro compensi sono di 12,6 volte il reddito medio pro-capite degli italiani, contro le 4,9 volte della Germania e le 6,4 della Francia. È ora di rimediare. Ma prima o poi qualcuno a Palazzo Chigi dovrà decidersi a dare l’esempio nella direzione giusta. Non nell’altra.

l’Unità 22.3.14
Lista Tsipras senza le firme Appello di Spinelli a Boldrini
La garante: «Da rivedere le regole che impongono di raccogliere almeno tremila sottoscrizioni in ogni regione. È sproporzionato rispetto agli abitanti»
di Caterina Lupi

Si terrà mercoledì prossimo l’incontro richiesto dalla lista Tsipras e subito concesso dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, sulle modalità di presentazione delle liste per le elezioni europee. Sulle regole del voto di fine maggio la Camera inizierà a brevissimo l’esame del testo approvato giovedì dal Senato e che ora torna a Montecitorio in seconda lettura. E la lista de L’Altra Europa, alle prese con più difficoltà del previsto nella raccolta delle firme per potersi presentare alla competizione del 25 maggio, punta a un “ritocco” perché l’impresa diventi più facile.
È con quest’intenzione, di fatto, che Barbara Spinelli, nel comitato dei garanti e candidata della Lista Tsipras, ha chiesto un incontro urgente alla Boldrini, per far presente «un problema che con un semplice emendamento potrebbe trovare soluzione nell’ambito di quello stesso provvedimento di legge». Ed ecco il punto: le liste delle forze non presenti in Parlamento che si vogliono presentare alle europee vanno sottoscritte da almeno 30mila cittadini in ogni singola circoscrizione elettorale, per un totale quindi di 150mila firme. Il vincolo ulteriore però è che almeno il 10% di quelle firme, quindi almeno 3mila, siano raccolte in ogni singola Regione. «Noi riteniamo tale norma- scrive Barbara Spinelli palesemente ingiusta. La Lombardia, ad esempio, che ha 9.939milioni di abitanti viene considerata allo stesso modo della Valle d’Aosta che ha una popolazione di circa 128mila abitanti. Entrambe devono raccogliere tremila firme almeno. Pena l’invalidazione della lista per tutta la circoscrizione Nord Ovest». «Facciamo quindi appello alla sua sensibilità e al suo alto ruolo di garante del funzionamento di un istituto fondante della nostra democrazia, quale il Parlamento, affinché sia possibile nella discussione alla Camera inserire nel testo di legge sopra citato un emendamento che preveda un criterio di proporzionalità, anche a scaglioni, tra il numero delle firme richieste e quello degli abitanti di ogni Regione».
Perché tremila firme per Regione non sono poi molte, ma evidentemente rischiano di essere uno scoglio per una lista come quella legata al nome di Tsipras, reduce da una serie di incidenti interni che di sicuro non hanno giovato alla sua capacità di convincere e trovare sostegno. Tra candidati che se ne sono andati sbattendo la porta, scontri e liti interne, sembra infatti che L’Altra Europa non abbia avuto un attimo di pace. Ultimo divorzio eccellente, quello di Andrea Camilleri e Paolo Flores D’Arcasi, che hanno lasciato il comitato dei garanti accusando gli altri di essere stati estromessi dalla gestione delle candidature di Taranto. Un vicenda, questa, legata alla candidatura di Antonia Battaglia, attivista di Peacelink, che ha deciso di uscire di scena e abbandonare il campo, protestando per la presenza in lista di due esponenti di Sel. Del resto lo stesso Camilleri si era già ritirato dalla corsa, tornando subito indietro sulla sua candidatura. E nella breve vita della Lista, non è ancora tutto, perché ci sono da mettere nel conto le liti sulla candidatura dell’ex no global Luca Casarini - sostenuto dai tre garanti Spinelli, Viale, Revelli e dallo stesso Tsipras ma visto come fumo negli occhi da Camilleri, Flores e Gallino - che alla fine è riuscito a piazzarsi tra i candidati, senza evitare però di scatenare altri mal di pancia.
Altro caso, l’esclusione dalle liste dell’imprenditrice palermitana Valeria Grasso, trovata a prendere parte a un’iniziativa di Fratelli d’Italia, di cui del resto in molti siti web veniva data come rappresentante, nonostante le sue rassicurazioni sul non aver mai avuto lei, alcuna tessera di partito. Un’esclusione in seguito alla quale la Grasso si è congedata con parole pesantissime: «Sono venuta a conoscenza della mia esclusione dalla lista senza aver ricevuto nessun avviso o chiamata diretta da alcuno dei garanti. Il silenzio intorno mi ha fatto sentire sola come quando ho dovuto affrontare le conseguenze delle denunce alla richiesta del pizzo», è il parallelo che ha voluto fare.

il Fatto 22.7.14
Ardue imprese
Tsipras, le firme incagliate in Val d’Aosta
di Salvatore Cannavò
Al Comitato Tsipras ne sono sicuri: “Noi le 150 mila firme necessarie a presentare le liste non solo le raccogliamo ma le superiamo”. Dichiarazione spavalda ma supportata dal fatto che in meno di due settimane le adesioni raccolte dai promotori sono state già 44 mila. Il problema di questa iniziativa elettorale nata dall’appello di un gruppo di intellettuali, tra cui Barbara Spinelli, Marco Revelli, Luciano Gallino, in vista delle prossime europee e sponsorizzata dal leader della sinistra greca, Alexis Tsipras, è che sarà difficile vincere la “guerra” di Val d’Aosta. La piccola regione al confine della Francia, infatti, per effetto della legge che regole le elezioni europee, quella del 1979, è una barriera decisiva per chiunque voglia presentare a Strasburgo un simbolo tutto nuovo. In questo caso, infatti, in assenza di un simbolo già presente nelle varie assemblee legislative, europea o nazionali, le firme da raccogliere e da certificare sono almeno 30 mila per ognuna delle cinque circoscrizioni nazionali (Nordovest, Nordest, Centro, Sud e Isole). Ma di queste trentamila, almeno il 10%, cioè tremila, devono essere raccolte in una sola regione, sia essa la Lombardia, con 9 milioni di abitanti, o, appunto, la Val d’Aosta, che di abitanti ne ha poco più di 100 mila. Se manca questo requisito, la lista viene invalidata in tutta la circoscrizione, in questo caso il Nordovest dove ci sono città come Torino e Milano. Un’eventualità che renderebbe vana qualunque aspirazione parlamentare.
PER QUESTO, ieri, Barbara Spinelli, che della lista Tsipras è anche candidata, ha scritto alla Presidente della Camera, Laura Boldrini, per chiedere un incontro urgente in modo da poter sanare, in qualche modo l’anomalia. “Facciamo appello alla Sua sensibilità - scrive la giornalista-scrittrice - affinché sia possibile nella discussione alla Camera inserire nel testo di legge sopra citato un emendamento”. Il riferimento di Spinelli è al testo legislativo, appena approvato dal Senato, che modifica alcune norme, tra cui la parità di genere, per le elezioni europee. Il testo sta per passare alla Camera e ci sarebbe il tempo per inserire, come chiede Spinelli, “un criterio di proporzionalità, anche a scaglioni, tra il numero delle firme richieste e quello degli abitanti di ogni regione”. L’ipotesi è di rapportare il numero di firme agli abitanti e poter scendere, così, in Val d’Aosta a 1000-1500 firme.
“Il problema - spiegano dal comitato - è che questa legge non è mai stata applicata, nessuno la conosce e nessuno si è cimentato con la Val d’Aosta. In passato c’è sempre stata una deroga all’ultimo minuto per abbassare la soglia di firme richieste”. Boldrini, che è stata eletta alla Camera sulle liste di Sel, a sua volta impegnata nel sostegno a Tsipras, ha accettato di incontrare il Comitato mercoledì prossimo. Lei stessa non conosceva l’esistenza di questo obbligo. I promotori della lista, però, non vogliono passare per “lagnosi” e insistono sul risultato ottenuto finora. La lista, del resto, continua a riscuotere un certo credito da parte dei sondaggisti. Per la terza rilevazione successiva, infatti, l’istituto Ixè che fornisce le rilevazioni alla trasmissione Agorà di Rai3, ieri dava la lista al 6,1%, ormai stabile da circa un mese. Un risultato molto al di sopra delle aspettative di chi, una volta raccolta le firme, avrà come obiettivo il superamento della soglia del 4% fissato dalla legge elettorale.

l’Unità 22.3.14
Grillo in tv a ruota libera contro il Pd e Napolitano
Il leader dei 5 Stelle intervistato da Mentana: «Il premier? Un bamboccione. Strappare il Fiscal Compact»
di Rachele Gonnelli

Torna in tv a ora di cena, Beppe Grillo, in una anticipazione del Tg de La7 dell’intervista data a Enrico Mentana e trasmessa in tarda serata nel programma Bersaglio Mobile. Parla di Europa? per modo di dire. Torna sul latte versato, sulla mancata collaborazione con Pierluigi Bersani dopo le politiche, che tante critiche e spaccature interne ai Cinque Stelle ha generato. Sembra quasi giustificarsi: era tutto già deciso, l’arrivo di Letta a Palazzo Chigi dato per scontato nell’invito a pranzo dell’ambasciatore inglese un mese prima del voto. Invito che Grillo e Casaleggio avrebbero rifiutato perchè, appunto, c’era Letta. «Povero Gargamella, i giochi erano già fatti, i suoi l’hanno mandato al massacro». In ogni caso - è l’altra giustificazione - «Bersani sapeva che gli avrei detto di no, lui voleva solo qualche senatore per governare lui».
Altro che europee, l’attacco è sempre al Pd. «Ora il bamboccione che è lì - intende Matteo Renzi - farà la stessa politica, continua l'agenda di Monti, di Letta, delle banche centrali», e poi a Bruxelles «è stato preso per il culo», «è finto, uno che resuscita un morto come Berlusconi... In tre si mettono in una stanza e fanno la legge elettorale? Ma con quale diritto?». Di nuovo politica interna: «E la cattiveria di dire ti do 80 euro, ti pago la pizza... Non c'è niente di scritto». Ce l’ha anche con Napolitano e la Boldrini «che non dovrebbe dirigere la Camera». E l’Europa? l’euro?. Vuole buttare il Fiscal Kompact ma più che altro è una boutade, non spiega. Del resto, a parte le ironie dello show, l’Europa è di fatto assente dalla campagna M5S. L’idea di pretendere «l’eliminazione immediata del Fiscal Compact» - non si sa se s’intende dalla Costituzione italiana né cosa c’entri in ogni caso il Parlamento europeo - e gli eurobond, minacciando un improbabile referendum per il ritorno della lira, non sembra appassionare né gli attivisti né gli elettori Cinque Stelle. Appassiona di più il referendum in Ucraina. E infatti Grillo ne parla, dando ragione a Putin.
Intanto della composizione delle liste elettorali non si sa niente. Qualche attivista timidamente chiede sul blog se ci saranno le parlamentarie, tanto più che con il voto di preferenza, è più importante operare una scelta dei nomi che sia realmente rappresentativa. Ma non c’è risposta. Si dà per scontato che decideranno tutto Grillo, Casaleggio e i fedelissimi.
La campagna elettorale però è già partita. Con due tour, di cui uno a pagamento. È lo stesso Beppe Grillo che ha già dato il via a un cartellone di omizi- show dal significativo titolo «Te la do io l’Europa». Otto spettacoli al chiuso, da Ancona a Catania e da Milano a Firenze nella prima metà di aprile. La prevendita è già iniziata e i biglietti costano da un minimo di 20 euro a 33 euro a testa, al Palalottomatica di Roma per la data finale del 14 aprile. Il comunicato che pubblicizza gli spettacoli parla di «un mostro» che «si aggira per l’Europa». Non è però il comunismo evocato come spettro nell’incipit del Manifesto di Karl Marx. Questa volta «si chiama euro», sta scritto. Uno spettro molto più concreto, sonante, eppure non meno evanescente, se si considera che non è affatto chiaro a chi finiranno gli euro - appunto - del pubblico pagante: a Grillo leader o a Grillo artista comico?.
L’altro è un giro «minore», è il non-ci-fermate-tour che fa tappa a Napoli il prossimo martedì. Star dell’occasione: il campione del grillismo parlamentare ortodosso, il giovane e telegenico Alessandro Di Battista. Qui c’è anche un camper più piccolo e si muove sfruttando le «ferie forzate» - così si legge sui manifesti - dei 26 parlamentari sospesi dalla presidenza della Camera per la bagarre in aula durante l’approvazione del decreto Imu-Bankitalia. Alcuni sono più presenti di altri, come Giorgio Sorial o Simone Valente. L’obiettivo è chiaramente quello di non lasciare la campagna elettorale per le europee unicamente agli sparsi e spesso improvvisati gruppi locali. Il M5S fa una grossa scommessa sul voto del 25 maggio, dichiarata sul blog di Grillo: «Trasformare il voto europeo in voto nazionale ». Diventare la lista italiana più votata - è il miraggio evocato dallo staff - consentirebbe di chiedere al Quirinale lo scioglimento delle Camere e le elezioni anticipate. Possibile recuperare 11 punti percentuali rispetto al più recente sondaggio Ixé che dà solidamente in testa il Pd?. È secondario. L’importante è «nazionalizzare» il voto e strutturare i suoi consensi. L’uscita dall’euro non appassiona gli italiani.

il Fatto 22.3.14
Intervista a La7
Grillo: “Ho le prove, Bersani mandato al massacro per far posto a Letta”
“Un mese prima che andasse al governo, l’ambasciatore inglese invitò a pranzo me e Casaleggio: ‘Di là c’è Enrico che vuole parlarvi’. Ce ne andammo subito”
di Luca De Carolis

Al Comitato Tsipras ne sono sicuri: “Noi le 150 mila firme necessarie a presentare le liste non solo le raccogliamo ma le superiamo”. Dichiarazione spavalda ma supportata dal fatto che in meno di due settimane le adesioni raccolte dai promotori sono state già 44 mila. Il problema di questa iniziativa elettorale nata dall’appello di un gruppo di intellettuali, tra cui Barbara Spinelli, Marco Revelli, Luciano Gallino, in vista delle prossime europee e sponsorizzata dal leader della sinistra greca, Alexis Tsipras, è che sarà difficile vincere la “guerra” di Val d’Aosta. La piccola regione al confine della Francia, infatti, per effetto della legge che regole le elezioni europee, quella del 1979, è una barriera decisiva per chiunque voglia presentare a Strasburgo un simbolo tutto nuovo. In questo caso, infatti, in assenza di un simbolo già presente nelle varie assemblee legislative, europea o nazionali, le firme da raccogliere e da certificare sono almeno 30 mila per ognuna delle cinque circoscrizioni nazionali (Nordovest, Nordest, Centro, Sud e Isole). Ma di queste trentamila, almeno il 10%, cioè tremila, devono essere raccolte in una sola regione, sia essa la Lombardia, con 9 milioni di abitanti, o, appunto, la Val d’Aosta, che di abitanti ne ha poco più di 100 mila. Se manca questo requisito, la lista viene invalidata in tutta la circoscrizione, in questo caso il Nordovest dove ci sono città come Torino e Milano. Un’eventualità che renderebbe vana qualunque aspirazione parlamentare. PER QUESTO, ieri, Barbara Spinelli, che della lista Tsipras è anche candidata, ha scritto alla Presidente della Camera, Laura Boldrini, per chiedere un incontro urgente in modo da poter sanare, in qualche modo l’anomalia. “Facciamo appello alla Sua sensibilità - scrive la giornalista-scrittrice - affinché sia possibile nella discussione alla Camera inserire nel testo di legge sopra citato un emendamento”. Il riferimento di Spinelli è al testo legislativo, appena approvato dal Senato, che modifica alcune norme, tra cui la parità di genere, per le elezioni europee. Il testo sta per passare alla Camera e ci sarebbe il tempo per inserire, come chiede Spinelli, “un criterio di proporzionalità, anche a scaglioni, tra il numero delle firme richieste e quello degli abitanti di ogni regione”. L’ipotesi è di rapportare il numero di firme agli abitanti e poter scendere, così, in Val d’Aosta a 1000-1500 firme. “Il problema - spiegano dal comitato - è che questa legge non è mai stata applicata, nessuno la conosce e nessuno si è cimentato con la Val d’Aosta. In passato c’è sempre stata una deroga all’ultimo minuto per abbassare la soglia di firme richieste”. Boldrini, che è stata eletta alla Camera sulle liste di Sel, a sua volta impegnata nel sostegno a Tsipras, ha accettato di incontrare il Comitato mercoledì prossimo. Lei stessa non conosceva l’esistenza di questo obbligo. I promotori della lista, però, non vogliono passare per “lagnosi” e insistono sul risultato ottenuto finora. La lista, del resto, continua a riscuotere un certo credito da parte dei sondaggisti. Per la terza rilevazione successiva, infatti, l’istituto Ixè che fornisce le rilevazioni alla trasmissione Agorà di Rai3, ieri dava la lista al 6,1%, ormai stabile da circa un mese. Un risultato molto al di sopra delle aspettative di chi, una volta raccolta le firme, avrà come obiettivo il superamento della soglia del 4% fissato dalla legge elettorale. Le verità di Grillo, di nuovo sul piccolo schermo. Con un aneddoto pesante, sul Letta già pronto per il dopo Bersani “tanto che l’ambasciatore inglese mi aveva organizzato un pranzo con lui”. Una posizione rumorosa in politica estera: “Rispetto il referendum della Crimea”. E un bersaglio costante, Renzi, “bugiardo e cattivo”. Camicia bianca, abbronzatura perfetta, Beppe Grillo risponde per 67 minuti alle domande di Enrico Mentana in un’intervista registrata per Bersaglio Mobile, su La 7, andata in onda ieri sera. Un cambio di strategia in vista delle Europee. “Perché in televisione ora?” inizia Mentana. E Grillo parte a raffica: “Non ho nulla contro la tv, ci sono nato, ma voglio starci a mio agio, non in in situazioni gestite da altri. Sono stufo di sentire balle su di noi”. Il giornalista tornerà alla carica: “Questa intervista è un lancio per lo spettacolo (il Te la do io l’Europa Tour, ndr)? E l’ artista si scoprirà: “Può darsi, voglio vedere se la gente è ancora disposta a pagare il biglietto per vedermi”.
SI PARTE con Renzi, e Grillo è subito feroce: “Non riesco neanche più a prenderlo per il culo: è cattivo, spietato, mente su tutto”. Durante l’intervista lo chiama “pupazzo”, “sciocchino”, “ebetino”, “bambinone”. E poi: “In Europa lo hanno preso per il culo. Ma non voglio neppure nominarlo”. Poi Grillo piazza l’inedito: “Bersani l’hanno mandato al macello dai suoi, c’era un piano e io ho la prova. Un mese prima di Gargamella (l’ex segretario Pd, ndr) l’ambasciatore inglese invita me e Casaleggio a pranzo. Arrivo e scopro che al piano di sopra c’è Letta che aspetta. Me ne sono andato, ero lì per mangiare con l’ambasciatore, non con lui”. Ovviamente si parla molto di Europa. “Strappiamo il fiscal compact” ribadisce. Poi precisa: “Si può uscire unilateralmente dall’euro, ma prima andremo in Europa a chiedere la revisione dei trattati. Se non accettano faremo un referendum per decidere”. Qual è l’obiettivo di M5S alle Europee? “La forbice è tra il 20 e il 25 per cento. Se prendiamo un voto in più del Pd cosa potranno dire quelli al governo”. Mentana ribatte: “E se la gente voterà per Renzi?”. Replica : “Vuol dire che questo Paese è da recuperare”. Grillo scende in dettagli: “I candidati li sceglieremo on line”, con un doppio turno. E annuncia: “Alle Europee metteremo il recall come esiste negli Stati Uniti. Se gli elettori che ti hanno mandato in Europa ti sconfessano on line torni a casa o paghi 250mila euro. Voglio il vincolo di mandato: quando c’erano i galantuomini poteva non esserci, ora no”. Quanto agli espulsi “li abbiamo mandati via dopo tre gradi di giudizio, qualcuno aveva sentito l’odore dei soldi”. Si torna sulla politica estera, e Grillo spariglia: “C’è stato un referendum sulla Crimea, con 150 ispettori dell’Onu che hanno visionato: vi ha partecipato l’85 per cento degli aventi diritto, il 95 per cento ha detto sì. Io lo rispetto”. E ancora: “In Ucraina un governo eletto democraticamente è stato mandato via dalla piazza. Chi ha sparato sulla folla? Non i russi: forze occulte, magari gli americani”. Talvolta scivola: sulla legge Acerbo (la chiama Acerbi), su qualche dato. Ribattezza Mentana “Basaglia”, come il padre dell’omonima legge che chiuse i manicomi , non si capisce se per scherzo. Ridono forte. Si parla di Expo: “È un caso che due giorni dopo che entriamo lì partono gli arresti? Ora la magistratura si sente spalleggiata da una forza politica”. Elogia Casaleggio: “Senza di lui non ci sarebbe stato il Movimento, è un grande organizzatore. I soldi dalla pubblicità sul mio blog? Lo gestisce una società: l’anno scorso la Casaleggio è andata in rosso e il mio 740 è zero da 3 anni e mezzo”. Quindi, Napolitano: “Un 80enne che si raddoppia la carica dopo che aveva promesso di non farlo e che cancella i nastri delle conversazioni con Mancino”. E su Tsipras: “Mi piace abbastanza, dice più o meno le cose che diciamo noi. Ma non capisco perché gli italiani dovrebbero votarlo”. Sorriso, fine. Ma la campagna è appena all’inizio.

il Fatto 22.3.14
Questione Morale
Il Pd santifica Berlinguer e non pensa a Genovese
di Fabrizio d’Esposito

A ciascuno il suo Berlinguer. Dieci anni fa, nel ventennale della morte dell’ultimo, vero segretario generale del Pci, secondo la definizione del compianto Edmondo Berselli, la retorica comunista fu un po’ meno ipocrita dello tsunami di questi giorni, complice il film veltroniano. Una pellicola che rilancia il mito del Berlinguer santino e dunque sfugge e svicola dal duro compito di fare i conti con l’eredità berlingueriana. Sì, soprattutto con la questione morale. In un video del fattoquotidiano.it   la giovane vestale renziana Maria Elena Boschi è la perfetta rappresentazione di questa nuova doppiezza. Prima celebra la questione morale, poi di fronte alle domande sui quattro impresentabili del Pd al governo (Barracciu , Bubbico, Del Basso De Caro, De Filippo, senza dimenticare la richiesta d’arresto per Francantonio Genovese) scappa imbarazzata e silente. La questione morale è più che mai attuale (litania purtroppo che si alza ogni volta che si ricorda “Enrico”), anche a sinistra, e giova ricordare che fu proprio il Pci di Berlinguer a coniare l’espressione “mani pulite”. Era il 1975 e i manifesti per le amministrative avevano uno slogan fortissimo: “Noi abbiamo le mani pulite”.
Quando Fassino lo faceva giocare con la morte
L’altra sera, a Roma, all’anteprima dell’opera di Walter Veltroni c’era tutta la classe dirigente postcomunista che dieci anni fa tentò di regolare i conti con il berlinguerismo. A partire dalla questione morale, ovviamente. Il colpo più duro lo portò Piero Fassino, oggi sindaco renziano di Torino (e autocandidatosi al Quirinale tra un anno), nella sua autobiografia Per passione: “Mi è capitato spesso di pensare a Berlinguer come a un campione di scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita... guardando la scacchiera il campione si accorge che, con la prossima mossa, l’avversario gli darà scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire un minuto prima che l’altro muova”. Parole tremende, che si inseriscono nel pieno della ridondante riscoperta a sinistra di una parola d’ordine: riformista. La metafora fassiniana è fin troppo chiara. La solitudine dello scacchista Berlinguer è colpa del “ripiegamento nella predicazione moralistica” (Il Riformista del 28 agosto 2003). E questo ripiegamento, cioè “la questione morale, il mito di una propria irriducibile diversità antropologica, la parola d’ordine dell’austerità, è lo specchio di questa crisi” (sempre Il Riformista). Insomma, Berlinguer rinchiuse il Pci “in un ghetto”. Fassino all’epoca era con D’Alema e la condanna della questione morale divenne il tratto distintivo, che piaccia o no, della nuova sinistra riformista . Non solo per giustificare la normalità e il gestionismo di governo (con relativi scandali e inchieste), ma anche e soprattutto per dare un senso al dialogo con Silvio Berlusconi. Ieri Craxi, oggi Berlusconi. Fu addirittura Cesare Romiti a rinfacciarlo proprio a Fassino in un dibattito: “Enrico Berlinguer era un uomo di grande onestà morale. Evidentemente non voleva unirsi a un’altra forza politica perché per lui c’era un problema di moralità, c’era una questione che non poteva accettare”. Ieri il Psi, oggi Forza Italia.
I riformisti volevano dimenticarlo. Poi hanno preferito annetterlo
Tutto il filone riformista per la serie “Dimenticare Berlinguer”, dal titolo del libro di Miriam Mafai, trova la sua ragion d’essere nell’esponente del Pci più alto in grado che nell’estate del 1981 si oppose alla questione morale di Berlinguer, nella nota intervista a Eugenio Scalfari per La Repubblica: Giorgio Napolitano, capo dello Stato da otto anni e ospite d’onore l’altra sera all’anteprima del film. La prima reazione di Napolitano fu quella di telefonare a Gerardo Chiaromonte: “Eravamo entrambi sbigottiti perché in quella clamorosa esternazione di Berlinguer coglievamo un’esasperazione pericolosa come non mai, una sorta di rinuncia a fare politica visto che non riconoscevamo più alcun interlocutore valido e negavamo che gli altri partiti, ridotti a ‘macchine di potere e di clientela’, esprimessero posizioni e programmi con cui potessimo e dovessimo confrontarci”. Analoghe dichiarazioni, in quegli anni, le faranno D’Alema, Luciano Violante e, nei fatti, lo stesso Veltroni. Quest’ultimo, infatti, condusse la campagna elettorale del 2008 senza mai citare il suo avversario Berlusconi. Guai a demonizzarlo o a parlare dei suoi guai giudiziari o dei suoi conflitti d’interessi. Il paradosso è che tutto questo ha condotto l’odierna sinistra del Pd in un guado, senza i cosiddetti pensieri lunghi. I tatticismi che hanno consumato e dilapidato voti e credibilità da un lato hanno causato le accuse di Berlusconi sulla “sinistra giustizialista e comunista, dall’altro hanno fatto diventare Berlinguer un’icona di tutti quelli che non votano più la “ditta”, perché nauseati e sfiduciati. Ecco Antonio Di Pietro nel dicembre del 2003 contro i dalemiani: “Noi della questione morale facciamo una battaglia politica e questa battaglia viene vista con sofferenze”. L’unica eredità berlingueriana che i presenti dell’altra sera hanno custodito a lungo è quella del compromesso storico. Alias consociativismo e larghe intese. Ma si può mettere sullo stesso piano il dramma di Moro e Berlinguer con gli inciuci di D’Alema e Berlusconi, prima, e Renzi e Verdini, poi?
Il futuro è il bimbo fiorentino “che si è mangiato i comunisti”
Oggi a tirare fuori dal guado il Pd c’è Matteo Renzi, ex democristiano che è stato soprannominato “il bambino che si è mangiato i comunisti”. Allo stesso tempo la nostalgia per Berlinguer, seppure nell’eterna forma di santino, torna far piangere i postcomunisti. Prima o poi bisognerà ripartire da lì. Dalla questione morale. Dalle mani pulite.

Repubblica 22.3.14
Giorgia e Berlinguer
di Alessandra Longo


Che il «muro» fra destra e sinistra, quelle vere, non ci sia più da tempo lo dimostra anche il tweet dedicato da Giorgia Meloni al film-documentario di Walter Veltroni su Enrico Berlinguer. Ecco il testo: «Vedo “Quando c’era Berlinguer” e mi dico: dovrà tornare il tempo dei politici semplici, onesti e coraggiosi, di ogni idea». Omaggio al segretario del Pci dell’ex giovane camerata. Alleanza Nazionale, con Fini, sdoganò a Fiuggi Antonio Gramsci, mettendolo nel Pantheon delle proprie letture, ora tocca a Berlinguer. Di fronte alla storia del leader comunista, alla sua onestà intellettuale, al suo rigore, la Meloni twitta senza filtro: magari ce ne fossero altri, così. Di destra, anche di sinistra, purché puliti. E una volta tanto come non darle ragione.

Corriere 22.3.14
la memoria della giustizia
di Michele Ainis


C’è una desaparecida nel turbine della nostra vita pubblica: la giustizia. Da quando il nuovo esecutivo ci ha svegliati dal letargo, saltiamo come picchi sui rami più diversi — la riforma costituzionale, e poi quella del lavoro, e poi la legge elettorale, la spending review , il fisco, la burocrazia. E il motore in panne della macchina giudiziaria? A quanto pare non trova più meccanici. Curioso, dato che negli ultimi vent’anni la politica l’aveva sventolato come il maggiore dei problemi. Doppiamente curioso, proprio adesso che l’astro di Berlusconi parrebbe declinante, sicché i partiti potrebbero ragionarci senza astio, senza secondi fini. Ti viene il sospetto che tutto quel vociare fosse solo un gioco di Palazzo. Come se non esistesse viceversa un nesso fra la produttività economica e quella giudiziaria, come se gli italiani non fossero orfani d’uno Stato che sappia distribuire i torti e le ragioni.
E allora stiliamo un promemoria, dal momento che la politica ha perso la memoria. Anche perché la malattia peggiora, insieme al nostro umore. Bruxelles ci ha appena informati che in Italia i processi civili sono i più lenti d’Europa, se si eccettua Malta. Su dati del 2012, la loro durata media è di 600 giorni; erano 500 nel 2010. Dunque il triplo rispetto alla Germania, oltre il doppio rispetto a Francia e Spagna. In compenso ne aumentano i costi (6% in più). A sua volta, la Banca Mondiale ci colloca al 160º posto (su 185 Paesi) per la tutela giurisdizionale dei contratti. Per forza, con 5,4 milioni di processi pendenti, e per lo più rinviati alle calende greche (7 su 10). O con la nostra giostra d’appelli e contrappelli, quando altrove l’appellabilità delle sentenze è quasi un’eccezione. D’altronde negli Usa la Corte suprema riceve 80 casi l’anno, da noi la Cassazione ne assorbe 80 mila. Ma le riforme organizzative dell’ultimo triennio hanno sparato a salve: il filtro sulle impugnazioni si è reso funzionante nel 4% dei casi a Milano, nell’1% a Roma.
Tuttavia non c’è solo una crisi d’efficienza. È in crisi l’eguaglianza, perché 130 mila prescrizioni l’anno sono un salvagente per i ricchi, per chi possa permettersi un avvocato che sa come tirarla per le lunghe. Ed è in crisi la credibilità dei giudici. Succede, quando la magistratura è divisa in fazioni, che attraverso un’acrobazia linguistica si definiscono «correnti». Quando ogni corrente fa correre i propri correntisti, lottizzando il Csm, distribuendo posti e prebende. Quando alla Procura di Milano divampa uno scontro di potere, di cui leggiamo il resoconto in questi giorni. Quando certi magistrati sono più loquaci d’una suocera, nonostante gli altolà di Napolitano. Quando la loquacità li ricompensa con una candidatura alle elezioni, sicché il pubblico ministero conquista un ministero pubblico. Quando infine nessuno paga dazio, quale che sia il suo vizio: nel 2013, su 1.373 procedimenti disciplinari, ne è stato archiviato il 93%, e solo in 5 casi è intervenuta la richiesta d’una misura cautelare.
Da qui un paradosso: il potere irresponsabile diventa poi meno potente, giacché perde l’auctoritas , la fiducia popolare. Ma da qui anche un circolo vizioso: l’inefficienza genera diffidenza, la diffidenza genera il rifiuto d’accettare i verdetti giudiziari, il rifiuto genera un fiume di ricorsi, i ricorsi generano nuova inefficienza. Dev’esserci un modo, tuttavia, di spezzare la catena. Magari cominciamo ricordando che è questo il ferro al quale siamo incatenati.

Corriere 22.3.14
Famiglie, bimbi e donne incinte in fuga dai centri di accoglienza
di Felice Cavallaro


PORTO EMPEDOCLE (Agrigento) — Basta vedere come s’arrampicano sulla recinzione del molo di Porto Empedocle, come riescono a spalancare i cancelli e a fuggire lungo le strade di questo centro dove a gruppi corrono sfiorando la statua di Pirandello o il bar Vigata di Camilleri, per capire che prefetture, questure, volontari e protezione civile in Sicilia non sanno più dove stiparli i migranti recuperati nel Mediterraneo. Una fuga disperata, consumata anche davanti alle volanti della polizia, con intere famiglie, donne incinte e bambini stralunati, tutti in corsa verso il viadotto Morandi che svetta sui Templi, i piloni affondati fra le tombe puniche, come un tornante aereo aggrappato alla collina di Agrigento franata sui palazzi della città.
Ecco le scene che si ripetono fra le campagne e le serre vicine a Pozzallo, a due passi dall’autostrada invasa dai migranti che scappano dal Cara di Mineo o dai dormitori improvvisati di Augusta. Tutte mete di navi della Marina militare o di altre unità ormai addestrate a recuperare i migranti in alto mare.
Più di 4 mila in una settimana. Quasi mille al giorno. Più di 10 mila dall’inizio dell’anno, mentre nei primi mesi del 2013 ne arrivarono circa 500. Adesso si riempiono palestre, hangar mercantili, palazzetti dello sport, ma la marea dei 1.165 sbarcati ieri mattina ad Augusta dalla nave San Giusto s’è incrociata con altri 500 approdati sullo stesso molo con fregate e pattugliatori da cinque mesi ingaggiati nell’operazione «Mare nostrum».
A lanciare l’allarme al ministro Angelino Alfano è stato il sindaco di Porto Empedocle, Lillo Firetto: «Non si può abbandonare una città o un’intera provincia...». Un replay sul molo dove in ottobre fu piegata un’intera recinzione. Con successiva chiusura di una tensostruttura, fuori uso come lo è il Centro accoglienza di Lampedusa. Forse anche per questo un blitz del capo dell’Immigrazione, il prefetto Riccardo Compagnucci, è culminato da Agrigento in un appello a 60 prefetture per mobilitare Comuni grandi e piccoli: «Servono 40 posti per ogni provincia...». Un ponte aereo ha dirottato centinaia di migranti verso Sardegna, Liguria, Toscana, Lombardia. Ma c’è chi ha tentato di respingere gli «stranieri». Come è accaduto a San Genesio, a due passi da Pavia, dove 40 profughi accompagnati in un albergo hanno trovato un cordone di leghisti decisi a bloccarne l’ingresso. Grida e proteste come quella di Angelo Ciocca, consigliere regionale del Carroccio che non ama parlare di «migranti»: «È assurdo portare al Nord i “clandestini”. Loro, in alberghi di lusso, mentre tanti italiani faticano ad arrivare alla fine del mese». Posizione opposta a quella del vescovo Giovanni Giudici che ha mobilitato le parrocchie per accogliere i profughi.
Rimbalzava l’eco di questi imprevisti ad Agrigento mentre il prefetto Nicola Diomede riusciva a recuperare posto per 300 migranti a Racalmuto, il paese di Sciascia, un palazzetto dello sport trasformato in una maxi camerata. Pronto a spalancare le braccia il commissario che guida il Comune, Enrico Galeani. Come accadde quando per la tragedia del 3 ottobre a Lampedusa trovò spazio al cimitero per 5 dei 366 annegati. Oggi fiero di una stele collegata fra le sepolture senza nome, un verso di Erri De Luca: «Il mare avvolge in un rotolo di schiuma la foglia caduta dall’albero degli uomini».

il Fatto 22.3.14
Lettera al premier
Renzi, in Cina ricordati di Prato
di Carlo Ripa di Meana


Gentile Signor Presidente Renzi. Come Lei sa, il giorno primo dicembre 2013, quindi solo tre mesi e mezzo fa, nel settore del “pronto-moda”, al Macrolotto di Prato, sette esseri umani sono morti carbonizzati senza possibilità di scampo, in un capannone industriale, adibito abusivamente anche a dormitorio. Di queste sette persone per diversi giorni non si sapeva nemmeno chi fossero: uno solo infatti era stato identificato. Si sono poi ricostruite le terribili condizioni di illegalità, sfruttamento di mano d’opera clandestina e schiavitù in cui vivevano questi sette operai di nazionalità cinese. Da più parti è stato detto – e a me, personalmente, è stato ripetuto dal Procuratore Capo di Prato, Piero Tony – che si trattava di una disgrazia annunciata, che si potrebbe ripetere in qualsiasi momento, data la situazione priva di norme di sicurezza in cui centinaia, migliaia di esseri umani lavorano, vittime di uno sfruttamento indegno.
OGGI, dopo essersi insediato a capo del nostro Governo, avere annunciato le prime misure economiche che ritiene necessarie al nostro Paese, e aver fatto il giro delle cancellerie europee, Lei annuncia l’intenzione di recarsi nella Repubblica cinese nella prima metà del mese di aprile.
So che questa Sua visita in Cina era già in programma da tempo. Molto probabilmente con l’obiettivo di promuovere negoziati per rilanciare i rapporti bilaterali e riequilibrare la bilancia commerciale fra Italia e Cina. La invito, in questa prospettiva, a prendere in esame il gravissimo problema che riguarda la ormai tristemente nota sacca di degrado e illegalità del Distretto Cinese in Toscana, con la realtà di Prato come suo perno.
Lei ha ricoperto vari ruoli nelle Istituzioni toscane, perciò conosce per filo e per segno, da tempo, la condizione di schiavismo e di illegalità in cui opera una parte della comunità cinese nel cuore della nostra civilissima città di Prato, uno degli storici centri della cultura e dell’arte italiana.
A Lei, che caratterizza la Sua azione di governo per rapidità, rivolgo l’invito a risolvere con la massima urgenza questa situazione gravissima e disonorante, che non può essere risolta in modo bilaterale tra le istituzioni italiane e le istituzioni dell’altro paese interessato, la Cina. Le chiedo di non perdere un minuto di più, per iniziare l’opera di emancipazione dalla schiavitù di centinaia o forse migliaia di operai cinesi nel Macrolotto di Prato, oltre che nella zona di Pistoia e in frazioni del Comune di Firenze, come ha precisato il Procuratore Generale Tindari Baglione. È una situazione che la tragedia del rogo del primo dicembre 2013 a Prato ha esemplificato agli occhi del mondo, ma che era nota da tempo e comprovata da una serie di documenti, che sottopongo alla Sua attenzione.
LA SITUAZIONE è tanto più specifica in quanto si riferisce a un territorio di provenienza limitato, precisamente alla zona circoscritta dello Zhejiang, una regione della Cina sudorientale e in particolare alla città di Wenzhou (otto milioni di abitanti), situata di fronte a Taiwan. Una zona lungamente analizzata, studiata e descritta dal professor Romano Prodi, nei suoi numerosi ruoli di guest professor, che ha tenuto corsi alla Scuola del Partito Comunista cinese, e di rappresentante, ufficiale, in Italia dell’Agenzia cinese di rating, Dagong. Romano Prodi è il più sollecito narratore di questa inquietante realtà cinese parallela, lacerata da violente tensioni sociali.
La Cina sta compiendo notevoli sforzi per rinnovare la propria struttura sociale ed economica: ne sono testimonianza non solo gli articoli di cui è frequente autore il professore Romano Prodi, che dopo il Plenum del partito Comunista cinese, il 18 novembre 2013, ha scritto di “un promettente processo di liberalizzazione del sistema bancario, di una progressiva abrogazione della regola del figlio unico e di una limitazione dell’applicazione della pena di morte”.
Mercoledì 18 febbraio 2014, mi sono recato a Prato, per compiere una breve indagine, insieme ad altre tre persone . Sono entrato in auto nella zona del Macrolotto, il quartiere del “pronto-moda” che, come Lei sa bene, è una vera e propria selva di capannoni, con insegne in italiano e in cinese, e ho tentato di “sbirciare” dentro quel mondo di illegalità e schiavismo, della cui esistenza si ha ormai l’assoluta certezza. La zona era praticamente deserta, per le strade due o tre passanti (cinesi). Quando ho cercato di entrare nel capannone di “Ye Life”, accanto a quello di “Teresa Moda” al numero 63 di via Toscana, dove è avvenuta la sciagura del primo dicembre 2013, ho incontrato l’ostilità decisa di una ragazza cinese in pantaloni e giacca di pelle nera, che mi ha invitato ad andarmene con poche parole perentorie: “Non parlo italiano, non capisco, se ne vada”. Accanto a lei era ben presto comparso un ragazzo, anche lui vestito di nero e anche lui decisamente ostile.
Ho fatto una breve visita alla libreria Ou Hau di via Cavour 13, dalla quale attraverso il sistema del Money2Money sono stati spediti in Cina 356 milioni di euro, secondo l’indagine del Sostituto Procuratore Pietro Suchan. La libreria non c’è più, è rimasta solo l’agenzia di viaggi che era collegata a essa. Due gentili ragazze cinesi mi hanno detto che la libreria ha chiuso per via della crisi e mi hanno regalato un libro di ideogrammi e disegni cinesi. È stato un momento di grande cordialità e cortesia reciproca.
Purtroppo, sono ripartito con l’amara convinzione che tutto fosse rimasto esattamente com’era prima dell’incendio del primo dicembre 2013.
IN BASE a tutte le informazioni che ho raccolto, il giorno 7 di marzo 2014 sono tornato a Prato e ho presentato ufficialmente un mio esposto-denuncia al Procuratore Capo di Prato Piero Tony, che lo accolto, controfirmato e autenticato. In esso io chiedo con forza che si intervenga per sanare questa situazione disperata e illegale, e che vengano sottratti allo stato di sfruttamento illegale tutti questi esseri umani che a Prato, e nei vicini sobborghi, vivono in una situazione inaccettabile per un paese civile come il nostro.
Il giorno dopo, 8 marzo 2014, Il Fatto Quotidiano ha dato ampio spazio e risalto alla notizia, rendendola pubblica. Ora la decisione sta a Lei, Signor Presidente. Lei ha il dovere e il potere di intervenire e di eliminare questa sacca di schiavismo e illegalità nel cuore dell’Italia. Io Le chiedo di rendere operativa nei tempi più brevi possibile l’azione di risanamento, per mettere fine a tutto questo, rammentando Le con forza che attendere la sincronia da parte cinese, vorrebbe dire rinunciare di fatto all’azione. L’Italia è un grande Paese, la Toscana è regione molto rappresentativa dell’italianità: non permetta che tutto questo venga coperto dal disonore. È ora di riscattare la dignità del nostro Paese.
A Berlino, l’altro giorno, Lei ha evocato la grandezza del Rinascimento italiano, di cui si sente continuatore e tramite. Pensi piuttosto, Signor Primo Ministro, a liberare gli esseri umani tenuti in schiavitù a Prato, esercitando i poteri di cui dispone, e che, con molti altri, non ha mai esercitato per indifferenza e calcolo.

l’Unità 22.3.14
L’Italia e il South Stream nella «partita del gas»
L’allarme lanciato dall’ad dell’Eni, Paolo Scaroni
Le sanzioni minacciate da Bruxelles rischiano di ritorcersi contro Berlino e Roma
di Umberto De Giovannangeli


Silvio Berlusconi, da premier, ne aveva fatto l’asse portante del «patto del gas» con l’amico Vladimir. Ora, però, la crisi ucraina mette a rischio South Stream, e le commesse miliardarie legate alla sua realizzazione. A lanciare l’allarme è stato l’ad di Eni, Paolo Scaroni. - Il futuro del gasdotto South Stream è «piuttosto fosco », avverte l’amministratore delegate del Cane a sei zampe Zampe, rispondendo nel corso di un’audizione l’altro ieri alla Camera. Le tensioni tra Ue e Russia per la crisi ucraina, ha sottolineato Scaroni, possono portare «le autorità europee a mettere in discussione le autorizzazioni » per la costruzione dell’infrastruttura che dovrebbe portare il gas russo bypassando Kiev. Per quanto riguarda l’ordine da 2 miliardi di euro ottenuto dalla controllata Saipem nell’ambito della costruzione dell’opera, Scaroni ha affermato che «non so se verrà portato avanti».
AFFARI MILIARDARI Questo, per l’Italia, vorrebbe dire perdere il ricco contratto per al costruzione del gasdotto che porterà il gas siberiano nei Paesi dell’eurozona a partire dal2015 passando sul fondo del Mar Nero. Dando seguito alla promessa di Gazprom-che aveva anticipato un’accelerazione nelle gare di appalto, per avviare il gasdotto entro il 2015 - il consorzio South Stream Transport ha appena assegnato all’italiana Saipem un contratto da 2 miliardi di dollari per costruire la prima delle quattro linee del tratto sottomarino di South Stream. Più nel dettaglio, la controllata dell’Eni, guidata da Umberto Vergine, si è aggiudicata i lavori sia per la realizzazione della prima condotta sottomarina del «tubo» sia quelli per la connessione alla terraferma di tutte le quattro linee previste dal progetto, ciascuna lunga oltre 931 chilometri, dalla Russia alla Bulgaria, uno dei sette Paesi di transito dell’infrastruttura, insieme ad Austria, Croazia, Grecia, Slovenia, Ungheria e Serbia. Cambiare percorso, in una fase così avanzata, comporterebbe come minimo un forte allungamento dei tempi e Mosca non sembra disposta ad aspettare.
INTERESSI DIVERGENTI Prima di posare le linee successive, tuttavia, un ripensamento potrebbe anche arrivare, se Gazprom riuscisse a convincere i soci stranieri della tratta offshore: Eni (20%), più la francese Edf e la tedesca Wintershall (ciascuna col 15%). Il numero uno di Gazprom, Alexey Miller, nonostante le tensioni di queste settimane con la Commissione Europea, che ha annunciato l’intenzione di congelare i colloqui sul gasdotto, aveva ribadito la tabella di marcia del progetto. «Il South Stream verrà completato nei tempi stabiliti. Non ci sono dubbi che il gas inizierà a scorrervi a dicembre 2015». Ma le cose sono molto più complicate. Tant’è che nei giorni Bruxelles ha esortato a rinegoziare, in quanto «illegali» gli accordi intergovernativi siglati con la Russia dai Paesi di transito del «tubo».
La «partita del gas» si gioca su due fronti: quello russo-ucraino e il fronte interno all’Europa. Riflette in proposito Lorenzo Colantoni, brillante analista di Limes, la rivista italiana di geopolitica: «Una politica energetica europea di successo ha però bisogno dell’appoggio dei suoi Stati membri. In questo, l’Ue è molto distante dall’essere unita. Il continente europeo si caratterizza per un panorama energetico estremamente eterogeneo, dove alcuni Stati importano più dell’80% del proprio fabbisogno energetico (è il caso dell’Italia) e altri il 40% (del Regno Unito), vittima della mancanza di volontà nel perseguire una politica energetica comune». Così, accade che tra i partner del gasdotto russo South Stream, il peggior rivale dell’europeo Nabucco, figurino, per l’appunto, l’italiana Eni e il gigante francese Edf. Allo stesso modo, nel corso della crisi del gas del 2009 - ricorda ancora l’analista di Limes- solo l’intervento di Angela Merkel aveva permesso alla Commissione europea di vedersi assegnata la missione di monitoraggio per risolvere la disputa. La cancelliere aveva però difeso strenuamente il controverso gasdotto North Stream: senza voler contare le implicazioni ambientali, la struttura ignorava 4 Stati membri (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia), finanziando un’operazione i cui soci, tedeschi e russi, erano guidati dall’ex cancelliere della Germania Gerhard Schröder. Difficile vedere una politica energetica europea in tutto questo.
D’altro canto, la società Gazprom Export, che gestisce il trasporto di gas naturale, ha creato le due reti, North Stream e Yamal, proprio per diversificarsi dal gasdotto che passa in Ucraina. Ma, mentre la capacità della rete ucraina è di 100 miliardi di metri cubi (dato del 2013), quella di North Stream e Yamalè rispettivamente di 55Bcme 33 Bcm. Il che significa che la rete ucraina non è aggirabile da Gazprom. Annotain proposito Matteo Verda, ricercatore associato dell’Ispi: «Nel 2013 il 43% dei consumi di gas nel nostro Paese, pari a 29,5 miliardi di metri cubi, è giunto al rubinetto del Tarvisio, dove arrivano le pipeline che portano gas di produzione russa. Tutto il flusso è passato per l’Ucraina, pur se a regime la percentuale scende al 30%». Nel 2012 la lista dei più grandi acquirenti di gas da Gazprom era capeggiata dalla Germania, seguivano Ucraina, Turchia, Bielorussia, Italia, Polonia, Gran Bretagna, Repubblica Ceca, Francia, Ungheria.
Conclusioni: Bruxelles minaccia sanzioni all’indirizzo del Cremlino. Il problema è che eventuali restrizioni economiche rischiano di ritorcersi contro l’Europa o al meno contro quegli Stati dell’Europa occidentale come Germania e Italia maggiormente dipendenti dalle importazioni di gas dalla Siberia e con un forte interscambio commerciale con Mosca. South Stream e non solo.

l’Unità 22.3.14
Chiuso Twitter. Utenti turchi contro Erdogan
Bufera di proteste in Turchia e all’estero
Aggirato il blocco, il premier in difficoltà
di Roberto Arduini


Rischia di essere un boomerang, anche in vista delle elezioni di fine mese in Turchia, il blocco di Twitter chiesto a gran voce dal primo ministro Recep Tayyip Erdogan. Milioni di utenti del social network sono riusciti ad aggirarlo, anche grazie allo stesso gruppo Usa che ha dato istruzioni ai cittadini turchi per riuscire a continuare a pubblicare i messaggi da 140 caratteri. Una pioggia di critiche, invece, è giunta da Unione europea, organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani, ma anche da esponenti dello stesso Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) del premier. Perfino il presidente della Repubblica turca, Abdullah Gul, «il blocco totale dei social network è inaccettabile». E, beffardamente, il capo dello Stato questa bocciatura l'ha lanciata, appunto, via Twitter.
LE REAZIONI SUL WEB
«Non mi interessa ciò che dice la Comunità internazionale. Tutti saranno testimoni della forza della Repubblica turca » aveva dichiarato durante un comizio elettorale Erdogan, preoccupato dalla pubblicazione online delle intercettazioni che proverebbero il suo coinvolgimento nel recente scandalo corruzione che ha travolto il governo e l’Istituto per le comunicazioni e le tecnologie informatiche (Btk), un organismo legato al ministero delle Telecomunicazioni, ha bloccato l’accesso a sito di Twitter. Il numero di messaggi pubblicati sul sito di micro-blogging, tuttavia, non è diminuito dopo il divieto, ha sottolineato il quotidiano Hurriyet sulla sua pagina web. Secondo un report del portale Twitturk, ripreso dal giornale, infatti, più di un milione e mezzo di tweet sarebbero stati inviati, solo nelle prime 10 ore successive allo stop. Un traffico in linea con la media giornaliera di 1,8 milioni di messaggi. Gli utenti turchi, circa 12 milioni, avrebbero aggirato il blocco il modificando la configurazione della connessione o usando portali Vpn, spiegano gli esperti ripresi dai media. Anche le Forze armate turche, il vice-premier Bulent Arinc e, appunto, Gul hanno continuato a twittare nonostante il divieto. «Spero che questo divieto non duri a lungo. Se c’è stata una violazione della privacy solo le relative pagine vanno rimosse» era l’opinione del capo di Stato. Gli hashtag #TwitterisblockedinTurkeye #TurkeyBlockedTwitter sono balzati in vetta alla classifica dei temi più discussi. Sette su dieci top trend di Twitter a livello mondiale, infatti, riguardano la Turchia, secondo il quotidiano Radikal.
La decisione del governo turco e le prese di posizione del premier hanno scatenato dure critiche sia da parte dell'Unione europea che dalle organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani. Il Commissario Ue per l'allargamento Sefan Fule si è detto «profondamente preoccupato» per il blocco del social media. «Essere liberi di comunicare e scegliere liberamente i mezzi per farlo è un valore fondamentale per l'Ue», ha aggiunto Fule. Secondo il responsabile Turchia di Amnesty international invece: «La decisione di bloccare Twittere rappresenta un attacco senza precedenti alla libertà d'espressione (…) che mostra fino a che punto il governo è disposto ad arrivare per fermare le critiche».
Una vera ossessione quella di Twitter per il premier Erdogan, che durante le manifestazioni di quest’estate per la difesa del parco Gezi, a Istanbul, aveva definito i social network «la principale disgrazia per la società». Il capo del governo a fine febbraio ha di nuovo attaccato il sito di microblogging, parlando di una «lobby dei robot» che attraverso falsi account avrebbe diffuso notizie false sul governo. Secondo il giornalista Murat Yetkin, «Erdogan è sempre più preoccupato per le fughe di notizie e la pubblicazione di conversazioni telefoniche tra lui, membri della sua famiglia, importanti uomini del mondo degli affari e dei media relative ad accuse di corruzione - ha scritto l’analista in un editoriale pubblicato online dal quotidiano Hurriyet. Il premier ha introdotto norme per stabilire un più stretto controllo della politica sulla magistrature e internet, «ma nessuno si aspettava che si muovesse così in fretta per chiudere completamente Twitter. Immediatamente dopo il blocco - racconta Yetkin - milioni di utenti turchi sono passati al contrattacco, aggirando le restrizioni e mostrando che il muro di paura che il premier sta provando a costruire comincia a sgretolarsi».

Repubblica 22.3.14
La scrittrice Elif Shafak: sbagliato proibire le opinioni
“Diritto di parola essenziale questa non è democrazia”
di M. Ans.



«QUESTO divieto è assolutamente inaccettabile. Fa a pugni con i diritti fondamentali e la libertà di parola. In quanto scrittrice, le parole per me sono importanti. E parole e opinioni non possono essere proibite dall’alto. Noi turchi, giovani inclusi, donne, minoranze, meritiamo a una democrazia migliore, più matura». Elif Shafak è l’autrice femminile più nota della Turchia. Ha scritto 9 romanzi (di cui 5 tradotti in Italia da Rizzoli, fra cui “La bastarda di Istanbul”), e soprattutto ha più di un milione e mezzo di follower su Twitter. A Repubblica
dice di essersi sentita “scioccata” quando ha saputo del blocco totale dei 140 caratteri nel suo Paese.
Ma l’odio del premier contro i social network è una storia che dura dal giugno scorso, dalla rivolta al Gezi Park di Istanbul.
«Due sere fa il premier Erdogan ha detto in un discorso pubblico che intendeva “spazzare via” Twitter. Non ci aspettavamo però che sarebbe andato avanti. In passato aveva disapprovato l’uso dei social media. Adesso la gente è preoccupata che possa toccare a YouTube e Facebook ».
Comunque c’è chi si è sùbito opposto, dal capo dello Stato Gül, al vice premier Bulent Arinc, a moltissimi follower in tutto il mondo. Una reazione veemente, no?
«Qui più di 12 milioni di persone usano Twitter. I social media sono forti. Come fermarli? Il divieto non solo è inaccettabile, ma anche inattuabile in quest’èra digitale. La gente ha trovato sùbito un sistema alternativo. Così il numero di tweet postati non è diminuito affatto. Anzi, l’opposto. E l’hashtag “Turkeybannedtwitter” è diventato un topic mondiale».
Su Ankara piovono critiche da Usa, Ue, organizzazioni. La democrazia della Turchia è sotto tiro?
«La Turchia ha bisogno urgente di comprendere il valore della democrazia, la libertà di stampa, la separazione dei poteri, il ruolo della legge. Ci siamo trasformati in una nazione arrabbiata dove la gente tratta gli altri come se venissero da pianeti diversi. Siamo divisi in ghetti culturali. Ci siamo polarizzati e frammentati come mai. La democrazia non è soltanto l’urna elettorale. Democrazia è anche cultura. È qui che cadiamo».
C’è chi parla di scivolamento verso la dittatura. E lei?
«Le tensioni attuali sono molto allarmanti. Soprattutto la crescita di paura e paranoia, e il calo della tolleranza per l’Altro. Comunque, la Turchia non è un Paese isolato. Molta gente è collegata globalmente: loro sanno di meritare una democrazia migliore».

Repubblica 22.3.14
Dalla caduta di Estrada alle primavere arabe quando i social network travolgono il potere
Anche i regimi più duri non riescono a zittire la voce collettiva delle rivolte
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON. I TWEET, i «maledetti tweet» che Erdogan, registrato mentre sembra discutere con il figlio dove nascondere i forzieri dei contanti, voleva zittire, hanno aggirato il blocco, sono volati attraverso altre condotte, si sono moltiplicati, nel classico effetto paradossale della censura che amplifica e diffonde proprio ciò che vorrebbe soffocare. Tre milioni e mezzo di tweet si sono riversati in due giorni nello hashtag #Twitterisblockedinturkey, Twitter è bloccato in Turchia. Il presidente Abdullah Gül si è schierato contro Erdogan. E uno scandalo locale, le possibile bustarelle della famiglia, è diventato - inevitabilmente, dato il “medium” - un caso globale.
Il duello fra il governo di Ankara e quella rete dei microblogger creata otto anni or sono a San Francisco è dunque una lotta di potere, come lo stesso Erdogan l’ha inquadrata: «Faremo sentire tutto il potere del governo turco ». Ma è una lotta fra un potere solido contro un potere liquido che ormai da più di 13 anni dimostra l’impossibilità, per la diga, di contenere sempre e ovunque il mare.
Il primo segnale fu nel gennaio del 2001, in una nazione non celebrata per la propria primazia tecnologica, le Filippine. Quando il Parlamento votò per occultare prove importanti nel processo di impeachment contro il presidente Estrada, bastò un semplice sms a mobilitare la gente di Manila. «Go to Edsa, wear black» diceva, andate sulla Avenida Epifanio De los Santos e vestitevi di nero. Più di un milione di persone risposero accorrendo. Estrada fu destituito.
La potenza aggregante della comunicazione elettronica istantanea avrebbe poi avuto, nella prima decade del 2000, altri successi. Fu anche una tempesta di sms a spingere Josè María Aznar ad andarsene, dopo il suo goffo tentativo di scaricare il massacro della stazione di Atocha sui separatisti. Facebook, Twitter e sms impedirono al Partito Comunista della Moldova di assumere il potere nel2009, rivelando i brogli elettorali che l’avevano fatto vincere. E anche la Chiesa Cattolica, che per decenni aveva sopito e velato gli orrori della pedofilia, dovette misurarsi con la denuncia del giornale di Boston, il Globe, che in poche ore divenne «virale ». Mise Roma, insieme con la conferenza episcopale americana, di fronte a una vergogna non più ignorabile.
È sempre e principalmente la capacità di aggregazione e di mobilitazione, ancora più che d’informazione, il potere che i governi, democratici o totalitari, hanno imparato a temere. I social network non hanno inventato la protesta né hanno inventato le rivoluzioni. Hanno offerto, come altri media prima di loro, uno strumento nuovo alla percezione dell’insoddisfazione e della ribellione. I riformatori scoprirono nella possibilità di stampare la Bibbia, esponendola alla lettura diretta dei fedeli, l’arma per insidiare il monopolio dottrinale del clero. I rivoluzionari americani utilizzarono il servizio postale inventato e creato da Ben Franklin per far circolare la propria insofferenza verso l’Impero britannico e il regime sovietico ben conosceva le possibilità micidiali offerte dalle fotocopiatrici, ben più potenti delle copie con la carta carbone dei samizdat, dei testi proibiti. In Urss anche la carta per le fotocopiatrici ufficiali era rigorosamente controllata.
Il Twitter contro il quale Erdogan si scaglia nel panico alla vigilia delle elezioni del 30 marzo, che il governo cinese tenta di limitare accusando la «diabolica setta» del Falun Gong di essere dietro molti social network, è un miliardo di fotocopiatrici. Il suo ruolo nelle tumultuose primavere arabe, la sua funzione di contro-organizzazione popolare opposta alla propaganda del governo nell’abbattimento di Mubarak sulla piazza Tahrir, nella rivolta tunisina, nel caos libico, fu decisivo. Persino il regime degli ayatollah iraniani brevemente vacillò di fronte alle reti informali ma inafferrabili di dissidenti e di donne.
Ma proprio la sconfitta delle rivolte iraniane mostrarono i limiti del “potere liquido” di fronte al “potere solido”. Il castigo delle guardie della rivoluzione fondamentalista, forte della penetrazione capillare di informatori e di spie, fu violento, spietato, fisico. Se non puoi fermare il messaggio, spegni il messaggero, scrisse Evgenij Morozov, uno dei critici più severi del culto della nuova democrazia atomizzata, e il dubbio che la marea della rivolta via Twitter o Facebook sia uno strumento magnifico per scardinare, ma del tutto inutile per governare, s’insinua anche nei più entusiasti, come anche le primavere arabe hanno dimostrato. Il potere sta imparando, o sta cercando di imparare, a utilizzare lo stesso strumento e il regime chavista del Venezuela, bombardato di tweet, risponde con i tweet. Dal suo letto di morte Chavez twittava: «La rivoluzione è immortale, i gringo imperialisti non vinceranno». Erdogan si è reso ridicolo con la sua guerra agli uccellini e il mondo ride di lui, ma qualcosa ha capito: la prossima rivoluzione sarà twittata.


Corriere 22.3.14
Consumi in crescita e 265 guerre

La battaglia globale per l’Acqua
di Michele Farina

Nel mondo quasi 800 milioni di persone senza risorse idriche Il 67% degli italiani beve l’acqua del rubinetto, quasi 3 miliardi di persone nel mondo non hanno neanche il rubinetto.
In Italia se ne consumano 200 litri al giorno pro capite, in Africa 20, negli Stati Uniti 600. Da noi la bolletta è sempre più cara: 333 euro di spesa media per famiglia nel 2013 (più 7,4% rispetto al 2012). La regione idricamente più costosa è la Toscana (498 euro a famiglia) seguita da Marche e Umbria, mentre la più economica è il Molise (143 euro). Consoliamoci: ci sono luoghi dove l’acqua non si paga in denaro ma in vite umane. Pochi giorni fa in Nigeria una battaglia tra allevatori musulmani e contadini cristiani ha fatto cento vittime: la posta in gioco non era tanto la libertà di culto quanto il controllo dei rari pozzi intorno a un villaggio. Il Pacific Institute tiene una cronologia di tutti i conflitti nella storia che riguardano l’acqua: sono 265. Non si tratta quasi mai di grandi guerre, ma di un reticolo di scontri e tensioni che condizionano la vita di miliardi di persone oltre che la diplomazia internazionale: tra India e Cina per esempio è in corso la «battaglia delle mega-dighe» sul fiume Brahmaputra. Tra Mosca e Kiev, oltre alla questione gas, c’è anche un possibile contenzioso idrico: tutta l’acqua consumata dalla Crimea neo-russa viene dall’Ucraina. L’agenzia dell’Onu per l’ambiente (Unep) dice che un terzo dei laghi e dei fiumi sulla Terra si sta ritirando. In Cina 27 mila corsi d’acqua, la metà del totale, sono scomparsi dagli anni Cinquanta a oggi. In Italia secondo l’ultimo rapporto di Cittadinanzattiva il 33% della ricchezza che scorre nelle nostre tubature va perduto prima di raggiungere i consumatori. Il dato complessivo sugli sprechi nei Paesi sviluppati è del 15%, negli altri sale fino al 35-50%. Italia Paese quasi sottosviluppato quando si tratta di risparmiare risorse idriche?
Arrivata sull’onda di un inverno da noi super piovoso, quest’anno la Giornata mondiale dell’acqua sembra fare meno paura con i suoi memento sull’emergenza globale e la scarsità del cosiddetto «oro blu». Eppure i dati forniti dall’Onu e dalla Banca mondiale battono qualsiasi ottimistica «sensazione meteo» su una possibile abbondanza di risorse dal cielo. Quasi 800 milioni di esseri umani oggi non hanno accesso all’acqua potabile, 2 miliardi e mezzo non hanno servizi igienici (metà degli indiani fa i propri bisogni all’aperto), un miliardo e 300 milioni non hanno elettricità. È proprio l’accoppiata delle due bollette (acqua e luce) a costituire la sfida maggiore. Non a caso le Nazioni Unite hanno focalizzato il loro rapporto per il World Water Day 2014 proprio sul fattore energia. E la stessa Banca mondiale negli ultimi mesi ha messo a punto un’iniziativa per sensibilizzare governi e cittadini sugli scenari della «Thirsty energy».
L’energia ha «sete» di acqua per essere prodotta, l’acqua ha bisogno di energia per essere raccolta e distribuita. Con la popolazione mondiale che punta a quota 9 miliardi, da qui al 2035 il consumo energetico crescerà del 35% (dati International energy agency), con un conseguente incremento del consumo idrico pari all’85%. Stesso discorso sulla questione alimentare: oggi il 70% dell’acqua è usata in agricoltura. Per venire incontro alla crescita demografica si dovranno produrre maggiori quantità di cibo (30% in più) e dunque usare più risorse per l’irrigazione.
La scarsità di oro blu, mette in guardia la Banca mondiale, minaccia i progetti di sviluppo in tutto il mondo. Nell’ultimo anno l’India per mancanza di materia liquida per i sistemi di raffreddamento ha dovuto spegnere alcune centrali termoelettriche e la Francia (in certi casi) quelle nucleari, gli Stati Uniti hanno ridotto la loro produzione di energia, giganti come Brasile e Cina hanno visto diminuita la loro capacità idroelettrica. Negli ultimi cinque anni più del 50% delle imprese energetiche mondiali ha registrato problemi legati al reperimento dell’acqua.
Soluzioni? Le parole d’ordine dell’Onu sono le solite: più efficienza, meno sprechi. Più diplomazia e meno conflitti. Funziona persino tra specie diverse: in Kenya i pastori Samburu sfruttano il fiuto degli elefanti, abili a trovare le falde acquifere. E poi ricambiano il favore preparando abbeveratoi per gli animali assetati.
Michele Farina

l’Unità 22.3.14
Michele Serra
«Staino mi ha insegnato che la satira è un linguaggio passionale, caldo. Può essere feroce ma mai cinica»
«Quando dissi no a Mr. B»
intervista di Alberto Crespi


«Rivendico, per quello che conta, il primato assoluto dell’antiberlusconismo. Cominciai a prendere per i fondelli Berlusconi quando ancora non era nessuno e pochissimi lo conoscevano». Così Michele Serra, firma storica (non solo satirica! I suoi servizi da inviato alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984 erano spesso serissimi) dell’Unità», fondamentale collaboratore di Sergio Staino nell’avventura di Tango e poi direttore in proprio di Cuore. Ma la giusta rivendicazione di Michele arriva quando gli rievochiamo qualcosa che probabilmente ricordiamo in sei o sette: gli spassosi corsivi firmati «Pollicino».
Serra li scrisse per un certo periodo sulla cronaca milanese del giornale, diremmo tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80. Erano brevi scritti che prendevano in giro un fenomeno nuovo, quello delle tv locali - spesso dilettantesche e surreali - che proliferavano nell’etere milanese: «Gli esordi di Berlusconi come imprenditore televisivo contenevano, in nuce, tutta la squassante, vitale, disgustosa volgarità che ha poi contraddistinto il suo evo. Quando ho scritto il mio primo corsivo contro di lui avrò avuto 23 o 24 anni. Un suo emissario mi telefonò per propormi di lavorare a Mediaset. Già allora la tecnica era quella: compera i tuoi nemici. Gli risposi, senza pensarci più di due secondi, che un lavoro già ce l’avevo, all’Unità. È una medaglia sul mio petto, poche palle. Va bene non vantarsi. Ma se uno ha fatto gol, ha fatto gol...».
Michele, restiamo per un attimo in quell’epoca, quando Tango e Cuore non esistevano ancora. Tu eri un redattore degli spettacoli nella redazione di Milano, Maria Novella Oppo era la caposervizio, nella stanza accanto Andrea Aloi curava assieme a Oreste Pivetta l’inserto libri, Sergio Banali era il redattore capo e Alessandro Robecchi (che si firmava Roberto Giallo) un giovane collaboratore rockettaro (e abbiamo citato il futuro nucleo di «Cuore» nonché la corsivista regina dell’Unità di oggi). Chi scrive, fresco «precario » agli spettacoli, veniva in redazione in viale Fulvio Testi con lo spirito di chi va al cinema a vedere i fratelli Marx. Ci divertivamo come un branco di deficienti e nei ritagli di tempo facevamo anche il giornale. Si può dire che tutto è cominciato lì, in una redazione- e in un Pci – non molto inclini alle risate?
«È vero, il clima nel Pci non era propriamente ilare. Ma tutto stava cambiando, anche per l’ingresso nel partito di una generazione movimentista e scapigliata, che si era formata in un clima profondamente diverso da quello dei padri. La visione del partito e della politica era più laica. Più scostumata, ma per tanti versi più lucida, meno moralista. L’ingresso - massiccio anche numericamente - della mia generazione nel Pci e all’Unità ha “alleggerito” il clima rispetto alla psicologia e ai costumi di un partito che si era pur sempre temprato nella Terza Internazionale, e umanamente parlando nella clandestinità e nella guerra. Ma l’idea che la satira potesse trovare proprio dentro l’Unità un terreno fertile fu di Sergio Staino, cioè di un militante di ferro, marxista organico, che aveva scoperto la funzione terapeutica della satira per guarire da sbornie ideologiche e depressioni che la caduta dell’ideologia rischiava di produrre. Sergio è un grande artista e un grande uomo, lo voglio dire a bocce ferme e con il senno di poi: i suoi meriti di caposcuola sono enormi, io gli devo moltissimo. Ha insegnato non solamente a me, maa molti, che la satira non è un esercizio di stile, ma un linguaggio passionale, coinvolgente, “caldo”. Può essere feroce, non può mai essere cinico. Il cinismo non fa ridere quasi mai. È artisticamente sterile».
Come nacque «Cuore»? In continuità o in discontinuità rispetto a «Tango»?
«Massimo D’Alema, che allora era il direttore dell’Unità, dopo l’autochiusura di Tango mi propose un inserto culturale con un po’ di satira. Mangiai la foglia ma credo che la mangiò anche lui: feci un inserto di satira con un po’ di cultura. Ero debitore a Tango di molte cose, a cominciare dalla formidabile squadra di autori: Altan, Elle Kappa, Perini, Vincino, Angese e molti altri. Di mio ci aggiunsi Vauro e Disegni&Caviglia. Nel frattempo era morto Andrea Pazienza, terribile perdita, a Cuore è mancato moltissimo. Ma riuscii a far scrivere Edoardo Sanguineti, Natalia Ginzburg, Franco Fortini, Giovanni Giudici... Cuore fu, a tratti, una vera e propria rivista della sinistra che cambiava. Il mio principale rimorso è stato non riuscire a coinvolgere anche Luigi Pintor, che considero ancora oggi il più grande giornalista di sinistra di tutti i tempi e di tutte le galassie».
Prendeste il nome da uno dei romanzi «fondanti» dell’identità italiana, che di satirico non ha nulla ma che di umoristico, sotto sotto, forse... Citare De Amicis era un modo di sottolineare che la satira non è solo sberleffo ma anche a volte affetto, coinvolgimento emotivo con l’oggetto satireggiato?
«Sì, era esattamente questo. Il riferimento a De Amicis era uno sberleffo; ma conteneva, con ambiguità voluta, anche un cedimento sentimentale. Da Staino e da Tango avevo imparato che la satira, quella vera, non può prescindere da quello specifico coinvolgimento sentimentale che è la passione politica. Lungi da essere condizionante, la passione politica è stata, per Tango e per Cuore, un valore aggiunto. Una benzina. Fa sorridere, ripensandoci oggi, la buffa polemica di Forattini sulla “satira di partito che non può essere libera”. Facevamo molta più satira contro la sinistra noi rispetto a lui. Che, tra l’altro, con gli anni è diventato un disegnatore organico alla destra, schieratissimo politicamente, mentre tutti gli autori di Cuore hanno seguito percorsi infinitamente più liberi dalla politica».
Prima sull’Unità c’era solo Fortebraccio, un genio che però prendeva in giro «il nemico». Fuori c’era «il Male», che era contro tutto e tutti. «Tango» e «Cuore » sono stati il primo esempio di satira non solo «contro» ma anche «accanto» a qualcuno. Questo creava difficoltà nel rapporto con il partito?
«Ci sono stati molti problemi, polemiche, scontri con quel pezzo di Pci che serbava, di se stesso, un’immagine chiesastica. Ma era evidente da subito che quell’immagine di sé era perdente, travolta dall’evidenza dei fatti e dalla potenza della storia. Il successo prima di Tango e poi di Cuore dimostrò che esisteva un enorme pubblico che serbava una forte identità di sinistra, ma era capace di ridere di se stesso. Il comico è sempre l’altra faccia del tragico. I bigotti e i moralisti non capiscono il comico perché non capiscono il tragico, e non avvertono quanta umanità ci sia nell’elaborazione della sconfitta e nell’espressione del limite. Non solo il limite degli altri, troppo comodo, ma il limite proprio. L’assolutismo è, prima di ogni altra cosa, abbastanza idiota. Ma gli idioti, nella sinistra italiana di quegli anni, erano una netta minoranza: di qui il successo prima di Tango, poi di Cuore».
Abbiamo citato Robecchi, Aloi e il grande Banali. Il loro ruolo, e quello degli altri redattori, è stato fondamentale.
«Io faccio sempre orribili gaffe perché non ho grande memoria. Rischio di dimenticarne molti. Non Lia Celi, che era la sola ragazza della redazione oltre alla segretaria Carla Falato. Non Piergiorgio Paterlini e i grafici Grassilli, Bolognini, Luccarini, l’infinità dei collaboratori, degli artisti che venivano a trovarci in redazione, dei lettori-delatori che ci mandavano fotografie, racconti, descrizioni dello sfascio nazionale... Il merito vero che rivendico a Cuore è stato fare satira sociale più ancora che satira politica. Avere capito che “la gente” non è innocente, e può essere oggetto di satira tanto quanto il potere. Il consumismo bulimico e ridicolo fu uno dei grandi Leitmotive della satira di Cuore. In quei casi prendevamo per il culo “la gente”, non certo il Palazzo». La prima pagina a cui sei più legato? Quella - se c’è – che non sei riuscito a, o hai deciso di, non fare?
«Forse quella sulla morte di Salvo Lima: “Lima come John Lennon, ucciso da un fan impazzito”. Oppure quella, decisamente acida e “antipopolare”, che diceva “I limiti della democrazia: troppi coglioni alle urne”. Una prima pagina autocensurata, e sono felice di non averla fatta, era sul suicidio di Edoardo Agnelli, ragazzo sensibile e sfortunato. Ricordo il titolo che volevamo fare, non lo dirò mai».
Ultima cosa. Avevamo deciso di non chiederti nulla su Grillo, sull’Unità di ieri Stefano Disegni, penna decisiva di «Cuore», ha detto che se foste diventati un partito sareste stati dei grillini ante litteram, ma più acculturati. Qualcosa da dichiarare?
«Grillini più acculturati è una definizione che mi piace. Talmente acculturati che il partito, guarda caso, non l’abbiamo fatto».

l’Unità 22.3.14
Con il giornale al prezzo di due euro
Mercoledì l’inserto sulla satira, prenotalo in edicola

Prima c’era il tratto elegante e puntuale di Fortebraccio (Mario Melloni) con un’ironia mai volgare verso gli avversari politici. Poi con Bobo-Staino su l’Unità prese le mosse un mutamento epocale. Un partito serio attraverso il suo giornale iniziò a parlare di se stesso, dei suoi dubbi. Da qui nasce l’avventura di «Tango» prima e «Cuore» dopo. Il meglio della satira dell’Unità lo troverete nell’inserto in edicola mercoledì: 96 pagine su carta migliorata a due euro, compreso il prezzo del giornale (un consiglio: prenotate la vostra copia dall’edicolante!). Oltre a vignette memorabili ci saranno articoli di Veltroni, Pivetta, Staino, ElleKappa, Franchi, Celi e un’intervista a Emanuele Macaluso che venerdì ha compiuto novant’anni.

l’Unità 22.3.14
Antica Roma
I tagliatori di teste
I legionari romani? Altro che portatori di civiltà
Secondo un’autorevole rivista nella Britannia romanizzata del II secolo dopo Cristo i capi mozzati venivano ammucchiati in fosse aperte dove si decomponevano
di Franco Rollo


L’IDEA CHE I LEGIONARI ROMANI CHE ATTORNO AL I SECOLO DOPO CRISTO SI INSEDIARONO NELLA LORO ISOLA FOSSERO DEI BRUTI SANGUINARI, anziché dei portatori di civiltà, come amiamo ritenerli noi, fa, di tanto in tanto, capolino nell’immaginario collettivo inglese. Ricordo, era l’autunno del 1980, il clamore mediatico suscitato dalla rappresentazione di The Romans in Britain al National Theatre di Londra. Si trattava di una pièce che aveva come tema la sottomissione delle popolazioni autoctone celtiche da parte degli invasori. Per fiaccarne il morale i romani applicavano la sottile strategia psicologica di sodomizzare i druidi su cui riuscivano a mettere le mani. Lo stupro del druido, ripetuto sul palcoscenico ogni sera con impressionante realismo teatrale, fece scandalo in un’Inghilterra ancora puritana e contribuì grandemente al successo mediatico del dramma (l’avventurosa storia delle rappresentazioni di The Romans in Britain, è narrata da Mark Lawson in un documentato articolo, Passion Play, su The Guardian, Friday 28 October 2005). Nelle intenzioni dell’ autore, Howard Brenton, The Romans in Britain avrebbe dovuto costituire una metafora della occupazione inglese dell’Irlanda del Nord e, in generale, dell’imperialismo e abuso di potere in ogni epoca storica. Ho però il sospetto che solo alcuni cogliessero la metafora; negli altri prevalse l’interpretazione letterale e superficiale della sceneggiatura, da cui trassero l’opinione, un po’ goliardica, che gli antichi romani erano dei bruti sadici e che i celti, i druidi in particolare, avrebbero dovuto difendere con più determinazione il loro onore.
Il dibattito sulla brutalità degli antichi romani sembra ora destinato, inaspettatamente, a rinfocolarsi ad opera, non più di un autore teatrale, ma di Journal of Archaeological Science. L’autorevole rivista scientifica ha pubblicato un articolo in cui si afferma senza mezzi termini che nella Britannia romanizzata del II secolo dopo cristo erano all’opera cacciatori di teste. Autori dell’articolo sono due giovani e preparate ricercatrici, Rebecca Redfern del Museum of London e Heather Bonney del London’s Natural History Museum. Esse ritengono di avere raccolto le testimonianze di una incetta di teste umane che venivano poi ammonticchiate in fosse aperte dove si decomponevano e venivano scarnificate dagli animali. Per la loro indagine hanno utilizzato 39 crani ritrovati nel corso di scavi condotti nel 1988 entro il perimetro della Londra romana, Londinium, in un’area archeologica interessata dal corso dello scomparso torrente Walbrook. Una volta recuperati i crani erano stati trasportati al Museum of London dove sono rimasti in deposito per anni; l’uso di metodi avanzati di antropologia forense ha ora permesso di scoprire che la maggior parte di essi appartiene ad individui adulti di sesso maschile che, poco prima di morire, furono feriti con vari tipi di armi. Sono state trovate anche tracce di vecchie ferite, riconoscibili per il fatto che l’osso ha avuto il tempo di rimodellarsi e cicatrizzarsi.
La vicinanza del sito dove sono stati ritrovati i resti umani a quello dove sorgeva l’anfiteatro di Londinium ha fatto pensare a gladiatori sconfitti che sarebbero stati finiti con la decapitazione o le cui teste sarebbero state spiccate dal corpo dopo la morte per motivi ancora non chiari. Le tracce di ferite, vecchie e recenti, si accordano perfettamente con quello che comunemente si pensa fosse lo stile di vita di un gladiatore. Vi è anche una seconda ipotesi: sembra ragionevole supporre che, almeno in alcuni casi, i crani siano di delinquenti comuni; negli anfiteatri e nei circhi venivano eseguite le sentenze alla pena capitale. Vi è, infine, una terza ipotesi, che le autrici dell’articolo sostengono con convinzione. Questa è che i crani rappresentino trofei di guerra delle truppe che presidiavano il Vallo di Adriano. Lì avevano primariamente il compito di tenere tranquilli e sottomessi i locali. Secondo questa ipotesi le teste mozzate di quelli che, possiamo immaginare, erano dei ribelli catturati, sarebbero state trasportate o spedite a Londinium, la sede del comando supremo romano, come prova di missione compiuta e per riscuotere le taglie spettanti. Dopo essere state esposte in luoghi pubblici per l’edificazione della cittadinanza, le teste sarebbero finite nelle fosse comuni.

l’Unità 22.3.14
Viviane che uccise il suo analista
di Marco Rovelli


QUESTA SETTIMANA HO LETTO DUE BREVI ROMANZI FRANCESI USCITI DA POCO IN LIBRERIA, che meritano di essere segnalati. Il primo è Viviane Elisabeth Fauville di Julia Deck, trentanovenne scrittrice esordiente. Me lo aveva segnalato un’amica in rete, e mi aveva incuriosito il tema: una giovane donna che uccide il suo psicoanalista. Che insomma mette in atto, in corpore vili, l'uccisione simbolica del padre: a essere fisicamente cancellato è il dottore che incarna «una forza oscura», lo «specialista che le dà sui nervi», il «soggetto supposto sapere», per dirla con Lacan - per quanto lo psicoanalista ucciso, qui, sia freudiano, e non lacaniano. La vicenda viene narrata con una molteplicità di voci narranti, ciò che consiste con la dislocazione psichica della protagonista, e il lettore viene guidato, più che nella trama di un apparente noir (che Viviane abbia ucciso l'analista viene dichiarato subito), nell'interiorità folle di Viviane, alla ricerca di se stessa mancandosi sempre, incapace di sfuggire al suo isolamento sociale e alla sua solitudine profonda. E funziona ottimamente questo gioco ad incastri d'angoscia, dove il dedalo di Viviane si riflette in una Parigi maniacalmente mappata, quasi ad ancorare quel delirio a una realtà concreta. L'altro romanzo è invece del 1983, ma è stato tradotto solo adesso grazie a Orma: si tratta di Il posto di Annie Ernaux, scrittrice ben conosciuta in Francia, dove pubblica per Gallimard. Con una scrittura distaccata, descrittiva, fenomenologica, senza voler pregiudicare il racconto con le sue opinioni, tenta di restituire il vissuto del padre, e quel «posto» che a lui spetta, e che si era dissolto nel distacco tra lui e la figlia, nella divergenza dei loro mondi: lui contadino, poi operaio, poi commerciante; lei avviata alla scuola, all'educazione, alla cultura. Ernaux ha scritto in prima persona, senza mascherare nulla: e bisogna davvero saper scrivere, per riuscire a coinvolgere il lettore in un vissuto sentimentale senza mai usare gli artifici della retorica.

l’Unità 22.3.14
Neri, il mediano che disse «No»
Uno scatto del Ventennio, i giocatori che alzano il braccio destro, allo stadio di Firenze, per salutare i gerarchi fascisti
Tutti tranne uno: morirà da partigiano, nel bosco di Marradi
di Marco Bucciantini


Tutti tranne uno. Tutti tranne Bruno Neri. È una foto posata nella memoria. Un attimo nell’infinita storia, a volte riaffiora per la sua potente forza che anima un libro, uno spettacolo a teatro, una serata di ricordi. Accadde su un campo di calcio eppure non è un gol, non è un gesto atletico. Tutt’altro: è un rifiuto dell’azione, dello schema proposto. È il braccio di Bruno Neri che non si alza nel saluto romano creando un lieve disallineamento dell’ordine fascista.
La Fiorentina gioca la prima partita casalinga del campionato 1931-32, è il battesimo in Serie A del nuovo stadio – non ancora completato, sullo sfondo della foto s’intravede la costruzione ancora in divenire e la Maratona incompiuta nelle ultime file. Lo stadio progettato dall’ingegnere Pier Luigi Nervi è un perfetto esempio di razionalismo. Il mecenate che immagina e permette la costruzione è il padrone della Fiorentina e gerarca fascista in zona, Luigi Ridolfi, marchese, poi petroliere. Gradito al Duce. Lo stadio viene intestato a Giovanni Berta, giovane squadrista ucciso nel 1921 e per questo inquadrato come «martire» del Ventennio. Quel nome rimarcava la natura ed il significato dei rapporti tra sport e metodo fascista. Berta fu pugnalato da un gruppo di comunisti su un ponte e poi gettato nell’Arno. Il giorno prima, una squadraccia era entrata al numero 2 di via Taddea, nella sede di varie attività di sinistra: dal sindacato dei ferrovieri alla federazione provinciale comunista. Il riferimento di questo spaccato sociale e politico che si opponeva al passo marziale delle camice nere era Spartaco Lavagnini. I fascisti spararono quattro colpi, per esser certi dell’esito: due alla testa, uno al petto, l’ultimo alla schiena di Lavagnini, ormai caduto a terra. Su Ordine Nuovo Gramsci lo salutò così: «Spartaco Lavagnini, caduto come un capo, al suo posto di lavoro, ha forse giovato di più all' idea in cui credeva, ha forse insegnato maggiori cose al popolo con la sua morte, di quanto nessuno possa mai insegnare con la parola».
Anche il gesto di Bruno Neri è silenzioso, come può esserlo una rinuncia. I compagni sorridono e salutano romanamente i gerarchi fascisti seduti in tribuna. Lui non sorride e non saluta. Morirà da partigiano, ma non ora, non lì allo stadio dove compie un gesto immortale. Il suo braccio tenuto basso, e il pugno chiuso, sono una scelta, il suo «no» è una magnifica affermazione di libertà. Questa foto è un attimo di un’esistenza privata che diventa immediatamente universale ed eterna. Quella figura ha la forza di una scultura. La foto diventa importante senza che ne sia consapevole il fotografo: non è la messa in scena che la rende simbolica e la eleva a trattato sul coraggio. Sono l’errore, la lacuna, il braccio che manca per la scelta contraria del ragazzo, i suoi 21 anni già adulti che restituiscono l’immagine alla nostra storia, così da poter racchiudere in sé il commento a un certo modo di vivere, di esistere e di resistere.
Bruno Neri nasce a Faenza nel 1910. Studia arte, legge poesie e gioca a pallone, lo fa bene, a 16 anni è titolare in Serie B, a 19 anni lo compra la Fiorentina per 10mila lire (tanti soldi, allora). Neri valica l’Appennino e diventa un giocatore importante, un mediano che corre molto ma sa impostare, ci sono tre presenze in Nazionale che testimoniano la qualità dell’atleta: era l’Italia di Pozzo, due volte campione del mondo, e nel mezzo alle due vittoriose avventure trova posto anche Neri. La Gazzetta giudicò così la sua partita d’esordio contro gli svizzeri (4-2 il risultato): «Neri imposta magnificamente l’azione che sviluppa Meazza, Ferrari, Piola».
Nel 1936 lascia la Fiorentina e va a Lucca dove lo vuole il tecnico danubiano Ernest Erbstein che l’anno seguente lo porterà con sé al Torino. Erbstein comincia a costruire la squadra imbattibile degli anni quaranta, ma potrà allenarla solo una stagione: nel 1938 il regime vara le leggi razziali e l’allenatore ebreo ungherese è costretto a lasciare l’Italia, e con lui anche Arpad Weisz, tecnico del Bologna. Nel periodo piemontese il mediano continua ad abitare luoghi insoliti per uno sportivo, lo storico Gerbi ricorda il suo fervore intellettuale, che appagava «frequentando giovani giornalisti e scrittori» negli incontri carbonari nelle soffitte di Lungo Po, «tanto che alcuni di loro lo avevano scelto come modello di personaggio, come esempio di atleta con una sensibilità aperta e cordiale, dotato di fermezza di carattere e schiettezza nei rapporti, coraggio e fiducia nel prossimo». Anni prima, a Firenze bazzicava il Caffè delle Giubbe Rosse, dal nome delle divise dei camerieri, in linea con la moda viennese dell’epoca (a fondare il bar furono due fratelli tedeschi fabbricanti di birra). Alle Giubbe Rosse letterati e artisti s’incontravano (e si scontravano, come successe ai futuristi milanesi di Marinetti e i fiorentini raccolti intorno alla rivista La Voce, sulla quale Ardengo Soffici pubblicò un articolo che attaccava i rivali: finì in rissa).
Neri chiuse la carriera in Serie A con 219 presenze e due reti, allenò per un anno il Faenza poi il conflitto mondiale complicò le attività agonistiche e allora provò a investire i risparmi della carriera di calciatore acquistando a Milano un’officina meccanica dal tenore faentino Antonio Melandri. Durò poco, la guerra lo assorbì. Dalla parte giusta. Il cugino Virgilio lo avvicinò agli ambienti antifascisti. Virgilio Neri è notaio e vive a Milano. Le cronache raccolte nel libro di Massimo Novelli, Bruno Neri, il calciatore partigiano (edito da Graphot Editrice) lo descrivono «in continuo contatto con personalità come don Sturzo, Ugo La Malfa e il futuro presidente della Repubblica Giovanni Gronchi». Virgilio sarà poi arrestato dai tedeschi, torturato e deportato nel lager di Bolzano.
Bruno dunque abborda la guerra. È in Sicilia quando sull’isola sbarcano gli Alleati. Da lì invia una cartolina al suo amico e concittadino Ivo Fiorentini, allenatore del Livorno. I toscani hanno appena perso lo Scudetto, vinto dal Torino con un solo punto di vantaggio e Neri scrive: «Mio caro Ivo, avresti meritato sorte migliore. Hai avuto ugualmente grandi soddisfazioni e questo conta pure qualcosa. Mi rallegro tanto con te». Dopo l’armistizio di Cassibile il mediano parte per i boschi dell’Appennino. Si arruola con il nome di battaglia «Berni» e rinforza l’organizzazione Resistenza Italiana, con l’obiettivo di fare da tramite tra le varie brigate partigiane. Viene impiegato in prossimità della Linea Gotica, che i tedeschi avevano tracciato da Pesaro a Carrara. Gli Alleati premeranno decisamente su quel fronte solo nell’estate del ‘44, e Neri approfitta dell’attesa per tornare in campo con il Faenza nello strambo campionato dell’Alta Italia. L’ultima partita è del 7 maggio, una sconfitta nel derby di Bologna. Pochi giorni dopo Faenza è bombardata, lo stadio distrutto. Di là dal crinale, a Campo di Marte lo stadio Berta (che oggi è pressoché medesimo nella struttura: è l’Artemio Franchi) ospita cinque renitenti alla leva, rastrellati a Vicchio dalla milizia della Repubblica sociale italiana. Tutti ventunenni, come Neri quel pomeriggio con il braccio abbassato. Anche loro in qualche modo esibiscono un rifiuto: vengono fucilati dai soldati nei pressi della torre di Maratona.
Dopo l’ultima partita, Neri torna in montagna e si occupa soprattutto di coordinare il recupero dei lanci di armi e di viveri attuati dagli alleati, che adesso sorvolano con maggiore cadenza. È nominato vicecomandante del Battaglione Ravenna. Il 10 luglio «Berni» sta salendo mitra a tracolla il sentiero che da Marradi conduce all’eremo di Gamogna insieme al comandante Vittorio Bellenghi, «Nico». Stanno effettuando una perlustrazione per vedere se il gruppo può attraversare quella zona andando a recuperare il lancio degli alleati sul monte Lavane. Inciampano nei militari nazisti. I partigiani si buttano a terra, i tedeschi riparano dietro le pietre. Gli uni sono i bersagli degli altri, Nico e Berni vengono colpiti e uccisi. Nel punto esatto, una lapide evoca il calciatore.
Anche una foto lo ricorda in un momento esaltante e difficile. È sempre più facile dire di sì che dire di no. È sempre più sicura la corrente, la compagnia è più confortante della solitudine. Il mediano scelse un destino volubile, sfidò il timore di rimanere fuori gioco, restò fedele ad antichi e radicati imperativi morali. Neri si separò dalla pigra galleria che tese il braccio (ma qualcuno sembra più sicuro degli altri nel salutare). Volle marcare la sua diversità, riconoscere e approvare la sua dignità. Disfacendo una situazione consolidata che i tempi stava saldando in modo indiscutibile, insindacabile, fino all’annullamento della libertà. Max Weber distinse questo comportamento nell’etica della responsabilità, che impone di agire pensando alle sue conseguenze: in questo caso, ancora maggiore è il coraggio del calciatore, perché solo, perché le prime conseguenze potrebbero travolgere la sua vita prima di essere utili a qualcun altro. Ma non c’è turbamento nel suo volto che trattiene tutto il significato di un’esistenza autentica, vera. In quella foto è un uomo grande come l’intero universo e piccolo come la più piccola e tenace e resistente cosa. Che va a morire, dalla parte giusta.

l’Unità 22.3.14
Manlio, atleta antifascista
La storia di Gelsomini rugbista e medico, nel libro di Valerio Piccioni
Abbracciò il fascismo e poi se ne allontanò fino all’adesione alla guerra di liberazione
Fu trucidato alle Fosse Ardeatine
di Valerio Rosa


«Non sono nato per una vita facile, io. Amo l’imprevisto e nell’assurdo trovo spesso la ragione filosofica del mio pensiero. Mi piace fare il medico perché trovo nella mia professione degli imprevisti e delle difficoltà che devo sempre risolvere rapidamente e brillantemente per la mia vita: al di là dell’orizzonte noto. Vado verso l’ignoto con la sete di voler sapere. Rischio il tutto per tutto». È l’autoritratto di un uomo che, per avere tutto il mondo tra le braccia, ci si è trovato anche la morte, un uomo tutto d’un fiato, coerente con la curiosità - e la propensione a cacciarsi nei guai - che fieramente si attribuisce. È Manlio Gelsomini, gioiello dell’atletica italiana e pioniere del rugby nei primi anni del fascismo e fascista egli stesso, pienamente inquadrato nelle attività sportivo-universitarie del regime, del cui nazionalismo banale, aggressivo e violento diventa poi un fiero oppositore, quando abbandona lo sport per fare il medico e abbraccia una forma personale di comunismo non materialista.
Un percorso umano e politico ricostruito con passione e rigore da Valerio Piccioni, esemplare decisamente inconsueto di giornalista (è una nota firma della Gazzetta dello Sport), che ama andare oltre le statistiche, le classifiche e i luoghi comuni che immiseriscono il racconto del fatto sportivo, per cercarvi le storie, i sentimenti e l’umanità di cui da sempre si nutre la letteratura. Manlio Gelsomini. Campione partigiano (edizioni Gruppo Abele, pagg. 174, euro 14) è anche la dimostrazione di un’altra attitudine dello sport, quella di illuminare lo studio della storia sotto un punto di vista alternativo alla polverosa ufficialità dei programmi ministeriali. L’indagine di Piccioni è, del resto, un’indagine storica a tutti gli effetti, che ricostruisce i fatti ragionando su documenti e testimonianze, elementi legati da una prosa sincopata, che non lascia respiro, come gli scatti di Gelsomini sul filo del traguardo, undici secondi dopo avere buggerato un suo acerrimo nemico, il fantasma delle false partenze.
Tra questi frammenti, colpisce la prosa esatta, ferma e - trattandosi di un medico - chirurgica di alcuni estratti dal diario, in cui affiorano l’orgoglio, la paura, la crescente lontananza dal delirio fascista, la politica, l’ideologia, l’amicizia, il coraggio. Ma anche l’amara ironia del destino, che costringe Gelsomini, velocista nelle piste d’atletica e vorace consumatore di vita, all’irrimediabile lentezza delle giornate sempre uguali trascorse nel carcere di via Tasso.
L’ECCIDIO DI 70 ANNI FA In prigionia affronta la fame, il freddo, la tortura, prima di andare a morire il 24 marzo di settant’anni fa alle Fosse Ardeatine, pagando con la vita la resistenza al nazifascismo. La dedizione dell’atleta, poi l’altruismo del medico, infine l’eroismo del partigiano, che leggeva il suo tempo senza farsi troppe illusioni, e proprio per questo sapeva sperare nel futuro: «Non voglio atteggiarmi a cinico ma questo ritorno al classicismo, da quello ruggente di Carducci a quello arcaico di D’Annunzio, fino ai giorni nostri, ha provocato la più grave stortura mentale della nostra gente. Ha finito per farci credere come gli eredi diretti della potenza Romana e invece non siamo che i figli degeneri di un popolo ormai esaurito. Occorre comprendere che non siamo che dei piccoli uomini».

il Fatto 22.3.14
Via Rasella, le Fosse Ardeatine
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, domenica 11 febbraio il “Fa tto” ha intervistato Guido Ceronetti. Alla domanda su Priebke, ha rilanciato la responsabilità dei Gap sull’eccidio delle Fosse Ardeatine. La mia domanda è: come sono andati davvero gli eventi?
Celestino
GUIDO CERONETTI non appartiene in nessun punto e in nessun modo al tipo di scrittore italiano che, dopo essere stato di sinistra, si rifà una reputazione presso la peggiore borghesia italiana raccontando nei dettagli crimini della Resistenza italiana (improvvisamente ricordati sessanta anni dopo, in epoca berlusconiana) che fanno diventare brave persone i Khmer rossi cambogiani. Ceronetti è importante, è serio e va preso sul serio. Su via Rasella sembra avere creduto alla lunga e tenace opera di disinformazione (a cui si sono prestate molte persone “per bene”) secondo cui i tre combattenti per la libertà che nella Roma occupata e dominata da truppe tedesche con la collaborazione fascista, hanno realizzato un rischiosissimo attentato, sarebbero personalmente responsabili della rappresaglia e avrebbero dovuto consegnarsi salvando la vita dei 355 massacrati e gettati nelle caverne dette Fosse Ardeatine, il 23 marzo 1944. Tutta la sequenza che cerca di mostrare i tre partigiani (Rosario Bentivegna, Pasquale Balsamo, Carla Capponi) non come combattenti (quasi soli a Roma) ma come autori di un crimine che avrebbero dovuto prontamente espiare, è falsa, perché non ci si consegna al nemico. In guerra si continua a combattere. Infatti i tedeschi occupanti avevano già violato ogni altro accordo facendosi consegnare l’oro della comunità ebraica di Roma come prezzo per la salvezza e poi catturando in piena notte del 16 ottobre 1943, tutti gli ebrei del Ghetto che è stato possibile trovare, compresi i neonati e i vegliardi ammalati. Erano impegnati in arresti e rastrellamenti di chiunque fosse ritenuto ebreo, antifascista o nemico, violando persino conventi e i luoghi di culto. E intendevano terrorizzare la città con la continua e nota attività di tortura in via Tasso. Dunque non soldati avversari ma violente truppe di occupazione, senza limiti e senza scrupoli. Infatti hanno eseguito la rappresaglia per l’attentato di Via Rasella (dieci vite contro una e, tra le vittime prescelte, molti cittadini ebrei) entro poche ore, senza alcun preavviso, e dandone l’annuncio “a sentenza eseguita”. Rassicuro chi ci ha scritto, e chi teme che la questione sia assurdamente restata in sospeso. C’è la sentenza del Tribunale di Roma del 9 giugno 1950, confermata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, e in seguito confermata da molte altre sentenze. In essa si legge, fra l’altro: “Essendosi trattato di una legittima azione di guerra, l’attentato di via Rasella è riferibile allo Stato e non ai singoli autori di esso, per cui nessun sindacato della Autorità giudiziaria è ammissibile sull’atto medesimo”. Il tentativo di sganciare Priebke, e di legare i partigiani alla responsabilità delle Fosse Ardeatine (uno dei più gravi crimini tedeschi di tutta la feroce guerra nazista e fascista in Italia) è crollato subito. Ma poiché è continuato il fascismo fino a oggi, recuperato da Berlusconi e accolto non solo a Casa Pound, non è finita la denigrazione della Resistenza, un momento alto e grande della nostra Storia che contrasta troppo con la condizione in cui è stata ridotta moralmente l’Italia ai nostri giorni. Dunque domani, 23 marzo, anniversario della strage delle Fosse Ardeatine, ricordiamo e onoriamo i suoi, i nostri eroi: i Partigiani insieme ai Caduti delle Fosse Ardeatine, insieme a tutti coloro che hanno liberato l’Italia.

Repubblica 22.3.14
Post-sinistra
Revelli: “La catastrofe di un mondo senza politica”
Tecnocrati, populismi, disuguaglianze:
radiografia dell’Occidente malato nella nuova uscita “iLibra”, oggi con Repubblica
intervista di Paolo Griseri



È uno degli intellettuali italiani più irriverenti nei confronti della sinistra. Nel 1996 scrisse Le due destre per segnalare il rischio che, chiuso il Novecento fordista, la sinistra italiana si consegnasse al dominio ideologico delle tecnocrazie liberali europee. Erano gli anni di Tangentopoli e dell’Ulivo. Oggi, in pieno postfordismo, Marco Revelli propone la Post- Sinistra, da questa mattina in edicola, libreria e in ebook per la nuova collana “i Libra” di Repubblica e Laterza.
Revelli, che cosa resta oggi della sinistra?
«Resta ben poco. Perché resta molto poco della politica, della capacità di offrire un’alternativa razionale a quello che è sempre stato definito l’ordine naturale delle cose, l’immutabile susseguirsi di scelte che privilegiano una piccola parte della società a scapito di una maggioranza subalterna».
Politica e sinistra sono dunque sinonimi?
«Nell’Occidente capitalista è così. La destra non propone di mettere regole all’economia e al sistema sociale. Al contrario, propone di toglierle: non si fa carico di una proposta organica di società ma si limita a suggerire le ricette ideali perché sia il libero mercato con i suoi istinti a plasmare la realtà».
Dunque dire che non c’è più la politica, significa dire che ha vinto la destra?
«In un certo senso è così. Non ha vinto una destra politica in senso stretto, ma hanno vinto i tecnocrati che applicano le sue ricette. Mi colpì molto, un anno fa, la considerazione che fece il neogovernatore della Bce, Mario Draghi, all’indomani del controverso risultato elettorale alle politiche italiane. Eravamo effettivamente in una situazione di stallo, aperta a tutti gli esiti possibili. Draghi commentò: “Non c’è da preoccuparsi in modo particolare. Chiunque alla fine governerà, sulle grandi scelte c’è un pilota automatico che garantisce la rotta”».
Perché la colpì quella frase?
«Perché quella frase è la negazione della politica. È come se i passeggeri spendessero molto tempo a scegliere il pilota per poi scoprire che, chiunque sia ai comandi, la rotta è già tracciata da altri ».
Chi può oggi invertire la rotta tracciata dai tecnocrati?
«Non vedo molte possibilità. Il mercato della politica offre poche alternative credibili. Ci sono diversi populismi che provano non a invertire la rotta ma a rassicurare (o a aizzare, che è lo stesso) i passeggeri dell’aereo. Sono tutte quelle proposte che promettono di tutelare settori particolari della popolazione: difendere gli indigeni dagli immigrati, i benestanti dall’assalto dei poveri, ma anche i cittadini dalla casta dei politici».
Per riassumere, dalla Lega a Grillo?
«Con le loro diversità, naturalmente. Ma li ascriverei tutti alla categoria dei populismi».
Poi c’è la sinistra rappresentata dal Pd e, oggi, da Renzi. Qual è il suo giudizio?
«Il Pd è una forza politica che non ha più nulla a che vedere con la tradizione della sinistra italiana del Novecento. Renzi è l’ultima bandiera di un’idea della politica che si fonda sulla personalizzazione e sull’illusione della cosiddetta ripresa. L’idea cioè che la crisi di questi anni sia come una malattia che passa e poi tutto torna come prima. Sappiamo tutti che non sarà così ma ci piace credere che con 85 euro al mese in più in busta paga l’economia riprenderà e passeranno tutti i problemi».
Eppure non si può certo aspettare che arrivi la catastrofe per cambiare il mondo. E se la catastrofe non arriva? Siamo ancora ad aspettare la caduta tendenziale del saggio del profitto...
«Non si tratta di attendere la catastrofe ma di guardare la realtà. È evidente che l’attuale situazione non può proseguire a lungo. Un mondo in cui 85 miliardari possiedono la ricchezza di tre miliardi di persone non è un mondo che abbia grandi prospettive. Possiamo far finta che non sia così, possiamo credere che ci sia la luce in fondo al tunnel ma sappiamo che non è vero».
Un tempo la sinistra aveva proposte di sviluppo. Modelli alternativi ma realistici per il cambiamento. Oggi non rischia di proporre solo suggestioni per un mondo che verrà chissà quando?
«La sinistra si è identificata per molti anni con la modernità, con una certa idea di ammodernamento del mondo. Ma dopo la fine del Novecento che cosa è la modernità? Velocità e cemento? Pura mitologia del fare?»
Nella Post- Sinistra qual è allora il ruolo dell’intellettuale?
«È quello di segnalare i pericoli di un mondo che procede fiducioso con il pilota automatico verso la catastrofe. Non è un ruolo semplice. Credo però che sia utile avere nella società degli anticorpi che non si rassegnano ad accettare l’ordine di cose esistente e la grande narrazione che lo giustifica. In fondo, gli anticorpi possono servire proprio per difendersi dalle malattie. L’intellettuale che fa questo va preservato perché è una specie di vaccino sociale».

Repubblica 22.3.14
La lezione di Simone
Quando la Weil parlava di anima geometrica
Omero e Platone, l’antica Grecia e i Vangeli, l’ascesi e la logica, la filosofia e la fabbrica Paolo Zellini e Marco Vannini, un matematico e uno studioso di mistica, rievocano la grande eretica
intervista di Antonio Gnoli



Morì a 34 anni nel letto di un ospedale di Londra. Era il 1943. Simone Weil concluse il breve tragitto terreno non immaginando che il suo pensiero sarebbe diventato straordinariamente fecondo tra coloro che ebbero in odio dottrine sicure e ideologie trionfanti. Abbracciò con pari entusiasmo il pensiero religioso e quello scientifico. Ma di entrambi privilegiò l’aspetto meno ortodosso. Oggi ci si interroga se fu una mistica. Non c’è dubbio che su quella strada trovò spesso le ragioni del suo pensare e agire. Nel nome di una purezza assoluta scandagliò le passioni umane e le grandi storie. L’antica Grecia e i suoi protagonisti e l’altra, riferita al Cristianesimo. Ci fu davvero continuità tra i due eventi, come la Weil provò a raccontarci nei saggi raccolti nel libro La rivelazione greca (Adelphi)? Per discuterne abbiamo invitato il matematico Paolo Zellini e lo storico delle religioni e, in particolare, del pensiero mistico Marco Vannini.
In che senso si può parlare di un pensiero mistico della Weil?
Marco Vannini: Farei una premessa. L’attenzione della Weil per il mondo greco nasce dalla lettura dei poemi, delle tragedie e da alcune opere filosofiche. Con questa idea di fondo: qualunque cosa l’uomo faccia nel nome della verità rivela la potenza divina. È un segno di Dio.
Anche se il mondo greco è pagano?
Vannini: Certamente. Del resto, un grande mistico contemporaneo di Dante, Meister Eckhart, disse che i maestri pagani conobbero la verità prima della rivelazione cristiana. Non c’era ai suoi occhi una rottura sul senso della verità. I due mondi si parlavano. La Weil non farà altro che riprendere quella straordinaria intuizione fino ad estenderla alla scienza greca.
Quando si dice “scienza greca” cosa dobbiamo intendere?
Paolo Zellini: Per la Weil è la scienza vera e propria. Tutto quello che successivamente accadrà nel pensiero scientifico fu una continuità o un tradimento di quel nucleo originario.
In cosa consiste questo nucleo?
Zellini: I greci stabilirono dei criteri e crearono delle teorie che permisero la nascita di una episteme, cioè di un modo peculiare di pensare che non aveva precedenti. La grande innovazione greca fu di cogliere nella varietà dei fenomeni - nel mutamento delle cose ma altresì nel mutamento dell’anima - delle invarianti. Scoprire, ad esempio, che la stella del mattino è uguale a quella della sera, perché è sempre Venere, consentì ai greci di darsi, pur nel mutamento, dei punti fermi.
Vannini: La scienza greca in un certo senso stabilizzò il mondo dei fenomeni.
Zellini: Permise che quel mondo potesse essere conosciuto. Non a caso furono i greci a mettere a punto il concetto di dimostrazione, di cui la geometria di Euclide fu la più classica delle realizzazioni. D’altronde, sono stati sempre i greci, attraverso l’analisi e la sintesi, a inventare un nuovo modo di ragionare. E quel ragionamento per analisi e sintesi, via via che si procedeva, si estese ad altri ambiti che non erano solo quelli della scienza o, più in particolare, della matematica. Fu a questa estensione che la Weil guardò con interesse. Quando prese concetti come forza, equilibrio, misura, numero, rapporto e simmetria, lo fece consapevole di trasferirli nell’ambito ristretto della matematica a quello più generale del mondo dello spirito.
La scienza greca, diversamente dalla scienza moderna, era per la Weil un modo originale per accostarsi alla religione?
Vannini: Più che un modo di accostarsi, un modo di essere religione. Fu la sua grande intuizione, discutibile quanto si vuole, ma certamente in grado di aprire a una lettura originalissima del mondo greco. Da questo punto di vista, è chiara la lontananza della Weil dalla scienza moderna che vide soggetta alla categoria dell’utile ed esposta allo scientismo. Ai suoi occhi la scienza doveva avere per oggetto la verità.
Anche le scienze moderne hanno come oggetto la verità.
Vannini: Certo, ma non era a quel tipo di verità che la Weil faceva riferimento. Non era alle verità sperimentali che lei pensava. Piuttosto si riferiva a quella verità che l’uomo razionale cerca e non trova nella semplice correttezza o accordo con i fatti, bensì gli si impone attraverso la rivelazione. È ciò che i greci chiamavano aletheia, un concetto che apre a un modo di pensare religioso.
Zellini: Per Simone Weil, e su questo è molto esplicita, fu la religione a innescare in qualche modo i problemi della scienza e, in particolare della matematica. Le figure della geometria, i numeri, secondo lei, erano immagini divine. E di una intensità tale che richiedevano, per forza di cose, un’esattezza del pensiero. Di qui la necessità della dimostrazione rigorosa.
Non può apparire sconcertante questo accostamento?
Zellini: Non più di tanto. Perché gli storici della matematica hanno recentemente mostrato come effettivamente non solo in Grecia, ma anche in altre civiltà, possa essere stata proprio la religione a introdurre dei problemi matematici. Ad esempio, in India, la costruzione di certi altari per i rituali religiosi richiedeva competenze matematiche notevoli.
Tornerei alla questione religiosa e alla relazione che la Weil stabilì tra mondo greco e cristianesimo. Si può far partire questa relazione dal saggio bellissimo, compreso in questo libro, che lei dedica all’Iliade come poema della forza?
Vannini: Porrei la questione in questi termini: la Weil vide nei Vangeli l’espressione estrema di quello spirito greco che nell’Iliade aveva già una sua compiutezza. Il testo omerico va interpretato a partire dalla forza, cioè dalla sottomissione dell’uomo alla necessità. È la comprensione della forza che apre alla “regina delle virtù”, ovvero all’umiltà.
Insomma la forza non è solo quella che si esercita ma anche quella che si subisce?
Vannini: Meglio: che si accetta. Già nei Sermoni di Meister Eckhart troviamo declinata l’umiltà non come espressione di generica virtù o di devozione, ma come sapere. L’umiltà è allora il sapere che noi siamo quasi in tutto e per tutto soggetti alla necessità - o a ciò che oggi chiamiamo determinismo - cioè al fatto che le circostanze, l’educazione, la disciplina, in una parola l’imperio della forza, ci dominano.
Ma questa assunzione della forza in che modo si traduce nel messaggio evangelico?
Vannini: La Weil ci dice che nessun poema ha saputo, come l’Iliade, mettere sullo stesso piano nemici e amici. La stessa comprensione, lo stesso dolore, la stessa trascendenza si rivolgono tanto alla morte dell’uno quanto alla morte dell’altro. E questo senso di eguaglianza, starei per dire di compassione, lo si ritroverà pienamente nei Vangeli.
Zellini: È giusto il richiamo di Vannini all’idea di equità presente nell’Iliade. Equo ci dice la Weil è Ares, il dio della guerra, che uccide coloro che uccidono. Quindi l’Iliade non è solo il poema della forza ma anche della debolezza e del rapporto che si stabilisce tra il forte e il debole. Perché quando la forza è senza limiti, quando è esercitata in tutta la sua hybris, diviene problematica. Colui che esercita la forza senza limiti perde il pensiero e smarrisce anche il senso di giustizia ed espone se stesso a una condizione psichicamente caotica.
La forza gli si ritorce contro?
Zellini: Egli stesso finisce col diventare vittima della forza degli altri. Il gioco della guerra, nota Simone Weil, è pendolare. È un’oscillazione dove il forte non vince mai in maniera definitiva. Il simbolo di questa oscillazione è la bilancia. E viene in mente la bilancia d’oro di Zeus che pesa le sorti dei contendenti. Ma anche il numero si può definire come una bilancia, ci ricorda la Weil. Per calcolarne le cifre si usava, nel mondo arabo, una “regola dei piatti della bilancia” E quando, in ambito cristiano, incontriamo un Clemente Alessandrino che dice che Dio è bilancia, misura e numero di tutti noi, è alla Grecia che occorre risalire per spiegare l’origine di questa immagine.
Vannini: Nel mondo medievale anche la croce è vista come una bilancia.
Quello che l’Iliade rappresenta sul piano della narrazione epica, Platone lo rappresenterà sul piano filosofico. È convincente la lettura che la Weil fa dei Vangeli come diretta emanazione del pensiero platonico?
Vannini: A mio parere è una lettura persuasiva. La Weil interpreta la Repubblica, in particolare il “Mito della caverna”, e altri testi come il Convito, con la necessità che per accedere al bene e alla verità l’uomo abbia una conversione. Il “prigioniero” della caverna deve girarsi e volgersi indietro e per far questo deve essere liberato dalle catene, non si libera da solo. Per la Weil la natura umana è corrotta, cieca. I prigionieri vedono solo ombre. Solo la conversione, cioè la grazia, può portarli alla luce. Ecco dove l’idea platonica si salda con il messaggio cristiano.
In che misura la mistica, con cui la Weil interpretò Platone e predilesse una certa via del cristianesimo, diventò esperienza personale?
Vannini: Tutta la filosofia della Weil porta con sé un problema di conversione e di testimonianza. Ed è una filosofia segnata profondamente dal misticismo perché il suo pensiero è esercitato con tutta l’anima, con tutta se stessa, mettendo in discussione la sua vita. Fu una donna che provenendo dall’École Normale decise, per scelta, di fare l’operaia alla Renault, di partecipare alla Guerra di Spagna, di entrare nella Resistenza e finì con l’ammalarsi gravemente. È abbastanza raro imbattersi, con quella coerenza, in una vita rivolta alla verità.
Zellini: C’è da dire che la Weil non ebbe mai uno spiccato temperamento pratico e non riuscì poi a fare tutto quello che avrebbe voluto. Non riuscì, più di tanto, a lavorare nelle fabbriche.
Cosa ritrovava nel lavoro di fabbrica?
Zellini: A parte i temi dello sfruttamento credo che la cosa che la interessasse era ancora una volta il rapporto con la scienza. Addirittura arrivò a dire che la geometria nasce dal coraggio dell’operaio, perché è il lavoro manuale che ci mette a contatto con lo spazio e col tempo. Più tardi cambiò idea. E proiettò la scienza nel contesto religioso. Ci si potrebbe a questo punto chiedere se la verità matematica è la stessa verità religiosa o sono due cose diverse. E la risposta non sarebbe facile. Certamente no, in senso assoluto. Perché Dio non è fatto di cerchi o triangoli. D’altro canto certe forme geometriche sono in qualche modo immagini divine.
Vannini: Si potrebbe attribuire alla Weil una specie di galileismo per cui la matematica è il linguaggio privilegiato di Dio.
Zellini: Sì, ma per lei la rivoluzionaria legge di inerzia di Galileo era già un tradimento: se un mondo dove c’è un corpo che conserva indefinitamente la sua velocità e la sua direzione era equivalente a un mondo in stato di quiete, veniva a cadere la stessa nozione di equilibrio.

Repubblica 22.3.14
New York, Museum of Modern Arts
Il Moma rende omaggio a Marco Bellocchio

Il MoMa di New York celebra Marco Bellocchio, dedicandogli una retrospettiva sui suoi film.
“Marco Bellocchio: A Retrospective” prenderà il via il 16 aprile e si concluderà il 7 maggio.Sul sito del Moma qui
Il comunicato stampa del Moma (con tutti i dettagli della programmazione) è disponibile qui