sabato 12 febbraio 2011

l’Unità 12.2.11
La dignità delle donne
riguarda tutti
Domani in piazza per dirlo
C'è in quello che sta avvenendo una importante assunzione di responsabilità collettiva che deciderà della reale modernità del nostro Paese. Molte hanno capito che questo è il momento di fare massa critica, in cui non hanno spazio ortodossie da difendere, diversità da ostentare
di Anna Finocchiaro


Non ricordo, negli ultimi anni, un così vasto movimento di opinione, una così ricca produzione di documenti pubblici, una così numerosa serie di iniziative come quella che in questi giorni si manifesta tra le donne italiane.
Perché stavolta non è in gioco né il destino di una legge per quanto definitiva sotto il profilo sostanziale e simbolico come fu quella sulla violenza sessuale, né resistono divisioni politiche e di concezione di vita e di ruolo, come accaduto con la legge sul divorzio.
Stavolta in gioco c'è l'identità stessa delle donne. L'essere donne italiane così come in lunghi decenni esse hanno definito nella più strabiliante delle diversità se stesse. Che poi la rappresentazione mediatica risulti un'altra è altro affare. Attiene al fatto che, per ritardo culturale, perdurante ottusità e manifesto condizionamento da parte della potente macchina mediatica a disposizione del berlusconismo, le donne italiane sono raramente rappresentate per quelle che sono, relegate invece, se va bene, al ruolo di vittime, deboli, soggetti minori.
Ma le donne sono altro. Conciliano lavoro, figli e impegno. Studiano perché vogliono imporsi nella società, non puntano tutto sulla loro avvenenza, molte amministrano bene pubblico senza aver dato niente in cambio.
Basterebbe guardarle, appena guardarle con sollecita curiosità (e sono oltre la metà della popolazione), per verificare di quale stupefacente innovazione esse sono state capaci: nell'istruzione, nel lavoro, nell'ovviare ad un welfare insufficiente e arretrato, nella propria libertà, nella rottura di schemi e ruoli giovando alla società italiana, al suo benessere, alla sua crescita e sviluppo, alla sua stessa sprovincializzazione.
Oggi affidiamo la formazione dei nostri figli a insegnanti donne, la cura della nostra salute a medici donne, la guida delle imprese, i nostri diritti e i nostri interessi a manager, magistrati e professionisti che sono donne. Con percentuali, peraltro, destinate a crescere, poiché le diplomate e le laureate superano già statisticamente i maschi . Anche per questa ragione, oggi, proprio oggi, le donne italiane avvertono che la misura è colma e pretendono che la propria identità non sia
manipolata. Oggi, in questi giorni e in queste ore, le donne cercano visibilità per pretendere rispetto e ottenere il riconoscimento della loro dignità.
Si tratta di una questione politica, non privata.
Capiamo bene che questa pretesa, la consapevolezza di sé che l'accompagna e la competizione che le don-
ne ormai praticano in campi tradizionalmente maschili, possa far paura. Che induca timore di perdere ruolo e posizioni, in particolare nelle classi dirigenti maschili del nostro Paese.
E si capisce che la condivisione, il dover mettere a disposizione almeno la metà delle occasioni e delle opportunità economiche (di lavoro, di carriera e di potere) irrigidisca chi oggi le detiene prioritariamente. Ed allora, è preferibile per alcuni fare finta di niente. Evitare di guardare e di vedere. Ed è naturale che il Presidente Berlusconi, che del potere ha concezione arcaica, totemica e illimitata, non possa comportarsi che come fa. Ammettendo, ai luoghi delle opportunità come graziosa concessione, solo le donne che lui stesso sceglie, certificandone ad un tempo avvenenza e capacità. Quanto alle altre, esse sono archetipo delle donne che non infastidiscono, ma "allietano" soltanto. Con l'esibizione dei loro corpi in tivù, con lo sfruttamento del loro corpo in uno spazio che non è più solo privato, perché, per quanto se ne lamenti, la separazione tra pubblico e privato è stata frantumata dallo stesso Berlusconi, che dell' esibizione della sua fisicità ha fatto uso politico, e dei suoi affari privati e familiari ha fatto elemento di discussione pubblica.
Ma, appunto, le donne italiane reclamano oggi di essere raffigurate, e di raffigurarsi a loro volta, per quello che sono. E non è più la rivendicazione della signoria su se stesse, per quanto così precaria si sia rivelata in questi anni la signoria di ciascuna sul suo proprio corpo. Oggi è altro: è la pretesa, perentoria, di essere rappresentate, come genere collettivo, per quello che si è e si è diventate. E stimate, e rispettate per davvero,
per quello che, liberamente, si è scelto di essere. Trastullo per nessuno, oggetto di sfruttamento per nessuno, soggetto invece dignitoso e libero, riconosciuto nella sua dignità e nella sua libertà. Tutte. Se fossimo abituate a pensarlo, forse ci renderemmo conto anche di quale potente strumento di integrazione questo potrebbe diventare per le donne che in Italia vengono da altri Paesi, da altre culture, da altre religioni. Mi colpiva, nella conversazione avuta qualche giorno fa con una giovane donna velata, intelligente e simpatica, il fatto che mi confidasse quanto le mancasse la possibilità di frequentare una piscina per praticare il nuoto. In Italia, diceva, sono tutte promiscue, e la mia religione mi chiede di non frequentarle. E aggiungeva che forse solo una cooperativa di donne avrebbe potuto offrire, a sé ed alle sue sorelle, quella possibilità. Non ci conoscevamo, ma le era venuto spontaneo pensare che solo altre donne avrebbero potuto riconoscerle quel bisogno e quella occasione. Non è un caso.
Ma in quello che sta avvenendo in questi giorni c'è anche altro di nuovo. Ce lo racconta il fatto che ogni appello, ogni lettera, ogni documento venga riconosciuto, e firmato, da chi a sua volta ne ha scritto un altro e firmato altri ancora.
E che questo accade spontaneamente, con la naturalezza con cui si risponde ad un'urgenza, con cui la si condivide.
Non c'è fatica politica, ma c'è, in ciò stesso, un fatto politico. Donne diversissime hanno compreso che, appunto, questo è il momento e confidano, giustamente, nella forza di una massa critica in cui non hanno spazio ortodossie da difendere, diversità da ostentare. Così in piazza il 13 febbraio ci saranno, ci saremo, tutte. Bene. Molto bene. Questo ci dice anche che la forza e la fatica spese negli anni, da tante e tante donne per se stesse e per le altre, non si sono consumate e disperse, come a volte abbiamo temuto, ma anzi, hanno dato sicurezza di sé a nuove generazioni di donne e si manifestano oggi, di fronte all'urgenza, come coscienza collettiva. Ancora di più, come coscienza nazionale.
Se mai fosse stata solo questo, oggi non è piu' una questione di genere, un rivendicare diritti e spazi. L' interlocuzione e le adesioni di tanti uomini alle tante manifestazioni, testimonia di un tema che si impone, finalmente, come generale.
La dignità delle donne come cartina di tornasole della crescita, dell' identità, del futuro italiano: c'è in quello che sta avvenendo una importante assunzione di responsabilità collettiva che deciderà della reale modernità del nostro Paese.

l’Unità 12.2.11
Intervista a Magdy Ahmed Hussein
«È la nostra liberazione
Senza armi abbiamo fatto la storia»
Il segretario del partito del lavoro: «Per le strade ho visto gente piangere di gioia La nostra vittoria è un monito per tutti quei regimi nel mondo che si sentono inamovibili»
di Umberto De Giovannangeli


L’indignazione si è trasformata in felicità. La rabbia in commozione. Il dolore per l’affronto subito con il discorso
dell’altra notte di Mubarak si è trasformato in orgoglio per essere riusciti in una impresa storica. Abbiamo dovuto aspettare altre ventiquattr’ore per vedere il tramonto del rais. Ma per chi ha aspettato questo giorno da trent’anni, 24 ore sono un niente. Ora l’Egitto può finalmente voltare pagina». A sostenerlo è Magdy Ahmed Hussein, segretario generale del Partito del Lavoro egiziano, più volte arrestato dal regime per la sua attività di oppositore. «Non era stato solo il popolo egiziano ad essere stato preso in giro dal discorso di Mubarak dell’altra notte dice a l’Unità Hussein ma l’intera Comunità internazionale, a cominciare dal presidente degli Stati Uniti. Obama ha detto che in Egitto si sta facendo la storia. È così. E questa storia ha scritto oggi (ieri, ndr) una pagina eroica. Non si governa senza il consenso del popolo. Ora inizia un’altra partita che ha come posta in gioco la democrazia».
Hosni Mubarak si è dimesso. Qual è il suo stato d’animo a notizia appena battuta dalle agenzie di stampa? «Lo stessa delle centinaia di migliaia di persone che gremivano Piazza Tahrir. Una liberazione. Non trovo le parole per descrivere ciò che sta avvenendo sotto i miei occhi...La gente piange di gioia, ragazze abbracciano i soldati... È il Giorno della Liberazione. Abbiamo scritto una pagina indelebile nella storia dell’Egitto... Una rivoluzione ha ottenuto il suo primo obiettivo senza usare la forza. È una lezione per tutti i popoli oppressi del mondo».
Da più parti si indica nel vice presidente Suleiman la possibile guida per una transizione ordinata... «È presto per dirlo. Il generale Suleiman è stato colui che ha avviato il dialogo con le opposizioni. Ne ha ascoltato le richieste: elezioni libere, fine dello stato di emergenza, riforma della Costituzione. Da qui occorre ripartire».
«In quella Piazza si sta scrivendo la storia»: così Barack Obama su Piazza Tahrir... «Parole importanti che evidentemente hanno sortito l’effetto sperato: l’uscita di scena di Mubarak. Il presidente Obama era consapevole che l’affermare che in Piazza Tahrir si “faceva la storia” non aveva nulla di retorico, di roboante. Era solo la constatazione di un fatto. E il presidente del “Nuovo Inizio” non poteva tradire una Rivoluzione che ha al suo centro la rivendicazione di libertà, diritti, giustizia sociale. Ma in quella presa di posizione di Obama, c’è anche un sano pragmatismo...
Vale a dire?
«L’America non può legare i suoi interessi geopolitici in Medio Oriente a regimi che rappresentano il passato. Non può affondare con loro».
L’Esercito si fa garante della fine dello stato d’emergenza «una volta finiti i disordini» e promette elezioni libere ed eque...
«L’Esercito ha avuto un ruolo importante in queste settimane facendo argine alle squadracce filogovernative. Ora si apre una fase nuova in cui è importante lavorare per una transizione democratica che coinvolga tutte le forze sane del Paese. E l’Esercito è tra queste». Parte ma non tutto. Non c’è il rischio che al regime del «Faraone» se ne sostituisca uno dei militari? «L’Esercito non è un corpo estraneo alla società egiziana. Chi lo comanda ha potuto rendersi conto in questi 18 giorni della determinazione, del coraggio, della lucidità di cui milioni di egiziani hanno dato prova. In piazza c’erano tutte le componenti della società, operai, giovani disoccupati, giudici, teologi, medici, docenti universitari...L’Egitto è cambiato e nessuno può illudersi di poterlo più governare con il pugno di ferro. Indietro non si torna. Di questa transizione l’Esercito può esserne il garante».
C’è chi teme che la rivolta spiani la strada ai Fratelli Musulmani... «I Fratelli Musulmani sono parte del movimento ma non ne rappresentano gli orientamenti maggioritari. Lo hanno anche riconosciuto. Questo “rischio” non esiste».
Chi nel mondo arabo deve gioire di questa svolta egiziana e chi deve invece temerla? «A gioire sono quei popoli soggiogati da regimi che si pensavano inamovibili. Ma nessuno lo è. A temerlo sono quelli che si credevano inamovibili e che si sono arricchiti ai danni dei loro popoli. Anche per loro la fine è vicina».

Repubblica 12.2.11
Le Goff: "Oggi è storia Per il mondo arabo è una grande rivoluzione"
"Un tiranno cacciato senza veleno né spada"
di Pietro Del Re


La scomparsa di re o tiranni avviene di rado con una sollevazione popolare. Soprattutto in quella parte di mondo
L´unico precedente è la caduta dell´ultimo sultano turco, che però fu costretto all´esilio dall´esercito di Atatürk

«No, non me l´aspettavo proprio: quanto accaduto in Egitto e in Tunisia è grande una novità per i Paesi arabi, una prima assoluta nella storia di quel mondo». Appare davvero stupito il celebre medievalista francese Jacques Le Goff, al quale chiediamo di scandagliare la Storia con la sua memoria e la sua erudizione per fornirci analogie con quanto accade in queste ore al Cairo. «La scomparsa brutale di re, imperatori o tiranni è quasi sempre passata attraverso l´omicidio o le rivoluzioni di palazzo, e molto più raramente grazie a una sollevazione popolare. Soprattutto in quella parte di pianeta».
Professor Le Goff, la fine di Mubarak non ha proprio nessun antecedente?
«Nessuno. Salvo, forse, la caduta dell´ultimo califfo turco, Abdul Mejid II, che però fu costretto all´esilio più dall´esercito di Atatürk che da un sollevamento popolare. Diverso è quanto accaduto in Africa centrale, dove re e capi tribù sono stati, essi sì, scacciati da rivolte di popolo, in paesi come il Benin o il Congo».
E che cosa è successo altrove, in Europa, per esempio?
«Mi vengono in mente almeno tre esempi francesi. L´ultimo re di Francia, Luigi XVI, prima di essere condannato a morte dal parlamento e decapitato, fu vittima della rivoluzione del 1789, che può essere considerata un sommovimento popolare».
E gli altri due?
«Carlo X, ultimo re della dinastia dei Borboni, fu spodestato nel 1830 dal popolo parigino. Allora la rivolta durò tre giorni, entrati nella storiografia con il nome dei "tre gloriosi", perché così fu intitolato lo splendido quadro con cui il pittore Eugène Delacroix immortalò quei moti. Dalla piazza fu detronizzato anche Luigi Filippo nel 1847».
Ci fu poi la rivoluzione russa del 1917.
«Certo, fu anche quello un imponente sollevamento popolare che fece cadere l´ultimo zar di tutte le Russie, Nicola II».
Torniamo all´antichità. Quali eventi le propone la memoria?
«Possiamo perfino risalire ai tempi biblici, quando Saul, primo re del Regno d´Israele, fu cacciato dalla folla e sostituito da David. Penso anche al grande re babilonese Nabucodonosor, noto per aver conquistato e distrutto Gerusalemme e il suo tempio, e che dal 605 a.C. regnò per 43 anni. Ebbene, fu anche lui detronizzato dalla piazza di Babilonia».
E in Italia?
«Nel 1343, i tumulti di Firenze fecero cadere il Signore della città».
Dalla rivolta dei mercenari di Cartagine a quella cinese dei "Sopraccigli Rossi" e dai Vespri Siciliani a quella delle Quattro giornate di Napoli, le ribellioni sono state numerose nella storia dell´umanità. Ma quante hanno ottenuto l´esito sperato?
«Dai tempi dell´Antica Grecia solo molto poche sono riuscite a rovesciare un re o un despota. Nei secoli scorsi, gli espedienti più diffusi per sbarazzarsi di un sovrano erano piuttosto il veleno o la spada. Perché? Perché è sempre stato più facile pagare un sicario che mobilitare una folla. Mi riferisco all´assassinio del re d´Inghilterra Eduardo IV, e quello del re di Francia Enrico IV. Ma poteva anche capitare che un monarca fosse vinto in battaglia. Accadde all´inglese Carlo I e all´imperatore francese Napoleone III, il quale nel 1870 fu duramente sconfitto dai prussiani a Sedan. A causa di quella catastrofe militare, a Parigi venne rapidamente decisa la deposizione dell´imperatore. Con lui finì il Secondo Impero».
Ma ci sono stati anche sommovimenti repressi nel sangue, o comunque abortiti prima di raggiungere lo scopo voluto.
«Certo. Le faccio l´esempio del borghese Etienne Marcel, che condusse il primo moto rivoluzionario della storia di Parigi. Il 22 febbraio 1358, con un folto gruppo di suoi partigiani, invase il palazzo del Delfino, obbligando quest´ultimo a rinnovare la Grande Ordonnance, un testo legislativo promulgato dagli Stati generali di Francia che prevedeva la ristrutturazione dell´amministrazione regia. Diventato padrone assoluto di Parigi e sostenuto dalla borghesia, Etienne Marcel tentò quindi di far abbracciare la propria causa anche alla provincia. Il Delfino, però, era nel frattempo riuscito a fuggire e a mettere Parigi sotto assedio. Il 31 luglio 1358, Marcel fu ucciso da un sostenitore del Delfino».

Repubblica 12.2.11
Il sultanato e i suoi danni
di Giorgio Bocca


Che cosa è stato per l´Italia il periodo che va sotto il nome di berlusconismo? Certamente un periodo di perdita della pubblica educazione, della correttezza dei rapporti civili. Di una delle sue allieve predilette, la signora Minetti, Berlusconi ha detto: «Una donna intelligente, laureata, che è diventata per suoi meriti consigliere regionale».
Ma nelle intercettazioni di questa signora viene fuori un altro personaggio, una donna di una volgarità è di un´avidità notevoli, che di Berlusconi dice: «Quel vecchio dal sedere floscio che ci faceva eleggere a cariche pubbliche per farci pagare dai contribuenti». Nessuna vivandiera di lanzichenecchi sarebbe stata più feroce.
Il berlusconismo è anche una riduzione della lotta politica a livello infimo, in questa politica il ministro degli Esteri della Repubblica italiana, invece di occuparsi delle bufere sociali in corso in Egitto o in Tunisia, legge alla Camera una comunicazione di un ministro di Santa Lucia, repubblica delle banane caraibica, la rivelazione storica che Gianfranco Fini, co-fondatore del partito di governo, ha un cognato di nome Tulliani che è proprietario di una casa Montecarlo. In altre parole il ministro degli Esteri di una grande nazione europea si presta a diffamare il presidente della Camera diventato nemico politico del sultano.
Il berlusconismo è un periodo nero della storia politica e civile italiana anche per altri aspetti, a cominciare dai rapporti fra il presidente del Consiglio e l´informazione, fra il signore di Arcore e la libertà di stampa. Criticato da giornalisti e da politologi il premier si comporta come un sultano vendicativo e minaccioso, viola tutte le regole della pubblica informazione, irrompe nelle trasmissioni televisive e radiofoniche per insultare i suoi critici usando parole da trivio come «la sua trasmissione è un postribolo» e «infami menzogne». Offrendosi alla giusta reazione degli accusati di cui dice: «di lei mi vergogno», «la sua trasmissione è infame». Un´impressionante riedizione del Nerone di Petrolini, del despota feroce e ridicolo che abusa del suo potere e si fa applaudire dalle sue vittime.
Con il Cavaliere di Arcore ecco il danno maggiore: la giovane e fragile democrazia italiana si riduce a un pettegolezzo volgare, a un gossip che tutto occupa e soffoca, che rischia di mascherare tutti i problemi del governo, tutti i doveri di educazione e di stile, il paese intero, sotto una nube ronzante di menzogne e abuso di potere. Perché comunque si consideri l´uomo di Arcore, egli è la gente che frequenta, che ama, che protegge, che innalza o abbassa a suo piacere, questa corte maleducata e supponente che grazie a lui vive di bassi servizi. Tutti, anche i migliori, che ritengono normale avere dalla res publica non solo un lauto stipendio ma anche le amanti.
Il berlusconismo come un tempo di corruzione e di servitù, esentato dalla ferocia solo dal controllo internazionale e dall´indole del sultano che vuole non solo l´obbedienza ma anche la gratitudine del popolo. E il disagio, la stanchezza di vivere in un paese senza morale, senza regole del gioco rispettate da tutti, senza disciplina, ci fa rimpiangere quelle società che ti mettono alla prova di educazione e di ragione, non quelle dove tutto è permesso a patto che tutto decada verso il peggio. Purtroppo per molti italiani il laisser faire è preferibile ai doveri.


il Fatto 12.2.11
La politica non va a scuola
di Marina Boscaino


Le circolari dello scorso anno su iscrizioni alla prima superiore e determinazione degli organici (equivalente a un taglio di più di 40 mila posti) sono illegittime. Lo ha decretato a luglio il Tar del Lazio. Sono state emesse senza che la “riforma” delle superiori avesse compiuto l’iter giuridico per diventare legge. Il 17 febbraio ci sarà l’udienza definitiva sul ricorso di docenti, Ata, studenti e genitori, coadiuvati dai comitati Scuola e Costituzione. Come si spiega allora che Gianluca Parrini – consigliere regionale della Toscana (V commissione, Attività culturali e Turismo) – raggiunto, sul recapito di posta elettronica istituzionale, dalla richiesta del Tavolo Regionale per la Difesa della Scuola Statale di appoggiare il ricorso con intervento ad adiuvandum abbia chiesto di essere cancellato dalla lista degli interlocutori istituzionali? Senza arrivare a questo eccesso, molti enti locali di centrosinistra (tutte le Regioni) interpellati, per ora si sono sottratti. Strano. Il ricorso impugna i provvedimenti attuativi della l. 133/08 (-8 mld alla scuola pubblica, -140 mila posti di lavoro), in particolare tagli agli organici della scuola statale. La grande mobilitazione di questi anni, come è noto, non ha fermato i progetti di smantellamento della scuola pubblica previsti da quella legge, poi confluita in Finanziaria. Per il 2011/12 il MIUR taglierà 35 mila posti (20 mila cattedre e 15 mila non docenti). Ci saranno meno Ata in tutti gli ordini di scuola, penalizzando in particolare i plessi piccoli di scuola primaria e dell’infanzia , in forse nel garantire l’orario. Le 20 mila cattedre graveranno su secondaria di II grado (il professionale passerà da 36 a 32 ore nelle classi I, II e III) e primaria, dove le 27 ore saranno estese alle classi III e si parla anche di un taglio di 4.700 posti di inglese. Dobbiamo forse pensare che questi tagli sono ben accetti a coloro che non intendono dare sostegno al ricorso, potenziale atto di coerenza da parte delle forze politiche che governano le Regioni di centro-sinistra e segnale di effettiva differenziazione dalle giunte di centrodestra? E pensare che il Tar ha rilevato l’illegittimità dei provvedimenti relativi agli organici anche perché viola le prerogative di Regioni ed Enti Locali: gli organici sono stati determinati senza il parere obbligatorio della Conferenza Unificata Stato-Regioni. Le Regioni avrebbero non solo il diritto, ma anche, per rispetto dei cittadini che rappresentano, il dovere di contestare l’illegittimo comportamento di Gel-mini, lesivo anche del principio di leale collaborazione tra istituzioni della Repubblica. Solo le province di Bologna, Cosenza, Pistoia, Vibo Valentia e Perugia hanno aderito, insieme a qualche comune, tra cui Bologna e Imola. L'acquiescenza e l’inerzia delle Regioni indeboliscono il ricorso sotto il profilo dell'interesse processuale, ma anche nei confronti dei giudici del Tar, che non potranno non rilevare l’anomalia della loro totale assenza in una materia che per dettato costituzionale le coinvolge. È un segnale di una politica scolastica subalterna anche al federalismo, che apre un enorme problema di rappresentanza politica. “Sono fortemente deluso e preoccupato per questa diserzione irresponsabile delle Regioni non solo rispetto a questi, ma anche ai futuri provvedimenti. Sembra non esserci volontà politica di contrasto efficace. Tocca al mondo della scuola chiedere ai rappresentanti delle istituzioni la necessaria coerenza e valutarne il comportamento a tutti gli effetti” dice Corrado Mauceri, avvocato dei ricorrenti. Esisterebbe un modo per invertire la rotta da parte degli enti locali di centro sinistra e delle forze politiche cui fanno riferimento: assumersi l’onere e la responsabilità di un’elaborazione politica davvero autonoma e dare concretezza ad un’appartenenza che non può risolversi in etichette formali, ma che prevede adesione fattiva a principi condivisi, come difesa della scuola pubblica e certezza del diritto. Sussidiarietà istituzionale non vuol dire subalternità politico-culturale.

Corriere della Sera 12.2.11
Graduatorie dei prof precari La Lega «scavalca» la Consulta
di M. Io.


ROMA — La Corte Costituzionale aveva bloccato due giorni fa, dichiarandole incostituzionali, le graduatorie attuali degli insegnanti, graduatorie fatte sulla base di una legge del novembre 2009 fortemente voluta dalla Lega. Una legge che di fatto impediva ai professori che facevano domanda in un’altra Provincia di essere inseriti in graduatoria «a pettine» , ovvero sulla base del loro punteggio: gli insegnanti che sceglievano un’altra Provincia finivano in coda. Questo per scoraggiare il trasferimento di insegnanti dal Sud al Nord. Naturalmente adesso lo scompiglio è grande perché non meno di 15 mila insegnanti faranno ricorso. Ma ieri, nonostante il pronunciamento della Consulta, è passato in commissione Affari costituzionali e Bilancio del Senato un emendamento, ancora una volta a firma della Lega al decreto Milleproroghe in discussione in Parlamento che in parte ripropone una modalità di accesso alle graduatorie e alle cattedre nuovamente svantaggiosa per i professori del Sud che fanno domanda in una Provincia del Nord. Intanto, secondo questo emendamento, saranno congelate fino al 2012 le graduatorie attuali, in attesa di rifarle ma soprattutto, dice la Lega, in attesa di approvare una riforma del reclutamento. E questo per «regolare— spiega Mario Pittoni, primo firmatario dell' emendamento— la fase transitoria in vista della riforma del reclutamento. La sentenza della Corte crea una situazione tecnicamente difficile da gestire, perché i ricorrenti erano almeno 15.000. E poi noi cerchiamo di dare una garanzia a quei poveretti che avevano una determinata posizione nelle graduatorie provinciali, e che ora si vedrebbero scavalcati» . Ma non è tutto. Il secondo comma dell’emendamento passato ieri stabilisce che, a decorrere dall’anno scolastico 2011-12, «l'inserimento nella prima fascia delle graduatorie di istituto è consentito esclusivamente a coloro che sono inseriti nelle graduatorie ad esaurimento della provincia in cui ha sede l'istituzione scolastica» . Insomma i supplenti chiamati dalle scuole potranno provenire solo dalla provincia in cui ha sede l'istituto stesso. «È il massimo che potevamo fare in questo momento» , continua Pittoni ma il segretario generale della Cgil Scuola Mimmo Pantaleo lo definisce un «atto razzista nei confronti del Mezzogiorno» e una «violazione della sentenza della Corte Costituzionale» . Nel decreto Milleproroghe potrebbero essere in arrivo anche nuovi tagli sul fronte Università. A tutte le Università (e sono oltre la metà) che non riusciranno a stare al di sotto della soglia del 90 per cento di criticità nella gestione delle spese, sarà impedito per il prossimo anno di procedere a nuove assunzioni di ricercatori o docenti.

Corriere della Sera 12.2.11
Il dietrofront sulle staminali da cellule adulte: a rischio cancro
di  Mario Pappagallo


MILANO— Sembrava una svolta della ricerca sulle staminali. Si prende una cellula adulta, della pelle o mammaria, e con un metodo innovativo (riprogrammazione genetica) si riesce a riportarle a livello embrionale. Senza toccare minimamente gli embrioni. Convincente anche per l’etica cattolica. Purtroppo le cellule ottenute sono a rischio cancro. Uno studio pubblicato ieri da Cell death and differentiation lo ha dimostrato. Il loro Dna si può alterare e favorire l’insorgenza di tumori. E le cellule «riprogrammate» potrebbero causare, se usate in terapia, più danni che benefici. Il lavoro scientifico è italo-svizzero. Firmato dall’Istituto europeo di oncologia (Ieo), dall’Istituto Firc di oncologia molecolare (Ifom), dall’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica, dall’università di Ginevra e dall’École polytechnique fédérale di Losanna. Uno dei quattro geni usati per la «riprogrammazione» , c-myc, sembra il principale responsabile. Il risvolto positivo è che i ricercatori hanno già identificato il meccanismo responsabile del danno: i geni «riprogrammatori» inducono un’eccessiva proliferazione cellulare, alla lunga danneggiante il Dna. Ed è ora possibile studiare tecniche più sicure di «ringiovanimento» delle staminali. «Stiamo parlando della grande speranza di cura per molte malattie croniche che affliggono l’umanità, quali Alzheimer, Parkinson, diabete — dice Pier Giuseppe Pelicci (Ieo) coautore della ricerca —. Ed è fondamentale trovare come riprogrammare le staminali adulte in embrionali in piena sicurezza» . Perché solo le embrionali sono in grado di generare tutti i tipi di cellule specializzate (neuroni, intestinali, del cuore, delle ossa). Lo studio riapre anche il dibattito sui limiti della ricerca italiana, che non può usare nemmeno le staminali di quegli embrioni «orfani» , sovrannumerari di una fecondazione artificiale, conservati in frigo e destinati a finire in un lavandino. Per Umberto Veronesi, direttore scientifico dello Ieo, «è dovere morale ora utilizzarli» .

Corriere della Sera 12.2.11
Agostino, padre dell’Europa
Parte da lui il pensiero di Schelling, Hegel e Kierkegaard
di Armando Torno


Q uindici anni di lavoro, forse più. Centoventiquattro discorsi, dei quali una abbondante cinquantina furono prediche proferite a braccio e messe per iscritto dai tachigrafi, mentre i restanti vennero dettati e poi letti da terzi. In cifre e schemi si possono così riassumere le pagine che Agostino ha lasciato sul quarto Vangelo, quello di Giovanni, nel quale la rivelazione cristiana abbraccia e trasfigura il messaggio della cultura greca. Un insieme di chiose e di considerazioni imponente, ma allo stesso tempo inquietante, sconvolgente, tra i più ispirati del santo. Giovanni Reale ne ha curato una nuova edizione, basandosi sul classico testo dei Maurini, cercando di ricostruire e riprodurre il ritmo del parlato, i possibili silenzi, le riprese della voce. Ha posto titoli a ogni capitolo e ai paragrafi, intervenendo su un’opera che si presenta magmatica, concepita sovente di getto da una mente che piegava la sintassi e le regole retoriche ai propri bisogni. In tal modo, è riconsegnato ai lettori uno dei momenti più alti del lascito di Agostino, quel Commento al Vangelo di Giovanni (Bompiani, 2 volumi in cofanetto, pp. 3.278, e 50) che corre come un filo rosso nella cultura occidentale. L’ariosità restituita ai discorsi li rende comprensibili, quasi in grado di evocare gli accenti che li hanno plasmati. Nel saggio introduttivo si esaminano la struttura logica, i fondamenti metodologici, filosofici e teologici dell’opera e si evidenzia in cosa consista il sovvertimento del pensiero filosofico antico pagano qui attuato; e per quali ragioni, come ha sostenuto Maria Zambrano, Agostino debba essere considerato il padre spirituale dell’Europa (e, aggiungiamo, uno dei massimi riferimenti per l’arte, come prova il primo volume dell’Iconografia agostiniana. Dalle origini al XIV secolo, appena pubblicato da Città Nuova). Ma cosa trova il lettore di oggi, impigrito da una letteratura inconsistente, in questo universo di considerazioni su Giovanni? Il testo rivela il bisogno di amore e la necessità di capire il mondo, di trovare un senso alla morte. Con il Commento si chiarisce il metodo di Agostino e si intuisce un’ulteriore chiave di lettura dell’ultimo libro delle Confessioni. La tarsia di citazioni, dove è riunita tutta la Bibbia, mostra come il santo cercasse di cogliere dal punto di vista allegorico il mistero della creazione attraverso la Parola rivelata. C’è qualcosa di rivoluzionario in queste pagine? Certo, basta leggere le parti sulle domande che non hanno ancora una risposta e le considerazioni sull’amore, giacché quello cristiano ha bisogno della carne, non è un mero fatto spirituale. Di carne si riveste Dio, con la carne dialoga il Cristo e di carne necessita la resurrezione. «Questo è il mio corpo» contrasta con il platonico «tutto ciò che è umano non è degno di molta considerazione...» . Dal momento in cui sull’Acropoli di Atene si scoprì che c’è una realtà oltre quella tangibile, nacque il desiderio di trovare un mediatore che in essa conduca e la illustri. Platone lo individuò nell’eros, vedendolo non come dio ma come demone. Nel Commento a Giovanni, Agostino tenta di più spiegando come Dio stesso diventi il demone-mediatore, facendosi uomo. La novità rispetto agli altri vangeli? Questo Commento ricorda che i sinottici hanno mostrato soprattutto l’umanità di Gesù, leggendo Giovanni il santo capisce che è tempo di ritoccare le prospettive: in ogni momento della vita di Cristo, anche nei particolari, si vede Dio. Perché Dio abita in ogni azione di Cristo e il Figlio diventa il contemporaneo di ogni uomo (lo ripeterà Kierkegaard). Agostino, che ha avuto una prima conversione con i platonici, ora ha smesso di credere che Dio sia corpo infinito, ma è tale in spirito. Leggendo Plotino e Porfirio si è accorto che l’aldilà c’è veramente e che per raggiungerlo occorre attraversare un mare. Comprende che solo il lignum crucis fa superare queste acque: non mostra l’aldilà, ma in esso conduce. Già, lignum crucis: emblematica sintesi della totalità delle sofferenze dell’uomo. Ci sono poi delle intuizioni accecanti che Reale evidenzia, presenti anche in Hegel (Filosofia della religione) e in Schelling (Filosofia della rivelazione): Cristo ha preso su di sé la morte e, accettandola, l’ha uccisa. Sulla croce, quindi, la morte di Cristo segna la morte della morte. Per questo non ha abbandonato il legno del supplizio: rimanendovi l’ha sconfitta, solo restando appeso poteva divorarla. Kierkegaard dirà che se fosse sceso avrebbe negato di essere il Figlio di Dio, diventando un pagliaccio. Per Platone l’amore mette le ali all’anima, rendendola in grado di volare sempre più in alto; inoltre, il cocente sentimento è tanto grande quanto lo è l’oggetto che si ama. Il messaggio cristiano che Agostino urla nel Commento capovolge la prospettiva: l’amore è tanto più grande quanto più è piccolo l’oggetto amato. Da acquisitivo si fa donativo. Per questo Dio ama l’uomo sino a indossarne la carne e a morire per lui. Credere in Cristo — quest’opera cerca di spiegare il modo in cui gli uomini devono farlo — significa portare il logos dei filosofi greci sino a Dio, quindi toccarlo quando si fa carne e infine, seguendo disegni lontani dalla ragione, vederlo immolarsi per amore.

l’Unità 12.2.11
Petrarca tra la terra e il cielo
Una lettera autografa del poeta per la prima volta esposta al grande pubblico è tra i pezzi della mostra «desanctisiana» che, nei 150 anni dell’Italia unita, apre al Quirinale. Qui ecco un saggio del curatore che l’accompagna
di Giorgio Ficara


Collezionista di solitudini, Petrarca descrive incessantemente questo umano stato di eccellenza, ne fa dono ai contemporanei e alla posterità. La solitudine è un tesoro, di cui egli conosce e cataloga ogni gemma: da Valchiusa, dove vive con due servi e un cane «più nero della pece e più veloce del vento», alla casa tra i campi di Sant’Ambrogio, a Padova, dove in un suo orticello «ornato di fronde e fiori» riceve Boccaccio, ad Arquà, sui colli Euganei, dove muore, tutta la sua vita è un susseguirsi di solitudini. «Ovunque n’andasse scriverà Foscolo ricoveravasi in una specie di eremo; e continuava a comporre interi volumi». Insieme ad Agostino, compagni di questa solitudine sono i latini e poi i Salmi davidici e Boezio e i poeti di Provenza: amici segreti del cuore, discreti, soavi, che gli giungono da ogni parte del mondo e da ogni tempo; amici che si accontentano di un angolo della casa e lo assistono premurosi, se ne vanno a un suo cenno, «redeantque vocati».
VIVERE AL PRESENTE
Petrarca non spreca un attimo del suo tempo, «vive oggi l’oggi, per vivere domani, se gli sarà dato, il domani». L’ansia, che perseguita il cittadino, gli è ignota, e fra i libri da leggere e quelli da scrivere non conosce che felicità. Inoltre: non si possono immaginare un’eleganza e una cordialità più perfette delle sue, un eloquio più temperato, un sorriso più gentile. Che si rivolga a Roberto d’Angiò o al mezzadro di Valchiusa, egli si esprime con la stessa attenzione che rivolge ai grandi del passato: «Mai non puoi coglierlo in veste da camera -scriverà De Sanctismai non ti viene innanzi che in guanti gialli e in cravatta bianca».
Eppure, il perfetto Petrarca assomiglia a uno strabico, che guarda in due direzioni diverse, verso il secolo e il chiostro, ed è immobile, tormentato, inquieto e inutilmente desto.
Da una parte Laura e la seduzione dei luoghi (che evocano Laura), dall’altra l’orizzonte, visibile e inarrivabile, della spiritualità pura, senza Laura e senza luoghi: indeciso fra due assoluti, il poeta fuggitivo verso la solitudine-eden cade nell’inazione e nell’angoscia. Avverte che, in questa impossibilità, la sua vita interiore si è sbriciolata; e d’altra parte un dolore talmente acuto lo sovrasta, da fargli rimpiangere la vita di prima, il «vulgo» un tempo «nemico e odioso».
LA COMPAGNIA DEGLI EMPI
Cantore del disagio dell’interiorità, Petrarca in un celebre sonetto invoca la compagnia degli «empi» come un balsamo: «tal paura ho di ritrovarmi solo». L’abisso dei pensieri, divenutigli estranei, è troppo profondo e vuoto per poterlo guardare. La «cameretta» è disabitata. Il letticciolo è asperso di lacrime. E il poeta fugge anche da se stesso: «Né pur il mio secreto e ‘l mio riposo/ fuggo, ma più me stesso e ‘l mio pensero,/ che, seguendol talor, levommi a volo». Fuggire la propria intimità, cioè l’agognata solitudine, e il pensiero, cioè l’impeto nella solitudine, il volo possibile da un luogo -la cameretta, l’ioa un non luogo celeste, è il castigo cui Petrarca non può sottrarsi che piangendo e sospirando.
LACRIME VANE O DEVOTE?
E niente potrebbe mutare le sue lacrime «vane» in lacrime «sante» o «devote». Quanto in Petrarca è cristiano si manifesta cioè come inaccessibilità, mancanza, nostalgia e, d’altra parte, come debolezza assoluta della volontà. Petrarca crede pochissimo nel libero arbitrio e suppone che sarà salvato per grazia, non per natura: se la grazia abbonda dove il «fallo abondò» , se solo una «gran vertute» divina sa metter fine al suo dolore, egli non può che attendere l’evento decisivo. Il suo stesso genio, è l’attesa.

il Fatto 12.2.11
Radio Radicale: il governo nega i soldi
Bocciati due emendamenti per prorogare il finanziamento pubblico oltre il 2011


Radio Radicale, oltre ad avere evidenti problemi di palinsesto a causa della mancanza di dibattito parlamentare, comincia a tremare per la convenzione con lo Stato, in scadenza a fine 2011. Convenzione che frutta alla radio 10 milioni di euro all’anno (8 milioni e 150 mila netti), indispensabili per poter continuare le trasmissioni. Due emendamenti al mille-proroghe sono già stati bocciati dal governo che per la prima volta potrebbe far mancare il sostegno al “servizio pubblico” di Radio Radicale. Forse c’era anche questa partita dietro le “trattative” di Marco Pannella con Silvio Berlusconi nei giorni scorsi? Con il leader radicale che annunciava possibili sostegni al governo da parte dei suoi parlamentari (eletti nelle liste del Partito democratico) e il conseguente malumore di Emma Bonino: “Il premier non mi pare più in grado di gestire alcunché politicamente parlando”. Il Giornale ieri scriveva: “Il Cavaliere non sta nascondendo la sua insofferenza verso Tremonti sempre più defilato e in aperto contrasto con il premier. Il caso più eclatante è quello del rinnovo della convenzione a Radio Radicale”, aggiungendo anche che Gianni Letta “sta caldeggiando da tempo” questo rinnovo. Intanto, sempre nel milleproroghe, è stato approvato un emendamento dalla commissione Bilancio per i fondi all’editoria (quasi sicuro quindi il sì definitivo del Parlamento). Il che per Radio Radicale significa beneficiare di 4 milioni di euro. Cifra che non è neppure sufficiente a coprire le spese per la rete di trasmissione: 220 impianti in tutta Italia. “Adesso speriamo che il finanziamento arrivi con il maxi-emendamento al milleproroghe – spiega la senatrice radicale Donatella Perotti –, ma nulla è certo” e, allo stato attuale, a fine 2011 le storiche trasmissioni come Stampa e regime di Massimo Bordin s’interromperanno. (g. cal.)

venerdì 11 febbraio 2011

l’Unità 11.2.11
«Da Berlusconi parole eversive»
Bersani chiama il Pd in piazza
di Simone Collini


Finocchiaro e Franceschini firmano l’appello per chiedere le dimissioni del presidente del Consiglio: «Vuole uccidere la libertà del nostro Paese soltanto per salvare se stesso»

Il leader del Pd attacca il premier e chiede unità per voltare pagina sia all’opposizione che a chi nella maggioranza vive con disagio questa fase. Nel fine settimana mobilitazione straordinaria con tutti i big in campo.

«Parole eversive». Pier Luigi Bersani per un giorno voleva evitare di commentare le uscite del premier e le operazioni dei suoi per garantirgli l’immunità. È rimasto in silenzio «per evitare di finire sullo stesso piano di chi la spara più grossa» di fronte alle manovre del governo contro le intercettazione e all’annuncio di ricorso alla Corte europea per i diritti contro lo Stato italiano, di fronte alla presenza del Guardasigilli Alfano alla riunione del Pdl in cui sono stati attaccati i magistrati milanesi e all’emergere dei dettagli delle proposte di legge per garantire al premier un altro scudo processuale mediante la modifica dell’articolo 68 della Costituzione.
LETTERA AGLI ITALIANI ALL’ESTERO
Su ognuna delle questioni ha comunque lasciato che fossero parlamentari e altri dirigenti del Pd a in-
tervenire, e ha passato la giornata tra colloqui telefonici (con Fini e Casini sono ormai all’ordine del giorno) e la stesura di una lettera spedita ai circoli del Pd all’estero per raggiungere quanti più possibili italiani nel mondo e invitarli a firmare la petizione per le dimissioni di Berlusconi: «Proprio voi, oggi più che mai, state vivendo sulla vostra pelle le conseguenze sull’immagine del nostro Paese che hanno avuto le vicende personali del Presidente del Consiglio, vicende che hanno trovato ampio spazio e risonanza sui media internazionali si legge nella lettera appena partita Tutti coloro che, anche nel centrodestra all’estero, hanno a cuore il buon nome dell’Italia e i suoi interessi fondamentali, devono chiedere a Berlusconi di dimettersi, togliendo il Paese dall’imbarazzo e dal disagio non più sopportabile in cui l’ha costretto».
DA BERLUSCONI PAROLE EVERSIVE
Ma quando in serata ha saputo delle parole pronunciate da Berlusconi nell’intervista a Ferrara che verrà pubblicata sul “Foglio” di oggi, ha deciso di intervenire non solo per condannare l’uscita del premier, ma anche per lanciare un appello alle forze di opposizione e a quanti nella stessa maggioranza vivono con disagio i continui attacchi alle istituzioni. «Se, come dice Berlusconi, le sue dichiarazioni Al Foglio non sono uno sfogo, allora si tratta di parole semplicemente eversive. Se nella maggioranza c’è qualcuno che ha a cuore le sorti del Paese, dica qualcosa perché ci si sta avvicinando rapidamente alla soglia di allarme. Si pronunci nel Paese chiunque ha la possibilità di far sentire la sua voce». Non solo. Ora più che mai «tutte le opposizioni hanno il dovere di rinserrare le fila, di costruire un’iniziativa comune e, come chiediamo da tempo, di rivolgersi agli italiani stanchi e turbati con la generosità di una proposta nuova e unitaria».
FINE SETTIMANA IN PIAZZA
Il Pd si prepara a un fine settimana di mobilitazione straordinaria, perché domenica tutti i dirigenti del partito parteciperanno alle manifestazioni in difesa della dignità della donna (Bersani sarà a Roma) e perché da sabato saranno allestiti in tutte le principali città italiane tremila gazebo (e tutti i big saranno presenti) per raccogliere le firme per l’appello «Berlusconi dimettiti». Il primo milione di sottoscrizioni è stato abbondantemente superato e, dice il responsabile Organizzazione del Pd Nico Stumpo, l’obiettivo dei dieci milioni verrà sicuramente raggiunto «anche perché c’è una risposta positiva anche da chi non è un elettore del Pd». Le dimissioni del premier sono la condizione per andare al voto, e se alla richiesta di urne anticipate si unisce anche Pier Ferdinando Casini, il vicesegretario del Pd Enrico Letta rilancia la proposta di presentarsi davanti agli elettori con una coalizione ampia, che vada dall’Udc alla Sinistra e libertà di Nichi Vendola, di cui Bersani potrebbe essere il candidato premier.
FIRMANO I VERTICI PARLAMENTARI
A firmare la petizione per arrivare alla dimissioni di Berlusconi ieri sono stati anche Anna Finocchiaro e Dario Franceschini, arrivati di buon’ora al banchetto allestito in una piazza nel cuore di Roma. I capigruppo del Pd al Senato e alla Camera hanno ribadito la richiesta di dimissioni da parte di un premier che sta mettendo a rischio la tenuta istituzionale e l’immagine dell’Italia nel mondo. «In qualsiasi altro paese o in qualsiasi altro periodo della storia italiana, un leader politico avrebbe capito quando il momento richiede un passo indietro dice Franceschini per il suo paese, per la sua coalizione, almeno per il suo partito. Questo non avviene perché Berlusconi da sempre mette il proprio interesse personale davanti agli interessi del paese». Quanto al ricorso alla Corte di Strasburgo contro lo Stato per violazione della privacy, il capogruppo del Pd alla Camera si è limitato a definirla un’ipotesi che «fa ridere i polli», e anche «una stupidaggine che non sta né in cielo né in terra». Duro anche il commento di Finocchiaro di fronte a un premier che è pronto a «uccidere la libertà dell’Italia per salvare esclusivamente se stesso» e che con l’attacco alla magistratura e le leggi per garantirsi l’immunità «vuole sacrificare sull’altare dei propri processi la funzionalità della giustizia, la lotta alla criminalità, la sicurezza dei cittadini».

il Fatto 11.2.11
“Cercano lo scontro tra poteri dello Stato”
Orlando (Pd) denuncia il progetto eversivo della maggioranza
di Wanda Marra


“Il comunicato emanato dall'ufficio di presidenza del Pdl, ribadendo le tesi complottistiche a cui la destra ci ha abituato, presenta toni, sintassi e lessico più vicini a quelli utilizzati da un'organizzazione terroristica che non a quelli che dovrebbero essere propri del principale partito di governo del Paese". Così Andrea Orlando, presidente forum Giustizia del Pd, interveniva mercoledì. Il comunicato in questione - per intendersi - è quello in cui si definisce la magistratura   “avanguardia rivoluzionaria”. E non si può dire che Berlusconi ieri abbia abbassato i toni, visto che ha parlato di “inchieste farsesche degne della Ddr”.
Onorevole Orlando, un progetto eversivo (come dice anche Bersani) da parte di Berlusconi?
Quando a margine di un Consiglio dei ministri si pensa di organizzare manifestazioni contro la magistratura oppure di fare causa allo Stato, nei fatti siamo allo sfregio costituzionale. Si assiste a un metodo di intimidazione preventivo: dire che chi sta aprendo un procedimento penale contro il presidente del Consiglio in realtà sta portando avanti un progetto eversivo di abbattimento del governo è un modo per delegittimare la Magistratura e cercare uno scontro tra poteri dello stato.
Ha letto le notizie sui tentativi di sottrarre i fascicoli su Ruby al Tribunale di Milano?
Se fossero confermate, indicherebbero che gli interessati sapevano dell’inchiesta ancor prima dell’inchiesta.
Dove si sta andando a finire? 
Mi auguro ci si fermi. Spero che alcuni dei tanti che si proclamano moderati nel Pdl faccia ragionare la propria maggioranza.
L’opposizione però non sembra essere particolarmente incisiva. C’è un modo per portare Berlusconi alle dimissioni?
Stiamo lavorando per costruire un’alternativa. Abbiamo contrastato le leggi ad personam. Rivendico con orgoglio il fatto che la maggioranza non sia riuscita a varare il processo breve, né la legge sulle intercettazioni.
A proposito di intercettazioni, ieri il Ministro Alfano ha sostenuto di non aver mai proposto un decreto sulle intercettazioni....
Se è così ritiri i disegni di legge in itinere nei due rami del Parlamento
A quale alternativa pensate?
Stiamo cercando di far crescere l’opposizione nel paese, di mettere insieme un’alleanza che tenga conto dell’emergenza.
Da Casini a Vendola? Con o senza Di Pietro?
Con quelli che aderiscono, partendo da punti programmatici precisi   da offrire a tutte le opposizioni. Verificando anche la possibilità di un governo costituente. Mi auguro che l’escalation in atto dia la forza ad altri pezzi della maggioranza di prendere le distanze da Berlusconi chiuso nel suo bunker. Il referendum tra Repubblica e Monarchia questo paese l’ha già fatto una volta.
La convince l’ipotesi di Saviano leader? O ha un altro nome da proporre?
Non è il momento di fare nomi.
Che cosa pensa della decisione della Rai di non mandare in onda le scene finali del Caimano di Nanni Moretti (quelle in cui dopo la condanna del Cavaliere si evoca una sorta di guerra civile)?
Mi sembra un grande segno di nervosismo. In una democrazia con i processi fisiologici corretti non esisterebbe proprio la possibilità di censurare un film.
È possibile che si arrivi a una situazione come quella prefigurata dalla parte finale del film?
Credo di no. Penso che nel nostro Paese ci siano degli anticorpi molto forti e la capacità di reagire.

il Fatto 11.2.11
Il Quirinale da solo non basta
di Lorenza Carlassare


Un governo “provvisorio” per affrontare questioni improrogabili (la legge elettorale innanzitutto) è solo in astratto la soluzione per uscire da una situazione disastrosa. I normali rimedi previsti nelle democrazie costituzionali non riescono infatti a funzionare nella realtà politicamente e moralmente degradata che stiamo vivendo. I rimedi per uscire dalle crisi prevedono due passaggi, il primo nelle mani delle Camere, il secondo del presidente della Repubblica: se il governo non è in grado di funzionare, un voto di sfiducia lo costringe alle dimissioni aprendo la strada alla formazione di un governo nuovo da parte del presidente. Questo cammino è oggi impedito da una squallida farsa: una maggioranza inesistente, ‘acquistando’ una manciata di voti di parlamentari ‘responsabili’, impedisce l’approvazione della sfiducia, bloccando una situazione insostenibile. Non ci sono i numeri per sfiduciare   il governo, né per consentirgli un’azione politica efficace. I meccanismi costituzionali risultano inservibili perché il gioco è condotto con dadi truccati. Se il primo passaggio si rivela impossibile, ogni uscita è inesorabilmente preclusa?
QUI S’INSERISCE l’altro lato della vicenda, forse il più fosco, che ne rende insostenibile il perdurare. Non è soltanto in causa una maggioranza sfaldata e insufficiente: l’insufficienza è anche morale, vorrei dire ‘civile’, e rende incompatibile la persona di Berlusconi con la carica istituzionale ricoperta. Ma il presidente del Consiglio rifiuta di dimettersi; anche quest’uscita, scontata in qualsiasi democrazia normale, di fatto è preclusa. È guardando ad entrambi i fatti e alla loro ‘peculiarità’ che va valutato, in concreto, il ricorso   all’estrema soluzione: lo scioglimento anticipato delle Camere. È la via indicata da Eugenio Scalfari nell’editoriale di domenica scorsa; ma, gli si obietta, il decreto di scioglimento deve essere controfirmato dal presidente   del Consiglio. Come se ne esce? La Costituzione si limita a dire che il presidente della Repubblica può sciogliere le Camere “sentiti i loro presidenti” (art. 88).
Nessuna difficoltà, sembrerebbe. La norma però va letta nel quadro del sistema parlamentare e del generale principio dell’art. 89 “Nessun atto del presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la responsabilità”. La controfirma ha un valore puramente formale, o il governo può rifiutarla? La risposta non è del tutto sicura. La controfirma assume “un diverso valore a seconda del tipo di atto” ammette anche   la Corte costituzionale seguendo l’opinione dei giuristi (sent. 200/2006 sul potere di grazia). Ad essa va “attribuito un carattere sostanziale quando l’atto sottoposto alla firma del capo dello Stato sia di tipo governativo e, dunque, espressione delle potestà che sono proprie dell’esecutivo, mentre a essa deve essere riconosciuto valore soltanto formale quando l’atto sia espressione di poteri propri del presidente della Repubblica, quali – ad esempio – quelli di inviare messaggi alle Camere, di nomina di senatori a vita o dei giudici costituzionali. A tali atti deve essere equiparato quello di concessione della grazia”. 
Negli atti ‘presidenziali’, dunque, la decisione finale è assunta dal capo dello Stato, la controfirma è dovuta. Lo scioglimento delle Camere è fra questi? Alcuni costituzionalisti, soprattutto in passato, ritenevano di sì; per altri invece rientrerebbe in un terzo tipo (‘atto complesso’) che richiede l’accordo di entrambi. Mi è sempre parsa preferibile questa posizione: inammissibile   affidare al solo presidente, organo politicamente irresponsabile, una decisione intensamente politica, legata a valutazioni contingenti, non giudicabile con parametri oggettivi. La mia convinzione si è rafforzata dopo la presidenza di Cossiga le cui decisioni, legate agli umori del momento, provocarono numerosi appelli di costituzionalisti preoccupati per l’equilibrio costituzionale.
HO SEMPRE ritenuto che anche la maggioranza, qualsiasi maggioranza, vada tutelata, e dunque il governo, che della maggioranza è espressione, debba aver voce in una decisione grave che può metterne in   gioco la sorte, e che pertanto la controfirma al decreto di scioglimento abbia valore ‘sostanziale’. Le interpretazioni diverse dell’art. 88 portano a differenti esiti: se lo scioglimento è ‘atto presidenziale’ l’eventuale rifiuto di controfirma autorizzerebbe il presidente a ricorrere alla Corte costituzionale, la quale, purché sussistano ragioni valide, darebbe ragione al primo. Con la teoria dell’atto complesso, invece, il rifiuto governativo – accertata la validità delle ‘motivazioni’ del rifiuto – dovrebbe essere considerato legittimo. La situazione concreta ha comunque un ruolo decisivo, e certamente le tipologie della dottrina non vanno intese in un modo rigido   , incompatibile con l’elasticità dei rapporti costituzionali che sono pur sempre rapporti politici. Anche chi accede all’idea del necessario accordo fra i due, sposta comunque l’accento sul potere del capo dello Stato (ad esempio Paladin). Ed è sicuro per tutti che se è il presidente ad opporsi, lo scioglimento non si può fare. Nelle attuali circostanze s’innestano peculiarità tali da spostare i termini del discorso? Non siamo in una situazione ‘normale’ dove la decisione di sciogliere si basa su considerazioni soltanto ‘politiche’ e perciò non può essere lasciata al solo capo dello Stato. 
Urgenze diverse s’incrociano. A un blocco che non trova uscita nelle vie costituzionalmente previste si aggiunge l’esigenza di ridare alle istituzioni la dignità perduta e di porre fine a contrasti indecorosi al limite della crisi. Quella del capo dello Stato non sarebbe una valutazione soltanto ‘politica’.
Due gravi motivi, oggettivamente rilevabili, la sosterrebbero: rimettere in moto le istituzioni inceppate è fra i suoi compiti istituzionali (il governo con la sua maggioranza risicata non ‘governa’ e i rimedi costituzionali sono inutilizzabili); chiudere un’inedita situazione di degrado e lotta fra ‘poteri’ mai prima verificata. I dubbi, di certo, non mancano: ma è necessario, almeno, rifletterci.
 
La Stampa 11.2.11
Le tensioni con la Consulta potrebbero costare caro
di Marcello Sorgi


Non doveva proprio capitare anche questa a Berlusconi, di ricevere con qualche mese di ritardo, ma tutta insieme, la reazione dei giudici della Consulta agli attacchi a cui s'era lasciato andare un numero infinito di volte, da quando, ormai un anno e mezzo fa, la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittimo il lodo Alfano, rimettendo in moto la macchina dei processi contro il Cavaliere.
Da allora in poi è stato un lento, ma neppure troppo, rotolamento verso la morsa in cui il presidente del consiglio s'è ritrovato stretto in questi giorni, tra il caso Ruby con le accuse di concussione e sfruttamento della prostituzione, e i tre processi che dal 28 febbraio lo attendono a Milano. La breve parentesi del legittimo impedimento, parzialmente annullato anche quello, è stata una specie di libertà provvisoria, per altro usata dal premier per rimettersi nuovamente nei guai.
D'altra parte il tono usato dal presidente De Siervo ieri lascia poche speranze: trattandoli da manutengoli della sinistra, Berlusconi ha offeso i giudici della Consulta, due terzi dei quali, come si sa, non provengono dal Parlamento, essendo scelti direttamente dal Capo dello Stato o tra i capi delle diverse magistrature. Ma anche per quelli di nomina politica i requisiti e le alte competenze giuridiche richiesti sono gli stessi e il sistema di elezione è tale da rendere indispensabile un accordo tra maggioranza e opposizione. Di qui l'irritazione dei supremi giudici a cui De Siervo ha dato voce ieri.
Il nuovo attrito istituzionale che ne è generato ha un prezzo particolarmente alto per Berlusconi. La Consulta infatti, nelle strategie dei difensori del premier, rappresenta l'ultima possibilità per cercare di evitare il processo con rito immediato chiesto dalla Procura di Milano e tentare di ricondurlo al Tribunale dei ministri, da dove, grazie a un nuovo voto parlamentare, potrebbe essere portato in una specie di limbo. Anche se non c'è alcuna ragione per temere che i giudici costituzionali si lascino influenzare dagli attacchi ricevuti, l'uscita del presidente De Siervo lascia trapelare una non proprio felice disposizione a occuparsi dei frequenti problemi giudiziari del premier. E se la richiesta di investire il Tribunale dei ministri dovesse essere respinta dalla Corte, Berlusconi dovrebbe rassegnarsi a comparire a Milano, per rispondere delle accuse infamanti che il caso Ruby gli ha riversato addosso e per ricevere in poco tempo, data la proceduta abbreviata, una sentenza che non promette niente di buono.

Corriere della Sera 11.2.11
Ora interroghiamoci (anche noi uomini) sul caso Ruby
di Paolo Franchi


L’ appello a partecipare alle manifestazioni di domenica fa discutere le donne, e le divide, come non succedeva da decenni. Secondo il direttore dell’Unità, Concita De Gregorio, «sostenitori e fiancheggiatori dell’Arcore style» cercano di trarne partito, nella malcelata speranza che si scateni «una rissa da pollaio» . Non è certo il caso del confronto aperto sul Corriere. In generale, può anche darsi. Resta il fatto, però, che questa discussione, e anche queste divisioni, già rappresentano, in tempi di desolazione del dibattito pubblico, una ricchezza riscoperta di cui dovremmo tutti essere grati alle donne. Tutti. Quindi anche, e soprattutto, noi uomini, che ci interroghiamo così poco, e sulla scorta di categorie così mediocri, sulle questioni sollevate dal Rubygate, quasi che dalle notti di Arcore, e non solo dalle notti di Arcore, l’immagine maschile non uscisse infinitamente più devastata di quella femminile. Coglie nel segno, certo, Manuela Fraire, quando segnala quanto, nel Rubygate, contino la paura della morte, e «il vuoto di senso» attorno a cui ruota il potere: «Perché questo declino terribile e tristissimo poiché rifiutato, temuto, negato, perché questo spasmodico bisogno di un corpo femminile per sventare la comparsa del convitato di pietra» ? Ma non credo che la politica, e nemmeno la giustizia, possano dare risposte a domande così angosciose. Forse sarebbe il caso di circoscrivere con un po’ di crudo realismo il problema. Come fanno, sul Riformista, Letizia Paolozzi e Franca Chiaromonte, quando osservano che lo scambio in cui le donne sono la controparte (a suo modo libera, ma come lo erano, vendendo la loro forza lavoro, i salariati di Carlo Marx richiamati in causa sul Corriere da Olivia Guaraldo) viene praticato, per odioso che sia, su scala di massa, e la differenza (politica e istituzionale) sta tutta nel ruolo di Silvio Berlusconi, «perché un simile scambio un premier non può praticarlo pubblicamente: dovrebbe rispondere del proibizionismo e dell’ipocrisia del governo, e presentarsi ai giudici per smentirlo» . Sottoscrivo alla lettera, presentazione ai giudici ovviamente compresa, ma avverto che non basta. Perché le domande su cui toccherebbe, donne e uomini, arrovellarsi sono anche altre. «L’Italia non è un bordello» , recitano gli striscioni inalberati dalle donne che protestano. Ma è davvero così? Antonio Polito, richiamandosi al costume nazionale e pure al dibattito in corso sul Corriere e altrove, non ne è tanto convinto. O, almeno, pensa che la questione si sia fatta molto più complicata. Anch’io. E non solo, né soprattutto, perché nei più diversi ambienti sociali è cresciuto assai il numero delle ragazze e delle donne «consapevoli di essere sedute sulla propria fortuna» e convinte dell’opportunità di farne partecipe «chi può concretarla» : tutto questo, in termini liberali ha ragione Piero Ostellino, non basta a farne automaticamente delle prostitute né, tanto meno, ad autorizzare altre donne «perbene» a metterle sotto accusa come donne «permale» . Ma se capita, e capita, bisognerebbe prima di tutto cercare di capire perché, interrogarsi sul modello sociale e culturale dominante, su chi compra e non soltanto (troppo comodo, e anche un po’ infame) su chi vende. Anch’io provo un qualche imbarazzo di fronte a un certo bacchettonismo (malattia senile del giustizialismo?) di ritorno nella sinistra, e un certo stupore a leggere, in un appello alla mobilitazione scritto da donne e rivolto in primo luogo alle donne, che «senza quasi rendercene conto abbiamo superato la soglia della decenza» : attente, siamo a un passo dal «comune senso del pudore» . Leggo Emma Fattorini, però, che scrive dei compagni di scuola di suo figlio, increduli alla vista della loro compagna così bella che si ostina, ciò nonostante, a studiare il greco, e sento l’eco di quanto mi racconta angosciata mia moglie a proposito dei suoi studenti e delle sue studentesse di un istituto tecnico di frontiera che, senza incontrare troppe resistenze nei genitori, la pensano allo stesso modo, ma in termini molto più espliciti: e mi chiedo se davvero le generazioni adulte possono pensare di cavarsela elargendo loro qualche buon precetto liberale. Credo, onestamente, di no. Mi domando pure se la «sinistra liberale» porti, in materia, le responsabilità di cui dice Polito. Davvero la «cultura progressista» è stata subalterna a questa «presunta modernizzazione» , davvero è «ormai schiava di una cultura dei diritti declinata soprattutto in chiave di libertà sessuale» , davvero è senza parole convincenti perché non ha saputo riconoscere che alcuni aspetti della tradizione andavano conservati, e non si è sforzata «di comprendere la morale sessuale della Chiesa» , dimenticando la lezione del giovane Berlinguer che indicava a modello delle ragazze comuniste, assieme alla partigiana Irma Bandiera torturata a morte, Maria Goretti? Non direi proprio, sui diritti non so la cultura, ma la politica «progressista» è stata timida, se non latitante. In ogni caso, il Rubygate e i suoi ampi dintorni tutto possono indurre a pensare, fuorché di fare autocritica per aver appoggiato i Gay Pride, difeso i Dico o sostenuto la fecondazione eterologa, mentre chi oggi insorge contro il moralismo strumentale faceva strumentalmente blocco in nome della morale (e della religione) oltraggiata. E poi. Ogni ragionamento sui limiti (codice penale a parte) della libertà sessuale è, ci mancherebbe, legittimo. Ma tra la libertà sessuale e la visione del mondo neopostribolare di cui tocca occuparci la distanza è e dovrebbe restare stellare: sarà pure una banalità, ma con i tempi che corrono è il caso di riaffermarla.

Repubblica 11.2.11
Durissimo editoriale del quotidiano britannico. Bondi: articolo ingiurioso e volgare. Il sondaggio sul WSJ
Affondo del Times: "Abuso di potere dimissioni subito per far cessare la farsa"
di Enrico Franceschini


LONDRA «Una farsa avvilente e distruttiva, un abuso di potere incompatibile con la carica istituzione ricoperta». E´ il durissimo giudizio di un editoriale del Times di Londra su Silvio Berlusconi, completato dalla richiesta di «dimissioni immediate».
Ma non è soltanto lo storico quotidiano londinese a ritenere che la vicenda del premier italiano sia giunta al termine e debba concludersi: praticamente tutti i media internazionali, dai giornali alle tivù ai siti internet, dedicano ampio spazio agli ultimi sviluppi dello scandalo, concordando che la richiesta di rinvio a giudizio per concussione e induzione di minore alla prostituzione sia «il problema più grave e destabilizzante» mai affrontato dal leader del Pdl.
«Berlusconi mostra di non comprendere la differenza che intercorre tra il tornaconto personale e il dovere nei confronti del pubblico», afferma l´editoriale non firmato del Times, dunque espressione della direzione del giornale, che è utile ricordarlo è un quotidiano fieramente conservatore. «Egli abusa la sua carica politica per i suoi fini e sfida chiunque a fermarlo: è da tempo passato il momento in cui questa farsa avvilente e distruttiva arrivi a una fine», prosegue l´articolo.
«La volgarità è sempre stata una componente distintiva della sua avventura politica, ma un procedimento penale è un´aggiunta che oltrepassa l´ordinario squallore. Dovrebbe essere superfluo affermarlo, ma Berlusconi è distante dalla consapevolezza quanto lo è dal decoro, quindi ribadiremo l´ovvio: la sua condotta è incompatibile alla carica istituzionale che ricopre quindi dovrebbe dimettersi immediatamente». Immediata ieri sera la reazione del portavoce del Pdl Sandro Bondi: «Un editoriale ingiurioso e volgare, una raffigurazione caricaturale della realtà italiana, non rende onore a chi lo ha scritto e pubblicato».
Ma tutta la stampa internazionale pensa che Berlusconi debba dimettersi. Il Wall Street Journal, bastione del capitalismo e della destra americana, lo chiede in un sondaggio ai suoi lettori e la risposta è netta: per l´80 per cento, il premier italiano dovrebbe rassegnare le dimissioni. L´Economist afferma che il processo per il Rubygate «promette di imbarazzare perfino Berlusconi», ossia uno che non è sembrato in imbarazzo davanti a nessuna delle accuse e delle critiche che gli sono state mosse. Il settimanale britannico, che vende 1 milione e mezzo di copie in tutto il mondo, nota che le 800 pagine di imputazioni descrivono Berlusconi come «uno che passa il tempo libero come se fosse uno dei più sordidi imperatori romani» e giudica «probabile» che il processo per il Rubygate si farà, richiamando l´attenzione sul «linguaggio pericoloso» usato dal premier e dalla Lega Nord quando parlano di prepararsi alla «guerra totale». L´Independent si chiede fin dal titolo, «Sta per finire in galera?», il Boston Globe osserva che gli italiani non «hanno bisogno di essere puritani per decidere che Berlusconi non è adatto a governare», e ancora il Times pubblica una vignetta del premier accanto a una torre di Pisa piegata all´ingiù come un fiore appassito.

il Riformista 11.2.11
Diario delle passioni politiche di una adolescente comunista
di Filippo La Porta

qui
http://www.scribd.com/doc/48641379

Repubblica 11.2.11
Il politologo Gilles Kepel: "Le Forze armate non vogliono che il presidente vada via: sarebbe l´inizio della fine per tutti"
"È una rivoluzione incompiuta i militari frenano il cambiamento"
Lo Stato Maggiore teme di perdere il potere. Ma semplici riforme cosmetiche non calmeranno le folle
di Pietro Del Re


«Mubarak resiste. E provoca. Perciò, nonostante i suoi morti e i suoi blogger, la rivoluzione egiziana è ancora incompiuta». Secondo il politologo francese Gilles Kepel, specialista di Islam e del mondo arabo, la rivoluzione del Cairo è inconclusa perché tutto il potere resta nelle mani dell´esercito. «Anche se c´è stata una forte pressione da parte di una gioventù colta e sensibile al discorso dei diritti umani, gli avvenimenti egiziani non sono stati guidati dai manifestanti. Mi ricorda quanto accadde nel 1952, quando arrivarono al potere i Liberi Ufficiali, guidati da Naguib e Nasser. Le forze armate occuparono i ministeri, le stazioni radio e tutti gli obiettivi militari e in brevissimo tempo la capitale».
Professor Kepel, Mubarak è dunque il "fantoccio" dietro cui si nasconde l´esercito?
«Anche se buona parte del Cairo è scesa in piazza Tahrir, che significa "liberazione", l´Egitto è oggi controllato dallo stato maggiore militare, che evidentemente ancora non vuole che il presidente vada via. E ciò per paura che sia l´inizio della fine. Teme che Mubarak possa essere il primo fusibile e che poi tocchi a Omar Suleiman, al premier Ahmed Shafiq e così via».
E adesso, che cosa accadrà?
«Nel suo discorso Mubarak ha detto che trasferisce la sua autorità al vice presidente Suleiman. Ma resta al suo posto. Se avesse lasciato, i manifestanti avrebbero raggiunto il loro obiettivo, e avrebbero potuto capitalizzare la loro vittoria nelle trattative con l´esercito».
Potrebbe essere Suleiman l´uomo chiamato a occupare la fase della transizione egiziana?
«Sì, sempre se sarà in grado di offrire a chi è sceso in piazza un´alternativa soddisfacente. Credo che stavolta semplici riforme cosmetiche non basteranno a calmare le folle».
Secondo lei quale posizione adotteranno i fratelli musulmani?
«Al momento, il loro ruolo è stato piuttosto marginale. I militari stanno trattando con un´opposizione molto più ampia, che comprende anche i cosiddetti blogger, nel tentativo di cooptarli all´interno del sistema. Detto questo, ora più che mai, tutto dipenderà da come i militari riusciranno a contenere la piazza».
Come spiega l´assenza diplomatica dell´Europa in questa crisi?
«Purtroppo l´Europa ha oggi una diplomazia quasi inesistente in Medio Oriente, ed è comunque incapace di mostrarsi come una potenza unificata. E ciò è gravissimo, dal momento che l´Egitto, la Tunisia e gli altri paesi arabi sono suoi vicini geografici, e le loro popolazioni sono presenti in molti paesi europei».
I timori di Israele le sembrano legittimi?
«Sì, perché da quella parte della sua frontiera lo Stato ebraico ha beneficiato negli ultimi trent´anni di una situazione di grande tranquillità. E anche se Suleiman è stato uno degli artefici dei buoni rapporti israelo-egiziani, Gerusalemme è adesso preoccupata delle pressioni che potrebbe esercitare sul paese un nuovo potere».
Come potrebbero cambiare i rapporti geopolitici nella regione?
«L´Egitto vuole tornare sulla scena politica in Medio Oriente, da cui è assente da decenni. La sua assenza ha permesso a paesi come la Turchia e l´Iran di prendere il sopravvento. L´Egitto è tuttavia schiavo dei massicci aiuti americani, militari e civili, senza i quali l´esercito perderebbe la sua forza repressiva e gli oltre ottanta milioni di egiziani digiunerebbero sia a pranzo sia a cena».
Come valuta il ruolo di Washington?
«Oggi gli americani chiedono una transizione incruenta, ma pochi giorni fa una dichiarazione assai maldestra Obama ha consentito a Mubarak di mobilitare qualche migliaio di poveri nelle periferie povere del Cairo per dare la caccia agli stranieri e ai giornalisti, "servi dell´imperialismo americano"».
Questa rivoluzione incompiuta segna dunque una caduta dell´influenza americana nella regione?
«Sì, da ora in poi quella parte di mondo non guarderà più né verso gli Stati Uniti né verso l´Europa, ma piuttosto verso Oriente, ossia verso la Cina e verso l´India».

l’Unità 11.2.11
L’alleato di Israele che ha tessuto il destino del Medio Oriente
di Umberto De Giovannangeli


L’ascesa al potere dopo l’assassinio di Sadat. Da allora ha trattato con 5 presidenti americani e 7 premier dello Stato ebraico. L’assillo della stabilità
Comunque lo si giudichi, una cosa è certa: senza di lui, senza Hosni Mu-barak, il Medio Oriente non sarà più lo stesso. Perché degli eventi che hanno segnato gli ultimi trent'anni dell'area più nevralgica del mondo, oltre che dell'Egitto, l'ottuagenario rais è stato tra i protagonisti assoluti. La sua uscita di scena segna un passaggio d'epoca destinato a ridisegnare il volto non solo del più grande tra i Paesi arabi ma dell'intera Regione. L’«ultimo dei faraoni» porta con sé le contraddizioni insanate di un leader che ha cercato di tenere insieme il disegno nasseriano di un Egitto laico e panarabo e un legame mai messo in discussione con l’Occidente «colonizzatore»: l’orgoglio di una civiltà millenaria e una dipendenza dall’America anche quella dei neocon sostenitori del «Conflitto di civiltà» che ha puntellato il suo potere trentennale. Ha rivendicato, conquistandolo, un posto al sole sulla scena internazionale per se stesso e per l’Egitto e ha negato al suo popolo diritti fondamentali: secondo l'indice che valuta l'attenzione garantita ai Diritti Umani, l'Egitto occupa il 119 ̊ posto su 177 nazioni. Ha «conquistato» l’Europa ma non ha saputo togliersi di dosso l’accusa, documentata, di aver accumulato nel corso degli anni una fortuna «familiare» calcolata in 70 miliardi di dollari, oltre il doppio della riserva in valuta pregiata a disposizione della Banca centrale egiziana, circa la metà del debito dello Stato. Ha conquistato innumerevoli volte le prime pagine dei più importanti quotidiani al mondo ma secondo Reporters Senza Frontiere i media egiziani sono collocati per libertà d'espressione al 143 ̊ posto su 167 nazioni considerate. Comunque protagonista. Per decenni inamovibile. L’America ha visto succedersi negli ultimi trent’anni cinque presidenti.
Lui, «l’ultimo faraone» è sempre rimasto in sella, partner privilegiato di Ronald Reagan, George Bush, Bill Clinton, George W.Bush e Barack Obama. Con lui hanno dovuto fare i conti sette primi ministri d’Israele, a lui si erano legati indissolubilmente «Mr.Palestine» Yasser Arafat e il suo successore, Mahmud Abbas (Abu Mazen). Al potere quando Saddam Hussein era il padre-padrone dell’Iraq, lo è ancora quando il «macellaio di Baghdad» ha finito i sui giorni su un patibolo. Ha accompagnato nel loro ultimo viaggio re Hussein di Giordania, il «leone di Damasco», Hafez el Assad, parlò al mondo dal Monte Herzl cuore della Gerusalemme ebraica nel giorno dell’addio al suo «partner di pace»: il primo ministro d’Israele, Yitzhak Rabin, assassinato da un zelota dell’ultradestra ebraica per aver osato la pace con l’Olp di Arafat. Era il 6 novembre 1995. Quel giorno di vuoto e di dolore, il rais andò con la memoria indietro nel tempo, ad un altro giorno che cambiò la sua vita, quella dell’Egitto e del Medio Oriente: il 14 ottobre 1981, quando vide morire sotto i suoi occhi Anwar Sadat, assassinato da un commando integralista per aver osato la pace, a Camp David, con Israele. Hosni Mubarak ha governato con il pugno di ferro in un guanto di velluto: investendo sulla modernizzazione dell’Egitto ma senza gettare mai le basi di una vera democrazia. Ha promesso «normalità» ma ha perpetrato per trent’anni lo Stato di emergenza. Nel mondo c’è chi lo ha considerato un Grande, chi il Male minore rispetto a una deriva fondamen-
talista. Il suo popolo lo ha esaltato, poi temuto, infine odiato. Aveva promesso il benessere, ha finito per far assoldare squadracce di picchiatori per assaltare i ragazzi di Piazza Tahrir.
Le sue origini sono quelle di una famiglia dell'alta borghesia, che lo indirizza verso la carriera militare. Frequenta l'Accademia militare nazionale e l'Accademia aeronautica e poi, in Unione Sovietica, l'Accademia di Stato maggiore. All'età di ventidue anni si arruola nell'aeronautica. Ci rimarrà per altri ventidue anni della sua vita, un periodo in cui avrà modo di intraprendere una carriera militare che gli permetterà di arrivare ai vertici delle gerarchie delle Forze armate. Diviene capo di stato maggiore dell'Aeronautica nel 1969 e comandante in capo nel 1972. Durante gli anni della presidenza di Anwar Sadat, ricopre incarichi militari e politici: oltre ad essere il più stretto consigliere dello stesso presidente egiziano, viene nominato viceministro della guerra e, nel 1975, vicepresidente. Il 14 ot-
tobre 1981, una settimana dopo l'omicidio di Sadat, viene eletto presidente dell'Egitto. Successivamente vince tre elezioni senza alcuna opposizione fino al quarto scrutinio quando è costretto su pressione degli Stati Uniti a riformare il sistema per permettere un'elezione multi-partitica per le presidenziali previste per settembre. Per la Comunità internazionale ha rappresentato un elemento di stabilità; odiato dal fronte del rifiuto arabo, ritenuto un fatto di moderazione regionale da Israele. Successi internazionali che non hanno cancellato i suoi deficit interni trasformatisi in una vera bancarotta politica, sociale, morale. Mubarak è sfuggito a sei tentativi di attentato, ma non alla «Rivoluzione dei Loto». In Egitto «si sta facendo la storia», «una nuova generazione leva la voce per essere udita», dice Barack Obama, il presidente del «Nuovo Inizio» nei rapporti tra l’Occidente e l’Islam, mentre a Piazza Tahrir si attende con il fiato sospeso l’annuncio per cui in milioni si sono battuti nei diciassette giorni che hanno fatto la storia.

Corriere della Sera 11.2.11
Ravasi e il multiculturalismo: meglio l’interculturalità
di  Gian Guido Vecchi


CASTEL GANDOLFO — «Il multiculturalismo è fallito» , ha detto il premier inglese David Cameron, innescando un dibattito continentale. Una riflessione che nella Chiesa è già iniziata da tempo, «ciò che dobbiamo f a r e è passare d a l l a m u l t i c u l t u r a l i t à a l l a interculturalità, dalla coesistenza di culture che non comunicano all’esperienza del dialogo, l’altro giorno avevamo una riunione di cardinali in vista di un eventuale documento» , spiega il cardinale Gianfranco Ravasi. Che ieri ne ha parlato al 35 ° incontro dei vescovi amici del movimento dei Focolari, poco distante dalla residenza estiva del Papa: «Bisogna costruire un confronto che non sia scontro, nel quale anche i valori siano comunicati ma senza perdere la propria identità: una sorta di convivenza culturale, molto delicata e complessa» . La fede e la cultura laica, le diverse fedi. Il cardinale Ravasi, rivolto a una settantina di vescovi del mondo, non nasconde quanto sia arduo il processo educativo, «anche per i nostri fedeli non è facile» . Il multiculturalismo «è un dato di fatto fin dall’antichità» , ma oggi è diventato «emblematico nelle città, dove si vedono compresenze di identità culturali diversissime» , talvolta «quasi dei fondamentalismi che stanno uno accanto all’altro: con scintille, scontri» . Di qui il passaggio necessario al modello «interculturale» , che riguarda il rapporto con la propria identità e quella altrui: «Il dialogo, come dice questa bella parola greca, presuppone il dia-logos e quindi il rapporto tra due logoi. Il che significa che l’interculturalità non ha come meta l’identificazione, la costruzione di un’unica società globalizzata» . Il grande biblista sceglie un’immagine musicale: «La tentazione multiculturale era quella del duello: il più forte riesce a occupare più spazio. Ciò che dobbiamo creare con l’interculturalità è piuttosto un duetto, che in musica può essere costituito da un basso e da un soprano. Cosa c’è di più diverso di queste due voci? E perché ci sia armonia, è forse necessario che il basso canti in falsetto e il soprano abbassi il tono?» . No, l’essenziale è «avere una forte coscienza della propria identità, perché non si fa dialogo senza un volto, ed è questo il grande rischio dell’Europa: come diceva Eliot, se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura, se ne va il nostro stesso volto» . Bisogna tuttavia guardarsi da «una malattia duplice» , avverte il cardinale: «Da un lato il fondamentalismo, l’eccesso di identità, l’identità aggressiva, della spada, che può essere anche cristiana; e dall’altro il sincretismo culturale, la superficialità, la banalità, la stupidità, l’amoralità, una genericità incolore, insapore e inodore, la nebbia culturale che oggi domina» . Ecco la difficoltà: «Devi avere una consapevolezza forte dei tuoi valori e insieme rispettare quelli degli altri. Sapere ascoltare, senza per questo imitare...» . Il cardinale Ravasi, con il «Cortile dei Gentili» voluto da Benedetto XVI, ha iniziato un dialogo tra teologia e cultura laica che il 24 e 25 marzo lo porterà a Parigi: dalla Sorbona all’Unesco all’Académie. «È faticoso ma possibile: il problema è il livello basso, non l’ateismo colto ma l’indifferenza...» . A Castel Gandolfo c’era anche il cardinale Miloslav Vlk, che fu ordinato sacerdote durante la Primavera di Praga e costretto dal regime a fare il lavavetri. Ha evocato l’esperienza di perseguitato, la sua scelta di «abbracciare la Croce come Gesù» , in analogia a quanto accade oggi, «la fede messa ai margini, il rifiuto dei valori cristiani» . E pure lui ha messo in guardia da velleità crociate: «Talvolta abbiamo una fede debole, e allora sorge la paura. Invece bisogna fare l’esperienza del Vangelo e, in base a questa, testimoniare: gli altri lo sentono» .

Corriere 11.2.11
Matisse Michelangelo
Il corpo della gioia Quella ricerca dei volumi attraverso i nudi e la sensualità Così il pittore francese inseguì il mito del Buonarroti
di  Melisa Garzonio


Ecco come finirà: entrerete pensando a Matisse, ne uscirete innamorati pazzi di Michelangelo. Vedrete sensuali nudi blu, e vi verrà da pensare al capolavoro michelangiolesco dell’ «Aurora» , la statua di marmorea grandeur che turba i visitatori nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo a Firenze. Non è la prima volta che una mostra offre nuove chiavi di lettura del pittore della «Joie de vivre» , come s’intitola il quadro realizzato da Henri Matisse (1869-1954) con la tecnica del pointillisme nel 1905. Lo ha fatto il MoMa di New York lo scorso autunno con «Matisse: Radical Invention 1913-1917» , riabilitando un centinaio di opere insolitamente ombrose e dai contorni pesanti, generalmente liquidate come una laconica risposta del maestro «fauve» all’ascesa di Picasso (l’alter ego e rivale di una vita). Lo fa, adesso, lanciando una sfida affascinante, l’esposizione «Matisse. La seduzione di Michelangelo» che apre oggi al Museo di Santa Giulia di Brescia, con la cura di Claudia Beltramo Ceppi. In mostra non s’incontra il guru del Novecento tutto emozione e sensualità, si capisce subito che tra i volumi di Cézanne e le nuove sfaccettature cubiste, negli affetti di Matisse s’insinua un terzo pretendente, che non concede scampo ai rivali. Matisse e Michelangelo, un ménage perfetto. Spiega la curatrice: «Due artisti solitari, tormentati, strenui difensori della "loro"verità; incapaci di adattarsi, in caso di necessità, alla committenza dei grandi mecenati, papi o collezionisti» . Matisse trova nel genio fiorentino una profonda affinità elettiva. Ne condivide i turbamenti, la passione mai appagata per l’opera, il procedimento «a togliere» che alleggerisce le immagini, la tensione spasmodica che le distorce. L’innamoramento è totale, la devozione assoluta: «Si potrebbe far rotolare una statua di Michelangelo dall’alto di una collina fino a far scomparire la maggior parte degli elementi di superficie: la forma rimarrebbe comunque intatta. Non si potrebbe dire altrettanto di Donatello» . Più chiaro di così. A documentare il percorso di questa straordinaria fascinazione, 180 opere: dipinti, incisioni, disegni, e le celebri papier découpé (collage di carte dipinte a guazzo) che sono la risposta geniale alla domanda cruciale di Matisse sulla plasticità dei corpi in relazione allo sfondo, la fusione sognata che gli farà dire: «Ritagliare a vivo nel colore mi ricorda il procedimento diretto della scultura» . La presenza di Michelangelo è costante, e si palesa attraverso disegni e calchi in gesso, intrecciando continui rimandi fra pittura e scultura. Matisse insegue il mito fiorentino indagando per dieci anni sui calchi delle sue sculture conservati all’École des Beaux-Arts di Nizza. Sarà lui stesso a raccontare in una lettera all’amico Albert Marquet di questo rapporto esclusivo: «Scusami non posso raggiungervi perché sono trattenuto qui da una donna, passo con lei tutto il mio tempo e non credo mi muoverò da qui per tutto l’inverno» . La donna dalle sinuose anatomie che l’ha stregato è il calco di una celebre scultura che si chiama «La notte» . Quando nel 1919 lascia Parigi e trasloca in Costa Azzurra, Matisse è già famoso, corteggiato, conteso. Un collezionista leggendario, il russo Sergej Suckin, gli ha commissionato una serie di dipinti per le pareti della sua casa moscovita. Tra questi, «La danza» , uno dei suoi massimi capolavori, di cui esegue anche una seconda versione per la collezione dell’americano Albert C. Barnes. In mostra «La danza, armonia blu» del 1930 e una stampa della versione in rosso eseguita per la rivista Verve nel 1938. Nel suo buen retiro sul mare, pensa a un viaggio a Firenze del 1907, quando, alle Gallerie dell’Accademia, ha conosciuto l’arte di Michelangelo. Ecco, a ricordarlo il grande «Nudo blu» , ricordo di Biskra, la traduzione dipinta di un piccolo bronzo incompiuto, eseguito proprio nel 1907, quattro anni dopo aver modellato «Lo schiavo morente» , doppio debito con il fiorentino e con Rodin, esposto in mostra in una copia e raffigurato nel dipinto «Pianista e giocatori di dama» , del 1924. Una festa di contorsioni e avvitamenti muscolari che ricompariranno nella statuetta del «Nudo sdraiato» (Aurora), ispirato al capolavoro michelangiolesco delle Tombe Medicee, che farà da modello a tanti dipinti degli anni a venire. E non è un caso che l’opera più amata e più patita, che gli porterà via sette anni di lavoro, sarà proprio la giunonica scultura del «Grande nudo seduto» : le braccia intrecciate dietro la testa, la gamba destra accavallata sotto la coscia sinistra, in una posa decisamente michelangiolesca.

Repubblica 11.2.11
L’arte della gioia di vivere all’ombra di Michelangelo
Le forme del pittore francese confrontate con quelle del Buonarroti nella mostra che si apre oggi a Brescia
di Lea Mattarella


"Scusami, non posso raggiungervi – scrive da Nizza nel 1918 Henri Matisse al collega Albert Marquet – perché sono trattenuto da una donna, passo con lei tutto il mio tempo e non credo mi muoverò da qui per tutto l´inverno". Un colpo di scena nella vita del pittore francese da sempre dedito alla moglie Amélie, ai suoi tre figli, a una vita borghese contro ogni stereotipo maudit? In effetti sì. Perché l´identità di questo amore rivela l´interesse di Matisse verso un mito del Rinascimento, periodo che, com´è noto, l´artista francese amava pochissimo. "Fortunatamente – prosegue la lettera – questa donna è un calco di Michelangelo e si chiama La Notte. L´Ecole des arts décoratifs ne possiede una copia a grandezza originale. Sono ritornato studente: oggi dalle otto a mezzogiorno ho modellato dal vivo, dalle quattro alle sei ho disegnato la Notte e domani ricomincerò e così per tutta la settimana".
Una frase così accende la curiosità, fa venir voglia di comprendere come l´innamoramento per la Notte di questo genio del Novecento che per Picasso "aveva il sole nel ventre", si possa tradurre in pittura.
La mostra "Matisse. La seduzione di Michelangelo" curata da Claudia Beltramo Ceppi, aperta da oggi al 12 giugno al Museo di Santa Giulia di Brescia, accompagnata da un catalogo Giunti, si pone il compito di dimostrare la profondità del legame che tiene uniti questi due maestri. Separati da quattro secoli, ma tenuti insieme dal filo ben saldo dell´urgenza espressiva.
Il percorso conduce tra 180 opere di Matisse – dipinti, disegni, incisioni, gouaches, sculture dagli esordi, avvenuti nel segno della pittura fauve, fino alla parte finale della sua vita, dedicata all´illustrazione dei libri, della rivista Verve e alla grande scoperta del papier découpé. Questo attraversamento della luce matissiana avviene all´ombra di Michelangelo: qua e là si incontrano per un confronto ideale e per certi versi davvero sorprendente, diversi calchi delle sue più importanti sculture, oltre a un disegno originale raffigurante due Veneri. Che dialoga con uno stesso soggetto eseguito dal francese. L´arte di entrambi, infatti, trova linfa nell´amore per il corpo, nella ricerca spasmodica delle posizioni che questo può assumere nello spazio della creazione.
Si è sempre parlato della sensualità delle donne di Matisse, delle sue odalische, dei nudi, ma anche delle figure tratte dalla mitologia greca. Come l´Europa qui esposta, che tutto pare tranne che una fanciulla spaventata da Giove. Eccola lì, abbandonata, distesa, in una postura che ricorda appunto gli esempi delle Cappelle Medicee di Michelangelo, accanto al dio che per possederla si è trasformato in toro: lui l´avrà pure rapita, ma lei lo ha senza dubbio domato.
Da dove nasce questo erotismo indolente tutto matissiano se non dalla perfetta padronanza dell´artista dell´anatomia della macchina corporea che si rivela in pose e torsioni cariche di espressività? «Devo dipingere un corpo di donna: prima gli conferisco grazia, fascino, ma si tratta di dargli qualcosa di più» affermava. Cercava questo, il quid in più, probabilmente, tra le pieghe della Notte. Che aveva visto e amato dal vero in un viaggio in Italia del 1907, con tappa a Firenze e visita alla Sagrestia in San Lorenzo, dove le sculture michelangiolesche incarnano la fugacità del tempo, il passare dei giorni, ma anche le stagioni dell´uomo. Che il corpo è chiamato a narrare. A unire Michelangelo e Matisse è anche questa predilezione, la scelta di usare l´anatomia per altri più alti racconti. «Quel che più mi interessa non è la natura morta, né il paesaggio, ma la figura. La figura mi permette ben più degli altri temi di esprimere il sentimento, diciamo religioso, che ho della vita», diceva il francese.
Sappiamo che Matisse possedeva un calco di uno dei Prigioni di Michelangelo, lo Schiavo morente, capolavoro conservato al Louvre. Eccolo comparire in due opere in mostra. È il protagonista dell´Interno con schiavo dove appare in primo piano davanti a una finestra, altro tema matissiano per eccellenza. E poi, eccolo svettare, unico tocco di bianco, tra gli arabeschi, gli ornamenti, la tessitura di rossi di Pianista e giocatori di dama, come fosse una silenziosa dichiarazione di poetica: ci sono i tappeti, gli incastri, le tappezzerie, le stoffe a fiori e a righe, ma c´è anche questo pezzo di Italia, in un incontro tra oriente e occidente protetto dal sogno realizzato della classicità.
Matisse, tra l´altro, scolpiva. Sempre tenendo ben presente la linea curva, quel contorno che per lui è l´origine di tutto. Nella sua testa è ben chiaro il primato del disegno, valore consolidato del Rinascimento fiorentino. E nella statuaria, dove manca la potenza espressiva del colore, questo appare ancora più evidente: basti guardare il Nudo disteso, la sua prova scultorea più grande, o il Piccolo nudo accovacciato per rendersi conto della tensione della linea che crea volume, pienezza e armonia della forma. Naturalmente nel suo inno felice alla bellezza non c´è posto per i dettagli: in questa necessità di sintesi Matisse è figlio del suo tempo. Lo sa e lo rivendica quando afferma: «Si nasce con la sensibilità di tutta un´epoca». Per questo è così moderno, e può premettersi la sua allergia a tutti i movimenti e le ideologie che nascevano intorno a lui: cubismo, dadaismo, surrealismo. Non gli interessa niente di tutto questo, l´arte per Matisse deve essere come "una comoda poltrona". E infatti la sua vita scorre nel colore, nonostante attraversi due guerre mondiali. Ecco il senso della sua "gioia di vivere" che è gioia di dipingere. Ma anche di disegnare, modellare, ritagliare: le arti per lui sono davvero sorelle. Alla fine della sua carriera questo "sarto delle luce", come lo ha definito un critico, giunge al papier découpé: colora la carta e poi la ritaglia, sintetizzando sempre di più, come succede nella Venere proveniente da Washington. Afferma che in questo modo può "disegnare nel colore" e che "ritagliare nel vivo il colore ricorda lo sbozzare diretto degli scultori". Significa lavorare per sottrazione "per via di levare". Come faceva Michelangelo convinto assertore che l´opera fosse già contenuta nella materia e compito dell´artista fosse solo quello di svelarla. Così Matisse può dire di colui che questa mostra gli riconosce come un maestro a fianco: «Si potrebbe far rotolare una statua di Michelangelo dall´alto di una collina fino a far scomparire la maggior parte degli elementi di superficie: la forma rimarrebbe comunque intatta». E per l´artista francese l´unica cosa che conta è questa: la felicità della forma, la sua essenza imperturbabile.

Repubblica 11.2.11
La ricerca dell´essenziale nei due artisti
Quando la parola d´ordine è "togliere"
Un processo creativo che punta a "levare" per liberare la materia e consentirle di mostrare la sua natura nascosta
di Achille Bonito Oliva


Si può raggiungere la profondità con il massimo della superficie. Questo avvertimento nicciano ci permette di guardare senza scandalo al corto circuito, che non è rotta di collisione, tra Michelangelo e Matisse proposto dalla mostra di Brescia. Un appuntamento iconografico assolutamente sostenibile proprio a partire dall´idea neo-platonica del Buonarroti sul processo creativo. L´opera nel suo farsi richiede un procedimento "a togliere": un levare per liberare la materia e consentirle di mostrare la sua profonda natura nascosta. È un anelito verso l´essenziale e l´essenza, che spiega ancor meglio il concetto di furor che non è sprofondamento nella materia, ma al contrario elevazione ed emendamento dall´inevitabile peso gravitazionale della carne.
Matisse, nella sua pittura vaporizzata nello spazio e senza penombre, dominata dalla memoria di una luce mediterranea, rincorre anche lui, magari senza pensare a Platone o ai Neo-platonici, il raggiungimento di una forma che si costituisca come essenza della scultura e della pittura. Il percorso naturalmente ha altri tragitti rispetto a quelli del Rinascimento italiano, per la verità non tanto amato dal pittore francese, ma nello stesso tempo conquistato e incantato da un calco di Michelangelo, esattamente la Notte.
Inoltre anche la teoria del non-finito, che nasce dall´impossibilità dell´artista e dell´uomo di gareggiare con la creazione divina, può trovare una consonanza nella decorazione matissiana che spesso passa attraverso una volubile sinuosità del segno ed una voluta indefinizione cromatica. Senza arrivare ai Prigioni, che fanno di Michelangelo anche un profeta dell´Informale e della Neo-figurazione, è possibile misurare uno stato di ansietas identico ma di diversa temperatura con quella di Matisse. Ansietà che corrisponde a un tremore spirituale in Michelangelo e, invece, nel pittore francese, ad una condizione giocosa, erotica e disseminata. Una sorta di stato d´animo che non isola le diverse parti della visione, semmai le aggrega in una fertile continuità.
Eppure Matisse è profondamente colpito nella sua forte anoressia iconografica dalla volumetria bulimica di Michelange-lo. E´ possibile rintracciare nella pittura stessa di Matisse la memoria della scultura michelangiolesca. Basti confrontare il Ratto d´Europa del 1929 con la postura dell´Aurora e della Notte delle Tombe medicee nella Sacrestia Nuova di San Lorenzo in Firenze per capire quanto ikl grande pittore francese ha guardato il Buonarroti.
Naturalmente ancor più facile è segnalare una consonanza tra i due modi di fare scultura. Si comprende come Michelangelo e Matisse cadano, nel senso buono, dentro la scultura, proprio per riuscire a darcene l´essenza. Un taglio in profondità per dare ordine e sistema alla materia. Michelangelo, turbolento spirito quasi protestante, Matisse libertino oscillante tra figurazione e decorazione, a distanza di secoli rappresentano procedure creative dove non esiste relativismo stilistico ma il timbro di un linguaggio che vola e sprofonda contemporaneamente alla ricerca dell´essenza, la Forma.

La Stampa 11.2.11
“Shakespeare ci insegna: non c’è amore senza morte”
Scamarcio a teatro nel “Giulietta e Romeo” pop di Binasco “Oggi non pensiamo più al destino, ma ai soldi, e siamo vuoti”
di Simonetta Robiony


Gli amanti di Shakespeare Riccardo Scamarcio e Deniz Ozdogan, giovane attrice turca venuta in Italia «per cercare di sfuggire al teatro chiuso nella tradizione del mio Paese»

«La villa dei Capuleti sembra quella dei camorristi lo spettacolo è comico e cupo»
«Giulietta è il candore, l’assoluto la purezza. Non ha ferite non può far male né farsi male»

Giulietta, Deniz Ozdogan, non ha la treccia ma cortissimi capelli un pò punk e quei grandi occhi neri e intensi tipici di molti del suo paese: «Sono arrivata in Italia dopo aver visto uno spettacolo di Strehler: volevo un teatro che mi desse emozioni come era il vostro, ma ormai ne fate poco anche voi». Romeo ha la bella faccia tumultuosa di Riccardo Scamarcio, da tempo ormai non più stella dei film da Moccia ma protagonista di pellicole del nostro cinema migliore, difensore dei diritti umani, da noi e non da noi, nonchè compagno alla pari di Valeria Golino: «In teatro avevo fatto una particina, giovanissimo, in Miseria e nobiltà : naturale che adesso mi senta stanco e spaventato. Comunque vada è stata una esperienza fondamentale che mi ha allontanato da un certo egocentrismo. Sul palcoscenico è il personaggio che ti prende e ti porta dove vuole, qualcosa d’ignoto che nemmeno chi ti dirige sa cosa sarà: a te basta lasciarti trascinare. Un’esperienza mistica esaltante come quella di certe tradizioni peruviane, una sensazione di distacco dal corpo, ma senza l’uso di droghe».
Questo Romeo e Giulietta di uno Shakespeare tradotto in lingua moderna da Paravidino e diretto da Valerio Binasco, uno dei più lodati protagonisti del nostro spettacolo, va in scena per un mese, dal 14 febbraio, giorno di San Valentino, la festa degli innamorati, all’Eliseo di Roma, per la volontà di Massimo Monaci, con la collaborazione della Compagnia Gank e del Gloriababbi, riallacciando legami nati sul set del film Texas . Successivamente un lungo speciale sulla sua messa in scena fatto da RaiCinema e Magnolia dovrebbe trovar posto sulla nostra tv. Binasco l’ha voluto contemporaneo e senza tempo, abientato in una città di provincia violenta e pigra dove gruppi di giovani si fronteggiano in risse mentre i padri accumulano denaro più o meno illecito: «La casa dei Capuleti può sembrare un villone di camorristi con le palme piantate in giardino. Gli scontri in piazza, faide di un paese che ha smarrito i valori. L’odore della morte aleggia ovunque. Credevo di costruire un grande spettacolo sulla violenza: è venuto fuori uno spettacolo comico e cupo, vitale e popolare, un’opera pop che tutti noi abbiamo voluto realizzare come atto di ribellione contro la politica criminale di chi taglia i fondi alla cultura. È un modo di dire ai politici che il teatro va avanti: faremo senza di voi, ma sarà contro di voi».
Tragedia celeberrima, Romeo e Giulietta è nel testo shakespeariano e nel nostro immaginario un inno all‘amore romantico e assoluto: quello degli adolescenti. Qua l’amore c’è, ma non è una esplosione dell’adolescenza: è un atto consapevole. Dice Deniz Ozdogan: «Giulietta è il candore, l’assoluto, la purezza. Non ha ferite: non può far male né farsi male. La mia frase più bella? Il mio amore è come il mare: più te ne dò più me ne resta. Giulietta è proprio come l’ha voluta Shakespeare». Riccardo Scamarcio, invece, spstiene che di amori nel testo ce ne sono molti: «In principio c’è l’infatuazione possessiva di Romeo per Rosalina. Poi, più importante, l’amore tra lui e Mercuzio, una amicizia complementare dove l’uno è portatore di sogni l’altro di concretezza. Infine l’amore per Giulietta, quello che ti cambia, ti matura, ti fa uscire dal gruppo, è pronto a dare e non solo a ricevere, sfida le stelle, arriva alla morte». C’è differenza tra il modo di amare di allora e quello di oggi? «No. I sentimenti sono universali. Shakespeare è il primo commediografo moderno, grandissimo e quindi sempre attuale. Sono cambiate, però, le condizioni dell’umanità. La morte è sparita e con la morte è sparito il mistero dell’aldilà, delle grandi domande sul nostro destino. Non vogliamo sentirne parlare, della morte. Viviamo molto a lungo come non ci fosse. E invece c’è. Cerchiamo soddisfazioni immediate: la ricchezza, il sesso, il potere. Seguiamo un modello di capitalismo globalizzato già in fallimento, dimenticando che uno dei compiti dell’uomo è analizzare se stesso». Come riconoscerla, allora, in queste condizioni, l’eternità del sentimento amoroso? «Con l’arte. Il teatro, il cinema, perfino la tv di ricerca possono essere arte. E’ l’arte che mette le mani in questa materia e la mostra al pubblico. E l’attore è il mezzo con cui può esprimersi. Una soddisfazione grande».

La Stampa 11.2.11
Tumore al seno, vincono gli “italian doctors”
di Umberto Veronesi


IlNew York Times due giorni fa ha dato ampio spazio in prima pagina all’annuncio di un nuovo progresso nella cura del tumore del seno: l’intervento chirurgico di rimozione dei linfonodi dell’ascella, anche se colpiti dalla malattia, non deve più essere lo standard per tutte le pazienti. A molti forse è sfuggita l’importanza di questo messaggio, che ha invece un significato speciale per le donne e per la ricerca scientifica italiana. Per le donne perché è dimostrato che sono le migliori custodi della propria salute: con la loro consapevolezza e determinazione sono in grado di far crollare la rigidità dei dogmi e scuotere la mentalità conservatrice di alcuni medici. Se sanno che esiste una cura migliore per loro, prima o poi la otterranno. Per la ricerca italiana, perché esattamente 30 anni fa sullo stesso giornale e nella stessa posizione, appariva la notizia della strada aperta da noi chirurghi italiani per le donne, di cui l’annuncio dei giorni scorsi rappresenta una nuova tappa. Nel luglio del 1981, infatti, proprio il New York Times (insieme ad altri quotidiani americani come Los Angeles Times ed Herald Tribune ) riportava una rivoluzione fondamentale per le donne colpite da tumore del seno.
Il dogma della mastectomia (asportazione totale della mammella), che si poneva l’obiettivo di salvare la vita della paziente, era stato superato dalla nuova tecnica della quadrantectomia (asportazione di una parte, un quadrante, della mammella) che non solo salvava la vita, ma ne preservava anche qualità. Il risultato, spiegava l’articolo, era dovuto agli «italian doctors» che avevano appena pubblicato sul New England Journal of Medicine gli esiti di uno studio clinico durato sette anni e realizzato a Milano. Sono felice di avere fortemente voluto quello studio e di aver firmato quella pubblicazione scientifica, perché cambiando la direzione del trattamento del tumore del seno, ha cambiato la vita delle donne. Poi abbiamo capito all’Istituto Europeo di Oncologia che potevano spingerci più in là nella protezione dell’integrità del corpo della donna e, oltre alla mammella ci siamo chiesti se potevano salvare l’ascella, evitando ove possibile l’intervento di rimozione dei suoi linfonodi. Così abbiamo messo a punto la tecnica del linfonodo sentinella, vale dire quel linfonodo che è in grado di darci indicazioni sullo stato di tutti gli altri. Se è sano, l’ascella è sana, se è malato, l’ascella è malata. Abbiamo iniziato a effettuare gli interventi all’ascella solo in caso di linfonodo sentinella malato, risparmiando così operazioni non necessarie alle nostre pazienti, e evitando di privarle di una parte preziosa della loro difesa immunitaria. La notizia americana ci incoraggia e rafforza i nostri capisaldi, andando ancora oltre nella strategia della conservazione: la rimozione dei linfonodi dell’ascella, anche se malati, non deve necessariamente essere effettuato, per certi specifici tipi di tumori (pari al 20% circa di tutti i casi) perché non porta vantaggi nella cura.
Si profila sempre più chiaramente quindi il tramonto del concetto stesso di dogma in medicina. La cura si fa personalizzata e già siamo molto vicini a poter offrire ad ogni donna con tumore del seno un percorso di cura individuale. E per far crollare i dogmi, l’abbiamo detto, contiamo molto sulla forza delle donne.