sabato 3 gennaio 2015

Corriere 3.1.15
Il sacerdote dei Parioli arrestato per abusi su minori
Le violenze sarebbero avvenute in Argentina
I residenti: uno choc. Una madre: c’era un viavai di giovani
di Rinaldo Frignani


ROMA Nella parrocchia dei vip a due passi da piazzale delle Muse in tanti erano convinti che don Alessandro era fuggito dall’Argentina perché minacciato. E ieri, quando la notizia del suo arresto ha fatto il giro di Roma, gli stessi parrocchiani non sapevano più cosa dire. «Un prete modello, un bravissimo ragazzo. Non ci credo» lo difende una signora impellicciata all’ingresso della piccola chiesa di San Luigi Gonzaga di via di Villa Emiliani, nella parte più nobile dei Parioli. Mura bianche, panche di legno scuro. Accanto all’edificio un campo di calcio pieno di ragazzini che ha fatto la storia della zona.
Don Alessandro De Rossi, 45 anni, era arrivato a San Luigi nel 2013, ordinato parroco dopo aver trascorso più di due lustri in Argentina da sacerdote fidei donum . Ma da Salta, cittadina di indios nel nord del Paese, quasi al confine con il Cile, non era fuggito perché minacciato. Sul religioso romano pesavano, e pesano tuttora, accuse pesantissime: violenze sessuali su minorenni fra il 2009 e il 2010, anche con abusi di gruppo. Il 31 dicembre gli agenti della Squadra mobile, diretti da Renato Cortese, sono andati a prenderlo nel suo alloggio a San Luigi e l’hanno portato in carcere: don Alessandro era ricercato da Natale dalle autorità argentine che avevano spiccato nei suoi confronti un ordine di cattura internazionale.
La Procura generale si pronuncerà sulla convalida dell’arresto e l’eventuale estradizione in Argentina dove si terrà il processo, ma la Mobile non esclude accertamenti fra i ragazzi che frequentano la parrocchia dei Parioli, soprattutto nel caso che qualcuno si faccia vivo dopo la notizia dell’arresto del presunto pedofilo. Tanto più che alcuni parrocchiani — e fra loro anche una giovane madre — si sono ricordati ieri «di un sospetto viavai di ragazzini». Una bomba vera e propria perché sui banchi di San Luigi non è raro vedere assorti in preghiera politici (Antonio Tajani, vice presidente del Parlamento europeo) e attori (Sergio Castellitto e la moglie scrittrice Margaret Mazzantini).
A Salta, nella chiesa Maria Medianera de Todas Las Gracias, nel quartiere Islas Malvinas, tutti invece sapevano che don Alessandro era ricercato. Secondo il giudice di garanzia Diego González Pipino, che ha firmato l’ordine di cattura, il sacerdote è imputato di «abusi sessuali aggravati su un numero imprecisato di vittime». A casa del prete — che nel 2011 finì sui giornali per aver difeso l’attrice Luciana Littizzetto in una querelle con la Chiesa sull’impegno a favore degli immigrati — sarebbero stati sequestrati computer e cd con foto e video dei suoi incontri con i minori che, per gli investigatori argentini, sarebbero avvenuti in alcune case di Salta.
Violenze seriali, quindi, tutte commesse nella cittadina soprannominata da abitanti e turisti «la linda», per la sua bellezza. Ma lì il parroco dei Parioli non ha lasciato un bel ricordo. E ora nemmeno fra alcuni fedeli romani. A chi non ha mai avuto sospetti («Le sue omelie erano di scuola, ma fatte bene», dice un 50enne) e si fidava di lui, al punto da lasciargli i figli piccoli per il catechismo, si contrappone da ieri sera chi invece si chiede: «Possibile che la Chiesa non sapesse dei suoi trascorsi con la legge?». Ma il Vicariato rivela: «Era tornato a Roma per motivi di salute, con un giudizio positivo del vescovo locale».

il Fatto 3.1.15
In manette a Roma
Arrestato prete: “Abusi sessuali in Argentina”


Era ricercato dal 26 dicembre scorso, Alessandro De Rossi, il prete finito in manette l’ultimo giorno dell’anno con l’accusa di abusi sessuali su minori. Il religioso era ricercato in ambito internazionale e l’ordine di arresto è stato emesso dalla magistratura di Salta, città al confine con il Cile. Perché è proprio in Argentina, nel Paese di papa Francesco, che il prete avrebbe commesso gli abusi sessuali.
Un’altra storia di pedofilia, quindi, dopo lo scandalo di Jozef Wesolowski, l’ex nunzio di Santo Domingo, ridotto allo stato laicale e finito in carcere per abusi sessuali, anche se adesso si trova ai domiciliari.
Alessandro De Rossi è ritenuto responsabile di avere corrotto dei minorenni e di averne abusato all’interno dei locali parrocchiali nel periodo in cui esercitava le sue funzioni in una parrocchia argentina nella provincia di Salta, inducendoli anche a praticare sesso di gruppo. Abusi questi che sarebbero avvenuti alcuni anni fa. De Rossi infatti è stato parroco della chiesa Maria Medianera de todas las gracias, nel quartiere Islas Malvinas di Salta.
ALL’INIZIO DEL 2013, l’agenzia cattolica argentina Aica segnalava il ricovero del sacerdote, il 20 gennaio, in un ospedale della città dopo essere stato aggredito a pugni in testa da un giovane di meno di 30 anni, che gli chiedeva denaro e cibo.
Dopo l’aggressione il parroco aveva chiesto un periodo di riposo, senza però lasciare la città, dove si era trasferito nel 2008 e dove si occupava di assistenza ai giovani tossicodipendenti. Poi nel 2013 è stato assegnato alla parrocchia di San Luigi Gonzaga, vicino a piazzale delle Muse, nel quartiere romano dei Parioli. Finché il 26 dicembre scorso il giudice argentino di Salta, Diego Rodriguez Pipino, ha emesso il mandato di cattura, trasmesso poi all’Interpol.
L’ordine di arresto quindi non arriva dal Vaticano, anche se è in perfetta sintonia con la linea dura scelta da papa Bergoglio proprio dopo l’arresto dell’ex nunzio Wesolowski: “Tolleranza zero verso chi commette abusi sessuali”.

il Fatto 2.1.15
Buon compleanno, Parlamento abusivo
Incostituzionale
Fino a quando la Costituzione, che pure si è manifestata nella parte sostanziale della sentenza della Consulta, potrà essere lasciata da parte?
Le conclusioni del saggio di Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, sulla sentenza n. 1/2014 emessa un anno fa dalla Consulta per cassare la legge elettorale “Porcellum” e sulle sue conseguenze sull’attuale Parlamento, in uscita sul numero 3/2014 della rivista “Giurisprudenza costituzionale”
di Gustavo Zagrebelsky

qui

il Fatto 3.1.15
Anatomia di una dimissione
Il secondo mandato chiuso in anticipo e i precedenti che mancano
L’anomala fine di re Giorgio
di Paola Zanca


Con una discreta virtù profetica, il 15 gennaio 1962, il deputato Francesco Cossiga presentava la sua proposta di legge per chiedere nuove “norme sul mandato, sulle dimissioni e sulla supplenza del presidente della Repubblica”. Mancavano pochi mesi alla fine del settennato di Giovanni Gronchi e, spiegava il deputato democristiano, era il momento migliore per restringere il “margine di possibile dissenso interpretativo”: “Giunti ormai alla vigilia della scadenza del mandato presidenziale non sussistono più quelle ragioni di delicatezza che altrimenti potrebbero sconsigliare la emanazione di norme che così da vicino riguardano la persona del Capo dello Stato”. Diceva Cossiga: non importa che diate seguito alla mia proposta nel dettaglio, basta che interveniate in qualche modo: servono “procedure certe” e “forme rigorose”, soprattutto quando si tratta di dimissioni, di impedimento e di supplenza. Col senno di poi, non aveva tutti i torti. E oggi che siamo alle prese con le prime dimissioni dal secondo mandato presidenziale, ci ritroviamo a rileggere i precedenti senza poter trovare praticamente nessuna analogia.
La proposta Cossiga si arenò in commissione alla Camera. Meno di due anni e mezzo dopo, il Parlamento italiano si trovò alle prese con il primo caso di Presidente “impedito”. Antonio Segni - al Quirinale da maggio del 1962 - il 7 agosto del 1964 viene colpito da un ictus, appena uscito da un incontro con Giuseppe Saragat e Aldo Moro. Fiumi di inchiostro di costituzionalisti sono stati spesi per trovare nella Carta la soluzione di quel caso imprevisto. Chi stabilisce se e per quanto tempo, il Capo dello Stato non è in grado di assolvere alle sue funzioni? L’impedimento fu giudicato temporaneo, fu poi lo stesso Segni a dimettersi prima della fine dell’anno.
MA LA STORIA che stiamo vivendo in questi giorni, quella di un Presidente che dichiara di “aver toccato con mano come l’età porti con sè crescenti limitazioni e difficoltà” non ha bisogno di commissioni mediche chiamate a valutare la situazione. Qui, Giorgio Napolitano, ha riconosciuto in maniera autonoma e consapevole che le sue condizioni anagrafiche non gli consentono di proseguire gli impegni. Per questo la vicenda delle prossime dimissioni somiglia molto di più a quella dello stesso Francesco Cossiga che, vent’anni prima di salire al Quirinale, si preoccupava di rafforzare le garanzie del fine mandato anticipato. Il “picconatore” lasciò il Colle il 28 aprile del ‘92, dopo le elezioni che segnarono il tracollo del pentapartito. Mancavano poche settimane alla conclusione del settennato, ma le sue non furono certo le dimissioni “tecniche” che, nel 1999, Oscar Luigi Scalfaro rassegnerà per “favorire il giuramento e l’insediamento del suo successore” (Carlo Azeglio Ciampi, ndr). Protocollo prevede che le dimissioni trovino una “forma pubblica”: una lettera vergata dal Presidente dimissionario, diffusa poi dagli uffici del Quirinale alla presidenza del Senato (in qualità di supplente) e alla presidenza della Camera, che dovrà occuparsi di convocare entro quindici giorni il gran Collegio degli elettori (i membri del Parlamento riuniti in seduta comune con l’aggiunta di tre delegati per Regione, esclusa la Valle d’Aosta che ha diritto solo a uno). Si tratta di un “atto recettizio”: le dimissioni presentate non possono essere respinte. Sarà poi facoltà del Presidente decidere se limitarsi ad annunciare il ritiro o se presentare atti a corredo: un messaggio alle Camere, per esempio, oppure alla Nazione. I più credono che Napolitano abbia già ampiamente spiegato nel messaggio di fine anno le ragioni che lo spingono a lasciare, considerata anche l’eccezionale situazione di un Presidente al suo secondo mandato. Cossiga, all’epoca, chiese di poter allegare un messaggio di saluto al Parlamento. Chiudeva così. “Viva la Repubblica! Iddio protegga l’Italia! ”.

il Fatto 3.1.15
Il senatore Pd Miguel Gotor
“Per il Colle sì a Prodi, no agli interessi della P3”
di Luca De Carolis


Serve un presidente con esperienza politica, economica e istituzionale, riconosciuto a livello internazionale: non un esponente della società civile ‘presunto casto’. E Romano Prodi è fra quelli che hanno questi requisiti”. Il senatore del Pd Miguel Gotor, bersaniano, traccia il profilo per il Colle. E a Debora Serracchiani che parla di un nome da condividere anzitutto con Berlusconi, risponde: “Si può pure iniziare da Berlusconi, ma non si deve finire con Verdini. Gli interessi della Repubblica non possono coincidere con quelli della P3”.
Su La Stampa di ieri, lei invitava Renzi ad accettare “la sfida dell'autonomia, del doppio motore governo-presidenza della Repubblica”. Cioè a non eleggere un mero notaio.
Mi permetto di consigliare una figura autonoma e autorevole, perché queste virtù hanno sempre fatto bene al sistema. Non esistono super-presidenti: i padri costituenti hanno previsto poteri a fisarmonica per il capo dello Stato, che si espandono o si restringono a seconda dei contesti.
Ovvero il presidente della Repubblica può supplire alla politica in crisi?
Sì, la flessibilità è sempre un aspetto positivo.
Ma Renzi avrà la voglia di puntare su un nome forte?
Spero di sì, è nelle condizioni di farlo. E il coraggio finora non gli è mancato.
Lei vedrebbe bene Romano Prodi.
Parto dai requisiti, non dai nomi. La stella polare deve essere l’interesse nazionale e repubblicano. Vista la situazione attuale, c’è bisogno di un presidente con esperienza politica, cultura economica, una solida rete di relazioni internazionali, ed esperienza istituzionale perché le riforme devono continuare con una determinazione pari all’attenzione dovuta agli equilibri tra i poteri.
E Prodi...
Risponde a questi parametri, senza dubbio.
Lei vede meno favorevolmente nomi non politici.
I tre criteri che ho citato mi sembrano preminenti rispetto alla nomina di un tecnico o di un esponente della società civile “presunto casto” in quanto tale. E non mi farei neppure condizionare da una questione di genere.
Alcuni forzisti hanno fatto trapelare un’apertura verso l’ex premier.
È solo un gioco da retroscenisti. Se risponde a determinati criteri, va bene qualsiasi nome. Certo, il presidente della Repubblica non può essere un distillato del patto del Nazareno: deve essere qualcosa di più alto e di meno ambiguo. Bisogna dialogare con tutte le opposizioni, compresi i Cinque Stelle.
Secondo il vicesegretario del Pd Debora Serracchiani, bisognerà condividere il nome “a partire da Berlusconi”.
Si può iniziare da Berlusconi ma non si deve finire con Verdini. Non vorrei che gli interessi della Repubblica finissero per coincidere con quelli della P3, lungo una dorsale appenninica e una serie di casse di risparmio che dalla Lunigiana portano, ancora una volta nella storia d’Italia, sino ad Arezzo. Il Paese ha già dato.
La Serracchiani l’ha detto perché i voti di Berlusconi sono sempre indispensabili?
Non lo so. Io ricordo che il governo Letta è stato defenestrato quando ha conquistato l’autonomia dal capo di Forza Italia, votando la sua decadenza e dividendo la destra. Mentre il primo atto da segretario del Pd di Renzi è stato l'incontro con Berlusconi al Nazareno, con cui lo ha riportato al centro della scena politica.
C’è il rischio che i 101 franchi tiratori che affossarono Prodi saltino alla gola di Renzi?
Credo di no, la situazione politica è differente. Tra l’altro, alcuni di loro ora sarebbero costretti ad auto-strozzarsi... Rammento, però, che prima dei 101 ci furono i franchi tiratori contro Marini. Quella fu una stagione di tradimenti, in cui il Pd dette pessima prova di sé. D’altronde c’era anche un nodo strutturale: il presidente Napolitano non poteva sciogliere le Camere. E quel limite oggettivo scaricò sul Parlamento tutte le tensioni.

Corriere 3.1.14
Le tattiche dei due leader che non possono evitare l’intesa
Tra Renzi e Berlusconi uno scambio sull’Italicum in vista del Colle
di Francesco Verderami


Tra Renzi e Berlusconi l’accordo è di fare l’accordo, e sul Quirinale per ora può bastare. Non c’è quindi bisogno di vedersi subito, tantomeno prima che Napolitano abbia formalizzato le dimissioni: è questione di galateo istituzionale ma anche di opportunità politica. Il patto del Nazareno regge e lo si vedrà fra una settimana, quando l’Italicum farà da stress test alla corsa per il Colle.
Il vero appuntamento tra il premier e il Cavaliere è fissato l’otto gennaio al «check point Charlie» del Senato sulla legge elettorale: l’accordo prevede che il leader del Pd ottenga l’approvazione della riforma prima del voto sul presidente della Repubblica, e che in cambio al capo di Forza Italia vengano garantite la norma sui capilista bloccati (con cui impedirebbe un’opa ostile nel suo partito) e la clausola di salvaguardia sull’entrata in vigore dell’Italicum (con cui si allungherebbe formalmente la legislatura almeno per altri due anni).
Qualsiasi modifica metterebbe a rischio il patto, ed è evidente che quanti si oppongono all’intesa di sistema tra Renzi e Berlusconi useranno Palazzo Madama come luogo per tendere l’agguato, consapevoli che gli effetti si ripercuoterebbero sulla partita per il Colle. Fino ad allora le sorti dei quirinabili saranno appese alle manovre dei leader di partito e dei loro avversari interni. Perché questo è il punto: lo stesso Parlamento che due anni fa bruciò ogni intesa prima di affidarsi ancora a Napolitano, oggi si ripresenta all’appuntamento maggiormente frammentato. E dunque, chi più riuscirà a tenere uniti i propri gruppi avrà la golden share all’atto decisivo.
È questa al momento la priorità del premier e del Cavaliere, sebbene i due già studino la tattica dell’altro. Berlusconi, per esempio, è convinto che «bisognerà lasciar fare Renzi», che «il nome vero uscirà all’ultimo momento». È un’opzione, che però si porta appresso dei rischi. Tuttavia le prime schermaglie consentono al presidente del Consiglio di capire su chi verrà posto il veto. Dicendo che non accetterà di votare «un candidato con la tessera del Pd», il Cavaliere sembra volersi realmente muovere d’intesa con i centristi.
«Dobbiamo fare asse insieme», ha spiegato l’altra sera l’ex premier a un dirigente di Ncd, ripetendo ciò che aveva detto alcune settimane fa ad Alfano. Sarebbe un’operazione «di blocco preventivo» rispetto ai quirinabili di stretto giro renziano, a quei ministri cioè che il leader democratico fa mostra di voler proporre: da Delrio alla Pinotti. Al tempo stesso sembrerebbe un segnale di apertura verso chi — come Veltroni e Mattarella — non è (più) dirigente del partito.
Ma siccome nessuno conosce meglio Berlusconi degli stessi berlusconiani (per quanto ex), sono pochi a volersi già ora esporre. Anzi, ieri il coordinatore di Ncd Quagliariello ha lanciato un messaggio pubblico double face: ha parlato a nuora Renzi, «sul Colle niente giochi», perché ascoltasse suocera Berlusconi. È stato un modo per accreditare le voci da tempo circolanti su un possibile accordo tra il Cavaliere e Prodi grazie agli uffici di Putin: l’intesa garantirebbe quella «pacificazione» a cui i dirigenti di Forza Italia mirano e che cela la richiesta della «riabilitazione» politica del loro leader.
Dal Pd sono arrivate autorevoli rassicurazioni, «non ci facciamo scegliere il presidente della Repubblica dal Cremlino», che sanno tanto di allergia verso il fondatore dell’Ulivo. Peraltro lo stesso capo di Forza Italia aveva pubblicamente smentito, dopo aver spiegato a un vecchio amico come Cicchitto che «a Prodi non ci penso proprio, figurarsi». Semmai, nei colloqui di queste ore, Berlusconi ribadisce in privato ciò che si era lasciato «sfuggire» in pubblico: «Io continuo a stare su Amato e aspetto che sia Renzi a propormi il suo nome». E se Renzi quel nome non lo proponesse, e se fosse anche questa una manovra diversiva? Ma soprattutto, chi avrà davvero la forza di opporre un veto al premier tra l’alleato di governo Alfano, che siede al suo fianco in Consiglio dei ministri, e l’alleato di opposizione Berlusconi, che ambisce ad essere kingmaker nella corsa per il Colle?
Di certo c’è che il premier intende chiudere un’era. Dagli albori della Seconda Repubblica, infatti, gli inquilini del Quirinale hanno giocato un ruolo diretto nelle vicende politiche: Scalfaro arrivò a porre il veto sulla squadra dei sottosegretari del governo Amato; Napolitano spaziò dalla lettera all’allora presidente della commissione Affari costituzionali del Senato Vizzini, su alcuni emendamenti del lodo Alfano, fino alla telefonata con cui invitò Cuperlo ad accettare l’incarico di presidente del Pd. Che Renzi voglia cambiar verso è indubbio. Ma deve tenere in considerazione lo scrutinio segreto.
L’idea di tener coperto fino all’ultimo il nome del suo quirinabile può risultare pericolosa: tutti lo attendono al varco della quinta «chiama», quella decisiva. Se si andasse troppo oltre, il voto sulla presidenza della Repubblica si trasformerebbe in una lotteria, e quanti oggi si tirano ufficialmente fuori dalla corsa per il Colle potrebbero rientrarci sulle macerie del disegno renziano. Siccome il leader del Pd lo sa, allora può darsi che anche la sua tattica dilatoria sia solo tattica.

Repubblica 3.1.15
Il premier chiude il forno grillino: accordi tra i Dem e con Forza Italia
di Goffredo De Marchis


ROMA Inutile girarci intorno: per la partita del Quirinale il dialogo con Beppe Grillo non c’è. Può essere usato come arma di convinzione nei confronti di Forza Italia. Serve forse per rispettare il galateo istituzionale che impone di guardare a tutto il Parlamento quando si decide una figura di garanzia come il presidente della Repubblica. «Ma la verità è che i veri e unici due forni con cui costruire una platea di voti utili per il capo dello Stato sono Berlusconi e la minoranza del Pd», spiegano a Palazzo Chigi.
Con questi due soggetti il premier deve preparare il terreno che conduca verso una soluzione senza intoppi e senza traumi, nel ricordo del tremendo caos del 2013. Peraltro, è il ragionamento di Renzi, il Movimento 5 Stelle ha avuto la chance di entrare nel gioco del Colle. «Bastava fare un’apertura a Prodi qualche giorno fa», ricorda il premier ai suoi collaboratori. Avrebbe messo in grossa difficoltà l’architrave del patto del Nazareno e aperto un dibattito dentro il Partito democratico che poteva andare molto oltre Pippo Civati e i suoi parlamentari. Non è andata così. Grillo ha detto no al Professore, sprecando l’occasione, se non altro, di seminare il panico.
Le sponde su cui l’ex sindaco di Firenze può fare affidamento restano Forza Italia e gli oppositori del Pd. Trovare un punto di equilibrio con loro è la strada obbligata per arrivare al traguardo già alla quarta votazione con il quorum della maggioranza assoluta, se non prima. A Palazzo Chigi hanno visto il catacombale messaggio di Capodanno di Grillo e hanno capito definitivamente che non ci sono margini. Le date sono scolpite nell’agenda di gennaio del premier. Il 14 Giorgio Napolitano firmerà le dimissioni. Due settimane dopo, il 29, un giovedì, cominceranno le votazione in seduta comune per la successione a Napolitano. È il calendario che in via riservata il capo dello Stato ha comunicato al governo e ai capigruppo dei partiti. Nelle in- tenzioni di Renzi, almeno pubblicamente, il grande ballo per il nuovo presidente parte il 25 o il 26 gennaio quando verrà convocata l’assemblea dei grandi elettori democratici per trovare un identikit condiviso, ovvero il nome o la rosa dei nomi firmata Pd. Prima vengono gli impegni internazionali del premier che sarà il 20 e il 21 a Davos e il 22-23 a Firenze per un decisivo bilaterale con Angela Merkel. Prima, soprattutto, vanno approvate le riforme: la legge elettorale al Senato e la legge costituzionale alla Camera. «La richiesta di Brunetta è campata per aria e irricevibile », dice Renzi ai suo interlocutori. Ovvero non è possibile un rinvio del “pacchetto” a un momento successivo alla partita del Colle. I tempi infatti sono già decisi, sono contingentati e i due provvedimenti verranno votati in tempo per il 29. Che poi le trattative sull’Italicum e sull’abolizione di Palazzo Madama possano intrecciarsi alle ricognizioni sulla presidenza della Repubblica è un altro discorso.
Ma Renzi è convinto di poter usare questa sovrapposizione a suo favore. A partire dalla clausola sull’entrata in vigore della legge elettorale a fine 2016. Non sorprende che il premier voglia che sia discussa alla fine del percorso. È il modo per garantire pochi scossoni con gli emendamenti e per fare un “regalo” finale ai parlamentari che non vogliono lasciare il seggio in anticipo sulla fine della legislatura. Per fare un esempio: la clausola è vitale per la battaglia che Raffaele Fitto sta facendo dentro Forza Italia. E potrebbe convincerlo a non fare scherzi quando si voterà il capo dello Stato.
Renzi non è rimasto spiazzato dalle dichiarazioni di Mario Draghi. Il governatore della Bce serve all’Italia più a Francoforte che al Quirinale perché il muro dell’austerità alzato dai Paesi del Nord Europa, Germania in testa, è sempre altissimo e il governo italiano ha bisogno di alleati di peso nelle istituzioni continentali. Il premier continua a non escludere un tecnico tra i candidabili ma il ricorso a Draghi avrebbe anche il sapore di una sconfitta della capacità di mediazione renziane. Sarebbe una carta da ultima spiaggia e lì Renzi non vuole davvero arrivare. Qualche segnale del clima che si respira nel Pd il premier se lo aspetta mercoledì quando con lui saranno riuniti i gruppi di Camera e Senato per fare il punto sulle riforme. Sarà l’occasione per annusare l’aria che tira, verificare se la calma piatta di questi giorni annuncia una tempesta per fine mese, protetta dal voto segreto. Palazzo Chigi ha abbandonato da tempo l’idea di un ”presidente del governo”, vale a dire di un capo dello Stato che segue la linea dell’esecutivo e basta. «Non conviene né a Berlusconi né alla minoranza dem», osserva un deputato non renziano. E quindi rovina la teoria dei due forni utili a eleggere l’inquilino del Colle evitando patatrac. I bersaniani chiedono un nome autorevole, autonomo e politico. Si sente, nei loro ragionamenti, un po’ di rimpianto per la decisione che portò Laura Boldrini e Piero Grasso ai vertici delle Camere. «Mosse che rispondevano alle inquietudini dell’opinione pubblica, dimostrata dal risultato grillino, ma stavolta dobbiamo evitare reazioni impulsive». Un candidato che venga dal mondo degli ex Ds sarebbe ancora più gradito. In questo caso, la scelta si riduce a tre nomi: Walter Veltroni, Piero Fassino e Pier Luigi Bersani. Nello schema, agli occhi del premier- segretario, i primi due sarebbero in netto vantaggio sul terzo. Lo hanno sostenuto alle primarie mentre l’ex leader è ancora oggi il principale punto di riferimento dell’area critica. E sullo sfondo resta la candidatura di Piercarlo Padoan, tecnico però legato al mondo della sinistra. Con uno sponsor pesante quale è Napolitano, che ne esalta le qualità anche in privato.

Repubblica 3.1.15
Dai 101 di Prodi a Fanfani la cavalleria dei franchi tiratori incubo dei candidati al Colle
Nessuno li nomina, ma tutti li temono
Chi non obbedisce alle indicazioni dei partiti spesso disarciona chi tenta la salita al Quirinale. E poi scompare senza lasciare traccia
Einaudi fu favorito nel ’48 proprio dai peones insofferenti
di Sebastiano Messina


NESSUNO li nomina, qualcuno li aspetta, tutti li temono. I franchi tiratori sono la cavalleria invisibile che disarciona con un solo colpo chi osa avventurarsi nella salita del Quirinale senza essersi assicurato la fedeltà delle truppe. E mentre il quasi-presidente, colpito e affondato, riflette sul destino cinico e baro, loro scompaiono senza lasciare traccia.
Chi erano, per esempio, e che volti avevano, quei 101 cecchini che due anni fa, la sera di venerdì 19 aprile, impedirono a Romano Prodi di diventare capo dello Stato? E come si chiamavano, da chi erano comandati, quei 224 franchi tiratori che il giorno prima avevano sbarrato a Franco Marini la strada che porta al Quirinale? I sospetti abbondano, le certezze mancano. Sul campo resta solo qualche indizio, del tutto inutile per evitare un’altra imboscata al giro successivo. Ecco perché oggi, quando manca meno di un mese alla prima votazione del Grandi Elettori, le grandi manovre puntano innanzitutto a evitare questa trappola.
Il ricordo di quell’aprile di due anni fa brucia ancora, soprattutto nella memoria dei suoi protagonisti. E magari Pierluigi Bersani si starà ancora rimproverando di aver sottovalutato l’ammutinamento del Capranica. E’ la sera del 17 aprile, quando una tumultuosa assemblea dei parlamentari del centrosinistra accoglie le sue parole («Quella di Marini è la candidatura più in grado di realizzare le maggiori convergenze...») con una valanga di dissensi. «Non voterò mai per uno di quelli che hanno affossato l’Ulivo» annuncia la prodiana Sandra Zampa. «E’ un nome che divide» avverte Matteo Orfini a nome dei «giovani turchi», mentre Vendola e i suoi abbandonano polemicamente la sala e arriva l’eco della stroncatura appena pronunciata da Matteo Renzi davanti alle telecamere di Daria Bignardi: «Votare Marini significa fare un dispetto al Paese».
Forse, la vigilia del 18 aprile una data che alla sinistra non ha mai portato bene - se Bersani riflettesse bene sul risultato della votazione segreta (solo 222 sì su 496) il segretario del Pd potrebbe ancora evitare il massacro del giorno dopo. Ma il segretario del Pd decide di andare avanti, contando sui voti di Berlusconi: è un disastro, persino la sua portavoce Alessandra Moretti (appena eletta deputata) gli volta le spalle. E Marini, che sulla carta può contare su oltre 700 preferenze, si ferma a quota 521, uscendo di scena per la più massiccia emorragia di voti nella storia delle elezioni presidenziali. «Qualcuno ha preparato tutto...» commenta sconsolato in Transatlantico il suo fedelissimo, Beppe Fioroni.
Romano Prodi, al quale il giorno dopo tocca la stessa beffarda sorte, racconterà poi di aver previsto tutto. Lui, dal Mali, ha cercato di mettere le mani avanti. Aveva chiesto che i Grandi Elettori votassero a scrutinio segreto, come si faceva nella Dc, ma la sua richiesta è stata aggirata con un’ovazione che deve suonare come una designazione plebiscitaria. Il professore, comunque, ha accettato. Poi arriva quella telefonata. «Mi chiama D’Alema e mi dice: va benissimo il tuo nome, tuttavia decisioni così importanti dovrebbero essere prese coinvolgendo i massimi dirigenti. Allora ho capito tutto. Ho chiamato mia moglie e le ho detto: Flavia, vai pure alla tua riunione perché presidente non divento di sicuro...». Quando si aprono le urne, ai voti del centrosinistra mancano 101 schede. Il professore si arrende ma è furibondo. E chiede, in democristianese, le dimissioni di Bersani: «Chi mi ha portato a questa decisione ora deve farsi carico delle sue responsabilità». Le ottiene, ma per lui la partita è finita.
Prodi, almeno, conosceva il rischio al quale andava incontro. Carlo Sforza, invece, proprio non se l’aspettava. La Repubblica è appena nata e a lui, l’ex mi- nistro degli Esteri repubblicano che ha firmato il trattato di pace con gli Alleati, De Gasperi ha promesso il Quirinale. Sulla carta avrebbe i numeri per mantenere la promessa. Ma alla sinistra dc — Fanfani, Dossetti e La Pira — quel laico mangiapreti con la fama di dongiovanni proprio non va giù, e la mattina del 10 maggio 1948 dalle urne escono solo 353 voti con il nome di Sforza, 98 in meno di quelli che serviranno dal quarto scrutinio.
De Gasperi insiste, ma guadagna solo 9 voti, così manda il sottosegretario Andreotti, il segretario del partito Piccioni e il capogruppo Cingolani a spiegare a Sforza che la battaglia finisce lì. «Come non detto, senza rancore » dice lo sconfitto con un sorriso tirato, ma Andreotti fa in tempo a scorgere sulla sua scrivania il discorso che Sforza aveva già scritto per il giuramento: «Onorevoli colleghi, desidero innanzitutto ringraziarvi...».
La volta successiva, fiutata l’aria, lo stesso Andreotti cerca di mettere le mani avanti e prova a convincere Cesare Merzagora che non gli basterà l’appoggio del segretario Fanfani. Merzagora però ignora l’avvertimento. Ed entra nella trappola invisibile dei franchi tiratori. Se ne accorge solo alle 12,30 del 28 aprile 1955, quando scopre che mancano all’appello 160 voti dei parlamentari della Dc, proprio quelli che avrebbero dovuto sostenerlo per primi. Sfidando gli ordini della segreteria, i ribelli democristiani si sono accordati con l’opposizione. In favore di Giovanni Gronchi, che viene eletto alla quarta votazione con 658 voti: Merzagora si era fermato a 245. «Mi sono fatto giocare come un bambino a moscacieca » commenterà lo sconfitto.
Ma chi sono i franchi tiratori? Dissidenti in libera uscita? Peones insofferenti verso le gerarchie di partito? Non sempre. Anzi, spesso sono stati proprio i leader a manovrarli come uno squadrone di cavalleria su un campo di battaglia. Fanfani, Dossetti, La Pira, Andreotti, Donat Cattin, Piccoli, De Mita, Forlani: non c’è un solo capocorrente democristiano che prima o dopo non abbia organizzato, sollecitato o addirittura ordinato un’incursione dei franchi tiratori.
Persino Aldo Moro, quando nel 1964 decide di fermare la candidatura di Giovanni Leone, ricorre a quest’arma inconfessabile. Convoca nel suo ufficio Carlo Donat-Cattin, leader di Forze Nuove, e gli dice chiaro e tondo: «Leone non deve passare». Sono d’accordo, risponde l’altro, ma come facciamo? «Per quanto mi riguarda io faccio il presidente del Consiglio. Quanto a voi, esistono dei mezzi tecnici». Mentre scendono le scale di Palazzo Chigi, i colonnelli di Donat-Cattin gli domandano, perplessi: «Di quali mezzi tecnici parlava?». «I mezzi tecnici — risponde lui — sono solo tre: il pugnale, il veleno e i franchi tiratori».
Leone resisterà per 15 scrutini, ma alla fine dovrà ritirarsi. «Per me — racconterà poi — quelle votazioni furono un vero e proprio supplizio cinese. Era come se un burattinaio invisibile organizzasse la ballata delle schede bianche per disorientare il Parlamento».
L’uomo che più di ogni altro è finito nel mirino dei cecchini è Amintore Fanfani, che per tre volte ha cominciato la corsa e per tre volte s’è dovuto ritirare. Lui che aveva organizzato i franchi tiratori contro Sforza e contro Leone, entra nella trappola la mattina del 9 dicembre 1971. Il fatto di aver disarmato i suoi cecchini contro Segni gli lascia sperare di poter contare sull’appoggio compatto dei dorotei, quando scende in pista per la successione a Saragat. Ma si sbaglia. Gli mancano 36 voti al primo scrutinio e altri 16 al secondo, sufficienti per fargli capire quello che un impertinente grande elettore scrive sulla scheda imbucata nell’urna (annullata subito dal presidente della Camera Pertini ma letta lo stesso da Fanfani, che gli sta accanto come presidente del Senato): «Nano maledetto/ non sarai mai eletto».
Si possono neutralizzare, i franchi tiratori? I democristiani ci hanno provato spesso. L’ultima volta nel 1992, per difendere la candidatura di Arnaldo Forlani. La mattina del 16 maggio 1992 ognuno dei parlamentari dc sospettati di cecchinaggio riceve precise istruzioni, perché il suo voto sia riconoscibile. Vengono utilizzate le infinite combinazioni ottenibili scrivendo con penna blu, verde, nera o rossa tutte le formule ammesse, ovvero «Arnaldo Forlani», «Forlani», «on. Arnaldo Forlani», «on. Forlani », «Forlani Arnaldo», «Forlani on. Arnaldo», «on. Forlani Arnaldo » e «Arnaldo on. Forlani». Ma non basta. Al candidato mancheranno 39 voti, e anche lui dovrà arrendersi ai franchi tiratori.
L’unico che sia riuscito indenne dalla trappola dei cecchini è Antonio Segni, uno dei rari candidati che ce l’hanno fatta — come è successo anche a Giorgio Napolitano — con i soli voti della maggioranza di governo. Si comincia il 2 maggio 1962, e si capisce subito che la strada sarà in salita: servono 428 voti, Segni ne ottiene solo 333. I franchi tiratori votano per Gronchi e per Piccioni. Per aiutare il candidato sardo, entra allora in azione quella che viene battezzata “la Brigata Sassari” (Piccoli, Sarti e Cossiga), che s’inventa un metodo per neutralizzare i cecchini: chiedere ai parlamentari di mostrare la scheda, con il nome già scritto, prima di imbucarla nell’urna. Però, dal momento che le schede vengono consegnate all’ingresso dell’aula, basta uscire e rientrare per averne un’altra scheda. Così i più furbi mostrano la prima scheda con il nome di Segni e poi imbucano l’altra che tenevano in tasca. Per impedirglielo, qualcuno ha l’idea di distribuire schede con il nome di Segni già scritto, ma quando un segretario d’aula consegna una di queste schede “pre-votate” al senatore Antonio Azara, l’opposizione se ne accorge e scoppia un tumulto. Che non basterà a impedire, la sera del 6 maggio, la vittoria della «Brigata Sassari». E’ la prima volta che i franchi tiratori escono sconfitti. Anche l’ultima, fino a oggi.

il Fatto 3.1.15
Filippo Bonaccorsi il privatizzatore
L’ax assessore di Renzi sbarca al ministero: gestirà un miliardo
di Davide Vecchi


“Con i sindacati? Ho già parlato abbastanza”. Filippo Bonaccorsi è un precursore del renzismo. Tanto da anticiparne anche frasi, modi e atteggiamenti. Insieme dai tempi della Provincia di Firenze, dove Bonaccorsi era dirigente del settore trasporti, in seguito chiamato da Matteo Renzi in Comune prima a guidare la controllata Ataf e poi come assessore. Ora sono di nuovo insieme al governo: l'amico premier lo ha chiamato a Roma affidandogli la cabina di regia del ministero dell’Università e Ricerca (Miur) per ristrutturare 21230 scuole italiane e un pacchetto di un miliardo di euro da gestire. Bonaccorsi è un uomo d'azione e non si trovava più a suo agio a Palazzo Vecchio con il ritmo soporifero del sindaco ereditiere Dario Nardella.
FRATELLO della deputata renziana e componente del consiglio di vigilanza Rai Lorenza Bonaccorsi, il 46enne Filippo è un avvocato un po' ragioniere e un po' sceriffo a cui piace lo scontro frontale. Nel 2011, quando l'oggi premier era ancora un sindaco rottamatore e anticasta, Bonaccorsi mostrava i denti ai confederali riuscendo a privatizzare l'Ataf, l'azienda del trasporto pubblico fiorentino. Il 16 luglio 2011, dopo l'ennesimo sciopero con picchetti e proteste varie davanti Palazzo Vecchio, Bonaccorsi invece di prendersela con i sindacati querelò due dipendenti dell'Ataf chiedendo a ciascuno 80 mila euro per aver denigrato pubblicamente l'azienda. I due erano delegati della Cisl. “Un atteggiamento intimidatorio”, gridò il sindacato. Lui fece spallucce e rilanciò annunciando oltre 570 esuberi e rinunciando a partecipare alla gara per il trasporto regionale aprendo quindi un altro fronte di scontro con i lavoratori. “Bonaccorsi è un irresponsabile”, immediata reagì la Cgil. “La sua è una posizione inaccettabile che porterebbe alla chiusura dell'azienda e alla conseguente perdita di posti di lavoro”. Non sapevano che la direzione era verso la privatizzazione dell'azienda, poi di fatto realizzata. Ovviamente sfidando i sindacati. “In 9 mesi ho fatto 15 incontri con i sindacati, sinceramente è sufficiente, chi aveva qualcosa da dire l'ha detta, loro hanno scelto di protestare e continuare con gli scioperi, e questa è la conclusione finale”, disse nel dicembre 2011 anticipando, di fatto, dichiarazioni e atteggiamenti che Renzi farà propri nel 2014 per imporre il Jobs act.
Come l'amico Matteo anche Filippo tende a comunicare il dato positivo omettendo spesso quello negativo. Quando nel 2010 presentò il bilancio dell'Ataf disse che erano aumentati “del 90,3% i ricavi da multe”, ma l'esercizio aveva chiuso con una perdita di 3,3 milioni di euro. “Abbiamo fatto il giro di boa, traghettando l'azienda fuori dalle secche in sei mesi di gestione” disse. “Continuiamo a lavorare sodo sulla strada intrapresa per consegnare ai fiorentini un'azienda moderna, efficiente e sostenibile”.
FINO al 2012 Bonaccorsi è stato presidente di Ataf per poi diventarne consigliere delegato e direttore generale fino al 12 luglio 2013 quando si dimise perché chiamato da Renzi a Palazzo Vecchio a fare il pluri-assessore: infrastrutture e grandi opere, manutenzioni e decoro, trasporto pubblico locale. Peccato che non avrebbe potuto ricoprire quell'incarico: il governo Monti, infatti, con il decreto legislativo 39 del 2013 in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi, vietava di assumere ruoli di governo a chi aveva ricoperto incarichi in una partecipata nello stesso Comune. Una legge introdotta per rafforzare le norme anticorruzione, mica per gestire la divisione delle poltrone. Due consiglieri di opposizione, Tommaso Grassi e Ornella De Zordo, tentarono di far rispettare la legge e bloccare la nomina per illegittimità presentando una denuncia alle autorità ma, come con i sindacati, i due amici, Filippo e Matteo, fecero spallucce. Come fanno ora rispondendo a quanti fanno notare lo sbarco a Roma dell'ennesimo fedelissimo fiorentino a cui, fra l'altro, è stato affidato un ruolo cruciale per il Paese: l'edilizia scolastica. Visti i precedenti di Bonaccorsi, male che va le scuole saranno privatizzate.

il Fatto 3.1.15
Così il governo cancella i reati per l’evasione e la frode fiscale
Il sottosegretario: “Norma scritta male, sana anche le furbizie più gravi”
di Carlo Di Foggia


La guerra intestina al Tesoro ha partorito un pasticcio che aiuta grandi evasori fiscali. “Sì, per com'è scritta quella norma ha un impatto pesante, salva tutti i reati e non va bene”, spiega il sottosegretario all'Economia Enrico Zanetti (Sc). La conferma arriva dopo che il Fatto ha raccontato l'incredibile genesi di una norma contenuta nel decreto attuativo della delega fiscale approvato lo scorso 24 dicembre dal governo, e ora al vaglio delle Commissioni Parlamentari. Un testo già contestato da molti per le soglie di punibilità triplicate – che di fatto cancellano il penale tributario – ma che all'ultimo giro di boa, a Palazzo Chigi, si è anche arricchito di un articolo che il Mef aveva scartato: una “soglia parametrata” al reddito sotto la quale chi evade le tasse non rischia più il carcere, e che – stando al testo – premia anche chi froda il Fisco. L'articolo 19-bis, infatti, stabilisce chiaramente che non si viene più puniti se Iva o imposte sui redditi evase “non sono superiori al 3% rispettivamente dell’imposta sul valore aggiunto o dell’imponibile dichiarato”. In pratica non c’è nessun limite, ma solo una proporzione, sotto la quale il reato penale scompare.
UNA COMBINAZIONE che secondo l'ex ministro delle Finanze, Vincenzo Visco è “un enorme regalo ai grandi evasori”: più è alto il reddito più si può evadere, pagando solo le multe. Non solo. Senza la supervisione della Commissione tecnica del Tesoro incaricata di stilare il testo, la modifica infilata all'ultimo si è trasformata in una sanatoria per tutti i reati. “Partiamo da una premessa – spiega al Fatto Zanetti – personalmente non condivido la definizione di Visco: la soglia del 3% evita di penalizzare tutti allo stesso modo, e cancella solo il penale. Quello che non è ammissibile, però, è che il testo parli genericamente di tutte le fattispecie di reato: cioè sana sia l'evasione che la frode fiscale, che è una cosa gravissima. Così sono preoccupato anch'io: auspico che il Parlamento cambi questa misura”. Per dare l'idea, su un utile netto di un miliardo, una grande azienda potrà evadere (o frodare) il fisco fino a 30 milioni, pagando solo una sanzione amministrativa. E la norma avrà effetto anche sui processi in corso per effetto del favor rei, per cui le disposizioni penali favorevoli valgono anche per il passato. Zanetti conferma anche che la modifica non era presente nella bozza uscita dal Tesoro: “È indubbio che il Mef non l'abbia messa: in molti non erano d'accordo. Evidentemente in seno al Consiglio dei ministri si è deciso di modificarla all'ultimo”.
Una modifica che, però, ufficialmente, è orfana. Da Palazzo Chigi preferiscono non commentare, idem dal Tesoro. Chi ha seguito l'iter, però, parla di una guerra interna al ministero. Da un lato gli uomini vicini a Visco e alla neo direttrice dell'Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi – allieva di Visco – dall'altra diversi dirigenti ministeriali, alcuni vicini all'ex ministro Giulio Tremonti, che per oltre dieci anni ha governato gli uffici di via XX Settembre. Lo scontro avrebbe segnato una vittoria a favore dei primi, poi vanificata da un intervento in extremis. Chi l'ha deciso? Fonti di governo puntano il dito sull'entourage del premier. Nessuno dei consiglieri economici portati a Palazzo Chigi da Matteo Renzi (per arginare il Tesoro) però, ha competenze specifiche in materia tributaria. Tutti, peraltro smentiscono un interessamento diretto nella vicenda: alcuni si dicono stupiti, e auspicano una “modifica in Parlamento”. Modifica che però potrà arrivare solo dal governo, visto che le commissioni hanno il potere di esprimere solo un parere non vincolante. Tra i consiglieri economici del premier c'è anche chi ricorda un dettaglio importante: alle riunioni a Palazzo Chigi prima dei Consigli dei ministri partecipano sempre uomini del Tesoro. La modifica è stata inserita nel passaggio al dipartimento affari giuridici, governato da Antonella Manzione, vero braccio destro di Renzi ed ex capo della polizia locale a Firenze quando Renzi era sindaco.
AL DI LÀ della misura contestata, con le nuove norme rischierà il carcere solo chi evade oltre 150 mila euro (ora sono 50 mila) e le fatture false saranno reato solo sopra i mille euro. In pratica, chi fattura un milione di euro, può evadere fino a 30 mila euro – per effetto del 3% – e fino a 150 mila grazie alle altre norme. “Quest'ultima parte è sensata – prosegue Zanetti – introdurre delle soglie evita di ingolfare le Procure (per il Sole 24 Ore salterà un processo su tre, ndr), considerando che spesso il contenzioso nasce da errori di calcolo, e che molti procedimenti vengono vinti dal contribuente”.

Corriere 3.1.14
L’anticorruzione solo a parole
di Giovanni Bianconi


Se nell’ultimo «messaggio augurale» agli italiani Giorgio Napolitano ha voluto annoverare tra «le più gravi patologie» del Paese «una corruzione capace di insinuarsi in ogni piega della realtà sociale e istituzio nale», è per indicare un cammino da compiere. Una strada che sarebbe finalmente ora di imboccare, a più di vent’anni dalle inchieste di Mani pulite sull’onda delle quali nacque la cosiddetta Seconda Repubblica. Che gran parte del percorso sia ancora da compiere non è certo un buon bilancio, ma questo non può diventare l’alibi per non guardare avanti e procedere con quel che c’è da fare.
Negli stessi giorni in cui gli inquirenti romani citati dal presidente della Repubblica (che ancora ieri ha invocato un «deciso sforzo nella lotta alla criminalità nelle sue svariate forme», compresa quella che passa per tangenti e mazzette , nel suo messaggio a papa Francesco) svelavano un malaffare a cui hanno attribuito i connotati del «metodo mafioso», l’associazione Transparency International rendeva noto l’ultimo rapporto sull’indice di percezione della corruzione che vede l’Italia al 69° posto della classifica mondiale, ultimo Paese in Europa insieme a Romania, Grecia e Bulgaria. Un dato poco rassicurante, che si aggiunge all’allarme lanciato dall’Unione Europea nel febbraio scorso, ricordato ieri da Il Sole 24 Ore .
Matteo Renzi ha appena promesso una svolta e annunciato un nuovo disegno di legge per introdurre aggiustamenti che, oltre a soddisfare gli slogan lanciati dal premier, possono contribuire a meglio reprimere il fenomeno e in certa misura — si spera, attraverso qualche forma di deterrenza — a prevenirlo. Ma siamo ai primi passi. E resta l’incognita del dibattito parlamentare, che non si annuncia agevole per una maggioranza di centro-destra-sinistra che in tema di giustizia s’è sempre mostrata tutt’altro che compatta. Tuttavia sarebbe il caso di arrivare a un’approvazione rapida della riforma annunciata, se possibile migliorandola, attraverso l’impegno concreto dei partiti e magari una corsia preferenziale.
I magistrati hanno manifestato le loro perplessità, e suggerito soluzioni alternative o aggiunte per meglio poter svolgere il proprio lavoro di indagine e di giudizio. Archiviarle con l’invito alle toghe di fare meno interviste e più sentenze serve a poco; spesso anche le interviste (soprattutto degli addetti ai lavori) aiutano a comprendere la sostanza dei problemi e affrontarli nel merito, oltre che nei titoli dei giornali.
La proposta di prevedere sconti di pena per i «pentiti» della corruzione, ad esempio, non viene solo da pubblici ministeri e giudici, ma anche da esponenti del Pd (e della stessa corrente di Renzi): spezzare il legame di omertà tra chi indebitamente paga e chi viene indebitamente pagato è un modo per raggiungere più facilmente la prova del patto occulto, e per rendere più conveniente la denuncia. Ed è un appello costantemente ripetuto dal presidente dell’Autorità anticorruzione Raffele Cantone, magistrato della cui nomina il capo del governo fa continuo sfoggio per dimostrare la determinazione dell’esecutivo su questo terreno. Ma allora perché non dare seguito ai suoi consigli?
Il meccanismo «premiale» era contenuto nei disegni di legge entrati al Consiglio dei ministri di metà dicembre, ma poi è scomparso. Evidentemente per contrasti tra i partiti della maggioranza, che sarebbe bene superare durante la discussione per trasformare la proposta in legge. Vedremo se, almeno stavolta, alle parole seguiranno i fatti.
Lo Stato, attraverso il potere giudiziario, ha il compito di scovare e punire la criminalità economica; la società civile dovrebbe trovare lo stimolo e l’energia per considerare la corruzione un disvalore, anziché un’occasione per rimuovere gli ostacoli; alle forze politiche spetta di facilitare questo percorso promuovendo leggi che aiutino a far emergere i traffici illeciti consumati sottotraccia. Sono le tre componenti chiamate in causa da Napolitano, affinché lavorino «insieme, senza eccezione alcuna» per sradicare la malapianta e risalire la china. La speranza è che almeno ci provino seriamente, caricandosi ciascuno delle proprie responsabilità. Altrimenti saremmo di fronte ai soliti richiami caduti nel vuoto e all’ennesima occasione persa.

Corriere 3.1.15
Burocrazia anti-corrotti Un’amara illusione
di Piero Ostellino


Non si può neppure dire che giornali e tg di fine d’anno siano stati renziani, cioè servile propaganda del volontarismo parolaio del premier che continua ad annunciare riforme che non fa. Sono stati mussoliniani, manifestazione dell’irresponsabile ottimismo dell’Italia fascista che sbandierava una forza che non aveva. Questo nostro Paese non cambierà mai, gli vanno bene le cose come stanno: la doppia morale cattolica controriformista e quella comunista togliattiana filosovietica che chiama la tirannide libertà e l’arretratezza economica e sociale progresso.
Questa è l’Italia che si fa coraggio, rifugiandosi nella retorica ogni volta che la machiavelliana «realtà effettuale» smentisce l’ottimismo consolatorio di chi non ha il coraggio di affrontare le molte ferite inferte al processo unitario, liberal-cavouriano, tradito, prima, dal fascismo, poi, dal pressapochismo progressista del secondo Dopoguerra. Ce la raccontiamo e ce la cantiamo, ingannandoci a vicenda; siamo machiavellici non avendo né ben letto né ben capito Machiavelli e restando fermi allo stereotipo del «fine che giustifica i mezzi», frase che Machiavelli non ha mai scritto né pronunciato, ma che serve, di volta in volta, a legittimare le false promesse di chi ci governa.
Il 2015 non si apre con buoni auspici. Paghiamo il prezzo di una scuola e di un sistema informativo che non producono né conoscenza né spirito critico. Il lettore medio di quotidiani protesta se un giornalista critica il potere costituito. Lo scandalo romano ha mostrato che la (presunta) solidarietà della sinistra nei confronti dell’immigrazione era un affare per chi importava manodopera a basso costo per le cooperative: un caso per il quale è stata persino immaginata la presenza della mafia in luogo di ammettere che esso è stato il prodotto dell’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti.
È, allora, inutile e controproducente creare altri marchingegni burocratici per combattere la corruzione dilagante. Sarebbe sufficiente separare i soldi dai partiti. A produrre corruzione è l’eccessiva intermediazione politica. Se, invece di creare legislativamente nuovi carrozzoni burocratici contro la corruzione, destinati probabilmente ad accrescerla, rileggessimo ciò che è stato scritto sul pericolo di affidarsi (solo) alla Ragione; pericoli per altro amaramente sperimentati, nel Novecento (con il fascismo, il nazismo e lo stalinismo)?

il Fatto 3.1.15
Orlando, il ministro che non sa di che parla
di Bruno Tinti


JEAN de la Fontaine racconta che una gazza si adornò con le penne di un pavone; poi andò a mostrarsi agli altri pavoni i quali, subito riconoscendola, la sbeffeggiarono e la spogliarono delle sue piume posticce. Incurante di questa preoccupante allegoria, il 31 dicembre, il ministro della Giustizia Orlando ha pensato bene di mostrarsi al popolo in tutto il suo grave splendore, magnificando l'opera sua e del governo: “La scommessa è stata vinta (...) Rivendico i meriti di questo governo (...) diversi miei predecessori avevano rinviato l'entrata in vigore del processo civile telematico (PCT) (...) io ho preso il toro per le corna e – a giugno (2015) – lo estenderò a tutte le Corti d’appello”. Consecutio tempo-rum un po’ avventurosa: la vittoria c'è già stata (passato prossimo) ; ciò che l’ha resa possibile, l’estensione del PCT alla Corti d’appello, avverrà (futuro) tra 6 mesi. Ricorda tanto Mussolini e la sua immancabile vittoria.
Già, ma cos’è il PCT? Da buon diplomato all’Istituto Nautico, Orlando non lo sa; che è anche giusto: perché dovrebbe? Qualcuno potrebbe pensare che lo deve sapere visto che fa il ministro della Giustizia; e in effetti lui ha provato a ricordare quello che gli hanno (forse troppo frettolosamente) spiegato: si tratta del deposito telematico degli atti. Un avvocato non dovrà più andare in cancelleria per depositare la sua citazione, la invierà via internet; e il giudice non dovrà più far notificare dagli ufficiali giudiziari le sue sentenze, le invierà alle parti via internet. Insomma si risparmiano i tempi delle notifiche e si liberano i (pochi) cancellieri da molte incombenze: così potranno lavorare meglio su tutto quello che resta.
Innovazione fantastica, non c'è dubbio. Partita nel 2009 e progressivamente estesa a tutti i Tribunali ben prima dell’arrivo di Renzi&C. Che dunque non hanno meriti da rivendicare; salvo l'annuncio (tra i tantissimi cui questa gente si dedica dalla conquista del potere) che, a giugno prossimo, ci sarà un'ulteriore estensione alle Corti d’appello. Se avverrà sarà una buona cosa; se, appunto.
Che però Orlando non sapesse ciò di cui parlava lo si capisce dal suo secondo roboante annuncio: “Con il processo civile telematico si conferma anche una riduzione dei tempi delle cause... La media per la definizione dei decreti ingiuntivi è dimezzata rispetto all'anno precedente: Ancona -42%, Catania -51%, Milano -43%, Roma -60%, Torino -19%”. I decreti ingiuntivi non c’entrano niente con quelle che Orlando chiama “le cause”, che sono i procedimenti ordinari: si tratta di decreti che vengono emessi a semplice richiesta della parte, se il giudice ritiene che i documenti prodotti ne provino la fondatezza. Niente udienze, istanze, citazioni, memorie, istruttoria, cioè tutto quello che costituisce un processo: deposito della richiesta e decreto del giudice, tutto per via telematica; certo che il PCT velocizza questo tipo di “cause”.
MA I PROCESSI ordinari sono tutta un'altra cosa: il PCT velocizzerà i depositi e le notifiche, ma il demenziale codice di procedura che prevede un anno per il semplice scambio di memorie tra gli avvocati resta in vigore; e così la necessità di sentire testimoni e disporre perizie, tutta roba che con il PCT non ha nulla a che fare.
Ma, per Orlando tutti i gatti sono bigi; e, come la gazza di La Fontaine, si riveste di penne non sue e va a rivendicare (male, poteva farsi preparare meglio) meriti non suoi. E tuttavia gli va anche bene; perché di pavoni veri che lo spoglino e lo sbeffeggino ormai non ce n’è più.

il Fatto 3.1.15
Romanzo Municipale tra mazzette e potere
L’epidemia collettiva di San Silvestro preceduta dall’avviso di conclusione indagini all’ex comandante Giuliani, a processo con l’accusa di corruzione e falso in atto pubblico
di Rita Di Giovacchino


Assenteisti. È l’ultima accusa che si rovescia sui pizzardoni romani colpiti da un’epidemia collettiva che a Capodanno ha lasciato Roma fuori controllo. L’ultima ma non la più grave, anche se grazie alla diserzione di massa le anomalie della ex Municipale – da qualche anno si chiama Polizia Roma Capitale – hanno finalmente assunto notorietà nazionale, messo in allarme il governo Renzi e risvegliato l’attenzione del sindaco Marino. Per anni, prima che la città scoprisse Massimo Carminati, il vero Re di Roma è stato il comandante Angelo Giuliani, finito agli arresti domiciliari il 26 febbraio scorso per una storia di mazzette camuffate da sponsorizzazioni e un concorso truccato.
Le bustarelle e il processo al fu Re delle palette
A ripercorrere tutte le tappe di questa storia – fatta di minacce ed estorsioni, appalti milionari e licenze d’oro, multe annullate ai cosiddetti vip e falsi permessi per la zona a traffico limitato – anche molti vigili di Roma a buon diritto possono rivendicare un posticino nel “mondo di mezzo”. La storia di Giuliani, accusato di aver svolto un ruolo “apicale” nella corruzione del Corpo, per una strana coincidenza si è conclusa martedì 30 dicembre: nelle stesse ore in cui vigili spedivano al comando centinaia di certificati medici i carabinieri si sono presentati dal suo avvocato, Roberto Afeltra, per notificargli la conclusione delle indagini che lo mandano a processo per corruzione e falso in atto pubblico. La sparizione dei vigili dalle strade non può considerarsi estranea agli episodi che hanno corroso la fiducia dei cittadini nei confronti di chi doveva tutelare i suoi diritti. Al punto da far dire due anni fa al procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo che su Roma incombeva una “cupola mafiosa” formata da uomini in divisa. Dopo le denunce sono scattati gli arresti, alcune inchieste sono concluse, altre stanno esplorando possibili collusioni con ’ndrangheta e camorra che in questi anni hanno allungato le mani su alberghi, bar, ristoranti del centro storico trasformando Roma in capitale del riciclaggio, cosa che non sarebbe stata possibile senza la complicità degli uffici capitolini e di chi invece di eseguire controlli si è fatto corrompere. Il 27 gennaio 2012 Silvio Bernabei, il “bibitaro” di Trastevere, varcò la soglia del comando provinciale dei carabinieri di piazza San Lorenzo in Lucina per denunciare fatti gravissimi come richieste di denaro, ricatti e minacce. Alla denuncia dell’imprenditore del vino era seguita quella di Vincenzo Conticello, ristoratore famoso per aver rifiutato di pagare il “pizzo” a Palermo e che, approdato a Roma per sfuggire a Cosa Nostra, si sentiva caduto dalla padella alla brace.
Quello strano furto al circolo lungotevere Dante
Ma il giorno dopo, incredibilmente, in piazza San Lorenzo in Lucina si era presentato proprio Giuliani per denunciare un furto, avvenuto negli uffici del Circolo di lungotevere Dante, proprio quello che è stato considerato il “feudo” di Giuliani: era scomparsa la documentazione informatica dei bilanci. Furto talmente strano che lo stesso comandante lo addossava a non precisati “servizi segreti” o “corpi di polizia”. È il primo atto di uno scandalo che ha travolto la polizia municipale e che ha portato all’arresto di tre dirigenti della Sea, Società sicurezza e ambiente, specializzata nella rimozione dei detriti dopo gli incidenti stradali, che nel 2010 era riuscita ad aggiudicarsi un appalto da 10 milioni l’anno. In cambio c’era una donazione di 30 mila euro proprio a favore del circolo sportivo, l’unica di cui si è trovata traccia dopo la scomparsa dei cd, ma sufficiente a sostenere l’accusa di corruzione. Dicono a Roma che il pesce puzza dalla testa, perché stupirsi dell’arroganza di chi ha abbandonato le strade se l’ex comandante è stato accusato di aver abusato del suo potere ricorrendo al ricatto e all’intimidazione? Nelle intercettazioni contenute nell’ordinanza sulla Sea emergeva un “patto”, quello rivendicato da Giuliani con Alemanno (“avevo fatto un patto con il sindaco”), oggi indagato nell’ambito di Mafia Capitale, per consentirgli di continuare a gestire il circolo di lungotevere Dante anche dopo le dimissioni, cosa resa possibile dal suo trasferimento alla Scuola allievi ufficiali da cui lo stesso dipendeva. Al telefono Giuliani minacciava: “Il gruppo sportivo non lo dovete toccare... sono pronto alla guerra, lo faccio crepare, al sindaco gli ho detto lasciateme almeno quello... ”. Perché tanta agitazione? Semplice, sostiene l’accusa, le “sponsorizzazioni” passavano di lì.
Quanto al concorso falsato, accusa ancor più grave della corruzione per un pubblico ufficiale, narra di come anche il mestiere di pizzardone a Roma sia trasmesso per dinastia. Giuliani fu nominato presidente della commissione in una riunione mai avvenuta, prima di andarsene doveva onorare i suoi impegni, forse anche con il Comune di Roma vista la lunga lista di amici e parenti. Di che stupirsi se i vigili hanno deciso di restare a casa a stapparsi lo spumante, ora che con il sindaco Marino e le inchieste della Procura guidata da Giuseppe Pignatone un po’ di pulizia è stata fatta? I privilegi sono finiti? I rubinetti sono stati chiusi? C’è chi non si arrende.

Corriere 3.1.14
«La città va ricostruita moralmente Il Pd sbagliava a opporsi a Marino»
Orfini, commissario dei democratici: con la Capitale si salva il Paese
intervista di Alessandro Capponi


di Alessandro Capponi ROMA «Abbiamo di fronte una sfida altissima». Una sfida Capitale, per essere chiari: perché Matteo Orfini — parlamentare, classe ‘74, presidente dell’assemblea nazionale del Pd — è arrivato a Roma dopo l’inchiesta della Procura sulla mafia, ed è diventato «commissario» del partito romano, per volontà di Matteo Renzi, senza sapere ciò che sarebbe accaduto dopo, incluso lo scandalo dei vigili in malattia nella notte del 31 dicembre. «Eh, la vita riserva sempre sorprese», sbuffa.
Orfini, però: dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a papa Francesco, Roma sembra essere diventata esempio negativo da citare nei discorsi.
«Sì, ma nelle parole del presidente Napolitano e in quelle di papa Francesco io leggo uno stimolo, leggo affetto per la città: e abbiamo bisogno delle loro parole perché la situazione, onestamente, è difficilissima. Per noi si tratta di una sfida altissima: fare in modo che Roma, a fine 2015, torni ad essere un esempio e non più un problema».
In un anno? E come?
«Tenendo a mente un concetto: il Paese non riuscirà a uscire dalla crisi se non si salva Roma, e viceversa. Bisogna agire tutti assieme. Il governo nazionale e quello della Capitale, il presidente Nicola Zingaretti, i cittadini, la classe dirigente, la politica».
Auguri, sarà un 2015 impegnativo: anche perché il 2014 si è chiuso con la defezione di quasi mille vigili urbani...
«Quanto accaduto la notte del 31 dicembre, sinceramente, ha dell’incredibile. È, da parte loro, un segno di incredibile inconsapevolezza: l’idea che si possa fare uno sciopero selvaggio contro una misura sacrosanta, quella voluta da Raffaele Cantone che impone la rotazione nelle varie zone della città, una misura a garanzia dei cittadini e dei lavoratori onesti perché limita il rischio della corruzione, ecco, l’idea che i vigili protestino solo perché devono fare qualche chilometro in più per andare a lavorare ha, semplicemente, dell’incredibile».
Rappresenta il punto più basso della storia recente della città?
«Il punto più basso è già alle nostre spalle: quanto emerso da Mafia Capitale ha mostrato un degrado che, con l’amministrazione guidata da Gianni Alemanno, ha toccato molti settori. Ma quando il malaffare viene a galla significa che è già scattata la reazione dei cittadini, che la politica ha già interrotto la permeabilità del sistema».
Sì ma una certa mentalità, a Roma, è dura a morire: i certificati medici presentati dai vigili urbani per disertare i turni di San Silvestro...
«Bene hanno fatto il presidente Matteo Renzi, il ministro Marianna Madia e il sindaco Ignazio Marino ad annunciare provvedimenti. Vadano fino in fondo. Ma il punto è che, a Roma, serve un salto di qualità: bisogna ricostruirla, portarla di nuovo all’altezza del ruolo di Capitale. Da molti punti di vista, anche quello etico. Roma deve tornare ad essere una città sia proiettata verso la modernità sia inclusiva, e più equa. In questo senso il Pd locale non ha saputo essere una soluzione ai problemi, ha tagliato i ponti con la società: bisogna andare in periferia, nei luoghi più complicati del conflitto sociale. Da là si deve ripartire. Con due certezze: la prima è che il centrosinistra ha fatto eleggere quelli che gli indagati di Mafia Capitale consideravano “nemici”, Marino e Zingaretti, e la seconda è che il Pd ha già cambiato e migliorato Roma in passato, con Petroselli, con Argan, con Rutelli, con Veltroni».
Ora c’è Ignazio Marino.
«Con lui il partito romano ha sbagliato: siamo il più grande partito della maggioranza e sembravamo all’opposizione. Adesso anche Marino, insieme con noi, ha di fronte questa sfida da affrontare: è altissima, difficile, ma è anche un’occasione...».

il Fatto 3.1.15
Lo storico Franco Cardini
“Contrastiamo la Jihad, non il vero Islam”
di Roberta Zunini


La diffusione del video in cui Vanessa e Greta appaiono impaurite e chiedono al nostro Stato di tirarle fuori da lì, suona come un messaggio da parte dei rapitori affinché l'Italia le ricompri. I rapitori cioè hanno alzato la posta dopo un'interruzione delle trattative causate da qualcosa che noi, come opinione pubblica, non conosciamo, ma i nostri servizi sì, se hanno portato avanti in modo corretto le procedure. Se invece i nostri servizi avessero fatto un errore nelle procedure, e non si tratta dunque di un'interruzione dovuta a un tentativo di non pagare un riscatto troppo alto, il video potrebbe essere tradotto come un invito a riprendere le trattative pena l'uccisione delle ragazze. Oppure potrebbe essere letto ancora in un altro modo: il gruppo di Al Nusra che le ha sequestrate si è trovato in disaccordo al proprio interno sul modo di procedere e ha bloccato le trattative. Ma ora la frattura si è ricomposta e con questo video hanno fatto sapere all'Italia che è pronto a riprendere le negoziazioni”. Così si esprime lo storico e saggista Franco Cardini, esperto di Medioevo e Islam, raggiunto al telefono in Giordania. Dopo la diffusione del video con le due ragazze italiane rapite - in cui chiedono al governo italiano di essere liberate – è di nuovo sceso il silenzio sulla loro sorte. Le ragazze sarebbero rimaste nella regione dove sono state rapite questa estate: a sud-ovest di Aleppo, nella campagna di Abizmu, una zona fuori dal controllo sia delle truppe del regime che dei miliziani di al Nusra (l'ala siriana di al Qaeda), che tuttavia tramite un suo miliziano, ne avrebbe rivendicato la detenzione.
È stato chiesto il riserbo assoluto alla stampa. Perché a suo avviso?
La richiesta di riserbo assoluto da parte dei nostri servizi è legittima perché questa è sicuramente la fase più delicata delle trattative avviate per riportare a casa le ragazze, detto questo è evidente che qualcosa si è inceppato nel meccanismo (ieri avevamo scritto che fonti riservate avevano detto al Fatto che poco prima di Natale sembrava tutto pronto per il loro rilascio, ndr) ed è altrettanto legittimo riflettere sulla situazione che non è semplice.
Ed è anche molto pericolosa?
È pericolosa perché la comunità internazionale non sa bene che pesci pigliare. Se è vero che l'Isis e Al-Nusra, cioè i gruppi integralisti islamici, possono essere sconfitti militarmente, a patto che si mettano gli scarponi sul terreno, va anche detto che questi rinasceranno perché ciò che va sconfitta è l'ideologia islamista, non l'Islam.
Vuol spiegare questa differenza?
Intanto, ribadisco, i jihadisti che sono musulmani sunniti, vanno combattuti e sconfitti dagli stessi sunniti e non da noi occidentali, altrimenti servirebbe a poco; mentre noi occidentali possiamo fare di più non alimentando i motivi per i quali sono nati questi gruppi di super integralisti.
Quali sono questi motivi?
La frustrazione sociale ed economica. Come ha saggiamente avvertito Papa Francesco: ‘Il male dei popoli poveri può essere il fanatismo’. Dobbiamo pensare che il mondo islamico è una cerniera tra un Occidente ricco e un sud povero. I musulmani abitano un'ampia fascia geografica (dal Vicino Oriente al Sud-Est asiatico fino all'Africa nera dove vivono i più poveri tra i ricchi e i più ricchi tra i poveri), se non li aiutiamo a migliorare la loro condizione la valvola può saltare e, in un certo senso, è già saltata ma non del tutto. Dobbiamo smetterla di proseguire quella sorta di colonizzazione partita con i mandati inglesi e francesi.
Questi jihadisti rappresentano il nuovo volto dell'Islam?
No. Ci sono un miliardo e mezzo di musulmani nel mondo e gli integralisti sono una minima parte. Certo potrebbe aumentare, ma, pur essendo l'Islam come l'ebraismo una religione di “Legge”, cioè finalizzata alla realizzazione della giustizia divina e non della pace in senso stretto tra gli uomini, non vedo i presupposti per una sua trasformazione globale in senso estremista.
E come definisce i combattenti stranieri, cioè i giovani nati in Europa, figli di immigrati già di seconda generazione, che sono andati a combattere nelle file del califfato?
A mio avviso si tratta di schegge impazzite. Ragazzi frustrati e arrabbiati in questo caso non per mancanza di cultura o denaro ma per l'emarginazione sociale in cui sentono di vivere, a torto o a ragione.
La comunità internazionale dovrebbe riconoscere il Califfato islamico (Is o Isis ndr) come uno Stato ?
L'Onu è il grande assente, come da parecchio tempo a questa parte, ma poniamo il caso che esista ancora e allora sì, dico che dovrebbe ma nel senso di considerare lo Stato islamico come uno Stato nemico e quindi combatterlo militarmente per legittima difesa, fino in fondo.

il Fatto 3.1.15
La equazione
Terrorismo: come ti manipolo il nome di Allah
di Marco Politi


Vanessa e Greta chiedono di essere liberate. Presto. Ad ogni costo. Ma la loro foto è anche un monito a non lasciarci risucchiare in un gorgo di irrazionalità. Nulla è più pericoloso dei cortocircuiti mentali provocati dalle immagini di orrore. Giovani donne innocenti avvolte di nero, minacciate di morte. Scimitarre sguainate sopra ostaggi tremanti. Teste mozzate. Stragi dimostrative. Specialmente se sono immagini vere, seguite e precedute da notizie autentiche: rapimenti a scopo di riscatto, rapimenti a scopo di stupro, rapimenti di massa a scopo di schiavitù sessuale. Violenze e delitti commessi – e soprattutto propagandati – invocando la legge divina e manipolando il nome di Allah. L’insidia sta nella tentazione di una parte dell’opinione pubblica di identificare sempre più il terrorismo degli “islamisti” con la religione dell’Islam in quanto tale. Perché i fatti sono tutti veri – i delitti dell’Isis, la barbarie dei Boko Haram in Nigeria, il terrore sparso dai qaedisti in Iraq e in Afghanistan – ma l’ignoranza di massa che si sta autoalimentando tra i “bianchi” dell’Occidente (quando non è aizzata scientificamente da forze xenofobe o gruppi di interesse, che vedono i delitti dei nemici e non quelli degli “amici”) tende a caricare il Male sulle spalle del Corano e dell’Islam-religione, che coinvolge oltre un miliardo e trecentomila fedeli.
UOMINI E DONNE sparsi in tutto il pianeta: rispetto ai quali il numero degli assassini “islamisti” è infinitesimale. E allora anzitutto è falsa l’equazione Violenza=Islam. Perché nel Corano le pagine crudeli non sono inferiori a quelle dell’Antico Testamento o di illustri maestri della Chiesa, ma ciò non rende automaticamente barbari gli ebrei o i cristiani. Ed è falsa, l’equazione, anche in base all’esperienza storica che testimonia in molte parti del mondo una convivenza secolare tra Islam e seguaci di altre religioni. Semmai va ricordato che i regni cristiani di Sicilia e di Spagna promisero all’inizio ai loro sudditi musulmani libertà di religione, ma dopo pochi anni di dominazione l’hanno sradicata senza pietà, mentre l’Impero Ottomano e il Califfato spagnolo di el-Andalus hanno garantito per secoli la tolleranza religiosa agli altri monoteismi.
IL FATTO è che l’esplosione del fondamentalismo islamista è un fenomeno assolutamente contemporaneo e il richiamo al “verbo puro” della religione non è per niente un ritorno al passato coranico ma una manipolazione modernissima della fede. Allo stesso modo che il nazismo non c’entrava nulla con la religione germanica e il totalitarismo fascista non aveva minimamente a che spartire con la civiltà dell’impero romano. Così come il proliferare di partiti e regimi fascistoidi nell’Europa tra le due guerre è segno di una crisi, non di un presunto carattere ereditario dell’Europa.
La terza moschea bruciata in poche settimane nella Svezia abitualmente così tollerante mostra al contrario che – invece di analizzare il fenomeno islamista, proprio per isolarlo e liquidarlo – sta germogliando una perversa alleanza degli opposti tra i movimenti xenofobi in espansione in parecchie nazioni europee e i gruppi fondamentalisti islamisti. Grazie alla globalizzazione massmediatica. Perché i barbari, che manipolano il Corano, fanno uso raffinato delle più avanzate tecnologie (altro che “beduini venuti dal deserto”) per aumentare la loro potenza di influsso mediatico, mentre i gruppi xenofobi usano immagini e notizie sanguinarie per alimentare la psicologia del “nemico in casa” e impedire un’analisi delle radici politiche, sociali ed economiche del fenomeno. Vorrà pur dire qualcosa che gli islamisti sono emersi in “Stati disintegrati” come Afghanistan, Iraq, Siria e Libia. E che Al Qaeda all’inizio sia stata foraggiata dagli Usa in conflitto con l’Urss. O che i Boko Haram terrorizzino cristiani e musulmani in Nigeria. In mezzo all’orrore pensare resta indispensabile. Due papi così differenti - Giovanni Paolo II e Francesco - si sono sempre rifiutati di qualificare l’Islam come demonio del XXI secolo e di guardare strabicamente solo alla persecuzione dei cristiani. Il loro laico rifiuto di crociata deve fare riflettere.

il Fatto 3.1.15
Spose e califfi: “Mamma aiuto, qui è un inferno”
La Francia ha sotto osservazione 1200 persone fra cui molte ragazze pertite per unirsi ai miliziani
L’altra faccia della tensione è la xenofobia
di Luana De Micco


Parigi “Mamma, papà, mi sono sbagliata. Qui è un inferno. Per favore, venite a prendermi”.
Il 44% delle chiamate che sono arrivate al numero verde anti-jihad aperto in Francia lo scorso aprile riguarda le ragazze.
Diversamente dalle italiane Greta e Vanessa, partite volontarie in missione umanitaria per portare aiuti e medicine alla popolazione siriana stravolta da anni di guerra civile, queste giovani donne francesi sono andate a vivere in Siria o in Iraq per sposare i miliziani dell’Isis o di Al Nusra.
Qualcuna di loro, dopo essere arrivata a Raqqa o in altre città sotto controllo dell’Isis, partecipa a iniziative di propaganda per convincere altre ragazze a raggiungerle. Ma una volta laggiù “molte si pentono e vorrebbero tornare a casa. Forse hanno visto cose orribili e chiedono aiuto ai genitori via Skype. Tornare indietro però è difficile, soprattutto per una ragazza. Spesso i mariti che sono stati loro imposti le tengono sotto chiave. E poi la fuga richiede molta resistenza fisica”, ha spiegato al Fatto Pierre N’Gahane, che dirige il Comitato interministeriale per la prevenzione della delinquenza, a Parigi.
LA FRANCIA non ha più ostaggi nel mondo. L’ultimo, l’uomo d’affari Serge Lazarevic, sequestrato in Mali nel 2011 dai terroristi dell’Aqmi, è stato liberato il 9 dicembre scorso, probabilmente in cambio del rilascio di jihadisti maliani. Una forma di “riscatto” anche questo, non in denaro, ma in prigionieri, versato da Parigi, che ufficialmente non scende mai a compromessi con i terroristi, seguendo la linea di inglesi e americani. Invece, ha rivelato di recente il New York Times, la Francia avrebbe pagato almeno 60 milioni di dollari ad Al Qaida per liberare i suoi ostaggi. Se da un lato preoccupa il fenomeno delle ragazze-spose dei miliziani, dall’altro la Francia vede, come altri paesi europei, crescere in fronte di insofferenza verso l’Islam. Ne è prova il consenso ottenuto da Marin Le Pen, leader del Front National e dalle sue iniziative. Appena una settimana dopo aver vinto le elezioni amministrative in dieci città, Marine Le Pen nel giugno scorso ha annunciato che la carne di maiale sarebeb tornata nelle mense delle scuole pubbliche, almeno nei comuni guidati dal Front National. Una sorta di mensa anti Islam. “Non accetteremo più differenze religiose nelle mense scolastiche” aveva detto Le Pen, in barba al fatto che da parecchi anni le scuole avevano introdotto pasti senza carne di maiale per incontrare le esigenze degli alunni provenienti da famiglie musulmane ed ebree.
Tornando alle spose della jihad, queste giovani donne sequestrate da mariti che raramente si sono scelte, sono a modo loro degli “ostaggi”, che la Francia non sa come far tornare a casa. “Nessuna di loro è ancora tornata viva”, sostiene l’antropologa Dounia Bouzar, che nel libro Ils cherchent le Paradis, ils ont trouvé l’Enfer raccoglie le testimonianze di adolescenti cadute nelle grinfie dei terroristi. Il fenomeno è in crescita in Francia come altrove. Ma la Francia è il paese europeo che fornisce il più alto numero di candidati alle filiere jihadiste. Gli ultimi dati parlano di 1200 persone coinvolte, di cui 390 sono “sul posto” e 231 “in transito” tra Iraq e Siria. I morti sono 60. Il ministero dell’Interno ha dunque affidato al prefetto N’Gahane la creazione di un dispositivo per la lotta e la prevenzione della radicalizzazione. In nove mesi alla piattaforma telefonica sono arrivate 780 chiamate di genitori angosciati perché il figlio o la figlia “aveva attraversato la linea rossa”.
NEL 25% DEI CASI sono minorenni. “Sono giovani fragili, in cerca di identità, di un senso da dare alla vita – ha spiegato N’Gahane –. I gruppi li contattano sul web giocando sulle loro debolezze, facendo credere loro che raggiungeranno la terra promessa e che loro saranno gli ‘eletti’. Il reclutamento assomiglia più al lavaggio del cervello di un movimento settario che ad una conversione religiosa. Tutta l’accortezza del dispositivo stava dunque nel non confondere la questione della radicalizzazione e la religione”. In tutta la Francia sono stati aperti 31 centri per fornire aiuto psicologico alle famiglie che lo desiderano. Anche la nuova legge antiterrorismo, adottata dal parlamento a novembre, punta sulla prevenzione, autorizzando tra l’altro di confiscare il passaporto a chi è sospettato di voler partire per il Medio oriente come jihadista, come volontario per combattere in nome di Allah. La questione dei rientri resta invece ancora delicata.
Meno di duecento francesi sono riusciti a tornare a casa, ma per loro non esiste una risposta pubblica adeguata. Chi rientra passa per la prigione o è posto sotto sorveglianza giudiziaria: “Finora il governo ha lavorato molto sulla prevenzione. I nostri giovani europei devono sapere a cosa vanno incontro quando si arruolano, che stanno andando in zone di guerra dove si tagliano le teste. Per chi riesce a rientrare, niente sarà più come prima”, ha confermato N’Gahane .

il Fatto 3.1.15
Gaza. Hamas: “Onu assente nella ricostruzione”

Accusa di “negligenza” del movimento palestinese alle Nazioni Unite sulla ricostruzione della Striscia dopo i 51 giorni di guerra con Israele, l’estate scorsa. “All’Onu non interessa la sofferenza di circa due milioni di cittadini” ha detto uno dei leader, Khalil al-Hayya. LaPresse

Repubblica 3.1.15
 Il tweet-verità della Cia “Altro che extraterrestri gli Ufo eravamo noi”
Negli anni Cinquanta si moltiplicarono gli avvistamenti negli Usa In realtà erano voli di aerei-spia. E la notizia impazza nella Rete
di Federico Rampini


NEW YORK CI HANNO tolto pure gli Ufo. Macché Unidentified Flying Objects. Non erano dischi volanti, non erano extra-terrestri in missioni di avvistamento. Erano U-2, gli aerei spia americani. Lo rivela la Cia: il 60% dei presunti avvistamenti di marziani, dalla metà degli anni Cinquanta, si riferiva in realtà ai voli sperimentali di quello che allora era un aereo top secret. Gli U-2 volavano a un’altitudine di 60.000 piedi, circa 18.000 metri, cioè quasi tre volte più in alto dei voli commerciali (passeggeri) di allora. Anche i jet militari non arrivavano al di sopra dei 40.000 piedi. Perciò i voli-test degli U-2 provocarono lo sgomento dei piloti, dei controllori dei cieli, di molti esperti. Non potevano che essere astronavi venute da altri pianeti? La Cia sapeva benissimo, ma taceva, per non divulgare l’esistenza dei nuovi apparecchi. Il programma degli U-2 era sotto la sua diretta gestione, per finalità di spionaggio. La Cia fece finta di catalogare gli “avvistamenti”, di creare dossier appositi, di prendere sul serio tutta la storia degli Ufo. Fu una manna per gli scrittori di fantascienza e per il cinema. La fantasia popolare venne eccitata, fino alla nascita di leggende metropolitane destinate a durare per molti anni. Come la storia del “sito segreto”, l’Area 51 nel deserto del Nevada. Esisteva davvero, l’Area 51, ma non era un luogo dove custodire le prove raccolte sui raid degli extra-terrestri. Era invece una delle basi di controllo degli U-2.
La rivelazione non è del tutto nuova. Sull’Area 51 del Nevada la Cia aveva cominciato a togliere il segreto nel 2013. E a luglio del 2014 un lungo rapporto de-secretato ha tolto ogni mistero anche sugli Ufo. Il rapporto s’intitolava “The Cia and the U-2 Program, 1954-1974”. Ma quella versione, lunga 272 pagine, è stata letta soprattutto da esperti. Perciò la Cia ha deciso di mettere l’annuncio su Twitter, con un link che rinvia al documento integrale. Potenza dei social media: la versione Twitter ha avuto risonanza tra le masse. La rivelazione sugli “Ufo che non esistevano” è balzata al primo posto tra i “cinguettìi” della Cia più letti dal pubblico. «Il programma degli aerei spia U-2 — spiega l’agenzia di intelligence — fu la causa della maggior parte di presunti avvistamenti di oggetti volanti non identificati». Man mano che alle autorità americane affluivano segnalazioni, denunce di avvistamenti, la Cia teneva una sua contabilità separata: confrontava i presunti Ufo con i suoi piani di volo degli U-2. E nella maggior parte dei casi, la coincidenza era perfetta. Visto che l’allarme popolare cresceva, e sul finire degli anni Cinquanta arrivò a punte di psicosi, la Cia non fece nulla per dissuadere un’altra pista di spiegazione “scientifica”: quella dei militari dell’aviazione. Gli inquirenti della US Air Force che lavorarono al Project Blue Book, parlarono di “fenomeni naturali” dietro gli avvistamenti, cioè illusioni ottiche, legate ad eventi meteorologici. Un’interpretazione rassicurante, per placare la paura senza tradire il vero segreto.
L’esistenza degli U-2 divenne nota all’opinione pubblica, americana e mondiale, il primo maggio 1960 quando uno di quegli apparecchi fu abbattuto da un missile sovietico, mentre stava sorvolando il territorio dell’Urss. Fu uno dei momenti di massima tensione tra le due superpotenze, durante la guerra fredda. Presidente degli Stati Uniti era il repubblicano Dwight Eisenhower, che dovette vedersela con l’ira del leader sovietico Nikita Khruscev. Il pilota della Cia Francis Gary Powers venne catturato e i sovietici entrarono in possesso delle foto scattate dall’U- 2. Eisenhower, che era stato il generale capo degli alleati in Europa durante la seconda guerra mondiale, era consapevole dei rischi legati alle missioni degli U-2. Gli apparecchi che sorvolavano l’Urss partivano da una base in Pakistan. Proprio per il timore che un pilota cadesse in mano ai sovietici, per gran parte delle missioni Eisenhower aveva chiesto che gli U-2 venissero affidati a piloti inglesi. L’ipotesi di reclutare piloti da altri pianeti non fu mai presa in considerazione.

il Fatto 2.1.15
La lotta fratricida
Usa, un silenzioso 150° anniversario
di Carlo Antonio Biscotto


Il 9 aprile 1965, dopo la battaglia di Appomattox, il generale Robert E. Lee firmò la resa dei sudisti nelle mani di Ulysses S. Grant segnando la fine della Guerra di Secessione, un conflitto cruento e sanguinoso costato oltre 600.000 vite umane. In realtà, già il 3 aprile il presidente Abramo Lincoln aveva fatto trionfalmente ingresso a Richmond, capitale degli Stati del Sud, e a marzo l’annuale ricevimento alla Casa Bianca aveva avuto tutta l’aria di una festa della vittoria.
La guerra era iniziata quattro anni prima, all’indomani dell’elezione alla presidenza di Lincoln che aveva promesso di liberare tutti gli schiavi neri, un punto del suo programma – vale la pena ricordare – sul quale non regnava l’accordo nemmeno tra i suoi più stretti collaboratori e sostenitori, alcuni dei quali pensavano a una transizione più graduale nel timore di un collasso dell’economia degli stati del Sud che avrebbe potuto travolgere anche l’economia del Nord.
Il prossimo aprile ricorrono quindi 150 anni dalla fine della Guerra di Secessione. La stranezza – come osserva Robert Fisk sulle pagine dell’Independent
– è che praticamente nessuno ne parla e che non sono previste celebrazioni commemorative. In sostanza mentre, ad esempio, l’inizio della Prima guerra mondiale è stato celebrato nel corso del 2014 con una serie impressionante di manifestazioni, incontri, convegni, testimonianze, del conflitto che trasformò gli Stati Uniti in una nazione moderna e potente, nessuno parla. Eppure per la storia americana è un avvenimento di tale importanza che tutti dovremmo ricordarlo.
È in quel conflitto fratricida che affondano le origini della potenza militare americana, dei soldati – per lo più neri – inviati a morire in Iraq nel 2003, del sangue versato su decine e decine di campi di battaglia. Di quella guerra Fisk ricorda una stranezza: il contributo significativo degli irlandesi. Tutti (o quasi) sanno che 210.000 irlandesi combatterono nella Grande Guerra con l’uniforme britannica e che 49.300 di loro trovarono la morte sui campi di battaglia e nelle trincee.
PRATICAMENTE nessuno ricorda che 200.000 irlandesi parteciparono alla Guerra di Secessione, 180.000 nelle file dell’Unione, 20.000 in quelle dei Confederati. I caduti furono circa 30.000. Molti dei morti facevano parte dei moltissimi irlandesi costretti dalla carestia e dalla tremenda povertà a lasciare l’Irlanda per morire ad Antietam o a Gettysburg.
Lo storico e archeologo irlandese Damian Shiels, ricorda che il primo soldato irlandese caduto nella Guerra di Secessione nel 1861 era originario della contea di Tipperary. Si chiamava Daniel Hough e faceva parte del 1° Artiglieria degli Stati Uniti. Il secondo a trovare la morte si chiamava Edward Gallway della contea di Cork. Ma gli irlandesi erano presenti non solo tra i soldati semplici. Era nato in Irlanda anche il generale Thomas Smyth, un trentaduenne della contea di Cork che nel 1865 alla testa della sua brigata attraversò il fiume Appomattox inseguendo le truppe di Robert E. Lee. Il 9 aprile alle prime luci dell’alba un cecchino confederato lo colpì alla guancia sinistra: il proiettile finì la sua corsa mortale nella spina dorsale di Smyth che morì meno di 12 ore prima che il generale Lee si arrendesse ponendo fine alle ostilità. Smyth è ricordato come l’ultimo generale dell’Unione morto nella Guerra di Secessione.
COME ricordato da Shiels, molti degli irlandesi che combatterono erano emigrati a seguito della carestia e per loro la guerra rappresentò la seconda terribile prova della loro breve vita. Charles e Marcella O’Reilly, ad esempio, avevano lasciato l’Irlanda negli anni 40 dell’Ottocento e il loro figlio maggiore si era arruolato nell’esercito dell’Unione nell’agosto del 1862 seguito dal padre un anno dopo. Nel 1864 nella battaglia di Cedar Creek, padre e figlio combattevano l’uno al fianco dell’altro. Shiels cita il toccante reseconto scritto in maniera semplice e ingenua da un loro commilitone: “Anthony fu ucciso da un colpo di fucile. Suo padre era accanto a lui con le mani e il viso coperti dal sangue del figlio. Non ho mai visto nulla di più straziante: il povero vecchio era inginocchiato, quasi disteso, accanto al corpo senza vita del figlio e le sue lacrime si mescolavano al sangue di Anthony. Eppure si fece coraggio e continuò a combattere”. Nessuna celebrazione per ricordare quel bagno di sangue, quelle vite innocenti, quegli uomini coraggiosi il cui sangue contribuì a rendere liberi milioni di schiavi e a far crescere l’America.

Corriere 3.1.15
Asceta, cabalista e anche rubacuori, Pico inseguito da un marito tradito
Il genio nato a Mirandola era un passionale che fece conoscere la mistica ebraica
di Giorgio Montefoschi


«Eccentrico già agli occhi dei contemporanei. Troppo ricco ed esibizionista, un dilettante di genio difficile da collocare». Così Giulio Busi — uno dei maggiori esperti di ebraismo medievale e rinascimentale — abbozza un primo ritratto di Giovanni Pico della Mirandola all’inizio della splendida introduzione del Millennio Einaudi (curato poi da lui stesso e Raphael Ebgi) intitolato, appunto, Giovanni Pico della Mirandola. Mito, magia, qabbalah .
Non è un ritratto semplice. Perché se c’è un personaggio enigmatico, un «camaleonte» spavaldo e sfuggente, un «ospite illustre e scomodo della cultura italiana», quello è proprio il Conte della Mirandola. Protetto da Lorenzo de Medici — uno «tra i pochissimi che riuscì a confrontarsi con lui (quasi) alla pari» — e amico del Poliziano e del Savonarola (severo, costui, nei suoi confronti, per non essersi voluto fare frate domenicano, dunque convinto che la sua anima si sarebbe fermata in Purgatorio); sodale e rivale di Marsilio Ficino, il filosofo che a Firenze stava introducendo gli studi platonici; dotato di una memoria fuori del comune; conoscitore di tutto quello che si poteva conoscere della cultura classica e insieme «scopritore» della qabbalah; attratto dalla magia e dai maghi (poiché «come il contadino marita gli olmi alle viti, così il mago la terra al Cielo»); frequentatore precoce delle più importanti aule universitarie italiane e francesi, nonostante uscisse da un ambiente provinciale e da una famiglia feudale «più dedita alle armi che agli ozi letterari»; autore di opere — come l’ Orazione sulla dignità dell’uomo e le 900 Conclusiones — che per l’intreccio dei saperi provocano una vera «vertigine intellettuale», Pico è nel medesimo tempo uomo di mondo e mistico, asceta e rubacuori, ma la sua scala va dritta verso il cielo: alla ricerca delle perle smarrite.
Il 1486 — racconta Giulio Busi, che nei confronti di Pico nutre ogni indulgenza — è un anno cruciale e frenetico per il Conte della Mirandola. Appena ventitreenne, ha già un posto di rilievo nell’ambiente culturale fiorentino.
È anche molto bello. Così lo descrive il nipote Gianfrancesco: «Fu di aspetto insigne e nobile, di statura alta e retta, di carnagione delicata, di viso bello sotto ogni aspetto, cosperso di un colorito che tendeva al pallido e di un rosso che bene gli si addiceva, di occhi grigio azzurri e svegli, di capigliatura bionda e di un biondo naturale, di denti bianchi ed eguali». Come non innamorarsi di un giovane di tal fatta: bello, colto, ricco?
Nella sua rete è caduta Margherita — pure lei bellissima —, vedova di uno speziale, sposata in seconde nozze con un rappresentante di un ramo minore dei Medici: gabelliere che, per sbarcare il lunario (o forse per por fine alla subodorata tresca che va avanti già da qualche tempo), si trasferisce ad Arezzo. Giovanni non demorde. Si presenta ad Arezzo con una scorta non indifferente e rapisce Margherita che sta andando a messa. Il marito si infuria, convince il capitano della città all’inseguimento, con ben duecento uomini armati; diciotto accompagnatori del Conte rimangono sul campo; Pico e il suo segretario riescono a riparare nella rocca di Marciano; la «sposa salvata» ritorna mestamente ad Arezzo. Scoppia uno scandalo, di cui è naturalmente informato il Magnifico. Ma Lorenzo ama il Conte della Mirandola: quel ragazzo scapestrato che sa milioni di cose, con il quale può conversare di Platone e San Tommaso, di Ovidio e Omero, della bellezza che è nel mondo, di quella che è invisibile, e di Dio. Fa capire che a lui di quel suo «parente povero» non importa più di tanto e che Giovanni va lasciato in pace.
Quindi, Giovanni, liberato da ogni preoccupazione, si ritira in campagna e si butta a capofitto nel lavoro. È il mese di luglio: conclude l’epistola sul Canzoniere di Lorenzo, prepara a tappe forzate le Conclusiones , inizia lo studio dell’arabo, e soprattutto dell’ebraico e della mistica giudaica.
Gli fa da guida, in questa impresa assolutamente nuova per la cultura del tempo, che di mistica ebraica non sapeva nulla, una figura altrettanto originale e controversa — alla quale, non a caso, Giulio Busi ha dedicato, in più opere, notevole attenzione. Costui è figlio di una colta famiglia ebraica siciliana di Caltabellotta. Col nome del suo padrino di battesimo prima, Guglielmo Raimondo Moncada, poi con quello di Flavio Mitridate, si è convertito al cristianesimo. Ordinato prete, dopo gli studi di teologia a Napoli, insegna all’università e fa velocemente carriera nella corte papale, finché il coinvolgimento in un delitto lo costringe (come Caravaggio) ad abbandonare Roma e a ritirarsi oltralpe.
Rientrato a Firenze, frequenta Ficino e conosce Pico. L’incontro fa scoccare una scintilla. Mitridate ha bisogno di aiuto: Pico gli mette a disposizione le sue ricchezze perché traduca dall’ebraico in latino tutto quello che può della mistica ebraica. È un lavoro forsennato quello al quale si sottopone il sofisticato ebreo siciliano convertito. Ma, in tal modo, l’imponente corpus della mistica ebraica, la qabbalah, fa il suo ingresso nel mondo umanistico europeo. Rischiarandolo con una sbalorditiva luce. Perché — secondo Pico — questa millenaria sapienza ebraica, sconosciuta e sospetta, sebbene nascostamente, ha un cuore antico di verità cristiana.
«Ridotto all’essenziale — scrive Busi — il ragionamento di Pico suona così. Se si mettono in controluce il Libro di Esdra , il Vangelo, le allusioni di Paolo nella Lettera ai Romani , e le affermazioni più esplicite di grandi Padri della Chiesa, si scopre che gli ebrei possiedono una sapienza segreta, consegnata da Dio a Mosè sul Sinai e poi passata di generazione in generazione.
Questa è la qabbalah propriamente detta, ora custodita con gelosia dalla gente di Israele, che si rifiuta di schiuderla agli altri. Ed è un danno, perché colui che se ne impadronisce, com’è riuscito al giovane mirandolano, ottiene una chiave formidabile per leggere la Scrittura con occhi nuovi e per capirla più profondamente». Pico vi legge i segreti della storia, le origini di ogni mito, e, soprattutto, l’avvento del vero Messia. E vede — usando la chiave del simbolo — che tutto è contenuto in tutto; ogni grano di realtà è abbastanza capiente per accogliere il mondo intero; e l’uomo, che è al centro della creazione, ritraendosi in se stesso — esattamente come Dio si è ritirato in se stesso, contraendosi, per far posto alla creazione — può arrivare a Dio.
La visione rivoluzionaria di Pico e i suoi talvolta spericolati accostamenti (come quello fra magia e qabbalah e i miracoli di Cristo) non potevano non allarmare la Chiesa, e il Papa, Innocenzo VIII, istituì una commissione di prelati e di esperti per giudicare la verità delle Conclusiones . La prima seduta si tenne nell’appartamento del vescovo Jean de Monissart il 2 marzo 1487, quando il fastoso carnevale romano era da poco finito. I giudici ponevano domande su domande. Il Conte della Mirandola rispondeva stizzito. I reverendi padri si irritavano sempre di più. Il culmine della irritazione reciproca fu raggiunto alla fine della giornata quando venne presa in esame la seguente dichiarazione: «Non v’è scienza che ci dia maggiore certezza della divinità di Cristo della magia e della Cabala». Che mai voleva dire quel ragazzo impudente? Pico, altezzoso com’era, si beffò dei padri e dette una risposta elusiva (lui — disse — intendeva quella parte della «Cabala» che non è scienza né teologia rivelata) che sconcertò ulteriormente il severo consesso. La condanna era inevitabile.
Il libro di Busi e Ebgi «nasce dalla frustrazione», come scrive nella sua introduzione Giulio Busi. Vale a dire, dal senso di sgomento che si coglie di fronte alla foresta di luoghi simbolici, citazioni mitologiche, corrispondenze, intrecci, allusioni, parole segrete o indecifrabili poiché provenienti da lingue del tutto sconosciute, che costituisce l’opera di Pico della Mirandola. L’unica strada da percorrere — ed è stata quella che hanno imboccato i due autori — era quella di organizzarlo per argomenti, come una specie di dizionario, facendo seguire ai testi pichiani un loro commento. Detto questo, il lettore non deve scoraggiarsi. Tutt’altro. Sappia che leggerà pagine bellissime. Conoscerà l’ambrosia: il nettare divino che concede a chi lo assume la vita eterna. Saprà che non si può incontrare impunemente un dio, e che per questo motivo (per aver visto Pallade nuda) Tiresia divenne cieco (ma ebbe il dono della profezia). Saprà che anche Omero divenne cieco per aver chiesto, sul tumulo di Achille, che gli apparisse come era da vivo. Saprà che l’isola di Ogigia battuta dai flutti è l’isola delle fantasie e dei desideri terreni, mentre Penelope è l’approdo alla patria celeste. Saprà che Dio è avvolto nella caligine. Saprà che il bacio è la più perfetta copula fra gli amanti. Ma che esistono anche baci che superano il corpo, come i baci del Cantico dei Cantici . E che si può morire di baci. Purché si faccia molta attenzione nel non baciare chiunque: estranei che possano impedire la salita al Cielo.


il Fatto 3.1.15
Un libro è un libro: l’eBook canta vittoria
Il governo ha applicato l’Iva al 4 per cento anche per i volumi digitali, equiparandoli ai cartacei
È il riconoscimento di un successo
di Antonio Migliore


Gli eBook ce l’hanno fatta. “Un libro è un libro” dal 1° gennaio non è più lo slogan di una campagna che in questi mesi ha coinvolto autori, editori e lettori, ma un obiettivo raggiunto. Con l’approvazione dell’emendamento alla legge di Stabilità 2015 – assicura il ministro dei Beni culturali Franceschini – anche ai libri elettronici verrà applicata l’Iva al 4 per cento, come per i libri cartacei. Un grande traguardo che rappresenta anche un riconoscimento per tutti quegli editori digitali che hanno scommesso, già da anni, nella diffusione della conoscenza “senza carta”. A loro il merito di aver dato uno scossone al mondo dell’editoria.
Lungimiranti e, soprattutto, coraggiosi. Anche perché un eBook non è semplicemente la trasposizione in digitale di un testo analogico. Cambiando il supporto cambia anche il modo di concepire e realizzarlo, il prodotto libro. “Fare libri tradizionali ed eBook vuol dire mettere a disposizione know-how diversi al servizio di un contenuto, una questione artigianale”. È l’opinione di Roberto Inversa, fondatore nel 2012 de “Il Menocchio”, una casa editrice nativa digitale. Per un editore digitale, i problemi e le scelte che impegnano l’editore tradizionale, si presentano come problemi di formato e di fruibilità, ovvero la possibilità di far leggere un testo su un qualsiasi supporto elettronico, che sia uno smartphone, un tablet o un lettore ebook. Insomma: progettare un libro è una cosa, progettare un eBook è un’altra.
POI CI SONO i lettori. “A cambiare è soprattutto l’esperienza di lettura, così come l’atteggiamento del lettore”, dice Mirella Francalanci, amministratore delegato di GoWare, una casa editrice che da cinque anni produce solo titoli elettronici. Il lettore “digitale” ha un approccio diverso, ha un rapporto differente col testo. Anche più interattivo. Forse per questo i lettori sono più critici, più attenti ed esigenti. Dello stesso parere è Valentina Voch, di 40k: “Un lettore digitale è più predisposto a farti notare errori e imperfezioni, mentre un lettore tradizionale perdona più facilmente”. 40k è un progetto editoriale nato nel 2010, inserito dal blog americano brain  pickings.com   tra le sette realtà più innovative che stanno cambiando il futuro dell'editoria.
Il nome già dice tutto: quel numeretto nel nome fa riferimento al tempo medio di lettura di ogni titolo, quaranta minuti appunto. Questo aspetto nel dibattito sulla editoria digitale è determinante: i nuovi lettori vogliono “andare subito al sodo”, per questo la lettura deve essere “veloce e fluida”. Non è un caso dunque che tra i testi più pubblicati dagli editori digitali ci sono saggi brevi, letteratura specialistica e racconti. Rapidità di lettura, ma anche nell’acquisto, sottolineano ovviamente da GoWare.
L’influenza più forte sulle nuove modalità di lettura e del “fare libri” arriva da internet. Dal web il mondo degli eBook ha rafforzato anche il concetto di community attorno all’autore. Sempre più spesso l’autore viene scelto in base alla sua reputazione, la community che lo sostiene e lo sponsorizza diventa garanzia per la pubblicazione, come precisano ancora da 40k. Una conferma indiretta arriva anche dal Menocchio: per i nuovi autori è difficile “sfondare” partendo dal mercato digitale se non hai una community forte che ti sostiene. Insomma un libro è un libro, un eBook è un eBook, entrambi mezzi con marce diverse per una causa comune: la diffusione del sapere.