sabato 11 luglio 2009

l’Unità 11.7.09
La giacca del Presidente
Il Quirinale può rifiutarsi di firmare una legge lo dice la Costituzione, c’è chi lo pretende. In realtà è un potere “debole” e poco usato
di Tania Groppi


Nella democrazia maggioritaria e conflittuale alla quale è approdata la lunga transizione italiana, guardare in modo salvifico al Colle più alto, invocando un intervento del Capo dello Stato che ponga freno allo strapotere di una maggioranza onnipotente e la riporti nell’alveo della Costituzione è diventata un’abitudine.
Ciampi prima, Napolitano poi, sono stati di frequente “tirati per la giacchetta” dall’opposizione, invitati più o meno pesantemente a usare i propri poteri di garanzia: l’autorizzazione alla presentazione al Parlamento dei disegni di legge governativi, la promulgazione delle leggi, l’emanazione degli atti normativi del governo.
Dei tre poteri, è soprattutto la promulgazione delle leggi ad essere al centro dell’attenzione: quasi non c’è legge importante sulla quale non si chieda al Presidente di “non firmare”, utilizzando la possibilità di rinviarla alle camere per un nuovo esame. L’esperienza tuttavia ci mostra (emblematico il caso, nel luglio 2008, della “legge Alfano”, fulmineamente promulgata dal Presidente nonostante le molteplici richieste di rinvio, non in ultimo quella di cento costituzionalisti) che assai raramente queste pressioni hanno successo: non è una novità, se già nel 1953 il presidente Einaudi promulgò la cosiddetta “legge truffa” e lo stesso fece Ciampi con la legge elettorale del 2005.
I presidenti hanno sempre usato con grande prudenza il potere di rinvio. A partire dal primo caso, Einaudi nel 1949, i rinvii sono stati soltanto 59: in particolare 23 fino al 1983 e 36 dal 1983 ad oggi, con un incremento significativo nelle presidenze Pertini (7) e Cossiga (ben 22, di cui 15 negli ultimi 19 mesi di mandato). I motivi del rinvio, che la Costituzione lascia indefiniti rimettendoli alla discrezionalità del Presidente, hanno riguardato in ben 36 casi la violazione dell’articolo 81.4 della Costituzione, ovvero la norma che impone alle leggi di spesa di indicare la copertura finanziaria. Al di fuori di questo settore (nel quale tra l’altro il controllo della Corte costituzionale è molto difficile), i rinvii si contano sulla punta delle dita: se si escludono i 13 di Cossiga ne restano due di Einaudi, uno di Leone, uno di Scalfaro e cinque di Ciampi. Proprio la prassi della presidenza Ciampi è la più interessante: nonostante il Presidente abbia affermato (rispondendo alla domanda di una studentessa in un dibattito pubblico a Berlino, nel 2003) di poter utilizzare il rinvio soltanto in caso di «manifesta non costituzionalità» della legge, ha poi compiuto rinvii dettagliati e di grande peso, come nel caso della legge Gasparri sull’emittenza radiotelevisiva e della riforma dell’ordinamento giudiziario.
Dietro questa cautela c’è la considerazione che il potere di rinvio sia “un’arma spuntata”. Esso sconta limiti pesanti, proprio sulla base delle previsioni costituzionali: il Parlamento può infatti superare il rinvio con una nuova deliberazione a maggioranza semplice, lasciando la legge immutata (anche se le leggi riapprovate senza alcuna modifica sono solo 8 su 59), o apportando poche modifiche formali che non soddisfano i rilievi presidenziali. Non si tratta di un’ipotesi di scuola: i più importanti rinvii della presidenza Ciampi hanno prodotto meri ritocchi, senza intaccare l’essenza dei testi rinviati. A questo punto il Presidente è comunque obbligato a promulgare, tranne (secondo la dottrina, non essendosi mai in concreto realizzata l’ipotesi) qualora la legge sia tale da attentare ai principi supremi dell’ordinamento, nel qual caso egli potrebbe rifiutarsi, aprendo la via ad un drammatico conflitto istituzionale. Non è quindi difficile capire perché spesso i presidenti (non ultimo Napolitano, che non ha ancora operato alcun rinvio, pur avendo rifiutato di emanare un decreto-legge, nel caso Englaro) preferiscano incidere sulla produzione legislativa con il complesso di strumenti informali che vanno sotto il nome di “moral suasion”, spesso più efficaci. Tuttavia, anche qui non mancano i problemi, muovendosi in una zona sottratta al controllo dell’opinione pubblica, nella quale diventa difficile individuare le responsabilità. In definitiva, si ripropone, con estrema urgenza e attualità, il vero problema: quello delle nuove esigenze di garanzia che implica l’evoluzione della nostra forma di governo. Esigenze che né il rinvio presidenziale né la “moral suasion” possono soddisfare. Soltanto un ripensamento delle garanzie costituzionali nel loro complesso (che comprenda anche nuove vie d’accesso alla Corte costituzionale da parte delle minoranze parlamentari) può alleggerire il compito immane che oggi grava sul Presidente e contribuire a preservare la legalità costituzionale dalle aggressioni alle quali è sempre più sottoposta.

Corriere della Sera 11.7.09
Il candidato Pd Il chirurgo da anni segue i progetti nei Paesi poveri: «Attenzione all’effetto annuncio»
Marino: «Con 5 dollari si salva una vita»
di M.Antonietta Calabrò 



ROMA — Pochi sanno che Ignazio Marino, (Pd), chirurgo di fama in un settore della me­dicina «ad alta tecnologia», si è sempre inte­ressato anche della medicina nei Paesi in via di sviluppo, quella che con cure a basso costo salva la vita a milioni di persone. Ha fondato un’organizzazione non governativa in Hondu­ras, «Imagine», dal titolo della canzone di John Lennon. Come senatore ha seguito gli in­terventi del Global fund, per l’aiuto a 140 Pae­si, istituito al G8 di Genova.
«Sono soddisfatto - concede Marino riferen­dosi ad un aumento del 50 per cento dell’impe­gno italiano in materia sanitaria - , ma, secon­do me, siamo nuovamente all’effetto annun­cio. Certamente è stata aumentata la promessa di fondi, ma fino a ieri, venerdì 10 luglio 2009, non è stato speso neppure un dollaro degli aiu­ti a cui l’Italia si era impegnata per quest’anno. Quindi, adesso, non capisco come faremo a spendere in cinque mesi oltre duecento milio­ni. O meglio chiedo a Berlusconi: quando ver­ranno spesi i fondi previsti per il 2009, dal mo­mento che siamo già a metà luglio?».
Marino è però preoccupato soprattutto dal­l’impatto che i ritardi nel versamento degli aiuti possono avere sulle popolazioni bisogno­se. «Ogni dollaro non speso, ogni ritardo ­spiega il senatore del Pd - , sono vite umane perse. Le faccio un esempio. Bastano cinque dollari per comprare una zanzariera trattata con repellenti (che ha efficacia per 5 anni) che è la migliore prevenzione per la malaria. Con 100 dollari si paga un trattamento contro l’Ai­ds ». E a questo punto emergono le cifre dram­matiche delle malattie considerate i «tre gran­di killer» nel mondo e cioè la malaria, la tuber­colosi e l’Aids.
«Due milioni di Aids, 1,5 milioni di tuberco­losi, due milioni di malaria - dettaglia Marino -. Gli infettati dalla tubercolosi sono due mi­liardi, cioè un terzo della popolazione mondia­le ». E poi il dato più drammatico: «Solo in Africa, per la malaria, ogni giorno muoiono 3.000 bambini, bambini sotto i cinque anni. E’ una cifra mostruosa». Secondo il chirurgo-senatore non sarebbe «la prima volta che l’Italia non fa quello che dice. E’ già successo nel 2005, nel 2006 e nel 2007. Con le ultime tre Finanziarie del gover­no Berlusconi che ha preceduto il governo Prodi si erano accumulati 280 milioni di dolla­ri di arretrato italiano». Una situazione a cui avrebbe posto rimedio «il ministro degli Este­ri D’Alema che per recuperare ha dovuto stan­ziare 400 milioni di dollari nel 2008».
C’è la questione sostanziale delle vite uma­ne perse, ma c’è n’è anche una di credibilità internazionale. «Certamente, tanto più che nel 2001 a Genova l’Italia aveva promesso di essere il secondo donatore in assoluto del Glo­bal fund, dopo gli Stati Uniti - ricorda Marino -. Per questo avevamo ottenuto un posto nel consiglio di amministrazione del Fondo. La Francia (che ha donato quest’anno 450 milio­ni di dollari) e la Spagna (215) nominano inve­ce un consigliere in comune. Finirà che recla­meranno il nostro posto». 


Repubblica 11.7.09
Ma il leader storico è prudente: "Non vogliamo mettere il cappello su Ignazio e magari aumentare le sue difficoltà"
Radicali: "Doppia tessera per Marino"
Pannella contro il divieto dei Democratici, Rutelli apre. Mina Welby si iscrive
di Giovanna Casadio


Per lo scienziato-senatore il primo ostacolo è ottenere l´appoggio del 5% degli iscritti

ROMA - Marco Pannella, il leader radicale, protesta con Rutelli: «Non capisco perché voi Democratici vietate la doppia tessera...». Francesco Rutelli, ultimo segretario della Margherita e leader democratico, apre: «Se gli obiettivi sono gli stessi, se non sono contrastanti», perché no; anche se «il divieto nasce da un´esigenza di lealtà che però non deve essere irregimentazione». Dialogo tra i due a Radioradicale. I Radicali sono molto tentati dal sostegno a Ignazio Marino, e sul web parte un tam tam, in vista del tesseramento (che si chiude tra dieci giorni) per il congresso. Mina Welby, la vedova di Piergiorgio, si schiera e, «come atto di disobbedienza civile contro il divieto della doppia tessera», lei radicale prende quella democratica. Oggi sarà con Marino (e con Beppino Englaro) al Rototom Sunsplash festival reggae a Osoppo.
L´appoggio dei Radicali allo scienziato-senatore - ora sfidante di Dario Franceschini e Pierluigi Bersani per la leadership del Pd - non si spinge fino a fare una lista ad hoc. «Oddio, da noi tutto può succedere, se alcuni decidono, auguri - replica Pannella - Non vogliamo mettere il cappello su Ignazio e magari aumentare le sue difficoltà, però ai radicali lui piace molto» Inoltre, «la vittoria di Marino sarebbe un grosso contributo a una riforma del Pd, sarebbe un fatto positivamente traumatico». Il feeling tra il Pr e lo scienziato, in prima linea nelle battaglie laiche sulle questioni bioetiche e dei diritti civili, è di vecchia data: «C´è una profonda sintonia». Pannella è convinto che effettivamente alle primarie, se supererà la soglia del 5% prevista al congresso, Marino avrà il popolo dalla sua. E Marco voterà per Ignazio? «Vedremo , non lo escludo però voglio prima vedere il percorso. E poi, detto senza acrimonia né sufficienza vorremmo un Pd più anglosassone. Stiamo comunque dando una mano al dibattito con queste trasmissione, dopo Franco Marini e Rutelli, per i quali sono state fatte trasmissioni ad hoc, potrebbero venire Franceschini e Bersani...».
La partita in questo momento si gioca sul tesseramento, saranno i tesserati entro il 21 luglio a votare nei circoli le diverse mozioni presentanti dai candidati. Secondo i dati che circolano nel partito i tesserati sarebbero 470 mila più 7 mila tessere online e le regioni pià arretrate rispetto agli obiettivi del tesseramento sarebbero quelle del Nord, oltre al Molise. È qui che potrebbero entrare in gioco doppia tessera e Radicali.
I supporter di Marino, in particolare i "piombini" cioè il gruppo dei trenta-quarantenni, hanno lanciato la mobilitazione per il tesseramento soprattutto sui blog, Giuseppe Civati, che della mozione-Marino è coordinatore, invita nel suo blog a iscriversi e a segnalare eventuali difficoltà ad avere la tessera. Paola Concia fa di più, e sul blog indica il numero telefonica della sua segreteria alla Camera per il supporto pratico.
Al programma sta lavorando in questi giorni il segretario uscente e ricandidato, Franceschini oltre alla ricerca del luogo in cui presentarlo. Doveva essere Prato, la città persa dal centrosinistra dopo 63 anni e dove forte si è abbattuta la crisi. Ma l´ipotesi è tramontata, e probabilmente la kermesse di Franceschini sarà a Roma.

l’Unità 11.7.09
Il Pd stoppa la doppia tessera
«Non si può fare»


La prima è stata Mina Welby: in tasca la tessera radicale, si è andata a iscrivere al Pd, vicino casa. Roma, quartiere Tuscolano, circolo Subaugusta. Obiettivo: sostenere la candidatura di Ignazio Marino. E a quanto pare - secondo le segnalazioni arrivate al suo staff - ha già fatto proseliti. Ma il Garante Luigi Berlinguer conferma che né la sua né le altre iscrizioni potranno essere confermate. A meno di non modificare lo statuto che non consente la doppia tessera. Ma per farlo bisognerebbe convocare l’assemblea nazionale. E a questo punto - spiega Berlinguer - non c’è più tempo né modo per farlo. MA.GE.

l’Unità 11.7.09
L’antagonista «ombra» di Marino e la sua idea di laicità
«Su temicome questo significa il rispetto delle diverse posizioni»
Spina etica per il Pd, Binetti con Buttiglione contro l’aborto
di Susanna Turco


Coi centristi per «ammortizzare» gli effetti della 194. E contro Marino, perché la sua posizione sul ddl Calabrò non diventi «l’unica del Pd». Così, la Binetti sfida il Pd a «dimostrare la sua laicità».

La teodem per eccellenza del Partito democratico aveva avvertito tutti per tempo. «Se si candida Ignazio Marino, mi candido anche io». Era il 12 giugno, appena dopo le europee. Ma Paola Binetti, una che dalle battaglie contro la 194 in poi di tutto si può incolpare tranne che di incoerenza, aveva già le idee chiare. Sapeva che, se il fronte del dibattito del Pd si fosse spostato sui temi etici, lei sarebbe stata lì pronta, col suo filo da torcere.
E oggi che, tra una polemica sul fine vita e un duello in punta lama su laicità e «posizione prevalente», il suo profilo (toh, la Binetti) ricomincia a stagliarsi sugli assetti del centrosinistra come ai tempi in cui deteneva al Senato la golden share della sopravvivenza del governo Prodi, la numeraria dell’Opus Dei non fa altro che dar corpo a quell’annuncio.
Si muove e parla infatti come una candidata ombra al congresso del Pd. Contro Marino, anzitutto. Non per contendere la «leadership organizzativa», «per la quale ci vogliono competenze e strutture che non ho», bensì per conquistare la «leadership morale del partito», ossia «valorizzare quei valori cattolici di cui il Pd ha bisogno»: tutte cose già dette in sordina un mese fa.
L’anti-Marino
Tutte cose che la Binetti conferma tanto più adesso, sotto forma di un suo «forte impegno personale per il bene del partito»: «Perché certo, la candidatura di Marino comporta il rischio che tutte le posizioni sul tema della laicità si spostino a sinistra: un motivo in più per sostenere con maggior forza le mie convinzioni, ed evitare che finiscano nell’angolo», ragiona.
Con una mano, intanto, puntella in commissione Affari sociali il ddl Calabrò sul fine vita, da lei condiviso nella sostanza e per il quale si augura una approvazione «tempestiva ma non precipitosa». E, con l’altra, sostiene alla Camera la mozione del centrista Buttiglione per «una iniziativa per la moratoria contro l’aborto»: un testo semplice, si discuterà lunedì, che porta la firma di sei deputati Udc, più la sua - che non compare in calce «per un disguido». Una mozione che, spiega Buttiglione, «non ha nulla contro la 194». Eppure, aggiunge la Binetti, «naturalmente chiede più attenzioni verso la vita nascente, e dunque anche una applicazione completa di quella legge, come ammortizzatore dei suoi effetti, visto che oggi la 194 non può essere toccata: provocherebbe troppe divisioni».
Cosa abbia tutto ciò in comune con la laicità «sacra e indiscutibile» appena proclamata da Franceschini, è la stessa Binetti a spiegare. «Su temi così, laicità significa precisamente rispetto delle diverse posizioni. Dunque, quanto il Pd sia laico lo verificheremo nei fatti, sul fine vita per esempio». Di certo, c’è che lei si «batterà» perché la «posizione prevalente di Marino» non diventi «unica ed esclusiva». «Non permetteremo che accada», ha detto ieri in un convegno. Parole che da sole valgono una mozione congressuale.

il Riformista 11.7.09
Laicità va cercando anche il Pd
di Ritanna Armeni



La candidatura di Ignazio Marino per la segreteria del Pd ha un merito e, insieme, mostra un limite.
Il merito consiste nella possibilità di riportare il tema della laicità al centro del dibattito del partito. Il Pd sui temi della laicità è stato spesso insufficiente, timido, propenso alla mediazione prima che all'approfondimento. E lo è ancora oggi. Ne è spia la preoccupazione mostrata da Dario Franceschini per il quale quella di Marino è «una candidatura che divide». I suoi timori e le sue incertezze hanno contribuito non poco alle sconfitte che si sono susseguite su questioni fondamentali: la legge sulla fecondazione assistita, i diritti delle coppie omosessuali, il testamento biologico. Temi importanti, sui cui si forma la cultura e il comune sentire di un Paese e la cui soluzione non può essere influenzata dalla necessità di mediare con le gerarchie ecclesiastiche prima di fare un esame delle esigenze poste dalla società e dei nuovi orizzonti proposti dalla scienza.
Il limite (che non è di Marino ma della situazione in cui si trova il Pd) sta nel fatto che per riportare i temi della laicità nella composizione della identità del Pd si è ricorsi a una candidatura alla segreteria, come se ormai fosse impossibile costruire una parte importante del volto di un partito senza ricorrere all'immagine di un leader, senza riportarla alla contesa fra uomini (e qualche donna). Insomma la candidatura di Marino mostra l'incapacità grave in un'organizzazione politica di parlare di contenuti, magari in forma anche aspra, senza introdurre l'elemento della personalizzazione leaderistica.
Comunque, immaginiamo si possa riaprire il negletto capitolo laicità e si possa discuterne in modo approfondito evitando gli errori passati. Il primo da evitare è la stucchevole differenza ormai in voga (l'ultimo a riproporla è stato Piero Fassino) fra laicità e laicismo. Dove il laicismo è termine negativo e la laicità positivo. Il primo evoca radicali e mangiapreti. I laicisti un po' come i comunisti negli anni 50. Quelli mangiavano i bambini, questi uccidono gli embrioni e non hanno una cultura della vita. Il secondo indica ragionevolezza, mediazione con il mondo cattolico, moderazione nei contenuti, rapporto imprescindibile con la Chiesa. Come si vede la distinzione, proposta da un teocon come Marcello Pera, a seconda dei punti di vista, getta una luce negativa su entrambi i termini.
Il secondo errore da evitare è quello di pensare che il concetto di laicità possa rimanere sempre uguale a se stesso. Che la laicità del terzo millennio non abbia nulla di diverso da quella novecentesca o da quella ottocentesca. Che sia un residuo di queste, o che costituisca il suo spontaneo prolungamento. Non è così. Anch'essa va ripensata alla luce delle novità politiche e sociali. In un mondo in cui le religioni hanno acquistato nel bene e nel male una così grande importanza (imprevista fino a qualche anno fa) uno Stato laico non può che essere includente, cioè garantire l'espressione dello spirito religioso senza pregiudizi o chiusure. Compito duro, ma necessario, nel momento in cui la globalizzazione fa convivere negli stessi confini uomini e donne che praticano diverse fedi e hanno con esse un diverso rapporto. La laicità del terzo millennio non è la negazione di valori o l'adeguamento a un'anarchia etica e a un edonismo privo di responsabilità, ma è la ricerca di valori in un mondo che è divenuto molto più complicato in seguito al progresso scientifico, alla convivenza stretta nei nostri territori di diverse religioni e culture, a una più complessa distinzione fra bene e male. Come si risolve il problema del rispetto delle scelte religiose quando calpestano i diritti umani? Come si affrontano i nuovi confini fra la vita e la morte? Mettere paletti, distinguere fra bene e male, fra giusto e ingiusto per il bene del singolo e dell'umanità è oggi un compito necessario per un'etica laica, che non può supinamente accettare l'esistente (né quello della ricerca scientifica e delle tecnologie né quello dello stravolgimento dei diritti della persona legati alla religione) e che non ha come come àncora il messaggio rivelato di un soprannaturale.
Essere laici oggi è un percorso di dubbio e di ricerca. Con un consapevole e fortissimo senso del limite. I laici devono anche accettare di non trovare la soluzione giusta in assoluto ad un problema, ma, sicuramente, possono e devono trovare la soluzione meno dolorosa, meno dannosa e più rispettosa. Possono sostenere a esempio una legge sull'aborto che limiti il più possibile danni e dolore, senza pretendere di intervenire sul rapporto di ciascuno con la vita e con la morte.
Un partito di sinistra ha il dovere di percorrere la strada della laicità. Sapendo che l'uso del dubbio, della critica, il senso del limite non possono intaccare la determinazione ad andare al fondo dei problemi. Oggi la laicità non riguarda solo il rapporto con la Chiesa, ma innanzitutto il rapporto che gli uomini e le donne hanno con se stessi e fra di loro, il tipo di relazione che vogliono costruire, le regole che vogliono darsi. Un partito che vuole essere nuovo e moderno può prescindere da tutto questo? No. Su questo si misurano gli elementi di novità e di gioventù e non sull'età anagrafica di uomini e donne.

il Riformista 11.7.09
Conti in rosso
Prc in bolletta taglia i dipendenti
di Mattia Salvatore



Vento di crisi economica a Rifondazione Comunista. I conti non sono in rosso, peggio. E i dipendenti saranno i primi a pagarne le conseguenze. Le cifre sono da brivido: nel 2008 il partito ha chiuso con un buco di 500mila euro e quest'anno la stima prevista è ancor più gravosa, arriva a 2 milioni. Il Prc campa grazie ai rimborsi statali per le elezioni a Camera e Senato del 2006. Nel 2008 la batosta della Sinistra Arcobaleno e alle europee la lista Comunista, pur avendo miglior sorte, non ha ottenuto nessun rimborso perché l'asticella fissata al 4%. Prima della legge votata in fretta e furia l'anno scorso al Parlamento era al 2. Uno dei motivi per cui il segretario Paolo Ferrero è nero dalla rabbia. Ora si trova costretto, a malincuore, a tagliare posti di lavoro.
Come qualsiasi altra impresa in stato di crisi. Anzi, forse anche peggio perché i dipendenti di partito non godono dello statuto dei lavoratori, quindi possono esser mandati per strada senza alcun problema. Dai 125 attuali si dovrà scendere a non più di 40. Per i licenziati la direzione del Prc ha previsto una buonuscita: 7mila euro per chi ha lavorato meno di 56 mesi, invece per chi supera questa soglia spetta una mensilità per ogni anno di servizio. Il piano al momento non è stato sottoscritto dalla maggioranza dei lavoratori tra cui monta il malcontento. M., quarantenne, ha diciotto anni di lavoro alle spalle nel Prc e adesso si troverà con quasi 30mila euro in tasca ma senza alcuna possibilità di futuro. Come lui molti altri. «Mi sembra di rivivere il caso Alitalia - denuncia qualcuno - I manager hanno portato l'azienda al fallimento e poi loro hanno buonuscite profumate mentre a rimetterci sono i lavoratori». Altri ricordano a Ferrero la battaglia sull'estensione dell'articolo 18. Tanto che per Vittorio Mantelli, responsabile del dipartimento Inchiesta, bisogna fare una battaglia politica per «estendere lo statuto dei lavoratori anche agli stipendiati di partito, bisogna fare pressioni su Fini perché spiga il Governo a fare subito un decreto». A sentire il tesoriere Sergio Boccadutri la situazione è ancor più grave: «Da aprile 2010 andranno per strada anche i dirigenti, perché toccheremo il fondo - dice - Quelli allontanati ora almeno avranno una buonuscita». Per risalire si punta alle regionali dell'anno prossimo, dove basta un eletto per avere il rimborso, e a ridurre le spese. «Sarò molto più rigoroso sui rimborsi spese», aggiunge Boccadutri, che tra le voci in entrate menziona «la valorizzazione del patrimonio». Forse il trasferimento in una sede più modesta. Poi c'è il capitolo Liberazione, un passivo gravoso per Rifondazione che per salvarla ci ha già rimesso 10 milioni in 5 anni.
Il 16 luglio ci sarà un incontro tra Fnsi, Fieg e redazione per valutare un piano di ridimensionamento: giornale a 12 pagine, riduzione dei redattori da 33 a 16 con contratti di solidarietà e rilancio del web le proposte sul tavolo. Per gli altri dipendenti ci sarebbero prepensionamenti e cassa integrazione. «Capiamo lo stato di crisi ma il ridimensionamento è eccessivo», afferma il cdr di Liberazione, il quale non ha comunque intenzione di alzare muri, «vogliamo però che ci sia un piano di rilancio che adesso manca». Infine una grana tutta romana: la città è piena di manifesti «Rifondazione è come i padroni, non paga i lavoratori». Ad affiggerli una cooperativa di attacchinaggio «Zona Rossa» che da anni lavora per il Prc. Nel 2008 ha lavorato per la campagna elettorale della Sinistra Arcobaleno, fatturando alla fine 70mila euro. Soldi che non sono mai arrivati perché la federazione capitolina, scossa da scissioni, ha un buco di 300mila euro. Pare addirittura che il bilancio in rosso del partito sia finito nelle aule dei tribunali.

Corriere della Sera 11.7.09
Diplomazia Il termine «Judenrein» nel colloquio con il tedesco Steinmeier
Israele, polemica su Netanyahu Ha usato una parola nazista
Il premier: la Cisgiordania non sarà «ripulita dagli ebrei»
di Davide Frattini


GERUSALEMME — La pa­rola lo avrebbe lasciato sen­za parole. Frank-Walter Steinmeier ha annuito senza replicare, quando Benjamin Netanyahu ha evocato la pu­lizia etnica nazista contro gli ebrei per difendere gli inse­diamenti in Cisgiordania. «I territoripalestinesinonpos­sono diventare juden­rein», ha dichiarato il pri­mo ministro israeliano al­l’ospite diplomatico che più di tutti è ipersensibile al ter­mine. «Non ha detto nulla. Che altro poteva fare?», ha raccontato un consigliere del premier.
Il ministro degli Esteri te­desco ha parlato, dopo il ri­torno ieri in Germania (è sta­ta la quattordicesima visita nella regione). E ha ripetuto la posizione europea e ame­ricana: «Le possibilità di rag­giungere un accordo di pace sono le migliori degli ultimi quindici anni. Bisogna trova­re una soluzione e non sarà possibile fino a quando le co­lonie continuano a essere in­grandite ». Quella di Netanyahu non è stata una gaffe. Il governo ha inserito «judenrein» nel vocabolario da usare per contrastare l’offensiva della comunità internazionale. Il premier ha incitato i mini­stri a usarlo per sostenere le costruzioni in Cisgiordania e la richiesta che i palestine­si riconoscano Israele come Stato ebraico. Il vice Dan Me­ridor ha invitato i giornalisti stranieri a chiedere «se i pa­lestinesi permetteranno agli ebrei di vivere tra loro o se invece sarà proibito. Juden­rein: così è stato chiamato in altre nazioni». Il giorno dopo la frase è stata ribadita da un parlamentare del Likud. «Netanyahu ha dimo­strato orgoglio nazionale», lo ha lodato Arieh Eldad, de­putato dell’estrema destra.
La strategia è criticata da chi come Avi Primor ha rap­presentato Israele in Germa­nia (è stato ambasciatore fi­no al 1999). «Una mossa sba­gliata, proprio con il mini­stro del Paese che ha com­piuto un profondo esame di coscienza sul passato. Dob­biamo stare attenti a non ba­nalizzare il ricordo dell’Olo­causto. In Europa si oppon­gono all’occupazione, nessu­no è contrario al fatto che in futuro gli ebrei vivano in uno Stato palestinese». «E’ un errore associare ad altri gli orrori commessi dai nazi­sti — commenta Zalman Shoval, ex ambasciatore a Washington —. I palestinesi sono contrari ad accettare il riconoscimento di Stato ebraico come precondizione per non pregiudicare le trat­tative sul ritorno dei rifugia­ti ».
I primi cento giorni di go­verno sono stati segnati dal­le schermaglie con gli ameri­cani sul blocco delle colo­nie. Avigdor Lieberman, il ministro degli Esteri e lea­der del partito ultranaziona­lista Israel Beytenu, si è tira­to fuori dalle trattative con una spiegazione che ai com­mentatori è sembrata solo sarcasmo: «Vivo a Nokdim (un insediamento a sud di Betlemme, ndr) e potrei es­sere accusato di conflitto d’interessi».

Corriere della Sera 11.7.09
Lessico hitleriano
Judenrein


Letteralmente «ripulito dagli ebrei», o meglio ancora «purificato», Judenrein è un termine dell’ideologia nazista degli anni ’30 e ’40 spesso scambiato con il più comune Judenfrei («libero dagli ebrei») Il glossario della Shoah
A differenza di «Judenfrei», la parola «Judenrein» contiene un più esplicito riferimento all’ideologia ariana, perché implica la «purificazione» non solo dagli ebrei, ma anche da qualsiasi traccia di sangue ebraico: al termine di questa «pulizia», nell’aberrante ideologia nazista, sarebbe stata possibile l’arianizzazione della società. Il termine, quindi, è stato identificato con la soluzione finale.
Nel 1941 l’Estonia è stata definita il primo Paese «Judenfrei». In tutta Europa, in nome di quest’ideologia, sono stati uccisi 6 milioni di ebrei

l’Unità 11.7.09
Saint Etienne nel sobborgo di Firminy tre notti di devastazioni dei giovani arabo-francesi
Aveva ventun anni Momo, il ragazzo arabo-francese impiccato in cella. Per la polizia è un suicidio
Francia, altri roghi e rivolte contro la polizia nella Loira
di Rachele Gonnelli


Come nelle banlieue parigine la tranquilla cittadina della Loira di Saint Etienne è messa a ferro e a fuoco dalla rabbia dei ragazzi figli di immigrati. Non credono al suicidio in cella di un loro amico, Mohamed detto Momo.

Tre notti di devastazioni e grida, di macchine e negozi dati alle fiamme, a Saint Etienne nella Loira, sud est della Francia. Una nuova fiammata di rabbia dei giovani arabo-francesi, come nel 2005, come nel 2007. Solo che stavolta non sono le banlieue parigine a rivoltarsi contro la polizia ma i ragazzi dei casermoni firmati Le Corbusier di Firminy, sobborgo di una placida cittadina immersa nella campagna. La rabbia invece è la stessa. Anche questa volta la polizia è sotto accusa per la morte di un ragazzo di appena 21 anni, Mohamed Benmouna, fermato per una sciocchezza, un tentativo di estorsione, e morto in cella in circostanze a dir poco singolari. Fermato e portato in commissariato da cui è uscito lunedì in coma. È morto in ospedale. Sul suo corpo non c’erano segni di violenze, l’autopsia dice «arresto cardiaco per soffocamento». Gli agenti hanno raccontato che il ragazzo si sarebbe costruito una fune con brandelli di lenzuola e vestiti, avrebbe praticato due buchi nella parete di cartongesso della cella e si sarebbe legato e appeso. La telecamera della guardiania è risultata essere rotta, da mesi e mai aggiustata. E soltanto un mese fa Amnesty International ha pubblicato un rapporto in cui accusa la polizia francese di brutalità e abusi verso detenuti in attesa di giudizio soprattutto africani o nordafricani, con casi di sevizie e omicidio come fu l’anno scorso per il sans papier Abou Bakar Tandia, del Mali, morto in cella per ferite multiple, secondo la polizia autoprocurate.
La famiglia di Mohamed si dispera e non crede alla versione della gendarmeria di Chambon-Feugerolles. «Cosa è successo? - vuole sapere il padre Abdelkader, nato in Algeria - dov’erano per tutto quel tempo i poliziotti? E poi la corda, i buchi, non è possibile, voglio delle verifiche». La madre Malika è convinta che suo figlio sia stato picchiato a morte e poi sia stato simulato un suicidio. «Non era cattivo e aveva appena trovato un lavoro». Di certo non ci credono gli amici di Mohamed «aka Momo», cioè alias Momo, il suo nome da tenero nelle bande di graffitari e ballerini free-style per le strade maleodoranti di Firminy. Tra martedì e giovedì notte hanno devastato e dato alle fiamme 32 auto, un centro commerciale con tabaccheria e farmacia, un ristorante. «Urlavano fortissimo e spaccavano tutto - racconta una signora ai microfoni di France2 - ho avuto davvero paura e ho telefonato ai miei figli».
L’inchiesta già quasi chiusa
La polizia ha faticato a respingerli con cariche e gas lacrimogeni. E la sarabanda è durata tre notti. Nove ragazzi sono stati fermati ma ora Brice Hortefeux, ministro dell’Interno, ha promesso «misure di sicurezza eccezionali». La famiglia di Momo ha fatto un appello alla calma e convocato per ieri nel primo pomeriggio un corteo silenzioso. Gli ispettori del Dipartimento di polizia della Loira hanno avviato un’inchiesta interna e riscontrato «disfunzioni» nel commissariato di Chambon. Ma il procuratore Jacques Pin per Momo continua a parlare solo di suicidio.

l’Unità 11.7.09
A Teheran la conta dei morti
«Ma i basiji trafugano corpi dalle morgue degli ospedali»
di Rachele Gonnelli


Sarebbero molti di più dei 20 morti denunciati dalle autorità le vittime della repressione in Iran. I medici raccontano di come le milizie basiji trafugano i corpi e falsificano i referti. Sui blog video delle violenze di ieri l’altro.

Ci sarebbe anche un cittadino statunitense residente a Teheran, tra le persone arrestate ieri per aver partecipato alle manifestazioni di commemorazione del massacro di studenti di dieci anni fa, il 9 luglio. Si chiama Kian Tajbakhsh ed è stato anni fa consulente della fondazione di George Soros, il magnate molto attivo nel sostenere le «rivoluzioni di velluto» dei Paesi dell’est. Haadi Ghaemi dell’associazione internazionale Human Right in Iran ha denunciato alla rivista Time che la polizia ha fatto irruzione in casa sua, sequestrato il suo computer e lo ha messo in arresto.
Secondo il sito Roozonline, collegato agli iraniani d’America, molte persone che sono state arrestate in queste ultime ore e nelle settimane successive alle elezioni per le proteste contro i brogli e Ahmadinejad, sono detenute in condizioni disumane. «Particolarmente in pericolo è Mahsa Amrabadi - scrive Rooz - una giornalista incinta che si dice essere sottoposta a forti pressioni». Bijan Khajehpur, analista economico, arrestato la scorsa settimana all’aeroporto internazionale di Teheran sarebbe «in cattive condizioni di salute, anche a causa dell’insufficienza renale di cui è affetto». Altri testimoni confermano che le autorità carcerarie costringerebbero i detenuti a fornire confessioni di comodo, estorte anche con la tortura.
Basiji style
Sui blog e su Facebook continuano a essere postati numerosi video delle violenze perpetrate per strada contro i dimostranti del 9 luglio. Si vedono di nuovo in azione le milizie Basiji, già responsabili del massacro di dieci anni fa. Vanno ancora in due sulle moto, con i caschi e i bastoni, ma a differenza dei pestaggi subito dopo il voto quando si mostravano neri come cavalieri dell’apocalisse, ora indossano abiti civili, magari con il gilet antiproiettile sopra. Sono loro, sempre loro, secondo le testimonianze raccolte dal quotidiano progressista britannico Guardian, a sottrarre i cadaveri delle persone uccise per strada dalle camere mortuarie degli ospedali. Prima ancora di chiedere alle famiglie di omettere le circostanze della morte del parente o di imporre ai medici di stilare referti di comodo inventando malattie o decessi improvvisi. «I basiji - racconta una fonte ospedaliera - hanno manipolato i registri degli ospedali, e identificato i feriti. I cadaveri li confiscano, e dicono alle famiglie che stati trasferiti in altre strutture per la donazione di organi. Se i decessi sono causati da armi da fuoco, tolgono i proiettili dai corpi che poi riportano in ospedale, annotando una causa di morte diversa». E un altro medico: «Solo nell’ospedale in cui lavoravo, nella prima settimana di proteste, abbiamo registrato la morte di 38 dimostranti, la gran parte uccisi da colpi di arma da fuoco». «Un collega mi ha riferito che nel suo ospedale ci sono state 36 persone ricoverate per ferite da armi da fuoco e 10 morti».
Cosa ci guadagnano per tutto questo? «Ad esempio non pagano le rette universitarie - spiega il blogger Saeed Valadbaygi - e hanno quote riservate nei posti pubblici e nelle facoltà». «Saranno tutti basiji nel prossimo anno accademico, temo», dice Saeed.

Repubblica 11.7.09
L’ultima trama di Sindona
di Simonetta Fiori


L´11 luglio di 30 anni fa un killer sparò ad Ambrosoli Il libro del giudice dell´inchiesta Turone (scritto con Simoni) ricostruisce quegli anni
Il bancarottiere si uccise: voleva che fosse una morte strana per offuscare la memoria del commissario liquidatore

Potrebbe apparire una storia d´altri tempi l´avventura tra politica, Vaticano e mafia di Michele Sindona, il bancarottiere siciliano morto oltre vent´anni fa per un caffè al cianuro. E´ un grande romanzo criminale quello appena licenziato non da giallisti esperti, come si potrebbe ricavare dal passo narrativo, ma dai due magistrati che indagarono meticolosamente i crimini nazionali e internazionali di un finanziere-assassino dotato di un inusuale talento istrionico, nella vita come nella morte. Giuliano Turone era il giudice istruttore che condusse con Gherardo Colombo l´inchiesta giudiziaria sull´omicidio di Ambrosoli, ucciso da un killer americano assoldato da Sindona. Gianni Simoni era il magistrato che investigò sulla misteriosa morte del detenuto eccellente nel carcere di Voghera. Insieme hanno scritto un libro di duecento pagine che sulla base di innumerevoli atti giudiziari, sparsi in altrettanti processi, ricostruisce esemplarmente un pezzo di storia italiana fondata sull´intreccio tra potere politico, potere finanziario e potere criminale (Il caffè di Sindona, Garzanti, euro 16). Intrighi di un´Italia scomparsa? «Non del tutto», risponde Turone. «E´ di pochi giorni fa l´intervento del procuratore generale della Corte dei Conti sulla larga diffusione della corruzione in Italia. Siamo tra i primi in Europa per trame oscure e strapotere di mafie e camorre. Sembra difficile raddrizzare certe storiche storture nazionali. Da quelle vicende sono trascorsi molti anni, ma siamo ancora in mezzo al guado».
L´urgenza civile che muove il racconto è anche quella di onorare la memoria di Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, assassinato l´11 luglio di trent´anni fa su ordine di Sindona. Il risarcimento dell´«eroe borghese» - dal titolo del bellissimo libro di Corrado Stajano - passa anche attraverso la soluzione di un enigma rimasto irrisolto nell´opinione pubblica, ma non nelle (poco conosciute) carte processuali. Il mistero riguarda il cianuro inghiottito dal bancarottiere nel carcere di Voghera. Omicidio o suicidio? Se nell´immaginario comune è radicata la tesi più spettacolare dell´assassinio, i due magistrati non hanno dubbi sull´uscita di scena volontaria: si trattò dell´ultima straordinaria beffa di Sindona, simulatore beffardo e talentuoso, che scelse di ingoiare il veleno, ma mettendo in scena un omicidio del tutto verosimile. L´ultima sceneggiata di un criminale fantasioso, «autentico Fregoli dei trasformismi malandrineschi», che morendo da vittima di poteri oscuri voleva dare nuova dignità a sé e alla sua famiglia, intossicando il lavoro di chi si era adoperato per scoprire i suoi delitti. «Nel progetto freddamente coltivato da Sindona», dice Turone, «il suo omicidio, destinato a rimanere senza responsabili, avrebbe fatalmente indebolito le diverse inchieste condotte su di lui. Ma come, avete scoperto tutte le sue malefatte e non sapete chi l´ha ucciso? Anche il coraggioso lavoro di Ambrosoli rischiava di essere offuscato da quest´ultima beffa».
I capitoli più avvincenti riguardano la romanzesca uscita di scena di Sindona, ricostruita nelle motivazioni più profonde - l´ossessione per la morte di un ex potente abbandonato da tutti - e nei dettagli più inaspettati, dalle bustine di zucchero fatte sparire dal suicida alla sorveglianza blindata ad opera di giovani agenti di Monastir. A sostegno del suicidio, la prova più convincente consiste nella particolare qualità del cianuro, sostanza dotata di un odore e un sapore così ripugnanti da indurre qualsiasi persona a fermarsi disgustata al primo sorso di caffè (ricordiamo che Sindona bevve il caffè chiuso in gabinetto, senza lasciarne neppure una goccia nel bicchiere). Per gli appassionati del genere «caffè al veleno», va aggiunto che Pisciotta fu assassinato con la stricnina, che ha altre caratteristiche. Come Sindona si procurò il cianuro? Non gli era difficile - sostengono i magistrati - riceverne una dose nel corso delle udienze che lo videro incriminato per il delitto Ambrosoli. Il suo biografo tedesco Nick Tosches ha raccontato che al termine del loro primo incontro, nella cella di Voghera, gli aveva domandato "quale vago raggio di speranza lo sostenesse". E lui, col sorriso luciferino: «Morire».
Ma le pagine più impressionanti investono direttamente la storia d´Italia, i suoi palazzi del potere, gli intrecci tra la politica, la finanza, i poteri criminali, il Vaticano. Sindona era un finanziere potentissimo, uomo di fiducia dello Ior, celebrato nel 1973 da Giulio Andreotti come il «salvatore della lira». La trama dei loro rapporti è documentata da una fitta mole di carte giudiziarie, oltre che da atti politici e nomine di banchieri - come quella di Mario Barone al Banco di Roma - che negli anni Settanta tentarono di favorire i traffici di Sindona. Nel prosieguo della lettura, ci si imbatte in trame occulte, ricatti, mascalzonate - non ultima l´incriminazione di Mario Sarcinelli e Paolo Baffi - tutti rigorosamente certificati nelle note a piè di pagine. Tra i protagonisti figura anche Licio Gelli, il capo di quella loggia P2 di cui Sindona insieme a molti altri era un affiliato. Fu indagando sulla morte di Ambrosoli che i magistrati Giuliano Turone e Gherardo Colombo scoprirono il 17 marzo del 1981 gli elenchi della loggia segreta e successivamente il piano di Rinascita nazionale. Quello stesso piano di Rinascita nazionale recentemente rivendicato con orgoglio da Gelli, risuscitato in una televisione locale. «Peccato non averlo depositato alla Siae per i diritti», ha detto Gelli in conferenza stampa. «Tutti ne hanno preso spunto. L´unico che può andare avanti è Silvio Berlusconi, non perché era iscritto alla P2, ma perché ha la tempra del grande uomo». Che sentimenti prova oggi l´ex magistrato Turone di fronte a questa Italia? «Una grande malinconia», dice sottovoce. «Si prende atto con amarezza che i tentativi che sono stati fatti per combattere le mafie, tutte le mafie, sono per larga parte falliti. Cosa proverebbe oggi uno come Giorgio Ambrosoli davanti allo spettacolo della finanza corrotta? In Italia manca una religione civile, capace di legare responsabilmente l´individuo alla società».
Al pari di altri suoi colleghi autorevoli, Giuliano Turone ha lasciato la magistratura prima del tempo. Oggi si dedica agli studi giuridici e al teatro. Gli piace recitare soprattutto Shakesperare e Kafka.

Repubblica 11.7.09
Quando la democrazia era il governo dei peggiori
Per secoli ha goduto di pessima fama. Era il regime della moltitudine incolta e vendicativa contro i benestanti, perciò facile alla manipolazione da parte dei tiranni
di Nadia Urbinati


Anticipiamo un brano dall´introduzione di Lo scettro senza il re, il nuovo libro di che esce in questi giorni (Donzelli, pagg. 138, euro 15)

Gli antichi consideravano la democrazia come il governo dei poveri. Si ha democrazia, si legge nella Politica di Aristotele, quando il potere supremo è nelle mani della moltitudine dei nati liberi (in alcuni casi, sia da parte di padre che da parte di madre), i quali sono in maggioranza poveri. Ma per i moderni la democrazia è il governo della classe media, come Alexis de Tocqueville aveva appreso nel corso del suo viaggio americano (1831). È corretto affermare che la storia della cittadinanza moderna prende avvio dalla fine del lavoro servo e che i moderni abbiano adattato la democrazia a una società fondata sul lavoro retribuito e lo scambio monetario, un ordine economico che ha bisogno di una moltitudine di consumatori, gente né troppo ricca né troppo povera.
Una conseguenza importante di questa conquista di civiltà è che nella democrazia moderna i cittadini e le cittadine devono essere responsabili in modo diretto del proprio sostentamento, con la conseguenza di disporre di un tempo limitato per la cura degli affari pubblici. Ciò ha indotto alcuni pensatori a sostenere, come ha fatto Montesquieu, che il governo dei moderni assomiglia a un governo misto, perché l´elezione – come ci hanno tramandato Erodoto e Aristotele – è un´istituzione «aristocratica», in quanto discrimina tra i cittadini (chi elegge deve scegliere e quindi escludere) e soprattutto non consente loro, a tutti loro indistintamente, di governare ed essere governati a turno. Ma dalla diagnosi di Montesquieu si può trarre anche un´altra conclusione: ovvero che, invece di essere alternativa alla partecipazione, la rappresentanza rende quest´ultima più complessa e l´esclusione meno appariscente.
L´eguaglianza universale ha arricchito il valore normativo della democrazia dei moderni facendola più inclusiva di quella antica, ma nello stesso tempo ha ristretto la possibilità della partecipazione e, soprattutto, ne ha modificato le modalità. Autorevoli filosofi politici hanno per questo considerato la rappresentanza un espediente necessario ma non un´istituzione democratica (...). Tuttavia la rappresentanza non è semplicemente un ripiego per ciò (la sovranità diretta) che noi moderni non riusciamo più ad avere, è invece un processo politico capace di attivare nuove forme di partecipazione politica, diverse ma non meno importanti delle forme dirette degli antichi.
È senz´altro vero che la rappresentanza è stata concepita come un espediente per limitare e non per realizzare la democrazia. Per secoli, del resto, la democrazia ha goduto di pessima fama, come governo dei peggiori perché governo della moltitudine, vendicativa contro i benestanti e incolta, perciò facile alla manipolazione da parte di demagoghi e tiranni. Anche nell´era democratica per eccellenza, quella iniziata dopo la seconda guerra mondiale, e nonostante la retorica contemporanea della globalizzazione della democrazia, molte istituzioni (certamente la rappresentanza) sono ancora giudicate secondo la stessa prospettiva degli architetti settecenteschi del governo rappresentativo, la cui agenda politica non contemplava certo l´obiettivo di facilitare la partecipazione delle moltitudini. Le premesse non-democratiche (e perfino anti-democratiche) difese dagli autori dei Federalist Papers (James Madison, Alexander Hamilton e John Jay) o da Emmanuel-Joseph Sieyès sono diventate luoghi canonici per molti studiosi di istituzioni politiche. Come si legge nel Federalist n. 63: «Il vero elemento distintivo tra queste forme politiche e quella americana è rappresentato dal fatto che quest´ultima esclude completamente il popolo nella sua capacità collettiva da una partecipazione diretta alla cosa pubblica, e non nel fatto che le prime escludessero completamente i rappresentanti del popolo dall´amministrazione». La pratica del suffragio universale non ha scalfito questa idea anti-democratica del ruolo della rappresentanza. Come ha scritto di recente uno studioso francese, Bernard Manin, le strutture portanti del governo dei moderni «sono rimaste le stesse» dal tempo delle rivoluzioni settecentesche, da quando cioè quello rappresentativo era ancora un governo di notabili eletti da pochi cittadini privilegiati».

il Riformista Lettere 11.7.09
Fratello Piero sorella Ritanna

Caro direttore, non erano sufficienti i servizi a reti unificate sulla nuova enciclica papale; non lo erano la sua pubblicazione integrale sui maggiori quotidiani, né l'esegesi dei vaticanisti e dei più importanti opinionisti. Doveva arrivare dunque una lettura apologetica del messaggio di Ratzinger da sinistra! Fratello Piero Sansonetti (su L'Altro) e sorella Ritanna Armeni (sul giornale da lei diretto) sono i primi convertiti sulla via di Damasco: tanti li seguiranno. Perché non si tratta di conversione, ma di un vero "auto da fé", che rende finalmente chiaro che cosa significhi la parola "cattocomunismo". L'invito che viene dai novelli san Francesco e santa Chiara ad abbeverarsi al fonte cattolico per purificare lo spirito e far risorgere la Sinistra, non è un inizio, ma la cronaca di una morte annunciata. L'alleanza terribile proposta dai due neo-crociati con una chiesa intollerante e conservatrice, che di tutto sa o vuole sapere, fuorché di amore tra uomo e donna, piuttosto della formula magica per la rinascita della Sinistra, è il testamento della stessa e il motivo per cui essa è defunta. Anche se, come Papa vuole, cerca di rimanere attaccata a un sondino detto "Caritas in veritate".
Paolo Izzo

venerdì 10 luglio 2009

l’Unità 10.7.09
Lettera al futuro segretario
Il Pd e quell’esame di laicità
di Luigi Manconi


Cari Dario, Pierluigi, Ignazio, le vostre rispettive culture, pur provenienti da tradizioni diverse, non sono certo sospettabili di integralismo confessionale: dunque, la vostra concezione della laicità dello Stato e della politica non dovrebbe sollevare dubbi. Eppure, ascoltando le preoccupazioni dei militanti del Pd, emerge nitidamente che questo sembra essere un assunto tutt’altro che scontato. In altri termini, moltissimi tra iscritti ed elettori pensano che la laicità costituisca una premessa essenziale: e ritengono necessario che i candidati alla segreteria si pronuncino inequivocabilmente in quel senso. Se tale richiesta è diventata così incalzante è perché corrisponde ad una raggiunta maturità. La laicità di cui si chiede la tutela, infatti, non ha alcuna parentela con l’anticlericalismo classico e tanto meno con una professione di fede o con la sua negazione. Insomma, le questioni, sciaguratamente definite “eticamente sensibili”, non rimandano ad un dibattito teologico o a una disputa filosofica. Teologia e filosofia sono, sì, sullo sfondo, ma il cuore della controversia è tutto calato nella materialità della vita quotidiana e nella ruvidezza dei dilemmi che essa ci pone. In altre parole, qui non si discute di Dio bensì dell’esistenza reale delle persone reali, in carne e ossa, desiderio e sofferenza. Qui si manifesta il bisogno irriducibile della persona, posta di fronte alla propria “nuda vita”, di compiere le proprie scelte indipendentemente da qualunque vincolo (religioso o morale o statuale) che non sia stato liberamente accolto. Dunque, il paradigma della laicità richiama il diritto all’autodeterminazione. Alla sovranità su di sé e sul proprio corpo. Per laicità si intende, pertanto, la libertà dall’interferenza di imperativi esterni comunque motivati, in termini religiosi o normativo-statuali. Per questo, la legge sul Testamento biologico approvata dal Senato segna un crinale: con la norma che impone la nutrizione e l’idratazione artificiali anche contro la volontà del soggetto, la forza dello Stato si fa strumento di una morale di parte e, oggi, presumibilmente minoritaria nella società italiana. Contrariamente a quanto sostenuto da Beppe Fioroni – per il quale la laicità è un non-valore e la sola morale sembra essere quella di ispirazione religiosa - il rifiuto di quella interferenza esterna non è la semplice rivendicazione di una libertà negativa. Bensì l’affermazione di un valore, fondato moralmente. Cari Dario, Pierluigi, Ignazio, cosa ne pensate?

P.S. Incuriosito da alcune recenti distinzioni tra “laico” e “laicista”, ho dedicato 17 ore e tre quarti (non consecutive) a compulsare acribiosamente testi di scienza della politica, sociologia e teologia: infine, stremato, ho potuto constatare che di quella speciosa distinzione non c’è alcuna traccia.

Repubblica 10.7.09
L’etica pubblica perduta
di Stefano Rodotà


Tutto comincia con la pretesa dell´impunità che va ben oltre il lodo Alfano
Quando qualcuno dice che il re è nudo lui si infuria: sostiene si tratti di lesa maestà

Etica pubblica. Parole perdute, e al loro posto un deserto, dove scompare la responsabilità della politica, privacy vuol dire fare il comodo proprio, il senso dello Stato è ormai un´anticaglia. Ogni giorno, più che una nuova pena, porta una mortificazione continua del vivere civile, con un circuito di imbarazzanti ospitalità, che vanno da quella generosamente offerta a schiere di ragazze dal Presidente del Consiglio fino a quella elargita con altrettanta generosità allo stesso Presidente da giudici costituzionali.
Registrare questi fatti vuol dire moralismo, eccesso di voyeurismo, ultima spiaggia di una opposizione senza idee, antiberlusconismo da abbandonare? O siamo di fronte ai segni di un processo di decomposizione di cui i protagonisti non sembrano neppure consapevoli, tanto sono sgangherate le difese loro e dei loro sostenitori, affidate alla disinvoltura del mentire e del contraddirsi senza pudore, a censure televisive, a lettere imbarazzanti e più rivelatrici d´una confessione?
Il catalogo è questo, ed è lungo. Tutto comincia con la pretesa dell´impunità, ma una impunità totale, che non si concentra solo nel lodo Alfano e dintorni, ma si estende in ogni direzione, diventa diritto assoluto di stabilire che cosa possa essere considerato lecito e che cosa (poco, assai poco) illecito, che cosa sia pubblico e che cosa debba rimanere privato. Il voto popolare diventa un lavacro e una unzione. Ancora oggi, quando si parla di conflitto d´interessi, spunta una schiera di avvocati difensori che esibisce un argomento in cui si mescolano arroganza e disprezzo d´ogni regola: "Di conflitto d´interesse si è parlato mille volte, i cittadini lo sanno e il loro voto a Berlusconi, quindi, respinge nell´irrilevanza politica e giuridica quel conflitto". Non si potrebbe trovare una mortificazione della democrazia e della sovranità popolare più eloquente di questa. Il voto dei cittadini è degradato a scappatoia per sottrarsi alle regole e alla decenza etica. E, quando, finalmente qualcuno dice che il re è nudo (ahimè, in tutti i significati possibili), il re s´infuria, si comporta come se chiedere spiegazioni fosse un delitto di lesa maestà.
Improvvisamente lo spazio pubblico gli sembra insopportabile, proprio quello spazio che aveva voluto costruire a propria immagine e somiglianza, e nel quale si radica non piccola parte del suo consenso. Alla vigilia di una tornata elettorale di qualche anno fa, milioni di italiani ricevettero un colorito libretto dove Silvio Berlusconi esibiva e rivelava infiniti dettagli della propria vita privata, compresi il nome del suo camiciaio e quello del fornitore di cravatte. Campagna all´americana si disse, ovviamente. Ma l´America è un´altra cosa, è il paese dove la Corte Suprema fin dal 1973 ha stabilito che gli uomini pubblici hanno una minore "aspettativa di privacy", dove proprio in questi giorni, sull´onda di uno scandalo che rischia di spegnere le ambizioni del governatore della Carolina del Sud, si sono unanimemente ribaditi due capisaldi dell´etica pubblica: un uomo politico non può mentire; deve accettare la pubblicità di ogni sua attività quando questa serve per valutare la coerenza tra i valori proclamati e i comportamenti tenuti. Niente doppia morale, niente vizi privati e pubbliche virtù per chi riveste funzioni pubbliche, alle quali è giunto per scelta e non per obbligo, e del cui esercizio deve in ogni momento rendere conto alla pubblica opinione. Ma il contagio berlusconiano si è diffuso, come dimostra l´imbarazzante vicenda che ha visto protagonisti due giudici costituzionali.
"A casa mia faccio quello che mi pare", diceva il Presidente. "A casa mia invito chi mi pare" (con contorno di assicurazioni sulla riservatezza della fedele domestica), viene di rincalzo il giudice. E chi non accetta queste sbrigative forme di autoassoluzione viene bollato come gossipparo, guardone dal buco della serratura, spione, nostalgico dell´Inquisizione, fautore della società della sorveglianza… Ma le cose non stanno così, e basta un´occhiata alle regole della tanto invocata privacy per confermarlo. Certo, anche le "figure pubbliche" hanno diritto a un loro spazio di intimità, ma questa tutela è garantita solo se le informazioni non hanno "alcun rilievo" per definire il ruolo nella vita pubblica della persona interessata (articolo 6 del codice deontologico sull´attività giornalistica in tema di privacy).
Proprio così´: "alcun rilievo". Non solo questa formula è netta, senza equivoci, ma proprio l´attenzione della stampa internazionale è prova evidente dell´esistenza di un interesse forte a conoscere, così come è clamoroso il fatto che vi sia stata una cena "privata" tra il Presidente del Consiglio, il ministro della Giustizia che ha dato il nome al famoso "lodo" e due tra i giudici che dovranno valutare la costituzionalità della più personale tra le leggi ad personam. Non si può invocare la privacy per interrompere il circuito del controllo democratico.
Proviamo di nuovo a dare un´occhiata alle regole, alle odiatissime regole. Qui troviamo un´altra formula eloquente: "commensale abituale". Dobbiamo ritenere che questa sia la condizione del Presidente del Consiglio, visto che il giudice costituzionale invitante ha detto che quella cena non era la prima e non sarebbe stata l´ultima. Gli implicati in questa vicenda protestano, dicendo che quella situazione, che obbliga ogni altro magistrato ad astenersi quando abbia frequentazioni della persona che deve giudicare, non è prevista per i giudici costituzionali. Ma questo non vuol dire che i giudici della Consulta possano fare i loro comodi. Proprio perché la loro funzione richiede indipendenza assoluta da tutto e da tutti, sì che giustamente il Presidente della Repubblica ha escluso la possibilità di un suo intervento, massimo deve essere il rigore del loro comportamento. Non un meno, ma un più, rispetto agli altri giudici.
Moralismo, o grado minimo della deontologia professionale e dell´etica pubblica? Proprio questi riferimenti sembrano scomparsi. Mentre la quotidiana attività legislativa smantella pezzo a pezzo lo Stato costituzionale di diritto, negando diritti fondamentali agli immigrati o dando in outsourcing a ronde private l´essenziale compito della sicurezza pubblica (qui s´incontrano le pulsioni della Lega e la concezione aziendalistica del Presidente del Consiglio), è quasi fatale che il senso dello Stato venga relegato in un angolo, considerato un inciampo dal quale liberarsi.
Interviene qui la questione del moralismo, del quale in altri tempi ho scritto un pubblico elogio e del quale torno a dichiararmi un fedele. Non voglio nobilitare le miserie di questi tempi invocando la lettura di quelli che, giustamente, vengono detti "moralisti classici". Registro due fatti. Il primo riguarda l´uso italiano e inverecondo dell´esecrare il moralismo per liberarsi della moralità. E´ una vecchia trappola, alla quale si può sfuggire solo se si hanno convinzioni forti e non si cede al realismo da quattro soldi, che spinge ad accettare qualsiasi cosa in nome d´una politica senza respiro.
Il secondo lascia aperto uno spiraglio alla speranza. Proprio una rivolta in nome della moralità politica e dell´etica pubblica ha scosso le fondamenta d´un potere che sembrava saldissimo e che i vecchi riti della politica d´opposizione non riuscivano a scalfire. Lo conferma l´annuncio che il Presidente del Consiglio vorrebbe compiere una "svolta personale". Ancora uno sforzo, moralisti!

l’Unità 10.7.09
In piazza con una rosa rossa
«Scontri a Teheran, due morti»
di Rachele Gonnelli


L’onda verde iraniana torna in piazza. Risponde al tam tam del web e agli appelli del leader riformatore Mousavi. Lo fa nel giorno del decimo anniversario della repressione degli studenti del 1999.
Il massacro del ‘99. In piazza per ricordare le vittime della repressione di dieci anni fa
Il governatore di Teheran minaccia: le manifestazioni non saranno tollerate

Tornano in piazza gli studenti iraniani, tornano a centinaia, a migliaia, a Teheran e in altre città, si fronteggiano con la polizia e le milizie Basiji, erigono barricate per bloccare le cariche, sfidando i divieti, urlano dai tetti, mandano video sul web. A Teheran scontri, pestaggi, arresti: almeno due i morti è la denuncia che corre in Rete.
È un giovedì che non si può dimenticare, significa che la repressione non ce l’ha fatta a soffocare il movimento. È il segno della giornata, annunciata da giorni sui siti e sui blog: il decimo anniversario dell’ultima sanguinosa repressione degli studenti riformisti nel 1999, ricorrenza della rivoluzione khomeinista di vent’anni prima.
La rivolta dei fiori
A Teheran in fin dalla mattina il governatore cittadino Morteza Tamaddon ha annunciato che nessun assembramento di individui volto a minare la sicurezza della città sarebbe stato tollerato. «Se qualcuno intende compiere azioni rispondendo agli appelli di emittenti antirivoluzionarie, sarà schiacciato sotto i piedi del nostro popolo che è in allerta», ha dichiarato minaccioso all’agenzia Irna. Gli abitanti della capitale erano già stati preventivamente invitati dalle autorità ad abbandonare la città per un lungo week-end, in modo da ridurre il traffico e agevolare il controllo delle strade e delle piazze principali.
Il servizio di Sms oscurato da tre giorni, nuovamente, per evitare il tam tam. Ma la chiamata a raccolta ha funzionato lo stesso. La Cnn ha parlato di 2mila, 3mila persone scese in piazza in 200 città. La Bbc di duecento che gridavano a Teheran «morte al dittatore». Molti si sono presentati per strada in silenzio con una rosa rossa in mano. Altri con le mascherine sul volto. I blogger dal primo pomeriggio hanno iniziato a segnalare scontri e barricate. Non solo nella capitale. Anche sui ponti nella città di Shiraz dove gli studenti hanno iniziato la protesta seduti a terra, opponendo resistenza passiva. Proteste sono segnalate a Tabriz, Isfahan. A Teheran ci sono stati scontri molto pesanti soprattutto intorno al Politecnico, a piazza Vanak e piazza Enghelab, cuore della protesta contro i brogli elettorali e per il riformista Mir Moussavi, e da dove la polizia ha caricato e respinto i dimostranti sparando lacrimogeni ma anche colpi d’arma da fuoco in aria e arrestando i leader della protesta, tra cui il blogger Kaveh Mozaffari.
Ahmadinejad è tornato a parlare del voto del 12 giugno, ha detto che quelle sono state «le elezioni più libere del mondo» , accusando le potenze straniere di aver tentato di sabotarlo. A questo proposito soltanto ieri l'ambasciatore francese a Teheran, Bernard Poletti, ha potuto incontrare per la prima volta in carcere Clotilde Reiss, una francese di 23 anni arrestata il primo luglio scorso e accusata di spionaggio.
Il complotto
Francia e Gran Bretagna sono i principali accusati di ingerenze negli affari iraniani, per esplicita dichiarazione di Ali Akbar Velayati, consigliere speciale della Guida Suprema Ali Khamenei.
«Loro - ha affermato - vogliono un Iran debole al tavolo dei negoziati», intendendo anche quelli sul nucleare iraniano, cavallo forte della propaganda nazionalista di Ahmadinejad.

Corriere della Sera 10.7.09
Tensione. Migliaia in piazza dispersi dalle forze dell’ordine
Gli iraniani tornano a contestare il regime
Corteo in ricordo della repressione del ’99
di Viviana Mazza



La protesta è riesplosa in Iran. Oltre 1000, forse 3000 ira­niani sono scesi in strada ieri pomeriggio nel centro di Tehe­ran, sfidando le autorità che avevano promesso di «schiac­ciarli ». Dispersi dalle forze del­l’ordine con lacrimogeni e man­ganelli, ogni volta i dimostran­ti tentavano di riformare i cor­tei altrove. Una strategia formu­lata su Internet da giorni: «Ri­cordate, il cammino e la parteci­pazione sono ciò che più con­ta, non la destinazione. Se vede­te poliziotti e miliziani, cambia­te direzione e continuate a cam­minare ». L’appello a scendere in strada in tutto l’Iran, ieri, era stato lanciato da sostenitori di Mir Hussein Mousavi, rivale del presidente Ahmadinejad che si dichiara il legittimo vin­citore del voto del 12 giugno (ma lui non ha approvato uffi­cialmente la protesta). Secon­do i blogger, vi sono state mani­festazioni e scontri anche a Shi­raz, Tabriz, Isfahan.
Il 9 luglio è un giorno simbo­lico: 10 anni fa, dopo un sit-in contro la chiusura di un giorna­le riformista, i paramilitari fe­deli alla Guida suprema Ali Khamenei attaccarono un dor­mitorio dell’università di Tehe­ran, uccidendo un giovane e scatenando la rivolta degli stu­denti. La memoria della prote­sta del ’99, superata in vigore solo da quella attuale, ha ripor­tato in strada il movimento che taceva da 11 giorni.
L’epicentro: l’Università di Teheran e la vicina piazza En­ghelab («Rivoluzione»). Alle 5, vi sono confluiti 300 manife­stanti, secondo l’agenzia Ap.
Molti indossavano mascherine chirurgiche (alcune verdi, colo­re simbolo di Mousavi) per non essere identificati. «Allah è grande», gridavano, «Morte al dittatore», «Mousavi! Mousa­vi! ». I poliziotti in tenuta an­ti- sommossa e i paramilitari in moto li aspettavano: hanno sparato in aria, lanciato lacri­mogeni e picchiato coi manga­nelli. In un’ora, i manifestanti erano 700: tentavano di arriva­re all’ateneo, i poliziotti li han­no bloccati. Migliaia di dimo­stranti hanno cercato di forma­re un corteo in via Talaghani: dispersi, come i 200 in via Vali Asr. Molti i giovani, ma un vi­deo su YouTube mostra anche uomini e donne di mezza età, le dita a «V» come «vittoria», in un corteo che si sarebbe te­nuto ieri. Solidali, gli automobi­listi bloccano la strada e suona­no i clacson. In un altro video, cori contro Mojtaba, il figlio di Khamenei, accusato di dirigere la repressione. Secondo voci non confermate, 2 manifestan­ti sarebbero morti ieri, 12 feri­ti, 30 arrestati.
«Se qualcuno intende com­piere azioni contro la sicurez­za... sarà schiacciato», aveva av­vertito il governatore di Tehe­ran Morteza Tamaddon. Nego­zi, università, uffici erano stati chiusi dalle autorità «a causa delle tempeste di sabbia e del­l’inquinamento ». Bloccati gli sms. «L’arma migliore è la cal­ma - consigliava un va­demecum per le proteste - . La nostra seconda arma sarà un fiore rosso» (durante la rivolu­zione del ’79, i dimostranti li in­filavano nelle canne dei fucili dei soldati). Molti hanno evita­to di indossare indumenti ver­di, per non essere identificati.
Il giorno dopo la condanna del G8 contro le violenze, intan­to, il consulente per la politica estera di Khamenei, Ali Akbar Velayati, ha avvertito che l’Iran non rinuncerà al nucleare. Del ministro degli Esteri italiano Franco Frattini ha detto: «Non capisce l’Iran» (e lo accusa di corruzione). Gli consiglia di vi­sitare le tombe di Naqsh-e-Ro­stam per vedere come l’impera­tore persiano Shapur I sottomi­se Valeriano: «Non è la prima volta che i romani cercano di mordere bocconi troppo grossi per le loro bocche». E Frattini: «Non lo conosco, si riferisce a qualcun altro».

Repubblica 10.7.09
Quell’eroe borghese ucciso 30 anni fa
risponde Corrado Augias


Caro Augias, sono un pensionato della Banca d'Italia. So che lei di recente ha presentato a palazzo Koch, il libro di Umberto Ambrosoli dedicato alla figura di suo padre Giorgio fatto assassinare da Michele Sindona trent'anni fa. La storia di Ambrosoli la conosco tramite il bel libro di Stajano "Un eroe borghese" oltre che per qualche 'vista dall'interno', per esempio mi parlò di lui l'autista di Paolo Baffi, che lo accompagnò ai funerali (notoriamente in assenza di altri rappresentanti dello Stato) e in seguito venne trasferito al Servizio informatico dove anch'io lavoravo. Seguo la sua rubrica, mi farebbe piacere se volesse ricordare anche qui la figura dell'avvocato Ambrosoli, che nel bieco contesto di quell'anno spicca come esemplare servitore dello Stato. Ricordo che il 1979 fu anche l'anno della triste vicenda Baffi-Sarcinelli vilmente accusati e costretti alle dimissioni.
Lorenzo Marzano lormar2@gmail.com
L' 11 luglio 1979 l'avvocato Giorgio Ambrosoli veniva assassinato. La Banca d'Italia lo aveva incaricato di liquidare la Banca Privata Italiana di Michele Sindona. Ambrosoli poteva truccare le carte ed escludere le responsabilità del finanziere siciliano. In questo caso le spese della bancarotta le avrebbero pagate i cittadini italiani. Oppure poteva sostenere la verità, rendere cioè manifeste le responsabilità di Sindona. Le pressioni perché sostenesse la prima versione furono innumerevoli e pesanti. Vennero anche da palazzo Chigi dove all'epoca Giulio Andreotti era presidente del Consiglio. Con le pressioni, le minacce. Telefonate a casa, in ore notturne. Nel libro dedicato a suo padre ("Qualunque cosa succeda" - Sironi editore) Umberto Ambrosoli ne riporta alcune agghiaccianti trascrizioni. Erano anni terribili, forse peggiori di quelli che stiamo vivendo. Lo Stato era profondamente inquinato da un intreccio di corruzione, criminalità, loggia P2. L'avvocato Ambrosoli ne era consapevole ma continuò con scrupolo e immenso coraggio il suo lavoro. Questo conservatore si dimostrò un liberale di vecchio stampo e in una commovente lettera a sua moglie spiegò che riteneva l'incarico "un'occasione unica per fare qualcosa per il paese". Sindona assoldò un omicida della mafia italo-americana e lo fece uccidere. Ai suoi funerali, come ricorda anche il signor Marzano, non partecipò nessun rappresentante dello Stato. Unica eccezione il governatore di Bankitalia Paolo Baffi che di lì a poco, ingiustamente accusato insieme al vicedirettore Mario Sarcinelli, si sarebbe dimesso dall'incarico. Ambrosoli 'eroe borghese', insieme a lui i suoi collaboratori, il ministro Ugo La Malfa, e poi i carabinieri, i magistrati, i poliziotti, perfino qualche giornalista, tutti quelli che furono capaci di resistere.

Repubblica 10.7.09
"Vows of silence" di Jason Berry
"Nel mio documentario lo scandalo insabbiato dei preti pedofili"
Al Roma Fiction Fest il film che accusa la Chiesa di aver chiuso gli occhi sugli abusi di Padre Marcial Maciel
di Silvia Fumarola


«Cerchiamo giustizia» dice Jason Berry «Come cattolico mi chiedo perché la più antica Chiesa del Cristianesimo non possa parlare della piaga dell´abuso dei minori, che l´ha travolta in Usa e in Irlanda». Nel documentario Vows of silence ripercorre la storia della potente congregazione religiosa dei Legionari di Cristo fondata nel 1941 da padre Marcial Maciel, accusato di pedofilia. Un documento sconvolgente in cui parlano gli ex seminaristi e i preti molestati, presentato al Roma Fiction fest (per la messa in onda ci sono trattative con una tv italiana); come il film della Bbc Sex crimes and Vatican, susciterà polemiche. Un atto d´accusa contro la Chiesa, che avrebbe insabbiato il caso, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. Le indagini su padre Maciel (scomparso nel 2008) si arenarono; ripresero solo alla morte di papa Wojtyla.
Il film, scritto da Berry con Gerald Renner, nasce dal libro I Legionari di Cristo (Fazi). «Non ci sono solo gli abusi» accusa Berry «ai ragazzi viene fatto il lavaggio del cervello. Maciel era protetto perché era un grande procacciatore di fondi, aveva un budget di 650 milioni di dollari».
Il Vaticano quest´anno ha affidato a cinque vescovi un´altra indagine. Jose Barba Martin, uno degli ex seminaristi molestati spiega: «Hanno tutti paura di parlare. Sono rimasto in silenzio fino al ´94, quando ho letto sui giornali messicani la lettera di Wojtyla in cui citava Maciel come esempio per i giovani. Ho capito di non poter più stare zitto». «Da cardinale» sostiene Berry «Ratzinger ha subito pressioni per passare tutto sotto silenzio; una volta diventato papa ha aperto l´indagine: sta riparando all´errore».

Corriere della Sera 10.7.09
Il caso Maciel. Ricostruita nel film la storia dei Legionari di Cristo, il cui fondatore fu accusato di gravissime molestie
La setta degli abusi: un documentario scuote il FictionFest
di Emilia Costantini



ROMA — Più che come un or­dine religioso, viene rappresen­tato come una setta, con un pa­dre carismatico che ha potere assoluto sui suoi discepo­li- adepti, anche quello di abusa­re di loro. È il racconto doloro­so delle vittime che hanno subi­to tali abusi, a essere protagoni­sta del documentario Vows of Silence (Voti di Silenzio), pre­sentato ieri al RomaFictionFest. Una brutta storia che punta i ri­flettori sui Legionari di Cristo, potentissima congregazione re­ligiosa nata nel 1941, e sul suo fondatore, il messicano Padre Marcial Maciel Degollado, accu­sato di molestie, tirannia psico­logica e plagio. Autore è il gior­nalista Jason Berry che con Ge­rald Renner ha pubblicato un li­bro sull’argomento. Il film è un’inchiesta durata sei anni, con centinaia di interviste che hanno rivelato uno dei più con­troversi scandali sui presunti abusi, attribuiti a Maciel e ad al­tri membri della congregazio­ne. Dice Berry: «Come cattolico mi chiedo perché la Chiesa non possa parlare liberamente della piaga dell’abuso dei minori».
Accuse molto crude con par­ticolari scabrosi si susseguono in Vows of Silence, alcune pro­nunciate tra le lacrime di chi ha subito i soprusi. Ma è anche una storia di omissioni, insab­biamenti, colpevoli silenzi da parte del Vaticano, quando le vittime reclamavano giustizia. Secondo Berry e Renner, le pri­me denunce di pedofilia comin­ciarono a circolare sin dalla me­tà degli anni ’50, ma solo nel 1997 vennero allo scoperto, «pe­rò non ci fu una reazione da par­te di Papa Wojtyla, anzi, sotto il suo pontificato le indagini si arenarono». Ripresero solo do­po la sua morte con Papa Ratzin­ger, che «tuttavia — precisa Ber­ry — quando era cardinale subì a sua volta pressioni perché pas­sasse tutto sotto silenzio». Final­mente nel 2006 l’ormai pluriot­tantenne Maciel (è morto nel 2008) viene riconosciuto colpe­vole dal Vaticano. Ma la formu­la usata è quella caritatevole di rinunciare a un processo cano­nico «a causa dell’età avanzata e della salute cagionevole del re­verendo Maciel, invitandolo a una vita riservata e di peniten­za, rinunciando a ogni ministe­ro pubblico».
Per la messa in onda del do­cumentario, Berry spiega che «è in corso un accordo con una rete spagnola e trattative con una tv italiana, ma non mi sor­prenderei se non dovessimo ot­tenere il permesso di realizzare un dvd».
Sullo scabroso argomento de­butta a Roma, nel prossimo au­tunno, anche un dramma teatra­le: Vite violate di Fabio Croce, che affronta non solo il «caso Maciel», ma anche altre presun­te storie di abusi commessi da alti prelati.

l’Unità 10.7.09
Staminali in rete
Per l’applicazione clinica delle cellule su larga scala si prevedono ancora tempi lunghi. Ma i malati non possono attendere. Così, mentre la medicina ufficiale va avanti coi piedi di piombo, su internet sta prendendo forma un mercato parallelo di terapie basate proprio sull’uso delle staminali
di Cristiana Pulcinelli


Negli ultimi anni sono diventate le star della ricerca: gli articoli che le riguardano sulle riviste scientifiche ormai non si contano più. Del resto, da quando si è riusciti a farle crescere in provetta, alla fine degli anni Novanta, si è capito subito il potenziale di queste cellule «bambine» in grado di trasformarsi in qualsiasi altra cellula e quindi, in teoria, di dar vita a qualsiasi organo e tessuto del nostro organismo. E, nonostante i dubbi etici che una parte della società ha sollevato sull’utilizzazione delle cellule staminali embrionali, molti ricercatori in tutto il mondo stanno lavorando per capire come sfruttare questa loro caratteristica. Ma a che punto è il passaggio dalla ricerca alla clinica? Ovvero, le cellule staminali sono già utilizzabili per curare le persone? Uno speciale della rivista «Science» parte proprio da questa domanda e, attraverso una serie di articoli che riassumono le ricerche più recenti, arriva alla conclusione che il passaggio verso l’applicazione clinica delle staminali è ancora in costruzione. E non è una costruzione semplice. Ancora non sono chiari i materiali da usare (cellule progenitrici o tipi cellulari già differenziati da riportare ad uno stato indifferenziato), le tecnologie e neppure la destinazione (quali tessuti da rigenerare).
Nonostante, quindi, la ricerca di base stia facendo passi da gigante, per l’applicazione clinica delle staminali su larga scala si prevedono ancora tempi lunghi. Il problema è che i malati di tempo ne hanno poco. In particolare, i pazienti che non rispondono alle terapie convenzionali e che vedono nelle staminali la possibilità di una guarigione o un miglioramento della loro condizione spesso non accettano l’idea che prima di somministrare una terapia ed essere certi che sia sicura ed efficace (ovvero che non faccia male e, possibilmente, faccia anche bene), ci vogliono molte sperimentazioni cliniche e la messa a punto di linee guida. Tutte cose che richiedono anni di lavoro. Così, mentre la medicina ufficiale ci va con i pedi di piombo, sta prendendo forma un vero e proprio mercato parallelo di terapie basate sulle cellule staminali diffuso via internet. Un articolo pubblicato 7 mesi fa sulla rivista «Cell Stem Cell» spiega come avviene. Alcune cliniche private (la ricerca ne ha identificate 19) fanno pubblicità alle terapie da loro praticate rivolgendosi direttamente ai possibili consumatori via internet. Qualche esempio? Beite Biotech, una clinica cinese specializzata in malattie neurologiche, afferma sul suo sito di aver trattato oltre 3000 pazienti con le cellule staminali. Emcell, che ha la sua sede in Ucraina, dice di averne già trattati oltre 2000. I risultati sono sempre presentati come eccellenti. Le terapie offerte sono varie: le più diffuse sono quelle con cellule staminali adulte autologhe, seguono quelle con cellule staminali fetali, da cordone ombelicale e infine con cellule staminali embrionali. Per trattare quali malattie? Un po’ di tutto, dal Parkinson alle allergie, ma le più raccomandate sono le malattie neurologiche e quelle cardiovascolari. Naturalmente, mentre i vantaggi vengono ampliamente sottolineati, i rischi vengono per lo più sottaciuti. Purtroppo, si legge nella ricerca, non ci sono prove che possano sostenere le affermazioni fatte da queste cliniche private: le applicazioni cliniche delle staminali sono ancora incerte. In particolare, spiegano gli autori, non ci sono studi controllati sulle terapie con le staminali per il Parkinson e l’Alzheimer. Per la sclerosi multipla sembra che il trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche abbia un ruolo nel rallentare la progressione della malattia, ma gli esiti sono variabili. Solo nell’infarto del miocardio la stessa terapia risulta dotata di una certa efficacia. Considerando che un trattamento in media costa oltre 21mila dollari (viaggio escluso) e che il mercato cui si rivolgono è potenzialmente amplissimo (visto che ogni giorno solo negli Stati Uniti 8 milioni di persone cercano informazioni mediche su internet), sembra proprio che queste cliniche abbiano fiutato la gallina dalle uova d’oro. A fianco a questo fenomeno, sostiene un articolo pubblicato su «Science», ne sta nascendo un altro che potrebbe assumere nel futuro una dimensione importante. I pazienti che possono permetterselo cominciano a muoversi verso centri di ricerca accreditati dove si sperimentano terapie con le cellule staminali che nel loro paese non sono disponibili, magari perché sottoposte a un bando politico o religioso in quanto basate sull’uso di staminali embrionali. E questo, secondo gli autori, rientra nel diritto del paziente a cercare la migliore cura disponibile.
Le questioni sul tavolo sono molte, ma tutti si dichiarano convinti che solo evitando bandi e sostenendo la ricerca si potranno affrontare. Un passo avanti significativo in questa direzione è l’annuncio fatto dal presidente degli Stati Uniti di voler inaugurare una nuova politica sulle staminali. Obama ha deciso che il governo federale tornerà a finanziare le ricerche che utilizzano staminali embrionali, eliminando le principali limitazioni poste da Bush nel 2001. Questo vuol dire che gli Stati Uniti rientreranno in gioco e che, molto probabilmente, la ricerca sulle staminali da oggi progredirà più speditamente.

l’Unità 10.7.09
Intanto in Italia il governo vieta i finanziamenti


Tutto nasce da un recente bando di finanziamento nel campo della biologia delle cellule staminali gestito dal ministero della sanità. Il bando contiene una frase che esclude in modo esplicito le ricerche sulle staminali embrionali umane dalla possibilità di accedere ai finanziamenti. Tre ricercatrici non ci stanno e presentano ricorso contro il governo italiano. La storia è raccontata in un articolo pubblicato sulla rivista «Nature» del 2 luglio scorso. Il legale delle scienziate, Vittorio Angiolini, che ha depositato il ricorso presso il tribunale amministrativo di Roma il 24 giugno scorso, sostiene che escludere le cellule staminali embrionali è contrario alla libertà di ricerca scientifica sancita dalla Costituzione. In effetti, in Italia l’uso per la ricerca di linee di cellule staminali già derivate dagli embrioni non è vietato. È vietata invece la produzione di nuove linee. Le tre firmatarie sono Elisabetta Cerbai, farmacologa dell’Università di Firenze, Elena Cattaneo, neuroscienziata dell’università di Milano e Silvia Garagna, biologa dello sviluppo dell’università di Pavia. «Il nostro ricorso è una questione di principio – ha dichiarato Cerbai a «Nature» - I politici dovrebbero decidere gli obiettivi strategici della ricerca e lasciare scegliere agli scienziati come meglio raggiungere quegli obiettivi».
La storia si tinge anche di giallo. Sembra infatti che in una prima versione la frase che esclude l’accesso ai finanziamenti alle ricerche con staminali embrionali umane non ci fosse. A garantirlo è Giulio Cossu, biologo dello sviluppo al San Raffaele di Milano che ha partecipato alla stesura del testo in quanto membro del comitato voluto da Ferruccio Fazio proprio per elaborare una bozza del bando. La frase compare invece on line dopo l’incontro del 26 febbraio della Conferenza Stato-Regioni, l’organo composto dai rappresentanti delle venti regioni italiane che decide come distribuire i fondi nazionali per la sanità. Chi l’ha aggiunta? Fazio, a caldo, disse che era opera delle regioni, ma il rappresentante della Toscana affermò che nessuna modifica era stata fatta in Conferenza. «Noi sospettiamo – ha dichiarato Cerbai - che un accordo di compromesso sia stato fatto ad alti livelli politici». C.P.

l’Unità 10.7.09
Italia record per l’uso dei farmaci, dal 2000 a oggi il boom: +60%
di Ma.So.


Secondo il rapporto Osmed dell’Aifa in Italia cresce il consumo di farmaci e antibiotici: +60% rispetto al 2000. Gli italiani consumano una dose e mezza di farmaco al giorno. Cresce anche la popolarità dei generici.

Gli italiani consumano sempre più farmaci. È l’allarme lanciato dal rapporto Osmed 2008, realizzato dall’Istituto superiore di Sanità e dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e presentato ieri nella sede dell’Istituto superiore sanità, secondo il quale per ogni cittadino italiano lo Stato ha speso mediamente 410 euro per un periodo di trattamento di 537 giorni. Numeri che certo risentono delle patologie croniche legate all’invecchiamento della popolazione e delle abitudini di tipo socio-culturale, ma che non fanno stare tranquilli. Perché se la spesa farmaceutica totale, circa 24,4 miliardi di euro tra pubblica (75%) e privata, nel 2008 è rimasta stabile (è calata dell’-1% invece quella a carico del Ssn), in compenso è aumentato sensibilmente il consumo di farmaci, addirittura +60% rispetto al 2000, certificato dal dato allarmante secondo il quale gli italiani consumano mediamente una dose e mezza di farmaco al giorno. Come se assumerne uno fosse diventato un fatto rituale, quasi come bere un caffè.
GLI ANTIBIOTICI
E in netta crescita c’è anche il consumo di antibiotici. «Rispetto ad altri paesi l’utilizzo di antibiotici in Italia è caratterizzato da un elevato consumo totale e da un trend in crescita», ha spiegato infatti Pietro Folino-Gallo, direttore dell’ufficio Osmed dell’Aifa, sottolineando che «il nostro Paese è secondo per consumo in Europa dopo la Francia». Ma a differenza dei cugini transalpini, dove la tendenza è al ribasso, «in Italia ogni giorno nel 2006 hanno fatto uso di antibiotici 27,6 persone su mille contro le 24,5 del ’99». Il rapporto Osmed specifica inoltre che il consumo farmaceutico territoriale di classe A-Ssn, ovvero quelli interamente rimborsabili, risulta cresciuto del 4,9% rispetto al 2007: in altre parole, ogni mille abitanti sono state prescritte 924 dosi di farmaco al giorno (erano 580 nel 2000). «Una esplosione non giustificata nè giustificabile - evidenzia Roberto Racchetti, responsabile del rapporto - ora si tratta di trovare strumenti e intervenire alla radice con meccanismi strutturali di formazione e informazione su medici e pazienti». Scorrendo poi la classifica dei farmaci più utilizzati, troviamo in cima alla lista, come da tradizione, i farmaci del sistema cardiovascolare, con oltre 5 milioni di euro di spesa, coperti per il 93% dal Ssn. Seguono i farmaci gastrointestinali (13% della spesa), quelli del sistema nervoso centrale (12,1%), gli antimicrobici (11%) e gli antineoplastici (11%). È invece un ace-inibitore, l’antipertensivo Ramipril, la sostanza più prescritta nel 2008.
CALABRIA MAGLIA NERA
Ovviamente la spesa varia da Regione a Regione, con la Calabria maglia nera (277 euro pro capite di spesa pubblica per i farmaci di classe A-Ssn), seguita da Campania, Sicilia e Lazio. Mentre è la Provincia di Bolzano quella più virtuosa (149 euro). Di pari passo all’andamento generale va segnalato l’aumento dei consumi dei farmaci generici, che dal 2002 al 2008 sono passati dal 13 al 43%, ma che scontano oltre alla diffidenza degli operatori e dei cittadini il peso di una lunga copertura dei brevetti.

Corriere della Sera 10.7.09
La corsa al riarmo dei cittadini Usa


Giunte al ventesimo mese della recessione più dura degli ultimi 80 anni, sono poche le impre­se Usa che riescono a stare bene a galla. Ma c’è un settore che ignora la crisi e, anzi, è in pieno «boom»: quello delle armi. Per tutti i produtto­ri di pistole, fucili e munizioni, come la Remington, è «boom» di vendite, Smith & Wesson e Sturm Ruger hanno moltiplicato i profitti.
Impressionante, in un Paese scosso di continuo da eruzio­ni di violenza spesso provocate da squilibrati che ottengono armi con troppa facilità. E anche apparentemente inspiega­bile, visto che negli Usa, a fronte di 300 milioni di abitanti, ci sono già più di 200 milioni di armi registrate. Pistole e fucili che possono essere usati per generazioni, visto che le armi non si logorano come un’auto né diventano tecnologi­camente obsolete come un computer.
La Nra, la lobby degli armieri, inneggia all’«effetto Oba­ma »: al neopresidente, che aveva inserito nel suo program­ma elettorale la reintroduzione della messa al bando delle armi d’assalto (decisa da Clinton nel 1993 e abolita da Bush nel 2004), i titolari dei negozi di armi hanno affibbiato ironi­camente il titolo di «miglior venditore d’armi dell’anno». «Riempite casa di armi e munizioni prima che arrivino i di­vieti » è il ritornello ripetuto in tutte le armerie.
«Geni del marketing che so­no riusciti ad allargare un mer­cato già saturo», commenta con amarezza Dennis Henigan, attivista delle leghe anti armi e autore di «Lethal Logic», recen­tissimo saggio sulle cause psi­cologiche della diffusione del­le armi in America. Non è solo l’attaccamento alla filosofia dei conquistatori del «selvaggio west» e a una libertà solennemente sancita dal Secondo emendamento della Costituzione: ora c’è chi teme che, con la recessione e le nuove povertà, furti e rapine si moltiplichi­no.
Ma soprattutto, nota Henigan, non è stato difficile creare un «panico Obama» tra gente che ragiona per slogan, quelli che si leggono sui paraurti delle auto: «Una società armata è una società ben educata», «Se le armi sono fuorilegge, solo i fuorilegge hanno le armi». L’ironia di questa situazione è che il nuovo presidente per ora non farà nulla per arginare la diffusione delle armi: in Congresso è già in difficoltà su vari fronti e i leader della sua stessa maggioranza lo hanno avvertito che decine di deputati democratici sono pronti a votare contro qualunque limitazione del diritto all’autodife­sa.
E allora? Un altro pensiero, il più spaventoso, viene sus­surrato a mezza bocca dal titolare di un’armeria: «Se il pri­mo presidente nero d’America venisse assassinato, rischie­remmo la guerra civile. L’ondata di violenza vissuta nel ’91 da Los Angeles dopo il pestaggio di Rodney King, risulterà, al confronto, un pic-nic al parco. Meglio prepararsi per tem­po a difendere la propria famiglia».

l’Unità 10.7.09
«Ci salveranno i piedi non le radici»
Reato di clandestinità. Si punisce una persona non per ciò che fa ma per ciò che è...
Intervista a Marco Aime di Marco Rovelli


Senza fondamento
A dimostrare la mancanza di basi scientifiche e biologiche per una divisione in razze dell’umanità è Luigi Luca Cavalli Sforza attraverso i suoi studi sulla genetica popolazionale, poi rielaborati in «Geni, popoli e lingue» (Adelphi 1996).
Un unico Dna
La mappatura del codice genetico umano ha abbattuto l’ultimo possibile baluardo razzista: il Dna di due eschimesi, può contenere più differenze che quelli di un eschimese e un africano. Un panorama su queste e altre recenti ricerche è in «Europei senza se e senza ma. Storie di neandertaliani e di immigranti» di Guido Barbujanni (Bompiani 2008)

Marco Aime, docente di Antropologia culturale all’università di Genova e scrittore, ha pubblicato di recente due libri: La macchia della razza (Ponte alle Grazie), Il primo libro di antropologia e Una bella differenza (entrambi per Einaudi). Ma è soprattutto un appassionato antropologo che guarda al nostro presente, e ci è parso importante riflettere con lui, mettendo in gioco il suo acuto «sguardo da lontano», su quella che è la vera emergenza italiana di questi tempi: l'emergenza razzismo.
Nel suo «La macchia della razza» riflette a lungo sul linguaggio, sulle parole usate per «dire» l'immigrazione: una grandissima operazione di mascheramento, di costruzione di una realtà fittizia.
«La retorica comunicativa relativa al problema immigrazione, come a quello della sicurezza è significativa di una precisa volontà di stravolgere i fatti. Pensiamo al grande spazio dato agli sbarchi e ai respingimenti. La percentuale di stranieri che arriva dal mare è irrisoria, ma adeguatamente mediatizzato questo diventa il problema principale. Innanzitutto, quando avviene un reato si enfatizza l’origine se a commetterlo è uno straniero, ma non si fa la stessa cosa se a delinquere è un italiano. Così si mettono le basi all’equazione “straniero uguale criminale”, tacendo sulla stragrande maggioranza di immigrati che lavorano onestamente nel nostro paese. Poi si passa all’etnicizzazione del crimine. Basti pensare alle aberranti parole di Calderoli: “Ci sono etnie che hanno propensione a delinquere”. Ecco come ci si avvicina pericolosamente alle teorie razziali. Nel Manifesto della razza del 1938 c’era scritto: “È ora che gli italiani si proclamino francamente razzisti”. Il tono non è molto diverso da quel «Finalmente cattivi» della Padania, il giorno dopo i primi respingimenti».
Nel libro lei scrive che all'origine di questa «emergenza razzismo» c'è anche una politica senza pensiero, senza orizzonte, che non scalda i cuori. E una sinistra che si è dimessa da se stessa.
«Purtroppo è così. La politica si è ridotta ad amministrazione e a soddisfacimento dei sondaggi. Non si sente nessun politico italiano in grado di suscitare qualche emozione, rilanciando un’idea di politica che significhi tentare di realizzare una società migliore. In fondo è quello che ha fatto Obama, cambiando linguaggio e puntando a un futuro, non limitandosi a osservare l’oggi, come accade da noi. La politica deve appassionare, altrimenti è pura contabilità o burocrazia. L’appiattimento su un livello retorico becero o comunque arido e povero è uno dei segnali della mancanza di vero pensiero. Il groviglio dei tatticismi e delle speculazioni minime è invece segno di autoreferenzialità, che esclude la gente dalla partecipazione».
Un punto qualificante del suo libro è la riflessione sulla perdita di memoria. Una memoria che fa selezione dei ricordi, e che dimentica quanto dovrebbe essere ricordato. Una selezione forse inevitabile, dacché la memoria è sempre vittima dei rapporti di forza, e noi oggi, che siamo i forti, siamo «condannati» a dimenticare. E allora, più che ricordare il nostro passato di emigranti (che è precisamente ciò di cui ci si vuole dimenticare) non converrà piuttosto come strategia retorica – ciò che lei fa peraltro - ricordare il razzismo istituzionalizzato dall'Italia fascista, e guardare la nostra faccia di forti e feroci?
«L’una e l’altra cosa, direi. Dimenticare la nostra storia, peraltro molto recente, per quanto amara, significa privarsi di ogni possibile metro di comprensione. Significa osservare e giudicare ciò che sta accadendo, come se fosse la prima volta che ciò avviene. È curioso che i fondamentalisti della tradizione e i fanatici delle “radici”, finiscano poi per sorvolare sul fatto che la nostra tradizione è fatta anche di tanta emigrazione e che molti di noi si sono salvati perché avevano piedi e non radici. Allo stesso tempo rievocare le tragiche derive razziste del ventennio mussoliniano è indispensabile perché molte cose sembrano ripetersi. Una fra tutti e l’apparente disinteresse generale. Sembra che tutto ciò non ci riguardi, che debba accadere ad altri. Immagino sia successo qualcosa di analogo, mentre i fascisti iniziavano a insinuarsi nelle pieghe del potere. Si è minimizzato, si è lasciato fare, tanto...».
Un altro punto qualificante del suo discorso - e in questo si manifesta il debito con Giorgio Agamben - è la finzione dei diritti umani. La negazione dello statuto di persona quando non c'è nome, e diritto. Ciò che rende necessaria, allora, una lotta per il «diritto universale».
«Il problema è che non basta nascere per esistere. E non basta esistere per avere dei diritti. Con l’introduzione del reato di clandestinità, si è arrivati a punire una persona non per ciò che fa, ma per ciò che è. Siamo alla negazione dello status di essere umano, alla riduzione delle relazioni umane ad atto burocratico, asettico. In questa progressiva spersonalizzazione mi sembra di risentire gli echi della “banalità del male” descritta da Hannah Arendt. Si spostano le tragedie umane su un piano formale, giuridico, privo di emotività e di senso di umanità. Poi ci si trincera dietro all’asettico rispetto delle norme. Esattamente come facevano i capi nazisti, che dicevano di avere semplicemente eseguito ordini».

l’Unità 10.7.09
Un premio per i registi migranti
Film dall’Asia, dall’Africa, dall’America, dall’Europa dell’est: a Bologna un riconoscimento al cinema di qualità dal mondo
di Chiara Affronte


Ci sono film che raccontano quasi sempre storie di migranti, perché dai registi migranti sono fatti. A Bologna la Cineteca, un’associazione creata ad hoc – Officina Cinema Sud-est - e un premio di recente costituzione – il premio Gianandrea Mutti - si occupano di questo cinema. E stasera, nello scenario suggestivo del grande schermo sul Crescentone di piazza Maggiore, il regista Fatih Akin consegnerà, a uno di quattro finalisti, il premio che dal 2008 cerca di sostenere questi autori e le loro opere.
Vengono dall’Asia, dall’Africa, dal centro dal Sud America, dall’Europa dell’Est, dall’Iran i cineasti che l’associazione bolognese Officina Cinema Sud-est sta facendo emergere dall’ombra. «Stiamo scoprendo registi e opere di grande valore che altrimenti sarebbero rimasti sconosciuti», spiega la presidente dell’associazione Giulia Grassili. Questo perché la maggior parte di questi autori, essendo residente in Italia ma non avendo acquisito la cittadinanza, non riesce ad accedere ai finanziamenti – seppur scarsi – destinati al cinema emergente. E spesso neanche a quelli dei loro paesi d’origine, per lo stesso motivo. È una vita a metà la loro, sia umanamente che professionalmente, vissuta in bilico e spesso nell’ombra tra la terra d’origine e l’Italia. Ed è anche per questo che spesso le loro sono storie di migrazione. Come era successo, nella prima edizione del premio (questa è la seconda) al film del marocchino Mohamed Zineddaine Ti ricordi di Adil?: racconto di un giovane il cui sogno è lasciare il Marocco per raggiungere il fratello in Italia, a Bologna. Lì si troverà aggrovigliato nelle trame di due mondi lontani e vicini, destinati a convivere seppur con difficoltà: Adil vivrà due vite parallele, come a tanti migranti accade.
Il premio adesso è intitolato a Gianandrea Mutti, figura nota nel mondo del cinema, collaboratore per lungo tempo della Bim distribuzione, scomparso prematuramente lo scorso agosto. Tre mesi fa gli amici si sono riuniti in un’associazione per ricordare lui e la sua passione per il cinema, racconta Laura Traversi, e hanno deciso, come primo passo, di sostenere il cinema migrante di qualità. In poco tempo hanno raccolto 15mila euro: «Una cifra – spiega Grassili – che in alcuni casi può anche coprire l’intero costo del film, se si tratta di un’opera a basso budget, ma che comunque è significativa per emergere e per trovare altri finanziatori». Sono quattro, degli otto candidati, gli autori finalisti e stasera verrà decretato il vincitore a cui consegnerà il premio Fatih Akin, prima della proiezione in piazza del suo film La sposa turca, Orso d’oro a Berlino nel 2004. Mohsen Melliti (già autore di Io, l’altro con Raul Bova), una vita tra la Tunisia e Roma, partecipa con la sceneggiatura de I nemici, il giornalista, musicista e cineasta Reda Zine, che vive tra Bologna, Casablanca e Parigi, presenta un documentario su Malik Farakhan, attivista afroamericano e bodyguard dei Public Enemy; Kivanc Szeser, che vive tra Bologna e la Turchia, partecipa con I figli di Turabdin sugli Assiriani in Turchia; Fred Kudjo Kuwornu, attore e regista bolognese di origine africana (ha lavorato a Miracolo a Sant’Anna con Spike Lee e da questa esperienza è nato il documentario Inside Buffalo) ha presentato un progetto sul tema del diritto di cittadinanza.

Corriere della Sera 10.7.09
Eretici «La vocazione minoritaria», libro intervista di Goffredo Fofi con Oreste Pivetta, riapre il dibattito sulla funzione degli intellettuali
Maestri del pensiero scomodo
Da Albert Camus a George Orwell, gli scomunicati dalla sinistra ortodossa
di Pierluigi Battista


La lezione dei Camus, degli Orwell e delle Arendt, al contrario degli algidi e imperturbabili «erasmiani» di cui l’ul­timo Ralph Dahrendorf ha tessuto un vivido elogio, sta proprio in questo ca­rattere pugnace della loro militanza in­tellettuale. Persero, ma non si piegaro­no. Ricordarli oggi è un omaggio ai no­bili protagonisti di una sconfitta che ebbero ragione anche quando era più facile stare dalla parte del torto.

Tra i maestri di cui bisognereb­be riprendere la lezione, scri­ve Goffredo Fofi concludendo La vocazione minoritaria cura­ta da Oreste Pivetta (Laterza), si segna­lano «anche Albert Camus e Simone Weil, George Orwell e Nicola Chiaro­monte, Paul Goodman e una certa Han­nah Arendt». Ripetiamoli ancora: Ca­mus, Weil, Orwell, Chiaromonte, Goo­dman, Arendt. Sono in gran parte gli stessi nomi che ricorrono con una cer­ta frequenza anche nei libri scritti o fat­ti scrivere da intellettuali che più o me­no, anche con meno anni alle spalle, hanno incrociato lo stesso percorso po­litico- intellettuale di Fofi. Più o meno sono di sinistra. Più o meno sono scon­tenti e delusi dalla tradizione «maggio­ritaria » della sinistra. Più o meno han­no preso a coltivare quel piccolo ma nutrito Pantheon di maestri che seppe­ro reggere un destino di «minoranza» quando era molto difficile essere «mi­noritari ». Perché i «maggioritari» era­no ferocemente conformisti, intolle­ranti, refrattari a ogni dubbio, guardia­ni dell’ortodossia e dell’ordine, titolari di un potere di scomunica che prevede­va l’isolamento e l’ostracismo del reo. I «minoritari» non hanno avuto la vita facile. L’hanno avuta difficilissima.
Alfonso Berardinelli, curatore di una collana di saggistica dell’editore Scheiwiller, ha voluto tradurre in Italia il ritratto di George Orwell scritto da Christopher Hitchens. Filippo La Porta ha incluso tra i suoi «maestri irregola­ri » Camus e Chiaromonte, Simone Weil e Orwell. Vittorio Giacopini ha ri­proposto gli scritti politici di Camus. Francesco M. Cataluccio si è impegna­to nella diffusione delle opere di Gu­staw Herling, che collaborò lungamen­te con la rivista «Tempo Presente» di Chiaromonte e Silone. Hannah Aren­dt, che pure ha rappresentato una figu­ra poliedrica e sfaccettata, viene sem­pre più spesso ricordata per il suo pen­siero originale, per le sue battaglie con­dotte in solitudine, per la sfrontatezza con cui affrontò temi destinati a met­terla in urto con il suo milieu intellet­tuale di appartenenza. Tutte personali­tà, quelle rilette da Fofi, Berardinelli, La Porta, Giacopini e Cataluccio, che hanno messo l’umanesimo, la ripulsa del terrore rivoluzionario, l’attenzione ai mezzi con cui perseguire anche i fi­ni più generosi, al centro della loro ela­borazione culturale. Erano i campioni di un pensiero di sinistra antitotalita­ria che ha combattuto il totalitarismo quando era al suo apogeo. E proprio perché antitotalitari furono anche, e non si capisce se la parola susciti in Fo­fi, Berardinelli, La Porta, Giacopini e Cataluccio un certo fastidio e una persi­stente irritazione (forse in Fofi sì, negli altri quattro è più improbabile), fiera­mente anticomunisti. Nel nome degli stessi valori che li portarono ad essere antifascisti e nemici di ogni forma tota­litaria.
Chissà cosa sarebbe stata la sinistra se avesse dato retta a quegli irregolari «minoritari». Camus aveva offerto con L’uomo in rivolta una radiografia della malattia totalitaria che stava divoran­do il comunismo, e pervertendo a tal punto gli ideali originari di rivolta e di giustizia da creare un numero elevatis­simo di vittime da sacrificare sull’alta­re del nuovo mondo. Ma, trascinata da Sartre, la sinistra «maggioritaria» non volle dargli ascolto e anzi ne fece il ber­saglio di una terrificante campagna di denigrazione. Camus era guidato da una logica molto semplice: i campi di concentramento e di sterminio sono sempre un male, chiunque abbia sroto­lato il filo spinato, qualunque sia il co­lore e la bandiera dei carnefici. Un principio semplice, che rimase inascol­tato, essendo maggioritario il princi­pio secondo cui i lager allestiti in no­me del bene non meritano indignazio­ne e del Gulag è meglio tacere per non scoraggiare il morale della classe ope­raia occidentale. Una partita perduta. Come quella di Orwell, che stentò addi­rittura a trovare editori che pubblicas­sero il suo straordinario trittico antito­talitario, composto da Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 
1984. Come quella di Nicola Chiaro­monte, che dovette chiudere la sua rivi­sta per mancanza di fondi e che aveva descritto con precisione e senza indul­genza il «tempo della malafede» in cui era immersa la maggioranza degli in­tellettuali che non volle vedere gli orro­ri del totalitarismo comunista. Come quella della Arendt, le cui Origini del totalitarismo, scritte alla fine degli an­ni Quaranta, dovettero aspettare due o tre decenni prima di essere tradotte in Italia e in Francia, trincee dell’intelli­ghentsia filocomunista («communisti­sant », come la definiva Raymond Aron).
Erano intellettuali che non nascon­devano le cose ignorate dalla cecità ide­ologica dominante. E vissero la loro «vocazione minoritaria» con spirito combattivo e persino temerario. Se c’è un pericolo nella rilettura che Fofi, Be­rardinelli e gli altri ne danno è la mes­sa tra parentesi del carattere conflittua­le del loro lavoro intellettuale. Fino al punto di uscire dai ranghi in cui avreb­bero potuto condurre una vita decente­mente confortevole anziché affrontare scomuniche e diffamazioni. Simone Weil vide le atrocità che anche la parte «giusta» stava commettendo nella guerra di Spagna (come Georges Ber­nanos dalla parte opposta) e non esitò a denunciarle fino al punto di rompere con il proprio fronte. Come Orwell nel­la Catalogna di sinistra martirizzata dai sicari di Stalin (e diversamente da Hemingway, che inviava in America re­portages ridicolmente enfatici e mon­chi). Camus non rinunciò a mettere sullo stesso piano la Spagna di Franco e le «democrazie popolari» dei proces­si farsa Rajk e Slansky. La Arendt attirò su di sé l’ira della cultura ebraica per il suo resoconto del processo Eichmann: ma non fece atti di contrizione. Chiaro­monte non edulcorò i suoi giudizi sprezzanti per i chierici che avevano tradito la loro missione di verità (a co­minciare dallo stesso Julien Benda, che del «tradimento dei chierici» fece un bersaglio salvo tradire l’intelligenza e la decenza giurando sull’assoluta «correttezza» dei processi di Mosca ba­sati su confessioni estorte con le tortu­re più spaventose). Orwell non si rasse­gnò all’idea di interrompere la sua bat­taglia contro la sinistra che non sapeva essere «antitotalitaria», e dunque ne­cessariamente antifascista e anticomu­nista insieme. Tutti «minoritari», cer­tamente. Ma agguerriti, testardi, con­vinti che valesse la pena sostenere le buone ragioni di una sinistra «minori­taria », liberata dalla schiavitù della menzogna e dell’ipocrisia.

Repubblica 10.7.09
Incontro con il regista che prepara il suo nuovo film, "Habemus papam", in cui si ritaglia la parte dello psicanalista, e due documentari: sul Pci e sull´informazione
"Pubblico svegliati, il cinema muore"
intervista a Nanni Moretti di Paolo D’Agostini


Si è abbassata la soglia dello stupore su una catastrofe etica, istituzionale umana, "culturale"
In questi anni la sinistra ha avuto paura di tutto. È stata prigioniera di personalismi senza personalità

«Anzitutto il titolo è Habemus papam. Commedia ma non solo. È la storia di un papa depresso. Sto ancora finendo la sceneggiatura. Con Federica Pontremoli e Francesco Piccolo, come per Il Caimano». L´imprevedibile disponibilità di Nanni Moretti nasce dal cortocircuito tra due poli della sua attenzione di questi giorni. La rassegna "Bimbi belli" che egli dedica, con dibattito ogni sera nella sua Arena Sacher, alle opere prime italiane della stagione. E il G8 in corso a L´Aquila. Inizia con qualche anticipazione sul film che si avvia a realizzare. Abbondante e generosa.
Un papa che non vuole fare il papa: è così?
«Dobbiamo proprio dirlo? Inizia con la morte di un papa e quindi con il Conclave».
Commedia come (quasi) sempre nei suoi film, o di più?
«Il film cercherà un equilibrio tra realismo di ambientazione, sentimento doloroso, e improvvisi scarti verso la leggerezza. Non è una satira. Racconta di un uomo che sembra non farcela».
Che non è lei?
«No. E non so ancora chi sarà. Io faccio uno psicoanalista che incontra il papa».
Disse mesi fa di aver avuto difficoltà a trovare un nuovo soggetto, per paura di fare un film che comunicasse soltanto pessimismo. Ora ci è riuscito?
«Penso di sì. Se in questo momento avessi messo in scena ambienti e personaggi più vicini a me, la storia sarebbe stata cupa e basta. Comincerò le riprese tra qualche mese. Ma questo non è il mio unico progetto. Sto accumulando materiale di repertorio televisivo che poi monterò. Per raccontare le oscenità politiche e giornalistiche a cui ci siamo abituati, o di cui non ci siamo accorti. Si chiamerà È successo in Italia. È tanto che dico "bisognerebbe farlo". Ho iniziato ad archiviare trasmissioni e telegiornali. È una cosa che tocca fare e la si fa».
Quanto indietro? Dall´inizio della vita politica di Berlusconi?
«Pressappoco. La soglia del nostro stupore e della nostra reazione nei confronti di una catastrofe etica, istituzionale, umana, "culturale", si è abbassata sempre di più, sempre di più... fino a scomparire sottoterra. Fino a considerare normale un orrendo spettacolo, che in un paese democratico tutto è tranne che normale. Con questo lavoro non voglio convincere nessuno, voglio semplicemente ricordare che questo schifo, di cui fa parte anche il conformismo e il servilismo di tanti giornalisti, è successo davvero. Da 15 anni 60 milioni di italiani sono ostaggio degli interessi di una sola persona. Un´umiliazione impensabile fino a poco tempo fa. Da parte della sinistra c´è stata un´incapacità totale di reagire e affermare la propria identità. Si è fatta aggredire e sbeffeggiare. È arretrata in continuazione, ha adottato luoghi comuni come quello che non bisogna demonizzare Berlusconi per non spaventare i moderati. Su certe spaventose posizioni e leggi volute dalla Lega da sempre hanno avuto parole più nette alcuni settori della Chiesa. Il pragmatismo della sinistra la porta addirittura a corteggiare e a ipotizzare alleanze con la Lega. E invece no, sono portatori di disvalori, punto e basta. In questi anni la sinistra ha avuto paura di tutto. È stata prigioniera di personalismi senza personalità. Senza dimenticare lo slogan penoso della destra e di molti giornalisti secondo il quale il conflitto di interessi non interessa agli italiani, dato che la maggioranza ha votato Berlusconi. C´è un piccolo dettaglio: interessa alla democrazia. Spero solo che, dopo gli ultimi avvenimenti, almeno un risultato sia ormai acquisito: il tramonto dell´ipotesi che un tipo che si considera al di sopra della legge possa aspirare al Quirinale».
Non tutti i giornali si sono comportati come lei dice.
«In quello che sta facendo Repubblica c´è finalmente un´idea di giornalismo. Non si può continuare ad accettare, come pugili suonati, la prevedibile sgradevolezza e violenza dei giornali di destra. Certo, avrei preferito che altre dieci, venti, trenta domande fossero state poste sui suoi rapporti con la mafia e con Dell´Utri, su Previti che ha corrotto la magistratura per conto di Berlusconi, sull´avvocato Mills, sull´incerta provenienza dei soldi negli anni 70. Molti anni fa si è preso tre reti televisive. Poi è stata fatta una legge apposta per lui. Da quel momento avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. E così è stato».
Ha anche un altro progetto, giusto?
«Insieme ad altri registi. Voglio produrre una storia del Pci. Senza finanziamenti tv, per ora. Non voglio perdermi nell´attesa: ti rispondono che siamo in campagna elettorale, poi bisogna aspettare le elezioni, poi c´è il rinnovo del consiglio di amministrazione, poi altre elezioni. Intanto lo produco, poi mi auguro che qualcuno lo compri. Saranno molte ore: le elezioni del ´48, lo stalinismo, l´espulsione del gruppo del Manifesto... Interviste a chi nel Pci c´è stato. Non una celebrazione acritica, ma mi fa piacere ricordare soprattutto a loro, a quelli che sono stati comunisti, che questa storia c´è veramente stata. Anche perché chi ricorda oggi il Pci è soprattutto chi non è stato comunista: Bocca, Scalfari. Quel pezzo di paese c´è stato».
Testimonianze di militanti raccolte in giro per l´Italia?
«Persone che hanno qualcosa da raccontarci. Che non parlino con il senno di poi, che siano oneste e autentiche tornando a quei momenti, a quegli errori, a quelle lotte».
C´è molto allarme per la pesante decurtazione dei fondi pubblici destinati al cinema.
«So e capisco tutto. Però c´è anche una responsabilità del pubblico, per il quale il cinema non è più centrale. Tutti stiamo sottovalutando il momento di difficoltà delle sale, che ora chiuderanno una ad una. Perché le persone sono disposte a spendere qualsiasi cifra per mangiare in un ristorante dove devono urlare per farsi sentire. O per una partita che forse finirà zero a zero. Ma il cinema, la cosa che è aumentata di meno negli ultimi quindici anni, quello no: costa troppo. Per non parlare dell´abitudine orrenda di scaricare illegalmente da Internet. E basta con il luogo comune di premettere sempre: "io non do giudizi". Io sì, li do. Non mi piace quel modo di vivere lì! Non mi piace che uno stia con il culo appiccicato alla sedia e con la sedia appiccicata al computer. Mi piace più il mio, di modo di vivere. E vedere i film in un cinema, in mezzo agli altri. Tra poco i cinema chiuderanno tutti. E non è colpa della politica o delle istituzioni, ma delle persone che hanno la possibilità di scegliere di fare una cosa e un´altra. Anche tra noi, registi o scrittori, c´è chi potrebbe scegliere ma non lo fa. Io, da quando fondai la Sacher con Angelo Barbagallo, ho escluso la possibilità di farmi finanziare i film dal gruppo Berlusconi. Ho cercato di essere coerente. Una cosa imparata da mio padre, che era liberale».