sabato 9 marzo 2013

l’Unità 9.3.13
Aborto, Ru486 e obiezione
Le proposte della Laiga a convegno
di Luciana Cimino


ROMA «Non difendiamo il diritto all’aborto ma la salute riproduttiva della donna». Un tema che per decenni l’Italia «ha rifiutato di affrontare». Anna Pompili, ginecologa dell’università La Sapienza di Roma è una degli esperti intervenuti alla due giorni di convegno di Laiga, l’associazione degli operatori sanitari impegnati per l’applicazione della legge 194. Il secondo appuntamento nazionale per i ginecologi non obiettori, termine che rifiutano in modo deciso. «Con questa espressione vengono indicati gli operatori che prendono in prima persona un impegno di cura che altri, gli “obiettori”, rifiutano di assumersi; una definizione fuorviante che parte dall’assunto che l’obiezione di coscienza sia la normalità, e che ipocritamente ignora l’uso strumentale che se ne fa». Medici italiani e europei denunciano come quasi ovunque in Italia l’applicazione della legge sia limitata «o ostacolata apertamente da posizioni etiche e politiche dominanti che ignorano con arroganza le evidenze scientifiche e le esperienze fatte negli altri paesi». Tante le problematiche, la più urgente le percentuali ormai altissime di personale sanitario che si rifiuta di effettuare l’interruzione di gravidanza che diventano addirittura allarmanti nel caso di aborti terapeutici, cioè quelli dopo il 90° giorno dovuti, come dice la legge, a rischi gravi per la salute della donna. Nel Lazio si tratta del 91.3%. Il peso degli obiettori si sente di più nel caso di aborti terapeutici che necessitano di un periodo di degenza in ospedale e non possono quindi essere effettuati in ambulatorio. Mentre tutti però, anche gli ospedali cattolici, possono fare la diagnosi prenatale. «Guadagnano con la diagnosi prenatale nota Pompili ma poi privano le donne della possibilità di scelta». Poi c’è la questione RU 486, il cui uso «è scoraggiato a seguito dell’idea che un accesso meno travagliato all’aborto faciliti la decisione di abortire». L’Italia è l’unico paese che richiede il ricovero per la RU486. «Il Consiglio superiore di Sanità ha deciso così contro qualunque evidenza scientifica con l’assurdità che facendo un aborto chirurgico la donna in 4 ore è a casa, con quello medico viene ricoverata 3 giorni: è una follia che ha anche dei costi alti», dice ancora Pompili. Durante il convegno questi temi saranno declinati in proposte che gli operatori di Laiga intendono portare sul tavolo del prossimo Ministro della Salute.

l’Unità 9.3.13
L’apertura di Bersani: dialogo sulle presidenze delle Camere
Il leader Pd è pronto a cedere anche la guida delle commissioni
Se il M5S rifiuta la presidenza della Camera, l’ipotesi è Franceschini a Montecitorio e Mauro (Scelta civica) al Senato
di Simone Collini


Bersani ha deciso di accelerare e ha convocato per dopodomani a Roma i 408 parlamentari del Pd. L’appuntamento è al cinema Capranica, a pochi passi da Montecitorio, e i due punti all’ordine del giorno sono il «governo di cambiamento» e gli incarichi istituzionali. Il modo in cui saranno riempite le due caselle della presidenza di Camera e Senato è infatti tutt’altro che ininfluente rispetto al tentativo di Bersani di incassare la fiducia in entrambi i rami del Parlamento e arrivare a Palazzo Chigi.
Il leader del Pd, lunedì, spiegherà ai neoeletti del suo partito perché è opportuno rimanere «aperti a soluzioni di corresponsabilità istituzionale». Perché, cioè, sia meglio per il Pd non occupare quelle due caselle, proponendo invece alle altre forze parlamentari di assumere l’incarico ai vertici delle Assemblee. Un ragionamento che, stando a quanto anticipato nei giorni scorsi dal segretario ai dirigenti democratici, dovrebbe riguardare non soltanto i più alti scranni di Montecitorio e Palazzo Madama, ma anche la presidenza di diverse commissioni parlamentari.
In pratica Bersani non esclude la possibilità di votare per la seconda e la terza carica dello Stato personalità di altri schieramenti. E la disponibilità non riguarda solo Scelta civica, ma anche al Movimento 5 Stelle e pure al Pdl. L’obiettivo non è solo quello di dimostrare che il Pd non intende «occupare militarmente tutte le istituzioni», per dirla con le parole del senatore leghista Roberto Calderoli (che evidentemente era all’oscuro della strategia bersaniana e ieri ha chiesto al Pd di «discutere con tutti gli altri partiti delle scelte per le cariche istituzionali») ma anche quello di convincere le altre forze parlamentari, a cominciare dai Cinquestelle, ad «assumersi le proprie responsabilità». Sul fronte istituzionale, certo. Ma la scelta è propedeutica alla formazione del «governo di cambiamento», per la cui nascita è necessaria quanto meno una non-sfiducia di altre forze parlamentari.
Contatti tra esponenti del Pd e di M5S già ci sono stati, ma da parte dei secondi non è arrivata finora la disponibilità ad accettare la proposta. Un segnale di apertura sembra invece arrivato riguardo alle presidenze di commissioni, che il Pd ha messo sul piatto con le sole eccezioni della Affari costituzionali e della Bilancio, cioè i due organismi che devono esprimere un parere su tutti i progetti di legge e dunque possono essere usati in chiave ostruzionistica. «Abbiamo un atteggiamento aperto nei confronti di tutte le forze presenti in Parlamento», spiega il vicesegretario del Pd Enrico Letta. «A partire dalle presidenze delle commissioni e dei presidenti delle assemblee c’è bisogno di uno sguardo aperto e noi ci muoviamo con una logica di dialogo e di collaborazione. Ci aspettiamo che ciascuno si assuma le sue responsabilità, a partire dall’M5S che è in Parlamento e deve comportarsi come parte di questa istituzione».
Se tuttavia dovesse permanere l’indisponibilità dei Cinquestelle ad assumere l’incarico al vertice di Montecitorio, lo schema inevitabilmente cambierebbe per il Pd. A fronte di un rifiuto del M5S salterebbe infatti il più lineare degli schemi di Bersani: cioè l’attribuzione delle presidenze di Camera e Senato al centrodestra e ai grillini. La strategia che sta perseguendo il leader del Pd è infatti basata sulla distinzione tra il piano istituzionale caratterizzato da «confronto e corresponsabilità» e quello governativo, dove il centrosinistra si assumerebbe da solo il compito di costruire un «governo di cambiamento» senza maggioranza precostituita e aperto al confronto parlamentare legge per legge. Ma ciò che sarebbe impossibile per Bersani è eleggere alla presidenza della Camera un esponente del Pd e a quella del Senato uno del Pdl: questo schema farebbe infatti emergere un quadro politico radicalmente diverso da quello a cui sta lavorando Bersani.
Per questo, di fronte al rifiuto del M5S, il Pd sarebbe costretto a passare al piano B: presidenza della Camera al Pd il nome più forte, in questa prospettiva, è quello di Dario Franceschini e quella del Senato a un esponente di Scelta civica. È difficile sapere se Bersani e Mario Monti abbiano affrontato la questione nell’incontro a Palazzo Chigi di venerdì. Non è però un mistero che il Pd intenda costruire comunque un rapporto positivo con il Professore, sia nell’ottica del tentativo di far nascere il «governo di cambiamento» (sarà importante, anche se non sufficiente, poter contare sul voto favorevole dei 22 senatori di Scelta civica) sia nel caso di un impazzimento della crisi e dunque di un precipitare verso nuove elezioni. Non a caso, in più di un intervento, alla direzione Pd di mercoledì, è stata sottolineata la necessità di «allargare» il centrosinistra a Monti, in vista del voto amministrativo di maggio ma non solo.
Tra i papabili di Scelta civica, per la presidenza del Senato, c’è Mario Mauro, che vanta una lunga esperienza a Strasburgo anche come vicepresidente dell’Europarlamento, ma non è escluso che possa essere lo stesso Monti a vestire i panni della seconda carica dello Stato. È chiaro però che una simile ipotesi comporterebbe la fine dell’attuale esecutivo, che dovrebbe invece rimanere in carica per il disbrigo degli affari correnti fino all’insediamento del prossimo governo.
Rinsaldare l’asse Pd-Monti avrebbe poi un’altra importante ricaduta sul piano istituzionale. Dal 15 aprile cominciano le votazioni per il prossimo Capo dello Stato. E conti alla mano, i parlamentari del centrosinistra più quelli che fanno riferimento a Monti e i delegati regionali d’area hanno i numeri per poter raggiungere la maggioranza necessaria all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.

il Fatto 9.3.13
Bersani a Palazzo Chigi, ecco il piano democratico
Nessun governo è possibile senza il loro appoggio, per questo il segretario vuole chiedere il mandato pieno
di Antonello Caporale


Esiste il piano B, è il piano Bersani! È una pura estensione del piano A. B sta per ancora per l’uomo di Bettola che mette in gioco tutto il suo potere elettorale per schivare i dubbi del Quirinale, una crescente perturbazione nel suo partito e l’ansia che si sta impadronendo degli italiani. Bersani sa che non ha i numeri sufficienti per governare, ma sfida la doppia congiunzione astrale: l’alleato disponibile (il Pdl) è inservibile, quello possibile (Grillo) è invece indisponibile. L’unico modo per trarre profitto da questa condizione di immobilismo politico è costruire una trincea dentro al Parlamento, insediarsi malgrado tutto a Palazzo Chigi e attendere da lì l’elezione del nuovo Capo dello Stato.
È UN PIANO che utilizza il diritto e l’ingovernabilità per spuntare sull’ostilità di una vasta platea di soggetti e raccogliere - in una condizione periclitante e con modalità irrituali - il testimone da Mario Monti. È un piano, secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano, che ha una comunque sua logica e una sua strategia. Arrischiato ai limiti della temerarietà, ma dentro i confini della prassi parlamentare, e soprattutto dentro le regole che hanno sin qui governato i rapporti tra poteri. Bersani ha chiesto e ottenuto dal suo partito il voto pressoché unanime ad avanzare a Giorgio Napolitano la richiesta di ricevere l’incarico. “Incarico pieno, mi sembra chiaro”, dice Stefano Fassina. Non un mandato esplorativo o un pre incarico, ma appunto il potere di costruire un governo che possa ottenere il massimo del sostegno parlamentare. Domanda: il capo dello Stato può ridurre l’intensità di questo mandato? L’Unità ha anticipato la risposta facendo scrivere a Marco Olivetti, ordinario di diritto costituzionale a Foggia, una breve analisi intitolata “Poteri del presidente e primo governo di legislatura”. Il capo dello Stato deve dare l’incarico alla personalità che più di ogni altra ha la possibilità di ottenere la maggioranza più larga in Parlamento. Avendo blindato il Pd, che ha la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato, sul nome di Bersani, Napolitano non potrebbe discostarsene. Almeno in prima istanza. Bersani aspetta di ricevere dunque un incarico pieno e senza attendere oltre, avendo già un programma costituito nei famosi otto punti, presentarsi in Parlamento. Andrebbe a sfidare Grillo in mare aperto. Ci andrebbe dopo aver giurato davanti al Quirinale ed espresso una ristretta compagine di governo. Andrebbe prima alla Camera in ossequio alla regola che il nuovo governo si presenta nel ramo alternativo a quello in cui ha ottenuto la fiducia il precedente. Mario Monti andò al Senato il 17 novembre 2011 e quindi per Bersani c’è la Camera. E lì ottiene la fiducia. Poi va al Senato e guarda i numeri. Verosimilmente non sufficienti. Il governo è sfiduciato e dimissionario, in carica per gli affari correnti. Saranno correnti ma sono sempre affari: poltrona trasferita da largo del Nazareno a palazzo Chigi, un esecutivo ridotto ai minimi termini, nell’attesa del nuovo inquilino e per far fronte almeno agli atti urgenti di questa straordinaria crisi. Le consultazioni proseguono. Ma con un giocatore in più in campo e soprattutto un disturbatore delle manovre di Napolitano. Il quale, seguendo la Costituzione, deve individuare, malgrado lo spirare del suo mandato, una personalità che allarghi oltre Bersani la platea della maggioranza. Non uno qualunque, dunque, non un tecnico di basso profilo perciò, ma un nome forte che faccia meglio.
GIÀ SUCCESSE, scrive l’Unità: era il 1953 ed Einaudi dopo la sfiducia parlamentare a De Gasperi individuò nel deputato Pella l’uomo nuovo. E Pella riuscì dove aveva fallito il capo della Dc. Può accadere anche questa volta? Remota possibilità. Perché un Bersani in campo, premier sfiduciato sì ma vivo e vegeto, riduce il rischio per il partito di esplodere in un rosario di opzioni (leggi governissimo). Bersani, questo sarebbe il suo piano, attenderebbe da Palazzo Chigi l’arrivo del nuovo presidente della Repubblica. Lo attenderebbe con fatti, proposte, disegni di legge: un modo per stabilire sul programma un filo di minimo consenso con il Movimento Cinque Stelle. E avrebbe tempo per costruire anche insieme ai grillini la proposta del successore di Napolitano. Se gli riuscisse sarebbe un capolavoro tattico e quella sfiducia annunciata al primo tentativo si potrebbe rivelare possibile al secondo. In caso contrario il nuovo inquilino del Quirinale dovrebbe prendere atto dell’impossibilità di formare un governo e mandare tutti alle urne. Bersani concluderebbe il suo compito e manderebbe al voto un partito almeno formalmente unito, che ha fatto di tutto per scongiurare le elezioni e si è arreso solo quando la realtà non ammetteva fraintendimenti. Al voto con chi? Ma con Matteo Renzi, che avrebbe l’occasione della rivincita. E Renzi se ha una voglia, è quella di fare il premier. Al partito penserebbero altri. Tra questi il più titolato, e quasi unico in gara, sarebbe Fabrizio Barca dichiaratamente interessato alla nuova destinazione e perciò recalcitrante a proporsi come alternativa dell’oggi a Bersani.
È un piano folle? È un’idea temeraria al limite dell’avventurismo oppure l’unica scelta ragionevole in questo caos?

il Fatto 9.3.13
Totoministri
Fedelissimi e filosofi, “smacchiati” al governo
di Fabrizio d’Esposito


Nel suo duello con Giorgio Napolitano, Pier Luigi Bersani potrebbe fare una mossa per “anticipare” un governo tecnico. Ovviamente, non nel senso che vorrebbe il Quirinale, cioè l’esecutivo del Presidente. Semmai è lo stesso segretario del Pd che varerebbe un governo di minoranza senza politici dentro. È il paradosso di questa insolita e lunga crisi partorita dalle urne fatali di febbraio. Uno schema da far maturare per attrarre il Movimento 5 Stelle, ma che in realtà Bersani ha in testa dalla campagna per le primarie quando disse esplicitamente che avrebbe fatto “un governo senza manuale Cencelli ma aperto alla società”.
Altri tempi, si dirà. Certamente, ma la cura per smacchiare il Giaguaro aveva pure previsto, a cavallo tra il risultato delle primarie e l’inizio della campagna elettorale, come riempire le caselle di governo. Lo racconta Ettore Maria Colombo nella sua recentissima biografia di Bersani per gli Editori Internazionali Riuniti. Nomi su nomi. A cominciare da quelli dei fedelissimi Maurizio Migliavacca e Vasco Errani per la “macchina” di Palazzo Chigi. Poi Nichi Vendola alla Cultura, Enrico Letta allo Sviluppo Economico, Anna Finocchiaro, Piero Grasso alla Giustizia, persino il centrista Tabacci e il socialista Nencini. Più politica che società a dire il vero. In ogni caso niente D’Alema, niente Veltroni, niente Bindi. Oggi che è tutto cambiato e la scena è cupa non gioiosa, il probabile “esploratore” Bersani sta tratteggiando un profilo diverso del suo esecutivo. L’ossessione sono i grillini e il primo compito è stato quello di scavare a fondo tra i nomi degli intellettuali che firmarono a suo tempo un appello per “Bersani 2013”. Un elenco che si apre con Carlo Galli e si chiude con Salvatore Veca. Ci sono Aris Accornero e Alberto Asor Rosa, Carlo Dell’Aringa e Mi-chela Marzano. Quest’ultima, nota filosofa in quota Repubblica, viene indicata come un nome quasi sicuro della squadra che Bersani offrirà alla fiducia parlamentare, se mai Napolitano lo manderà in Parlamento. Due i punti fermi del governo, su cui il segretario del Pd sta spingendo parecchio, almeno a sentire chi parla con lui. Il primo è l’ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. Bersani lo ha strappato ai centristi per candidarlo nel Pd e il magistrato è in corsa per fare il Guardasigilli anche nell’eventualità di un governo filogrillino. Il secondo è il ministro montiano Fabrizio Barca, di schiatta comunista e vero erede secondo i suoi avversari interni del Pd della filiera tecnopolitica Amato-Bassanini. In realtà il patto con “Pier Luigi” era diverso. Bersani a Palazzo Chigi e Barca al partito. Adesso che è tutto è saltato per aria e si naviga a vista, giorno dopo giorno, il segretario del Pd lo vorrebbe a tutti i costi nella sua squadra. Del resto, per Bersani, il ministro montiano è anche un doppio pericolo. Sia per il suo presunto gradimento al M5S (governo filogrillino non a guida Bersani), sia per i suoi storici rapporti con Napolitano (governo del Presidente).
Chiuso nel suo bunker del Nazareno, la sede nazionale del Pd a Roma, con Migliavacca ed Errani (che lo seguiranno a Palazzo Chigi anche per il governo di minoranza), il mancato smacchiatore del Giaguaro avrebbe già sondato Stefano Rodotà, già indipendente di sinistra e altro nome gradito al M5S, per un ministero di rilievo. L’incognita resta l’Economia. Per quel posto circola da tempo il nome di Fabrizio Saccomanni, direttore generale di Bankitalia. La tentazione bersaniana è di proporlo comunque, in quanto riserva della Repubblica e super partes, nonché altro potenziale premier tecnico.

La Stampa 9.3.13
I democratici preparano il piano B. Alleati con Monti al voto anticipato
Ma il segretario lavora ancora a una rosa di ministri “choc” per trattare con il M5S
Le due ipotesi
Nel caso si torni alle urne a giugno il leader sarebbe Bersani, a ottobre Renzi
L’ala vicina alla Cgil è contro l’allargamento, i giovani turchi pronti a sostenere Barca
di Carlo Bertini


Da qui al 19 marzo, giorno in cui si apriranno le consultazioni al Colle, la lotteria degli scenari girerà senza sosta e nel magico mondo del Pd in particolar modo. Ma se l’attenzione è ancora rivolta alle modalità per dar vita a un governo con i voti di Grillo (Bersani sta preparando una rosa di ministri choc e offrirà ai grillini le presidenze di molte commissioni), da qualche giorno le menti sono proiettate già sui possibili assetti con cui tornare alle urne. Se il piano A di Bersani fallisse, si potrebbe anche votare a giugno forzando molto i tempi; e nel Pd circola già la data del 30, visto che molti credono che non si riuscirà a fare un governo col Pdl in nessuna forma, neanche balneare. Ma sia per un voto prima dell’estate, sia a ottobre, l’assetto potrebbe cambiare dando vita ad una nuova «coalizione dei responsabili», dal Pd a Scelta civica, unita contro populisti, antieuropei e demagoghi. Insomma, se Berlusconi scalda di nuovo i muscoli e si prepara a votare a giugno, gli altri non vogliono esser da meno.
«Se ci sarà un altro voto anticipato chiederemo a Monti di venire con noi, perché è difficile che possano riandare da soli alle urne per come sono ridotti... », svela un pezzo grosso del Pd. E nel caso di voto in autunno, questa nuova coalizione potrebbe essere capitanata da Matteo Renzi, se incoronato da nuove primarie. Sulla possibile benedizione da parte di Bersani di un piano del genere le voci divergono: c’è chi è convinto che la darebbe, senza farsi da parte fino al congresso, e chi no. I primi, che non a caso non provengono dalle file ex diessine, dicono pure che se Vendola accettasse di essere della partita bene, altrimenti bisognerà farsene una ragione perché ormai tutto va ridiscusso da capo.
Sul primo punto, quello di allargare la coalizione fino a Scelta Civica, molti big sarebbero d’accordo, ma ci sarebbe certo l’ostilità di tutta l’ala più di sinistra legata alla Cgil, convinta che il Pd abbia perso per aver dato sostegno al governo Monti. Mentre sulla premiership, qualcuno spera che Bersani si ripresenti, specie quellidella sua cerchia più ristretta ovviamente. Facendo leva sul fatto che un voto a giugno renderebbe impossibili nuove primarie per mancanza di tempo e che il sindaco di Firenze ha già fatto sapere che non intende farsi «cooptare» da nessuno. Ma l’incontro tra Renzi e Monti, la diplomazia parallela già avviata con molteplici contatti, la ritrovata esposizione mediatica del rottamatore e la convinzione diffusa che forse solo lui potrebbe giocarsela con Grillo e Berlusconi, giocano a suo favore. Anche perché difficilmente Monti accetterebbe di far parte di una coalizione elettorale a guida Bersani. Ma questo assetto alletta i maggiorenti anche perché solo unendo le forze magari si potrebbero vincere quelle regioni dove si è perso e quindi strappare anche la maggioranza in Senato.
Per ora è ancora uno schema di gioco confinato nel chiuso delle stanze del Pd, dove i vari strateghi sono ben accorti a evitare di fargli prendere troppa luce, per le evidenti complicazioni interne che potrebbe suscitare in questa fase di pretattica. E dunque quando mercoledì in Direzione, Franceschini ha proposto di allargare le future alleanze fino a Scelta civica, dicendo che con loro si sarebbe preso il 40% dei voti, a tutti sono drizzate le orecchie. E pare che di questa uscita ne abbia parlato prima con lo stesso Bersani, il quale non è dato sapere se ne abbia parlato con Monti a tu per tu l’altra sera. Mentre il piano di far guidare questa nuova coalizione a Renzi - nel caso franasse ogni tentativo di formare anche un «governo del presidente» - troverebbe concordi probabilmente gli stessi Letta, Franceschini, Fioroni, Gentiloni e forse anche Veltroni. Mentre i «giovani turchi» non ne vogliono sapere di andare con Renzi alla pugna e per giunta alleati di Monti, ma neanche credono possa essere Bersani il candidato: e sono già pronti a schierarsi in nuove primarie magari dietro Fabrizio Barca. Quando sarà il momento e si dovrà votare nei gruppi parlamentari sulle decisioni da prendere, sarà l’opinione di Bersani a fare la differenza, visto che il segretario ha dalla sua la stragrande maggioranza degli eletti anche se la botta che ha preso al voto non lo metterà certo al riparo da riposizionamenti imprevisti...

Corriere 9.3.13
Bersani studia la squadra per convincere i 5 Stelle
Ma il Pd si divide sul piano B
I montiani: possibile intesa con Renzi candidato
di Maria Teresa Meli


ROMA — Nel Pd il piano A trova tutti concordi. Certo, poi c'è chi ci crede di più, chi di meno e chi non ci crede per niente, ma nessuno ostacolerà il tentativo di Bersani di formare un governo. È sul piano B che le opinioni divergono, anche in modo clamoroso. Ognuno declina la seconda lettera dell'alfabeto in modo diverso.
Il segretario, per il momento, sostiene di non avere subordinate: «Non mi rivolgerò a Grillo, ma ai suoi elettori e ai suoi parlamentari», spiega ai fedelissimi. E con questo obiettivo in testa spera di agganciare nella sua compagine governativa alcune personalità che potrebbero piacere ai «5 stelle», come Stefano Rodotà o il leader di Libertà e Giustizia Gustavo Zagrebelsky. Si vocifera addirittura di un possibile coinvolgimento del magistrato a tutto campo Raffaele Guariniello. È un'operazione dall'esito quanto mai incerto, tant'è vero che lo stesso segretario del Pd ammette che in questo caso la legislatura non durerebbe «più di due anni».
Ma una sicurezza il leader del Partito democratico ce l'ha: non farà un passo indietro per favorire assai più improbabili tentativi sempre targati Pd con Anna Finocchiaro o Rosy Bindi alla testa di un futuribile esecutivo. «Tutte cavolate», taglia corto. Il suo piano B, quindi, resta quello delle elezioni, possibilmente a giugno, il 23 o il 30. Senza cambiare la legge elettorale perché non c'è il tempo, e perché comunque qualsiasi modifica verrebbe vista dai grillini come un'operazione di palazzo per arginare il loro movimento.
Su questa linea il segretario ha il sì dei Giovani turchi, a patto, ovviamente, che sia lui stesso a ricandidarsi. Aspettare oltre, puntare a ottobre, secondo Bersani sarebbe un errore perché si finirebbe solo per incancrenire la situazione. Il leader è convinto che, se si tornasse alle urne, gli elettori del centrosinistra che hanno votato Grillo opterebbero per la governabilità. E in questo senso immagina una coalizione che unisca Sel e Monti. Nessun accordo post elettorale: non c'è più tempo, non è più aria, meglio presentarsi al Paese con una grande coalizione che vuole sconfiggere «i populisti e gli antieuropeisti», ossia Berlusconi e Grillo.
Monti, a dire il vero, non ha detto né «no» né «sì» nell'incontro dell'altro ieri con Bersani. Ma dal suo entourage è filtrata la notizia che il premier potrebbe accettare uno schema del genere solo se a presiedere questa coalizione fosse Matteo Renzi. E su questo punto nel Pd sembrano essere in molti quelli d'accordo con Monti. Gli ex margheritini Letta, Franceschini e Fioroni, per esempio, ma dicono che anche Veltroni non respingerebbe un'ipotesi del genere. In questa fase, però, è difficile per tutti loro uscire allo scoperto, visto che ufficialmente è ancora in piedi il piano A.
Soprattutto, nessuno di questi dirigenti vuole pugnalare il segretario alle spalle. Perciò immaginano un percorso un po' più lungo, condiviso con il leader: elezioni a ottobre, anche perché a giugno rischia di essere troppo presto per Renzi, con Bersani segretario fino alla scadenza naturale.
Elezioni e poi congresso, insomma, perché nessuno vuole fare fuori il leader, a cui, peraltro, secondo questo schema, verrebbe data l'ultima parola sul suo possibile successore. Magari quel Fabrizio Barca che rassicurerebbe l'ala sinistra del partito.
Non si tratta di fantapolitica, tant'è vero che un uomo lungimirante come Arturo Parisi mette già in guardia Renzi dai rischi di questa operazione: «Se si facesse cooptare subirebbe la sconfitta più grave, quella definitiva». Ma è un consiglio di cui il sindaco di Firenze non sembra aver bisogno: «Il mio messaggio è uno e uno solo: io da quelli lì non mi faccio cooptare».
In sostanza Renzi non intende fare da scialuppa di salvataggio ai maggiorenti del Pd che vedono la terra franare sotto i piedi. E a dire il vero anche l'altro protagonista di questi giochi, ossia Barca, non ha mai detto di sì: anche lui preferisce tenersi lontano dai contorcimenti del Pd, tant'è vero che preferisce non prendere ancora nemmeno la tessera di quel partito. Ma le future evoluzioni della politica italiana potrebbero imporre un cambiamento di rotta sia al ministro per la Coesione territoriale che al sindaco di Firenze.

Repubblica 9.3.13
Bersani gioca l’ultima carta due ambasciatori del Pd da lunedì tratteranno con Grillo
Il patto con i montiani. Spunta Lanzillotta per il Senato
di Goffredo De Marchis


ROMA — Due “ambasciatori” che verranno scelti in queste ore e ufficializzati lunedì, alla prima assemblea degli eletti del Pd. Pier Luigi Bersani ha deciso di anticipare i tempi con Beppe Grillo. Non aspetterà l’apertura delle Camere fissata per venerdì. Già all’inizio della prossima settimana il Partito democratico avrà una delegazione “autorizzata” che chiederà un incontro a tutti i gruppi parlamentari prima della seduta inaugurale. L’obiettivo principale naturalmente sono i 5stelle che hanno già i capigruppo designati: Roberta Lombardi (Camera) e Vito Crimi (Senato). Sul tavolo c’è la formazione del governo. E un passaggio preliminare, uno snodo-chiave per capire il futuro della legislatura: la presidenza delle Camere. «Proponiamo al Movimento e agli altri un confronto aperto per arrivare ad assetti istituzionali plurali — spiega il segretario del Pd
— . In parole povere, non vogliamo lottizzare il Parlamento, non vogliamo trasformarlo in un piano regolatore. Ci si confronta e si decide assieme».
I nomi degli emissari (o kamikaze?) non sono ancora noti, una potrebbe essere la neosenatrice Laura Puppato. C’è una sola certezza: non toccherà ai capigruppo uscenti Dario Franceschini e Anna Finocchiaro. Entrambi in corsa per le presidenze delle Camere, non sono i più adatti a trattare su se stessi. La difficoltà del dialogo con il comico lascia pensare che i prescelti verranno pescati tra i fedelissimi bersaniani e tra i più convinti dell’intesa con 5stelle. Ma lo screening del segretario è appena partito. Sarà questo il passaggio decisivo? Non è detto, ma il Pd ha deciso di seguire la strada indicata da Grillo: eletti che parlano con eletti, Parlamento sovrano, leader in disparte. Almeno ufficialmente.
In attesa delle “consultazioni” tra parlamentari, il gioco delle presidenze è in fase di stallo. Questo non vuol dire che partiti e protagonisti stiano fermi, tutt’altro. Ma le variabili sono veramente troppe per mettere un punto fermo. Chi, dentro al Pd, non crede al successo dell’accordo con Grillo, scommette su una soluzione: Franceschini a Montecitorio e Mario Monti a Palazzo Madama. Il primo ha sulla carta 340 voti e l’elezione in tasca. Il secondo potrebbe vincere al ballottaggio. Se n’è parlato in maniera superficiale anche giovedì durante il colloquio tra Bersani e il Professore. Ma c’è uno scoglio gigantesco. Con una crisi lunga, il premier deve rimanere a Palazzo Chigi, non può trasferirsi in altri palazzi. Il cambio è possibile. In caso di elezione al Senato, il suo posto verrebbe preso dal ministro dei Rapporti col Parlamento Piero Giarda. Ma Giorgio Napolitano accetterebbe questa confusione?
Dopo l’incontro di Palazzo Chigi, che non ha avuto intoppi, Pd e Scelta civica concorderanno passo per passo le scelte future.
Compresa quella più lontana ma fondamentale dell’elezione del nuovo capo dello Stato. Incarico per il quale Romano Prodi rimane tra i favoriti anche grazie a un ottimo rapporto, non sbandierato, con il mondo grillino. Significa Gianroberto Casaleggio, il fondatore, ma anche l’informazione vicina ai 5stelle. Dai blog ai giornali.
Se per Monti ci fosse l’ostacolo del governo, i centristi non hanno molte altre carte da giocare a Palazzo Madama. Casini non è della partita visto il pessimo risultato elettorale. Rimangono Pietro Ichino e Linda Lanzillotta. La presidenza del Senato s’intreccia a una lotta interna piuttosto feroce dentro Scelta civica: seguaci di Italia Futura contro montiani e fedelissimi di Andrea Riccardi. I montezemoliani rivendicano il grosso dei voti e quindi delle poltrone. Lanzillotta non è dei loro ma si fa notare quanto sia vicina a Montezemolo.
Questo scenario può cambiare completamente se si trova un’intesa coi 5stelle. Anna Finocchiaro diventerebbe la favorita per Palazzo Madama (con la variabile Piero Grasso) e un grillino andrebbe a Montecitorio. A Largo del Nazareno sono sempre ottimisti. «Grillo non vuole andare a votare e il suo sogno è sparare su un governo Pd-Pdl — sottolineano i bersaniani — . Bene, mercoledì, in direzione, gli abbiamo fatto capire che non succederà mai. Adesso deve cambiare strategia». Ma finora non sono arrivati segnali di ripensamento dal comico.

Repubblica 9.3.13
Il premier pensa ad un soggetto politico alleato con il Partito Democratico alle prossime elezioni
L’operazione-Margherita di Monti “Un nuovo partito con ex Ppi e renziani”
di Francesco Bei


ROMA — Una nuova Margherita, alleata con il Pd in un rapporto stabile, nel segno di una coalizione pro-Europa «contro tutti i populismi ». È questo il progetto a cui stanno lavorando Monti, Riccardi e gli altri soci fondatori di Scelta Civica. Un movimento aperto ai moderati ex popolari e renziani interessati all’operazione.
Il primo a capire l’errore commesso, all’indomani del risultato elettorale, è stato Pier Ferdinando Casini. «Non saremmo dovuti andare da soli - ha ammesso in una telefonata con un alto dirigente del Pd - se ci fossimo alleati a quest’ora saremmo già insieme al governo». Discorsi simili si sentono anche al largo del Nazareno, dove Bersani ha imboccato uno strettissimo sentiero alla rincorsa dei cinquestelle. Insomma, nessuno ha voglia di rivedere un’altra volta lo stesso film. Soprattutto di fronte ai sondaggi che danno il M5S ancora in crescita.
La prospettiva di un’alleanza, per ora coltivata nelle riunioni a porte chiuse, potrebbe diventare molto concreta se fallisse il tentativo Bersani e il capo dello Stato (quello nuovo) fosse costretto a sciogliere le Camere. A quel punto l’accelerazione sarebbe nei fatti. Un primo banco di prova per sperimentare l’intesa saranno le amministrative di maggio, che interessano comuni importanti come Roma, Catania, Vicenza e Brescia. «Scelta Civica — suggerisce Beppe Fioroni — deve presentarsi da subito insieme a noi. Non possiamo subire veti da chi, a urne chiuse, ha dimostrato di non avere consensi». Il riferimento è ovviamente a Nichi Vendola, che anche dentro Scelta Civica è visto come un ostacolo oggettivo. E tuttavia il 3,2% raccolto da Sel ridimensiona anche l’eventuale potere d’interdizione del governatore della Puglia. Senza contare l’impegno a formare gruppi unici Pd-Sel-Tabacci, primo passo verso una possibile confluenza in una stessa formazione politica.
Insomma, le cose sono in rapido movimento e proprio la prospettiva elettorale funziona da acceleratore verso un nuovo centrosinistra Pd-Monti. «Se si torna a votare subito — ragiona Marco Follini — l’alleanza fra il centro e il Pd è pacifica».
Oltre alla data delle elezioni anticipate c’è anche la variabile Renzi. Perché se il Pd si affidasse in campagna elettorale al sindaco di Firenze, anche l’intesa con Scelta Civica sarebbe cosa fatta. Renzi e Monti ne hanno discusso nel loro incontro a palazzo Chigi. Anzi il premier si sarebbe spinto fino a offrire al sindaco rottamatore la leadership del suo movimento. Ma Renzi - nonostante ex popolari vadano dicendo che il Pd «non è più scalabile» - ha rifiutato l’offerta di Monti. Deciso a giocarsi la sua partita dall’interno.
In ogni caso alcuni importanti indizi rivelano quanto sia avanzata la discussione tra i due. Monti in conferenza stampa ha eluso la curiosità dei giornalisti sull’alleanza con Renzi in maniera nemmeno troppo ermetica: «Domanda interessante ma prematura ». Poi ieri sul Foglio uno degli ideologi del movimento, l’ex Pd Pietro Ichino, è uscito allo scoperto: «Se la candidatura di Renzi si accompagnasse a un programma
simile a quello con cui Matteo si è presentato alle primarie, potrebbe essere lui il nome giusto per far convergere il percorso di Scelta civica con quello del Pd». Sommando il 30 per cento della coalizione di sinistra al 10 per cento dei centristi, è evidente che non ci sarebbe storia in nessuna regione e il Senato sarebbe conquistato, a dispetto della permanenza del Porcellum.
Prima delle amministrative di maggio c’è comunque un altro laboratorio per rendere concreta l’alleanza fra Pd e centristi: l’elezione dei presidenti di Camera e Senato e poi del successore di Napolitano. «Monti e Casini — spiega l’Udc Enzo Carra — si rendono conto che i loro 60 parlamentari, sommati a quelli del centrosinistra, costituiscono già una maggioranza. Anche per il Quirinale».
Carra vede per il Colle tre candidati, tutti funzionali al disegno: Prodi, Giuseppe De Rita o lo stesso Monti. «La scelta del Quirinale — osserva l’ex portavoce di Forlani — stavolta si porta dietro l’alleanza per il governo».
Se l’operazione Nuova Margherita dovesse marciare, è chiaro che potrebbe diventare attrattiva per molti che nel Pd dei giovani turchi iniziano a stare stretti. Ex Dl come Paolo Gentiloni, ad esempio. Ma lo stesso Fioroni (forte dei suoi 23 deputati e 6 senatori) lancia un warning: «Se il Pd fa il Pd nessun problema. Ma se diventa altro, se qualcuno pensa di tornare ai Ds, allora il problema c’è».

Corriere 9.3.13
Il Pd abbandoni le antiche liturgie e ripensi davvero al «partito nuovo»
di Paolo Franchi


Adesso, come sempre accade, nel centrosinistra tutti o quasi assicurano di avere intuito, se non proprio capito nei dettagli, il disastro imminente. E di non averlo detto apertamente solo per non vestire, nel fuoco dello scontro elettorale, i panni delle Cassandre o, peggio, degli agenti del nemico. Sarà anche vero, almeno in parte, per il clamoroso successo del Movimento Cinque Stelle, e pure per il (parziale) recupero di Silvio Berlusconi e del centrodestra. Ma di sicuro non è così per quanto riguarda il Pd e la coalizione dei progressisti: chi se la sente di giurare di aver messo in conto la perdita di tre milioni e passa di voti, alzi la mano.
Anche se la memoria si è fatta corta, qualcuno ricorderà il 1994, quando a lungo la sinistra considerò le elezioni già vinte in partenza, in primo luogo per la scomparsa dei suoi tradizionali avversari: provvide Silvio Berlusconi a interrompere bruscamente il sogno. Quasi vent'anni dopo, le cose sono andate allo stesso modo, anzi, anche peggio. Allora, furono soprattutto le clamorose vittorie nelle elezioni dei sindaci delle grandi città, Milano esclusa, a illudere Achille Occhetto e compagni. Stavolta, a confondere definitivamente le idee magari è stato il grande successo politico e mediatico delle primarie. Ma il risultato (amarissimo) è lo stesso. E la prima, dura lezione da trarne è che la bussola smarrita non è mai stata ritrovata. Oggi il Pd, proprio come ieri il Pds, non ha un'idea chiara del Paese che si era proposto, e tuttora si propone, di governare. E nemmeno di quel che passa per la testa, per il cuore e, perché no, per la pancia di un mondo del quale è sempre stato (erroneamente, ingenuamente, presuntuosamente) convinto di aver ereditato la rappresentanza. Quasi che, in questioni simili, valesse il diritto di successione.
Chi ha avuto modo di seguire in tv il dibattito della direzione del Pd capirà bene di cosa qui si sta parlando. Specie se ha qualche annetto sulle spalle. Come nei vecchi, cari comitati centrali di un tempo quasi tutti gli intervenuti hanno esordito dichiarando il loro consenso alla relazione del segretario e, quando hanno ritenuto opportuno tirare qualche stilettata, lo hanno fatto tutto sommato tra le righe, perché chi doveva capire capisse (esemplare in questo senso Massimo D'Alema, quando si è dichiarato seriamente d'accordo con Bersani). Come nei vecchi, cari comitati centrali di un tempo, appena sotto la scorza di tanta unanimità non è stato difficile, per gli appassionati del ramo, capire in nome di quale compromesso si fosse stabilito di non aprire nemmeno una parvenza di confronto. In poche parole: Pier Luigi Bersani vada pure avanti nel suo tentativo di dare vita a un «governo di combattimento», ma, se, come è probabile, non ci riuscirà, non cadrà il mondo, e non cominceranno nemmeno a suonare le campane a morto per la neonata legislatura, perché il pallino andrà dove deve andare, e cioè nelle mani sapienti di Giorgio Napolitano. Alla cui saggezza repubblicana si chiede, sul limitare estremo del mandato presidenziale, l'ennesimo miracolo.
In nome di un onesto realismo politico (e Dio sa quanto sia difficile praticare di questi tempi il realismo) si può anche, e magari si deve, esserne moderatamente soddisfatti, facendo voti perché le cose effettivamente procedano in questa direzione. Ma nessun realismo politico può far passare in secondo piano il disagio, chiamiamolo così, suscitato dalla riproposizione in sedicesimo, e fuori tempo massimo, di una liturgia antica, polverosa, non riscattata più né dal canto gregoriano né, più prosaicamente, da personalità forti e non conformiste, capaci di sottrarsi al grigiore dominante per provare a prendere il toro per le corna: per molto, ma molto meno, un Amendola, un Ingrao e anche un Longo avrebbero detto la loro, incuranti dell'accusa di fare, così, il gioco del nemico.
Con la solitaria eccezione di Umberto Ranieri, tutti calmi, tutti buoni e, in realtà, tutti zitti anche quando, all'apparenza, parlavano dalla tribuna: come se il passaggio, o forse la rottura storica, in corso non meritasse nemmeno quella puntigliosa e spesso polemica analisi del voto che una volta si dedicava persino a uno zero virgola guadagnato o perduto. Cosicché quando Bersani ha elencato gli otto punti sui quali intende chiedere una risposta chiara in primo luogo a Beppe Grillo, a nessuno è saltato in mente di formulare la più banale delle domande. Di chiedere cioè come mai questi otto punti (con annessi sottopunti), su cui si inchiavarda la possibilità stessa di dare un governo «di combattimento», e pure di cambiamento, all'Italia, non siano stati il nerbo e l'anima di una campagna elettorale in cui ci si è invece proposti, crozzianamente, di smacchiare il giaguaro.
Sull'onda del successo del Movimento Cinque Stelle, sono tornate in voga, in un curioso miscuglio di pensieri di Simone Weil e di discorsi di Adolf Hitler, strampalate discussioni sulla possibilità, e sulla desiderabilità, di una democrazia senza partiti. Magari sarebbe più utile provarsi finalmente a riflettere, ma sul serio, sullo stato (verrebbe da dire: ormai costituzionalmente comatoso) in cui versano i partiti, o i simulacri di partiti, di cui disponiamo, e che ha parecchio da spartire anche con il terremoto elettorale. Il Pd non è nato nel 1921, come ha sostenuto Monti. Ma è di certo l'ultimo partito propriamente detto rimasto su piazza, cui si chiede di collaborare a una soluzione realistica per il governo del Paese. Giustissimo. Chi però resta convinto che una democrazia senza partiti semplicemente non esiste ha anche il dovere di chiedere al Pd, prima ancora di nuove leadership, un impietoso confronto con se stesso. Parafrasando il vecchio Togliatti, da questa notte e da queste nebbie non si uscirà mai senza un nuovo partito nuovo. Si dice: anche ammesso che sia possibile, non è questo il momento. Ma è persino troppo facile obiettare: se non ora, quando?

Corriere 9.3.13
I rischi del presidenzialismo all'italiana
di Valerio Onida
Presidente emerito della Corte costituzionale


Caro direttore, nel dibattito in corso sulla situazione post-elettorale sembrano emergere segnali, a mio avviso pericolosi, di crisi — nel senso di messa in discussione — della stessa forma costituzionale di democrazia. Due segnali apparentemente opposti ma convergenti: da un lato riprendono vigore le tesi sulla necessità di cambiare sistema di governo abbandonando il parlamentarismo, per dare vita a un esecutivo sostanzialmente monocratico che governi senza remore; dall'altro si avanzano tesi di esplicito rifiuto della rappresentanza politica per puntare su forme di democrazia diretta «assolute». Queste ultime tesi — che vanno molto al di là di una giusta valorizzazione e di un auspicabile potenziamento degli istituti di partecipazione e di democrazia diretta, come il referendum — sembrano affiorare, più che nei programmi e nelle esplicite regole di comportamento del Movimento 5 Stelle, in certe affermazioni o intendimenti emersi in questo ambito (si vedano le puntuali considerazioni critiche di Giovanni Belardelli sul Corriere del 6 marzo). Sembra che si immaginino parlamentari eletti che non decidono nulla ma eseguono le decisioni che loro pervengono attraverso un «gruppo di comunicazione», il quale veicolerebbe decisioni prese, attraverso le risorse della «rete», in sedi esterne al Parlamento, e cioè da tutti i cittadini che fanno parte del Movimento, con modalità però soggette al governo di un «capo» (Grillo, o chi per lui) che controlla il centro del sistema di comunicazione.
Questa visione è «antiparlamentare», nella misura in cui — contestandosi, conseguentemente, la rappresentatività degli eletti, che non agirebbero più «senza vincolo di mandato» — il ruolo stesso del Parlamento e dei suoi componenti verrebbe svuotato. Ma non è meno «antiparlamentare» la visione, opposta ma convergente, di chi ritiene che la discussione parlamentare sia un orpello inutile e atto solo a ritardare i meccanismi di decisione, che andrebbero affidati invece a un «capo» (ancora una volta) eletto a termine e dotato non solo dei tradizionali poteri esecutivi e di iniziativa «privilegiata» propri del Governo, ma sostanzialmente di tutti i poteri, attraverso il controllo stretto di una maggioranza parlamentare precostituita in modo non solo omogeneo, ma sostanzialmente «servente» nei confronti del capo.
Questa è la tendenza, affiorante specie, ma non solo, nell'ambito del centrodestra, al «presidenzialismo all'italiana», che dimentica il carattere «diviso» e dialettico del vero presidenzialismo (basta pensare al rapporto, oggi, fra Obama e il Congresso Usa) per sognare un Presidente che non debba trattare con nessuno, nemmeno con la «propria» maggioranza, la quale dovrebbe essere costruita e funzionare al suo esclusivo servizio. Anche qui, siamo ben al di là delle opportune misure dirette a rendere più efficiente il Parlamento, rivisto nella sua struttura bicamerale e messo in grado di operare in base a procedure certe e in tempi ragionevoli.
Ecco perché credo che sarebbe tutt'altro che «virtuoso» il prospettato scambio fra un nuovo (e auspicabile) sistema elettorale a doppio turno per la formazione delle Camere (o della Camera «politica») e l'accettazione di un «presidenzialismo all'italiana», che avrebbe le caratteristiche di cui sopra. Prima di dire (implicitamente) che il Parlamento è inutile, sarebbe il caso di riflettere a ciò che in altri momenti della storia è nato dagli umori antiparlamentari.

l’Unità 9.3.13
Se manca la destra
Il boom del M5S pone il problema di una nuova riorganizzazione del nostro «vivere civile»
Ma nel nostro Paese c’è una destra che compra, a suon di milioni, senatori per far cadere un governo...
di Michele Ciliberto


L’ITALIA E IL SISTEMA POLITICO ITALIANO SONO IN UNA FASE DI TUMULTUOSA TRASFORMAZIONE: se ce ne fosse mai stato bisogno, le elezioni lo hanno ricordato in modo addirittura impietoso. Gli equilibri, assai precari, che avevano retto la cosiddetta seconda Repubblica si sono spezzati; i partiti che raccoglievano grande parte del consenso hanno perso milioni di elettori. Alcune formazioni politiche sono, ormai, avviate all’estinzione, altre sono già definitivamente dissolte a destra come a sinistra.
In campo ci sono forze nuove che stanno cambiando il volto dell’Italia e che si propongono di farlo, ulteriormente, in modo radicale.
In breve un mondo, già in crisi da decenni, sta finendo mentre un altro, in modo tumultuoso e complicato, cerca di venire alla luce. Avere nei confronti di tutto questo un atteggiamento pregiudizialmente negativo o moralistico è un errore, prima che politico, culturale. Quello che occorre fare in queste situazioni è comprendere cosa occorre fare per essere all’altezza della situazione e individuare, con chiarezza, le vie che bisogna prendere, con il coraggio e l’audacia necessari, rinunciando a vecchie abitudini sia culturali che politiche.
In questa nuova situazione quella che si ripresenta con urgenza è la questione sempre rinviata, mai affrontata con il coraggio necessario della riforma del nostro sistema politico. Anzi, il venire alla ribalta di nuove forze come il Movimento Cinque Stelle pone addirittura in termini drammatici il problema di una nuova riorganizzazione del nostro «vivere civile» (per usare l’espressione di Machiavelli): le vecchie «forme» non tengono più, mentre la «vita» continua a svolgersi e rischia di straripare, se non se ne trovano altre, e nuove, in maniera condivisa.
La profondità dei cambiamenti oggi richiederebbe perciò un massimo di comune assunzione di responsabilità da parte della forze politiche, di quelle vecchie e anche di quelle nuove. E quando dico questo non mi riferisco a formule di governo o a maggioranze parlamentari; intendo parlare di qualcosa di più originario ed essenziale. Mi riferisco alle fondamenta del nostro vivere democratico, a ciò che precede la stessa lotta politica, e ne costituisce la struttura, la forma comune e condivisa.
Per avviare un lavoro di tale spessore sarebbe necessario il convergere di tutte le forze politiche, compresa naturalmente la destra. Ma è proprio qui che si apre il problema specifico dell’Italia. Un problema che non è di oggi perché viene dal fondo della storia dello Stato unitario, ma che oggi si propone con particolare durezza anche per le novità che ci sono davanti, e che dovrebbero essere affrontate con sapienza e lungimiranza. In sintesi: oggi sarebbe indispensabile quello che ancora con Machiavelli si potrebbe chiamare un vincolo, una religio, capace di rappresentare il terreno comune in cui una società, una civiltà si può riconoscere e svolgere, pur nello scontro politico più aspro e violento.
Ma come è possibile procedere in questa direzione con la destra che abbiamo nel nostro Paese: una destra che compra, a suon di milioni, senatori per far cadere un governo; che utilizza intercettazioni telefoniche per screditare e attaccare forze politiche avverse? Qui siamo fuori della legittimità repubblicana, fuori della Costituzione; su un terreno estraneo alla lotta politica; siamo su un campo essenzialmente eversivo, secondo la peggiore tradizione delle classi dirigenti italiane; siamo fuori delle tradizioni politiche europee, anche a quelle di destra.
Se questa analisi è vera, un punto appare chiaro; oggi è indispensabile che le forze migliori della destra italiana facciano i conti con se stesse e cerchino di mettersi su un nuovo terreno, uscendo, definitivamente, dal berlusconismo e dai recinti della democrazia dispotica. Ma non è un problema che riguarda solo coloro che si riconoscono, politicamente e culturalmente, nella destra. La formazione di una nuova destra con la quale poter affrontare la riforma del nostro sistema politico, specie in una fase di profonde trasformazioni come questa è una questione di carattere nazionale.
È vero, infatti, quello che è stato ricordato questi giorni: in Italia non è possibile fare cose che in altrimenti Paesi sono state e sono possibili. Bisogna che questa situazione cambi e la storia muti. Ma non sarà facile: è una lunga, difficile vicenda con la quale bisogna fare definitivamente i conti certo, nei modi possibili, nei tempi possibili.

Corriere 9.3.13
Grillo, l'autista e il caso delle società in Costarica
La bufera investe i 5 Stelle
Il Pd attacca: quadro grave, serve chiarezza
Ma il leader si difende: nessun affare sospetto
di Erika Dellacasa


L'ultima tempesta su Beppe Grillo assume i colori e le immagini della natura selvaggia in Costarica e del progetto di un resort con piscine e campi da golf: tutto pubblicizzato su un sito nato nel 2009, ecofeudo.com, dove nel mix di tucani, coccodrilli, scimmiette e costruzioni di grande lusso (solo virtuali a quanto pare) salta fuori improvvisamente lui, Beppe. La sua faccetta stilizzata e la scritta www.beppegrillo.it è impressa su un aggeggio blu che potrebbe essere una macchinina elettrica. Grillo non ha negato di essere stato in qualche modo interessato al resort in Costarica ma non l'ha neanche smentito e questo mette in agitazione almeno una parte dei Cinquestelle che si interrogano in Rete. Il Costarica può essere considerato un paradiso fiscale? E che rapporto c'è tra le persone vicine al fondatore del movimento e questo progetto? Il caso è nato dall'inchiesta dell'Espresso sulle tredici società amministrate nella regione di Santa Cruz dall'amico-autista di Grillo, Walter Vezzoli, che ha avuto una relazione e un figlio con la cognata di Grillo, Nadereh Tadjik. Ogni società ha un capitale sociale di 10 mila euro ed era finalizzata alla realizzazione di un ecovillaggio, l'Ecofeudo appunto, nella baia di Papagayo. Compare anche una società Armonia Parvin (il nome della moglie del leader 5 stelle) che, ha spiegato Vezzoli in un'intervista al Fatto, «si riferiva a un negozio di 20 metri quadrati poi chiuso perché non rendeva». Grillo spieghi, è la richiesta del Pd: per Boccia è «un quadro che, se fosse vero sarebbe di una gravità inaudita». E il responsabile nazionale degli Enti locali Davide Zoggia chiede «chiarimenti». Di Pietro, invece, in una lettera aperta dice all'amico Grillo di «aver vissuto lo stesso calvario»: «Caro Beppe, quel che è successo a me ora sta succedendo a te. La vicenda del Costa Rica fa comprendere quanto il tuo essere libero e non servo dei poteri forti faccia paura. Su di me, nel corso degli anni sono state raccontate tantissime menzogne... purtroppo, caro Beppe, la questione è seria».
Investire in Costarica non è certo un reato. Il punto però sono quelle tredici società, secondo l'Espresso, poco trasparenti in virtù della legge costaricense. Non è tuttavia vero — come ha sottolineato Grillo sul blog — che il Costarica sia nella blacklist dell'Ocse, ne è infatti uscito nel luglio del 2011 come verificabile sul sito istituzionale dell'Agenzia delle Entrate Fiscooggi. Mentre i Cinquestelle si dividono sui siti — ma sul blog più di 2.000 si sono schierati a difesa del leader — Grillo e l'Espresso si sono sfidati inizialmente per interposta persona: è stato infatti affidato a Vezzoli e al suo socio in affari Simone Pennino il compito di spiegare la situazione. Depurati dalle esclamazioni di indignazione e dai consueti insulti ai media entrambi dicono che: il resort non esiste, era appunto un bel sogno «solo che non ho mai trovato gli investimenti quindi è rimasto sulle scartoffie e le società sono state aperte e chiuse» (parole di Vezzoli), però potrebbe sempre diventare realtà perché «è un progetto sostenuto dal presidente del Costarica Oscar Arias premio Nobel per la pace» (parole di Pennino). Quest'ultimo afferma di stare ancora lavorando all'idea. Sul suo blog Grillo suggerisce al settimanale di «consultare Wikipedia» per vedere come in Centro America per Sociedad anonima si intenda quella per azioni. Replica dell'Espresso: «Non abbiamo mai parlato di società anonime... Noi abbiamo scritto che l'autista risulta amministratore di 13 società in Costarica tuttora attive». E Vezzoli minaccia querela.

l’Unità 9.3.13
L’allergia di Grillo per la lotta all’evasione
Il capo dei 5 Stelle reagisce con fastidio all’inchiesta dell’Espresso sulle 13 società anonime con base in Costa Rica
Il Pd: non dà spiegazioni
Su tasse e paradisi fiscali parla come il Pdl
di Bianca Di Giovanni


ROMA «Un resort che non esiste e non doveva neppure esistere». «Se si digita Sociedad Anomima su Wikipedia si scopre che significa solo società per azioni». È una reazione scomposta quella di Beppe Grillo e il suo seguito alle notizie pubblicate da l’Espresso su 13 società anonime basate a Santa Cruz, la zona più turistica del Costa Rica. Il Paese caraibico è un paradiso fiscale. Ma questo non inqueta (anzi, interessa molto) il factotum di Grillo, Walter Vezzoli (l’autista «simil bronzo di Riace») e la cognata dello stesso comico, che vi hanno basato 13 società, «scatole» finanziarie con una lunga lista di ragioni sociali. Tra cui appunto la costruzione di un resort spettacolare. Vezzoli nega, approfittando dello spazio concesso da Il Fatto Quotidiano: sono solo case a consumi zero. Nessun resort. Lui, l’«ombra» del capo dei 5 Stelle, all’epoca viveva in Costa Rica e voleva fare un po’ di business. Niente di più.
Troppo facile cavarsela così: non si aprono 13 società per costruire qualche casetta con pale eoliche e riutilizzo di acqua piovana. «Sarebbe bene che Grillo chiarisse definitivamente cosa sa e come lo riguardino certe iniziative e in che modo siano compatibili con la trasparenza che tanto predica», dichiara Davide Zoggia, responsabile Enti locali del Pd. Va giù ancora più duro il deputato Pd Emanuele Fiano, che smonta la tesi del leader genovese: «Se il mandrake della rete avesse proseguito nella sua ricerca su Google, senza fermarsi alla prima definizione di Wikipedia, si sarebbe imbattuto nel sito costaricense di consulenza Cvfirm.com. In esso, si dice che con il termine Sociedad Anomima in Costarica si intende, in realtà, una struttura societaria che ha tra le proprie caratteristiche la possibilità di nascondere molto facilmente i nomi dei veri soci». Insomma, se è anonima è anonima: non ci vuole molto a capirlo. «I soci possono essere rivelati solo su richiesta di un giudice nel corso in un procedimento giudiziario», spiega ancora Fiano. Quasi una beffa, infine, la replica de l’Espresso. «Contrariamente a quello che sostiene il blog di Beppe Grillo, noi abbiamo scritto che l’autista di Grillo risulta amministratore di 13 società in Costa Rica, tuttora attive. In Costa Rica per le sociedad anonime, come per tutte le altre società, non c’è trasparenza su azionisti e bilanci. Proprio come succede in Svizzera e nei Paesi caraibici». Una vera pietra tombale sulle tesi del comico.
Il fatto è che Grillo ha sempre avuto un rapporto problematico con tasse e disposizioni fiscali. Non solo per i due condoni tombali, a cui ha aderito la sua società immobiliare nel biennio 2002-03, la Gestimar srl, amministrata da suo fratello Andrea. E neanche per quello strano modo di intendere i paradisi fiscali, in cui non conta la trasparenza, ma solo il «diritto» a pagare meno tasse possibili. Sul suo blog comparve in passato l’assioma che essendo l’Italia il Paese in cui si pagano più tasse, qualsiasi altro Paese europeo è un paradiso fiscale. Paradiso per tutti, meno che pensionati e dipendenti. A quello non ha mai pensato. Un paradiso fiscale è tale perché vi si possono fare movimenti finanziari senza informare nessuna autorità: ecco perché ci arriva il denaro sporco. Ma anche questo per Grillo è irrilevante. Tanto irrilevante che anche oggi replica quasi con un’alzata di spalle alle rivelazioni: sono fatti di famiglia.
Si conferma così il suo strabismo, per cui la trasparenza deve valere per i politici che parlano al telefono, tutti da intercettare («ascoltate anche me!» aveva inneggiato), deve essere imposta ai partiti, anche al presidente della Repubblica, e le riunioni dei parlamentari devono essere trasmesse in streaming. Insomma, i Palazzi della politica devono essere trasparenti come l’acqua. Ma sui redditi (4 milioni dichiarati), i conti bancari, gli investimenti mobiliari e immobiliari, e naturalmente le relative tasse, vale il principio della privacy assoluta. Tutto questo in un Paese che conta circa 130 miliardi di evasione all’anno. Ultimamente si è scagliato contro le operazioni Cortina, accusando l’Agenzia delle entrate di pescare i pesci piccoli. Ma con il governo Prodi si scagliò anche contro Vincenzo Visco, che aveva pubblicato i redditi dei contribuenti. («Fa un favore alla ’ndrangheta, dando nome cognome e indirizzo di chi si può rapinare», aveva scritto). Non gli piace l’anagrafe dei contribuenti, dove si registrano i conti bancari. Esiste in tutti i Paesi occidentali (tra l’altro non registra ogni singola spesa), ma qui da noi per Grillo equivale allo Stato di Polizia. Forse non sa che nel 2010 in Italia sono state vendute 620 Ferrari (il 10 per cento della quota mondiale), 151 Lamborghini, 180 mila fra Mercedes, Bmw e Audi. E sono solo 76 mila gli italiani (lo 0,18 per cento dei contribuenti) che hanno dichiarato più di 200 mila euro. Questo significa che solo il 37 % di chi ha comprato una macchina di questa categoria se lo sarebbe potuto permettere senza dover accendere finanziamenti o mutui. Credibile?

l’Unità 9.3.13
Francesco Guccini
«Mi pare brava gente, bei volti, ma temo siano soggiogati da Casaleggio e Grillo. Mi domando se siano destinati a seguire direttive che maturano altrove»
«Gli eletti 5 Stelle? Mi chiedo se siano liberi»
«Bersani ha fatto bene a rifiutare le larghe intese altrimenti avrebbe perso anche il mio voto»
intervista di Toni Jop


ROMA «Sì, sì, ho visto che hanno declassato ancora l’Italia. Pessimo momento per noi, e tutto è fermo, la scacchiera bloccata, come una sala operatoria in attesa del chirurgo, pessimo momento», mai sentito Francesco Guccini tanto allarmato.
Difeso dagli Appennini di Pavana, dalla decisione di non affrontare mai più la fatica di un palco per cantare e suonare, dalla soddisfazione di aver composto in un disco gli ultimi messaggi musicali della sua vita salvo augurabili contraddizioni non allenta la tensione d’affetti che lo lega ai percorsi di questo Paese. Del resto, non ha mai cantato e basta. I suoi concerti, di cui abbiamo già nostalgia, sono sempre stati incontri con una piazza loquace, ciarliera, che aveva cose da dire mentre ascoltava i racconti che Francesco suggeriva dal microfono.
Appunti di vita quotidiana, riflessioni politiche, rimbrotti, sequenze recitate di foto-tessere dedicate ai personaggi del momento, alle loro azioni, alle loro insufficienze. Ci vorrebbe un concerto, almeno per aggiornare quel racconto d’Italia, ma non ci sarà. Proviamo con un placebo: niente musica, solo pensieri e, finalmente, parole.
Niente paura, Francesco: è il solito check-up. Elezioni soffertissime, niente governo sicuro, povertà dilagante. Come stai vivendo tutto questo?
«Con malessere. In sospensione. Sto a vedere cosa succede. Ho appena salutato un tuo collega entusiasta della Rete, di Twitter, di tutte queste cose misteriose. Beato lui, io no. Troppe cose non capisco della natura di questi strumenti. Mi piacerebbe sapere dagli entusiasti cos’hanno capito loro di questo nuovo tessuto connettivo, perché a sentirli sembra senza controindicazioni. E qui non li seguo, con garbo; mi tengo le mie perplessità. Il coltello è una delle cose più utili della terra, ma conviene sapere che se lo prendi dalla parte della lama non solo non serve ma puoi farti molto male».
Con il teleobiettivo vai fortissimo. Usiamo una focale più corta. Abbiamo un Parlamento nuovo di zecca...
«Giusto, pieno di rappresentanti dei Cinque Stelle...».
Ecco, come ti sembrano?
«Mi pare brava gente, davvero. Bei volti, belle presenze, molto più belli di quelli di una quantità di vecchi politici. Gentili, una buona novità. Tuttavia, temo siano soggiogati al pensiero di Grillo e Casaleggio. Insomma, mi chiedo se siano liberi oppure destinati a seguire direttive che maturano altrove».
Un pensiero in dono: il Parlamento italiano si è appena difeso da una contraddizione pazzesca: al suo interno c’era una forza politica, la Lega Nord, che lottava per fare a pezzi il Paese. Adesso, è chiamato a difendersi da una nuova contraddizione fondamentale: sui suoi banchi è alloggiato l’obiettivo della sua destrutturazione, della cancellazione dei partiti, dell’annullamento dei conflitti politici, sale della demo-
crazia. Non è un po’ troppo?
«Sì, lo è. C’è qualcuno che fuma in sala parto... ecco, dovremmo tutti dedicarci alla salvezza di questo Paese, dovremmo farlo in coscienza e responsabilità. Ma mentre si predica la cancellazione dei conflitti della vecchia politica, si celebra, in Parlamento, l’avvento di una tabula rasa che è più radicale di qualunque posizione politica, partitica. Tanto è vero che, fin qui, la presenza pur gradevole dei Cinque Stelle è una sorta di assenza. La tabula rasa voluta da Grillo è il partito più partito di tutti gli altri, è la tabula rasa che fuma in sala parto».
Eri tra quelli che avrebbero volentieri visto un impegno dei Cinque Stelle nella sala parto mi hai convinto del governo della sinistra?
«Sì, pur consapevole delle differenze, delle distanze su molti temi fondanti, come l’Europa, oppure la Tav...».
E tu che pensi della Tav, bisogna farla oppure è meglio di no?
«Non lo so, non sono abbastanza informato. Tu? Contrario, ho capito, io non so... Però, argomenti interessanti e utili ai due fronti ce n’erano. Legge sul conflitto di interessi, anti-corruzione, tagli ai costi della politica... Invece niente. E dicono basta ai conflitti, pensa un po’ che bel “basta”. E mica dovevano sposare la sinistra, bastava che le permettessero di fare le cose che stavano a cuore anche a loro. Sarebbe stata una fiducia a tempo e limitata. Infatti, la tabula rasa non mi ha mai convinto, nemmeno nel Sessantotto...».
E chi la predicava allora? Non ricordo...
«Massì, c’erano quelli che dicevano: via tutti i vecchi, adesso comandiamo noi...».
Riflessi della Contestazione, più che del Sessantotto. E Grillo mi sembra lontanissimo sia dalla prima che dal secondo: dice che vuole il 100% dei consensi, di percentuali inferiori non sa che farsene...
«Tutto è possibile, per carità. Temo che l’obiettivo sia un po’ difficile. Tra l’altro, non sono sicuro che quando si andrà a votare, fra pochi mesi, riprenderà tutti i voti che ha raccolto alle ultime politiche. C’è un bel po’ di elettori che lo hanno appoggiato per dare uno scossone, per vedere risultati concreti, per salvare finalmente questo Paese dal declino. Invece si andrà al voto con niente di fatto, tranne quella indisponibilità a votare perfino ciò che hanno promesso ai loro elettori. Siccome nel calderone c’è tanta gente di sinistra, e cioè intelligenze che non vivono appese al capestro del “tanto peggio, tanto meglio”, dubito che Grillo possa crescere ancora, ma posso sbagliarmi...».
Dicono che di Bersani non c’è da fidarsi...
«A me, invece, sembra una brava e degna persona. Lo hanno accusato di aver fatto una campagna elettorale poco brillante. Sarà, ma non dovevamo eleggere il conduttore di Sanremo. Poi, sono contento che abbia rifiutato l’ipotesi di un governo di larghe intese, mi pare giusto, avrebbe perso il mio voto, non lo avrei seguito».
Come probabilmente i destri nel Movimento Cinque Stelle non seguirebbero Grillo se accettasse di servirsi dell’ascensore della sinistra...
«Corretto! Lì dentro ci sono sia la destra che la sinistra. Ma non è lui che sostiene che destra e sinistra non esistono più, che non hanno più senso? Poi: ha per caso chiesto alla sua base di esprimersi sul tema della salvezza del Paese? Non mi risulta, ma magari a Pavana ne sappiamo poco».

Repubblica 9.3.13
Cambiare, se non ora quando?
Remo Bodei Roberta De Monticelli Tomaso Montanari Antonio Padoa-Schioppa Salvatore Settis Barbara Spinelli


NON potete aspettare di divenire ancora più forti (magari un partitomovimento
unico) di quel che già siete, perché gli italiani che vi hanno votato vi hanno anche chiamato: esigono alcuni risultati molto concreti, nell’immediato, che concernano lo Stato di diritto e l’economia e l’Europa. Sappiamo che è difficile dare la fiducia a candidati premier e a governi che includono partiti che da quasi vent’anni hanno detto parole che non hanno mantenuto, consentito a politiche che non hanno restaurato ma disfatto la democrazia, accettato un’Europa interamente concentrata su un’austerità che – lo ricorda il Nobel Joseph Stiglitz – di fatto «è stata una strategia anti-crescita», distruttiva dell’Unione e dell’ideale che la fonda.
Ma dire no a un governo che facesse propri alcuni punti fondamentali della vostra battaglia sarebbe a nostro avviso una forma di suicidio: gli orizzonti che avete aperto si chiuderebbero, non sappiamo per quanto tempo. Le speranze pure. Non otterremmo quelle misure di estrema urgenza che solo con una maggioranza che vi includa diventano possibili. Tra queste: una legge sul conflitto di interesse che impedisca a presenti e futuri padroni della televisione, della stampa o delle banche di entrare in politica; una legge elettorale maggioritaria con doppio turno alla francese; il dimezzamento dei parlamentari il più presto possibile e dei loro compensi subito; una Camera delle autonomie al posto del Senato, composta di rappresentanti delle regioni e dei comuni; la riduzione al minimo dei rimborsi statali ai partiti; una legge anti-corruzione e antievasione che riformi in senso restrittivo, anche aumentando le pene, la disciplina delle prescrizioni, bloccandole ad esempio al rinvio a giudizio; nuovi reati come autoriciclaggio, collusione mafiosa, e ripristino del falso in bilancio; ineleggibilità per condannati fin dal primo grado, che colpisca corruttori e corrotti e vieti loro l’ingresso in politica; un’operazione di pulizia nelle regioni dove impera la mafia (Lombardia compresa); una confisca dei beni di provenienza non chiara; una tutela rigorosa del paesaggio e limiti netti alla cementificazione; un’abolizione delle province non parziale ma totale; diritti civili non negoziati con la Chiesa; riconsiderazione radicale dei costi e benefici delle opere pubbliche più contestate come la Tav. E vista l’emergenza povertà e la fuga dei cervelli: più fondi a scuola pubblica e a ricerca, reddito di cittadinanza, Non per ultimo: un bilancio europeo per la crescita e per gli investimenti su territorio, energia, ricerca, gestito da un governo europeo sotto il controllo del Parlamento europeo (non il bilancio ignominiosamente decurtato dagli avvocati
dell’austerità nel vertice europeo del 7-8 febbraio).
Non sappiamo quale possa essere la via che vi permetta di dire sì a questi punti di programma consentendo la formazione del nuovo governo che decida di attuarli, e al tempo stesso di non contraddire la vostra vocazione. Nella giunta parlamentare si può fin da subito dar seguito alla richiesta di ineleggibilità di Berlusconi, firmata da ormai duecentomila persone: la fiducia può essere condizionata alla volontà effettiva di darvi seguito. Quel che sappiamo, è che per la prima volta nei paesi industrializzati e in Europa, un movimento di indignati entra in Parlamento, che un’Azione Popolare diventa possibile. Oggi ha inizio una vostra marcia attraverso le istituzioni, che cambieranno solo se voi non fuggirete in attesa di giorni migliori, o peggiori. Se ci aiuterete a liberarci ora, subito, dell’era Berlusconi: un imprenditore che secondo la legge non avrebbe nemmeno dovuto metter piede in Parlamento e tanto meno a Palazzo Chigi. Avete detto: «Lo Stato siamo noi». Avete svegliato in Italia una cittadinanza che vuole essere attiva e contare, non più delegando ai partiti tradizionali le proprie aspirazioni. Vale per voi, per noi tutti, la parola con cui questa cittadinanza attiva si è alzata e ha cominciato a camminare, nell’era Berlusconi: «Se non ora, quando?».

Della Loggia
l’Unità 9.3.13
Il caos che piace a certe élite
di Michele Prospero


PER UNA VOLTA, ANCHE GALLI DELLA LOGGIA PUÒ SERVIRE PER CAPIRE LE RAGIONI profonde che hanno determinato il risultato elettorale. Sul Corriere di ieri offre una testimonianza autobiografica sulla psicologia politica indelebile di una certa Italia influente e benestante. Pur senza aderire con convinzione a programmi populisti e a leadership eccentriche, essa non esita ad appoggiare le formazioni antisistema nella loro scalata al potere. Lo scritto contrappone due Italie. La prima, quella in cui l’autore si riconosce, è «l’Italia del cambiamento». La definisce così perché è contraria al mito della Costituzione, che nella sua seconda parte non consente di decidere, è ostile ai vecchi partiti che alimentano politiche pubbliche dai costi incontrollabili. La seconda è l’Italia dei partiti, soprattutto quelli della sinistra cattocomunista che hanno impresse nei riti, nelle credenze e nei simboli le lontane radici di una tradizione antimoderna fieramente odiata.
Il filone che per l’editorialista del Corriere interpreta «l’Italia del rinnovamento», nelle giunture critiche più significative, fa di tutto per impedire che al governo vada l’altra componente, temuta e pericolosa. E per ostacolare questo evento terribile, cioè l’ingresso della sinistra al governo secondo le fisiologiche pratiche europee dell’alternanza, inventa di tutto: partiti personali, movimenti di secessione, non-partiti dei comici. L’Italia del cambiamento e del rinnovamento per ben due volte in questo ventennio ha appoggiato la rivolta antipolitica (la prima capeggiata da Berlusconi e Bossi la seconda da Grillo) pur di scongiurare governi di centrosinistra. Della Loggia dà fiato a quella componente
della borghesia italiana che allo spettro del centrosinistra riformista preferisce «il salto nel buio». Ciò conferma quanto infimo sia il senso del generale della borghesia italiana. Contro la sinistra, ben venga la ribellione antisistema e vada pure alla malora il Paese. Neppure lo storico che è rimasto orfano della patria pensa che lo Stato sia davvero rinato con le autopresentazioni surreali dei nuovi eletti (parla anzi di «sprovvedutissimi parlamentari del M5S»). Ma questi sprovveduti deputati hanno comunque per il Corriere un merito storico straordinario: aver funzionato come insperato «grimaldello» utile a tenere ancora una volta la sinistra lontana da Palazzo Chigi. Lo sfascio non preoccupa, la disintegrazione del sistema non conta, la povertà sociale non allarma. Come dare torto a Leopardi quando osservava che i ceti colti d’Italia, così come le sue classi più ricche, sono le peggiori élite d’Europa?

La Stampa 9.3.13
La Siena felix è solo un ricordo E ora cresce il disagio sociale
Sempre più richieste d’aiuto all’unità di psichiatria
«Da almeno un anno registriamo un aumento di persone con problemi di depressione»
di Teodoro Chiarelli


C’era una volta la Siena felix, città ricca e civile, opulenta e carica di storia. Con una Grande Mamma, la banca Montepaschi, che a tutti provvedeva, anche se non sempre secondo bisogni e capacità. Oggi la bella favola è finita, Mps travolta da scandali e azzardi finanziari è in crisi, la Fondazione ne ha perso il controllo, i rubinetti sono chiusi, le sponsorizzazioni azzerate. In compenso ecco gli esuberi: 4.500 posti cancellati in Italia, pur senza licenziare nessuno.
I senesi si ritrovano fragili e insicuri. Tanto da ricorrere sempre più allo psichiatra. A Siena e provincia aumentano le prescrizioni di farmaci antidepressivi, crescono i ricoveri, si infittiscono le visite. A confermarlo è il professor Andrea Fagiolini che dirige l’Unità operativa di Psichiatria Universitaria all’ospedale Santa Maria alle Scotte. «Da almeno un anno, da quando in città e nei dintorni si sono accesi focolai di crisi registriamo un aumento quantitativo e qualitativo di persone con problemi di depressione, ansia e stress. Da qualche mese, poi, con l’esplodere del caso Montepaschi vediamo un intensificarsi dei fenomeni. C’è un’atmosfera generale più pesante, c’è la diffusa convinzione che mancano prospettive». Fagiolini spiega che non è ancora possibile fornire dati precisi. «Possiamo dire, però, che il 30% dei nostri pazienti, uno su tre, denuncia sintomi dovuti a fattori di perdita: del lavoro, della sicurezza economica, della tranquillità sociale, dell’autostima. Questo si traduce in ansia, depressione, insicurezza». Addio Siena felix, enclave arroccata nella cinta muraria, al di fuori della quale sono tutti foresti. Il tanto celebrato “groviglio armonioso” fra banca e città non esiste più. O, peggio, si è trasformato in un inestricabile reticolo di rovi. «Siamo una realtà piccola - mette le mani avanti la proprietaria di un’elegante boutique lungo Banchi di Sopra - Cosa volete che contiamo di fronte ai poteri forti? ». La netta sensazione è di trovarsi di fronte a una città paralizzata al solo pensiero di regolare i conti col proprio ricco, glorioso e autarchico passato, incapace di entrare nella modernità. L’ex sindaco (1990-2001) Pierluigi Piccini ne è convinto: «Il peggio deve ancora arrivare. Non parlo solo delle indagini, anche se la vicenda del suicidio di David Rossi secondo me sarà l’inizio di una nuova fase della vicenda giudiziaria. Penso anche alle conseguenze sociali della parabola che sta vivendo la città. Mi sembra che i senesi ancora non si rendano conto che la loro vita è destinata a cambiare, anzi sta già cambiando. A partire dalla drastica riduzione dei posti di lavoro».
Il prefetto Renato Saccone prova smuovere il senso di rassegnazione diffusa. «Io credo che si stava peggio quando si stava meglio, perché si stava andando consapevolmente incontro alla rovina. Non ci sono mura che possono respingere la modernità come qui ci si è illusi di poter fare. Un sistema assistenziale ha consentito a Siena alti livelli di prosperità. Ora è il momento di guardare oltre queste mura e accettare finalmente il confronto. La città ha ancora importanti punti di forza e c’è tanta gente che sta lavorando per il futuro. E’ a loro che bisogna guardare».
Una Siena stordita rende intanto omaggio a Rossi, uomo di comunicazione del Montepaschi, ma prima di tutto contradaiolo. Gli amici della Lupa hanno allestito la camera ardente, la bara avvolta nella bandiera della contrada, nell’oratorio di San Rocco, dove questa mattina alle 10 ci sarà l’ultimo saluto. Alle 10.40 arriva il presidente di Mps Alessandro Profumo. Resta defilato per una ventina di minuti e prima di andarsene firma il registro. In rapida successione ecco Franco Ceccuzzi, ex sindaco di Siena, l’ex direttore generale, Antonio Vigni, il presidente della Provincia, Simone Bezzini, l’amico di una vita, David Taddei, che su Facebook gli dedica una struggente poesia. E poi decine e decine di amici, colleghi e conoscenti. Uno avvicina il cronista: «Come nella canzone di De Andrè, era uno di quelli “che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte”».

Israele pratica l’Apartheid
l’Unità 9.3.13
Non osate chiamarla segregazione
di Moni Ovadia


LO SCORSO 5 MARZO, IL PRESTIGIOSO QUOTIDIANO ISRAELIANO Ha’aretz ha pubblicato un commento critico a firma Aeyal Gross su un recente provvedimento adottato dal Ministero dei Trasporti del governo Nethanyahu, ovvero l’istituzione di linee speciali di autobus separati, destinati ai palestinesi che si recano a lavorare in Israele, di modo che non viaggino su quelli destinati ai cittadini israeliani e, segnatamente, agli abitanti delle colonie nei territori della Palestina.
Gross traccia un parallelo fra questo atto del governo israeliano e l’istituzione legale della politica segregazionista negli stati razzisti degli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento. In qualsiasi altro Paese al mondo fosse stata adottata dal governo una simile decisione, essa sarebbe stata universalmente condannata come razzista o come atto di Apartheid e di fatto, diversi politici, giornalisti, intellettuali israeliani ma anche semplici cittadini l’hanno bollata come tale: «Poco a poco, passo dopo passo, la relazione con i palestinesi diventa sempre più insostenibile. Israele sta imboccando una china scivolosa verso la forma di società che è un anatema per ogni società occidentale, come dovrebbe essere anche per la società israeliana. Azioni come questa che istituisce linee di autobus separate per i palestinesi sono un’ulteriore prova che Israele pratica l’Apartheid. E sembra che la leadership del Paese non se ne renda conto, o peggio, che non gliene importi nulla» scrive un lettore che si identifica come Rumner 1983.
Una lettrice che si firma Aliza gli risponde: «Un falso paragone, tutto ciò non ha nulla a che fare con la segregazione basata sull’etnicità, ma ha lo scopo di prevenire il terrorismo (...) L’idea è quella di proteggere la vita (...) Non vedo nulla di sbagliato in questa faccenda degli autobus separati (...) È una precauzione naturale (...) Israele ne ha fatta di esperienza con la sua gente saltata per aria sugli autobus». Questa lettrice, a mio parere, rappresenta il sentire di una parte molto significativa dell’opinione pubblica israeliana. Il ministero dei Trasporti, dal canto suo, dice che l’istituzione di queste linee serve «ad alleviare la sofferenza dei lavoratori palestinesi che prima si facevano trasportare da minibus abusivi i cui conducenti li taglieggiavano».
Io ritengo che queste siano penose giustificazioni di stampo colonialista per legittimare la deriva segregazionista e che la sicurezza potrebbe e dovrebbe essere meglio garantita con la fine dell’occupazione. Se la pensate come me, preparatevi ad entrare nella lista nera degli antisemiti. Per i «sionisti» oltranzisti, quando si parla di Israele, infame non è la politica segregazionista del suo governo, infami sono coloro che osano definirla tale.

l’Unità 9.3.13
La parola armata
Violenza del linguaggio dalle curve alla politica
È un imbarbarimento costante: non riguarda solo gli sfoghi giovanili o le sacche anonime della Rete. Pensieri miseri
a braccetto con la sloganistica. Nel silenzio della comunità
di Carlo Sini


UN VECCHIO PROVERBIO DICE CHE CHI PARLA MALE PENSA MALE. SE È COSÌ, DA TEMPO IL PENSAR BENE È IN DECLINO. È vero che un altro proverbio insegna che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare: non resta che sperare in un mare molto vasto, a salvaguardia dei nostri giorni. Non so quando tutto cominciò, ma ricordo il diffondersi della violenza verbale negli stadi: dapprima sporadica, poi sempre più diffusa e addirittura esibita con orgoglio. Ricordo una gentile signora all’Olimpico di Roma che gridava a gran voce a un suo pupillo in campo di spaccare le gambe del povero Rivera, reo solo di giocar bene (ed era molto tempo fa). Poi ricordo, trovandomi lì per caso, l’arrivo in stazione della schiera dei tifosi ospiti, circondati dai poliziotti in assetto antisommossa: una schiera di scalmanati (i tifosi) gridanti improperi e minacce, con scritte, inni e bandiere che credevi andassero in guerra, mentre marciavano fieri tra la folla incuriosita. Si lasciavano alle spalle un treno memore del loro passaggio. Molti ci hanno spiegato di non farci caso: fa parte del gioco ed è una valvola di sfogo per ben più pericolose violenze sociali. Amo il calcio e questa accettazione passiva da parte delle società sportive (che sovvenzionano una tifoseria da trasferta) non mi piace affatto. Ma il punto è che lo stesso linguaggio, «forte e chiaro» è poi uscito dagli stadi ed è diventato, per dire in fretta, gergo giovanilistico, imitato dagli adulti che vogliono apparire disinvolti e «modern». Ne abbiamo un saggio se si è su un tram nell’ora d’uscita dalle scuole. Così è dei giochi sul telefonino ecc., con punte, si legge nei giornali, di inaudita violenza «visiva» e l’invito a perseguirla in forma «virtuale». Ma ci hanno ammonito: un po’ di trasgressione giovanile è normale, poi passerà.
Non è passata e anzi è dilagata, fuori dalle scuole e dai tram, nel costume della società tutta: dagli insulti e dalle minacce di coloro che si sono «toccati» con l’automobile, ai furibondi litigi televisivi, dove nulla è risparmiato del lessico, si diceva una volta, da angiporto o da caserma (che ormai saranno luoghi di casta memoria filologica delle antiche parolacce), su su sino al gergo politico da piazza e dei messaggi in rete. La rete poi, dove l’anonimato è garantito, sembra annoverare le violenze verbali e i turpiloqui più efferati. Forse ancora qualcuno ci spiegherà che meno male che sta lì e non scende in strada, sebbene questa sia la ricorrente minaccia che si ascolta. Can che abbaia non morde, dirà qualcun altro, ma intanto, purtroppo, la violenza ogni tanto accade, per molte ragioni che non discendono certo dal linguaggio o dalle parole soltanto; però quando accade, come a Perugia l’altro giorno, si ascolta immancabile il plauso «popolare» e l’augurio o l’invito a fare peggio e di più.
«Vi distruggeremo, vi faremo scomparire, morirete tutti», gridano i tifosi agli avversari. I tifosi? Oppure siamo tutti diventati tifosi, nel senso di intransigenti, ciechi e sordi alle ragioni altrui, indisponibili al confronto civile e anche alla sola esistenza di opinioni diverse dalle nostre?
Certo, è vero, viviamo nell’ingiustizia, nella corruzione e nell’inerzia (per dire il meno) della politica. Questi sono mali reali e violenze indiscutibili. Il problema è come farsene carico. Ora, quando sento lodare una campagna elettorale perché, come si dice, ha saputo parlare «alla pancia» della gente, mi chiedo che razza di democrazia sia mai questa in cui viviamo. Mi disturba il cinismo di chi dà per scontato che gli elettori siano in gran parte persone incapaci di ragionare, ampiamente diseducate dai media, e che trovino normale il fatto di approfittarsene. Si ricorda virtuosamente che tutti hanno diritto di voto, ma nel contempo si fa in modo che nella sostanza il voto sia inquinato, elogiando il dilagare della retorica della «pancia», senza che nulla venga spiegato alla ragione.
Mi disturba il cinismo degli spettacoli televisivi che ormai si fanno un vanto di invitare l’«incazzato» di turno, della cui violenza verbale ci si compiace e si fa spettacolo, dandogli ragione, poverino, ma guardandosi bene dallo spiegargli che quella violenza di parole che ha imparato sulle piazze reali e virtuali non aiuterà né lui né chiunque altro a risolvere i problemi e a comprendere la realtà profonda delle nostre condizioni. Già fare, come si fa, di ogni erba un fascio, dimenticando i responsabili più diretti, per riempirsi la gola di insulti e accecarsi gli occhi, è una violenza contro la verità e contro il costume democratico.
E allora sia chiaro: non è tanto la violenza verbale in sé che mi turba; essa può anche essere sintomo di molte buone ragioni, sebbene di fatto inespresse. Mi turba e mi sconcerta l’inerzia di coloro che non dovrebbero restare indifferenti di fronte al diffondersi della violenza nel linguaggio: segno preoccupante di possibili più gravi degenerazioni. Chi? In termini ideali tutti i cittadini, ma poi le persone in prima linea nella educazione, nella informazione, nella rappresentanza politica e civile. Cominciamo da me.

l’Unità 9.3.13
Noi ungheresi legati alla sconfitta
Lo scrittore Péter Esterházy parla del suo Paese governato da Orbán
Siamo un popolo dice di «vecchi che masticano il passato senza poterlo inghiottire o sputare»
Condannato a perdere sempre e perciò portato all’autocommiserazione
Durissimo contro l’attuale governo del quale dice: «Se ne può parlare solo insultandolo»
Nel suo ultimo libro «Non c’è arte» un’apologia del calcio che è metafora anche politica e sociale
intervista di Giuliano Battiston


BUDAPEST PER I CRITICI LETTERARI È UNO DEI PIÙ AUTOREVOLI SCRITTORI UNGHERESI, ALLERGICO ALLA PREVEDIBILITÀ DEI CODICI DI GENERE E CAPACE DI IMPASTARE IN MODO AFFASCINANTE MEMORIA BIOGRAFICA E FINZIONE ROMANZESCA. Per gli esponenti della destra nazionalista e populista al governo a Budapest è un artista dissidente, colpevole di non esaltare le virtù dell'identità magiara e al quale «revocare spiritualmente la cittadinanza», come suggerito a fine gennaio da Adam Medveczky, membro dell'Accademia di Belle Arti d'Ungheria.
Lui, Péter Esterházy, autore di libri fondamentali come I Verbi ausiliari del cuore (e/o 1998) e Harmonia Caelestis (Feltrinelli 2003, con cui si è aggiudicato il premio ungherese per la Letteratura e quello Sándor Márai), si presenta semplicemente come «uno scrittore descrittivo, uno che guarda e descrive».
Lo abbiamo incontrato a Budapest, in occasione della traduzione italiana del suo ultimo libro, Non c'è arte (Feltrinelli, pp. 208, 16 euro, trad. di Mariarosaria Sciglitano, cura di Giorgio Pressburger). Con lui grazie alla traduzione di Valentina Carusi abbiamo parlato di letteratura, storia ungherese e, in parte, del governo di Viktor Orbán, «di cui si può parlare solo insultandolo». Ne «Lo sguardo della contessa Hahn-Hahn» (Garzanti 1995) presenta Budapest, dove è nato, come «una città che gira e rigira intorno alla sua stessa memoria». Anche nel suo lavoro lei sembra fare una cosa simile, girando e rigirando innanzitutto intorno alla sua storia familiare, combinando biografia e finzione, storia personale e storia collettiva. È d’accordo?
«È vero. Tendo a prediligere l'autobiografia, ma la adotto come forma letteraria. Questo vuol dire che non ho necessariamente vissuto o sperimentato ciò di cui scrivo. Scrivere in chiave autobiografica è parte di un gioco. Nel libro I verbi ausiliari del cuore descrivevo la morte di mia madre. In Non c'è arte la incontro tutti i giorni. Se qualcuno mi domandasse se è viva o morta, cosa dovrei rispondergli? La letteratura rivendica l'impossibile, e io ne ho approfittato per allestire un palcoscenico letterario, un sipario dove mia madre non è più una tipica donna-lavoratrice est-europea, ma una donna libera e grande conoscitrice del calcio, amica del giocatore Puskás, un mito nazionale». Per sua madre scrive in «Non c'è arte» «tutta la bellezza, l'abbondanza, lo splendore del mondo si erano concentrati sul rettangolo del campo di calcio». Il calcio torna spesso nei suoi libri, tanto che lei è arrivato a scrivere che «i problemi del calcio sono i problemi del mondo». Ci spiega meglio le ragioni di questo interesse?
«Osservo il calcio soltanto come un gioco, non come un fenomeno sociale. Non vedo gli ultras sugli spalti, ma il rettangolo di gioco, non gli spettatori, ma i giocatori. Per me il calcio, la matematica (che ho studiato) e la scrittura sono tutt'uno. In tutti e tre i casi, quando li pratichiamo o li guardiamo, siamo capaci di creare un mondo con le sue regole, dimenticando tutto il resto. Al di fuori del mondo particolare con le sue regole istituito dal calcio, dalla letteratura e dalla matematica, non esiste altro. Negli anni 50 avevamo una nazionale di calcio fortissima, la squadra di Puskás: sotto una dittatura brutale e feroce gli ungheresi potevano avere 90 minuti di libertà e di vittoria. Poi purtroppo l'ordine è stato ripristinato. E abbiamo cominciato a perdere».
A proposito di sconfitte: in «Non c’è arte» scrive che «le rivoluzioni ungheresi sono per tradizione delle sconfitte, così anche quella del ‘56 è stata una sconfitta». Cosa intende dire?
«Che per l'Ungheria la rivoluzione del ‘56 sia stata una sconfitta è un fatto storico. In termini generali, abbiamo sempre perso tutte le guerre, mentre le nostre rivoluzioni non hanno mai prodotto le conseguenze auspicate. Mi domando se la sconfitta non appartenga intimamente al popolo ungherese. In ogni caso, perdiamo sempre. Da qui, quella tendenza all'autocommiserazione che è una caratteristica dell'est Europa, ma più in particolare di noi ungheresi».
Nell'articolo «Malumori mitteleuropei» (tradotto tempo fa sulla rivista Lettera Internazionale), sostiene: «siamo dei vecchi che masticano il passato senza poterlo inghiottire o sputare». In «Non c’è arte» parla invece delle tracce delle pallottole del ‘56 sui muri delle case, «rimaste lì a lungo, eppure nessuno voleva ricordarle, né noi né loro». Gli ungheresi non sanno fare i conti con la storia?
«Sul fare i conti con la storia ricordo un dibattito tra due grandi scrittori polacchi, Gombrowicz e Milosz. Gombrowicz sosteneva che anche la sconfitta può rivelarsi utile, se possiamo comprenderla e trarne una lezione, se riusciamo ad attribuirle una forma. Un calcio nel sedere, da solo, non basta per capire. Da questo punto di vista, noi abbiamo fallito. La storia ungherese non segue un continuum storico. La nostra tradizione balbetta. Cominciamo sempre da capo. Durante la dittatura non si poteva parlare. Dagli anni Novanta del Novecento possiamo farlo, ma non siamo riusciti a costruire un discorso onesto su noi stessi. Ci risulta difficile. Per questo, ci raccontiamo delle bugie, preferendo l'auto-inganno».
Eppure il primo ministro Victor Orbán recentemente ha presentato quella ungherese come «una storia europea di successo». Dalle sconfitte storiche sembra dire Orbán alla vittoria attuale. Condivide la sua opinione?
«È una forma di auto-inganno, che però seduce molti ungheresi. Proprio perché parla di sovranità e di libertà. Le nostre sconfitte storiche sono sconfitte del tentativo di renderci indipendenti dai turchi, dagli Asburgo, dai russi. Sconfitte del tentativo di affermare la libertà collettiva. Quando il nostro primo ministro dice che non ci inchineremo a Mosca o Parigi, pronuncia una frase comica. Ma il messaggio arriva, perché parla di sovranità, di una ferita storica. Io mi chiedo non tanto perché il governo agisca così, ma quale sia la faccia del governo e quale quella del paese. Spero sinceramente che non si somiglino troppo».

Non c’è arte, di Péter Esterházy traduz. Giorgio Pressburger pagine 204 euro 16,00 Feltrinelli
Esterházy resuscita la madre perché racconti la sua amicizia o sarebbe meglio dire flirt con il «dio del pallone» Puskás, sfruttando così l’occasione per fare un ritratto di due eventi fondamentali della storia ungherese: la rivolta anti-sovietica del ‘56 e la leggendaria nazionale magiara del ‘54. Due miti, due sconfitte, due rivoluzioni perse. Esterházy ci riporta a un’epoca romantica del calcio, quand’era infarcito di leggenda e morale, quand’era l’unico modo per sognare un avvenire diverso, o semplicemente l'unico sfogo per dimenticare povertà e sofferenza. Unire in un’autobiografia romanzata la figura aristocratica di Lili Esterházy con il mito Ferenc Puskás è un modo per fare un’apologia del calcio.

La Stampa 9.3.13
Hannah Arendt
Von Trotta: così è nata la “banalità del male”
In anteprima al Bif&st il film sulla filosofa, incentrato sui reportage dal processo contro il nazista Eichmann
di Fulvia Caprara

Donne che cambiano il mondo
«Non è un documentario, non volevo perdermi nel passato ma portare un po’ di lei nel presente» «La sfida era rendere per immagini il pensiero, ho insistito per avere come attrice Barbara Sukowa perché è l’unica che conosco che riesce a farti “vedere” le idee»
«Il suo principio guida era “voglio capire”, credo che valga anche per me e per i miei film»"

Barbara Sukowa nei panni di Hannah Arendt. S’è già cimentata con la Von Trotta in «Hildegarde von Bingen» e «Rosa Luxemburg»
Margarethe von Trotta: la regista tedesca ama i ritratti cinematografici di donne forti
La filosofa tedesca, allieva di Heidegger, durante il nazismo fuggì prima a Parigi e poi negli Stati Uniti. Al processo Eichmann andò come inviata del «New Yorker»

Da una parte un uomo «semplicemente incapace di pensare», dall’altra una donna che fa l’esatto opposto giungendo, proprio per questo, a capire la motivazione di uno dei principali esecutori materiali dell’Olocausto, coniando una definizione che oggi abbiamo fatto nostra, ma che allora, pronunciata nel bel mezzo del processo in Israele al criminale nazista Adolf Eichman, suonò offensiva e provocò reazioni indignate. Per la prima volta la filosofa ebreo-tedesca, inviata del «New Yorker» Hannah Arendt parlò di «banalità del male» sostenendo che gli orrori di cui Eichman si era macchiato avevano una semplice, agghiacciante ragione: «Continua a ripetere che non ha fatto niente di sua iniziativa e che ha solo obbedito agli ordini. Ci troviamo davanti a un essere umano che rifiuta di considerarsi una persona in grado di pensare». Una regressione spaventosa: «L’inabilità di pensare - dice Harendt ai suoi studenti durante una lezione chiusa da un lungo, fragoroso applauso - permetterebbe a tanti uomini di comportarsi come lui. E invece tutto sta nella capacità di dividere il giusto dallo sbagliato, il bello dal brutto. Pensare mette in salvo le persone».
Non era facile, racconta Margarethe von Trotta, regista di Hannah Arendt, in cartellone al Bifest, in programma a Bari dal 16 al 23 marzo, costruire un intero film su un materia impalpabile come l’attività del cervello: «Come si filma una donna che pensa? È la stessa sfida che si ripropone ogni volta che facciamo un film su personalità intellettuali». La scelta dell’interprete era imprescindibile: «Ho voluto a tutti i costi che la protagonista fosse Barbara Sukowa, sapevo che aveva le doti per interpretare una donna intelligentissima, una filosofa impegnata nei suoi ragionamenti, che parlava inglese con un marcato accento tedesco. E infatti ci è riuscita». Prima di girare, racconta von Trotta, è stato necessario un lungo lavoro di documentazione: «Abbiamo anche incontrato persone che hanno conosciuto Arendt». In Germania il film è uscito otto settimane fa e ha avuto un gran successo: «Un miracolo, visto che non si tratta certo di un blockbuster americano>. La narrazione si snoda dal ’60 al ’64, dall’arresto di Eichman alla sua esecuzione, ma per rappresentare la figura dello sterminatore nazista von Trotta ha deciso di ricorrere a immagini di repertorio, così il bianco nero della verità irrompe nel tessuto di un racconto che descrive anche l’ambiente familiare e amicale di Arendt, il marito amatissimo Heinrich Blucher, il suo ex-professore ed amante Martin Heidegger, l’amica Mary McCarthy: «Non credo che alcun attore sarebbe stato in grado di provocare nel pubblico le reazioni scatenate dalla vista del vero Eichman. La miseria, la mediocrità, il linguaggio burocratico, il suo essere un servo... no, nessun interprete avrebbe potuto, e se l’avesse fatto sarebbe spiccata solo la sua bravura». Così, nel film, Arendt osserva le immagini del processo sui monitor di una sala stampa, mentre sul grande schermo risalta la gelida compostezza di un uomo capace di tutto: «Dovevo eseguire gli ordini, se poi la gente moriva, io comunque dovevo continuare a obbedire». I testimoni spesso non reggono ai faccia a faccia, svengono, scoppiano a piangere, vengono accompagnati fuori: «I campi di concentramento - osserva Arendt in una scena - erano stati edificati sulla convinzione che la gente, quella gente, non fosse necessaria».
Le sue analisi provocarono il putiferio, come se levare al Male la su aura di grandezza fosse di per sè un delitto, oppure, peggio, un modo per ridimensionare le colpe dell’imputato: «Hannah era convinta che solo il Bene può essere radicale, che il Male non ha radici nel profondo dell’animo, che quindi non ci sono Satana o Mostri, ma solo persone senza carattere che in certe condizioni e in certi sistemi diventano suoi collaboratori». Dopo la pubblicazione dei primi reportage Arendt divenne oggetto di persecuzioni, lettere anonime in cui veniva definita «puttana nazista», commenti che la descrivevano come una donna «arrogante e priva di sentimenti», voltafaccia del collegio dei professori universitari che l’avevano sempre sostenuta e perfino dei più cari e affettuosi amici ebrei. Era il prezzo della verità, sempre altissimo: «Come altre donne che ho raccontato al cinema - dice Von Trotta Hannah Arendt aveva un suo principio che la guidava in ogni azione, “voglio capire”. Un principio che si adatta perfettamente ai miei film e anche a me stessa».

Repubblica 9.3.13
La mostra a Novara
Homo Sapiens
Che razza d’uomo
Luigi Luca Cavalli Sforza intervistato da  Fabrizio Filosa


Apparteniamo tutti alla stessa famiglia genetica. Le differenze di aspetto, dicono le più recenti scoperte scientifiche, sono adattamenti all’ambiente. Ora una mostra racconta il percorso della nostra specie, che da una piccola valle africana ha colonizzato l’intero pianeta. Perché, come gli insetti, è “cosmopolita invasiva”

Quanti anni hai?” e “Da dove vieni?” sono domande che in termini genetici e antropologici oggi hanno una sola risposta, che vale per tutti gli abitanti della Terra: “Ho 200mila anni e vengo da una piccola valle dell’Etiopia”. Perché nel Dna di noi Homo Sapiens si legge il cammino della nostra specie, che dall’Africa si è diffusa ovunque evolvendosi da uno sparuto gruppo di individui. Se è così, e la genetica lo conferma, le razze non esistono e tutti gli esseri umani sono figli della stessa “Eva mitocondriale”. È uno di quei casi in cui le scoperte della scienza hanno conseguenze culturali e politiche, ed è anche una delle confortanti rivelazioni della mostra Homo Sapiens. La grande storia della diversità umana che si è aperta a Novara. Se volete sapere da dove veniamo, quali innovazioni ci hanno trasformati in quelli che siamo e in che modo abbiamo prodotto un meraviglioso ventaglio di diversità culturali e linguistiche, la mostra ha le risposte. Ne parliamo con Telmo Pievani, docente di Filosofia delle scienze biologiche a Padova, che con il genetista Luigi Luca Cavalli Sforza ha curato l’esposizione.
Dunque possiamo finalmente seppellire la teoria delle razze…
«La moderna genetica ha dimostrato l’insensatezza di ogni classificazione degli esseri
umani sulla base della biologia. Nell’Ottocento si pensava che l’Homo Sapiens fosse così antico da aver permesso la suddivisione della specie in popolazioni con caratteristiche genetiche distinguibili. Oggi sappiamo che noi siamo una specie molto giovane, nata 200mila anni fa in Africa, che all’inizio contava non più di 25-30mila individui molto “mobili”. Non c’è stato il tempo per separarci dal punto di vista genetico».
Quindi siamo uguali ma diversi?
«La specie umana ha una duplice chiave di lettura: l’unità e la molteplicità. Facciamo parte della stessa famiglia, ma da questa unità abbiamo sviluppato una grande diversità culturale e di strategie di sopravvivenza grazie alle migrazioni».
La tendenza a spostarsi, a migrare, è una caratteristica della nostra specie?
«L’Homo Sapiens è l’unica specie migratoria, il che è un grande vantaggio. Essere stanziali non produce infatti trasformazione e il cambiamento è il motore dell’evoluzione. È una delle ragioni per cui forse sono scomparse le altre specie umane con cui abbiamo coabitato a lungo sul pianeta. Il dato sorprendente è che la trama di queste migrazioni ha lasciato un segno sia nei geni sia nelle lingue: l’albero delle parentele dei popoli della Terra corrisponde quasi esattamente a quello delle grandi famiglie linguistiche».
Quali sono le altre specie umane contemporanee al Sapiens?
«Ce n’erano almeno altre quattro, come è stato scoperto. Prima si era certi solo della convivenza in Europa e Medio Oriente con il Neanderthal, ma ora si sa che fino a 30-40mila anni fa sulla Terra vivevano contemporaneamente l’Homo Floresiensis, una specie incredibile trovata sull’isola di Flores, in Indonesia, l’Homo Erectus di Giava e una misteriosissima specie di cui siamo certi dell’esistenza perché abbiamo rinvenuto il genoma, ma solo pochi reperti, in una grotta in Siberia: è l’Homo di Denisova, che viveva in quella caverna in compagnia dei Neanderthal e dei Sapiens».
E perché solo noi siamo riusciti a colonizzare il pianeta e ad arrivare a oggi?
«Probabilmente il Sapiens si è moltiplicato a dismisura e ha soverchiato gli altri sul piano demografico e di capacità di adattamento culturale. Vale a dire che è stato più mobile e capace di adattarsi a ecosistemi diversi da quelli originari. E sicuramente ha contato il linguaggio articolato, cioè la capacità di condividere informazioni in modo astratto e immaginifico, che forse le altre specie non avevano così sviluppato. Il linguaggio produce un’organizzazione sociale più complessa e quindi un’espansione demografica più virulenta. Tutto ciò ha portato il Sapiens a diventare una specie cosmopolita invasiva».
Vuol dire che siamo il cancro della Terra?
«Qualcuno lo sostiene, ma noi non usiamo un termine così drammatico. Cosmopolita invasiva è un’espressione usata dagli ecologi per definire quelle specie, come i ratti e gli insetti, capaci di adattarsi a moltissimi ecosistemi e di moltiplicarsi a dismisura. E in verità è quello che ha fatto l’Homo Sapiens».
Che cosa hanno rivelato le ricerche sulla natura spirituale dell’uomo?
«Sappiamo che 60mila anni fa avvenne quella che si chiama Rivoluzione Paleolitica, prodotta forse dal linguaggio articolato. L’Homo Sapiens inizia ad avere comportamenti assenti nelle altre specie: sepolture rituali raffinate, pitture rupestri, pitture sul corpo, musica... Nella mente della nostra specie sono scattate capacità di vedere il mondo con occhi diversi, sono nate l’immaginazione, l’astrazione e di conseguenza la spiritualità».
Quale lezione si può trarre da queste novità, oltre all’assurdità del razzismo?
«Facciamo spesso l’errore di credere che l’evoluzione e la natura portino all’equilibrio, ma i fenomeni di rottura delle armonie ci sono, e l’Homo Sapiens nella sua storia ha rotto moltissimi equilibri precedenti a lui: ha estinto specie viventi, ha bruciato e devastato territori. È dunque ora che noi Sapiens facciamo i conti con la nostra innata attitudine a reprimere la diversità intorno a noi».