sabato 16 giugno 2007

Liberazione 16.6.07
La visita del presidente della Camera in Russia:
gli incontri interparlamentari e il confronto col primo ministro sulla fase internazionale
Bertinotti a Mosca, dialogo sulle crisi
di Anubi D'Avossa Lussurgiu


Il presidente della Duma di Stato, Boris Vjaceslavovic Gryzlov, il primo ministro Michail Efimovic Fradkov, il ministro degli Affari esteri Serghei Viktorovich Lavrov; a parte il presidente Putin, nella sua visita di giovedì a Mosca il presidente della Camera dei deputati della Repubblica italiana Fausto Bertinotti ha incontrato praticamente tutti i vertici della Federazione russa. Lo ha fatto in colloqui bilaterali, a partire da quello con Gryzlov dopo che i loro due discorsi avevano inaugurato l'ottava riunione della "Grande Commissione" Italia-Russia, formata appunto da una delegazione di Montecitorio (Benedetti Valentini di An, Compagnon dell'Udc, Marcenaro dell'Ulivo, Provera del Prc e Venier del Pdci) presieduta dal vicepresidente della Camera stessa, Giulio Tremonti e da una della Duma guidata dall'omologa Liubov Sliska.
Se l'avvio della sessione di lavori della "Grande Commissione" ha espresso particolari significati, avendo nella sua agenda argomenti non proprio marginali quali il "dialogo" sulla "sicurezza" tra Russia e paesi Nato, i rapporti politici tra la Federazione e l'Ue, quelli economici e il confronto sulla storia dopo il 1989; gli incontri a porte chiuse di Bertinotti con il premier e il capo della diplomazia russi hanno costituito l'occasione di un confronto privilegiato sulla fase attuale delle relazioni internazionali. Una fase che, oltre ogni formalità, è stata affrontata per com'è: drammatica, percorsa da pesanti dinamiche di regressione e da altrettante opportunità deluse o a rischio di rivelarsi tali. Ed è in questo quadro che la preoccupazione investe l'Europa: soprattutto nel quadro delle opportunità deluse, perché molte sono - o sono state - incentrate sulle qualità possibili del suo essere polo e insieme spartiacque, specie nella cornice di un'epoca segnata dalla coppia "terrorismo"-"guerra preventiva" cara all'analisi bertinottiana.
Non è stata dunque una tappa scontata, la visita ufficiale di Bertinotti a Mosca. Ancor meno scontato che un visitatore del genere indichi, come ha fatto, ai suoi interlocutori una doppia «bussola» quale quella della condivisione di diritti e democrazia e del superamento della contraddizione tra crescita economica e aumento delle diseguaglianze, attraverso la lotta alla precarietà.
Già nella mattina di giovedì, nel discorso pronunciato dopo il presidente della Duma, Gryzlov, ad introduzione della "Grande Commissione" interparlamentare, Bertinotti aveva messo l'accento su un tema approfondito successivamene col primo ministro Fradkov e il titolare degli Affari esteri Lavrov: quello delle «decisioni reciprocamente condivise». Anche sullo sfondo della discussione tra la delegazione dei deputati italiani e quelli della Duma, c'era infatti un difetto di decisioni: riguardo agli impegni bilaterali già assunti, come sul terreno oggi quanto mai accidentato dei rapporti multilaterali. Meglio: la diffusa espressione dei limiti delle decisioni politiche, laddove ad una ripresa di slancio in punto di partenariati economici non corrisponde una fase di dialogo politico soddisfacente, col risultato di rendere più angusto del possibile il respiro dei primi.
E' stato in questa cornice che Bertinotti ha portato, in una sede pubblica come l'avvio della riunione della "Grande Commissione", l'accento sulla questione dei diritti umani, di particolare criticità nella vicenda russa - dalla guerra in Cecenia ai metodi di governo in faccia alle opposizioni interne. Attento a non offrire alcun alibi a confusioni con il tono e il senso di altri approcci politici che impugnano strumentalmente il tema per alimentare in realtà confronti di forza, il messaggio bertinottiano ha preso piede da una chiarificazione netta: «Nessun Paese può ergersi a giudice di altri, al contrario, insieme deve essere trovata la via più efficace per un confronto che nella reciproca comprensione lavori per una crescente affermazione della democrazia e dei diritti». Proprio le «assemblee» rappresentative dovrebbero essere «il luogo istituzionale principale per risolvere compiutamente l'istanza della partecipazione» e per questa via «offrire concretamente una prospettiva di cambiamento a tutti coloro che il nuovo tempo delle relazioni economiche e sociali sta ponendo ai margini del corso della storia». Perché, ricorda, tanto la Russia come l'Ue «sono attraversate da giganteschi cambiamenti che investono l'economia e i rapporti tra le diverse economie che, a loro volta, investono direttamente le condizioni sociali dei popoli e i diritti delle persone». E aggiunge un leit motiv che ripeterà al premier e a Lavrov: «La crescita non è automaticamente portatrice di progresso sociale e questo apre una grande questione democratica».
Di qui un'indicazione che è soprattutto un auspicio: «Solo una grande politica può affrontare tali temi. Il confronto tra realtà diverse e una nuova cooperazione internazionale per la costruzione della pace e per la lotta alla povertà e alle diseguaglianze è la cornice affinchè questa nuova politica possa prendere corpo». La politica stessa, argomenta evidentemente avendo a mente anche il bagaglio di pensieri "italiani" che reca con sé, «deve rinnovare la propria capacità di indagare la realtà, di analizzarne gli snodi critici e i punti di sofferenza, di proporre soluzioni in grado di interpretare i fenomeni del nostro tempo in tutta la loro complessità».
Ne deriva l'articolazione di una prospettiva più ampia per le stesse relazioni di mercato: insiste a dire che «i grandi temi della cooperazione economica, a partire da quella energetica, debbono rafforzarsi insieme a quelli della democrazia e dei diritti», Bertinotti. E sui rapporti bilaterali italo-russi, nell'incontro a due con Gryzlov invita a guardare alla «grande leva economica che può venire dalla cultura, una vera e propria "energia bianca"».
D'altronde proprio Gryzlov illustra nel suo discorso un punto che tornerà martellante anche nelle posizioni del governo russo ascoltate poi da Bertinotti: la precipitazione - pesante su tutti gli altri terreni di confonto, già politicamente ardui dalla divergenza radicale sul Kosovo alle differenze d'approccio con l'Iran, sino allo stallo dell'iniziativa del "quartetto" sul Medio Oriente - dei rapporti sulla questione del disarmo, con l'inizitiva statunitense dello "scudo" in Polonia e Cekia e con le politiche di "allargamento" della Nato. Il presidente della Duma ripete il discorso di Putin: «L'ampliamento della Nato è ingiustificato, così come ingiustificata è la crescita di installazioni militari dell'Alleanza Atlantica vicino ai nostri confini». Chiosa: «Proseguiremo il nostro lavoro per assicurare pace e stabilità all'Europa ma siamo contro una nuova corsa agli armamenti e riteniamo che l'unica strada da seguire sia il disarmo in Europa centrale».
Sono parole che al pomeriggio tornano in forma sintetica nei discorsi a porte chiuse di Fradkov e, invece dettagliatamente, in quelli del capo della diplomazia russa Lavrov: il quale ha buona parte delle sue preoccupazioni rivolte in primo luogo, certo, al disastro di Gaza e al precipitare della situazione in Medio Oriente, ma anche alla Conferenza sul disarmo di Vienna, chiusasi infatti ieri con un nulla di fatto sul Trattato sulle armi convenzionali in Europa mai ratificato dagli euro-occidentali e impugnato da Mosca nel frangente dello scontro sullo "scudo". Bertinotti illustra il suo punto di vista, in verità eclettico rispetto alle voci ufficiali Ue e Nato sinora ascoltate, sin dal briefing con i giornalisti italiani dopo il colloquio con Gryzlov: «Quando qualcuno si sente in qualche modo accerchiato, è buona politica ascoltare con attenzione le sue preoccupazioni». Ma non si limita a questo: «contrastare una spinta al riarmo», prosegue, «è un tema ineludibile. È un problema insieme di pace e di un'idea dell'economia per il futuro». Introduce quel che illustra in seguito alla "Casa Bianca" moscovita e nella sala degli incontri ufficiali ristretti al ministro degli Esteri: «Condividiamo con la Russia la politica di valorizzazione delle Nazioni Unite e anche di una politica che lavori per la pace e per risolvere i punti di crisi e di controversia nel mondo attraverso il metodo della trattativa e del negoziato». Una politica, al momento, tutta a venire: e per nulla assicurata, in particolare dalla "vacanza" dell'Europa.

il manifesto 16.6.07
Nasce Sinistra europea

Per qualcuno è nata già morta, per altri, al contrario, è il futuro. In ogni caso, oggi e domani a Roma si tiene l'assemblea nazionale costitutiva della sezione italiana di Sinistra europea. Una due giorni di dibattito che darà vita al nuovo soggetto. Oggi all'ordine del giorno è prevista una tavola rotonda sul «futuro della sinistra» a cui interverranno, oltre agli esponenti di Rifondazione comunista, che è la promotrice in Italia del progetto, anche i rappresentanti delle reti e delle associazioni che vi aderiranno. Nel pomeriggio, il dibattito delle delegate e dei delegati, poi sospensione dei lavori per prendere parte al gay pride. Domenica mattina è previsto invece l'intervento di Fausto Bertinotti. L'intervento più atteso, visto che segna il suo ritorno alla vita del partito, ma anche quello che più provocherà polemiche. E' proprio il presidente della camera infatti l'obiettivo delle critiche di chi, nel Prc, non vede di buon occhio la nascita di Sinistra europea. Sinistra critica non parteciperà neppure all'incontro, mentre la minoranza dell'Ernesto ci sarà, ma «solo di passaggio», come afferma il senatore Fosco Giannini, direttore della rivista. «Siamo fortemente contrari alla nascita di questo soggetto, è un'operazione moderata e socialdemocratica», Giannini, insieme con il deputato Gianluigi Pegolo e a Leonardo Masella, capogruppo del Prc nel consiglio regionale dell'Emilia Romagna, auspica, invece di una svolta ancor più governista del suo partito, «il rilancio di un moderno partito comunista, e non il suo superamento». Pena, come gli ultimi risultati elettorali dimostrano, « una consunzione elettorale sempre più ampia», conclude Giannini.

Repubblica 16.6.07
Prc, l’ultimatum dei giovani "Fare presto cose di sinistra"
Troppe armi e poco welfare: il j'accuse contro il governo amico
di Alessandra Longo


La responsabile dell'organizzazione giovanile: "Ripenso ai post-it per Bertinotti: sono quelli i desideri da soddisfare"
Giudizi duri su Prodi: "Lontano dalle sofferenze della gente". Ma anche realismo: "Farlo cadere non serve"
Tra i gesti-simbolo suggeriti quello di "bloccare le ruspe alla base di Vicenza". E di aumentare le pensioni

ROMA - Ha una bella faccia sorridente, 25 anni, una storia politica che inizia con le proteste del Movimento Studentesco contro la riforma Berlinguer, un padre, già operaio Enel, finito a 50 anni, nell´era delle ristrutturazioni, a lavorare, cuffie in testa, nel call center dell´azienda. Betta Piccolotti è la portavoce dei Giovani Comunisti di Rifondazione. Se uno vuol capire come se la passa il partito in questa fase delicata, quali sono i sentimenti, le emozioni dei 15 mila iscritti sotto i 30 anni, deve ascoltare voci come la sua. Voci che non mediano il pensiero, non filtrano e soppesano, come fanno i senior, anche quelli più radicali.
Del governo Prodi Betta pensa questo: «E´ totalmente ingessato, ha difficoltà ad individuare i nodi reali, non si connette con la sofferenza della gente sui temi del lavoro, dei salari, della pace, della guerra». Betta parla, guardando onestamente anche all´interno del suo partito, di «disillusione, di umore nero del popolo della sinistra». Dorme ancora bene la notte, dice, ma «si sta interrogando»: «O si cambia rotta, o sarà un autunno caldo».
No, non è una scalmanata: «Penso che far cadere questo governo non risolverebbe nulla. Il punto è un altro: riequilibrare il rapporto tra governati e governanti. Non ho mai pensato che Prodi fosse un rivoluzionario ma che mettesse fine alle storture berlusconiane, questo sì». E´ andata, il 9 giugno scorso, al corteo No-Bush con gli amici del Network delle comunità in movimento, poi è passata al sit-in «istituzionale» di piazza del Popolo, «una piazza triste, come lo sono tutte le piazze senza persone».
Un po´ triste lo è anche lei per come vanno le cose: «Penso alla campagna delle primarie, ai post-it che i militanti, gli elettori, mandavano a Bertinotti, con i loro voglio». Voglio vedere i miei sorridere quando prendono la pensione, voglio scogliere senza cemento, voglio la tassa sui furbi, doppia se di sinistra, voglio fumarmi uno spinello, voglio che il mio pensiero sia rispettato. «Mi chiedo - dice Betta - se il governo Prodi sia ancora permeabile a questi voglio. E mi piacerebbe conoscere i voglio dei futuri iscritti al partito democratico. Perché il problema, sono sicura, non è solo nostro».
«L´aumento delle spese militari, il diktat di Vicenza, lo scudo stellare, la lotta alla precarietà». Betta pensa che Rifondazione debba far sentire meglio la sua voce sia pur nella cornice «del compromesso più avanzato», e difende la libertà dei movimenti», quasi la ragione sociale del partito, «che non devono farsi imbrigliare dalla logica delle coalizioni». Betta parla la stessa lingua di Alessandro Rozza, 25 anni, leonkavallino: «Il partito deve prendere la sua anima dal Movimento. Il passaggio a Sinistra Europea va proprio in questa direzione, un soggetto allargato, una forma partito confederale, non verticistica, costruita sulla partecipazione dal basso». Come si sente un leonkavallino di questi tempi? «Come Nanni Moretti, mi aspetto qualcosa di sinistra. Rifondazione non si è impegnata solo con il Movimento ma anche con gli elettori».
Michele De Palma ha 31 anni, gli occhialetti alla Gramsci, siede nella segreteria nazionale, è stato alla guida dei Giovani Comunisti prima di Betta Piccolotti, ha cominciato a far politica a Terlizzi, lo stesso paese di Niki Vendola, lotta alla mafia, Movimento Studentesco. Dice: «Non ho mai pensato che dal governo si potesse cambiare il mondo e nemmeno che Bush e Prodi siano la stessa cosa, come ho letto su certi striscioni il 9 giugno. Ma così non va bene. Basterebbe rispettare il programma dell´Unione, basterebbe non allontanare i pensionati che protestano davanti a Palazzo Chigi».
Un´altra voce, giovane, che non usa un linguaggio ultimativo nei confronti del governo, che capisce le difficoltà oggettive del suo partito ma lo vorrebbe più tonico, forse più spregiudicato nei rapporti con gli alleati, sicuramente più libero di «bloccare le ruspe a Vicenza, di difendere le ragioni degli abitanti della Val di Susa». Nessuno di loro che perda tempo a parlare dei teocon, dell´Udeur. Il confronto è tutto a sinistra. Per esempio con Massimo Cacciari, che li ha molto sfidati: «Ha detto che Rifondazione è la zavorra ideologica della coalizione - ricorda De Palma - ha un´idea della società sul modello neo-americano: i movimenti si agitano, la politica governa e il fiume volge sempre verso la stessa sponda. Io penso che quello che Cacciari chiama zavorra sia il lievito della società, altrimenti la politica diventa solo risposta di volta in volta alle sollecitazioni delle lobbies». Noi siamo un´altra cosa, si ripetono i Giovani Comunisti, quasi per farsi coraggio e scacciare il timore che l´essere al governo possa produrre una «contaminazione» negativa, ingessi, separi, allontani. Anche per questo è stato molto apprezzato il mea culpa di Giordano sulle due piazze separate anti Bush. «In politica - dice De Palma - raramente si ammettono gli errori».
Correggere la rotta: è questa l´ossessione, l´obiettivo, con l´ansia che il tempo è poco, che il rapporto con gli elettori - le amministrative lo dimostrano - ha subito un vulnus, e bisogna fare presto. Nicola Fratoianni, 32 anni, segretario regionale di Rifondazione in Puglia è l´unico che si concede un sorriso di questi tempi. Ha tirato la volata a Niki Vendola e ha puntato su Ippazio Stefàno, eletto alla bulgara sindaco di Taranto. Non vuole assolutamente l´etichetta di vincente ma una ricetta deve esserci, al netto delle specificità locali, se le cose possono anche andare così. «Certo che c´è - dice Fratoianni - si chiama coerenza. Vai al governo e sai che devi mediare - Vendola lo fa - ma devi anche introdurre un tratto, fare qualcosa di sinistra per l´appunto. Se elimini la gran parte dei ticket sanitari, se fai una legge regionale sui servizi sociali che dà diritti anche alle coppie di fatto, se in due anni apri 10 parchi, allora le cose possono anche funzionare. Adesso il governo Prodi dovrebbe togliere lo scalone, combattere seriamente la precarietà, ritoccare le pensioni minime. C´è sofferenza, c´è crisi, anche nel nostro partito. Ma se ne esce solo così: dando risposte alla gente, facendo quel che si è promesso».

il manifesto 16.6.07
Il commento. La settimana nera di Rifondazione comunista
di Marco Revelli


Su ciò che è accaduto a Roma una settimana fa si è discusso ampiamente. Sul palcoscenico di piazza del Popolo è andata in scena, con la plasticità degli eventi simbolici, la «caduta» di Rifondazione comunista: il fallimento della sua linea politica, non solo degli ultimi mesi ma degli ultimi anni. Dico di Rifondazione comunista, anche se non è l'unica a aver allestito quella piazza, perché è stata la formazione politica che più di ogni altra aveva puntato sul «rapporto con i movimenti» (per usare l'espressione di rito) e insieme che più aveva dato per far nascere e sostenere il governo Prodi. Ora, nel vuoto di quella piazza - e nel pieno delle strade «alternative» circostanti - poteva constatare con quanta rapidità almeno un quinquennio di lavoro «con il sociale» (diciamo: da Genova in poi...) fosse stato azzerato da poco più di un anno di presenza nell'esecutivo.
Il sabato nero della «sinistra radicale di governo» - si può dire così? - non può essere tuttavia separato da ciò che è avvenuto la settimana successiva, e che ha riempito le prime pagine di tutti i giornali. Intendo la devastante crisi d'immagine che ha colpito i massimi vertici dei Ds con la diffusione delle intercettazioni relative alle scalate bancarie. Che non è questione di «complotti», di «follia italiana», di gossip o di malcostume informativo: forse c'è anche questo, ma non è la questione principale. E neppure un aspetto secondario - di «costume», appunto - di una lotta politica che si svolge su ben altri terreni. E', al contrario, la prova desolante del livello di degrado politico, etico, persino linguistico e - l'espressione è estrema, ma non ne trovo un'altra adeguata - «antropologico» di quel pezzo di classe politica a cui buona parte degli elettori di sinistra aveva pensato (illudendosi) di poter affidare il risanamento morale del nostro paese. E' la fine di quella residua legittimazione morale che aveva costituito l'ultimo, tenue filo di continuità di un'Italia che continuava a credere nella politica perché s'immaginava e l'immaginava «altra» rispetto alle orge del potere berlusconiane. Il lessico degli «intercettati», gli argomenti usati, gli uomini con cui e di cui parlano (avete presente il «compagno» Ricucci?), la superficialità e l'arroganza che trapelano, la logica affaristica che esprimono, il piglio da «razza padrona» che denunciano, non costituiranno di per sé (almeno per ora) prove di reato. Ma ragione di una delegittimazione politica totale (da «sen vajan todos»), questo sì, almeno da parte di chiunque non condivida un realismo e un cinismo di tipo tardo-bolscevico alla Ferrara.
Le due sinistre
Può dunque apparire come una terribile beffa del destino che, nel corso della stessa settimana, entrambe le «due sinistre» italiane cadano insieme. Che mentre esplode la crisi della più importante componente della «sinistra moderata» impegnata a convergere drasticamente e definitivamente verso il centro, contemporaneamente imploda la linea politica del partito che più avrebbe potuto «capitalizzarne» gli esiti, o comunque contribuire alla nascita di una più vasta alternativa organizzata a sinistra lungo un percorso di dialogo col «sociale». E che per anni si era preparato a questo momento. Né mi sembra, sinceramente, che la voragine che si va aprendo «in alto» possa essere riempita, in tempo utile, da ciò che si muove «in basso».
Il corteo che sabato scorso ha attraversato Roma è stato grande, non c'è dubbio, bello, multicolore e polifonico (almeno nella sua stragrande maggioranza e fino a cinque minuti dalla fine). Ha dimostrato che un nucleo ampio, massificato, di partecipazione attiva contro la guerra e per l'autodifesa dei territori non si lascia intossicare dai miasmi che escono dal palazzo. Può sopravvivere all'asfissia dei piani alti. Ma non prefigura ancora un'altra «politica possibile». Non rappresenta neppure tutto l'esteso tessuto partecipativo che si era materializzato a Genova nel 2001, con i centri sociali e le parrocchie, i militanti della sinistra radicale e i boy scout, la rete Lilliput di Alex Zanotelli e la Fiom di Claudio Sabattini tutti fusi insieme... Ne costituisce solo l'anima «politicamente organizzata», più una sorta di partito in pectore che non il «movimento dei movimenti». Per questo, la legittima soddisfazione dei suoi organizzatori, se travalica in gioia trionfale mi ricorda un po' chi celebri una festa di compleanno nella sala da ballo del Titanic.
Il fatto è che lo spettacolo (inguardabile e terribilmente triste) a cui stiamo assistendo in questi mesi è quello di una sinistra che «viene giù» tutta insieme. Che cade in tutte le sue componenti, nel quadro di una più generale «crisi della politica». Di un mutamento genetico delle caratteristiche stesse del «politico» - dei suoi ambiti spaziali, delle sue forme espressive e organizzative, dei suoi valori di riferimento e delle sue concrete possibilità di azione - che fa venir meno il contesto stesso in cui l'identità della sinistra si era strutturata. E' cioè la politica del «moderno» - quella fondata sulla centralità della «forma-stato» e della sua sovranità su base nazionale, sulla relativa autonomia della decisione politica, sulla responsabilità territoriale dei diversi attori sociali e politici, sulla possibilità di localizzarne i conflitti e di regolarne le forme - che cade. E trascina con sé nella crisi il proprio primogenito legittimo, la «sinistra» appunto, colpendo mortalmente uno dei cardini della sua esistenza come entità «politica»: il principio di rappresentanza. La possibilità stessa di tradurre le domande e i conflitti sociali in forma politica.
E' questo, oggi, il capo delle tempeste di ogni sinistra: questa difficoltà a tener fede all'imperativo della responsabilità dei rappresentanti nei confronti dei propri rappresentati, che riproduce su scala allargata l'immagine, reale, della «casta» chiusa. Dell'oligarchia dominante. Del «ceto» mosso più da solidarietà (affinità, complicità...) interne e «orizzontali», che non da un qualche rispetto per i propri elettori a cui chiedono una legittimazione tradita.
Ho detto «difficoltà» a tener fede, e avrei anche potuto chiamarla «impossibilità», e non «cattiva volontà» o «indisponibilità», per sottolineare il carattere in buona misura «obbligato» della patologia. Il suo stare nell'ordine (o nel disordine) delle cose, in un contesto dai confini labili, in cui i vincoli di coalizione e delle relazioni trans-nazionali sono feroci, e tagliano spesso le connessioni verticali con la propria gente e i propri territori.
Interlocuzione lobbistica
Non è che i «politici di professione» non ne siano consapevoli. La destra lo sa benissimo, e trova in ciò conferma della propria affermazione totalitaria dell'esistente come unica idea regolatrice, e della propria conclamata «passione per gli interessi». A sinistra, una parte ha evidentemente pensato di far fronte alla crisi sciogliendovisi dentro, e puntando (quasi) tutto sull'interlocuzione lobbistica e sul tentativo di «comprarsi» una parte di sistema economico per ripartire di lì a ridisegnare il profilo del capitalismo italiano (quello che hanno fatto da sempre gli «altri»). Un'altra parte, logorata la rappresentanza, ha giocato le proprie carte sulla rappresentazione di sé come icona simbolica di un'identità altrove introvabile. Ma sono state, entrambe, risposte di corto respiro: l'una destinata a incagliarsi nell'intrico delle cordate e nelle loro implicazioni giudiziarie. L'altra a inabissarsi sulle piazze.
Un pensiero piccolo di fronte a eventi grandi - «epocali» suggerisce qualcuno -, è rovinoso. E credo che sia proprio dal pensiero, dall'elaborazione di un linguaggio e di una rete di categorie capaci di reinterpretare il presente, che si dovrebbe ripartire, se non si vuole che anche l'ultima chance offertaci oggi, la costruzione di un'ampia area politica, sociale e culturale non conciliata con l'esistente ma capace di pesarvi e dire la propria, si disfi nelle mani di chi vi lavora, prima ancora di vedere la luce.

Liberazione 16.6.07
Intervista al capogruppo della Sinistra democratica al Senato: «La delusione attorno al governo riguarda tante scelte: da quella del segreto su Omar al Dal Molin, fino alla tragica verità sul G8»
Salvi: «De Gennaro si dimetta. Ma Prodi non ha nulla da dire?»
di Stefano Bocconetti


Si parte da un dato. «Certificato» dal voto amministrativo e da mille altri «segnali»: la delusione, la forte delusione per questo governo. Che molti spiegano per le scelte - o non scelte - di politica economica e sociale. «E io credo che sia importante aver recuperato l'unità d'azione fra tutti i gruppi parlamentari della sinistra per provare a modificare l'impostazione monetarista di Padoa Schioppa». C'è tutto questo, certo. Ma Cesare Salvi, capogruppo della Sinistra democratica a Palazzo Madama, dice di più: «La delusione si spiega anche con tante altre scelte cose. Che rivelano arroganza, miopia, disinteresse per le richieste del "nostro popolo". E stai attento: sto parlando di richieste che non costano neanche una lira. Che insomma non andrebbero a sbattere con quei vincoli di bilancio tanto cari a Padoa Schioppa».
A cosa ti riferisci esattamente?
L'elenco sarebbe lunghissimo.
Vediamo solo i titoli.
Da dove cominciamo? Per esempio dalla vicenda del sequestro di Abu Omar e dalla decisione del governo di confermare il segreto di stato. Scelta che si è accompagnata con pesanti attacchi alla Procura di Milano. Scelta che viene contestata dai liberali svizzeri, non da Chavez. Liberali svizzeri.
E poi?
La vicenda di Hanefi. Il nostro paese dovrebbe, in teoria, ospitare una conferenza internazionale sulla giustizia in Afghanistan. Mentre a Kabul marcisce nelle carceri il rappresentante di Emergency, senza che sia stata formulata contro di lui neanche un'accusa. Possibile che il nostro governo non abbia nulla da dire? Di più: la vicenda del Dal Molin. Proprio qui, in Senato, s'è votato un documento che impegnava l'esecutivo ad una conferenza sulle servitù militari, che impegnava l'esecutivo a cercare le vie del dialogo con le comunità locali. Come sia andata, lo sanno tutti: un generale, a nome di un ambasciatore, ha comunicato che la base si farà. Comunque. Io credo che neanche in paesi vassalli degli Stati Uniti, come potrebbero oggi essere la Bulgaria o la Romania si sarebbe accettata una simile violazione della propria autonomia. Non basta? C'è il caso di Pio Pompa, lo «spione» che cercava di incastrare tutti i leader politici. Che è ancora seduto, magari due uffici più in là di quelli del ministro Parisi. E poi, c'è il G8.
La macelleria messicana.
Esatto. Quel che è emerso è esattamente quel che tanti avevano denunciato a Genova. E sono fatti gravissimi, drammaticamente gravi. E allora quello che si chiede è davvero poco. Neanche la commissione d'inchiesta - che pure, ricordiamolo faceva parte del programma dell'Unione, col quale si sono vinte le elezioni - ma possibile che nessuno nel governo abbia nulla da dire? Possibile che nessun ministro possa fare nulla?
Fare cosa? Allontanare il capo della polizia, De Gennaro?
Io credo che sarebbe un atto di sensibilità da parte di De Gennaro quello di dimettersi, di lasciare l'incarico. Almeno fino a che i fatti non siano stati chiariti. Ma Amato, e lo stesso Prodi possibile che non riescano a tirar fuori neanche una parola? Possibile che non ci sia la possibilità di un'inchiesta amministrativa? Perché non si può delegare tutto alla magistratura. Troppo comodo. C'è un "piano politico" che non può essere ignorato. Lì, alla Diaz, la democrazia è stata sospesa, violata. Possibile che l'esecutivo non possa dire una parola su questo? Possibile che non possa fare nulla?
Ma secondo te, perchè accade tutto questo?
Perché nel governo c'è tanta sottovalutazione su quanto siano rilevanti queste questioni. Su quanto siano importanti "atti politici" per ripristinare le regole democratiche. Che valgono, che devono valere per tutti. Sì, nel governo, c'è molta sottovalutazione di quanto alcune scelte pesino, siano considerate rilevanti anche dal nostro elettorato. Sottovalutazione unita ad uno scarso peso che ha la sinistra nello schieramento. Che ha avuto.
Perché usi il passato? Non è più così?
Nel coordinamento dei gruppi parlamentari s'è deciso che ci si occuperà anche di questi temi. Ci batteremo per quella che è stata giustamente chiamata la "redistribuzione sociale" delle risorse. Ma ci batteremo anche su questi temi. Su questi punti. Proveremo a svincolarci.
"Svincolarci". Che vuol dire?
Far vedere che la sinistra ha una sua elaborazione autonoma, è in grado di produrre proprie richieste.
Richieste che arriveranno fino a dove?
Immagino che tu voglia sapere qualcosa sulle sorti del governo. E ti rispondo che il governo rischia solo se non fa nulla. Certo, tutti sappiamo che non esistono alternative più avanzate rispetto al governo Prodi. Ma questo non significa che occorra stare fermi, stare a guardare. Non significa che non si debba proporre e dire la nostra su tutto ciò che non va. A Roma e altrove.
Pure qui: con questo "altrove"esattamente che vuoi dire?
Ma, insomma, non sono solo io a vedere quel che accade in tutte le regioni meridionali, guidate da giunte di centrosinistra. In tutte, meno che nella Puglia di Vendola. Ma in Campania, in Calabria, in Basilicata c'è una generale sottovalutazione del fenomeno mafioso. C'è disattenzione se non di peggio.
Di peggio?
Sì, di peggio. Ormai, e il voto amministrativo mi pare l'abbia rivelato esattamente, la gente percepisce come omogenei il centrodestra e il centrosinistra. In molte parti del paese c'è un'omologazione fra i due schieramenti, uniti dalle pratiche di sottogoverno, clientelari. Acquiescenti verso i fenomeni mafiosi.
E' così dappertutto?
No. Infatti sono stati importantissimi i risultati di Taranto e di Gela. Lì, si è dimostrato che quella che chiamano "sinistra radicale", o sinistra d'alternativa può essere davvero il motore di un rinnovamento del Sud. Sì, quelle due città, assieme alla Puglia rivelano che la sinistra, la sinistra vera, può candidarsi ad essere classe dirigente. Ma il resto del centrosinistra - è un dato sul quale tanti dovrebbero riflettere - viene ormai percepito come esattamente uguale all'altro schieramento. Anche qui, o c'è uno "scatto" o non si va da nessuna parte. Col rischio di rimetterci tutti.
E allora?
Io sono convinto che l'"antipolitica" deve trovare una risposta forte soprattutto a sinistra. Una risposta unitaria della sinistra. Una risposta che ovviamente tenga conto di quanto siano rilevanti, drammatiche le condizioni sociali del nostro paese. Che abbia chiaro quanto ci sia bisogno di redistribuire ricchezza. Ma che sappia unire tutto questo ad una battaglia chiamiamola ideale. Sì, la battaglia sociale deve unirsi ad un nuovo "agire politico". Che per esempio faccio diverso questo governo dal suo predecessore.

Repubblica 16.6.07
Germania, la "Sinistra" sfida la Spd
"Die Linke" nasce dall´unione tra la Pds e i seguaci di Lafontaine
Al congresso di Berlino prende corpo la "Cosa rossa" tedesca Ospite d'onore, Fausto Bertinotti
di Andrea Tarquini


BERLINO - Ci sono voluti due anni di trattative, alla fine è arrivata la svolta. Nasce a Berlino la Linke (sinistra), il nuovo partito unito della sinistra radicale. I postcomunisti (o neocomunisti) della Pds dell´Est, guidati da Gregor Gysi e Lothar Bisky, e i dissidenti massimalisti della Wasg che hanno lasciato la Spd con Oskar Lafontaine, si uniscono formalmente oggi in una sola forza politica. È una sfida pericolosa per la Spd, la socialdemocrazia orfana del cancelliere Schroeder e al governo nella Grosse Koalition guidata dalla Cancelliera conservatrice Angela Merkel. Il nuovo partito - la prima forza parlamentare a sinistra della socialdemocrazia dal dopoguerra - stravolge aritmetica ed equilibri, e può cambiare le regole del gioco della governabilità nella prima potenza europea.
È il momento delle emozioni, nel centro congressi dell´hotel Estrel a Sonnenallee, a un passo da dove passava il Muro. Ieri le due anime hanno tenuto i loro congressi di scioglimento, 400 delegati ciascuno. Oggi 800 delegati riuniti delle due formazioni terranno le assise di nascita formale. Sono attesi anche ospiti stranieri, di cui il più alto in rango è il presidente italiano della Camera, Fausto Bertinotti.
Giustizia sociale sopra ogni cosa, no duro al neoliberismo, basta con la partecipazione a operazioni militari che il governo (con mandato Onu, come nei Balcani o in Afghanistan) difende quali missioni di pace. Basta tagli al welfare, dare di più ai perdenti della globalizzazione.
Ecco il credo della Linke. Può catturare molti consensi dei delusi dalla Spd e di chi per protesta vota i neonazisti. Il nuovo partito oggi è molto più forte all´Est, ma appare deciso a prendere piede anche a Ovest. Il primo test, le elezioni a Brema, è stato un successo.
La nuova formazione è pericolosa per la Spd, che nei sondaggi è appena al 27 per cento contro il 38 per cento della Cdu-Csu di Angela Merkel, scriveva ieri il Tagesspiegel. In casa socialdemocratica, avvertiva la Sueddeutsche Zeitung, il nervosismo è palpabile. I sondaggi danno la Linke tra il 9 e il 10 per cento. Il che potrebbe significare che in Germania o governerà una Grosse Koalition, o coalizioni di minimo tre partiti. Perché i liberali o i verdi, da soli, potrebbero non bastare più a sostenere i due partiti di massa.
Diciotto anni dopo la caduta del Muro, Oskar e Gregor, l´infaticabile duo ribelle di Berlino, sdoganano dunque i sogni di ieri per reinventare la sinistra radicale e sfidare l´establishment del Centro.

Parla Oskar Lafontaine, guida dei dissidenti socialdemocratici:
"Siamo l'alternativa ai delusi da Schroeder"

BERLINO - Oskar Lafontaine, il nuovo partito è una sfida alla Spd?
«Sì. Perché la Spd ha abbandonato i suoi valori e i suoi principi, perde elettori e iscritti, non ha una strategia per uscire dalla sua crisi».
Però è al governo con la Cdu di Angela Merkel. Non è un vantaggio?
«Anche nella Grosse Koalition la Spd è per l´aumento dell´iva, una politica di taglio al welfare e partecipazione a guerre contrarie al diritto internazionale».
La Linke può creare nuove formule di governo?
«A livello locale si parla. A livello nazionale la Spd rifiuta ogni collaborazione con noi. Così continueranno a perdere seguito, e forse la situazione cambierà».
I vostri avversari vi accusano di minacciare la governabilità. Cosa risponde?
«È la Grosse Koalition ad aver danneggiato la democrazia. Tre quarti del Bundestag governano contro l´opinione della maggioranza della gente. In alcune elezioni va a votare meno della metà. Noi rendiamo la democrazia più stabile. Anche perché creiamo per il voto di protesta un´alternativa a votare per l´ultradestra».
Cioè volete contendere elettori ai neonazisti?
«Chi è deluso dal governo ha con noi un´alternativa democratica, non più solo la scelta letale di sfogare la rabbia votando per i neonazisti».
Volete essere solo voce di protesta o anche a disposizione per coalizioni?
«Vogliamo cambiare la politica. Se sarà possibile solo all´opposizione, resteremo all´opposizione. Se altri partiti cambieranno linea sui grandi temi della giustizia sociale e del no alla guerra, potranno diventare partner».
La sinistra in Europa attraversa un momento difficile. Dalla Spd, al Ps francese, al Labour. Come può rilanciarsi?
«Deve battersi in modo credibile per valori socialdemocratici e per la pace. Blair era popolare finché ha fatto politica sociale. Con la guerra in Iraq si è giocato tutto. Zapatero al contrario ha mantenuto la promessa: ritiro subito dall´Iraq. E ha svecchiato le strutture della società spagnola».
La Francia non le sembra una crisi quasi senza appello della sinistra?
«In Francia la sinistra ha un compito ancora più difficile. Il gollismo è statalista, ha un´anima sociale. Sarkozy vuole una politica fiscale reazionaria, ma anche controlli democratici sulla Banca centrale europea, e dialogo con i sindacati. La sinistra non ha saputo darsi un profilo e programmi più convincenti».
E in Italia?
«In Italia il centrosinistra avrà l´appoggio della gente solo se la convincerà di fare una politica migliore del centrodestra».
Quale rapporto auspica con il movimento no global?
«È molto importante. Noi al G8 siamo stati il solo partito dalla parte dei no global non violenti in piazza».
Come vi schierate sulla Costituzione europea?
«Abbiamo appoggiato il no al referendum in Francia. La Costituzione non può essere imposta sopra le teste dei popoli».
(a.t.)

Gysi, il leader che avviò la trasformazione del partito comunista
"Il disagio dell'Est è ancora una realtà"

BERLINO - Gregor Gysi, il nuovo partito non è troppo un matrimonio tra due anime?
«C´è un momento logico e un momento casuale. All´Ovest nel dopoguerra purtroppo non si manifestò mai il bisogno di un movimento democratico, parlamentare, alla sinistra della Spd. E d´altra parte la mia strategia, di radicare all´Ovest il mio partito riformato dell´est non è riuscita. La Storia tedesca è diversa. La divisione ha creato all´Ovest che riciclava ex nazisti un anticomunismo militante che il regime sbagliato della Ddr, col Muro e altro, ha alimentato».
Perché dovrebbe avere successo il nuovo partito?
«Perché la globalizzazione ha posto in forse lo Stato sociale, i valori per cui la gente votava socialdemocrazia».
Quanto devono restare diverse le due anime?
«Dobbiamo cercare di essere veramente un partito unito. Non so quanto abbiamo bisogno di differenze, le differenze esistono. Dobbiamo imparare a convivervi: biografie dell´Est e dell´Ovest. Per me è importante evitare l´errore di trascurare improvvisamente l´identità tedesco-orientale. Intanto però i nostri elettori si sentono più legittimati».
Quanto pesa il passato, per le due anime del nuovo partito?
«Abbiamo riflettuto sulla Storia più degli altri: Cdu e liberali hanno assorbito acriticamente Cdu e liberali dell´Est, ex partiti fiancheggiatori nella Ddr. Le due anime hanno storie diverse, impareremo a fare i conti. La Storia della sinistra è sempre complicata. L´ingiustizia della Storia è che la sinistra democratica non ha capito di aver incassato anche lei una sconfitta con la sconfitta della sinistra dogmatica dopo l´89. La vita non è sempre giusta. Due conclusioni: vogliamo solo un socialismo democratico, mai autoritario, ma crediamo nel socialismo. Riteniamo che il capitalismo non abbia risposte adeguate alle grandi sfide dell´umanità».
In Europa la sinistra se la passa male.
«Ma in America latina si sta rafforzando. Dal Cile al Brasile, dall´Uruguay al Venezuela. sinistre moderate o radicali sono protagoniste del momento. Ecco il segnale: la nuova sinistra viene dall´America latina, non dall´Europa. Evitiamo arroganze eurocentriche. Essere a sinistra non vuol dire avere sempre la maggioranza nella società, ma essere riconoscibili, avere un´identità».
Ma tra democratici come Michelle Bachelet e Lula, e l´autoritario Chavez dall´altro, c´è una bella differenza, non le pare?
«A Caracas ci sono stati tentativi illegali di rovesciare il presidente, a Brasilia no. Ci sono sinistre moderate e radicali. Ma la gente non vuol più vivere in miseria. L´importante è che la sinistra latinoamericana eviti l´errore dello statalismo del nostro vecchio est: un´economia di mercato funzionante serve, le panetterie di Stato impoveriscono tutti. E ogni potere politico va sottoposto a controlli democratici».
(a.t.)

il manifesto 16.6.07
Germania. La Linke rifonda la socialdemocrazia
Nuovo partito Nasce oggi a Berlino la seconda gamba della Sinistra europea. Tra sindacato e no global
di Guido Ambrosino

Nasce oggi un nuovo partito, die Linke (la sinistra), dalla fusione tra Linkspartei.Pds - il partito socialista radicato nelle ragioni dell'est - e la Wasg, raggruppamento di sindacalisti e socialdemocratici delusi, formatosi a ovest attorno all'ex presidente della Spd Oskar Lafontaine. Si tratta ora di ratificare, con l'elezione di organismi dirigenti comuni, un processo avviato da tempo.
Già alle politiche del 2005 i candidati della Wasg si presentarono nelle liste della Linkspartei. Al Bundestag, sin dall'inizio della legislatura, opera un gruppo parlamentare comune, presieduto in tandem da Gregor Gysi e Oskar Lafontaine. Gli iscritti, con schiaccianti maggioranze, hanno approvato la fusione in un referendum.
Ieri, all'hotel Estrel di Berlino, i delegati della Linkspartei e della Wasg si sono riuniti per l'ultima volta separatamente, per scegliere i candidati da presentare oggi all'assemblea comune. La grande sala, già teatro dei congressi convocati dalla Spd per confermare qualche anno fa la svolta neoliberista di Schröder, era divisa in due da una parete mobile. Nel settore della Linkspartei molti delegati dai capelli bianchi, ma anche molte donne e giovani. In quello della Wasg prevaleva il sale e pepe di maschi cinquantenni, sindacalisti frustrati da decenni di rapporti privilegiati con la Spd.
A parte la diversa distribuzione per fasce d'età, non è più possibile distinguere a prima vista tra Ossis e Wessis, orientali e occidentali. Ancora dieci anni fa nel guardaroba dei socialisti dell'est sopravvivevano giubbotti di popeline grigiolini, camicie di fibre sintetiche, pantaloni dalla piega rigida. Ormai, a dispetto delle discrepanze nei livelli salariali e nei tassi di disoccupazione, doppi nelle regioni orientali, gli stili di vista si sono avvicinati.
Il lino ha preso il posto del terital. E nell'una come nell'altra mezza sala i discorsi sulla contraddizione capitale-lavoro, vista ancora una generazione fa come «principale», si alternano, senza unilaterali gerarchie di valori, a interventi sui diritti civili, sull'ambiente o sulla questione femminile, sulla pace o sul clima. Semmai, da questo punto di vista, i «tradizionalisti» sembrano più numerosi nelle fila della Wasg. La Pds, uscita 17 anni fa dalla catastrofe del partito di regime della Rdt, ha imparato ad apprezzare l'arcobaleno dei «movimenti». Nelle manifestazioni anti-G8 a Rostock i suoi giovani si muovevano perfettamente a proprio agio nel mainstream antiautoritario dei «globalcritici».
Willy Brandt, alla vigilia della riunificazione tedesca, diceva che doveva «crescere insieme» quel che c'era in comune dall'una e dall'altra parte. C'è voluto tempo per ritrovarsi. Ora, a sinistra della Spd, il lungo processo di avvicinamento sembra compiuto. Lo ha accelerato la svolta a destra impressa dal cancelliere Schröder alla Spd all'inizio del millennio. Oskar Lafontaine, che aveva portato la Spd alla vittoria nel 1998, e era ministro delle finanze nel primo governo Schröder, si scontrò subito col cancelliere sul fisco e abbandonò le cariche di partito e di governo. Ma non ha più resistito sull'Aventino quando Schröder è passato a realizzare i tagli allo stato sociale, escogitati dal compare Peter Hartz (ex direttore del personale della Volkswagen, nel frattempo condannato per distrazione di fondi e corruzione a «luci rosse» dei rappresentanti sindacali della casa automobilistica); e quando è nato un movimento di protesta appoggiato da pezzi importanti del sindacato.
Da soli i dissidenti socialdemocratici non avrebbero sorpassato la soglia di sbarramento del 5%. Di qui la ricerca di un'alleanza con la Pds, che d'altra parte, da sempre snobbata dagli elettori dell'ovest, cercava innesti autenticamente occidentali. È bastato per un 8,7% alle ultime politiche. E per approdare la prima volta in un parlamento regionale dell'ovest, il maggio scorso a Brema, con l'8,4%. Il fatto che il nuovo partito nasca come reazione alla crisi della Spd lo connota - in modo tutt'altro che innovativo - come un progetto di rifondazione socialdemocratica.

l’Unità 16.6.07
Francia, socialisti a caccia dell’ultimo voto
Domani il secondo turno per le legislative. L’Ump vola nei sondaggi, il Ps spera di limitare i danni
di Gianni Marsilli


AH, LE DONNE Per Dominique Strauss Kahn oramai una croce, più che una delizia. Lo scorso novembre gli aveva fatto lo sgambetto la radiosa Ségolène Royal, umiliandolo alle primarie interne al partito socialista. Domani potrebbe fargli le scarpe Sylvie Noachovitch, una bella quarantenne slanciata, bruna dagli occhi azzurri, avvocatessa di mestiere e per giunta volto televisivo fino al marzo scorso, ospite fissa di una nota trasmissione di TF1. Al primo turno la signora, candidata Ump, ha preso il 37,37% dei voti, 90 più di DSK. I due si disputano il collegio di Sarcelles, nella banlieue parigina. La riserva di voti di DSK è in teoria più importante di quella della sua rivale, ragion per cui il leader socialdemocratico ostenta olimpica calma, anche se definisce «ipotetico» l’indice di gradimento di Sylvie tra le classi popolari di quella periferia. Ipotetico, non valutabile, però possibile. Certo che per lui, perdere proprio nel comune di cui è stato sindaco, sarebbe uno smacco. Per questo DSK fa una campagna meno spettacolare ma più meticolosa. Dice che va a pescare gli astensionisti «uno per uno» per riportarli all’ovile.
Più a sud, a Chalon-sur-Saône, un altro tenore socialista vive una difficile vigilia elettorale. Si tratta del vulcanico Arnaud de Montebourg, giovane «innovatore» del partito e portavoce di Ségolène durante la campagna presidenziale (tranne che per il mese di marzo, quando fu sospeso per aver sparato in tv che «l’unico difetto di Ségolène è il suo compagno», ovvero François Hollande). Si gioca il ballottaggio con un aitante 35enne biondo dagli occhi di ghiaccio, che fino ad un paio di anni fa di mestiere faceva lo 007. È stato agente segreto nei Balcani, in Bosnia in particolare. Evoca volentieri le bombe su Sarajevo, ma si confonde con le date. Ma che importa, con un simile esotico bagaglio e con la sua giovanile energia il James Bond Arnaud Danjean ha preso il 43,9 dei voti domenica scorsa, 2 punti in più del povero Montebourg. Al quale domani non resta che incrociare le dita, dopo essersi sgolato tutta la settimana: «Andate e votate! Dopo sarà troppo tardi!».
Periclitante anche la posizione di Vincent Peillon, l’altro «innovatore» di fede royalista, più a nord, nella Somme. E non dormono tra due guanciali neanche Jean Jack Queyranne, presidente socialista della regione Rodano-Alpi, né Jean Louis Bianco, ambedue nomi noti dai tempi di Mitterrand, resuscitati dalla ventata presidenziale di Ségolène. Lei è stata come una trottola. Per aiutare gli uni e gli altri ha preso treni, aerei, per essere a nord la mattina, a Parigi il pomeriggio e la sera in Savoia. Ségolène avrebbe potuto anche risparmiarsi tutti questi viaggi: lei non è candidata, avendo optato per la presidenza della sua regione, il Poitou-Charente. Ma vuole diventare la numero 1 del partito, e alle legislative non poteva certo rimanere alla finestra.
L’ultimo sondaggio conferma l’ondata blu-Sarkozy: la nuova Assemblea vedrà tra i 380 e i 410 seggi targati Ump su 577. L’isola socialista non dovrebbe tuttavia essere lillipuziana: tra i 125 e i 155 parlamentari. Dominique Strauss Kahn ritiene che il risultato può considerarsi «buono», nelle condizioni date, a partire dai 120 deputati. L’ex ministro dell’Economia la mette giù senza fronzoli: non si tratta certo di vincere, ma di decidere «se Sarkozy potrà fare tutto quello che vorrà», oppure se «dovrà fare attenzione» alle sue scelte di governo. Per il partito socialista si aprirà poi il tanto atteso chiarimento interno, che molti temono sanguinoso. Ognuno si prepara a modo suo. Ségolène puntando in alto, Strauss Kahn verso il centro, Hollande inarcando la schiena per non essere disarcionato, Fabius continuando a guardare a sinistra, per quanto più distrattamente, Jean Luc Melenchon andando ad abbeverarsi oltre Reno, al congresso di Die Linke, il nuovo partito della sinistra tedesca che considera «un esempio». E ammette: «La questione del divorzio dal Ps comincia ad essere posta».

Corriere della Sera 16.6.07
Prodi e la strada in salita per il Pd
Se il partito nasce vecchio
di Giovanni Sartori


Nascerà davvero il Partito Democratico? Intendi: nascerà vitale o nascerà morto? Sarà un successo o sarà un fiasco? Margherita e Ds riusciranno davvero a fondersi, oppure la loro sarà soltanto una somma di due partiti che restano litigiosi ed eterogenei? E quale sarà «il valore aggiunto» del nuovo pargolo?
Di regola la somma (unificazione) di due o più partiti non produce valore aggiunto: la somma dei voti ricevuti dal partito unificato è inferiore alla somma dei voti ricevuti dai partiti separati. Nel nostro caso, perché mai un marxista dovrebbe gradire di trovarsi diluito in sempre meno marxismo; oppure perché mai un cattolico dovrebbe gradire di essere soverchiato da laici? Sia come sia, dobbiamo capire a quali condizioni un nuovo movimento o partito riesce a sfondare.
La prima condizione è che la nascita del Pd comporti una drastica semplificazione del sistema partitico, e così l'eliminazione del pulviscolo dei partitucci, dei «nanetti». E da quando i partiti esistono il loro numero viene ridotto dai sistemi elettorali, non dalla nascita di un nuovo partito che se li mangia. Prodi si è messo in testa, invece, di risolvere il problema con un partito «mangia-partiti », con un partito-pitone. Ma, se così, a me sembra un controsenso che il progetto aggreghi soltanto due su circa dodici partiti. E' vero che la Margherita e i Ds mettono assieme circa la metà dei voti dello schieramento; ma i restanti nanetti mantengono lo stesso il loro potere di interdizione e di ricatto. Il che lascia il problema come è. Tanto più che nell'accorparsi i Ds si sono scissi perdendo il loro Correntone.
La seconda condizione è che il nuovo partito sia percepito come davvero nuovo, come portatore di aria fresca e di energie giovani. Invece il Pd sta nascendo senza slancio, già logorato dai tempi troppo lenti della sua gestazione e soprattutto dalle complicazioni nelle quali riesce sempre a impastoiarsi. Se fosse un architetto, Prodi costruirebbe tortuosissime pagode; e certo ha il genio della complessità superflua. Per le elezioni del 2006 escogitò una pletorica officina di teste d'uovo che gli regalò un programma di quasi trecento pagine, che gli fece quasi perdere le elezioni e che quotidianamente lo impaccia nel governare. E per il nuovo partito la tabella di marcia prevede un Comitato dei 45 per le regole dell'assemblea costituente; poi, il 14 ottobre, l'elezione dei delegati alla suddetta assemblea costituente, alla quale compete la redazione dello statuto del Partito Democratico; per poi finalmente arrivare, quando sarà, alla prova delle elezioni politiche. Nell'interim i 45 già dissentono su come e quando eleggere il loro leader e il loro segretario. Il tutto appesantito da un ulteriore, e sospetto, ricorso alla primarie. Dico «sospetto» perché per Prodi è ovvio che le primarie devono confermare e scegliere lui. Tantovero che, al momento, non le vuole perché i sondaggi danno per vincente Veltroni. Con tanti saluti al partito che «nasce dal basso». A Prodi piace far sembrare che sia il suo popolo a creare il suo Pd. Ma in verità non è così. E a questo modo molte, troppe energie vengono sprecate nel costruire una finzione populista.
Allora, il Pd nascerà vitale o morto? La previsione è difficile. Ma il fatto è che le elezioni amministrative hanno confermato la regola che le unioni perdono voti. Dove Ds e Margherita si sono uniti, hanno perso mediamente 10 punti percentuali (vedi Genova, La Spezia, Ancona). Questo è solo un campanello di allarme. Certo è, però, che la strada del Pd è piu che mai in salita.

Corriere della Sera 16.6.07
Arte & Politica. Il critico francese lancia una provocazione. Paola Dècina Lombardi raccoglie le tesi contrarie
Surrealisti e terroristi
Jean Clair: «Breton e Aragon padri teorici dell'11 settembre Volevano cancellare gli Usa»
di Pierluigi Panza


Tra i mandanti che l'11 settembre 2001 avrebbero armato la mente (non la mano) di Mohamed Atta ci sarebbero André Breton, Louis Aragon e i surrealisti. Naturalmente erano morti anni prima dell'attentato alle Torri gemelle, ma sarebbero stati anche loro, secondo il critico d'arte Jean Clair, i «cattivi maestri » degli autori della strage.
Questa tesi, espressa in Francia dall'ex direttore del Musée Picasso, Jean Clair, rimbalza ora in Italia con la pubblicazione di due libri: Processo al Surrealismo (Fazi, pp.220, e 19.5 composto da due saggi, Del Surrealismo considerato in rapporto al totalitarismo e allo spiritismo di Clair e L'onore dei funamboli di Régis Debray che ne è la risposta) e la nuova edizione (con un capitolo aggiuntivo di risposta alla tesi di Clair) di Surrealismo 1919-1969 di Paola Dècina Lombardi (Mondadori).
Il caso è aperto e il dibattimento è così articolato: Jean Clair processa i surrealisti e Paola Dècina Lombardi processa Clair, elencando la lunga scia di biasimo che la sua tesi ha raccolto in Francia per mano di Debray, Michel Butor, François Furet e Yves Bonnefoy...
La vicenda prende avvio il 22 novembre del 2002 quando, su Le Monde, Clair pubblica un articolo intitolato Le surréalisme et la démoralisation de l'Occident. La sua accusa è che «l'ideologia surrealista aveva seguitato a desiderare la morte di un'America considerata materialista e sterile e il trionfo di un Oriente depositario dei valori dello spirito» e che l'intellighenzia francese «si è spinta molto presto e molto lontano nel prefigurare ciò che è avvenuto l'11 settembre». Il Surrealismo, ed estensivamente le Avanguardie artistiche, avrebbero contribuito ad abbassare la fiducia in se stesso dell'Occidente.
Queste considerazioni muovono da alcune fonti. Intanto dalla interpretazione della «Mappa surrealista del mondo» pubblicata da discepoli di Breton nel 1929 in cui gli Stati Uniti non figurano di fronte a un Afghanistan (Paese dell'oppio e dell'hashish di cui i surrealisti facevano uso) grande quanto l'India. Minuscola anche l'Europa, assenti Francia e Italia; gigantesche Russia, Cina, Messico e le isole del Pacifico. Quindi da un discorso tenuto nel 1925 a Madrid, in cui Aragon afferma: «Avremo ragione di tutto. E come prima cosa distruggeremo questa civiltà a voi cara e in cui siete come i fossili nello scisto. Mondo occidentale sei condannato a morte. Siamo i disfattisti dell'Europa… Risplenda infine l'Oriente, oggetto del vostro terrore». E ancora: «E che i trafficanti di droga si gettino sui nostri Paesi terrorizzati. Che l'America in lontananza crolli dai suoi bianchi grattacieli…». Temi che si ritrovano anche nelle Lettres aux écoles du Bouddha di Antonin Artaud: «La logica dell'Europa schiaccia continuamente l'intelletto… Come voi, noi rifiutiamo il progresso: venite, buttate giù le nostre case». Per non accennare, infine, alle illustrazioni in vesti orientali della veggente Madame Sacco in Nadja, ove si raccontano le giornate di rivolta a Parigi contro la condanna degli Stati Uniti a Sacco e Vanzetti.
Anche il modello di organizzazione dei gruppi surrealisti ricorderebbe, per Clair, quello del terrorismo radicale. Avevano le «caratteristiche di una società occulta che, come l'ha definita Hannah Arendt, regola la vita dei suoi membri «in base a una concezione segreta» dove si «esigono obbedienza cieca dai loro seguaci, uniti dalla fedeltà a un capo… attorniato da un gruppetto di iniziati… contro il mondo ostile». Crepuscolo della Ragione, antisemitismo André Breton Veggente di «Nadja» e spiritualismo completerebbero l'avvio del «debosciamento» occidentale di marca surrealista.
Queste tesi sono state raccolte da Clair in Le surréalisme entre tables tournantes et totalitarisme dove si spinge a delineare una «genealogia della violenza» fondata sulla matrice surrealismo-totalitarismo nella quale entrano, come anelli di trasmissione, i maître-à-penser situazionisti e del '68 e dintorni: Gilles Deleuze, Félix Guattari, Guy Debord, Michel Foucault e Jean Baudrillard. Sono coloro, secondo questa interpretazione, che hanno continuato l'opera di «debosciamento» dell'Occidente preparando l'avvento del sogno surrealista concretizzatosi anche nell'11 settembre. Per la Dècina Lombardi si tratta «di accostamenti mistificatori, arbitrari, e insomma ignoranza e malafede, di logica istrionica» come mostrato anche da Régis Debray in L'honneur des funamboles. E per questo aggiunge un capitolo alla ristampa del suo libro dove sono raccolte le valutazioni contrarie all'interpretazione di Clair.
Intanto la Dècina Lombardi ricorda che molti surrealisti furono ebrei (tra i quali la moglie di Breton, Simone Kahn), che proprio i surrealisti «denunciarono i pogrom e il terrore in Germania» nel 1933 e i processi a Mosca nel '36. Quindi raccoglie valutazioni anti Clair. «Mettere in relazione l'11 settembre con lo spirito di rivolta di Breton e del surrealismo è stupido — afferma Michel Butor —, non ha niente a che vedere» specie associandolo arbitrariamente ai costumi licenziosi, a una cultura giovanile degradata e al terrorismo. Per Yves Bonnefoy «accostare il surrealismo al totalitarismo o all'11 settembre è un'assurdità ». Debray ironizza parlando di «stregonerie logiche» sottolineando che quelli dei surrealisti erano paradigmi teorici e la loro violenza più mediatica che effettiva. Anziché di una compromissione con i totalitarismi, per François Furet il surrealismo si pone in una dimensione opposta: è stato «l'anatema antiborghese più violento che mai, libero però da ogni utilizzazione politica, emancipato persino dalle forme canoniche» e Breton ha esercitato un «magistero morale». Peraltro, aggiunge la Dècina Lombardi, il rapporto dei surrealisti con l'azione politica militante è sempre restato subordinato all'esperienza artistica. Anche in Breton, nonostante le sue passioni rivoluzionarie per il Fronte popolare e per Trotzkij, la politica «resta un amore infelice».
L'autorità degli oppositori sembrerebbe far pendere il verdetto contro Jean Clair e salvare dei surrealisti la «volontà di rottura» e l'idea che l'automatismo psichico — come ha scritto Giovanni Raboni— «sia sempre stato e sempre sarà una delle principali fonti e modalità della creazione artistica». Ma a suggello delle tesi di Clair vale la pena ricordare lo spiazzante commento del compositore Karlheinz Stockhausen dopo gli attentati dell'11 settembre: «Questa è l'opera d'arte più grande mai esistita».

«Processo al Surrealismo» (Fazi, pp.220, e 19.5) raccoglie: «Del Surrealismo» di Jean Clair e «L'onore dei funamboli» di Régis Débray
La nuova edizione di «Surrealismo 1919-1969» di Paola Dècina Lombardi (Mondadori, pp. 652 e 19) ha un capitolo aggiuntivo contro la tesi di Clair


Liberazione 16.6.07
Oggi al Palfiera di Roma nasce la Se. Intervista a Danielle Mazzonis
«La sinistra europea? Sogno e scommessa»
di Frida Nacinovich


In viaggio hanno incontrato movimenti, associazioni, reti, politici, intellettuali, professionisti, studenti. Donne e uomini di una sinistra in movimento che guarda all’Europa e oggi si ritrova a Roma. Danielle Mazzonis, sottosegretaria alla cultura, ha percorso metro per metro il tragitto che porta alla Sinistra europea. Lei e la Libera associazione sono una delle mille famiglie di una grande comunità.
Partiamo dall’inizio. Quando è nata la Libera associazione?
Quando Fausto Bertinotti ha lanciato l’idea della Sinistra Europea, mi sono appassionata, ci ho creduto. La nostra rete è nata subito, appena la Se si è aperta anche ai non iscritti ai partiti. Singoli individui (professori, professionisti, simpatizzanti) si sono ritrovati in piccoli gruppi che poi hanno iniziato a moltiplicarsi. Alla riunione di oggi eravamo in 160, arrivati da quindici territori diversi.
Allora il cantiere della sinistra italiana ancora non c’era. Esistevano invece i Ds che oggi non ci sono più. Ha ancora senso la Sinistra europea?
In tutti questi mesi abbiamo lavorato con persone di Aprile, dell’Arci, Legambiente, anche iscritti Ds. La nostra associazione è sempre stata un cantiere aperto.
Oggi si discute di soggetto unitario e di partito unico della sinistra.
Servirà uno sforzo da parte di tutti per non snaturare questa struttura complessa e multiforme, per lasciare ad ogni gruppo la possibilità di continuare a lavorare nei territori come già sta facendo. Oggi si parla anche di fusione o di unità di azione della sinistra. Penso che ci sia bisogno di unità di azione. Certo, occorrono forme di organizzazione per riuscire a collaborare, ma ognuno deve continuare ad elaborare proposte, portare idee. Dobbiamo rispondere a un sogno, rifondare, ripensare la sinistra. Bisogna colmare il vuoto che si è creato fra cittadini e istituzioni. La sinistra europea nasce dal basso, nei territori. Abbiamo fatto le case della sinistra con Rifondazione, adesso anche con i Ds e gli ex Ds della Sinistra democratica. Luoghi di incontro che aiutano la politica a confrontarsi con le persone. Sempre oggi, anzi ieri, è nato il Partito democratico.
La Sinistra europea e il Partito democratico in comune non hanno niente. Qui non ci sono leader, non esistono capi. Un modi di fare politica che è anche un invito alla partecipazione, al confronto.
C’è chi dice che la Sinistra europea rappresenta il punto di arrivo e il superamento di Rifondazione...
Io non credo che sia un superamento naturale di Rifondazione. Casomai sarà Rifondazione a decidere come vuol far crescere questa sua “costola”. Penso che il Prc e la Sinistra europea lavoreranno insieme per un processo comune.

venerdì 15 giugno 2007

Unità 15.6.07
«LEFT AVVENIMENTI»
Il settimanale oggi non è in edicola
Ferrigolo e Purgatori fuori, è sciopero

Non c’è pace nella redazione del settimanale Left, che oggi non è in edicola per uno sciopero indetto dopo l’annuncio dato dall’editore di un piano di ristrutturazione e dell’avvicendamento alla direzione. Via Alberto Ferrigolo, insediatosi all’inizio dell’anno, e il condirettore Andrea Purgatori. Al loro posto, da due giorni, Pino Di Maula (di ritorno) e Luca Bonaccorsi, amministratore delegato della cooperativa che edita Left e fino a due giorni fa anche direttore editoriale. Cambi motivati con esigenze economiche ma che ricordano invece la vicenda che portò all’allontanamento, a febbraio dello scorso anno, dell’allora direttore Adalberto Minucci e del condirettore Giulietto Chiesa entrati in contrasto con le idee politiche e giornalistiche del “rubrichista” Massimo Fagioli. E il timore, anche in questo caso, è che l’allontanamento dei direttori preluda ad una normalizzazione della linea editoriale. Ma preoccupazione c’è anche per i tagli annunciati: il 30% ai costi della struttura e un minacciato (dopo lo sciopero) intervento anche sul corpo redazionale.

Repubblica 15.6.07
La vera storia dei favolosi inca
Nuovi documenti sulla Conquista in un saggio di Laura L. Minelli
di Adriano Prosperi


Il saccheggio delle immense ricchezze fu devastante
Il grande Impero crollò in mezzo ai barbagli del dio oro
La mia impresa scrive Colombo in una lettera inedita, fu una grande opera di misericordia
Una denunzia contro Pizarro inviata a Carlo V lo accusava di aver avvelenato i guerrieri

La conquista del grande impero del Sole è una delle pagine più celebri della storia mondiale. Nel 1532 un pugno di spagnoli comandati da Francisco Pizarro incontra l´inca Atahuallpa a Cajamarca. E´ un incontro breve e violento: un frate porge all´Inca il suo breviario e gli chiede di adorare il Libro sacro degli spagnoli, l´Inca lo getta a terra con disprezzo, Pizarro lo fa prigioniero mentre i suoi uomini sbaragliano l´esercito dell´Inca. Il grande impero crolla in mezzo agli accecanti barbagli non del dio Sole di cui gli Inca erano creduti i figli, ma del nuovo dio dei conquistatori: l´oro. Sotto il segno dell´oro si scatenò il saccheggio di un impero immenso, esteso dall´altipiano andino alle coste del Pacifico e alle foreste tropicali amazzoniche. Conquista difficile, ostacolata da guerre e ribellioni ma anche dai contrasti tra i conquistadores. L´intervento di una burocrazia imperiale spagnola assistita dal clero cancellò le tracce della religione e della cultura antica. Ma rimasero nella memoria dei popoli andini episodi di resistenza eroica come quello di Tupac Amaru asserragliato a Machu Picchu. Il termine «tupamaro» come sinonimo di ribelle doveva entrare nel vocabolario europeo, mentre anche la parola Perù diventava nome comune, sinonimo di ricchezze strepitose.
Di quel mondo immenso e misterioso, del suo passato e della sua cultura rimasero tracce come i grandi templi o la rete delle strade irraggiantesi da Cuzco. E restarono le narrazioni storiche, quelle trionfali della Spagna conquistatrice ma anche quella di un uomo che recava nel proprio sangue l´eredità antica degli Inca accanto a quella dei conquistatori: Garcilaso de la Vega «el Inca». I suoi Commentari reali dalla data della prima edizione spagnola (1606) non hanno più cessato di popolare la fantasia dei lettori coi colori dei mondi cancellati e delle loro favolose ricchezze. Forse solo i poemi omerici hanno alimentato in maggior misura le emozioni e le passioni di cui si nutre l´archeologia; con la differenza che la storia degli Inca non appartiene alla cultura europea: è come un fiume maestoso che improvvisamente si inabissa e scompare.
Garcilaso conosceva sugli Inca le storie ascoltate durante l´infanzia: favole, canzoni, ricordi di epoche lontane. Ma aveva anche letto un libro di storia che non ci è rimasto: la storia dell´Impero Inca del gesuita Blas Valera. Era scritta - dice Garcilaso - in un latino elegantissimo, ma era stata distrutta nel corso del sacco di Cadice a opera degli inglesi nel 1596 e poco dopo anche l´autore era morto.
Era veramente morto Blas Valera? Anni fa dall´archivio privato di una famiglia napoletana è emerso tra altri documenti un memoriale di Blas Valera datato 10 maggio 1618 e indirizzato al «popolo suo» (quello dei conquistati): vent´anni dopo la sua presunta morte, Blas Valera era vivo anche se costretto all´esilio e scriveva un durissimo atto d´accusa contro chi aveva distrutto il suo popolo e devastato la sua terra. Quanto a Garcilaso, lo accusava di aver saccheggiato la sua opera tradendone lo spirito e aggiustando i fatti narrati agli interessi dei padroni spagnoli. Nella scatola che contiene il memoriale sono conservati altri documenti veramente singolari di cui si è discusso di recente in convegni di specialisti. Oggi finalmente il tutto viene messo a disposizione degli studiosi dall´archeologa americanista bolognese Laura Laurencich Minelli in un robusto volume che contiene trascrizioni e traduzioni dei documenti corredati di saggi e di annotazioni, nonchè una utilissima serie di riproduzioni fotografiche («Exsul immeritus Blas Valera Populo suo» e «Historia et rudimenta linguae Peruanorum», Indios, gesuiti e spagnoli in due documenti segreti sul Perù del XVII secolo, a cura di Laura Laurencich Minelli, Clueb). La storia di questi documenti e della loro circolazione è segnata da un fitto segreto e da ambienti dove l´esoterismo era di casa: confessori ed eretici, indios e gesuiti se li passarono di mano in America finchè, giunti a Napoli nel ‘700, finirono in mano a un celebre personaggio che coltivò un proprio inquietante mondo di arti segrete e maledette: il principe napoletano Raimondo de Sangro. L´esame diretto di queste fonti tuttora in mani private ma finalmente accessibili agli studiosi grazie a questo volume permetterà verifiche e approfondimenti. Ma intanto è giusto che se ne dia un resoconto ai lettori curiosi.
I nuclei del dossier sono almeno tre. Quello centrale riguarda la storia di Blas Valera e del gruppo a lui legato. Poi ci sono quelli relativi a Cristoforo Colombo e soprattutto a Pizarro e alla giornata di Cajamarca del 1532. Un terzo nucleo è relativo alla decifrazione dei quipus, la scrittura fatta di cordicelle annodate in uso nell´impero degli Inca. Questa parte linguistica è appassionante e permette anche ai profani di entrare (con l´aiuto competente di Laura L. Minelli) nei segreti di una scrittura fatta di nodi, di numeri e di pezzi di materia, remotissima dalle nostre pratiche e dalle nostre concezioni. Ma sarebbe lungo descriverla; perciò qui fisseremo lo sguardo su di un´altra questione, quella che si può definire «l´altra faccia della Conquista».
Un frammento di lettera di Colombo è la prima scoperta che si fa in questo dossier. Il corpo disperso dell´epistolario del grande navigatore si arricchisce così di una testimonianza inedita, anche se lacerata e parziale: la lettera, scritta da Siviglia al figlio Diego, reca la celebre firma di Colombo come «Christum ferens». E questa è una chiave importante per capire tutta la vicenda.
Colombo, com´è noto, amava presentarsi come lo strumento della Provvidenza divina per la grande impresa della diffusione del cristianesimo nel mondo e della conclusione messianica dei tempi della storia umana. In questo frammento si decifra solo una sua frase che dice (in castigliano): «la mia impresa fu una grande opera di misericordia». Sembra che Blas Valera abbia ricevuto questo frammento dal gesuita Juan de Mariana, grande storico e ardito teorico del diritto dei popoli di ricorrere al tirannicidio contro i sovrani ingiusti. Blas Valera maledice Colombo, che per lui è figlio del diavolo e non di Cristo. E fa sue le parole di una canzoncina circolante in una confraternita di indios peruviani: «Maledetta sia l´ora in cui Colombo partì, la Santa Maria lo portò,. .. Benedette siano le Indie... Colombo le scoprì, Cortes le distrusse, Pizarro le avvelenò».
Chi scrive queste parole è un missionario gesuita figlio di una donna india e di uno spagnolo, un uomo che odia il padre e ama la madre, che combatte i dominatori spagnoli ma ne condivide la religione. In lui si incontrano tutte le contraddizioni e le delusioni della conquista del Nuovo Mondo. A distanza di poco più d´un secolo dal viaggio di Colombo, Valera e i gesuiti che lo circondano portano avanti in segreto una battaglia per la tutela degli indios dai conquistatori: ma la loro battaglia è combattuta in nome del sogno messianico di un cristianesimo rinnovato e della missione apostolica propagandata da Colombo.
Questa faccia nascosta della conquista è quella di una cultura meticcia: uomini come Garcilaso de la Vega, come Blas Valera, sono nati su quella prima linea dello scontro di popoli che fu la violenza dei conquistadores sulle donne del Nuovo Mondo ma hanno poi formato la loro cultura nelle scuole dei gesuiti europei.
Blas Valera, per odio al nome spagnolo del padre, si era dedicato alla stesura di una contro-storia della conquista.
In questo dossier figura il documento principale di cui era entrato in possesso: il testo originale di una denunzia contro Pizarro inviata a Carlo V da Francisco de Chaves, uno dei conquistadores, il 5 agosto 1533: Chaves vi accusava Pizarro di aver distribuito barili di vino avvelenato con l´arsenico agli uomini dell´Inca, che erano morti immediatamente lasciandolo così in balia degli spagnoli. Quella denunzia Blas Valera la conservava per il suo popolo a documento che la conquista era stata basata sulla frode e che perciò gli spagnoli non avevano nessun diritto di dominio sul popolo andino.
Si capisce che la sua opera di storico aveva creato gravi imbarazzi politici alla Compagnia di Gesù. Perciò Blas Valera aveva dovuto sparire di circolazione, fingersi morto. Ma non per questo aveva cessato di dedicarsi alla sua missione di storico. A quanto emerge da questi documenti fu dalla sua collaborazione con l´indio Guaman Poma de Ayala che nacque quell´opera straordinaria che è la «Nueva coronica y buen gobierno», con le sue sconvolgenti rappresentazioni pittoriche delle violenze dei conquistatori.
Sono passati secoli da queste vicende. L´impero spagnolo è scomparso, la decolonizzazione ha obbligato la cultura europea a guardare l´altra faccia della sua conquista del mondo. Ma finora questa ricerca è rimasta velleitaria e inappagata. Vedere la storia con gli occhi dei vinti: ci riusciremo mai? Lo sguardo dall´alto dei vincitori ha molti cronisti pronti a descriverlo, mentre l´ultimo sguardo di chi sprofonda nella sconfitta si inabissa con lui e molto raramente trova un testimone disposto a raccoglierlo. I sommersi restano senza storia e senza volto, come quei naufraghi attaccati ai bordi di una rete per tonni che abbiamo visto in una foto recente: un cerchio di esseri indistinti e lontani, già oltre i confini della specie umana, quasi una via di mezzo tra i pesci e noi.
Attraverso il dossier di Blas Valera non è la voce dei sommersi dell´America precolombiana che ci giunge da lontano. La storia che questi documenti raccontano è un´altra: quella di una cultura meticcia di mediatori e di missionari gesuiti che cercò di porre un argine agli orrori consumati sul popolo americano in nome del cristianesimo europeo.

Repubblica 15.6.07
Intervista con il paleontologo Emmanuel Anati
L’uomo preistorico alla ricerca di dio


Le tavole della pietra fallica di paspardo
I graffiti non hanno finalità estetiche

«L´uomo preistorico non passava mica la vita a spaccare selci. Era un grande intellettuale, aveva una vita spirituale, creava ideologie, leggeva la Natura e giocava con la Natura». Sorride Emmanuel Anati come tutti gli studiosi che sanno trattare con leggerezza materie arcane. Settantasette anni, ordinario di Paleontologia e direttore del Centro camuno di studi preistorici, è scopritore - fra l´altro - di Har Karkom, la montagna-santuario preistorica nel Sinai che sembra essere la vera ispirazione del monte dell´Esodo. Anati parla di una nuovissima stagione in cui sono entrate le ricerche sulla preistoria.
«L´arte preistorica - sottolinea - non ha finalità estetiche, ma è uno strumento di trasmissione di messaggi e informazioni. Le incisioni rupestri stanno diventando leggibili, anche facendo uso dei sistemi di decrittazione dello spionaggio. Significa che la Storia si dilata da qualche migliaio di anni, com´è ora, ad un arco di cinquantamila anni».
Professore Anati, che cosa ha imparato a leggere dall'arte rupestre?
«Il significato di segni e colori, per cominciare. Un boscimane del Sudafrica, per esempio, quando dipinge una giraffa gialla o rossa non lo fa per estetismo, ma per indicare situazioni differenti. Nei graffiti preistorici abbiamo ventidue simboli elementari. Il punto, la coppella, la linea, il cerchio, lo zig-zag. E ognuno può avere vari significati. Lo zig-zag è l´acqua, la fecondità, la forza virile. Il cerchio è il sole, il pozzo, la capanna oppure l´Io. La croce può rimandare all´identità tribale. Il punto, indica il "fare". Un piede e il punto significa camminare. Sesso e punto, accoppiarsi. Animali selvaggi e punto, cacciare».
Accanto ai pittogrammi e agli ideogrammi appare ora anche il termine di psicogrammi. Che significa?
«Il pittogramma è un segno figurativo apparentemente leggibile, eppure ha sempre un doppio senso. L´ideogramma è un segno ripetitivo: il cerchio esprime sole, luce, calore. Lo psicogramma è una specie di punto esclamativo». E qui Anati traccia su un foglio un rettangolo con tanti raggi: «Ecco, significa Energia». E ancora traccia semicerchi uno sopra l´altro: «Questo significa Piacere».
Cos'altro si è approfondito?
«L´Homo Sapiens è un grande analista della realtà. Vede giorno e notte, vita e morte, uomo e donna, cielo e terra, grotta e sole. E´ il sistema binario. Anche oggi in certe lingue si dice il mare la terra, il sole e la luna. Sarebbero oggetti neutri, ma dalla preistoria ci è venuto il sistema binario».
Ha già realizzato decrittazioni precise?
«Diciannove monumenti rupestri della Dordogna, scoperti tra il 1904 e il 1916, recano sistematicamente segni di vulve, punti, coppelle, segni animali, segni maschili. L´animale è sempre uno, il numero delle vulve varia. Siamo di fronte ad una sorta di atto matrimoniale, che regola le relazioni tra le donne e il clan totemico».
Al XXII Valcamonica Symposium, cui hanno partecipato quest´anno studiosi di trentaquattro paesi del mondo, sono esposte varie tavole della Pietra Fallica di Paspardo (nella riserva rupestre della Valcamonica, che ospita rocce con trecentomila segni, la più grande densità d´Europa). E´ un graffito con sessantaquattro iscrizioni. Un fallo gigante, segni umani con la testa e senza testa, zig-zag, segni di strane palette che sono simboli di energia magica. Un caos apparente, a cui Anati è riuscito a dare ordine.
«E´ il racconto mitico - spiega il professore - di uno Spirito ancestrale da cui proviene l´Energia Virile. Si possono riconoscere tre fasi. La nascita per opera di un´energia sotterranea. L´incontro con forze-spirito che generano a loro volta tante energie. La conclusione è raffigurata dall´energia virile che esce fluida a zig zag dal grande pene, dentro il quale opera l´energia magica rappresentata dalle cosiddette palette. Siamo in presenza di un´iniziazione».
Iniziazioni, riti, miti. Spiriti e figure umane. Nella preistoria nasce prima l'Io o Dio?
«Tutti e due. Già con l´Uomo di Neanderthal troviamo, tra i 100.000 e i 50.000 anni fa, sepolture con oggetti di accompagnamento che rivelano la credenza in una sopravvivenza dell´anima. Però a differenza di noi moderni per l´uomo preistorico hanno un´anima anche le piante e gli animali. Con l´avvento dell´Homo Sapiens, circa 35.000 anni fa, troviamo resti animali ritualizzati».
E' questa la preistoria di Dio?
«Preferisco parlare di Spiriti. Gli Dei nascono con le strutture sociali complesse, con le civiltà urbane della Mesopotamia, dell´Egitto. Non piacerà ai prelati: ma Dio nasce quando ci sono società numerose da gestire da parte di una o più Autorità. Allora nasce l´Olimpo con una Divinità capo e altri dei che fanno i ministri della guerra, dell´amore e così via».
L'elemento religioso nella preistoria come si rivela?
«Per le popolazioni paleolitiche si esprime negli Spiriti ancestrali. Tutti i popoli hanno simboli della propria origine».
Come si riconoscono gli Spiriti nell'arte rupestre?
«Con determinati simboli. Uno Spirito di fecondità può essere un grande cerchio con due gambe. Oppure figure metà uomo e metà animale, mostri, animali immaginari. Ci aiutano a capire anche le popolazioni primitive ancora esistenti. Spiriti sono i defunti, che dal loro nascondiglio fanno dispetto. I Wandjina, in Australia, raffigurano gli Spiriti come Nuvole senza bocca».
Esistono anelli di congiunzione tra gli Spiriti ancestrali e una prima immagine di Divinità?
«Nell´Australia del Nord si racconta di uno Spirito che dormiva sempre, poi si è svegliato e ha creato la terra camminando. Dove poggiava i piedi nascevano le valli e tutt´intorno le montagne».
E tutte quelle statuine preistoriche di donne opulente non sono la Grande Dea Madre?
«No, nel Paleolitico non c´era ancora il concetto di divinità. Le Veneri-Dee non sono mai esistite. Quelle donne dai seni cadenti e dalle cosce enormi sono le Matrone delle tribù, le Nonne sagge, che danno consigli e fanno divinazioni. Si sono fatti troppi sogni sulla Preistoria. Non c´è spazio per le Veneri. Solo per Spiriti ancestrali, forze della natura, sole, luna, stelle».

Repubblica 15.6.07
In un documentario Bbc la storia di Weir che ispirò Stevenson
Così nacque il Dottor Jekyll


LONDRA - Furono le storie raccontategli dalla tata Cummy su un uomo che praticava incesto e magia nera nella Edimburgo del 1600 ma di giorno conduceva una vita integerrima, a ispirare a Robert Louis Stevenson Il dottor Jekyll e Mr. Hyde. Lo sostiene un documentario della Bbc, girato dal noto giallista Ian Rankin, il quale afferma che Stevenson era «inorridito» dalle storie su Thomas Weir e sulla di lui sorella, che di giorno predicavano in nome di dio ma di notte avevano rapporti incestuosi, praticavano stregoneria e sesso con gli animali. Furono condannati e messi al rogo nel 1670. La terribile vicenda, raccontata a Stevenson due secoli dopo, gli faceva avere gli incubi. (E. F.)

Corriere della sera 15.6.07
Solidarietà da «Liberazione», critiche dal partito. La giornalista: intolleranza contro di me
Angela, la cronista anti Fidel che fa litigare la sinistra
di Gianna Fregonara


Il reportage su Cuba esce su Liberazione il 22 maggio. I lettori si lamentano, risponde loro Sansonetti il 2 giugno. Sul tema sono intervenuti ieri Folena e Cannavò

ROMA — È una giornalista di 36 anni senza tessera, laurea in scienze politiche, e una passione smisurata per l'America Latina. Ha fatto venire una vera e propria crisi di nervi ai dirigenti di Rifondazione e ai lettori del giornale su cui scrive, «Liberazione». Come? Con una serie di corrispondenze da Cuba e dal Venezuela, in cui racconta che non sono l'Eldorado. Apriti cielo.
Angela Nocioni, umbra di Assisi, corrispondente da Buenos Aires da un anno e mezzo, ha ricevuto la solidarietà (e una solida difesa) dal suo direttore Piero Sansonetti e da Rina Gagliardi che non lesina l'autocritica scrivendo ai lettori «le nostre scalate al cielo si sono risolte in una catastrofe», ma anche una valanga di insulti. Indignati, intristiti «per la disinformazione e la superficialità », come scrive da Bruxelles Mario Gabrielli, i lettori protestano. E arriva anche uno schiaffo (metaforico) da Fabio Amato, responsabile Esteri del Prc: «E' stata la mancanza di rispetto nei reportage che ha offeso i sentimenti di tanti compagni».
Lei, che a L'Avana ha anche studiato qualche anno fa, su questo si è arrabbiata: «Trovo agghiacciante più di una censura che persone colte non si vergognino a mettere in discussione non il contenuto ma il tono di un articolo. Non è pensabile l'intolleranza rispetto all'ironia».
Non è la prima volta che le corrispondenze di Angela Nocioni fanno scoppiare le polveri tra i lettori di «Liberazione ». Fu lei a fare la prima intervista a Chavez, e allora fu accusata di sostenere un dittatore. Oggi le critiche arrivano dall'altro fronte da quanti non accettano la disillusione. La sua mail è stata invasa di lettere, i siti della sinistra radicale non parlano che di lei e delle sue corrispondenze in cui racconta che a Cuba si fa la fame. Al giornale sono arrivate decine e decine di lettere, c'è stata anche una manifestazione di castristi per protestare davanti alla sede. E la polemica non accenna a finire.

il Riformista Lettere 15.6.07
I had a dream

Caro direttore, ho fatto un sogno semplice. Ho sognato che il ministro degli Interni, di fronte alle rivelazioni sulle «macellerie messicane», sulle «notti cilene» di Genova, si presentava al paese dicendo solennemente e semplicemente: «Non accadrà mai più, e i responsabili la pagheranno cara». Ma l'Italia non è un paese semplice, e il mio sogno era forse un po' troppo americano. Mi farò quindi bastare i raffinati ragionamenti del ministro sulla disaffezione degli italiani verso la politica. Cordialmente
Marco Brandirali Pavia


il Riformista 15.6.07
Jervis. Lo psichiatra invoca (ma non usa) la «pietas» tra credenti e laici
La poesia è un lusso e le passioni sono attaccapanni linguistici
di Elisabetta Ambrosi


«Vedi, in quei silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità».


Chi l'avrebbe mai detto che in questa poesia di Eugenio Montale, I limoni, la più bella della raccolta Ossi di seppia, si annidasse il germe del fondamentalismo? Eppure, è quanto sostiene uno degli psichiatri e psicoanalisti italiani più noti, Giovanni Jervis, che nel suo ultimo volume Pensare dritto, pensare storto (Boringhieri, 2007) mette in guardia dalla ricerca a tutti i costi «dell'anello che non tiene», ricerca che finisce dritta nella superstizione e nel fanatismo. La poesia come la religione? «Sì, poesia e arte hanno qualcosa in comune con i sentimenti religiosi», afferma il professore. «Entrambe trasfigurano momenti di sensibilità legati alle nostre fragilità: ma non costituiscono un processo di conoscenza, anzi rischiano di portarci fuori strada. Eppoi con le poesie non si risolvono certo i problemi concreti. La poesia è un lusso».
Sobrietà, rigore, scienza. Nessuna sbavatura. Questa l'immagine che ci rimanda l'ossuto professore, seduto sul divano scuro del suo studio romano. Pur avendo una formazione psicoanalitica e difendendo alcune intuizioni freudiane, Jervis appartiene chiaramente all'“altra sponda”, quella della psicologia scientifica, il cui universo è popolato, invece che da simboli e archetipi, da topi da esperimento e da scimmie. Un realismo naturalista, scientifico e oggettivista, dotato di un linguaggio freddo e analitico, dove sono bandite parole come «male» e «passioni», a favore di espressioni quali «stati disposizionali, motivazioni, aspettative».
Questo linguaggio è messo nel libro al servizio di uno scopo preciso. «Il mio bersaglio», spiega calmo, «era l'attuale dibattito tra laici e credenti. Volevo arrivare a fornire degli strumenti per capirlo meglio, da un lato rifuggendo da schematismi à la Odifreddi del tipo “Dio non esiste e ora ve lo dimostro” - e quindi cercando di capire gli aspetti umani del credere, relativi alla rispettabile fragilità del vivere; dall'altro, evitando di nascondere il contrasto tra posizioni laiche e religiose, destinato a accentuarsi perché si tratta di posizioni sempre più incompatibili. In questo senso, ho cercato di portare una serie di argomenti e nozioni che riguardano quel modo di funzionare psicologico».
Un modo che, nel libro, sembra equivalere ad un pensare «storto», come il titolo eloquentemente esprime. «No, non è così», contesta Jervis. «Con quell'aggettivo mi riferisco all'insieme di piccoli e grandi deragliamenti che sono tipici della nostra razionalità e del nostro parlare comune. Le imperfezioni del ragionare cominciano da un niente, dall'essere catturati da certa retorica oppure da certi errori logici, e poi magari portano lontanissimo». Il meccanismo che conduce l'uomo al completo “sbandamento” cognitivo, però, ancora sfugge. «L'uomo non è naturalmente cattivo, come molti hanno pensato. Anzi, esiste in lui una moralità spontanea. Tuttavia, essendo un animale sociale, tende imitare gli altri, e questo può portarlo a comportamenti prosociali o antisociali. In questo senso può arrivare a compiere atrocità, come ha mostrato di recente lo psicologo sociale Philip Zimbardo». O, parimenti, al fondamentalismo religioso.
Sembra, insomma, che la religione abbia ben poco a che fare con quella passione per l'assoluto, su cui tanti pensatori hanno scritto. D'altro canto, per l'austero psichiatra, le passioni sono «attaccapanni» linguistici, cui non corrisponde alcuna realtà. «Grazie all'analisi scientifica, fenomeni complessi e irriducibili come le passioni possono essere analizzati e scomposti in qualcos'altro, che non si chiama più “passione”». Stesso trattamento viene riservato all'interpretazione dei significati, momento chiave del trattamento psicoanalitico. «L'ermeneutica non ci serve quasi più, se non in rari casi, quando, soprattutto per esigenze pratiche di comprensione interpersonale nella vita quotidiana, abbiamo bisogno di ricorrere a dei mezzi interpretativi che fanno appello alla soggettività. Ma si tratta di spiegazioni contingenti».
Dunque neanche un pizzico di quella nostalgia di infinito, o meglio di «tristezza della finitezza», di cui hanno parlato autori come Paul Ricoeur e George Steiner? «Ho la sensazione che entrambi tendano ad elevare la sensibilità poetica a discorso conoscitivo. Inoltre uno è immerso in un universo spirituale, l'altro è un pensatore religioso».
Difficile capire, a questo punto del discorso, in che modo la posizione di Jervis si differenzi da quella di Dennett e Odifreddi. «Per loro la religione è una specie di malattia da cui con opportuni ragionamenti e letture ci si può liberare. Io penso invece che la religione sarà pure una erranza della mente, ma si basa su esigenze psicologiche che vanno rispettate. Verso chi invoca Dio di fronte alla morte va mostrata pietà». Ah, ecco, la pietà. Ma siamo sicuri che sia il sentimento giusto per avviare il dialogo tra credenti e non? Jervis si corregge, parla di pietas. Forse suona meglio. Certo è che nel suo libro, asciutto e impersonale, di questa pure poco utile pietas è difficile, davvero, trovare traccia.

Liberazione 15.6.07
Presentata l'assemblea nazionale fondativa che si svolge domani e domenica a Roma
Giordano: «Soggetto aperto e plurale, sarà il motore del processo unificatore della sinistra»

«Pacifista, antiliberista, laica». Ecco la Sinistra europea
di Romina Velchi


Il gran giorno della sinistra europea è domani. A Roma come a Berlino. E non è un caso. La sinistra - quella che non si arrende alla crisi della politica, al liberismo galoppante, alla globalizzazione - ha deciso di «fare sul serio», per dirla con Franco Giordano. A Roma si terrà l'assemblea fondativa della Sinistra europea in Italia; a Berlino si svolgerà il congresso di unificazione (che per la verità si apre oggi) della Linke di Lothar Bisky e Oskar Lafontaine. Due appuntamenti che si parlano e non solo perché è previsto un collegamento video.
Dunque, sabato e domenica, in contemporanea con l'"evento" tedesco, Roma vedrà la nascita della Sinistra europea. La due giorni è stata presentata ieri a Roma, alla Camera dei deputati, dal segretario del Prc e dai rappresentanti di alcune delle 14 reti nazionali e 50 associazioni locali che andranno a costituire il nuovo soggetto politico. Un soggetto, spiega Giordano, «pacifista, antiliberista e laico, che prova a investire sulla partecipazione. Ma il cui elemento fondante è la democrazia di genere». E sì, perché l'assemblea della SE sarà la prima in cui è rigorosamente rispettata la parità tra uomini e donne tra i mille delegati: 50 e 50. E chissà che questo non abbia qualcosa a che fare con la massiccia presenza femminista: «Per la prima volta - lo sottolinea la senatrice del Prc Maria Luisa Boccia - le femministe aderiscono ad una formazione politica. Siamo sempre state gelose della nostra autonomia e, in passato, abbiamo rotto anche con i movimenti su questo tema. Se oggi facciamo questo passo è perché siamo cinvinte che la sfida stavolta possa essere vinta».
Insomma, la SE sarà, promettono i suoi promotori, un «soggetto vivo», proprio in tempi di crisi della politica. «Aperto», è la parola, perché proverà a «investire sulla partecipazione», a nascere «all'insegna del pluralismo diffuso sul territorio». La sfida è proprio quella e, chissà, forse è già vinta se è vero che alla due giorni - che si svolgerà al Palafiera dell'Eur - saranno presenti 200 ospiti di associazioni, sindacati, movimenti: dalle reti ambientali e femministe ai giovani, dai migranti ai coordinamenti delle vertenze territoriali, all'informazione, alla cultura. Guardando all'Europa, certo; ma senza dimenticare casa nostra, dove la sinistra ha urgente bisogno di rinnovarsi. Così, quello a cui pensano il Prc e gli altri soggetti promotori, è «un progetto di forze, anche le più diverse, legato a pezzi di società, che sia espressione del movimento sindacale». In poche parole, «una grande esperienza che si propone di confrontarsi con tutta la sinistra perché dobbiamo accelerare un processo unitario più largo».
Lo dice chiaro e tondo, Giordano. La SE dovrà essere «un soggetto politico importante che si pone come motore di un processo unificatore della sinistra». Che «investe sui processi democratici», perché noi siamo quelli che non rinunciano alla propria soggettività, che considerano i propri contenuti come una «ricchezza»; ciò che solo può contrastare la crisi della politica, il distacco, la disillusione delle persone. Non per caso, osserva Pietro Folena (Uniti a sinistra), questa assemblea è «il primo approdo di un percorso che tutti insieme abbiamo iniziato a Genova nel 2001 e che non si chiude domenica».
Per tutti di questo si tratta: di un'esperienza plurale, nella quale ricercare «nuove pratiche della politica», per «ridurre la distanza - le parole sono dell'eurodeputato Vittorio Agnoletto - tra il palazzo, le dinamiche di partito e la mobilitazione sociale, facendo sì che i movimenti diventino parte attiva della politica, siano linfa vitale». Per questo, la SE sarà un partito «decentrato, organizzato in reti». Per questo durante i lavori verrà annunciata la nascita del portale della sinistra, un "social network" «aperto ai contributi di tutta la sinistra per la sinistra». E per questo, infine, nel pomeriggio di sabato l'assemblea sarà sospesa per permettere a tutti di partecipare al Gay Pride.
Due giorni che saranno un susseguirsi di incontri, dibattiti, tavole rotonde. Al centro di quelli di domani ci sarà il tema del "futuro della sinistra", sul quale si confronteranno, tra gli altri, Giordano, Diliberto, (Pdci), Di Salvo (Sd), Cento (Verdi), Rinaldini (Fiom), Salvato (RossoVerde), don Tonio Dell'Olio (Libera), Ferrentino (NoTav), Lovison (No Dal MOlin), Beni (Arci). Domenica sono previsti gli interventi di Tortorella, Occhetto, Fava e, con un collegamento audiovideo da Berlino, di Bertinotti, nella veste di presidente della Sinistra europea. Chiusura nel pomeriggio con la votazione dei documenti finali e degli organismi della SE in Italia. Benvenuta Sinistra europea.

Liberazione 15.6.07
Salvadori, il comunismo è insopprimibile voglia di pubblico
Lo storico aveva chiesto dalle pagine di "Repubblica" a Bertinotti e Diliberto di liquidare definitivamente l'esperienza
comunista. Ma senza quel movimento l'origine dei mali sociali sarebbe stata ricercata in "leggi naturali" ineluttabili

di Luigi Cavallaro


Non è serio pretendere di restare "comunisti" in nome di una generica difesa degli interessi delle classi più deboli, scrive su Repubblica Massimo L. Salvadori: nella realtà, infatti, il comunismo «è stato due cose: nella pratica un movimento culminato in un sistema dispotico che ha oppresso in primo luogo le masse lavoratrici e non a caso è caduto senza che nessuno dei popoli posti sotto il suo dominio levasse un dito in sua difesa; nella teoria un progetto, in totale contrasto con la sua attuazione, di società senza Stato, senza denaro, resa omogenea da un collettivismo egualitario conseguente a uno sviluppo senza limiti delle forze produttive; un progetto che ha rappresentato non già la tappa finale dell'evoluzione dall'utopia alla scienza, ma l'ultima delle grandi utopie di millenarismo salvifico in contraddizione irrisolvibile con qualsiasi possibile versione della modernità». Insomma, farebbero bene Rifondazione e Comunisti italiani a «guardare finalmente in faccia la storia, avendo bene in mente che, come Marx diceva giustamente, i valori e le ideologie si giudicano non da quello che astrattamente propongono ma da ciò che concretamente riescono ad attuare», e a tagliare definitivamente i ponti col comunismo, rinunciando alla «residuale forza di trascinamento» di un'identità nostalgica e improduttiva per le sorti del Paese e della sinistra.
Salvadori è storico autorevole, per giunta autore di un ponderoso tomo sulla storia del pensiero comunista, dunque il suo giudizio va preso sul serio: se davvero il comunismo fosse stato quelle due cose lì, converrebbe non pensarci più e parlar d'altro. Ma per quanto le articolazioni e i distinguo tipici di un saggio non possano esser rifusi in un articolo di giornale, qualche considerazione in più è proprio il caso di farla, e proprio alla luce dell'indicazione metodologica che Salvadori riprende da Marx: le ideologie si giudicano non per ciò che astrattamente propongono, ma per ciò che concretamente riescono a produrre.
Vale allora la pena di ricordare che la costituzione materiale dello Stato borghese, ovunque vigente all'epoca in cui Marx visse e teorizzò, interdiceva ai pubblici poteri qualsiasi intromissione nell'ambito del processo produttivo: la stessa distinzione fra politica ed economia non ne era che il precipitato "ideologico". Per quanto gli Stati già si occupassero variamente della povertà in cui l'accumulazione originaria aveva gettato intere popolazioni, strappate alle loro condizioni di vita, tuttavia essi si erano arrestati alle misure amministrative e caritative, o non ci erano nemmeno arrivati. Né ciò era da ascriversi a insipienza o stupidità dei governanti: il problema era un altro, e cioè che era consustanziale alla "società politica" scaturita dalla rivoluzione borghese il non poter ammettere che ciò che non funzionava nella vita della "società civile" andasse ricercato nella condizione di separatezza dal processo sociale di produzione in cui veniva trovarsi lo Stato, e di rintracciare piuttosto l'origine dei mali sociali in "leggi naturali" cui nessuna potenza umana poteva comandare.
Di fronte a quella situazione, già nelle sue opere giovanili Marx enuncia con chiarezza un punto dal quale non si discosterà più: la rivoluzione non può avere carattere "solo" politico, non può cioè mirare a prendere il possesso delle leve di un pubblico potere così strutturato; al contrario, dovrà sopprimere l'indifferenza della politica nei confronti delle condizioni materiali degli individui. «Imposta fortemente progressiva», «accentramento del credito nelle mani dello Stato tramite una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo», «accentramento di tutti i mezzi di trasporto nelle mani dello Stato», «aumento delle fabbriche nazionali», «miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo», «uguale obbligo di lavoro per tutti» e «istruzione pubblica e gratuita per tutti i bambini», per limitarci solo ad alcune delle celebri misure proposte nel Manifesto comunista del 1848, servono a questo.
Ed è proprio questo che si è cominciato a fare da quando, con la rivoluzione d'Ottobre prima e l'avvento delle "socialdemocrazie" in Occidente poi, i pubblici poteri hanno preso a produrre valori d'uso e ad attribuirli ai cittadini in regime di "non-rivalità" e "non-escludibilità", per dirla con le categorie concettuali della scienza delle finanze (che non a caso da allora in poi hanno subito una torsione fortissima, fino ad approdare alle moderne trattazioni di economia pubblica). E' questo, cioè, che si è cominciato a fare da quando i pubblici poteri - burocrazie, partiti politici e associazioni professionali - hanno preso a concertarsi reciprocamente per giungere a scelte che non riguardavano più soltanto la gestione delle risorse proprie del settore pubblico in senso stretto, ma altresì l'andamento generale della società, sottratto così al moto "anarchico" tipico del modo di produzione capitalistico e divenuto (almeno tendenzialmente) oggetto di consapevole scelta politica - di una politica economica. Lo ha dovuto ammettere perfino sir Karl Popper: «che sia assolutamente assurdo identificare il sistema economico delle democrazie moderne con il sistema che Marx chiamò "capitalismo" risulta evidente al primo sguardo, confrontandolo con il suo programma in dieci punti per la rivoluzione comunista […] Possiamo senz'altro dire che […] la maggior parte di questi punti è stata messa in pratica, o completamente o in considerevole misura».
Non induca in errore il fatto che uno sviluppo del genere ha avuto diverse forme di realizzazione, talora essendo stato frutto di rivoluzioni "giacobine", per dirla con Gramsci, più spesso essendo stato effetto di "rivoluzioni passive", cioè di trasformazioni delle strutture economiche analoghe a quelle che, dopo il Congresso di Vienna (1815) e la Restaurazione, corsero per tutta Europa, ammodernandone le strutture economiche e sociali: bisogna essere ciechi per non vedere che un progetto in cui lo Stato non fosse un'entità economicamente irrilevante, in cui il denaro cessasse di essere (unicamente) la forma di esistenza del capitale e in cui l'attribuzione di certi beni e servizi venisse resa indipendente dai vincoli dell'appartenenza di classe si è ampiamente inverato nelle nostre società grazie all'azione dei pubblici poteri, che hanno affrancato un'ampia (e talvolta amplissima) categoria di valori d'uso dalla forma di merce e dunque dai vincoli della riproduzione capitalistica, cioè della valorizzazione del denaro stesso. E non meno ciechi bisogna essere per non vedere che i comunisti (e i socialisti) sono state parte integrante, ancorché non unica, di questo processo: basta rileggere Ceti medi e Emilia rossa di Togliatti per scorgervi la lungimirante anticipazione di ciò che l'Italia sarebbe diventata di lì a qualche decennio, soprattutto nelle sue regioni più avanzate dal punto di vista della consapevolezza politica e della vita civile - le "regioni rosse", et pour cause .
In questo senso, è assolutamente vero che, storicamente e teoricamente, il comunismo ha implicato l'abolizione della proprietà privata (dei mezzi di produzione) e, per conseguenza, la pianificazione statale. Hanno però torto quanti sostengono che ciò meni di necessità al "partito unico" e al "totalitarismo": l'esperienza occidentale insegna proprio il contrario, che il «collettivismo egualitario» imposto dalla pianificazione statale può concernere amplissimi settori della vita sociale (sanità, previdenza, istruzione, trasporti, edilizia, credito) senza degenerare in partiti unici o totalitarismi o inefficienze - esemplare il caso delle socialdemocrazie scandinave.
Se si guardasse agli scritti di Marx con maggiore consapevolezza della "grande trasformazione" che il mondo in cui viviamo ha subito da ottant'anni a questa parte, ci si potrebbe utilmente chiedere, piuttosto, come mai la «soppressione dello Stato politico», cioè del carattere separato dei pubblici poteri, si sia storicamente accompagnata all'esistenza «viva e vitale» della politica, per dirla con le parole della Questione ebraica . E proprio in questa opera marxiana si potrebbero trovare delle penetranti risposte - filosofiche, certo, ma anche la filosofia ci parla della realtà, a saperci guardar dentro.
Il punto, però, qui è politico e non puramente storico. Il fatto che tramite l'azione dei pubblici poteri siamo riusciti ad affrancare i beni pubblici dalla forma di merce non significa infatti in alcun modo che «c'è stata una storia e adesso non ce n'è più»: al contrario, la crisi che attraversa la produzione pubblica di beni e servizi fin dagli anni Settanta evidenzia che non sarà certamente questa l'ultima forma di "produzione socializzata", dunque non possiamo proporre per il futuro le stesse ricette del passato. Ma di qui a negare che il comunismo sia «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente», come scrissero limpidamente Marx e Engels, ne corre, a meno di dimenticare che lo sforzo degli essere umani è stato ed è tuttora quello di portare le condizioni della propria riproduzione sotto il proprio controllo, invece di essere dominati dal proprio movimento sociale come da una forza cieca.
Crediamo fermamente che una prospettiva del genere, che riconosce come figli legittimi del movimento comunista tutti i "comunismi statuali" del Novecento (salvo criticarli, anche duramente, in base al tasso di democrazia interna), sia l'unica che possa dar conto del motivo per cui, contro ogni richiesta d'abiura, possiamo e dobbiamo continuare a dirci "comunisti" nel ventunesimo secolo. Diversamente, avrebbero ragione i Salvadori (e i Salvati) a rimproverarci che "il comunismo buono non esiste" e a ritenere che il "movimento reale" rimandi in realtà alla celebre affermazione di Bernstein: «il movimento è tutto, il fine nulla». Proprio come il Partito democratico.

il manifesto 15.6.07
Intervista Fabio Mussi traccia il percorso di una riunificazione della sinistra
«Usciamo dalle trincee»
Il ministro dell'Università: torniamo a una politica di contenuti e valori. Il governo? «Si salva se si corregge la rotta» Una critica al capitalismo aiuta a ricostruire le radici di una sinistra di massa Mi preoccupa ma non mi colpisce la rapidità con cui si squagliano i Ds. Non abbiamo molto tempo per rispondere alla domanda sociale
di Loris Campetti


«Scudo spaziale: D'Alema, Italia non è contraria». Quando gli viene consegnato l'ultimo lancio dell'Ansa, datato 14 giugno ore 12,31, il ministro Fabio Mussi sbotta: «E invece io sì che sono contrario». E ne spiega le ragioni: «Hai voglia a parlare di sistema di sicurezza, ma sicurezza contro chi? E perché in Polonia e in Repubblica Ceca? In realtà è soltanto uno strumento di accelerazione della corsa al riarmo. Oggi nel mondo si bruciano in armamenti molte più risorse di quante non se ne spendessero negli anni della guerra fredda». Ma non è di politica estera che parliamo con Mussi, se non a commento delle agenzie di stampa che gli vengono recapitate nel corso dell'intervista («In Palestina c'è il primo colpo di stato senza stato»). Parliamo della sinistra e della sua multiforme crisi, parliamo del progetto del suo «movimento» di ricostruire un soggetto di sinistra senza aggettivi. Gli aggettivi non servono, dal momento che il nascente partito democratico neanche pretende di essere di sinistra. Insieme a Valentino Parlato incontriamo Mussi nel suo ufficio all'Eur, al ministero dell'Università e della Ricerca.
Partiamo dalla crisi della politica e dei suoi linguaggi. Girando come una trottola l'Italia per incontrare i militanti di Sinistra democratica, aprire sedi, dibattere con le altre forze della sinistra, hai ripetuto che non andrai a «Porta a Porta», sottintendendo che non è quella la forma della politica che ti interessa.
E' dal '98 che non ci vado e penso che dovremmo tutti ridurre le apparizioni televisive che sembrano gratificanti perché la gente ti ferma per strada per dirti che ti ha visto, ma mentre fanno crescere il leaderismo abbassano la qualità della politica. I leader sono ridotti a telepredicatori e i militanti a spettatori. Non esiste un altro paese al mondo in cui i leader politici accettino di essere ridotti ad attori di uno spettacolo circense, sempre con la stessa compagnia di giro. Non è spettacolo - e non penso soltanto a «Porta a Porta» - è avanspettacolo.
Nostalgia delle rarissime conferenze stampa di Togliatti in abito scuro e stile sobrio?
Di Togliatti e anche di Berlinguer. Nostalgia degli articoli di Giorgio Amendola. La politica deve avere solennità, mistero, carisma, altro che questo circolo mediatico. Qualche decennio fa fece scandalo a sinistra Milovan Gilas che, parlando del socialismo reale e della Jugoslavia, denunciò la nascita di una «nuova classe» dei politici. Anche qui è nata una nuova classe che va ben oltre la ovvia necessità, nel tempo in cui viviamo, di una professionalità della politica. Qui siamo alla politica come moltiplicatore di posti di lavoro. Una volta chiesi a un giovane ricercatore che cosa avrebbe voluto fare nella vita, mi ha risposto «il consigliere di circoscrizione». E sai perché? Perché un consigliere di circostrizione guadagna più di un ricercatore. Quando gli ho chiesto per quale partito avrebbe voluto farlo mi ha guardato con aria interrogativa e ha risposto «per chi mi prende».
Al tempo della svolta della Bolognina ti rivolgesti a chi difendeva le ragioni del Pci parlando di attaccamento all'orsacchiotto di peluche. Ora, alle riunioni di Sinistra democratica non mancano i nostalgici del Pci.
Avevo parlato della paura di perdere il bambolotto di pezza. Ciò di cui oggi si sente la mancanza è la scuola politica di allora, la sua qualità. Nessuna nostalgia invece per i vecchi riti. Il Pci era un luogo di democrazia, persino il vituperato centralismo democratico era migliore dei metodi attuali di formazione delle decisioni politiche.
La nascita di Sd si vuole finalizzata alla ricostruzione di una sinistra, unendo in un processo i frammenti esistenti. Come pensi di riuscirci?
Lo so che è un'impresa difficilissima, ma vedo il bisogno diffuso, ascolto le domande di tantissime persone: abbiamo il dovere politico di tentare una risposta positiva. Se alla fine della fiera, dopo 15 anni di stallo, l'edificio politico dovesse essere costituito da un Partito democratico al 20-25%, più un arcipelago alla sua sinistra fatto di forze dell'1-2 o magari 6% e tutti insieme 20 punti sotto la destra, avremmo fatto una bella frittata. E penso a Gramsci e alla tragedia della democrazia liberale: è possibile che da una bilancia che da troppo tempo non pende da una parte escano soluzioni autoritarie, bonapartiste. Vogliamo provare a non farla, questa frittata? Penso non a un partito ma a un'aggregazione politica pesante, di massa, per tornare dentro la società. Ci rendiamo conto che ormai anche a sinistra si parla degli operai come fanno gli antropologi con le tribù amazzoniche?
Ma gli operai esistono ancora? Forse volevi dire i precari...
Non c'è soltanto il precariato, il nodo centrale è la svalorizzazione del lavoro, pagato a prezzi orientali e rivenduto a prezzi occidentali. Mai come oggi sono stati tanto numerosi i lavoratori salariati classici, milioni in Italia, miliardi nel mondo. E' in atto poi un processo - avremmo detto un tempo - di proletarizzazione, con i ricercatori che guadagnano meno di 1000 euro. La scommessa è come rimettere insieme queste figure. Come, se non con un'idea politica forte e semplice? Dobbiamo muoverci in fretta...
Anche perché il degrado della politica e il suo sradicamento dalla società produce anche degrado sociale.
Un operaio di Piombino, già dirigente della Fiom, mi ha scritto una lettera che mi ha tolto il fiato: non vi seguo più, dice, ormai vi occupate solo di carcerati, di finocchi e di negri. Il radicamento sociale, però, non lo ricostruisci con una risposta economico-corporativa ma ridandoci un progetto. Si è straparlato di fine delle ideologie, ma solo la nostra è introvabile, sono fallite le macroideologie. Ma in un mondo che si vuole secolarizzato trionfa la potenza delle idee, per quanto misere e di seconda mano possano essere. Berlusconi non ha vinto soprattutto grazie ai mezzi di comunicazione ma grazie alle idee. Idee medievali, se lui è ricco può far diventare ricchi anche noi, hanno pensato in tanti. E' attualissima la lezione di Adorno sulle semi-ideologie di seconda mano. Si vince con le idee semplici.
Ti aspettavi la rapidità con cui si stanno liquefacendo i Ds?
Mi colpisce ma, purtroppo, non mi sorprende. Quando c'è un cedimento strutturale viene giù tutto. I centri veri di potere che detengono banche, imprese, gruppi editoriali, dove c'è gente che ancora studia Gramsci e il concetto di egomonia, hanno costruito un arco di trionfo allo scioglimento dei Ds. Come hanno ottenuto il risultato voluto, scomparso il maggior partito della sinistra, è arrivata la stangata, persino il dileggio. Ciò aumenta le nostre responsabilità. Noi abbiamo fatto un movimento, non siamo interessati al ventitreesimo partitino. Stiamo raccogliendo un insperato consenso, moltissimi giovani si avvicinano, moltissime donne. Arrivano anche molti eletti nelle istituzioni, e sanno di fare una scelta a loro rischio e pericolo. Oggi Sd è il terzo gruppo dell'Unione e ovunque ci siamo presentati è andata molto bene. Pur in un contesto politico ed elettorale preoccupantissimo.
I tempi sono stretti, dici, ma smantellare strutture, partiti, persino rendite di posizione non è la cosa più semplice del mondo. Come vanno i rapporti con Prc, Pdci e Verdi?
Per costruire un nuovo soggetto della sinistra ciascuno di noi deve cambiare profondamente, rimettersi in discussione, abbandonando nicchie e trincee combattendo in campo aperto. Se resti sempre in trincea, prima o poi chi combatti viene a prenderti. Attenzione però, la sinistra è in crisi in tutt'Europa, bisogna cercarne le cause.
Da dove ripartite in questa ricerca?
Rispondo con le frasi pronunciate alla nostra assemblea del 5 maggio da Massimo Salvadori: 1) non nasce una sinistra nuova senza una critica del comunismo novecentesco; 2) ciò che però sopravvive del Novecento è l'idea socialista; 3) non si esce dalla crisi senza una critica puntuale al capitalismo contemporaneo. Un capitalismo diventato incompatibile con il pianeta Terra.
Ci sono le idee e ci sono le azioni. A che punto siete nella costruzione di pratiche unitarie a sinistra?
Ci siamo incontrati con tutti. Anche con lo Sdi, con cui condividiamo le battaglie per i diritti civili ma abbiamo differenze sulla politica internazionale e sull'economia. Abbiamo stretto rapporti con Prc, Pdci e Verdi - ma non c'è solo questo a sinistra, ci sono i movimenti, ci sono tanti uomini e donne impegnate nell'associazionismo e nel volontariato verso cui dobbiamo avere uno sguardo largo - e abbiamo incontrato le confederazioni sindacali. Infine, abbiamo riunito i 150 parlamentari che si collocano a sinistra del Partito democratico e andiamo verso una collegialità delle decisioni. Oggi (ieri, ndr) portiamo un punto di vista condiviso all'incontro sul Dpef. Non siamo pentiti dei sacrifici chiesti con la Finanziaria per avviare il risanamento dei conti, cosicché oggi è possibile e doveroso ridefinire un'agenda forte e credibile per garantire un risarcimento sociale: le batterie del governo si possono ricaricare puntando su riforme sociali ed economiche efficaci.
Ma la destra dello schieramento si mette di traverso. Percorrerete questa strada anche a rischio di una crisi di governo?
Il rischio di una crisi, con i numeri che abbiamo al Senato, esiste fin dal primo giorno di governo. Il rischio di morire è connesso alla nascita. Abbiamo un governo che si regge su una coalizione molto ampia e ogni volta va trovato un punto di equilibrio. Sapendo che se salta questo governo non c'è all'orizzonte qualcosa di meglio.
Quale risarcimento, quali riforme sociali?
Bisogna guardare in giù, verso il basso, e in su, verso l'alto. In giù, nella sofferenza di ampi strati della popolazione, lavoratori precari, lavoratori dipendenti, pensionati. In su, alla scuola, alla formazione, alla ricerca, all'innovazione. L'Europa è il fanalino di coda rispetto agli Usa e all'Oriente sugli investimenti verso l'alto, e l'Italia in Europa non è certo messa bene. L'Italia è l'unico paese con gli Stati uniti in cui cresce la disuguaglianza, crescono i poveri e crescono i ricchi. In Italia i redditi si sono ulteriormente spostati dai salari ai profitti. Se si avvia questo cammino, se sapremo guardare verso il basso e verso l'alto, sarà anche meno complicato un ritorno nella società, tra gli operai che votano Lega.
Nel vostro incontro prima del Dpef, come forze di sinistra avete detto che sulle pensioni sosterrete un eventuale accordo sindacale. Non sarebbe meglio garantirvi un'atonomia politica e di giudizio?
Se si arriverà a un accordo tra le parti sociali non cavalcheremo la logica del più uno, non scavalcheremo i sindacati. Ma finalmente, usciamo dall'ossessione pensionistica. Pensiamo alla ricerca scientifica. La sinistra deve lavorare sui contenuti, sulle politiche e sui valori fondativi.
Quali sono i tempi della nascita del nuovo soggetto di sinistra?
Avremo bisogno di qualche prova elettorale, già in autunno e nella prossima primavera quando andrà al voto metà del corpo elettorale.
Sempre che non cada il governo. Quali sono i passaggi più pericolosi?
Il rischio, lo ripeto, è quotidiano. Ma le alternative - governi tecnici, governi istituzionali - sono peggiori del presente. Per questo bisogna difendere il governo Prodi. Per difenderlo, però, bisogna correggerlo.

Agi 16.6.07
SE: DI SALVO (SD), SONO OTTIMISTA SU RIAGGREGAZIONE SINISTRA

(AGI) - Roma, 16 giu. - Sono ottimista sulla riaggregazione delle diverse espressioni di una 'sinistra diffusa e larga' che non ha accettato la soluzione del Pd: dobbiamo fare in fretta e bene, e trovare soluzione alle divergenze che ci ancora ci sono. A parlare il capo-gruppo di 'Sd' alla Camera, Titti Di Salvo che domani interverra' all'assemblea costituente della 'Sinistra Europea', il nuovo soggetto politico continentale, cardine della strategia ad ampio respiro ideata nel 2001 da Fausto Bertinotti. "Stimo molto Fausto, la sua coerenza, capacita' di analisi e approfondimento, disponibilita' al confronto con gli altri senza mai smarrire - spiega la Di Salvo - il profilo del suo progetto: percio' non sono rimasta sorpresa per l'incontro all'Auditorium con l'Analisi Collettiva: e' la conferma di una ricerca continua che lo porta a discutere e confrontarsi con tutti". E domani la Di Salvo, un passato da sindacalista Cgil prima in Piemonte, poi in segreteria confederale, discutera' di 'futuro della sinistra' tra gli altri con Oliviero Diliberto, Pietro Folena, Paolo Cento. "La collocazione europea e' il punto non ancora sciolto: per noi di Sd e' il socialismo europeo, per altri 'Sinistra Europea' - aggiunge la Di Salvo - E' questo un punto importante: non si puo' fingere che non ci sia". Ma accanto alle divergenze ci sono pero' molte assonanze: e comunque, nota la Di Salvo, "un processo di riaggregazione a sinistra richiede disponibilita' reciproche a rimetter in discussione qualcosa perche' non puo' esser - dice - una semplice sommatoria". E per fortuna accanto al Presidente della Camera, c'e' "un politico fine, intelligente e di grandissima qualita' come Mussi che pensa - prosegue la Di Salvo - e progetta una politica di qualita', piu' sui programmi che sugli organigrammi: e l'antidoto alla politica d'immagine e di spettacolo e' la partecipazione della gente, del popolo di una sinistra diffusa e larga". Per questo alla Di Salvo la dizione 'Cosa Rossa' non piace: "meglio - chiarisce - l'Ulivo di sinistra, per una sinistra diffusa e larga in cui c'e' spazio anche per lo Sdi con cui si sono assonanze sui diritti civili e la laicita'". L'abbandono del comunismo per il 'nuovo socialismo' proposto da Bertinotti nella sua rivista 'Alternative per il socialismo' e' comunque un punto importante per il confronto, visto che si richiama ad una nobile esperienza: le riforme di struttura. "Si' sono uno dei punti di riferimento: ma l'ambizione di ricostruire una 'cultura politica' della sinistra - precisa la Di Salvo - richiede anche rapporti con modelli culturali come il pacifismo, la tutela dei diritti civili, l'ambientalismo. Una cultura che ovviamente sia finalizzata al governo e al cambiamento della societa'". Insomma, il processo di riaggregazione a sinistra e' in moto: ma forse ci vorra' ancora del tempo per 'superare' la divergenze che ancora ci sono. "Sono ottimista - conclude la Di Salvo - ce la possiamo fare". E, in contemporanea con l'assise di Roma, a Berlino ci sara' il Congresso di unificazione della Linke di Lothar Bisky e Oskar Lafontaine. "Sinistra Europea e' il primo approdo di un percorso che tutti insieme abbiamo iniziato a Genova nel 2001 - sostiene Pietro Folena, leader di 'Uniti a Sinistra' e presidente della Commissione Cultura della Camera - E' un processo apertissimo che non si chiude il 17: investe altre forze della sinistra". (AGI) Pat