La visita del presidente della Camera in Russia:
gli incontri interparlamentari e il confronto col primo ministro sulla fase internazionale
Bertinotti a Mosca, dialogo sulle crisi
di Anubi D'Avossa Lussurgiu
Il presidente della Duma di Stato, Boris Vjaceslavovic Gryzlov, il primo ministro Michail Efimovic Fradkov, il ministro degli Affari esteri Serghei Viktorovich Lavrov; a parte il presidente Putin, nella sua visita di giovedì a Mosca il presidente della Camera dei deputati della Repubblica italiana Fausto Bertinotti ha incontrato praticamente tutti i vertici della Federazione russa. Lo ha fatto in colloqui bilaterali, a partire da quello con Gryzlov dopo che i loro due discorsi avevano inaugurato l'ottava riunione della "Grande Commissione" Italia-Russia, formata appunto da una delegazione di Montecitorio (Benedetti Valentini di An, Compagnon dell'Udc, Marcenaro dell'Ulivo, Provera del Prc e Venier del Pdci) presieduta dal vicepresidente della Camera stessa, Giulio Tremonti e da una della Duma guidata dall'omologa Liubov Sliska.
Se l'avvio della sessione di lavori della "Grande Commissione" ha espresso particolari significati, avendo nella sua agenda argomenti non proprio marginali quali il "dialogo" sulla "sicurezza" tra Russia e paesi Nato, i rapporti politici tra la Federazione e l'Ue, quelli economici e il confronto sulla storia dopo il 1989; gli incontri a porte chiuse di Bertinotti con il premier e il capo della diplomazia russi hanno costituito l'occasione di un confronto privilegiato sulla fase attuale delle relazioni internazionali. Una fase che, oltre ogni formalità, è stata affrontata per com'è: drammatica, percorsa da pesanti dinamiche di regressione e da altrettante opportunità deluse o a rischio di rivelarsi tali. Ed è in questo quadro che la preoccupazione investe l'Europa: soprattutto nel quadro delle opportunità deluse, perché molte sono - o sono state - incentrate sulle qualità possibili del suo essere polo e insieme spartiacque, specie nella cornice di un'epoca segnata dalla coppia "terrorismo"-"guerra preventiva" cara all'analisi bertinottiana.
Non è stata dunque una tappa scontata, la visita ufficiale di Bertinotti a Mosca. Ancor meno scontato che un visitatore del genere indichi, come ha fatto, ai suoi interlocutori una doppia «bussola» quale quella della condivisione di diritti e democrazia e del superamento della contraddizione tra crescita economica e aumento delle diseguaglianze, attraverso la lotta alla precarietà.
Già nella mattina di giovedì, nel discorso pronunciato dopo il presidente della Duma, Gryzlov, ad introduzione della "Grande Commissione" interparlamentare, Bertinotti aveva messo l'accento su un tema approfondito successivamene col primo ministro Fradkov e il titolare degli Affari esteri Lavrov: quello delle «decisioni reciprocamente condivise». Anche sullo sfondo della discussione tra la delegazione dei deputati italiani e quelli della Duma, c'era infatti un difetto di decisioni: riguardo agli impegni bilaterali già assunti, come sul terreno oggi quanto mai accidentato dei rapporti multilaterali. Meglio: la diffusa espressione dei limiti delle decisioni politiche, laddove ad una ripresa di slancio in punto di partenariati economici non corrisponde una fase di dialogo politico soddisfacente, col risultato di rendere più angusto del possibile il respiro dei primi.
E' stato in questa cornice che Bertinotti ha portato, in una sede pubblica come l'avvio della riunione della "Grande Commissione", l'accento sulla questione dei diritti umani, di particolare criticità nella vicenda russa - dalla guerra in Cecenia ai metodi di governo in faccia alle opposizioni interne. Attento a non offrire alcun alibi a confusioni con il tono e il senso di altri approcci politici che impugnano strumentalmente il tema per alimentare in realtà confronti di forza, il messaggio bertinottiano ha preso piede da una chiarificazione netta: «Nessun Paese può ergersi a giudice di altri, al contrario, insieme deve essere trovata la via più efficace per un confronto che nella reciproca comprensione lavori per una crescente affermazione della democrazia e dei diritti». Proprio le «assemblee» rappresentative dovrebbero essere «il luogo istituzionale principale per risolvere compiutamente l'istanza della partecipazione» e per questa via «offrire concretamente una prospettiva di cambiamento a tutti coloro che il nuovo tempo delle relazioni economiche e sociali sta ponendo ai margini del corso della storia». Perché, ricorda, tanto la Russia come l'Ue «sono attraversate da giganteschi cambiamenti che investono l'economia e i rapporti tra le diverse economie che, a loro volta, investono direttamente le condizioni sociali dei popoli e i diritti delle persone». E aggiunge un leit motiv che ripeterà al premier e a Lavrov: «La crescita non è automaticamente portatrice di progresso sociale e questo apre una grande questione democratica».
Di qui un'indicazione che è soprattutto un auspicio: «Solo una grande politica può affrontare tali temi. Il confronto tra realtà diverse e una nuova cooperazione internazionale per la costruzione della pace e per la lotta alla povertà e alle diseguaglianze è la cornice affinchè questa nuova politica possa prendere corpo». La politica stessa, argomenta evidentemente avendo a mente anche il bagaglio di pensieri "italiani" che reca con sé, «deve rinnovare la propria capacità di indagare la realtà, di analizzarne gli snodi critici e i punti di sofferenza, di proporre soluzioni in grado di interpretare i fenomeni del nostro tempo in tutta la loro complessità».
Ne deriva l'articolazione di una prospettiva più ampia per le stesse relazioni di mercato: insiste a dire che «i grandi temi della cooperazione economica, a partire da quella energetica, debbono rafforzarsi insieme a quelli della democrazia e dei diritti», Bertinotti. E sui rapporti bilaterali italo-russi, nell'incontro a due con Gryzlov invita a guardare alla «grande leva economica che può venire dalla cultura, una vera e propria "energia bianca"».
D'altronde proprio Gryzlov illustra nel suo discorso un punto che tornerà martellante anche nelle posizioni del governo russo ascoltate poi da Bertinotti: la precipitazione - pesante su tutti gli altri terreni di confonto, già politicamente ardui dalla divergenza radicale sul Kosovo alle differenze d'approccio con l'Iran, sino allo stallo dell'iniziativa del "quartetto" sul Medio Oriente - dei rapporti sulla questione del disarmo, con l'inizitiva statunitense dello "scudo" in Polonia e Cekia e con le politiche di "allargamento" della Nato. Il presidente della Duma ripete il discorso di Putin: «L'ampliamento della Nato è ingiustificato, così come ingiustificata è la crescita di installazioni militari dell'Alleanza Atlantica vicino ai nostri confini». Chiosa: «Proseguiremo il nostro lavoro per assicurare pace e stabilità all'Europa ma siamo contro una nuova corsa agli armamenti e riteniamo che l'unica strada da seguire sia il disarmo in Europa centrale».
Sono parole che al pomeriggio tornano in forma sintetica nei discorsi a porte chiuse di Fradkov e, invece dettagliatamente, in quelli del capo della diplomazia russa Lavrov: il quale ha buona parte delle sue preoccupazioni rivolte in primo luogo, certo, al disastro di Gaza e al precipitare della situazione in Medio Oriente, ma anche alla Conferenza sul disarmo di Vienna, chiusasi infatti ieri con un nulla di fatto sul Trattato sulle armi convenzionali in Europa mai ratificato dagli euro-occidentali e impugnato da Mosca nel frangente dello scontro sullo "scudo". Bertinotti illustra il suo punto di vista, in verità eclettico rispetto alle voci ufficiali Ue e Nato sinora ascoltate, sin dal briefing con i giornalisti italiani dopo il colloquio con Gryzlov: «Quando qualcuno si sente in qualche modo accerchiato, è buona politica ascoltare con attenzione le sue preoccupazioni». Ma non si limita a questo: «contrastare una spinta al riarmo», prosegue, «è un tema ineludibile. È un problema insieme di pace e di un'idea dell'economia per il futuro». Introduce quel che illustra in seguito alla "Casa Bianca" moscovita e nella sala degli incontri ufficiali ristretti al ministro degli Esteri: «Condividiamo con la Russia la politica di valorizzazione delle Nazioni Unite e anche di una politica che lavori per la pace e per risolvere i punti di crisi e di controversia nel mondo attraverso il metodo della trattativa e del negoziato». Una politica, al momento, tutta a venire: e per nulla assicurata, in particolare dalla "vacanza" dell'Europa.
il manifesto 16.6.07
Nasce Sinistra europea
Per qualcuno è nata già morta, per altri, al contrario, è il futuro. In ogni caso, oggi e domani a Roma si tiene l'assemblea nazionale costitutiva della sezione italiana di Sinistra europea. Una due giorni di dibattito che darà vita al nuovo soggetto. Oggi all'ordine del giorno è prevista una tavola rotonda sul «futuro della sinistra» a cui interverranno, oltre agli esponenti di Rifondazione comunista, che è la promotrice in Italia del progetto, anche i rappresentanti delle reti e delle associazioni che vi aderiranno. Nel pomeriggio, il dibattito delle delegate e dei delegati, poi sospensione dei lavori per prendere parte al gay pride. Domenica mattina è previsto invece l'intervento di Fausto Bertinotti. L'intervento più atteso, visto che segna il suo ritorno alla vita del partito, ma anche quello che più provocherà polemiche. E' proprio il presidente della camera infatti l'obiettivo delle critiche di chi, nel Prc, non vede di buon occhio la nascita di Sinistra europea. Sinistra critica non parteciperà neppure all'incontro, mentre la minoranza dell'Ernesto ci sarà, ma «solo di passaggio», come afferma il senatore Fosco Giannini, direttore della rivista. «Siamo fortemente contrari alla nascita di questo soggetto, è un'operazione moderata e socialdemocratica», Giannini, insieme con il deputato Gianluigi Pegolo e a Leonardo Masella, capogruppo del Prc nel consiglio regionale dell'Emilia Romagna, auspica, invece di una svolta ancor più governista del suo partito, «il rilancio di un moderno partito comunista, e non il suo superamento». Pena, come gli ultimi risultati elettorali dimostrano, « una consunzione elettorale sempre più ampia», conclude Giannini.
Repubblica 16.6.07
Prc, l’ultimatum dei giovani "Fare presto cose di sinistra"
Troppe armi e poco welfare: il j'accuse contro il governo amico
di Alessandra Longo
La responsabile dell'organizzazione giovanile: "Ripenso ai post-it per Bertinotti: sono quelli i desideri da soddisfare"
Giudizi duri su Prodi: "Lontano dalle sofferenze della gente". Ma anche realismo: "Farlo cadere non serve"
Tra i gesti-simbolo suggeriti quello di "bloccare le ruspe alla base di Vicenza". E di aumentare le pensioni
ROMA - Ha una bella faccia sorridente, 25 anni, una storia politica che inizia con le proteste del Movimento Studentesco contro la riforma Berlinguer, un padre, già operaio Enel, finito a 50 anni, nell´era delle ristrutturazioni, a lavorare, cuffie in testa, nel call center dell´azienda. Betta Piccolotti è la portavoce dei Giovani Comunisti di Rifondazione. Se uno vuol capire come se la passa il partito in questa fase delicata, quali sono i sentimenti, le emozioni dei 15 mila iscritti sotto i 30 anni, deve ascoltare voci come la sua. Voci che non mediano il pensiero, non filtrano e soppesano, come fanno i senior, anche quelli più radicali.
Del governo Prodi Betta pensa questo: «E´ totalmente ingessato, ha difficoltà ad individuare i nodi reali, non si connette con la sofferenza della gente sui temi del lavoro, dei salari, della pace, della guerra». Betta parla, guardando onestamente anche all´interno del suo partito, di «disillusione, di umore nero del popolo della sinistra». Dorme ancora bene la notte, dice, ma «si sta interrogando»: «O si cambia rotta, o sarà un autunno caldo».
No, non è una scalmanata: «Penso che far cadere questo governo non risolverebbe nulla. Il punto è un altro: riequilibrare il rapporto tra governati e governanti. Non ho mai pensato che Prodi fosse un rivoluzionario ma che mettesse fine alle storture berlusconiane, questo sì». E´ andata, il 9 giugno scorso, al corteo No-Bush con gli amici del Network delle comunità in movimento, poi è passata al sit-in «istituzionale» di piazza del Popolo, «una piazza triste, come lo sono tutte le piazze senza persone».
Un po´ triste lo è anche lei per come vanno le cose: «Penso alla campagna delle primarie, ai post-it che i militanti, gli elettori, mandavano a Bertinotti, con i loro voglio». Voglio vedere i miei sorridere quando prendono la pensione, voglio scogliere senza cemento, voglio la tassa sui furbi, doppia se di sinistra, voglio fumarmi uno spinello, voglio che il mio pensiero sia rispettato. «Mi chiedo - dice Betta - se il governo Prodi sia ancora permeabile a questi voglio. E mi piacerebbe conoscere i voglio dei futuri iscritti al partito democratico. Perché il problema, sono sicura, non è solo nostro».
«L´aumento delle spese militari, il diktat di Vicenza, lo scudo stellare, la lotta alla precarietà». Betta pensa che Rifondazione debba far sentire meglio la sua voce sia pur nella cornice «del compromesso più avanzato», e difende la libertà dei movimenti», quasi la ragione sociale del partito, «che non devono farsi imbrigliare dalla logica delle coalizioni». Betta parla la stessa lingua di Alessandro Rozza, 25 anni, leonkavallino: «Il partito deve prendere la sua anima dal Movimento. Il passaggio a Sinistra Europea va proprio in questa direzione, un soggetto allargato, una forma partito confederale, non verticistica, costruita sulla partecipazione dal basso». Come si sente un leonkavallino di questi tempi? «Come Nanni Moretti, mi aspetto qualcosa di sinistra. Rifondazione non si è impegnata solo con il Movimento ma anche con gli elettori».
Michele De Palma ha 31 anni, gli occhialetti alla Gramsci, siede nella segreteria nazionale, è stato alla guida dei Giovani Comunisti prima di Betta Piccolotti, ha cominciato a far politica a Terlizzi, lo stesso paese di Niki Vendola, lotta alla mafia, Movimento Studentesco. Dice: «Non ho mai pensato che dal governo si potesse cambiare il mondo e nemmeno che Bush e Prodi siano la stessa cosa, come ho letto su certi striscioni il 9 giugno. Ma così non va bene. Basterebbe rispettare il programma dell´Unione, basterebbe non allontanare i pensionati che protestano davanti a Palazzo Chigi».
Un´altra voce, giovane, che non usa un linguaggio ultimativo nei confronti del governo, che capisce le difficoltà oggettive del suo partito ma lo vorrebbe più tonico, forse più spregiudicato nei rapporti con gli alleati, sicuramente più libero di «bloccare le ruspe a Vicenza, di difendere le ragioni degli abitanti della Val di Susa». Nessuno di loro che perda tempo a parlare dei teocon, dell´Udeur. Il confronto è tutto a sinistra. Per esempio con Massimo Cacciari, che li ha molto sfidati: «Ha detto che Rifondazione è la zavorra ideologica della coalizione - ricorda De Palma - ha un´idea della società sul modello neo-americano: i movimenti si agitano, la politica governa e il fiume volge sempre verso la stessa sponda. Io penso che quello che Cacciari chiama zavorra sia il lievito della società, altrimenti la politica diventa solo risposta di volta in volta alle sollecitazioni delle lobbies». Noi siamo un´altra cosa, si ripetono i Giovani Comunisti, quasi per farsi coraggio e scacciare il timore che l´essere al governo possa produrre una «contaminazione» negativa, ingessi, separi, allontani. Anche per questo è stato molto apprezzato il mea culpa di Giordano sulle due piazze separate anti Bush. «In politica - dice De Palma - raramente si ammettono gli errori».
Correggere la rotta: è questa l´ossessione, l´obiettivo, con l´ansia che il tempo è poco, che il rapporto con gli elettori - le amministrative lo dimostrano - ha subito un vulnus, e bisogna fare presto. Nicola Fratoianni, 32 anni, segretario regionale di Rifondazione in Puglia è l´unico che si concede un sorriso di questi tempi. Ha tirato la volata a Niki Vendola e ha puntato su Ippazio Stefàno, eletto alla bulgara sindaco di Taranto. Non vuole assolutamente l´etichetta di vincente ma una ricetta deve esserci, al netto delle specificità locali, se le cose possono anche andare così. «Certo che c´è - dice Fratoianni - si chiama coerenza. Vai al governo e sai che devi mediare - Vendola lo fa - ma devi anche introdurre un tratto, fare qualcosa di sinistra per l´appunto. Se elimini la gran parte dei ticket sanitari, se fai una legge regionale sui servizi sociali che dà diritti anche alle coppie di fatto, se in due anni apri 10 parchi, allora le cose possono anche funzionare. Adesso il governo Prodi dovrebbe togliere lo scalone, combattere seriamente la precarietà, ritoccare le pensioni minime. C´è sofferenza, c´è crisi, anche nel nostro partito. Ma se ne esce solo così: dando risposte alla gente, facendo quel che si è promesso».
il manifesto 16.6.07
Il commento. La settimana nera di Rifondazione comunista
di Marco Revelli
Su ciò che è accaduto a Roma una settimana fa si è discusso ampiamente. Sul palcoscenico di piazza del Popolo è andata in scena, con la plasticità degli eventi simbolici, la «caduta» di Rifondazione comunista: il fallimento della sua linea politica, non solo degli ultimi mesi ma degli ultimi anni. Dico di Rifondazione comunista, anche se non è l'unica a aver allestito quella piazza, perché è stata la formazione politica che più di ogni altra aveva puntato sul «rapporto con i movimenti» (per usare l'espressione di rito) e insieme che più aveva dato per far nascere e sostenere il governo Prodi. Ora, nel vuoto di quella piazza - e nel pieno delle strade «alternative» circostanti - poteva constatare con quanta rapidità almeno un quinquennio di lavoro «con il sociale» (diciamo: da Genova in poi...) fosse stato azzerato da poco più di un anno di presenza nell'esecutivo.
Il sabato nero della «sinistra radicale di governo» - si può dire così? - non può essere tuttavia separato da ciò che è avvenuto la settimana successiva, e che ha riempito le prime pagine di tutti i giornali. Intendo la devastante crisi d'immagine che ha colpito i massimi vertici dei Ds con la diffusione delle intercettazioni relative alle scalate bancarie. Che non è questione di «complotti», di «follia italiana», di gossip o di malcostume informativo: forse c'è anche questo, ma non è la questione principale. E neppure un aspetto secondario - di «costume», appunto - di una lotta politica che si svolge su ben altri terreni. E', al contrario, la prova desolante del livello di degrado politico, etico, persino linguistico e - l'espressione è estrema, ma non ne trovo un'altra adeguata - «antropologico» di quel pezzo di classe politica a cui buona parte degli elettori di sinistra aveva pensato (illudendosi) di poter affidare il risanamento morale del nostro paese. E' la fine di quella residua legittimazione morale che aveva costituito l'ultimo, tenue filo di continuità di un'Italia che continuava a credere nella politica perché s'immaginava e l'immaginava «altra» rispetto alle orge del potere berlusconiane. Il lessico degli «intercettati», gli argomenti usati, gli uomini con cui e di cui parlano (avete presente il «compagno» Ricucci?), la superficialità e l'arroganza che trapelano, la logica affaristica che esprimono, il piglio da «razza padrona» che denunciano, non costituiranno di per sé (almeno per ora) prove di reato. Ma ragione di una delegittimazione politica totale (da «sen vajan todos»), questo sì, almeno da parte di chiunque non condivida un realismo e un cinismo di tipo tardo-bolscevico alla Ferrara.
Le due sinistre
Può dunque apparire come una terribile beffa del destino che, nel corso della stessa settimana, entrambe le «due sinistre» italiane cadano insieme. Che mentre esplode la crisi della più importante componente della «sinistra moderata» impegnata a convergere drasticamente e definitivamente verso il centro, contemporaneamente imploda la linea politica del partito che più avrebbe potuto «capitalizzarne» gli esiti, o comunque contribuire alla nascita di una più vasta alternativa organizzata a sinistra lungo un percorso di dialogo col «sociale». E che per anni si era preparato a questo momento. Né mi sembra, sinceramente, che la voragine che si va aprendo «in alto» possa essere riempita, in tempo utile, da ciò che si muove «in basso».
Il corteo che sabato scorso ha attraversato Roma è stato grande, non c'è dubbio, bello, multicolore e polifonico (almeno nella sua stragrande maggioranza e fino a cinque minuti dalla fine). Ha dimostrato che un nucleo ampio, massificato, di partecipazione attiva contro la guerra e per l'autodifesa dei territori non si lascia intossicare dai miasmi che escono dal palazzo. Può sopravvivere all'asfissia dei piani alti. Ma non prefigura ancora un'altra «politica possibile». Non rappresenta neppure tutto l'esteso tessuto partecipativo che si era materializzato a Genova nel 2001, con i centri sociali e le parrocchie, i militanti della sinistra radicale e i boy scout, la rete Lilliput di Alex Zanotelli e la Fiom di Claudio Sabattini tutti fusi insieme... Ne costituisce solo l'anima «politicamente organizzata», più una sorta di partito in pectore che non il «movimento dei movimenti». Per questo, la legittima soddisfazione dei suoi organizzatori, se travalica in gioia trionfale mi ricorda un po' chi celebri una festa di compleanno nella sala da ballo del Titanic.
Il fatto è che lo spettacolo (inguardabile e terribilmente triste) a cui stiamo assistendo in questi mesi è quello di una sinistra che «viene giù» tutta insieme. Che cade in tutte le sue componenti, nel quadro di una più generale «crisi della politica». Di un mutamento genetico delle caratteristiche stesse del «politico» - dei suoi ambiti spaziali, delle sue forme espressive e organizzative, dei suoi valori di riferimento e delle sue concrete possibilità di azione - che fa venir meno il contesto stesso in cui l'identità della sinistra si era strutturata. E' cioè la politica del «moderno» - quella fondata sulla centralità della «forma-stato» e della sua sovranità su base nazionale, sulla relativa autonomia della decisione politica, sulla responsabilità territoriale dei diversi attori sociali e politici, sulla possibilità di localizzarne i conflitti e di regolarne le forme - che cade. E trascina con sé nella crisi il proprio primogenito legittimo, la «sinistra» appunto, colpendo mortalmente uno dei cardini della sua esistenza come entità «politica»: il principio di rappresentanza. La possibilità stessa di tradurre le domande e i conflitti sociali in forma politica.
E' questo, oggi, il capo delle tempeste di ogni sinistra: questa difficoltà a tener fede all'imperativo della responsabilità dei rappresentanti nei confronti dei propri rappresentati, che riproduce su scala allargata l'immagine, reale, della «casta» chiusa. Dell'oligarchia dominante. Del «ceto» mosso più da solidarietà (affinità, complicità...) interne e «orizzontali», che non da un qualche rispetto per i propri elettori a cui chiedono una legittimazione tradita.
Ho detto «difficoltà» a tener fede, e avrei anche potuto chiamarla «impossibilità», e non «cattiva volontà» o «indisponibilità», per sottolineare il carattere in buona misura «obbligato» della patologia. Il suo stare nell'ordine (o nel disordine) delle cose, in un contesto dai confini labili, in cui i vincoli di coalizione e delle relazioni trans-nazionali sono feroci, e tagliano spesso le connessioni verticali con la propria gente e i propri territori.
Interlocuzione lobbistica
Non è che i «politici di professione» non ne siano consapevoli. La destra lo sa benissimo, e trova in ciò conferma della propria affermazione totalitaria dell'esistente come unica idea regolatrice, e della propria conclamata «passione per gli interessi». A sinistra, una parte ha evidentemente pensato di far fronte alla crisi sciogliendovisi dentro, e puntando (quasi) tutto sull'interlocuzione lobbistica e sul tentativo di «comprarsi» una parte di sistema economico per ripartire di lì a ridisegnare il profilo del capitalismo italiano (quello che hanno fatto da sempre gli «altri»). Un'altra parte, logorata la rappresentanza, ha giocato le proprie carte sulla rappresentazione di sé come icona simbolica di un'identità altrove introvabile. Ma sono state, entrambe, risposte di corto respiro: l'una destinata a incagliarsi nell'intrico delle cordate e nelle loro implicazioni giudiziarie. L'altra a inabissarsi sulle piazze.
Un pensiero piccolo di fronte a eventi grandi - «epocali» suggerisce qualcuno -, è rovinoso. E credo che sia proprio dal pensiero, dall'elaborazione di un linguaggio e di una rete di categorie capaci di reinterpretare il presente, che si dovrebbe ripartire, se non si vuole che anche l'ultima chance offertaci oggi, la costruzione di un'ampia area politica, sociale e culturale non conciliata con l'esistente ma capace di pesarvi e dire la propria, si disfi nelle mani di chi vi lavora, prima ancora di vedere la luce.
Liberazione 16.6.07
Intervista al capogruppo della Sinistra democratica al Senato: «La delusione attorno al governo riguarda tante scelte: da quella del segreto su Omar al Dal Molin, fino alla tragica verità sul G8»
Salvi: «De Gennaro si dimetta. Ma Prodi non ha nulla da dire?»
di Stefano Bocconetti
Si parte da un dato. «Certificato» dal voto amministrativo e da mille altri «segnali»: la delusione, la forte delusione per questo governo. Che molti spiegano per le scelte - o non scelte - di politica economica e sociale. «E io credo che sia importante aver recuperato l'unità d'azione fra tutti i gruppi parlamentari della sinistra per provare a modificare l'impostazione monetarista di Padoa Schioppa». C'è tutto questo, certo. Ma Cesare Salvi, capogruppo della Sinistra democratica a Palazzo Madama, dice di più: «La delusione si spiega anche con tante altre scelte cose. Che rivelano arroganza, miopia, disinteresse per le richieste del "nostro popolo". E stai attento: sto parlando di richieste che non costano neanche una lira. Che insomma non andrebbero a sbattere con quei vincoli di bilancio tanto cari a Padoa Schioppa».
A cosa ti riferisci esattamente?
L'elenco sarebbe lunghissimo.
Vediamo solo i titoli.
Da dove cominciamo? Per esempio dalla vicenda del sequestro di Abu Omar e dalla decisione del governo di confermare il segreto di stato. Scelta che si è accompagnata con pesanti attacchi alla Procura di Milano. Scelta che viene contestata dai liberali svizzeri, non da Chavez. Liberali svizzeri.
E poi?
La vicenda di Hanefi. Il nostro paese dovrebbe, in teoria, ospitare una conferenza internazionale sulla giustizia in Afghanistan. Mentre a Kabul marcisce nelle carceri il rappresentante di Emergency, senza che sia stata formulata contro di lui neanche un'accusa. Possibile che il nostro governo non abbia nulla da dire? Di più: la vicenda del Dal Molin. Proprio qui, in Senato, s'è votato un documento che impegnava l'esecutivo ad una conferenza sulle servitù militari, che impegnava l'esecutivo a cercare le vie del dialogo con le comunità locali. Come sia andata, lo sanno tutti: un generale, a nome di un ambasciatore, ha comunicato che la base si farà. Comunque. Io credo che neanche in paesi vassalli degli Stati Uniti, come potrebbero oggi essere la Bulgaria o la Romania si sarebbe accettata una simile violazione della propria autonomia. Non basta? C'è il caso di Pio Pompa, lo «spione» che cercava di incastrare tutti i leader politici. Che è ancora seduto, magari due uffici più in là di quelli del ministro Parisi. E poi, c'è il G8.
La macelleria messicana.
Esatto. Quel che è emerso è esattamente quel che tanti avevano denunciato a Genova. E sono fatti gravissimi, drammaticamente gravi. E allora quello che si chiede è davvero poco. Neanche la commissione d'inchiesta - che pure, ricordiamolo faceva parte del programma dell'Unione, col quale si sono vinte le elezioni - ma possibile che nessuno nel governo abbia nulla da dire? Possibile che nessun ministro possa fare nulla?
Fare cosa? Allontanare il capo della polizia, De Gennaro?
Io credo che sarebbe un atto di sensibilità da parte di De Gennaro quello di dimettersi, di lasciare l'incarico. Almeno fino a che i fatti non siano stati chiariti. Ma Amato, e lo stesso Prodi possibile che non riescano a tirar fuori neanche una parola? Possibile che non ci sia la possibilità di un'inchiesta amministrativa? Perché non si può delegare tutto alla magistratura. Troppo comodo. C'è un "piano politico" che non può essere ignorato. Lì, alla Diaz, la democrazia è stata sospesa, violata. Possibile che l'esecutivo non possa dire una parola su questo? Possibile che non possa fare nulla?
Ma secondo te, perchè accade tutto questo?
Perché nel governo c'è tanta sottovalutazione su quanto siano rilevanti queste questioni. Su quanto siano importanti "atti politici" per ripristinare le regole democratiche. Che valgono, che devono valere per tutti. Sì, nel governo, c'è molta sottovalutazione di quanto alcune scelte pesino, siano considerate rilevanti anche dal nostro elettorato. Sottovalutazione unita ad uno scarso peso che ha la sinistra nello schieramento. Che ha avuto.
Perché usi il passato? Non è più così?
Nel coordinamento dei gruppi parlamentari s'è deciso che ci si occuperà anche di questi temi. Ci batteremo per quella che è stata giustamente chiamata la "redistribuzione sociale" delle risorse. Ma ci batteremo anche su questi temi. Su questi punti. Proveremo a svincolarci.
"Svincolarci". Che vuol dire?
Far vedere che la sinistra ha una sua elaborazione autonoma, è in grado di produrre proprie richieste.
Richieste che arriveranno fino a dove?
Immagino che tu voglia sapere qualcosa sulle sorti del governo. E ti rispondo che il governo rischia solo se non fa nulla. Certo, tutti sappiamo che non esistono alternative più avanzate rispetto al governo Prodi. Ma questo non significa che occorra stare fermi, stare a guardare. Non significa che non si debba proporre e dire la nostra su tutto ciò che non va. A Roma e altrove.
Pure qui: con questo "altrove"esattamente che vuoi dire?
Ma, insomma, non sono solo io a vedere quel che accade in tutte le regioni meridionali, guidate da giunte di centrosinistra. In tutte, meno che nella Puglia di Vendola. Ma in Campania, in Calabria, in Basilicata c'è una generale sottovalutazione del fenomeno mafioso. C'è disattenzione se non di peggio.
Di peggio?
Sì, di peggio. Ormai, e il voto amministrativo mi pare l'abbia rivelato esattamente, la gente percepisce come omogenei il centrodestra e il centrosinistra. In molte parti del paese c'è un'omologazione fra i due schieramenti, uniti dalle pratiche di sottogoverno, clientelari. Acquiescenti verso i fenomeni mafiosi.
E' così dappertutto?
No. Infatti sono stati importantissimi i risultati di Taranto e di Gela. Lì, si è dimostrato che quella che chiamano "sinistra radicale", o sinistra d'alternativa può essere davvero il motore di un rinnovamento del Sud. Sì, quelle due città, assieme alla Puglia rivelano che la sinistra, la sinistra vera, può candidarsi ad essere classe dirigente. Ma il resto del centrosinistra - è un dato sul quale tanti dovrebbero riflettere - viene ormai percepito come esattamente uguale all'altro schieramento. Anche qui, o c'è uno "scatto" o non si va da nessuna parte. Col rischio di rimetterci tutti.
E allora?
Io sono convinto che l'"antipolitica" deve trovare una risposta forte soprattutto a sinistra. Una risposta unitaria della sinistra. Una risposta che ovviamente tenga conto di quanto siano rilevanti, drammatiche le condizioni sociali del nostro paese. Che abbia chiaro quanto ci sia bisogno di redistribuire ricchezza. Ma che sappia unire tutto questo ad una battaglia chiamiamola ideale. Sì, la battaglia sociale deve unirsi ad un nuovo "agire politico". Che per esempio faccio diverso questo governo dal suo predecessore.
Repubblica 16.6.07
Germania, la "Sinistra" sfida la Spd
"Die Linke" nasce dall´unione tra la Pds e i seguaci di Lafontaine
Al congresso di Berlino prende corpo la "Cosa rossa" tedesca Ospite d'onore, Fausto Bertinotti
di Andrea Tarquini
BERLINO - Ci sono voluti due anni di trattative, alla fine è arrivata la svolta. Nasce a Berlino la Linke (sinistra), il nuovo partito unito della sinistra radicale. I postcomunisti (o neocomunisti) della Pds dell´Est, guidati da Gregor Gysi e Lothar Bisky, e i dissidenti massimalisti della Wasg che hanno lasciato la Spd con Oskar Lafontaine, si uniscono formalmente oggi in una sola forza politica. È una sfida pericolosa per la Spd, la socialdemocrazia orfana del cancelliere Schroeder e al governo nella Grosse Koalition guidata dalla Cancelliera conservatrice Angela Merkel. Il nuovo partito - la prima forza parlamentare a sinistra della socialdemocrazia dal dopoguerra - stravolge aritmetica ed equilibri, e può cambiare le regole del gioco della governabilità nella prima potenza europea.
È il momento delle emozioni, nel centro congressi dell´hotel Estrel a Sonnenallee, a un passo da dove passava il Muro. Ieri le due anime hanno tenuto i loro congressi di scioglimento, 400 delegati ciascuno. Oggi 800 delegati riuniti delle due formazioni terranno le assise di nascita formale. Sono attesi anche ospiti stranieri, di cui il più alto in rango è il presidente italiano della Camera, Fausto Bertinotti.
Giustizia sociale sopra ogni cosa, no duro al neoliberismo, basta con la partecipazione a operazioni militari che il governo (con mandato Onu, come nei Balcani o in Afghanistan) difende quali missioni di pace. Basta tagli al welfare, dare di più ai perdenti della globalizzazione.
Ecco il credo della Linke. Può catturare molti consensi dei delusi dalla Spd e di chi per protesta vota i neonazisti. Il nuovo partito oggi è molto più forte all´Est, ma appare deciso a prendere piede anche a Ovest. Il primo test, le elezioni a Brema, è stato un successo.
La nuova formazione è pericolosa per la Spd, che nei sondaggi è appena al 27 per cento contro il 38 per cento della Cdu-Csu di Angela Merkel, scriveva ieri il Tagesspiegel. In casa socialdemocratica, avvertiva la Sueddeutsche Zeitung, il nervosismo è palpabile. I sondaggi danno la Linke tra il 9 e il 10 per cento. Il che potrebbe significare che in Germania o governerà una Grosse Koalition, o coalizioni di minimo tre partiti. Perché i liberali o i verdi, da soli, potrebbero non bastare più a sostenere i due partiti di massa.
Diciotto anni dopo la caduta del Muro, Oskar e Gregor, l´infaticabile duo ribelle di Berlino, sdoganano dunque i sogni di ieri per reinventare la sinistra radicale e sfidare l´establishment del Centro.
Parla Oskar Lafontaine, guida dei dissidenti socialdemocratici:
"Siamo l'alternativa ai delusi da Schroeder"
BERLINO - Oskar Lafontaine, il nuovo partito è una sfida alla Spd?
«Sì. Perché la Spd ha abbandonato i suoi valori e i suoi principi, perde elettori e iscritti, non ha una strategia per uscire dalla sua crisi».
Però è al governo con la Cdu di Angela Merkel. Non è un vantaggio?
«Anche nella Grosse Koalition la Spd è per l´aumento dell´iva, una politica di taglio al welfare e partecipazione a guerre contrarie al diritto internazionale».
La Linke può creare nuove formule di governo?
«A livello locale si parla. A livello nazionale la Spd rifiuta ogni collaborazione con noi. Così continueranno a perdere seguito, e forse la situazione cambierà».
I vostri avversari vi accusano di minacciare la governabilità. Cosa risponde?
«È la Grosse Koalition ad aver danneggiato la democrazia. Tre quarti del Bundestag governano contro l´opinione della maggioranza della gente. In alcune elezioni va a votare meno della metà. Noi rendiamo la democrazia più stabile. Anche perché creiamo per il voto di protesta un´alternativa a votare per l´ultradestra».
Cioè volete contendere elettori ai neonazisti?
«Chi è deluso dal governo ha con noi un´alternativa democratica, non più solo la scelta letale di sfogare la rabbia votando per i neonazisti».
Volete essere solo voce di protesta o anche a disposizione per coalizioni?
«Vogliamo cambiare la politica. Se sarà possibile solo all´opposizione, resteremo all´opposizione. Se altri partiti cambieranno linea sui grandi temi della giustizia sociale e del no alla guerra, potranno diventare partner».
La sinistra in Europa attraversa un momento difficile. Dalla Spd, al Ps francese, al Labour. Come può rilanciarsi?
«Deve battersi in modo credibile per valori socialdemocratici e per la pace. Blair era popolare finché ha fatto politica sociale. Con la guerra in Iraq si è giocato tutto. Zapatero al contrario ha mantenuto la promessa: ritiro subito dall´Iraq. E ha svecchiato le strutture della società spagnola».
La Francia non le sembra una crisi quasi senza appello della sinistra?
«In Francia la sinistra ha un compito ancora più difficile. Il gollismo è statalista, ha un´anima sociale. Sarkozy vuole una politica fiscale reazionaria, ma anche controlli democratici sulla Banca centrale europea, e dialogo con i sindacati. La sinistra non ha saputo darsi un profilo e programmi più convincenti».
E in Italia?
«In Italia il centrosinistra avrà l´appoggio della gente solo se la convincerà di fare una politica migliore del centrodestra».
Quale rapporto auspica con il movimento no global?
«È molto importante. Noi al G8 siamo stati il solo partito dalla parte dei no global non violenti in piazza».
Come vi schierate sulla Costituzione europea?
«Abbiamo appoggiato il no al referendum in Francia. La Costituzione non può essere imposta sopra le teste dei popoli».
(a.t.)
Gysi, il leader che avviò la trasformazione del partito comunista
"Il disagio dell'Est è ancora una realtà"
BERLINO - Gregor Gysi, il nuovo partito non è troppo un matrimonio tra due anime?
«C´è un momento logico e un momento casuale. All´Ovest nel dopoguerra purtroppo non si manifestò mai il bisogno di un movimento democratico, parlamentare, alla sinistra della Spd. E d´altra parte la mia strategia, di radicare all´Ovest il mio partito riformato dell´est non è riuscita. La Storia tedesca è diversa. La divisione ha creato all´Ovest che riciclava ex nazisti un anticomunismo militante che il regime sbagliato della Ddr, col Muro e altro, ha alimentato».
Perché dovrebbe avere successo il nuovo partito?
«Perché la globalizzazione ha posto in forse lo Stato sociale, i valori per cui la gente votava socialdemocrazia».
Quanto devono restare diverse le due anime?
«Dobbiamo cercare di essere veramente un partito unito. Non so quanto abbiamo bisogno di differenze, le differenze esistono. Dobbiamo imparare a convivervi: biografie dell´Est e dell´Ovest. Per me è importante evitare l´errore di trascurare improvvisamente l´identità tedesco-orientale. Intanto però i nostri elettori si sentono più legittimati».
Quanto pesa il passato, per le due anime del nuovo partito?
«Abbiamo riflettuto sulla Storia più degli altri: Cdu e liberali hanno assorbito acriticamente Cdu e liberali dell´Est, ex partiti fiancheggiatori nella Ddr. Le due anime hanno storie diverse, impareremo a fare i conti. La Storia della sinistra è sempre complicata. L´ingiustizia della Storia è che la sinistra democratica non ha capito di aver incassato anche lei una sconfitta con la sconfitta della sinistra dogmatica dopo l´89. La vita non è sempre giusta. Due conclusioni: vogliamo solo un socialismo democratico, mai autoritario, ma crediamo nel socialismo. Riteniamo che il capitalismo non abbia risposte adeguate alle grandi sfide dell´umanità».
In Europa la sinistra se la passa male.
«Ma in America latina si sta rafforzando. Dal Cile al Brasile, dall´Uruguay al Venezuela. sinistre moderate o radicali sono protagoniste del momento. Ecco il segnale: la nuova sinistra viene dall´America latina, non dall´Europa. Evitiamo arroganze eurocentriche. Essere a sinistra non vuol dire avere sempre la maggioranza nella società, ma essere riconoscibili, avere un´identità».
Ma tra democratici come Michelle Bachelet e Lula, e l´autoritario Chavez dall´altro, c´è una bella differenza, non le pare?
«A Caracas ci sono stati tentativi illegali di rovesciare il presidente, a Brasilia no. Ci sono sinistre moderate e radicali. Ma la gente non vuol più vivere in miseria. L´importante è che la sinistra latinoamericana eviti l´errore dello statalismo del nostro vecchio est: un´economia di mercato funzionante serve, le panetterie di Stato impoveriscono tutti. E ogni potere politico va sottoposto a controlli democratici».
(a.t.)
il manifesto 16.6.07
Germania. La Linke rifonda la socialdemocrazia
Nuovo partito Nasce oggi a Berlino la seconda gamba della Sinistra europea. Tra sindacato e no global
di Guido Ambrosino
Nasce oggi un nuovo partito, die Linke (la sinistra), dalla fusione tra Linkspartei.Pds - il partito socialista radicato nelle ragioni dell'est - e la Wasg, raggruppamento di sindacalisti e socialdemocratici delusi, formatosi a ovest attorno all'ex presidente della Spd Oskar Lafontaine. Si tratta ora di ratificare, con l'elezione di organismi dirigenti comuni, un processo avviato da tempo.
Già alle politiche del 2005 i candidati della Wasg si presentarono nelle liste della Linkspartei. Al Bundestag, sin dall'inizio della legislatura, opera un gruppo parlamentare comune, presieduto in tandem da Gregor Gysi e Oskar Lafontaine. Gli iscritti, con schiaccianti maggioranze, hanno approvato la fusione in un referendum.
Ieri, all'hotel Estrel di Berlino, i delegati della Linkspartei e della Wasg si sono riuniti per l'ultima volta separatamente, per scegliere i candidati da presentare oggi all'assemblea comune. La grande sala, già teatro dei congressi convocati dalla Spd per confermare qualche anno fa la svolta neoliberista di Schröder, era divisa in due da una parete mobile. Nel settore della Linkspartei molti delegati dai capelli bianchi, ma anche molte donne e giovani. In quello della Wasg prevaleva il sale e pepe di maschi cinquantenni, sindacalisti frustrati da decenni di rapporti privilegiati con la Spd.
A parte la diversa distribuzione per fasce d'età, non è più possibile distinguere a prima vista tra Ossis e Wessis, orientali e occidentali. Ancora dieci anni fa nel guardaroba dei socialisti dell'est sopravvivevano giubbotti di popeline grigiolini, camicie di fibre sintetiche, pantaloni dalla piega rigida. Ormai, a dispetto delle discrepanze nei livelli salariali e nei tassi di disoccupazione, doppi nelle regioni orientali, gli stili di vista si sono avvicinati.
Il lino ha preso il posto del terital. E nell'una come nell'altra mezza sala i discorsi sulla contraddizione capitale-lavoro, vista ancora una generazione fa come «principale», si alternano, senza unilaterali gerarchie di valori, a interventi sui diritti civili, sull'ambiente o sulla questione femminile, sulla pace o sul clima. Semmai, da questo punto di vista, i «tradizionalisti» sembrano più numerosi nelle fila della Wasg. La Pds, uscita 17 anni fa dalla catastrofe del partito di regime della Rdt, ha imparato ad apprezzare l'arcobaleno dei «movimenti». Nelle manifestazioni anti-G8 a Rostock i suoi giovani si muovevano perfettamente a proprio agio nel mainstream antiautoritario dei «globalcritici».
Willy Brandt, alla vigilia della riunificazione tedesca, diceva che doveva «crescere insieme» quel che c'era in comune dall'una e dall'altra parte. C'è voluto tempo per ritrovarsi. Ora, a sinistra della Spd, il lungo processo di avvicinamento sembra compiuto. Lo ha accelerato la svolta a destra impressa dal cancelliere Schröder alla Spd all'inizio del millennio. Oskar Lafontaine, che aveva portato la Spd alla vittoria nel 1998, e era ministro delle finanze nel primo governo Schröder, si scontrò subito col cancelliere sul fisco e abbandonò le cariche di partito e di governo. Ma non ha più resistito sull'Aventino quando Schröder è passato a realizzare i tagli allo stato sociale, escogitati dal compare Peter Hartz (ex direttore del personale della Volkswagen, nel frattempo condannato per distrazione di fondi e corruzione a «luci rosse» dei rappresentanti sindacali della casa automobilistica); e quando è nato un movimento di protesta appoggiato da pezzi importanti del sindacato.
Da soli i dissidenti socialdemocratici non avrebbero sorpassato la soglia di sbarramento del 5%. Di qui la ricerca di un'alleanza con la Pds, che d'altra parte, da sempre snobbata dagli elettori dell'ovest, cercava innesti autenticamente occidentali. È bastato per un 8,7% alle ultime politiche. E per approdare la prima volta in un parlamento regionale dell'ovest, il maggio scorso a Brema, con l'8,4%. Il fatto che il nuovo partito nasca come reazione alla crisi della Spd lo connota - in modo tutt'altro che innovativo - come un progetto di rifondazione socialdemocratica.
l’Unità 16.6.07
Francia, socialisti a caccia dell’ultimo voto
Domani il secondo turno per le legislative. L’Ump vola nei sondaggi, il Ps spera di limitare i danni
di Gianni Marsilli
AH, LE DONNE Per Dominique Strauss Kahn oramai una croce, più che una delizia. Lo scorso novembre gli aveva fatto lo sgambetto la radiosa Ségolène Royal, umiliandolo alle primarie interne al partito socialista. Domani potrebbe fargli le scarpe Sylvie Noachovitch, una bella quarantenne slanciata, bruna dagli occhi azzurri, avvocatessa di mestiere e per giunta volto televisivo fino al marzo scorso, ospite fissa di una nota trasmissione di TF1. Al primo turno la signora, candidata Ump, ha preso il 37,37% dei voti, 90 più di DSK. I due si disputano il collegio di Sarcelles, nella banlieue parigina. La riserva di voti di DSK è in teoria più importante di quella della sua rivale, ragion per cui il leader socialdemocratico ostenta olimpica calma, anche se definisce «ipotetico» l’indice di gradimento di Sylvie tra le classi popolari di quella periferia. Ipotetico, non valutabile, però possibile. Certo che per lui, perdere proprio nel comune di cui è stato sindaco, sarebbe uno smacco. Per questo DSK fa una campagna meno spettacolare ma più meticolosa. Dice che va a pescare gli astensionisti «uno per uno» per riportarli all’ovile.
Più a sud, a Chalon-sur-Saône, un altro tenore socialista vive una difficile vigilia elettorale. Si tratta del vulcanico Arnaud de Montebourg, giovane «innovatore» del partito e portavoce di Ségolène durante la campagna presidenziale (tranne che per il mese di marzo, quando fu sospeso per aver sparato in tv che «l’unico difetto di Ségolène è il suo compagno», ovvero François Hollande). Si gioca il ballottaggio con un aitante 35enne biondo dagli occhi di ghiaccio, che fino ad un paio di anni fa di mestiere faceva lo 007. È stato agente segreto nei Balcani, in Bosnia in particolare. Evoca volentieri le bombe su Sarajevo, ma si confonde con le date. Ma che importa, con un simile esotico bagaglio e con la sua giovanile energia il James Bond Arnaud Danjean ha preso il 43,9 dei voti domenica scorsa, 2 punti in più del povero Montebourg. Al quale domani non resta che incrociare le dita, dopo essersi sgolato tutta la settimana: «Andate e votate! Dopo sarà troppo tardi!».
Periclitante anche la posizione di Vincent Peillon, l’altro «innovatore» di fede royalista, più a nord, nella Somme. E non dormono tra due guanciali neanche Jean Jack Queyranne, presidente socialista della regione Rodano-Alpi, né Jean Louis Bianco, ambedue nomi noti dai tempi di Mitterrand, resuscitati dalla ventata presidenziale di Ségolène. Lei è stata come una trottola. Per aiutare gli uni e gli altri ha preso treni, aerei, per essere a nord la mattina, a Parigi il pomeriggio e la sera in Savoia. Ségolène avrebbe potuto anche risparmiarsi tutti questi viaggi: lei non è candidata, avendo optato per la presidenza della sua regione, il Poitou-Charente. Ma vuole diventare la numero 1 del partito, e alle legislative non poteva certo rimanere alla finestra.
L’ultimo sondaggio conferma l’ondata blu-Sarkozy: la nuova Assemblea vedrà tra i 380 e i 410 seggi targati Ump su 577. L’isola socialista non dovrebbe tuttavia essere lillipuziana: tra i 125 e i 155 parlamentari. Dominique Strauss Kahn ritiene che il risultato può considerarsi «buono», nelle condizioni date, a partire dai 120 deputati. L’ex ministro dell’Economia la mette giù senza fronzoli: non si tratta certo di vincere, ma di decidere «se Sarkozy potrà fare tutto quello che vorrà», oppure se «dovrà fare attenzione» alle sue scelte di governo. Per il partito socialista si aprirà poi il tanto atteso chiarimento interno, che molti temono sanguinoso. Ognuno si prepara a modo suo. Ségolène puntando in alto, Strauss Kahn verso il centro, Hollande inarcando la schiena per non essere disarcionato, Fabius continuando a guardare a sinistra, per quanto più distrattamente, Jean Luc Melenchon andando ad abbeverarsi oltre Reno, al congresso di Die Linke, il nuovo partito della sinistra tedesca che considera «un esempio». E ammette: «La questione del divorzio dal Ps comincia ad essere posta».
Corriere della Sera 16.6.07
Prodi e la strada in salita per il Pd
Se il partito nasce vecchio
di Giovanni Sartori
Nascerà davvero il Partito Democratico? Intendi: nascerà vitale o nascerà morto? Sarà un successo o sarà un fiasco? Margherita e Ds riusciranno davvero a fondersi, oppure la loro sarà soltanto una somma di due partiti che restano litigiosi ed eterogenei? E quale sarà «il valore aggiunto» del nuovo pargolo?
Di regola la somma (unificazione) di due o più partiti non produce valore aggiunto: la somma dei voti ricevuti dal partito unificato è inferiore alla somma dei voti ricevuti dai partiti separati. Nel nostro caso, perché mai un marxista dovrebbe gradire di trovarsi diluito in sempre meno marxismo; oppure perché mai un cattolico dovrebbe gradire di essere soverchiato da laici? Sia come sia, dobbiamo capire a quali condizioni un nuovo movimento o partito riesce a sfondare.
La prima condizione è che la nascita del Pd comporti una drastica semplificazione del sistema partitico, e così l'eliminazione del pulviscolo dei partitucci, dei «nanetti». E da quando i partiti esistono il loro numero viene ridotto dai sistemi elettorali, non dalla nascita di un nuovo partito che se li mangia. Prodi si è messo in testa, invece, di risolvere il problema con un partito «mangia-partiti », con un partito-pitone. Ma, se così, a me sembra un controsenso che il progetto aggreghi soltanto due su circa dodici partiti. E' vero che la Margherita e i Ds mettono assieme circa la metà dei voti dello schieramento; ma i restanti nanetti mantengono lo stesso il loro potere di interdizione e di ricatto. Il che lascia il problema come è. Tanto più che nell'accorparsi i Ds si sono scissi perdendo il loro Correntone.
La seconda condizione è che il nuovo partito sia percepito come davvero nuovo, come portatore di aria fresca e di energie giovani. Invece il Pd sta nascendo senza slancio, già logorato dai tempi troppo lenti della sua gestazione e soprattutto dalle complicazioni nelle quali riesce sempre a impastoiarsi. Se fosse un architetto, Prodi costruirebbe tortuosissime pagode; e certo ha il genio della complessità superflua. Per le elezioni del 2006 escogitò una pletorica officina di teste d'uovo che gli regalò un programma di quasi trecento pagine, che gli fece quasi perdere le elezioni e che quotidianamente lo impaccia nel governare. E per il nuovo partito la tabella di marcia prevede un Comitato dei 45 per le regole dell'assemblea costituente; poi, il 14 ottobre, l'elezione dei delegati alla suddetta assemblea costituente, alla quale compete la redazione dello statuto del Partito Democratico; per poi finalmente arrivare, quando sarà, alla prova delle elezioni politiche. Nell'interim i 45 già dissentono su come e quando eleggere il loro leader e il loro segretario. Il tutto appesantito da un ulteriore, e sospetto, ricorso alla primarie. Dico «sospetto» perché per Prodi è ovvio che le primarie devono confermare e scegliere lui. Tantovero che, al momento, non le vuole perché i sondaggi danno per vincente Veltroni. Con tanti saluti al partito che «nasce dal basso». A Prodi piace far sembrare che sia il suo popolo a creare il suo Pd. Ma in verità non è così. E a questo modo molte, troppe energie vengono sprecate nel costruire una finzione populista.
Allora, il Pd nascerà vitale o morto? La previsione è difficile. Ma il fatto è che le elezioni amministrative hanno confermato la regola che le unioni perdono voti. Dove Ds e Margherita si sono uniti, hanno perso mediamente 10 punti percentuali (vedi Genova, La Spezia, Ancona). Questo è solo un campanello di allarme. Certo è, però, che la strada del Pd è piu che mai in salita.
Corriere della Sera 16.6.07
Arte & Politica. Il critico francese lancia una provocazione. Paola Dècina Lombardi raccoglie le tesi contrarie
Surrealisti e terroristi
Jean Clair: «Breton e Aragon padri teorici dell'11 settembre Volevano cancellare gli Usa»
di Pierluigi Panza
Tra i mandanti che l'11 settembre 2001 avrebbero armato la mente (non la mano) di Mohamed Atta ci sarebbero André Breton, Louis Aragon e i surrealisti. Naturalmente erano morti anni prima dell'attentato alle Torri gemelle, ma sarebbero stati anche loro, secondo il critico d'arte Jean Clair, i «cattivi maestri » degli autori della strage.
Questa tesi, espressa in Francia dall'ex direttore del Musée Picasso, Jean Clair, rimbalza ora in Italia con la pubblicazione di due libri: Processo al Surrealismo (Fazi, pp.220, e 19.5 composto da due saggi, Del Surrealismo considerato in rapporto al totalitarismo e allo spiritismo di Clair e L'onore dei funamboli di Régis Debray che ne è la risposta) e la nuova edizione (con un capitolo aggiuntivo di risposta alla tesi di Clair) di Surrealismo 1919-1969 di Paola Dècina Lombardi (Mondadori).
Il caso è aperto e il dibattimento è così articolato: Jean Clair processa i surrealisti e Paola Dècina Lombardi processa Clair, elencando la lunga scia di biasimo che la sua tesi ha raccolto in Francia per mano di Debray, Michel Butor, François Furet e Yves Bonnefoy...
La vicenda prende avvio il 22 novembre del 2002 quando, su Le Monde, Clair pubblica un articolo intitolato Le surréalisme et la démoralisation de l'Occident. La sua accusa è che «l'ideologia surrealista aveva seguitato a desiderare la morte di un'America considerata materialista e sterile e il trionfo di un Oriente depositario dei valori dello spirito» e che l'intellighenzia francese «si è spinta molto presto e molto lontano nel prefigurare ciò che è avvenuto l'11 settembre». Il Surrealismo, ed estensivamente le Avanguardie artistiche, avrebbero contribuito ad abbassare la fiducia in se stesso dell'Occidente.
Queste considerazioni muovono da alcune fonti. Intanto dalla interpretazione della «Mappa surrealista del mondo» pubblicata da discepoli di Breton nel 1929 in cui gli Stati Uniti non figurano di fronte a un Afghanistan (Paese dell'oppio e dell'hashish di cui i surrealisti facevano uso) grande quanto l'India. Minuscola anche l'Europa, assenti Francia e Italia; gigantesche Russia, Cina, Messico e le isole del Pacifico. Quindi da un discorso tenuto nel 1925 a Madrid, in cui Aragon afferma: «Avremo ragione di tutto. E come prima cosa distruggeremo questa civiltà a voi cara e in cui siete come i fossili nello scisto. Mondo occidentale sei condannato a morte. Siamo i disfattisti dell'Europa… Risplenda infine l'Oriente, oggetto del vostro terrore». E ancora: «E che i trafficanti di droga si gettino sui nostri Paesi terrorizzati. Che l'America in lontananza crolli dai suoi bianchi grattacieli…». Temi che si ritrovano anche nelle Lettres aux écoles du Bouddha di Antonin Artaud: «La logica dell'Europa schiaccia continuamente l'intelletto… Come voi, noi rifiutiamo il progresso: venite, buttate giù le nostre case». Per non accennare, infine, alle illustrazioni in vesti orientali della veggente Madame Sacco in Nadja, ove si raccontano le giornate di rivolta a Parigi contro la condanna degli Stati Uniti a Sacco e Vanzetti.
Anche il modello di organizzazione dei gruppi surrealisti ricorderebbe, per Clair, quello del terrorismo radicale. Avevano le «caratteristiche di una società occulta che, come l'ha definita Hannah Arendt, regola la vita dei suoi membri «in base a una concezione segreta» dove si «esigono obbedienza cieca dai loro seguaci, uniti dalla fedeltà a un capo… attorniato da un gruppetto di iniziati… contro il mondo ostile». Crepuscolo della Ragione, antisemitismo André Breton Veggente di «Nadja» e spiritualismo completerebbero l'avvio del «debosciamento» occidentale di marca surrealista.
Queste tesi sono state raccolte da Clair in Le surréalisme entre tables tournantes et totalitarisme dove si spinge a delineare una «genealogia della violenza» fondata sulla matrice surrealismo-totalitarismo nella quale entrano, come anelli di trasmissione, i maître-à-penser situazionisti e del '68 e dintorni: Gilles Deleuze, Félix Guattari, Guy Debord, Michel Foucault e Jean Baudrillard. Sono coloro, secondo questa interpretazione, che hanno continuato l'opera di «debosciamento» dell'Occidente preparando l'avvento del sogno surrealista concretizzatosi anche nell'11 settembre. Per la Dècina Lombardi si tratta «di accostamenti mistificatori, arbitrari, e insomma ignoranza e malafede, di logica istrionica» come mostrato anche da Régis Debray in L'honneur des funamboles. E per questo aggiunge un capitolo alla ristampa del suo libro dove sono raccolte le valutazioni contrarie all'interpretazione di Clair.
Intanto la Dècina Lombardi ricorda che molti surrealisti furono ebrei (tra i quali la moglie di Breton, Simone Kahn), che proprio i surrealisti «denunciarono i pogrom e il terrore in Germania» nel 1933 e i processi a Mosca nel '36. Quindi raccoglie valutazioni anti Clair. «Mettere in relazione l'11 settembre con lo spirito di rivolta di Breton e del surrealismo è stupido — afferma Michel Butor —, non ha niente a che vedere» specie associandolo arbitrariamente ai costumi licenziosi, a una cultura giovanile degradata e al terrorismo. Per Yves Bonnefoy «accostare il surrealismo al totalitarismo o all'11 settembre è un'assurdità ». Debray ironizza parlando di «stregonerie logiche» sottolineando che quelli dei surrealisti erano paradigmi teorici e la loro violenza più mediatica che effettiva. Anziché di una compromissione con i totalitarismi, per François Furet il surrealismo si pone in una dimensione opposta: è stato «l'anatema antiborghese più violento che mai, libero però da ogni utilizzazione politica, emancipato persino dalle forme canoniche» e Breton ha esercitato un «magistero morale». Peraltro, aggiunge la Dècina Lombardi, il rapporto dei surrealisti con l'azione politica militante è sempre restato subordinato all'esperienza artistica. Anche in Breton, nonostante le sue passioni rivoluzionarie per il Fronte popolare e per Trotzkij, la politica «resta un amore infelice».
L'autorità degli oppositori sembrerebbe far pendere il verdetto contro Jean Clair e salvare dei surrealisti la «volontà di rottura» e l'idea che l'automatismo psichico — come ha scritto Giovanni Raboni— «sia sempre stato e sempre sarà una delle principali fonti e modalità della creazione artistica». Ma a suggello delle tesi di Clair vale la pena ricordare lo spiazzante commento del compositore Karlheinz Stockhausen dopo gli attentati dell'11 settembre: «Questa è l'opera d'arte più grande mai esistita».
«Processo al Surrealismo» (Fazi, pp.220, e 19.5) raccoglie: «Del Surrealismo» di Jean Clair e «L'onore dei funamboli» di Régis Débray
La nuova edizione di «Surrealismo 1919-1969» di Paola Dècina Lombardi (Mondadori, pp. 652 e 19) ha un capitolo aggiuntivo contro la tesi di Clair
Liberazione 16.6.07
Oggi al Palfiera di Roma nasce la Se. Intervista a Danielle Mazzonis
«La sinistra europea? Sogno e scommessa»
di Frida Nacinovich
In viaggio hanno incontrato movimenti, associazioni, reti, politici, intellettuali, professionisti, studenti. Donne e uomini di una sinistra in movimento che guarda all’Europa e oggi si ritrova a Roma. Danielle Mazzonis, sottosegretaria alla cultura, ha percorso metro per metro il tragitto che porta alla Sinistra europea. Lei e la Libera associazione sono una delle mille famiglie di una grande comunità.
Partiamo dall’inizio. Quando è nata la Libera associazione?
Quando Fausto Bertinotti ha lanciato l’idea della Sinistra Europea, mi sono appassionata, ci ho creduto. La nostra rete è nata subito, appena la Se si è aperta anche ai non iscritti ai partiti. Singoli individui (professori, professionisti, simpatizzanti) si sono ritrovati in piccoli gruppi che poi hanno iniziato a moltiplicarsi. Alla riunione di oggi eravamo in 160, arrivati da quindici territori diversi.
Allora il cantiere della sinistra italiana ancora non c’era. Esistevano invece i Ds che oggi non ci sono più. Ha ancora senso la Sinistra europea?
In tutti questi mesi abbiamo lavorato con persone di Aprile, dell’Arci, Legambiente, anche iscritti Ds. La nostra associazione è sempre stata un cantiere aperto.
Oggi si discute di soggetto unitario e di partito unico della sinistra.
Servirà uno sforzo da parte di tutti per non snaturare questa struttura complessa e multiforme, per lasciare ad ogni gruppo la possibilità di continuare a lavorare nei territori come già sta facendo. Oggi si parla anche di fusione o di unità di azione della sinistra. Penso che ci sia bisogno di unità di azione. Certo, occorrono forme di organizzazione per riuscire a collaborare, ma ognuno deve continuare ad elaborare proposte, portare idee. Dobbiamo rispondere a un sogno, rifondare, ripensare la sinistra. Bisogna colmare il vuoto che si è creato fra cittadini e istituzioni. La sinistra europea nasce dal basso, nei territori. Abbiamo fatto le case della sinistra con Rifondazione, adesso anche con i Ds e gli ex Ds della Sinistra democratica. Luoghi di incontro che aiutano la politica a confrontarsi con le persone. Sempre oggi, anzi ieri, è nato il Partito democratico.
La Sinistra europea e il Partito democratico in comune non hanno niente. Qui non ci sono leader, non esistono capi. Un modi di fare politica che è anche un invito alla partecipazione, al confronto.
C’è chi dice che la Sinistra europea rappresenta il punto di arrivo e il superamento di Rifondazione...
Io non credo che sia un superamento naturale di Rifondazione. Casomai sarà Rifondazione a decidere come vuol far crescere questa sua “costola”. Penso che il Prc e la Sinistra europea lavoreranno insieme per un processo comune.