sabato 18 aprile 2015

il Fatto 18.4.15
Maurizio Landini (Fiom)
“Marchionne riporta gli operai agli anni ‘50”
di Salvatore Cannavò

qui


La Stampa 18.4.15
Gauguin
L’ansia di dipingere l’Eden perduto
Alla Fondazione Beyeler di Basilea una grande mostra ripercorre l’epopea dell’artista tra la Bretagna e Tahiti
di Rocco Moliterni


Quando era in vita, non è che Gauguin godesse di grande stima come pittore. La conferma più clamorosa viene da Annah, la ballerina giavanese allora sua amante che nel 1894, mentre lui è in Bretagna, gli svaligia l’atelier, portando via tutto (non molto, tenuto conto che in quel periodo l’artista faceva la fame) tranne i quadri. Quadri che Gauguin faceva fatica non a dipingere (è stato abbastanza prolifico di opere - come di figli - se si pensa che ha iniziato la carriera a 35 anni), ma a vendere. Solo pochi mesi prima di morire ottenne finalmente dal mercante Vollard un contratto che gli permise di vivacchiare alle isole Marchesi, nonostante la dipendenza dall’alcol, la probabile sifilide e l’odio delle autorità coloniali che mal sopportavano il suo schierarsi dalla parte degli indigeni.
A ripercorrere l’epopea di quello che oggi è uno dei simboli (con Cézanne e Van Gogh) della modernità post-impressionista è la sontuosa mostra alla Fondazione Beyeler di Basilea, a cura di Martin Schwander. «Abbiamo concentrato - spiega il curatore - la nostra attenzione sui dipinti realizzati da Gauguin prima in Bretagna e poi nelle sue permanenze a Tahiti. Ci interessava mettere questi ultimi a confronto con le sculture realizzate sotto l’influenza della cultura indigena». Per Gauguin infatti il primitivismo non è una moda, ma un’esigenza che lo spinge a cercare il mito del selvaggio e della natura incontaminata prima in Bretagna (qui diventa maestro nella «scuola di Pont Aven») e poi nelle isole del Pacifico. Alle spalle ha la stagione impressionista, il burrascoso rapporto con Van Gogh, e un interesse per il sacro e la religione che lo portano a realizzare opere come Le Christ jaune o Le Christ vert, la Vision du sermon o Le Christ au jardin des oliviers.
Siamo alla fine degli Anni 80 dell’800 e l’artista scrive alla moglie: «Ricordati che ci sono in me due nature, l’indiana e la sensitiva: la sensitiva è scomparsa, il che permette all’indiana di andare avanti dritta e senza esitazioni». Non si sa che cosa, di questa natura indiana, pensasse la moglie. Mette era una danese dal carattere forte, che sopportava le sue bizze, le lontananze e i mille tradimenti fino al 1897, quando la morte della figlia Aline li separò per sempre. Si erano sposati nel 1873, quando lui lavorava ancora in borsa ed era anche bravo a far soldi e lei non poteva immaginare che avrebbe mollato il lavoro e la numerosa famiglia per inseguire il sogno di un’arte che lo ricongiungesse all’Eden perduto. Eden sovente incarnato nelle fattezze di giovani donne tahitiane. Le dipingeva a seno nudo sulle spiagge o lungo i torrenti di quei paradisi lontani, usando contorni decisi e colori accesi (il rosso, il giallo, il verde), dimenticando il «minimalismo» della scuola impressionista. Perché Gauguin, con quei colori, voleva restituire l’anima delle persone, delle cose e dei luoghi. Ed era convinto di essere sulla strada giusta («io sono un grande artista e lo so» ripeteva), anche se poi non riusciva a convincere gli ipotetici acquirenti.
Tutto il contrario di oggi: in mostra c’è uno dei suoi capolavori, Nafea Faa Ipoipo (in italiano significa «Quando ti sposi?»), venduto di recente da un collezionista svizzero all’emiro del Qatar per 300 milioni di dollari, record assoluto per un’opera di arte moderna. Campeggia in una sala accanto ad altre due tele del 1892, Parau Api (Che c’è di nuovo?) e Aha oe Fei (Come sei gelosa?), e il trittico da solo vale la visita. Sono lavori del primo viaggio in Polinesia, conclusosi nel 1893 con un rimpatrio a spese del governo francese, data l’indigenza e il cattivo stato di salute dell’artista. In patria, dopo il fiasco di alcune aste, cercherà di nuovo pace in Bretagna e alla fine deciderà di tornare prima a Tahiti e poi nell’ultimo rifugio di Hiva Va, nelle Isole Marchesi. Qui morirà, nel 1903, a 54 anni, malato e in solitudine.
Corriere 18.4.15
La Bibbia, Sofocle, Rimbaud: i libri che mi hanno cambiato la vita
di Guido Ceronetti


Nulla può fare più felice uno scrittore, ma anche un pittore, un drammaturgo, del richiedergli dei libri che gli hanno cambiato la vita. Lo ha fatto di recente «la Lettura», il supplemento domenicale del Corriere, con alcuni noti intellettuali interpellati, e questa bella idea mi stimola a non mancare di rispondere anch’io. In un certo senso, ogni libro letto con passione, non professionalmente, ci cambia la vita, sta scritto nel nostro destino. Non sono stato un divoratore di libri, e in questa mia vecchiaia di tormenti leggerò per intero due o tre libri all’anno: ma sono stato un sicuro predestinato a trovare libri da cambiare la vita, e ne ho tratto, come da un amore passionale, tutto il meglio, il profitto, che ho potuto.
Ecco, un giorno ancora di coprifuoco, mi pare, a Torino, sotto i portici di Porta Nuova, un chioschetto con le ruote, «Casa della Bibbia» vendeva esclusivamente Bibbie. Il guardiano era un signore in nero (mi disse poi di chiamarsi Artuffo, dunque non veniva da Ginevra) che a chiunque là davanti rallentasse il passo rivolgeva cortese la domanda: «Le interessa la Bibbia, signore?». Valeva la pena fermarsi, perché lo sconosciuto libro, dalle chiese, era bandito. (Ci volle la rivoluzione di papa Giovanni XXIII perché ai fedeli ne fosse permessa, e perfino raccomandata, la lettura). Quella che presi a sfogliare, sotto l’occhio benevolo e incoraggiante di Artuffo, era il testo in uso nelle valli e nei templi Valdesi, tradotto dal Liuzzi, non so in che anno, in un italiano un po’ meno peggiore di quello dell’esule Giovanni Diodati, abbominevole seicentesco, fortunatamente rimasto inuguagliato. Di un capitoletto di poche pagine, L’Ecclesiaste , i primi versetti, sulla vanità di tutto, mi fermarono. Era fatta: il libro predestinato a cambiarmi la vita, mi aveva gettato la rete addosso.
Tradurre è leggere. Di quei dodici capitoli del rotolo canonico esiste tuttora, tra i miei manoscritti alla Biblioteca Cantonale di Lugano, la mia prima versione interlineare del 1956. Nel tempo credo di aver messo in musicali e scabri versetti italiani una quindicina di versioni e revisioni, in primo luogo restituendo il testo al suono originale: Qohélet . Tra i due editori principali del rotolo ( meghillà Qohélet ), Einaudi e Adelphi, non se ne contano, fino ad oggi, le ristampe. L’editore in caratteri a mano Tallone, che fece un suo Qohélet parecchi anni fa, lo rivorrebbe per le sue meravigliose edizioni, con le mie ultime correzioni dopo l’ultima Adelphi, ritenuta definitiva. Mi ha scelto e mi si è attaccata quella parola di verità che non adula nessuno.
A farmi cambiare vita da un libro, senza mai rigettare i successivi cambiamenti, sono sempre stato docilissimo. In un certo senso, lo stiamo sempre aspettando il libro che venga e porti, ad una incessante fame di luce, più luce. Anche adesso, che gli anni mi stanno flagellando con malignità sadica, aspetto che dalla finestra spalancata da un colpo di vento mi caschi in mano il libro che mi svagini da ogni tenebra e mondo.
Tutti i libri che mi hanno cambiato la vita hanno autori da eterno debito. Il Dio biblico, veterotestamentario o cristiano, non mi ha persuaso, eccetto che per vie gnostiche ininterrottamente percorribili, ma anche a me, come a Giulio Giorello o Leonardo Sciascia, l’ispida Ethica di Spinoza, più o meno dall’epoca dell’incontro con la Bibbia di Artuffo, ha cambiato la vita. Poi è stata la volta di non lasciare mai più Les fleurs du Mal , i versi di Rimbaud, la filosofia di Schopenhauer, il Medioevo di Villon, l’energia unica dei Canti di Lautréamont, i versi infallibili di Sofocle... Spesso bastano, di un libro, poche righe in cui è accesa una lampada. Vorrei mi fosse dato di essere fino in fondo rischiarato, nel punto finale («Il varco è qui?») dalla beatitudine di istruzione che impartisce ad Argiuna il divino auriga della Bhâgavad-Gita.
Corriere 18.4.15
Guerra fredda, che nostalgia
Sergio Romano sottolinea che la contrapposizione bipolare garantiva l’ordine mondiale
di Franco Venturini


I n alcuni libri la libertà intellettuale dell’autore mette alla prova quella del lettore. Quest’ultimo non è chiamato necessariamente a condividere, ma piuttosto a liberarsi delle idee fatte e pronte all’uso, del politically correct, del conformismo che purtroppo spesso pervade anche la storia. L’ultimo lavoro dell’ambasciatore Sergio Romano, ben noto ai lettori del «Corriere», appartiene a questa categoria di libri. E non lo nasconde, anzi lo sottolinea sin dal titolo: In lode della guerra fredda. Una controstoria (Longanesi).
Romano si spiega subito: «Suppongo — sono le sue prime parole — che il titolo di questo libro possa provocare sorpresa e fastidio». E subito ricorda che la caduta del Muro di Berlino, la sera del 9 novembre 1989, non aveva certo rattristato o allarmato i cechi, i polacchi, gli ungheresi, insomma tutte quelle popolazioni dell’Est che Kundera chiamava «l’Europa rapita» e che dalla fine della Seconda guerra mondiale avevano dovuto sottostare al giogo sovietico. Eravamo contenti anche noi europei occidentali, del resto, perché pensavamo che la fine dei blocchi avrebbe garantito la pace.
Si fa presto a constatare, oggi, che le cose sono andate diversamente e che ci troviamo in un mondo dove i conflitti non cessano di moltiplicarsi. Abbiamo sbagliato a rallegrarci per la fine della guerra fredda, allora? Romano ripercorre nel suo libro le molte crisi e anche le guerre che caratterizzarono quei decenni. Ma l’autore mette l’accento su un punto centrale: malgrado i dissensi e talvolta gli scontri indiretti, tra le due superpotenze protagoniste della guerra fredda non vi fu mai un contrasto davvero capace di scatenare una guerra. Perché la minaccia reciproca di un olocausto nucleare imponeva di fermarsi, di mantenere gli equilibri, e così quei decenni furono globalmente decenni di pace. Nei quali poterono trovare spazio processi distensivi come quello dall’Atto finale di Helsinki, i trattati di disarmo atomico, il cruciale accordo Abm del 1972 (poi unilateralmente denunciato da George W. Bush), nel quale Usa e Urss stabilivano le regole per rimanere vulnerabili a un attacco nucleare, vedendo in ciò la massima garanzia che esso non avrebbe mai avuto luogo.
Ma arrivano, dal 1980 in poi, gli anni in cui l’Urss e ancor più il suo blocco imperiale cominciano a traballare per ragioni economiche, sociali e politiche. Parte l’accelerazione della storia. A Mosca sale alla ribalta Gorbaciov, e sarà Boris Eltsin, dopo averlo liquidato, a sancire lo smembramento dell’Urss nel 1991. Quella per il Kosovo sarà presto la prima guerra della Nato. L’America diventa superpotenza unica e si abitua a imporre il suo volere, ma giunge il trauma dell’11 settembre, che porterà all’intervento in Afghanistan e subito dopo a quello in Iraq. Nel raccontare il nuovo mondo troppo caotico, anche Romano dà l’impressione di voler riprendere il «suo» filo. E allora ecco gli allargamenti della Nato dal 2004 al 2009, in contrasto con quanto era stato promesso a Gorbaciov (ma solo verbalmente) quando si discuteva di riunificazione tedesca. Ecco che già nel 2008 gli Usa provano ad avviare l’Ucraina verso l’Alleanza atlantica, mentre gli europei frenano, sapendo che toccare l’Ucraina significa andare a colpire sensibilità e interessi della Russia. Il salto fino alla crisi tuttora in corso tra Kiev e i separatisti dell’Est diventa automatico, e l’autore lo fa precedere da un promemoria storico troppo spesso trascurato.
A questo punto, per coerenza con la premessa, è opportuno che il lettore dica la sua su un paio di punti che lo vedono in dissenso con Sergio Romano. L’autore si chiede, lasciando spazio allo scetticismo, se l’annessione della Crimea nel marzo 2014 sia stata un errore. «Non era forse stato altrettanto grave cambiare i confini della Nato, accogliendo Paesi che avevano lungamente appartenuto a una diversa area di influenza?». Credo che l’annessione formale della Crimea, di fatto già militarmente occupata e controllata, sia stata un errore-chiave di Vladimir Putin, senza il quale sarebbe diventato più difficile colpirlo con le sanzioni. L’annessione, inoltre, ha aiutato chi non voleva negoziare con Mosca, e ha reso più arduo lo sforzo franco-tedesco sfociato negli accordi (fragili) di Minsk II. Questo senza nulla togliere agli errori commessi da parte occidentale, e alla presenza, in Occidente come certamente in Russia, di poteri e persone che vogliono lo scontro.
L’autore si pone poi un interrogativo fondamentale: chi ha vinto la guerra fredda? E scrive che «l’Unione Sovietica fu sconfitta dalle riforme di Gorbaciov». Dissento. L’Urss e il suo sistema economico erano arrivati al limite estremo della sopravvivenza (anche per le enormi spese fatte nel tentativo di tenere il passo delle «guerre stellari» di Ronald Reagan) prima che Gorbaciov andasse al potere e tentasse un processo riformista già abbozzato nel breve regno di Andropov. La perestrojka (ristrutturazione, che fallì diversamente dalla glasnost , trasparenza) era un programma economico disperato, che aveva poche probabilità di successo, ma non fece perdere la Guerra fredda all’Urss. Mosca ha perso per consunzione di tutte le sue componenti umane e materiali prigioniere di un sistema non riformabile. Ed era politicamente impossibile che la parte vincitrice, in un mondo cambiato, ragionasse in termini di zone d’influenza. Le richieste di entrare nella Nato dei nuovi Stati sovrani dell’Est non potevano essere rifiutate, a meno che non fossero foriere di nuovi pericoli. È quanto gli europei hanno capito per l’Ucraina nel 2008, e c’è da sperare che continuino a capire oggi.
Ecco perché il libro di Sergio Romano si raccomanda da solo: perché fa discutere, perché fa pensare, prima di concludere con una struggente constatazione del ruolo che l’Europa potrebbe avere, ma non ha.
Corriere 18.4.15
Tra Israele e Unione Europea scatta la guerra dell’etichetta
Sedici Paesi chiedono a Mogherini di far segnalare i prodotti delle colonie
di Francesco Battistini


DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME Made in Israel. O made in West Bank? Che sia un ortaggio o un formaggio, un olio o un vino, è l’Europa a dirlo: sull’etichetta, la differenza va segnalata. Perché nel primo caso si tratta d’un «normale» prodotto israeliano. Nel secondo, potreste avere in mano merce di coloni che occupano i Territori palestinesi (e che spesso le olive o le viti, ai palestinesi, le rubano).
L’Ue da anni pretende che lo si stampi sulle etichette: «Prodotto israeliano proveniente da insediamenti illegali in Cisgiordania», giusto perché l’acquirente poi si regoli. Ma a parte la Gran Bretagna e i Paesi scandinavi, nessuno lo fa.
Lunedì scorso sedici su 28 fra i ministri degli Esteri europei, Germania esclusa, hanno scritto alla «collega» Ue, Federica Mogherini, esigendo che le etichette trasparenti siano finalmente messe. E che «i consumatori non siano più fuorviati da false informazioni». La Mogherini non ha risposto, anche se si sa come la pensa. Israele invece non ha perso tempo, ed è partita la protesta.
«Possono anche mettere una stella gialla su tutti i prodotti della Giudea, della Samaria o del Golan», la replica del ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, che chiama la Cisgiordania coi suoi nomi biblici e fa notare l’«ipocrita» coincidenza d’una simile lettera nei giorni in cui Israele ricorda la Shoah: «Sappiamo come funziona: si marchiano i prodotti israeliani e poi si passa subito a boicottare tutto ciò che viene da Israele».
Altro che coloni, la tesi è d’un boicottaggio bell’e buono: «Questa mossa può creare caos nella nostra economia — Yair Lapid, già ministro delle Finanze, ha telefonato alla Mogherini —. Non c’è nessuna differenza tra prodotti al di qua o al di là della Linea Verde», il confine del ‘67 al quale Israele è tenuto a tornare.
E poi: perché tanta severità coi coloni — proprio lunedì, Human Rights Watch li ha accusati di sfruttare il lavoro dei bambini palestinesi — quando nessuno si fa troppe domande su quel che arriva dalle fabbriche-lager in Asia, per non dire del mondo arabo?
La lista (nera) della spesa europea negl’insediamenti è di circa 500 prodotti. Un affare da mezzo miliardo di dollari l’anno. Già due anni fa ci aveva provato la precedente «ministra» Ue, Catherine Ashton, minacciando di congelare le partnership finanziarie che riguardavano i coloni. Ma erano i mesi in cui si tentava di far ripartire i negoziati di pace, e fu la Casa Bianca a chiedere all’Europa di soprassedere.
Ora che Abu Mazen ha preso la strada dei tribunali penali internazionali, che Netanyahu ha escluso la soluzione dei due Stati e che le colonie continuano ad ingrandirsi, per i 16 governi europei è tornato il momento: «L’etichettatura è un passo importante».
Ha firmato anche l’Italia, col ministro Gentiloni. Cinque anni fa, quando la Coop provò a far rispettare l’obbligo d’etichetta trasparente, venne giù il mondo e il Partito democratico ordinò ai «suoi» supermercati di fare retromarcia. Evidentemente, nel centrosinistra ci hanno ripensato.
Repubblica 18.4.15
L’enigma di Tsipras
di Federico Fubini


LA SOLA cosa che si possa dire a difesa del rapporto fra Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis è che non può essere peggio di quello fra la Grecia e il resto d’Europa. Alla Banca centrale europea, il premier di Atene avrebbe fatto capire che non si deve dar troppo ascolto al suo ministro delle Finanze. Questi si sarebbe preso la propria rivalsa evitando di informare il primo ministro del contenuto di importanti scambi di idee con i negoziatori europei.
INEVITABILE che poi questi restino senza parole quando si rendono conto, di fronte a Tsipras, che devono spesso tornare a discutere tutto da zero. La lista delle stranezze potrebbe continuare. In un recente convegno a Parigi, Varoufakis, figlio di un importante oligarca greco della siderurgia, ha dato l’impressione di essere seguito come un’ombra da una sorta di “commissario politico” di Syriza nella persona del viceministro degli Esteri Euclid Tsakalotos. Il ministro delle Finanze, che non si è mai iscritto al partito di governo, ha spiegato agli organizzatori dell’incontro che non avrebbe potuto prendere la parola se l’ignoto (e non invitato) Tsakalotos non avesse parlato subito dopo di lui. Ciò non ha impedito a Varoufakis pochi giorni dopo a Washington di scoprire con stupore, dicono i testimoni, che la Grecia ha un vice-direttore esecutivo nel Consiglio del Fondo monetario internazionale (in realtà, lo ha da decenni). Né ciò gli ha impedito di licenziare l’alto funzionario ellenico su due piedi il giorno seguente. Contrariamente a quanto pensavano i marxisti prima di Tsipras e Varoufakis, anche le personalità fanno la differenza nella storia. Alla fine, la faranno probabilmente anche in questa vicenda. Certo, pesano di più le forze che si muovono in profondità, i movimenti o la stasi nelle grandi maree sottostanti, e anche in questi giorni lo si è visto intorno alla Grecia. Il brusco deterioramento dello spread, lo scarto nei rendimenti fra titoli decennali tedeschi e italiani, non dimostra solo che Atene ha conservato almeno parte della sua capacità di contagiare finanziariamente i Paesi più fragili di Eurolandia. Ricorda anche qualcos’altro: nell’area restano economie con vari gradi di vulnerabilità, a partire dall’Italia.
Nell’immediato la minaccia di un nuovo contagio ellenico è comunque contenuta dalla Bce: nell’ipotesi che davvero Atene possa precipitare in un default caotico e uscire dall’euro, la banca centrale di Francoforte in realtà ha già riflettuto su come concentrare nel tempo gli acquisti di titoli di Stato che già sta conducendo. Anziché intervenire per 60 miliardi al mese, per un certo periodo la Bce potrebbe farlo per somme doppie o triple, anche a costo di esaurire il suo programma di acquisti di titoli prima del previsto. Questo presumibilmente sederebbe i mercati almeno per adesso, anche se tutto in Grecia continuasse ad andare nel peggiore dei modi.
I tremori propagatisi da Atene in questi giorni, e la capacità del mercato dei titoli del Tesoro di crollare bruscamente in qualunque momento, ricordano però all’Italia anche un’altra realtà. Senza dirselo poi troppo, questo Paese sta riavvicinandosi pian piano a una bolla del credito e la scossa provocata dalla Grecia ieri lo ha in qualche modo rivelato. Non ha alcun senso, sulla base dei fondamentali delle economie, che i titoli decennali americani debbano offrire un premio al rischio dello 0,40% superiore agli omologhi italiani come se fossero davvero più pericolosi. La sensibilità dimostrata alla vicenda greca rivela come un’Italia che non si autoriforma più a fondo, anziché promettere tesoretti tutti da dimostrare, può finire di nuovo fuori equilibrio e poi pagarne un alto prezzo in seguito.
A maggior ragione, un accordo fra Atene e l’area-euro nelle prossime settimane è disperatamente necessario e per questo conteranno le personalità dei protagonisti. Quella di Tsipras resta tanto determinante, quanto illeggibile. Nei suoi primi cento giorni non ha fatto quasi nulla di coerente con il suo programma di sinistra, neanche misure che sarebbero state ben viste in Europa. Non ha agito contro la corruzione, né contro la grande evasione, né contro gli sgravi e le esenzioni riservate agli oligarchi dei cantieri navali. Ha eccitato le platee con richieste irrealistiche e provocatorie di “indennizzi” dalla Germania, senza capire che l’accordo sul quel fronte è immutabile perché legato alla definizione delle frontiere in Europa dopo la Guerra fredda.
A Tsipras in realtà ora resta un’opinione pubblica che a grande maggioranza lo sostiene (ma un po’ meno di prima) e in una maggioranza altrettanto grande vuole stare nell’euro e in Europa. Per riuscirci il premier greco ha bisogno di un compromesso che cambi in parte gli equilibri politici interni, emarginando le estreme, a destra e a sinistra, e aprendosi ad altri voti in parlamento o nel Paese. Tsipras viene da assemblee infuocate in sale piene di fumo ed è arrivato a incontri riservati con Merkel, Draghi, Putin. Ora deve decidere chi vuole essere e dove vuole che sia il suo Paese. Ormai lo sa solo lui, dipende solo da lui.
Repubblica 18.4.15
“Il nostro viaggio a vuoto nel labirinto eterologa”
L’Italia non è ancora un Paese per donatori
di Tiziana De Giorgio e Matteo Pucciarelli


A un anno dalla sentenza della Consulta è tutto fermo. Come dimostra la “ricerca impossibile” tra ospedali pubblici e cliniche private di due trentenni
Nessuna informazione e il centro (regionale) di prenotazione impreparato nonostante da mesi lo stallo venga attribuito alla mancanza di seme e ovociti

“Aspetti che chiedo... No, guardi mi dicono che qui in Lombardia non si può fare”. E in futuro? “Le ho detto di no, mi ha sentito?”. A chi possiamo rivolgerci? “Non ne abbiamo idea. A proposito: voi sapete quali sono le regole?” Al ventunesimo tentativo, la prima risposta positiva Appuntamento, colloquio. E tantissimi moduli da firmare “In Europa è una procedura normale, da noi stanno facendo del terrorismo per spaventare e dissuadere le persone”

DICONO che l’eterologa — partita un anno fa, praticamente imposta dalla magistratura — non stia decollando. Dicono che non ci sono abbastanza donatori e per questo il meccanismo non si mette in moto: manca la “materia prima”, insomma.
Bene, allora proviamo a donare, proviamo a capire come si fa a dare una mano. Proviamo a stare dall’altra parte della barricata: non quelli che chiedono un aiuto alla scienza per avere figli, ma quelli che si mettono a disposizione. Entrambi trentenni, in buona salute e armati di altrettanta volontà, scopriamo però che nella ricca, efficiente e moderna Lombardia donare agli altri (e senza chiedere nulla in cambio) è un’impresa disperata, per veri temerari. E così incassiamo sfilze di «no», «non so», «eh?», «ci dispiace ma... » e affini.
Partiamo dalla via più semplice, quella alla portata di tutti. Grazie a una ricerca su Internet recuperiamo un documento di tre pagine che ci fa da guida: “Elenco centri autorizzati fertilità Regione Lombardia”. Quelli di Milano li chiamiamo uno a uno. Ospedali pubblici e cliniche private, non fa differenza. «Buongiorno, siamo una giovane coppia e vorremmo fare i donatori per l’eterologa, da voi c’è questa possibilità?». Le prime telefonate sono fiduciose. «Aspetti che chiedo (...)», risponde perplessa la centralinista del Niguarda. Restiamo cinque minuti in attesa. «Mi dispiace, qui no, e comunque mi dicono che in Lombardia ancora non si fa». Al Fatebenefratelli non riusciamo a finire di formulare la domanda: l’eterologa non è di casa e quindi di fare i donatori non se ne parla. Ma nemmeno in futuro? Al Centro sterilità dell’ospedale San Carlo la risposta è stizzita: «Le ho detto di no, ha sentito?».
Nessuno prende nota dei nostri nomi, neanche a dire: per il momento non si può fare, non siamo pronti, ma in futuro sarete i benvenuti. I più disponibili provano a indirizzarci verso altre strutture: «Il centro più grande che abbiamo a Milano è la Mangiagalli, provate lì». Altro buco nell’acqua: «Non sappiamo nulla di certo, risentiamoci dopo l’estate». Al centro medico Cerva ci suggeriscono di sentire l’Humanitas. E indovinate la risposta dell’Humanitas... Noi chiediamo informazioni e l’imbarazzo, le pause per prendere tempo, diventano una costante. Sembra quasi di doversi sentire in colpa per una richiesta tanto “bizzarra”, cioè donare. A chi possiamo rivolgerci quindi? «Non è per cattiveria — si giustificano dal San Raffaele — ma non ne abbiamo idea». E sì che la Regione Lombardia — accusata per mesi di fare resistenza alla legge, visto che la maggioranza di centro-destra che la guida è ancora legata a Comunione e Liberazione — ha anche annunciato di aver inviato agli ospedali un form per la registrazione dei donatori, quindi in teoria problemi non ce ne dovrebbero essere, se non altro in un’ottica futura. «Non ne sappiamo nulla»: dall’altra parte, stavolta, è la Macedonio Melloni. Al centro Monterosa si capovolgono i ruoli, chi ci dovrebbe dare qualche dritta ce ne chiede: «Scusate ma io non so nemmeno com’è regolamentata la pratica, voi per caso sì?». Anche il centro unico di prenotazioni della Regione non contempla i “donatori di gameti”. Proviamo con lo sportello del Comune di Milano per i diritti civili, creato nei mesi scorsi proprio per dare una sponda “laica” anche alle coppie con problemi di fertilità. Una sorta di ufficio facilitatore nella giungla di norme e contronorme. Dopo una ricerca di mezza giornata, il funzionario un po’ mortificato ci lascia un messaggio in segreteria: «Purtroppo in tutta la Regione al momento non c’è un centro disponibile, ci dispiace».
Alla fine, su venti centri milanesi contattati, riusciamo a portare a casa ben due risposte positive, o qualcosa del genere. Al Sacco, ci spiegano, c’è un elenco di pazienti in lista di attesa; per gli aspiranti donatori come noi presto sarà possibile fare i primi colloqui con i medici. Perlomeno sanno di cosa si parla e l’evenienza che qualcuno pensi di donare seme e ovociti viene presa in considerazione. Al centro Matris, invece, sem- brano non aspettare altro: «Ah certo, se ci lasciate un recapito vi facciamo richiamare dal medico». Non passano nemmeno dieci minuti, il nostro telefono che squilla, è il dottore: «Fissiamo l’appuntamento».
L’appuntamento è di giovedì, ore 11.30. La piccola clinica in zona San Siro è attaccata a una “Sala del Regno dei testimoni di Geova”, se non stai attento rischi di suonare il campanello della struttura sbagliata. Alla reception rose e orchidee (finte) sotto vetro, pareti rosa confetto; foto di neonati dappertutto, foto di genitori sorridenti, foto di camici bianchi circondati di infanti in culla, articoli di giornale sulla procreazione assistita, italiani e stranieri. In sala d’attesa altre coppie, anche giovani, alcune si tengono per mano. Ma si capisce subito che i ruoli sono diversi, la carica di aspettativa differente, noi ci sentiamo più leggeri.
Dopo venti minuti veniamo convocati per il colloquio. Come funziona? Possiamo farlo davvero? Quando? Con quali tempi? Quali procedure? «L’età massima per gli uomini è 35 anni», ci spiega con gentilezza il medico. Anche la sua camicia è rosa. È richiesto seme di “alta qualità” nonché resistente all’abbassamento della temperatura, «due caratteristiche diverse tra loro e non è detto che uno le possieda entrambe». Ma a parte questo sembra una passeggiata: prima ci sarà un incontro con lo psicologo («ma tranquilli, quasi una formalità!»), dopo l’analisi del seme e del sangue; se il prodotto è di qualità e non ci sono altre controindicazioni, tre raccolte diverse e il gioco è fatto. «Il seme sarà subito congelato. Tutto gratis, ovviamente », ci avvisano. Ecco perché dovremo firmare un modulo nel quale dichiariamo che la donazione non ha fini di lucro. «Siamo i primi a doverci tutelare», ragiona il dottore, che aggiunge: «Facciamo l’eterologa da luglio, dei precursori in Lombardia, e ci siamo tirati addosso una marea di controlli».
Per la donna la questione è più complicata. «Quando compie i 31 anni?». Agosto. «Allora dobbiamo fare tutto entro il suo compleanno, dopo non si può più, siamo borderline ». La trafila è lunga: se gli esami vanno bene, tocca subire un bombardamento ormonale per stimolare le ovaie. Quindici giorni in cui bisognerà garantire la propria presenza quotidiana alla clinica. Poi, l’intervento. «Lei non sente nulla, dorme. Ma al risveglio potrebbe avere un po’ di mal di pancia, ci potrebbe essere qualche piccola perdita di sangue». Le controindicazioni non mancano, insomma. Il dottore è sincero. Non è come donare il sangue. Per questo «deve farlo soltanto se ne è davvero convinta». E siccome si tratta di un vero e proprio impegno, qui «è previsto un rimborso spese da calcolare in base alle giornate di lavoro perse ». Le donazioni al massimo potranno servire per cinque gravidanze, così come per l’uomo. Nessuno di noi due saprà mai chi ne ha avuto bisogno e se nasceranno davvero dei bambini grazie al nostro contributo.
In altri Paesi europei le donatrici si trovano senza difficoltà, racconta lo specialista prima di accompagnarci alla porta, tra le studentesse donare è diventata consuetudine, una questione di civiltà. «Da noi, invece, stanno facendo del terrorismo, la gente non sa come muoversi e allora va all’estero», è il suo congedo. Come a dire: l’Italia ancora no, non è un paese per l’eterologa.
Corriere 18.4.15
Un Paese che deve fare da solo
di Fiorenza Sarzanini


Le parole del prefetto di Bologna riassumono bene quanto sta accadendo, in questi giorni, nel nostro Paese. «Noi salviamo vite», ha risposto il rappresentante del governo a chi mostrava preoccupazione per l’arrivo di centinaia di migranti in Emilia-Romagna. È vero. Salviamo vite e assistiamo donne, uomini e bambini approdati in Italia per sfuggire alla guerra e alla miseria. Accogliamo migliaia di disperati pur non avendo le strutture adatte per farlo, né un piano strutturale adeguato, visto che bisogna fare i conti con le resistenze di alcuni governatori regionali e numerosi sindaci determinati a respingere l’arrivo degli stranieri sul proprio territorio.
La temuta invasione sembra essere cominciata. I diecimila stranieri giunti in Italia negli ultimi sette giorni sono il segnale di una situazione che, entro poche settimane, rischia di diventare difficilmente gestibile. Anche perché è salito in maniera pericolosa il livello di aggressività degli scafisti, fino a trasformare il Mediterraneo in un teatro di battaglia.
I colpi sparati lunedì scorso da quattro uomini a bordo di una motovedetta libica, che così sono riusciti ad ottenere dal comandante del rimorchiatore «Asso 21» la restituzione del barcone utilizzato per traghettare centinaia di persone, sono stati il primo, gravissimo, segnale di allarme. La rissa scoppiata a bordo di un gommone con alcuni giovani cristiani che hanno raccontato di aver visto i loro amici picchiati e poi gettati in mare dai musulmani mostra la ferocia che può scatenarsi quando si vive in condizioni disumane.
L’assalto di ieri al peschereccio siciliano trainato fino alle acque libiche è la conferma che ormai nulla si può escludere, perché i gruppi criminali sono disposti a tutto pur di incrementare il traffico di esseri umani.
Molto altro può accadere: la determinazione di questi scafisti rischia di avere conseguenze ancora peggiori. Eppure nulla si muove. L’Italia rimane sola a fronteggiare la minaccia e soprattutto l’emergenza. Qualche giorno fa, di fronte all’ultima ondata di sbarchi, un portavoce dell’Onu ha riconosciuto al nostro Paese il merito di affrontare questi eventi portando interamente il peso dell’Europa. Poteva essere l’occasione per uno sforzo comune che coinvolgesse tutti gli Stati membri di fronte a un’emergenza umanitaria ormai innegabile.
È accaduto esattamente il contrario. Da Bruxelles si sono affrettati a precisare che nessuna iniziativa sarà presa. Anzi, è stato specificato che «non c’è alcuna volontà di rafforzare l’operazione marittima, pur nella consapevolezza dei limiti della missione Triton». Quella nota ufficiale dei ministri degli Affari europei di Fra ncia, Germania, Italia e Slovacchia per sollecitare «una reazione forte e comune dell’Europa, una risposta risoluta e una politica migratoria comune e coerente di fronte agli ultimi tragici eventi nel Mediterraneo» appare tanto retorica quanto inutile. Soprattutto incoerente, visto che proviene da coloro che dovrebbero essere parte attiva di questa «politica», promotori di iniziative concrete e urgenti.
Il nostro rappresentante non avrebbe dovuto neanche firmarla, proprio perché non ha alcun valore effettivo, anzi rappresenta la prova che ogni tentativo di ottenere collaborazione dagli altri Paesi è ormai miseramente fallito. Come fallita è la speranza di poter fermare gli arrivi dei migranti mettendo qualche decina di mezzi navali a trenta miglia dalle coste siciliane.
A questo punto è necessario varare nuove regole che proteggano gli uomini impegnati nelle operazioni di soccorso e salvataggio in mare. E l’Italia deve farlo in piena autonomia, per prevenire conseguenze che possono essere drammatiche. La Libia è ormai fuori controllo, siamo esposti a un pericolo sempre più tangibile. Restare inerti e isolati rischia di avere esiti tragici. È inutile illudersi di riuscire a trovare collaborazione internazionale. Bisogna agire da soli e farlo prima che sia troppo tardi.
Repubblica 18.4.15
La sindrome atlantica e lo stagno dell’Italicum
Riforma del Senato, il sasso lanciato da Renzi è un tentativo di fermare la lacerazione del Pd
di Stefano Folli


ALLA Casa Bianca, coperto di lodi da Obama come leale alleato degli Stati Uniti, giudicato con ammirazione per l’energia riformatrice, Matteo Renzi avrà vissuto la sindrome che colpisce più o meno tutti i governanti italiani oltre Atlantico. Laggiù è facile sentirsi statisti di livello internazionale e guardare da lontano, con fastidio e dispetto, le beghe domestiche, le risse inconcludenti nei palazzi romani. Se è vero che in fondo all’animo del presidente del Consiglio c’è l’idea di un Partito Democratico ben rimodellato, docile strumento nelle sue mani, emendato dai capricci della minoranza, si capisce perché ha voluto confidare a Claudio Tito qualche idea innovativa sulla riforma del Senato giusto un attimo prima di partire per Washington, con un piede già sulla scaletta dell’aereo.
La speranza era di guadagnare così qualche giorno di tregua, offrendo ai litiganti di casa nostra un po’ di materia costituzionale su cui discutere e ovviamente dividersi mentre il premier è all’estero. Certo, è plausibile che Renzi avverta la necessità di correggere qualcosa nella riforma di Palazzo Madama. Una riforma che presenta — non da oggi — aspetti critici destinati a sommarsi ai dubbi sul sistema elettorale. Il rischio è che la somma di due leggi fatte male, o comunque migliorabili finché si é in tempo, accentui il malessere istituzionale anziché guarirlo. Ma non è chiaro se realmente il presidente del Consiglio intenda entrare nel merito della riforma da modificare, oppure se la sua sia un’iniziativa solo politica. Ossia un modo per spiazzare i suoi avversari della minoranza Pd, impedendo loro di riorganizzarsi in vista del voto dell’Italicum. E in ogni caso evitando soprattutto che si dica e si scriva di una trattativa in atto fra Palazzo Chigi e la pattuglia ribelle.
Lo stile di Renzi, così come lo conosciamo, fa pensare a una mossa politica che non calcola più di tanto il merito costituzionale della proposta. In fondo era stato proprio il premier a battersi a lungo per rendere non elettivo il nuovo Senato (anche allo scopo di abolire in chiave anti-casta l’indennità economica dei cento parlamentari). Ora all’improvviso lo scenario cambia e l’ipotesi dell’elezione popolare rientra dalla finestra, sia pure in forme non precisate. Al punto che il costituzionalista Stefano Ceccanti, non certo un anti-renziano, sostiene l’impossibilità di ripristinare il Senato elettivo con un emendamento, un po’ alla chetichella, e ritiene che in tal caso si debba ripartire da zero. Difficile pensare che Renzi voglia questo. Quindi la mossa è politica.
Non è l’apertura di un negoziato, tanto meno il tentativo di avviare uno scambio. Semmai è un modo per annacquare le resistenze della minoranza sull’Italicum, così da arrivare all’approvazione in tempi certi e se possibile senza il voto di fiducia, senza cioè quel passaggio che presenta un costo alto per l’immagine pubblica del premier. Del resto, un conto è caricare di significati politici il voto finale sulla legge, minacciando la crisi di governo; tutt’altro conto è conquistare l’Italicum solo grazie a un voto di fiducia, al termine di una partita estenuante che era cominciata chiedendo «la più larga condivisione» sulla riforma.
Ecco allora il sasso nello stagno della riforma del Senato. Tutto quello che può smuovere le acque in una situazione delicata può essere un vantaggio per Renzi. Il quale sembra oggi comprendere che un Pd lacerato a metà può diventare un problema politico incontrollabile. Se Bersani diventa, come in effetti è già, il consistente capo di una minoranza corposa, il premier-segretario non può fare spallucce come se si trattasse di uno sparuto gruppo di nostalgici. Ciò non significa, naturalmente, che Renzi rinunci al suo progetto di «partito della nazione». C’è anzi da credere che tornerà da Washington ancora più determinato a mandare avanti il progetto nelle forme possibili. In fondo sente di aver ricevuto da Obama una sorta di investitura, avendo garantito in cambio l’impegno italiano in Afghanistan e in Libia.
Repubblica 18.4.15
Gianni Cuperlo “Sì ad un confronto sulla composizione del Senato
Ci dividerebbe? Non avrebbe senso immolarsi sull’altare delle preferenze, a me interessa la Costituzione
“Vedere per credere Renzi parli alle Camere se cambia la riforma diciamo sì all’Italicum”
Non voglio pensare che la legge elettorale serva così com’è per accelerare nuove elezioni. Quello sì è un tuffo nel passato
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «Trattiamo». Gianni Cuperlo, leader della Sinistra dem, vede uno spiraglio nel scontro sulle riforme che ha spaccato il Pd.
Cuperlo, crede o no alla mossa di Renzi?
«Mi verrebbe da dire: prima vedere e poi credere. Le riforme le voglio e nei tempi dati».
Una trattativa allora è possibile?
«La Costituzione non è una merce di scambio dentro un partito. Il punto non è azzerare tutto e partire daccapo ma dotare il Paese di un assetto istituzionale che stia in piedi e assicuri il buon funzionamento della democrazia. Cosa che il combinato tra Italicum e nuova Costituzione ancora non garantisce».
Ripristinare il Senato elettivo sarebbe un bilanciamento rispetto all’Italicum?
«Ho sostenuto per mesi che la sfida era dare una logica al sistema. Un vero Senato delle autonomie, come abbiamo sempre chiesto, e non l’ibrido che si è votato, una riforma del Titolo V meno centralistica. Garantire la governabilità assieme alla rappresentanza evitando che una maggioranza tra deputati e senatori venisse nominata dall’alto».
Quindi l’apertura del segretario va accolta?
«Se il confronto è su questo, porte aperte.
Ma non è materia da due battute ai giornali.
Il premier venga in Parlamento e dica come pensa di migliorare l’impianto complessivo».
E quali sono le condizioni che lei pone?
«Ad esempio si riapra l’articolo 2 sulla composizione del Senato e il modo di eleggerlo. Si rileggano funzioni e regole, magari sulla falsariga del Bundesrat tedesco. Solo a quel punto l’Italicum com’è adesso avrebbe un equilibrio diverso. E comunque la sua entrata in vigore andrebbe agganciata al completamento della riforma costituzionale».
Dareste a quel punto il via libera sulla legge elettorale così com’è?
«Io dico che quello sarebbe un cambiamento serio e avremmo un sistema più bilanciato».
Renzi è certo che alla fine lei e i deputati di SinistraDem voterete comunque l’Italicum.
«Se è per questo diceva anche “Enrico stai sereno”. Io non cerco la polemica, voglio dare una mano. E con qualche sofferenza ho votato sia la riforma elettorale che quella costituzionale nei passaggi parlamentari precedenti. L’ho fatto per non chiudere il confronto e unire il Pd. Ma adesso ripeto la domanda che ho fatto a Renzi l’altra sera. Perché ti vuoi chiudere nel recinto della sola maggioranza di governo, e neanche tutta, quando puoi allargare il sostegno a riforme destinate a durare per i prossimi cinquant’anni? Puoi uscire da questo passaggio con un governo più forte e in grado di agire sull’economia e i bisogni di chi fatica. Cosa ti trattiene?» Cosa trattiene il premier, secondo lei?
«Non voglio pensare che l’Italicum serva così com’è per accelerare nuove elezioni. Perché quello sì vorrebbe dire ignorare il futuro e fare un tuffo nel passato ».
Le dimissioni di Speranza vanno respinte?
«L’altra sera a caldo ho chiesto a Roberto di ripensarci. Lui ha compiuto un gesto che gli fa onore. Deciderà in coscienza e con la coerenza che lo caratterizza».
La minoranza però è divisa.
«Io voglio guardare avanti e so che contano le coerenze. A me più delle minoranze sta a cuore la Costituzione. In questo senso non ha senso immolarsi sull’altare delle preferenze. Si corre il rischio di apparire per quel che non siamo, gente preoccupata di conservare un seggio. Senza contare le ricadute sulla vera emergenza che ci investe e che dovrebbe suonare l’allarme sulla sorte del Pd».
In che senso?
«Nel senso che ha ragione Scalfari, una sinistra senza popolo scompare e non basta sventolare il 41 per cento delle europee. Perché quel popolo vive nelle urne ma prima ancora in un sentimento comune. Se viene meno devi capire chi sei. Io la campagna elettorale la farò come ho sempre fatto. Ma se guardo allo stato del mio partito in tante realtà vedo quella crisi esplosa da tempo e la soluzione non è commissariare a dritta e manca. Bisogna distinguere il buono dal guasto. E capire che un partito non è solo potere, ma cultura, etica, campagne dal basso. Posso farle un esempio? Possibile che dopo il massacro in Kenya o quello dei palestinesi a Yarmuk non vi sia stata una nostra mobilitazione diffusa? Attorno a noi il mondo si infiamma, dallo Yemen alla Libia o con dei disperati che pregano Allah e che nel loro fanatismo gettano a mare altri disperati che invocano il Dio cristiano, e la sinistra, fatto un comunicato di cordoglio, torna a spicciare i suoi affari. Ecco, questa è la malattia da curare»
Corriere 18.4.15
Una mediazione al ribasso mette in tensione la minoranza Pd
di Massimo Franco


Le voci di un possibile scambio di favori tra Matteo Renzi e la minoranza del Pd sulla riforma del Senato per ottenere il «sì» all’ Italicum si sono liquefatte nel giro di poche ore. L’ipotesi che il presidente del Consiglio potesse accettare la soluzione di una «Camera alta» eletta come l’attuale è stata smentita in modo ufficioso ma netto. Resta da capire se quello che è successo sia frutto di un pasticcio o di un ripensamento. Qualunque sia la spiegazione, la tesi è apparsa strampalata. D’altronde, quando è affiorata, ieri mattina, erano stati gli stessi avversari interni del capo del governo ad accoglierla con scetticismo.
Dagli Usa, dove è in visita ufficiale, Renzi ha ribadito: «Anche se in Italia c’è chi vorrebbe tutte le volte ripartire da zero, le riforme hanno preso una strada che non ha possibilità di essere bloccata». A questo punto, se mediazione ci sarà, avverrà su dettagli che in teoria non dovrebbero smuovere la minoranza. I vertici del Pd vogliono che a Palazzo Madama arrivino senatori senza peso politico, scelti tra i consiglieri regionali; e che non abbiano voce in capitolo sulla fiducia al governo. L’incognita, adesso, è quanto gli avversari renziani sono disposti a rischiare nel «no» all ’Italicum .
La risposta è che alcuni sembrano pronti ad andare fino in fondo, anche nel voto in aula. Altri, però, no. La lettera con la quale un gruppo di parlamentari della minoranza critica «la deriva estremista» di chi pure la pensa come loro sul nuovo sistema elettorale, prelude a una spaccatura; o comunque fa riemergere idee diverse sui prossimi passi da compiere in Parlamento per contrastare Renzi. Per questo esponenti come il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina, assicurano che «non ci sarà nessuna crisi di governo» e che si troverà «un punto di equilibrio».
Pochi, forze qualche decina, sono disposti a spingere il loro «no» fino alla dissociazione aperta dal premier e dalle decisioni prese nella Direzione del Pd. Sfidare Renzi e portarlo a chiedere la fiducia sull’ Italicum , significherebbe aprire un contenzioso anche istituzionale con le opposizioni: fiducia che sarebbe percepita come una forzatura, trattandosi di materia elettorale. Tra l’altro, come effetto collaterale proprio il Pd potrebbe mettere in imbarazzo il capo dello Stato, Sergio Mattarella, votato ed eletto da tutto il partito.
Anche per questo, nella minoranza dei Democratici si avverte qualche crepa. Perfino dentro Forza Italia, che ironizza sulle «giravolte» renziane, affiora la tentazione di votare le riforme del governo. Il drappello guidato da Denis Verdini, uomo di raccordo col premier, oggi ostracizzato, l’ha già fatto capire: è orientato a sostenere Renzi comunque, anche dopo la rottura del patto del Nazareno con Berlusconi. Se c’è la fiducia, i suoi diranno «no». Ma in caso di voto segreto, se Renzi avrà bisogno di un aiuto discreto, gli arriverà.
Corriere 18.4.15
Numeri stretti e contatti tra i «nemici» Il segretario dovrà usare la fiducia
Esponenti del Pd con Forza Italia e M5S puntano a pochi emendamenti chiave
Perché la fiducia sull’Italicum sarà la scelta finale
di Francesco Verderami


Qui si fa l’Italicum o si muore, perciò Renzi ha deciso che sulla legge elettorale porrà la fiducia, siccome non si fida dei grillini e di Verdini, che gli aveva promesso l’appoggio anche di Fitto a scrutinio segreto.
La battaglia alla Camera si avvicina. E nell’attesa si assiste a un gioco di alleanze contro natura, a una sequenza di dichiarazioni zeppe di sgrammaticature costituzionali e procedurali dietro le quali il premier si nasconde per scaricare al momento opportuno sui nemici delle riforme, e dunque della Patria, la responsabilità del gesto a cui ha preparato da tempo il Parlamento e l’opinione pubblica. Sarà fiducia, infatti, perché Renzi non può nè vuole esporsi al rischio degli scrutini segreti: basterebbe l’approvazione anche di un solo emendamento per consegnare se stesso e l’Italicum nelle grinfie del Senato. Sarà fiducia, perché la coalizione dei volenterosi — organizzata in gran segreto da Palazzo Chigi e composta da alcuni pentastellati ed (ex) forzisti — non è abbastanza solida nei numeri per garantire al premier la certezza di prevalere sulla coalizione degli oppositori, l’altra alleanza trasversale organizzata da esponenti della «ditta», autorevoli dirigenti cinquestelle, fedelissimi berlusconiani e gladiatori che militano nella maggioranza.
Tutto è pronto, e il gioco tattico rivela qual è il disegno dei due schieramenti. Gli avversari di Renzi, per la loro parte, si sono ripromessi di presentare poche e mirate modifiche alla riforma, così da non fornire al premier l’alibi di esser stato «costretto» alla fiducia contro manovre ostruzionistiche. Ecco a cosa sono serviti i contatti riservati tra esponenti del Pd, di Forza Italia e di M5S: a organizzarsi per puntare al bersaglio grosso, magari con l’emendamento che consentirebbe ai partiti di apparentarsi al secondo turno. Dall’altro lato Renzi, per evitare queste trappole, deve muovere d’anticipo per blindare la sua creatura. Certo non regge la minaccia di salire al Colle se l’Italicum venisse cambiato dalla Camera: «Salirebbe e scenderebbe», per dirla con Bersani, visto che la legge elettorale non sarebbe stata bocciata ma solo modificata dal ramo del Parlamento.
Il punto però è che la sfida non si consumerà nell’emiciclo di Montecitorio. Perché è vero che — per «asfaltare» i suoi oppositori e i loro emendamenti — il premier dispone della fiducia, ma il governo potrebbe chiederla in Aula sul testo che verrà votato dalla Commissione. Perciò Renzi — parlando con Repubblica — ha fatto mostra di aprire al dialogo con la minoranza del Pd sulla riforma costituzionale, nel tentativo per metà di ammansirla e per l’altra metà di spaccarla più di quanto già non lo sia. Ma ha compiuto un doppio passo falso: ha offerto ciò che tecnicamente non può offrire, a meno di non ricominciare da capo tutto il percorso delle riforme, e soprattutto ha dato un segnale di debolezza politica, cedendo su un tema — l’elettività del Senato — contro cui aveva issato le barricate.
Con il premier sull’altra sponda dell’Atlantico, è toccato al ministro Boschi metterci una toppa, spiegare urbi et orbi che Renzi voleva offrire una «disponibilità a inserire delle garanzie»: «Non siamo chiusi nel castello. Siamo pronti a trovare un modo per equilibrare il sistema» con alcune modifiche costituzionali. Ma davvero verrà così scongiurato lo scontro sull’Italicum, visto che lunedì scadono i termini per presentare gli emendamenti? E quanti margini può avere la proposta avanzata dal centrista Quagliariello di riporre l’arma della fiducia a patto che tutte le votazioni sulla legge elettorale avvengano a scrutinio palese?
Gli eserciti sono ormai in armi e non da ieri. Renzi per vincere la guerra in Aula deve prima vincere la battaglia in Commissione. Solo allora potrà mettere in pratica la sua strategia, dando alla fiducia una motivazione «politica». Dovrà arrivarci per gradi — così ha spiegato — e limitando al massimo gli strappi, per un verso assicurando deputati e senatori che «la legislatura terminerà a scadenza naturale» e per l’altro drammatizzando sempre di più la situazione, in modo da dare una valenza chiara alla sua scelta. Tutto ciò gli servirà per attutire la campagna mediatica dei suoi avversari — che equipareranno la decisione del governo a un «golpe» — ma soprattutto per prepararsi all’ultimo passaggio: perché la fiducia anticiperà il voto finale sull’Italicum a scrutinio segreto. Ecco la differenza. Un conto sarebbe venir battuto su un emendamento, altra cosa veder sconfessata la riforma. «In quel caso — dice il premier — se si andrà sotto si andrà a casa». E la minaccia secondo Renzi smantellerà d’incanto la coalizione degli oppositori.
Corriere 18.4.15
La tentazione a sinistra di costruire un nuovo partito
di Paolo Franchi


La cosa non ha quasi fatto notizia, e già questo è un segno dei tempi. Un segretario generale della Cgil che annuncia come la cosa più naturale di questo mondo la sua decisione di non votare per il partito ultra maggioritario del centrosinistra, a memoria d’uomo non si ricorda. Tanto meno si ricorda un segretario generale della Cgil che pronostichi per il prossimo futuro la nascita di un nuovo partito della sinistra. Limitandosi a mettere in chiaro che a promuoverlo non deve essere «in modo improprio» il sindacato, come vorrebbe Maurizio Landini, ma, «nel modo più naturale», la politica. È vero, non si era mai visto nemmeno uno come Matteo Renzi, che da subito ha messo la Cgil sul banco degli imputati, rappresentandola come l’incarnazione di tutti i conservatorismi. Ma le parole di Susanna Camusso dovrebbero suonare lo stesso come una svolta di proporzioni difficilmente calcolabili. Invece niente. O quasi.
Curiosa coincidenza. La Camusso aveva da poco finito di sorseggiare il suo caffè in Corso Italia con il direttore del Foglio quando la minoranza del Pd si è sentita dire a muso duro da Renzi che il tempo delle discussioni e delle mediazioni è scaduto, sull’Italicum e non solo. È in primo luogo a questa minoranza, se le parole hanno un senso, che la Camusso sembra rivolgersi, perché diano battaglia: che senso ha mandar giù un boccone amarissimo in nome dell’unità del partito, se il partito in questione non è più il loro? Da qui alle elezioni politiche potrebbe e dovrebbe succedere «qualcosa di importante» a sinistra: fate che ciò avvenga, e potrete contare, se non sull’appoggio aperto della Cgil, che non è e non vuole diventare una forza politica, su qualcosa di più della sua simpatia. Appena tre mesi fa, quando la polemica con Renzi già si trascinava da un pezzo, il segretario generale era, almeno in pubblico, di diverso avviso. Il Pd, nonostante tutto, restava «un grande partito di centrosinistra». E, quanto a un’eventuale scissione, meglio non parlarne: «Di formazioni piccole ne abbiamo già troppe». Può darsi che a farle cambiare idea abbia concorso, oltre alla concorrenza da sinistra di Landini, una più chiara percezione dei cambiamenti di fondo (una «mutazione genetica», torna a dire la Bindi) introdotti da Renzi nel Pd, sempre meno «amalgama mal riuscito» di post comunisti e post democristiani di sinistra, sempre più partito di «un uomo solo al comando» (nel tempo che fu, forse si sarebbe parlato, come ne parlò nel Psi Riccardo Lombardi a proposito di Bettino Craxi, di Führerprinzip ). Quale prospettiva può avere in un partito siffatto una minoranza, qualsiasi minoranza, se non risolversi a decidere tra mangiare la minestra (almeno sino a quando, e non sarà in eterno, le verrà comunque distribuita) o saltare, con tutti i rischi del caso, la finestra?
Se il ragionamento è questo, una sua coerenza interna, lo si condivida o meno, la ha. I problemi, però, cominciano proprio qui. Il principale è, si capisce, quello di stabilire quale consistenza potrebbe avere una Linke all’italiana. Ma, anche a volergliene generosamente attribuire una pari, o addirittura superiore, a quella della Linke tedesca, e a voler lasciare da parte la questione (cruciale) del sistema elettorale dentro cui dovrebbe dare la sua battaglia, resterebbe ancora da stabilire chi potrebbe darle vita. «Nel modo più naturale, la politica», dice la Camusso. Vero, o almeno parzialmente vero, nel mondo di ieri (Rifondazione comunista ai tempi della «svolta» di Achille Occhetto) o dell’altro ieri (il Psiup ai tempi dell’ingresso dei socialisti al governo). Ma oggi, chi dovrebbe provvedere, una parte degli oppositori di Renzi nel Pd, Sel, i resti di Rifondazione? E, se provvedessero, quanti degli elettori della sinistra vecchia e nuova, che ci sono e non sono neanche pochi, piuttosto che dare un voto di testimonianza all’ennesimo partitino costruito mettendo insieme pezzi di ceto politico sconfitto, preferirebbero astenersi? La «coalizione sociale» di Landini probabilmente non andrà da nessuna parte, ma, con tutta la sua vera o presunta astrattezza, sembra, a paragone, un progetto realistico.
Di tutto questo hanno amara contezza gran parte delle minoranze del Pd. Ma meglio di loro lo sa Renzi, il figlio del tempo della post politica e forse pure della post democrazia che però sembra possedere, quasi per istinto, una delle virtù più antiche, e smarrite, dei leader: quella conoscenza delle debolezze degli avversari che ti consente (quasi) sempre di metterli in scacco perché ne hai intuito in anticipo le (prevedibili) mosse. È un’arma potente. Non è detto che stavolta gli basti. Ma certo gli dà un aiuto sostanziale.
La Stampa 18.4.15
Cofferati: Pd al di là del bene e del male
“È falso che non toccasse a Paita intervenire per dare l’allerta. Partito ormai arrogante In Liguria non ci sarà maggioranza per governare. Incredibile l’intervento di Bagnasco”
di Jacopo Iacoboni


Cofferati Il leader della Cgil ai tempi del Circo Massimo è stato il rivale sconfitto da Paita in un’elezione opaca, con contestazione di brogli e garanti in campo In seguito a quella vicenda lasciò il Pd

«Ormai il pd è al di là del bene e del male». Sergio Cofferati da quando è arrivata la notizia dell’indagine su Raffaella Paita ha parlato con pochissime persone. Chi lo ha sentito sa però che le sue affermazioni sono molto dure, in queste ore. Quando fu sconfitto da Paita denunciò brogli, che poi sono stati in buona misura confermati anche dal Collegio dei garanti del partito. Quindi Cofferati è uscito dal Pd: qualcosa che - per un ex capo della Cgil - appariva oltre l’inaudito.
«Era evidente che la magistratura intervenisse - dice adesso - e indagasse l’allora assessore. Vi rendete conto che c’è stato un morto, e una catena molto discutibile di intervento?». La difesa di Paita è che non tocca all’assessore, dal punto di vista normativo, dare l’allerta, ma al dirigente della protezione civile. Cofferati la smonta. «Innanzitutto non è vero. Ma facciamo come se fosse vero: resta il fatto che, dopo un’indagine del genere, bisognerebbe almeno prendere atto delle enormi responsabilità politiche. Paita ha preso provvedimenti contro questi dirigenti? No. Li hanno licenziati in tronco, subito, il giorno dopo? No».
Il discorso che va facendo l’ex segretario generale della Cgil si allarga. «Era uno dei temi che sostenni molto in campagna elettorale. Non mi piace fare il La Malfa, quello che dice “io l’avevo detto”, ma Burlando e Paita non hanno usato i finanziamenti europei per mettere in sicurezza il Bisagno e il Fereggiano, non hanno predisposto le azioni di intervento per contenerli. Poi è chiaro che le esondazioni non dipendono certo da loro, ci mancherebbe. Ma i mancati interventi politici sì».
In Liguria la situazione è complicata, ora, per il Pd. «La gente non sopporta più l’arroganza di questo Pd», sostiene Cofferati. «Io ci ho messo la faccia perché pensavo fosse giusto, e pensavo che l’autoriforma di certi comportamenti, molto diffusi dentro il partito, arrivasse dalla politica, perché la politica arrivasse prima della magistratura». Ma, ha raccontato Cofferati a chi lo ha sentito, «era inevitabile l’indagine della magistratura, esattamente come era successo a Marta Vincenzi; semmai l’unica cosa che sorprendeva era che non fosse ancora giunto, questo avviso di garanzia».
Cofferati giudica «incredibile» l’intervento della Curia: «Ma in quale paese il Cardinale, capo dei vescovi, interviene criticando la magistratura?». Cosa succederà adesso? La sinistra, che poteva approfittarne, è totalmente spaccata. Il M5S a percentuali altissime, ma inutili. Qui rischia di vincere Toti, il che è absurdum. «Credo ne sia terrorizzato lui stesso», è la battuta di Cofferati che ci viene riferita. «La verità è che a oggi, comunque vada, le elezioni non andranno a finire bene. Non c’è un’ipotesi credibile di governo, nessuno avrà la maggioranza per guidare una regione che va assolutamente rilanciata».

venerdì 17 aprile 2015

Repubblica 17.4.15
La memoria contro la retorica
di Guido Crainz


SI leggono in molti modi queste intense e antiretoriche memorie della Resistenza di Claudio Pavone, lo storico che più ce l’ha fatta comprendere. In primo luogo come memorie, appunto, “racconto” di un giovane poco più che ventenne pienamente immerso nella crisi italiana del 1943-45: dalla vigilia del 25 luglio, segnata da un «desiderio di agire contro il fascismo che non trovava sbocco», alle gioiose e confuse manifestazioni di Roma per la caduta di Mussolini («Qualcuno gridò: “Andiamo a rendere omaggio a Ciceruacchio” (…) tutti si fermarono per un momento davanti alla statua di quel patriota risorgimentale»); dallo sdegno per le responsabilità del re e di Badoglio nello sfascio dell’8 settembre alla scelta della Resistenza; dall’incauto e sfortunatissimo episodio che ne provoca l’arresto sino alla detenzione a Regina Coeli e poi a Castelfranco Emilia, e infine alla attività clandestina a Milano. Qui incrocia Mussolini e il corteo di gerarchi e camicie nere che si dirigono al Lirico per l’ultimo comizio del Duce, nel dileguarsi dei passanti: «Una vera nemesi storica di quando la gente accorreva in massa a Piazza Venezia» (lo rivedrà solo dopo la morte, a Piazzale Loreto: «Quella folla non era degna della tragicità di quello spettacolo»).
È anche una “traversata”, La mia Resistenza: in primo luogo intellettuale, a partire dalle discussioni con gli amici con cui «condividevamo i primi sentimenti antifascisti e le scoperte culturali». Condivisione particolarmente intensa con Giuseppe Lopresti, ucciso poi alle Fosse Ardeatine, e portata sino alla messa in discussione dei fondamenti della propria formazione («ci affaticavamo attorno all’aggrovigliato nodo del rapporto fra religione, socialismo e libertà »): nella borsa con il “materiale sovversivo” che ne provoca l’arresto ha anche Etica e politica di Croce e i Salmi. È al tempo stesso una traversata politica, questo libro, e Pavone si definisce un «azionista postumo »: non aderì allora al Partito d’Azione perché all’inizio aveva conosciuto solo l’ala moderata, «apparsami molto elitaria, gente troppo simile a me (…) in quella situazione straordinaria volevo cambiare me stesso ». Il socialismo «era più ricco di suggestioni » e al tempo stesso lontano dalla rigidità comunista: aderisce così al partito socialista e diventa aiutante di Eugenio Colorni, della cui formazione europea avverte tutti gli stimoli.
La traversata si popola poi delle molte e differenti persone che conosce o ritrova a Regina Coeli, dal comunista dissidente Nestore Tursi a Ruggero Zangrandi o a Franco Antonicelli. E sino al gruppo degli azionisti, con cui ha ora i maggiori rapporti, da Carlo Muscetta a Manlio Rossi-Doria. O a Leone Ginzburg, prelevato in carcere dai tedeschi: «Qualcuno da una cella cominciò a fischiare l’inno del Piave, era un fischio limpido e sicuro. I tedeschi certo non capirono, gli italiani si commossero, Leone fu portato via».
Vi è poi il carcere di Castelfranco Emilia, con le esecuzioni che intravede e quelle di cui ha notizia, con nuove angosce e nuove conoscenze, sino alla scarcerazione dell’agosto del 1944 connessa all’obbligo di presentarsi all’esercito repubblichino. Obbligo cui si sottrae vivendo a Milano una nuova attività clandestina e aderendo (all’interno di «un percorso contorto e abbastanza atipico») a un piccolo gruppo anomalo, il Partito italiano del lavoro, cui dedica parole appassionate e al tempo stesso critiche. Vengono poi la gioia della Liberazione, il ritorno a Roma e l’incontro con la madre: «Quando la vidi salire le scale con i capelli tutti bianchi mi fu chiaro il senso del tempo trascorso». Iniziava la difficile risalita del dopoguerra.
La Stampa 17.4.15
Il momento della scelta tra barbarie e umanità
L’inverno del 1944 fu il più duro per gli antifascisti ma la popolazione li sostenne
di Giovanni De Luna


Nel 1944 Angelo Del Boca aveva 19 anni ed era stato arruolato nell’esercito della Rsi, alpino della Divisione «Monterosa». Dopo un duro addestramento in Germania, era tornato in Italia dislocato con il suo reparto sull’Appennino emiliano, in una zona dove, per un breve periodo, nacque una Repubblica partigiana con capitale Bobbio.
Coinvolto in una spietata guerra civile, disgustato dalle efferatezze dei suoi camerati, decise di disertare. Fu una scelta consapevole; invece di buttare la divisa e tornare a casa, organizzò il passaggio ai partigiani con dieci suoi commilitoni, portandosi dietro tutte le armi e l’equipaggiamento possibile. E per questo fu condannato a morte dal Tribunale Militare della Rsi.
Il Diario che ora viene pubblicato insiste proprio su questa vicenda. Siamo nell’inverno 1944, il più duro per la Resistenza, quando, dopo il «proclama Alexander», le operazioni militari degli Alleati sulla «linea gotica» avevano subito una brusca battuta d’arresto e i partigiani furono lasciati soli nel fronteggiare l’aggressività dei nazifascisti. Con una scrittura avvincente Del Boca ci restituisce insieme lo scoramento di quei momenti vissuti in un paesaggio aspro e desolato e gli umori di una popolazione affollata di naufraghi e spettatori, ma anche attraversata da un rapporto di profonda empatia e solidarietà con i partigiani.
Nella Rsi ci si sentiva stranieri in patria: «più lontani e più isolati che nelle terre inospitali della Croazia e della Slovenia», scrive Del Boca. Un sentimento che è alla radice di comportamenti altrimenti inspiegabili: il surplus di ferocia nei confronti della popolazione civile, il saccheggio delle case, le liti furibonde per la spartizione del bottino. Eravamo «una lercia torma di lanzichenecchi». E ancora: «Ho lasciato degli assassini; se questi altri fossero della medesima specie, mi ritirerò presso qualche contadino a custodire mucche».
Sì, perché, per qualche giorno, Del Boca non fu più un repubblichino, ma non divenne subito partigiano, accolto anzi con diffidenza dai nuovi compagni. In quella «terra di nessuno» ebbe modo di riflettere sul suo passaggio di campo. Il timore era che i partigiani fossero «come gli altri».
Ma i partigiani «non erano come gli altri». Del Boca ne scruta i comportamenti, ne esplora le motivazioni e, entrando nelle loro file, alla fine si sente rinascere, attribuendo alla sua partecipazione alla lotta armata i tratti di una sorta di rifondazione esistenziale. Oggi, con il suo Diario, ci fa capire come la Resistenza sia nata da una scelta: ci fu chi si rintanò nell’attesa che «passasse la nottata»; altri - protetti dalle armi naziste - si schierarono con Salò, in difesa di una dittatura al tramonto; altri ancora scelsero in modo opposto, interpretando la lotta partigiana come la fine di una stagione di carestia morale e di avvelenamento delle coscienze.
Repubblica 17.4.15
Claudio Pavone racconta in un libro la sua Resistenza
Piazzale Loreto davanti al corpo della Petacci
C’erano curiosità e anche fatuità. La folla non aveva saputo fare la rivoluzione e non era degna della tragicità di quello spettacolo
di Claudio Pavone


ANDAI a piazzale Loreto. Oggi non è facile separare l’impressione avuta allora da quelle indotte poi dal molto che si è scritto e discusso, anche da parte mia, su quel macabro spettacolo. La piazza era colma di gente di ogni ceto, ed era difficile comprendere cosa davvero albergasse in tutti quei petti. C’era nel fondo la soddisfazione della palese fine della guerra e del fascismo, ma su di essa si innestavano sentimenti che andavano dal ricordo dei cadaveri dei partigiani fucilati dai fascisti e lasciati sul selciato proprio in quel piazzale alla soddisfazione di vedere puniti i colpevoli.
Dall’odio e dal disprezzo contro di essi fino a una sorta di festosità, di mera curiosità o addirittura di fatuità. Mi trovai accanto a una signora borghese, al braccio del marito, che diceva: «Però, che belle gambette aveva la Petacci!». Il mio moralismo e il mio estremismo rivoluzionario o presunto tale mi condussero a pensare che quella folla che non aveva saputo fare la rivoluzione non era degna della tragicità di quello spettacolo e che proprio questo gli dava un senso, oltre che macabro, riprovevole.
Non ho di quei giorni molti ricordi precisi, ma mi è rimasta nettissima nella memoria l’atmosfera generale ed esaltante di una città che ritrovava la gioia di vivere e la manifestava in mille modi, dall’andare in bicicletta al fare il bagno all’Idroscalo e al piacere di passare la notte camminando, discutendo e cantando in giro per la città, dove l’efficienza del comune di Milano aveva subito provveduto a riattivare l’illuminazione pubblica. Si ballava nelle piazze e nelle strade con un’allegria che rivelava la soddisfazione di potersi finalmente divertire.
Appariva naturale prendere una bicicletta incustodita e lasciarla incustodita una volta arrivati a destinazione: sembrava una forma di elementare comunismo. Colpiva l’aspetto assai poco marziale con cui i soldati americani giravano per la città. «Non sembrano soldati», diceva la gente, e qualcuno aggiungeva: «Che soddisfazione che abbiano battuto i tedeschi signori della guerra!». Risorgeva l’attività politica alla luce del sole e per quelli della mia generazione era una entusiasmante novità. Andai al comizio di Pertini per il Primo maggio presso l’Arena e, a parte il tono del discorso che mi parve un po’ arcaico, era bello vedere tanta gente venuta di propria volontà. Germogliavano le iniziative culturali, e la sede del Politecnico di Vittorini in viale Tunisia stava diventando un centro di richiamo e di scambio. Noi del Pil, il Partito italiano del Lavoro, stavamo discutendo dell’atteggiamento da assumere nella nuova situazione quando arrivò la notizia che il Pil di Romagna, la nostra base popolare proveniente prevalentemente dall’Uli (Unione lavoratori italiani), era entrato nel partito socialista per iniziativa di Giusto Tolloy, già di «Popolo e Libertà» e considerato l’intellettuale guida del partito. Rimanemmo sconcertati: tutta la linea di rimanere fuori dal Cln e dai compromessi che lo contraddistinguevano veniva così sconfessata. Alcuni lo ritennero un tradimento. (...) Eravamo ormai arrivati ad agosto ed io ero riuscito a ristabilire i contatti con mia madre e le mie sorelle ancora a Torchiara ma in procinto di tornare a Roma. Con Delfino Insolera, la cui famiglia era di nuovo a Roma, decidemmo di tornare a nostra volta, anche come messaggeri del nostro verbo politico. Ma il viaggio non era facile, dato lo stato delle comunicazioni ferroviarie. La difficoltà fu risolta dal nostro compagno Leone Krakmalnikov, figlio di aristocratici russi emigrati, che avevano creato in Umbria una fiorente azienda agricola. Leone si impadronì dell’automobile abbandonata da un grosso gerarca fascista datosi alla fuga e la rimise in sesto. Così una mattina lasciammo Milano a bordo di una potente Alfa Romeo. A Castelfranco Emilia andai a salutare i proprietari di una trattoria dalla quale zio Cesare aveva ottenuto che ogni tanto mi venisse mandato in carcere qualcosa da mangiare. Fui accolto e festeggiato con tutto il grande cuore del- l’Emilia rossa. La sera arrivammo a Cesena dove passammo la notte e avemmo un incontro pacato con gli ex compagni del pil. A Rimini passammo il confine che divideva le province sotto l’Amg e quelle già restituite all’amministrazione italiana.
Entravamo nell’Italia già liberata da un anno e più, ma per noi fu come un balzo indietro nel tempo. Di là c’erano i carabinieri con i gambali e le scalcinate divise che ci controllarono i documenti. A Narni, durante il viaggio da Roma a Castelfranco, la vista dei carabinieri ancora nella loro divisa mi aveva quasi dato la sensazione che il fascismo non avesse riconquistato proprio tutto. Dopo la Resistenza e le esaltanti giornate di Milano, la loro vista mi diede invece l’impressione di entrare in un paese un po’ fermo e alquanto ammuffito. A Perugia fummo ospitati nella signorile casa di campagna dei genitori di Leone, che a noi apparve sontuosa. cenammo in modo così ricco che, disavvezzo da tempo ai pasti abbondanti e succulenti, la notte mi sentii male.
La mattina dopo Delfino ed io ci avviammo verso Roma su una di quelle camionette che erano allora il principale mezzo di trasporto, urbano ed extraurbano. Io guardavo uomini e cose e cercavo di cogliervi i segni della mutazione che speravo si fosse verificata dopo la Liberazione. Arrivammo a Roma a metà del pomeriggio e la camionetta ci lasciò a piazzale Flaminio. Salii come un tempo sulla circolare nera. Nella mia casa di via Flavia, al quinto piano, l’ascensore ancora non funzionava e salii le scale carico dei miei fagotti. In casa c’era solo mia sorella Lidia, ma mia madre arrivò subito dopo. Quando la vidi salire le scale con i capelli tutti bianchi, mi fu chiaro il senso del tempo trascorso.

IL LIBRO Claudio Pavone, La mia Resistenza, (Donzelli, pagg. 112 euro 16)
La Stampa 17.4.15
“Parlano di Liberazione, ma per l’Italia che si fa?”
Dalle memorie partigiane di Angelo Del Boca il primo incontro dell’autore, in fuga dall’esercito repubblichino, con i combattenti garibaldini: entusiasmo, sospetti e paura
di Angelo Del Boca


Ma ecco che, sotto Buoi di Pentema, da una stalla e da dietro uno steccato sbucano fuori sei o sette uomini armati di pistole mitragliatrici. La nostra bandiera bianca li ha rassicurati fino ad un certo punto, ci dicono poi: pellacce come le nostre sanno di certo giocare dei tiri anche al padre eterno. Così ci tengono sotto tiro dal momento che ci hanno visti uscire da Pentema. Anche ora, non che non si fidino di noi, ma tanto per alleggerirci di peso ci tolgono gli otturatori dai fucili. A parte questo po’ di brutalità giustificata, si manifestano subito per bravi ragazzi. Loro mancano di tabacco e noi abbiamo fame. Presto sui nostri scambi in natura nasce un’amicizia sincera.
Siamo intanto saliti ancora per qualche centinaio di metri fino a raggiungere una cappella abbandonata dal culto, chiusa alle raffiche di neve da una tenda di sacchi. All’interno c’è ancora poca brace; non appena ci avevano avvistati erano corsi fuori e avevano dato l’allarme ai posti di avvistamento.
«Rimanete con noi?» dice uno di loro.
«Non so», rispondo io, «loro vogliono andare a casa».
«Andare a casa?», chiede un patriota che porta una fascia rossa legata intorno alla fronte. «A farvi prendere un’altra volta?».
I ragazzi non sanno che rispondere. A dire il vero, noi non ne vorremmo più sapere di fare dell’altra naia. Non si vorrebbe passare da una parte all’altra, ad occhi chiusi, contenti solo di aver cambiato aria, costumi, disciplina; di aver qualcosa di più da mettere sotto i denti, di poter dare del tu ai nostri ufficiali. Io, almeno, conterei di non commettere una leggerezza. Se il programma di questa gente della montagna non mi andasse a genio, non esiterei un solo istante a dire di no a tutte le offerte di amicizia. Ho lasciato degli assassini; se questi altri fossero della medesima specie, mi ritirerò presso qualche contadino a custodire le mucche. Tutti vogliono liberare l’Italia. Ma per l’Italia che si fa? [...]
Presto siamo circondati da tanti ragazzi della nostra età che vestono le fogge più bizzarre; sembra di essere fra le quinte di un teatro gremito di comparse. Per la prima volta vedo anche, fra di loro, qualche viso di uomo maturo. Mi sembra allora che sarò giudicato con più mitezza da un occhio paterno. Poi da una casa esce un uomo alto vestito di panno bleu: porta una lunga pistola al fianco, e degli stivali da carabiniere. Ha gli occhi di chi sa comandare; quegli occhi che ammaliano chi non sa che ubbidire. La filettatura dei pantaloni è rossa: non può essere che un carabiniere.
Ci rivolge la parola e gli altri cessano di parlottare e di interrogarci su mille cose. Ci domanda di che reparto eravamo, chi erano i nostri ufficiali, quali sono stati i nostri movimenti. Saputo che siamo intervenuti nella scaramuccia di Loco, cambia improvvisamente di umore. «Abbiamo lasciato cinque morti», dice. «I feriti ce li avete uccisi con dei calci nella testa. Abbiamo giurato di uccidere tutti quelli che ci capiteranno nelle mani. Ora dovremmo uccidervi, per tener fede al nostro giuramento. Voialtri avete sparato? Con quale compagnia eravate quando abbiamo aperto il fuoco? In testa o in coda della colonna? Li avete visti i nostri morti? L’avete visto quello di sedici anni? È stata una curva disgraziata quella di Loco. Eravamo scesi tanto in basso che vi abbiamo sentito parlare delle vostre faccende…».
Tutti rispondono che non hanno mai sparato. Il brigadiere apre le braccia e scoppia in una risata. Ma ancora i miei compagni si ostinano a dire che essi erano addetti al magazzino, che erano schiappine segnate a dito, che il fucile nelle loro mani diventava più pericoloso per loro stessi che per quelli che dovevano offendere.
Io sento tutt’intorno accumularsi il disprezzo e la diffidenza la si può leggere nelle facce che ci scrutano continuamente. Sento in me una ribellione di sentimenti. Non voglio che ci giudichino soltanto dei timidi che non pensano a chiedere altro che la vita, portiamo anche noi i segni di un sacrificio consumato nelle lontane terre di Germania; abbiamo il desiderio di abbracciare chi per primo ha portato in salvo la fiaccola della libertà, sapere dei loro morti, delle loro battaglie; parlare dei nostri morti, che non loro della montagna hanno ucciso, ma gli aguzzini che ci hanno fatto battere queste valli; parlare delle nostre battaglie, che abbiamo vinto piangendo.
Ma loro ci guardano ridendo. Vorrei morire per non scendere alla meschinità di scolparmi di colpe che non sento di aver commesse. In questo momento si unisce alla folla che ci circonda un sacerdote dall’aspetto molto giovanile. Lui, sant’uomo, ci guarda con quella serafica aria da imbonitore, dimenticando cause e discordie. È questo il momento in cui mi sento venire in bocca una quantità di parole, tutto un discorso che sentivo prepararmisi di dentro, mentre tutti quegli occhi si fissavano su di noi; e non sono più capace di celare col silenzio il nostro desiderio di tendere loro la mano.
«Sì, abbiamo sparato», dico, «chi più chi meno; io ho sparato molto; ero mitragliere della prima squadra del primo plotone, ero sempre in testa, ho dovuto sparare molto. Voi al nostro posto avreste sparato né più né meno che noi. Il destino ci ha divisi, ci ha messo su strade diverse; abbiamo sofferto di questa disunione; ma ci potevamo forse fare qualcosa? Dovevamo morire tutti colpiti alla schiena? È presto fatto, costruire piani di fughe e di evasioni; tutto sembra facile a chi ha avuto la via facile. Forse chi ha penato di più comprenderà maggiormente perché la struttura fisica è per tutti all’incirca uguale, ma quale non è la diversità del morale, e come è facile suggestionarlo, e come sa essere tenuto al guinzaglio! Ieri sera ci siamo scrollati tutto dalle spalle; molti vedendoci partire hanno pianto: per loro non è ancora venuto il momento. Voi direte: “Perché non siete scappati prima?”. Noi potremmo domandare a voi: “Perché ci avete lasciati deportare in Germania?”. [...]
«Ora siamo qui. Siamo venuti. Noi non sappiamo niente della vostra giustizia. Può darsi che ci siamo sbagliati e che la pianura doveva salire alla montagna. Ci hanno condannati a morte, laggiù. Ora voi diteci che cosa dobbiamo fare: se ci giudicate voi o se dobbiamo tornare laggiù a farci giudicare.»
Il Sole 17.4.15
Quinta valuta al mondo per pagamenti
Continua a crescere il peso del renminbi sui mercati esteri
di Nicoletta Picchio


Roma È la quinta valuta al mondo per i pagamenti, dopo dollaro, euro, yen e sterlina britannica. E la seconda per transazioni commerciali dopo la moneta statunitense. Il renminbi si sta affermando sui mercati internazionali, con una velocità al di sopra delle previsioni. Dal 2009, l’anno zero in cui è stato dato il via all’uso della moneta cinese nelle transazioni cross-border, si è arrivati al 22,3% del 2014. Cioè circa due terzi del commercio internazionale vengono fatti in renminbi.
Lo ha detto con soddisfazione ieri il capo economista di Bank of China, Cao Yuanzheng, arrivato a Roma per un convegno dedicato all’internazionalizzazione della moneta cinese, “RMB: going global”, organizzato da Bank of China con la Fondazione Italia-Cina, di cui è presidente Cesare Romiti. Affinché il renminbi possa essere una valuta internazionale mancano ancora una serie di passaggi: la moneta deve essere pienamente convertibile, occorre un deficit nella bilancia dei pagamenti (quella cinese invece è in surplus), bisogna creare in Cina un mercato finanziario ben sviluppato. Per arrivare infinead un tasso di cambio libero. «Nonostante non risponda a questi requisiti il renminbi viene utilizzato come valuta internazionale, diciamo che ha un regime speciale», ha detto Cao Yuanzheng, sollecitando una maggiore collaborazione con i paesi che hanno un mercato finanziario più strutturato. «L’infrastruttura finanziaria cinese ha solo 30 anni di storia, la nostra finanza non è così sviluppata», ha detto il capo economista di Bank of China, aggiungendo, a margine del suo intervento, che gli Stati Uniti sono stati invitati ad entrare nella Banca asiatica per gli investimenti e le infrastrutture («siamo in attesa di una risposta») e che è possibile quest’anno l’ingresso della moneta cinese nel paniere del Fondo monetario internazionale.
L’Italia, ha aggiunto l’economista, non è tra i principali investitori, ma l’auspicio è che possa aumentare il suo ruolo in Cina. Il responsabile della banca nel nostro paese, Bian Jidong, ha sottolineato che da noi la domanda di renminbi ha ancora un ampio margine di crescita. E possono crescere anche gli investimenti cinesi in Italia, che l’ambasciatore cinese nel nostro paese, Li Ruiyu, ha quantificato in 100 miliardi.
Il turismo nei primi mesi di quest’anno è già cresciuto di quasi il 20%, e secondo Riccardo Monti, presidente dell’Agenzia Ice, i flussi in uscita dalla Cina rappresentano una importante opportunità per il nostro paese, così come le nostre imprese potranno beneficiare della diffusione del sistema bancario cinese. «La diffusione del renminbi come strumento di pagamento - ha spiegato Monti - potrà dare un importante contributo nel medio periodo al riassorbimento del grande squilibrio finanziario cinese». L’auspicio di Romiti è che il renminbi possa diventare «da moneta di un popolo a moneta dei popoli».
La Stampa 17.4.15
Il vuoto e la voglia di far sapere
Le lettere degli scampati ai Lager
Il museo dell’Olocausto di Gerusalemme rende pubbliche le prime missive scritte subito dopo il 1945. “Sono sopravvissuto, il resto è perduto”
di Maurizio Molinari


«Mio figlio di 11 anni è stato gasato, mi chiedo perché sono sopravvissuta, era meglio morire»: la lettera di Olga alla zia Jenny è una delle centinaia scritte dai sopravvissuti all’Olocausto subito dopo la liberazione dei campi. Il centro di ricerche dello Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme, le ha raccolte sin dagli Anni Sessanta e in occasione del 70° Giorno dell’Olocausto, che Israele ha celebrato ieri, ha deciso di renderle pubbliche anticipando l’uscita del libro Sono sopravvissuto, il resto è perduto. «Le lettere sono la prima testimonianza che abbiamo da parte dei sopravvissuti - spiega Iael Nidam-Orvieto, direttore dell’Istituto internazionale di ricerca sull’Olocausto che ha curato il progetto assieme a Robert Rozett, direttore delle Biblioteche dello Yad Vashem - e ci consentono di comprendere cosa provarono, pensarono e fecero nei giorni immediatamente seguenti l’apertura dei cancelli dei lager».
Lo spunto per la ricerca nasce dalla missiva che Primo Levi, appena liberato, scrisse alla famiglia. Godfried Bolle, nell’agosto 1945, riassume così al fratello Leo, ad Amsterdam, il senso della «prima lettera»: «Finalmente riesco a farlo». E poi aggiunge: «Ne seguiranno altre con i dettagli su quanto di terribile è avvenuto alla nostra famiglia, così che possiate farlo sapere agli altri». Negli ultimi tre anni lo Yad Vashem è entrato in possesso di centinaia di «prime lettere» di sopravvissuti grazie all’iniziativa «Raccogliamo i frammenti» che ha portato migliaia di famiglie a consegnare ogni tipo di oggetti risalenti al periodo della persecuzione e dello sterminio di sei milioni di ebrei europei da parte dei nazisti e dei loro alleati.
I contenuti dei testi aiutano ad entrare nelle menti di chi era appena scampato alla morte. «Scrivono anzitutto per ricordare chi non c’è più, per far sapere ai famigliari cosa è avvenuto - spiega Nidam-Orvieto - ma anche per esprimere una forte voglia di ricominciare a essere vivi, fare progetti, immaginare attività, iniziative, vite possibili».
Colpisce, in ogni testo, l’assenza totale di euforia per l’avvenuta liberazione da parte degli alleati. Prevale, pagina dopo pagina, una netta sensazione di vuoto che si tenta di colmare ricostruendo quanto avvenuto e guardando all’avvenire possibile, spesso nella Palestina meta dell’emigrazione ebraica o anche negli Stati Uniti «terra dove si lavora duro ma si respira liberamente» come scrive una giovane all’ex insegnante Zvi.
La descrizione dell’inferno appena attraversato è minuziosa, sempre accompagnata alla scelta di frenarsi nel racconto. «Ho avuto il tifo ed ho particolarmente sofferto la fame, era terribile lavorare dalle 3 del mattino fino a notte avendo fame, ci sono state volte che la fame era tale da accecarmi - scrive Olga, sopravvissuta ad Auschwitz e Bergen Belsen - a sorvegliarci erano i cani delle SS, sono ancora piena dei segni dei loro morsi, ma non voglio più scrivere di queste cose, è incredibile che degli esseri umani abbiamo fatto ciò ad altri esseri umani».
Poi c’è il «come» queste lettere furono scritte: in una moltitudine di lingue europee, in yiddish ed anche nell’ebraico allora poco adoperato, indirizzandole a qualsiasi persona o ente conosciuto. Come se il bisogno di scrivere, comunicare, prevalesse sull’identità del destinatario. «C’è chi spedisce la lettera ad un’organizzazione ebraica o sionista, chi scrive alla famiglia, chi a lontani conoscenti e chi a singole persone conosciute limitando a indicare come località la città dove immagina che possano trovarsi».
Esprimendo il desiderio di ricominciare ad esistere. Come fa la giovane scampata che, ricevuta la prima lettera di risposta, ammette di «averci giocato» assaporando il ritorno alla vita.
Il Sole 17.4.15
Apparentamenti e preferenze, i temi (deboli) dei dissidenti
di Roberto D’Alimonte


Il 30 marzo la direzione del Pd ha votato a favore della approvazione dell’Italicum così come è. La maggioranza dei deputati del Pd alla Camera ha fatto la stessa cosa due giorni fa. Alla Camera il Pd ha 310 voti. Sulla carta gliene basterebbero 6 in più per fare approvare la riforma. Area Popolare, il gruppo che fa capo a Alfano, ha 33 deputati. Alfano non ha alcun interesse a mettersi di traverso con il rischio di far cadere il governo. Il suo partito ha avuto soddisfazione su un punto centrale della riforma: l’abbassamento della soglia dall’8% del primo Italicum al 3% del secondo, in cambio del premio solo alla lista. Scelta civica ha 25 deputati cui si possono aggiungere i 13 di Italia Centro-democratico. A questo punto la questione dovrebbe essere chiusa. E senza Berlusconi. E invece no. Una parte del gruppo parlamentare del Pd alla Camera minaccia fuoco e fiamme. Sarebbe persino disposta a rischiare di mettere in crisi il “suo” governo. E su che cosa ? Su preferenze e apparentamenti.
Ricapitoliamo i fatti. Nel primo Italicum, quello approvato alla Camera nel marzo 2014, la selezione di tutti i candidati avveniva con le liste bloccate. Il testo attuale prevede un sistema misto. Non è un sistema perfetto. È vero che il meccanismo previsto crea una asimmetria. Chi vince avrà più candidati eletti con il voto di preferenza, mentre chi perde avrà più candidati eletti con il voto bloccato. Si poteva fare meglio ma Forza Italia lo ha impedito. Alla fine dei conti però il 50% degli eletti sarà scelto con il voto di preferenza. In più sarà proprio il partito al governo a esprimere una rappresentanza in massima parte scelta dagli elettori. Nemmeno i dissidenti Pd vogliono un sistema di sole preferenze. E allora, che senso ha rischiare di mettere in crisi partito e governo per una manciata di preferenze in più? Come fa la gente a capire?
Lo stesso dicasi sulla questione degli apparentamenti. Se nessun partito vince al primo turno, ci sarà un ballottaggio tra i due partiti più votati. L’Italicum non prevede che tra primo e secondo turno i due sfidanti possano fare accordi formali con altri partiti. Si devono presentare davanti agli elettori nella stessa formazione con cui hanno raccolto i voti al primo giro. I voti per vincere al ballottaggio devono cercarseli tra gli elettori dei partiti esclusi dalla competizione. Con l’apparentamento invece i due sfidanti sono incentivati a fare accordi con i partiti esclusi dal ballottaggio. Insomma senza apparentamento contano di più gli elettori perché è a loro che si devono rivolgere direttamente i due sfidanti. Con l’apparentamento contano di più le élites di partito. Inoltre con l’apparentamento rientrerebbero dalla finestra quelle coalizioni che il premio solo alla lista cerca di tenere fuori dalla porta. Si tratta di questione così importante da giustificare una opposizione così dura?
In realtà gli stessi dissidenti si rendono conto della sproporzione tra le questioni specifiche che sollevano e i rischi che la loro azione comporta. E così la difesa di preferenze e apparentamenti è diventata sinonimo di difesa della democrazia. Solo in questo modo pensano di giustificare la durezza dello scontro in atto, senza rendersi conto che così facendo rendono le loro ragioni ancora meno giustificabili. Ci vuole coraggio a spiegare agli italiani che oggi la democrazia è minacciata e che con qualche preferenza in più sarebbe al sicuro.
Corriere 17.4.15
Il vero scontro è il voto segreto sul premio alla coalizione
di Massimo Franco


La rotta di collisione sembra segnata. E per quanto gli uomini e le donne di Matteo Renzi sostengano che alla fine il voto del Pd sarà compattamente a favore dell’Italicum, l’inquietudine rimane. Non perché si tema una bocciatura della riforma elettorale: sarebbe una tale enormità da mettere a rischio la legislatura, non soltanto il governo. E sarebbe difficile spiegare al Paese, oltre che ai militanti della sinistra, il suicidio di un esecutivo. Il tema è quello di rapporti politici che nel partito-perno della maggioranza si sono incattiviti e irrigiditi: senza che nessuno abbia voluto o potuto fare nulla per evitare lo scontro.
È probabile che il premier vinca la sua partita con la minoranza. Ma è anche plausibile ritenere che Palazzo Chigi riemergerà con una coalizione inquinata da molti veleni. Quando si fa sapere che al massimo entro metà maggio la riforma sarà legge, si avanza una previsione verosimile. Il problema è con quale maggioranza, se davvero il Pd perderà alcune decine di voti dei suoi deputati, e avrà contro tutte le opposizioni. Le dimissioni del capogruppo Roberto Speranza sono state accolte come un atto politico ostile da Renzi: il tentativo estremo della minoranza di rinviare ancora qualunque decisione.
Per questo il premier ha deciso di andare avanti comunque. Lorenzo Guerini, vicesegretario e suo plenipotenziario nel Pd, ieri sosteneva la tesi di «una rottura non insanabile»; e che in aula prevarranno «lealtà e compattezza». Ma intanto lo strappo si è consumato, e un «sì» forzato è destinato a lasciare strascichi e tensioni. Campeggia sempre in primo piano la polemica contro un «Parlamento di nominati», per la storia dei cento capilista bloccati previsti dall’Italicum.
L’ex segretario Pier Luigi Bersani ironizza su un impianto che somiglierebbe al «sistema del “ghe pensi mì”, ci penso io». In realtà, il vero scontro si consuma altrove: sugli emendamenti che cercano di inserire il premio in seggi non alla lista, cioè al partito con più voti, ma alla coalizione. Sono quelli, che fanno paura a Renzi e lo inducono a non escludere il ricorso alla fiducia. Voto alla coalizione vorrebbe dire depotenziare un’eventuale vittoria del Pd; e, con la soglia del 3 per cento alle forze minori, offrire margini di trattativa un po’ a tutti.
Sarà in quella occasione che il voto segreto potrebbe saldare tutti gli oppositori del capo del governo, fuori e dentro al suo partito, sottraendogli una delle armi più potenti nella prospettiva di elezioni, anticipate o meno. Rimane tuttavia la domanda sui motivi che hanno portato a una situazione di contrapposizione così dura. Che sia figlia di un’inclinazione renziana a forzare ogni conflitto per vincerlo, o della disperazione di una minoranza del Pd aggrappata ad una strategia di pura resistenza, il saldo rischia di essere negativo per entrambi.
Repubblica 17.4.15
“Se il premier fa sul serio, cambia tutto”
Cuperlo: “Vedremo se è una apertura vera”. Bersani: “Nessuna ritirata, combattiamo”
La sinistra attende una mediazione: “Con questi numeri il governo non può stare tranquillo”
Intanto il dimissionario Speranza prepara gli scatoloni
di Goffredo De Marchis


Non si può prendere alla leggera Costituzione e legge elettorale. Io ne sono esterrefatto
Ma cos’è questo? Il sistema del ‘ghe pensi mì’? Così si aprono le strade al populismo

ROMA Roberto Speranza fa sul serio: prepara gli scatoloni, «da lunedì prenderò un’altra stanza qui al gruppo» anche se non ancora non c’è un nuovo capogruppo. ««So che a Matteo piace mantenere il punto — scherza — quindi rimane tra noi la distanza sulle riforme ». Ma la minoranza del Pd non si sente davvero sconfitta dopo la riunione bollente di mercoledì notte. «Hanno votato 190 deputati su 310 — sottolinea Alfredo D’Attorre — . Non è poi un gran risultato». E i numeri in aula non consentono al premier di dormire sonni tranquilli. «Con 30-40 voti segreti poi», osserva Nico Stumpo.
Ecco i numeri. Gianni Cuperlo e Sinistradem hanno 20 onorevoli. Pippo Civati, 4. Area riformista, la componente guidata da Speranza, che pure ha varie posizioni al suo interno (ma il voto segreto alimenta la voglia di sorprese) conta 80 deputati. A loro si aggiungono un’altra decina di “indipendenti”. Per questo, la strada dell’Italicum sembrerebbe segnata: il governo può farcela con sicurezza solo con il voto di fiducia. È una strada rischiosa, che spaccherebbe ancora di più il Pd. Renzi lo sa benissimo, malgrado le minacce esplicite e riservate. Per questo, i dissidenti attendono un’alternativa. E se arrivasse riuscirebbe a riunire il Partito democratico.
Dice Cuperlo: «Se l’apertura di Renzi sulla riforma costituzionale è vera, cambia molto». Ma quale apertura? Il Senato elettivo, ovvero l’abbattimento del pilastro su cui si regge la riforma Boschi. «Se Matteo modifica l’articolo 2 bilancia gli effetti dell’Italicum», osserva Cuperlo individuando il cuore del problema. E Speranza spera ancora in un ripensamento del premier. «Le mie dimissioni sono verissime. Solo una correzione dell’impianto complessivo permette alla discussione di ricominciare».
Nella difficile notte di mercoledì, Renzi ha promesso modifiche alla riforma costituzionale. Senza entrare nel dettaglio e quando fa così sconta sempre una diffidenza reciproca tra lui e i suoi oppositori. In particolare, con Pier Luigi Bersani. Infatti l’ex segretario vorrebbe ascoltare le proposte ma avverte: «Penso che ci sia il rischio di prendersi anche un po’ in giro». Da giorni i bersaniani come D’Attorre ripetono che lo scambio Italicum-legge sul Senato non sta in piedi. Che l’articolo 2, ossia il nucleo della riforma è stato già approvato in due letture e non ci si torna sopra. «Per l’amor di Dio — precisa Bersani — se mi dicono che si torna sul Senato sono contento, perché mi pare che la soluzione che abbiamo approvato non sia il massimo. Però non si può più, a meno che non si faccia effettivamente il Monopoli, si ritorna da capo sul Senato. Se si ritorna da capo allora ridiscutiamo tutto. Sennò dobbiamo bercelo per come è stato confezionato».
Bersani non si fida dunque. Nonostante le divisioni, la minoranza rischia di far ballare Renzi. «Nessuna ritirata — dice l’ex segretario — Noi combattiamo ». Non è una caso che sull’uscita dalla commissione Affari costituzionali Bersani adesso temporeggi. Attende le mosse di Renzi, giudica inevitabile un’apertura. Anche sul Senato. «Ci vogliono dei correttivi perché il pericolo di un sistema del “ghe pensi mi” non la accetto. Se mi sbaglio son contento, ma il Pd non può immaginare che sarà sempre lui a governare. Quando si organizza una democrazia si pensa che possa esserci un’alternanza e che ci sono anche gli altri». Insiste sul fatto che il suo voto pende verso il no. In mancanza di modifiche. «Su temi così non si può invocare la disciplina di partito. Ogni regolamento interno, a cominciare dal nostro, garantisce davanti a temi costituzionali la responsabilità diretta di ogni singolo deputato». Liberi tutti, se Renzi non fa dietrofront e ci si rivede in aula. «Temo sempre che al momento della verità i dissensi si trasformino timide prese di distanza - spiega Pippo Civati -Ma il clima non è buono, neanche per Renzi». Il ribaltone sulla riforma costituzionale è in grado di far girare il vento? Dario Ginefra è convinto di sì: «È stato un grave errore lo strappo sulla legge elettorale. Ma il rimedio c’è: il confronto maggioranza- minoranza, a partire dal prosieguo della legge costituzionale ».
Corriere 17.4.15
Le vie per salvare l’italicum e accontentare la minoranza pd
di Stefano Passigli


Caro direttore, lo scontro sulla legge elettorale in atto all’interno del Pd tra maggioranza e minoranza cela in realtà una questione presente in tutti i sistemi politici rappresentativi sin dalla nascita dei partiti di massa: la dialettica, talora aspramente conflittuale, tra apparati e gruppi parlamentari.
Se nei parlamenti ottocenteschi eletti a suffragio ristretto erano i singoli parlamentari, poi riunitisi in gruppi, a controllare partiti non strutturati e poco più che comitati elettorali, con l’avvento dei partiti di massa alla fine dell‘800 e ai primi del ‘900 sono stati progressivamente i partiti a dominare i gruppi parlamentari. La dialettica tra partiti e gruppi è tuttavia rimasta presente in molti partiti, specie laddove — come nelle formazioni di centro — questi tendevano a divenire partiti «pigliatutto», a rappresentare cioè interessi diversi e talora persino contrastanti. Si pensi ad esempio alla Dc, dove il tentativo di alcuni segretari del partito di farsi anche capo del governo non fu mai coronato da stabile successo, e dove i gruppi mantennero sempre un elevato grado di autonomia assicurando quello che è il caposaldo della democrazia, a livello istituzionale ma anche delle organizzazioni di partito: l’equilibrio tra poteri.
Nell’attuale caso italiano la questione è tornata di attualità con l’Italicum: se i collegi previsti rimanessero 100, con l’attuale distribuzione del voto circa due terzi dei deputati verrebbero nominati dalle segreterie di partito e non scelti dai cittadini. Infatti, solo nel caso del partito vincitore del premio di maggioranza avremmo circa 240 eletti con le preferenze. Gli altri partiti, raggiungendo al massimo 70 o 80 deputati, vedrebbero eletti solo i capilista bloccati. Solo grazie al ricorso alle candidature plurime (che vanificando la conoscibilità degli eletti da parte degli elettori sono a palese rischio di incostituzionalità), un ulteriore limitato numero di deputati potrebbe essere scelto dai cittadini. La maggioranza dei deputati rimarrebbe tuttavia nominata dai partiti, non portando soluzione a quello che era uno dei principali difetti del Porcellum e sminuendo grandemente il valore di una proposta di legge che invece, se corretta, potrebbe rappresentare un eccellente mix di governabilità e rappresentanza.
Alla luce di queste considerazioni il braccio di ferro tra maggioranza e minoranza del Pd diviene comprensibile ed acquista un significato più generale. L’attuale gruppo parlamentare è stato infatti eletto col Porcellum, e cioè con liste bloccate varate dalla precedente dirigenza del partito. E anche se la segreteria Bersani è stata nel complesso generosa sia nell’assegnazione di seggi sicuri alla (allora) minoranza renziana, sia nell’accettare primarie non ristrette ai soli iscritti o ad elettori registrati in anticipo — aprendo così la porta alla fine del vecchio partito — è naturale e legittimo che Renzi e l’attuale dirigenza del Pd non si riconoscano nei gruppi parlamentari. Ma altrettanto naturale è che questi ultimi, temendo di non essere ricandidati dalla segreteria, insistano per tornare alle preferenze, viste come unica garanzia del mantenimento di un adeguato pluralismo interno. Non è casuale che analoghi fenomeni abbiano luogo in Forza Italia con la fronda di Fitto e il malessere di altri dirigenti, nella Lega con la scissione di Tosi, e nei 5 Stelle con le molte defezioni.
In altre parole, quando i partiti perdono il loro naturale pluralismo e divengono «partiti personali», è naturale che i gruppi parlamentari entrino in sofferenza sino a mettere seriamente a rischio l’unità del partito o la sua tenuta parlamentare. In queste condizioni è interesse delle stesse leadership di partito, anche se largamente maggioritarie, ricercare soluzioni unitarie che ne mantengano il consenso tra iscritti ed elettori.
Nel caso del Pd e delle sue attuali tensioni interne sarebbe sufficiente ridurre da 100 a 50 i collegi previsti dall’Italicum per garantire che almeno il 50% dei deputati fosse scelto dagli elettori e non nominato. In alternativa, il governo Renzi potrebbe seguire l’esempio del governo Ciampi che nel 1993, dopo il referendum che introdusse il maggioritario, affidò a una commissione nominata dai presidenti di Camera e Senato e guidata dal presidente dell’Istat il compito di determinare numero e confini dei collegi, riservando ai partiti la sola ratifica parlamentare del suo operato. Un passo che sottraendo al dibattito parlamentare l’aspetto oggi più conflittuale all’interno del Partito democratico faciliterebbe l’approvazione degli elementi sostanziali dell’Italicum: la governabilità, assicurata dal premio di maggioranza alla lista; e la rappresentatività, assicurata dall’aver rinunciato a soglie di sbarramento differenziate (e sicuramente incostituzionali) fissando una soglia unica al 3%.
Fissare in legge in maniera largamente consensuale i grandi lineamenti della riforma elettorale e rimettere ad una sede tecnica la sua traduzione sul territorio porrebbe la legge al di sopra di ogni sospetto, valorizzandone i molti pregi. I grandi leader sanno vincere unendo e non dividendo.