sabato 4 ottobre 2008

l’Unità 4.10.08
La politica dell’odio
di Luigi Manconi


Tutti lì, nel centrodestra, ad affannarsi e ad arrabattarsi per spiegare che «no, non si tratta di razzismo», che «l’Italia non è un Paese razzista» e che, infine, non si deve definire come intolleranza etnica quello che è nient’altro che un episodio sgradevole (o, nel caso peggiore, criminale). Sullo sfondo, sottile, sottilissima, eppure tanto insidiosa da rischiare di penetrare nel senso comune, una interpretazione che, comunque la si voglia imbellettare, suona così: alla fin fine, se la sono cercata. Attenzione: se considerate puntualmente quest’ultima affermazione, al di là della sua formulazione triviale, vi accorgerete che essa sorregge le impalcature teoriche, proposte come complesse e responsabili, di gran parte delle politiche anti-immigrazione.
Queste ultime, ma anche le manifestazioni di intolleranza e di aggressività nelle relazioni tra italiani e stranieri, vengono fatte risalire pressoché esclusivamente a una causa: il numero eccessivo di immigrati presenti nel territorio nazionale. La riduzione di tale numero, comunque ottenuta, dovrebbe determinare l’effetto di contenere la xenofobia e le sue manifestazioni violente. Insomma, basta espellerne e respingerne tanti e ci sarà meno casino (e più decoro urbano, che non guasta mai). In una mossa sola, oplà, la vittima diventa responsabile della propria vittimizzazione: chi è causa del suo mal pianga se stesso. (Così come se tu, invece di voler fare a tutti i costi il proletario in un cantiere edile, avessi ascoltato i consigli di papà e operassi in Borsa: oggi non correresti il rischio di precipitare da un ponteggio oscillante nel vuoto).
Ripeto: non si tratta solo della reazione superficiale e, tutto sommato, difensiva e istintiva di un soggetto debole cui è stata “imposta” la fatica di una convivenza non prevista e non voluta con altri soggetti deboli, che vengono vissuti come totalmente estranei e potenzialmente, nemici. Quella stessa lettura alimenta molta pubblicistica e gran parte del discorso pubblico del ceto di governo. Unitamente a questo, c’è quell’accalorato agitarsi per negare che «l’Italia sia un Paese razzista». Ma chi mai l’ha detto? O meglio: quale scemo potrebbe mai dirlo? Affermare che un paese o una collettività nazionale siano “razzisti”, equivale propriamente ad adottare il medesimo paradigma razzista, fondato appunto sull’attribuzione a una comunità dei connotati o dei misfatti di un singolo componente (o di più componenti) di quella medesima comunità. Dunque, il problema è palesemente un altro. Ed è quello di riconoscere che, in una società complicata ed inquieta come la nostra, non è “il razzismo” (categoria che rischia l’astrattezza) che va enfatizzato, ma è la diffusione crescente di “atti di razzismo” che va considerata come una minaccia e risolutamente contrastata.
Il fatto che il centrodestra neghi questa evidenza o voglia attribuirle un segno neutrale («sono semplici atti di teppismo») è due volte inquietante. In primo luogo, perché rivela una vera e propria procedura di rimozione (in senso squisitamente psicanalitico), che conferma l’incapacità di riflettere sul problema e, in particolare, su come quel problema riguardi il “cuore profondo” del centrodestra stesso. In altre parole, spaventato dall’idea di scoprire in sé pulsioni inequivocabilmente razziste, il centrodestra nega quelle pulsioni censurandole, indirizzandole altrove, mutando il loro nome. Insomma, come ha ricordato opportunamente Gad Lerner nel corso della trasmissione televisiva Anno Zero, se in campagna elettorale esponenti politici urlano: cacceremo i clandestini a calci nel culo, è irresponsabile pensare che non si producano effetti pesanti sugli orientamenti individuali e collettivi. La rimozione del razzismo come problema esalta l’aggressività latente, rende patologici i sentimenti di frustrazione e la volontà di rivalsa, indirizza contro il capro espiatorio più a portata di mano la condizione diffusa di stress e di ansia. Quelli del centrodestra più fieri di aver frequentato il liceo classico ricordano, con modi petulanti, che xenofobia non significa odio razziale, bensì paura dello straniero. Ma è proprio qui il punto. Quella paura (motivata, immotivata o solo parzialmente motivata) si manifesta come umore e come sentimento: dopo di che la si può blandire o razionalizzare, galvanizzare o mediare, indirizzare politicamente o contenere intelligentemente.
In Italia, una parte significativa del ceto di governo (della Lega, di An, di Forza Italia) ha deciso di farsi “imprenditore politico” di quella paura. Ovvero di trattarla politicamente, di trasferirla nella sfera pubblico-istituzionale, di scagliarla contro gli avversari. E qui arriviamo alla seconda ragione di inquietudine.
Considerate quei disgraziati che hanno aggredito il cittadino cinese a Tor Bella Monaca. Si tratta di minorenni alcuni dei quali già responsabili di episodi analoghi. Li si deve giudicare e punire secondo quanto previsto dalla legge. Ma il farlo (si spera con tempestività) non deve impedirci di provare a “capirli”. Capirli non significa essere indulgenti: significa, piuttosto, indagare le cause che hanno indotto degli adolescenti a trasformarsi in criminali. Tra tali cause c’è quel fattore incentivante di cui già si è detto: se un leader politico o una leader politica urlano nei comizi cacceremo i clandestini a calci nel culo, perché mai, in presenza di determinate condizioni sociali e culturali, un adolescente frustrato e smarrito non dovrebbe passare a vie di fatto? O forse ci si aspetta che, prima di sferrare quei calci “nel culo” chieda alla sua vittima se è regolare o irregolare, se è titolare o meno di permesso di soggiorno, se è un rifugiato politico o un “clandestino”?
Qui si pone un problema di linguaggio: e di linguaggio del discorso pubblico. Il termine “clandestino” è diventato merce corrente anche nel dibattito della sinistra, ed è un termine due volte sbagliato. In primo luogo, perché è improprio sotto il profilo giuridico: chi viola le norme su ingresso e permanenza nel territorio italiano commette un illecito amministrativo - una infrazione - e diventa irregolare; poi, perché quel termine è fortemente e cupamente denotativo, richiamando una dimensione di illegalità e di tendenziale criminalità, che risponde al vero solo per una quota minoritaria di stranieri irregolari. Più in generale, quello del linguaggio è un vero campo di battaglia tra discriminazione e integrazione, tra rifiuto e accoglienza. Si pensi a quando Antonio Di Pietro, nel dirsi favorevole alla classificazione dell’immigrazione irregolare come fattispecie penale, spiegò che in caso contrario «l’Italia sarebbe diventata il vespasiano d’Europa». Non siamo in presenza solo di una irresponsabile volgarità, che la dice lunga sulla moralità del difensore della morale: si tratta di una formula propriamente razzistica nel suo assimilare gli immigrati agli escrementi. Ma assai più grave, evidentemente, è l’uso costante e massiccio di quel linguaggio da parte del centrodestra: e patetico il suo tentativo di scindere completamente quel vocabolario razzistico dagli effetti sociali che contribuisce a determinare. Tanto più che - ma qui non posso soffermarmi - alle parole si accompagnano i fatti: decreti legge e delibere che configurano qualcosa di molto simile alla “produzione di razzismo per via istituzionale” (basti pensare a quell’aggravante costituita dalla condizione di irregolarità, che discrimina tra “i cittadini di fronte alla legge” e penalizza non una azione, ma una condizione). Infine, va ricordato che nel corso degli ultimi dodici mesi è avvenuto qualcosa di terribile e tragico: oggi è possibile, in spazi pubblici e in sedi di partito, urlare l’equazione romeni uguale stupratori. È accaduto quasi senza che ce ne accorgessimo, ma la diffusione di quell’infame equiparazione corrisponde a una crisi dei fondamenti culturali di una società democratica e di uno stato di diritto. Certo, i minorenni di Tor Bella Monaca vanno puniti, ma il conto non dovrà esser chiesto loro, se non per quanto di stretta pertinenza e responsabilità. I “mandanti” sono altri e stanno altrove.

l’Unità 4.10.08
Tong, Emmanuel, Abdul
In Italia è emergenza razzismo
di Giovanni Maria Bellu


«Con ogni probabilità» oggi al Quirinale il presidente della Repubblica italiana e il papa parleranno del razzismo. Non è un’indiscrezione. L’ha detto ieri, nel presentare l’incontro, il consigliere diplomatico di Napolitano. Che ha aggiunto: «Si tratta di un argomento di estrema attualità che riguarda non solo l’Italia ma tutto il mondo».
È la settima volta nella storia della Repubblica che un papa si reca al Quirinale. Il primo fu Giovanni XXIII, nel 1962, quando il presidente era Antonio Segni. In questi 46 anni si sono succeduti quattro papi e sette capi di Stato e gli incontri si sono ripetuti con solenne regolarità mentre la storia andava avanti. Quarantasei anni: dall’Italia del boom e della guerra fredda alla fine del secondo millennio, a oggi. Ma non era mai accaduto che il razzismo - il razzismo «non solo in Italia» e dunque «anche in Italia» - fosse indicato tra i temi del colloquio.
Chiunque abbia seguito le cronache degli ultimi mesi non ne resterà stupito: gli episodi di violenza a sfondo razzista si ripetono con una tale regolarità da essere diventati una rubrica fissa nei quotidiani e nelle tv. Normale, dunque, che ne parlino il capo dello Stato e il papa, cioè il garante dei valori costituzionali («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo») e il custode di quelli cristiani. («Ama il prossimo tuo come te stesso»). Del resto, come ha sottolineato il consigliere di Napolitano, «si tratta di un tema di estrema attualità».
Il fatto è che questo assunto è meno ovvio di quanto appaia. Che in Italia esista un «allarme razzismo» è sistematicamente negato dal centrodestra e dai suoi giornali. Lo schema è elementare: si separa il singolo episodio dal contesto, si individua, quando è possibile, una qualunque causale diversa e, infine, si afferma che certamente la sinistra strumentalizzerà la vicenda. Si potrebbe scrivere un’antologia su questa nuova forma di negazionismo.
Ieri, sul quotidiano Libero, è apparso un articolo sul pestaggio del ghanese Emmanuel Bondu Foster ad opera dei vigili di Parma. L’evidenza dei fatti ha obbligato l’autore a riconoscere che il ragazzo «ha assai probabilmente ragione»: «Di certo Emmanuel se n’è uscito con l’occhio tumefatto, le gambe scassate e una busta con scritto “Negro” in mano». Un quadretto che farebbe pensare a una motivazione razzista. No, invece: «Saremmo d’accordo se ce ne fossero dieci, cento, di questi episodi, tenendo conto che i comuni italiani sono ottomila».
In attesa che i pestaggi di immigrati raggiungano un numero sufficiente, e confortati dal più che probabile ingresso nella compagnia degli “allarmisti” del papa e del capo dello Stato, ricordiamo gli altri episodi di ”non razzismo” avvenuti in Italia di recente: sabato 13 settembre a Milano Abdul Gruibe, 19 anni, viene ucciso a colpi di spranga da due cittadini italiani che gli gridano "negro di merda". Il 29 settembre, a Pianura (Napoli) la folla si scaglia contro un corteo di immigrati al grido «Via da qua o vi ammazziamo». Nell’occasione un giovane senegalese viene picchiato a sangue. L’altro ieri, nuovamente a Milano, un altro senegalese, Ragan Ngone, 39 anni, accusato di «rubare lavoro agli italiani» viene colpito alla testa con una mazza. Lo stesso giorno, a Roma, Tong Hogheng, 36 anni, sposato e padre di tre figli, viene picchiato alla fermata dell’autobus da sei minorenni che gli gridano «Cinese di merda». Poco dopo, fermati dai vigili urbani, i sei bulli negano in coro di essere razzisti. I cinesi, in effetti, sono più di un miliardo e 300 milioni.

l’Unità 4.10.08
La truffa della sicurezza
di Moni Ovadia


Il crudele stillicidio della morte sul lavoro ieri ha nuovamente spento sei vite umane con atroce puntualità. Perché? la risposta è ovvia perché manca la sicurezza sul lavoro. E perché non si fa nulla per interrompere la vergognosa carneficina? Semplice, perché muoiono operai, italiani e stranieri, lavoratori clandestini, poveracci precari e giornalieri ecco perché. Uno scippo fatto da un bimbo rom, quando capita, viene indicato come emergenza nazionale, su un episodio di furto in un appartamento commesso da rumeni o albanesi si scatenano gogne mediatiche, fiumi di inchiostro si versano sull’insicurezza percepita come se il nostro paese fosse precipitato di colpo in uno di quei film di propaganda dell'epoca maccartista. Io non voglio irridere di certo il diritto alla sicurezza che spetta ad ogni persona, nè minimizzare i terribili casi di stupro e di rapina subiti da inermi cittadini, ma la sperequazione nell’attenzione politica e mediatica riguardo alle due fattispecie di diritto alla sicurezza è semplicemente sconcia. Non c’è sicurezza senza difesa della qualità della vita, senza crescita sociale e culturale. Non c’è sicurezza senza rispetto della dignità. Il lavoro occupa la maggior parte del nostro tempo esistenziale, sul lavoro è, o dovrebbe essere, basata la Repubblica Italiana, il lavoro è lo strumento con cui si sostentano le famiglie, eppure, quando si tratta di certe categorie di lavoratori la questione della loro sicurezza diventa veniale. Questa banale evidenza mostra che certa politica si occupa di sicurezza solo quando può ricavare benefici elettorali. Il centro destra ha condotto la scorsa campagna elettorale prevalentemente sulla questione della sicurezza, a tambur battente, seminando il panico, indicando lo straniero, l’extracomunitario, il clandestino schiavizzato, in quanto tali, come la fonte di tutti i guasti del Belpaese. Questa sciagurata campagna demagogica ha dato i frutti avvelenati che stiamo raccogliendo adesso: una ripugnante ondata di razzismo che ovviamente non argina la delinquenza ma fa vittime fra gli inermi. La sicurezza sul lavoro in compenso con tutta probabilità rimarrà lettera morta. Le ragioni di tanta vile indifferenza vengono comunque da più lontano. Gran parte dei politici e dei ceti conservatori hanno sempre nutrito insofferenza, quando non disprezzo, per i diritti del lavoro dipendente. La promulgazione di leggi come lo Statuto dei Lavoratori è stato per loro un intollerabile vulnus che non sono mai riusciti a mandar giù e quando, dopo il crollo reale e simbolico del muro di Berlino, l’ideologia iperliberista è divenuta il pensiero unico hanno cominciato il lavoro di erosione e, là dove possibile, di demolizione dei diritti sociali conquistati a prezzo di durissime lotte nel corso di quasi un secolo. Anche oggi, che le conseguenze dello strapotere dell’anarco-capitalismo finanziario emergono tragicamente, in Italia, divenuta da tempo “il laboratorio del peggio”, il centro-destra non trova niente di meglio che attaccare furiosamene il più grande sindacato italiano attribuendogli tutte le colpe del disastro nazionale, disastro che è stato prodotto in decenni di malgoverno del Paese prioritariamente da altri, ovvero da una classe dirigente politica ed economica che ha furbescamente gestito o accettato corruzione e privilegi di ogni sorta. Sia chiaro io penso che ogni organizzazione, in quanto diretta da uomini e non unti del Signore, sia criticabile per le sue scelte, ma passare dalla critica leale all’aggressione strumentale è vile. La Cgil è stata ed è uno dei pilastri della democrazia in questo Paese. Che cosa resterebbe ai lavoratori se un sindacato forte e combattivo non ne difendesse intessi e statuti, resterebbero loro solo le balle del Cavalier Pinocchio che li vuole fare lavorare il triplo del tempo per la stessa grama paga.

Repubblica 4.10.08
La forza senza cultura
di Gad Lerner


È auspicabile che i presidenti della Camera e del Senato siano lesti nel cogliere gli scricchiolii della pacifica convivenza e promuovano un osservatorio parlamentare sul razzismo che ormai tracima dalla greve licenza verbale in troppi episodi di violenza fisica. Lo stesso governo della "tolleranza zero" ha interesse a far suo un allarme che non riguarda più solo il diffondersi dell´inciviltà, ma anche l´ordine pubblico.Episodi come il pestaggio del giovane Samuel Bonsu Foster a Parma o l´umiliazione inflitta alla signora Amina Sheikh Said all´aeroporto di Ciampino ? quali che siano gli esiti delle indagini ? evidenziano un´impreparazione culturale di settori della forza pubblica nella pur necessaria opera di vigilanza e prevenzione anticrimine. Problemi simili esistono nelle polizie di tutto il mondo, il cui aggiornamento professionale deve tenere conto delle mutate condizioni ambientali. Ma ancor più inquieta l´ormai lunga collezione di aggressioni, squadristiche o individuali, che si tratti di pogrom incendiari contro gli abitanti delle baraccopoli o di sprangate sulla testa del malcapitato di turno. Tale esasperazione è stata spesso giustificata dagli imprenditori politici della paura come legittima furia popolare. Minimizzata tributando demagogicamente lo status di vittime ai "difensori del territorio". Fino a quando c´è scappato un morto: Abdoul Salam Guiebre. Ma nella stessa città di Milano la guerra tra poveri ha riproposto il bis martedì al mercato di via Archimede. Stavolta non per un pacco di biscotti: Ravan Ngon è stato pestato con una mazza da baseball dal venditore di frutta e verdura alla cui bancarella si era avvicinato troppo con la sua merce abusiva. Lo stesso giorno, nella borgata romana di Tor Bella Monaca, una banda di teppisti adolescenti pestava, così, a casaccio, Tong Hongshen, colpevole solo di aspettare l´autobus. Abdoul Salam Guiebre, Tong Hongshen, Ravan Ngon: nomi difficili da pronunciare, figure giuridiche differenti (un cittadino italiano, un immigrato con permesso di soggiorno, un altro che vive qui da cinque anni senza essere riuscito a regolarizzarsi), ma innanzitutto persone. Nostri simili che stentiamo a riconoscere come tali, di cui preferiamo ignorare le vicissitudini e i diritti.
Nelle interviste trasmesse da Sandro Ruotolo a "Annozero", abbiamo udito i parenti dei camorristi accusati dell´eccidio di Castel Volturno manifestare indignazione: la polizia si muove "solo quando i morti sono neri"! Che si trattasse di una vera e propria strage, sei omicidi, passava in second´ordine. Temo che quell´infame, velenoso rovesciamento delle parti tra vittime e carnefici, rischi di diventare in Italia senso comune, se le istituzioni non interverranno per tempo.
Di certo non aiutano i pubblici elogi di Maroni al vicesindaco di Treviso, che sul suo stesso palco si riprometteva di cacciare i musulmani "a pregare e pisciare nel deserto". Come se non fossero già centinaia di migliaia i nostri concittadini di fede islamica. Non aiutano i giornali filogovernativi che attribuiscono all´intero popolo zingaro una congenita propensione al furto. Non aiuta il cortocircuito semantico che equipara il minaccioso stigma di "clandestino" a un destino criminale. La regressione culturale di cui si è detto preoccupato anche il presidente dei vescovi italiani, Angelo Bagnasco, ha tra i suoi responsabili gli spacciatori di stereotipi colpevolizzanti che nel frattempo promettono l´impossibile: un paese in cui, grazie alla mano forte delle nuove autorità, i cittadini siano esentati dalla fatica della convivenza.
Così come si è rivelato fallace - inadeguato all´offensiva reazionaria - l’espediente retorico di una sicurezza che non sia "né di destra né di sinistra"; altrettanto insulso rischia di apparire oggi il richiamo al binomio "diritti e doveri" degli immigrati. Giusto, certo. Ma astratto, fin tanto che non verrà indicato loro un percorso praticabile d´integrazione e cittadinanza. O preferiamo forse che si organizzino separatamente per farci sentire la loro protesta, esasperando una contrapposizione separatista fino allo scontro con le istituzioni?
Tra i sintomi della regressione culturale c´è anche la miopia con cui le forze democratiche del paese, a cominciare dal Pd, finora hanno ignorato la necessità di dare rappresentanza politica agli immigrati. Sarà forse poco redditizio elettoralmente, ma è decisivo per il futuro della nostra società che si affermino leadership responsabili, organizzazioni accoglienti, punti di riferimento alternativi ai capiclan e ai propagandisti dell´integralismo religioso. Persone che hanno avuto l´intraprendenza di emigrare per sfuggire a una sorte infelice, e che spesso hanno conseguito traguardi culturali e professionali significativi dopo essere approdati senza un soldo sulle nostre coste, possono contribuire anche al rinnovamento della politica italiana, bisognosa di ritrovare idealità e speranza.

Corriere della Sera 4.10.08
I dilemmi di Veltroni
Il popolo non si abolisce
di Paolo Franchi


Dice Walter Veltroni all'Espresso: antiberlusconiano io? Non scherziamo, le riforme si fanno con l'avversario. È Berlusconi a berlusconeggiare più e peggio di prima. Non sarà Putin, ma noi, dialoganti e non inciucisti, non possiamo passargliela liscia.
Dice Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi: aumentando i poteri del premier si cade in un sistema autoritario? Ridicolo, semmai è con le regole attuali che i parlamentari sono diventati un popolo di depressi. E, se l'opposizione insiste con il suo ostruzionismo, avanti tutta con i decreti legge.
Non ci vuol molto a comprendere che, a impiantarlo su queste basi, l'unico dialogo possibile è nel migliore dei casi un dialogo tra sordi, in un clima di contrapposizione frontale e senza esclusione di colpi. Quello che semmai resta da capire è se sia ancora possibile sfuggire a un simile destino. E, nel caso, a chi spetti e, soprattutto, a chi convenga di più fare la prima mossa per cercare di cambiare rotta.
Sul primo interrogativo, la risposta è di necessità sospesa, e il pessimismo è d'obbligo: ma questo non significa che occorra prendere atto che non c'è niente fa fare, mettersi l'elmetto e scendere in trincea. Quanto al secondo quesito: sì, forse dovrebbe essere per primo il presidente del Consiglio a ritrovare il passo e lo stile delle sue prime settimane a Palazzo Chigi. Ma, se come tutto lascia immaginare (sbagliando) non lo farà, e magari farà esattamente il contrario, il Partito democratico e il suo leader commetterebbero il più grave degli errori a dare per archiviata la partita. E non solo per motivi di principio o per tener fede alle promesse elettorali. È a Veltroni e al Pd, molto più che a Berlusconi, che conviene tenerla aperta, cercando di distinguere il più rigorosamente possibile la disponibilità al confronto sulle riforme e l'opposizione al governo. Per uscire dall' angolo, per non essere ricacciati indietro: ne va del loro stesso destino.
Non è un'impresa difficile. È un'impresa difficilissima, e anche impopolare per un partito che fatica ancora assai a identificare se stesso. Il richiamo della foresta dell'antiberlusconismo, o per essere più precisi dell'idea che Berlusconi sia in ultima analisi un usurpatore e che il consenso di cui gode da un quindicennio sia la prova di una regressione antropologica prima ancora che politica di gran parte degli italiani, è formidabile, anche perché Berlusconi sembra fare di tutto per alimentarlo. L'antiberlusconismo, si sa, non riconosce né dialoghi né confronti, anzi, li avversa e li disprezza. Ma può fare da collante a un Cln o, tutto all'opposto, a una setta: non a una grande forza di opposizione che aspiri a diventare in tempi ragionevoli una grande forza di governo. Un grande partito, per dimostrarsi tale, è tenuto all'esatto contrario. A prendere atto che, se Berlusconi e il berlusconismo sono, e non da oggi, maggioritari, e se dallo scorso aprile quel che resta della Prima Repubblica è dopo quindici anni tutto all'opposizione, qualche ragione di fondo deve pur esserci; e a lavorare per venirne a capo, sempre che non voglia, brechtianamente, abolire il popolo. A fare tutta la propria parte, e anche qualcosa di più, per concorrere a portare a compimento l'interminabile transizione italiana, e a costruire le regole e gli istituti, i pesi e i contrappesi della democrazia dell'alternanza, primo e fondamentale antidoto anche a quel crescente deficit democratico che Veltroni individua con ragioni migliori di quanto pensino molti suoi stroncatori. Ad avere voce in capitolo, prendendosela se l'avversario gliela nega, piuttosto che a strillare dai tetti. Nel caso, a farsi sbattere la porta in faccia, e a darsi da fare non una ma cento volte per riaprirla.
L'obiezione è nota. Questa, si dice, è la via della svendita, della resa, della rinuncia a fare l'opposizione. Ma è vero l'esatto contrario. Combattere l'avversario come il nemico, anzi, come il male assoluto, è un cattivo surrogato dell'opposizione di cui ci sarebbe bisogno, e che invece latita. Un'opposizione capace di esercitare una funzione di controllo, di avanzare idee e proposte alternative, di sostenere con il voto misure che condivide ma anche di dare battaglia, dura, se occorre, sulle questioni che a suo giudizio governo e maggioranza affrontano in modo inaccettabile. Chiari saranno i nostri sì, chiari saranno i nostri no, recitava uno slogan antico. Non vorremmo apparire rétro, ma forse sarebbe il caso di rifletterci su.

l’Unità 4.10.08
Sessualità, i cattolici non seguono la Chiesa
L’amara constatazione del Papa. Che invita a stare alla larga da pillole e preservativi
di Roberto Monteforte


NO ALLA PILLOLA. No al preservativo. La procreazione, l’accoglienza dei figli è la naturale manifestazione dell’amore coniugale che è piena donazione del coniuge all’altro. No, quindi, alla pillola o ad altri mezzi artificiali e meccanici di contraccezione. Lo afferma papa Benedetto XVI. L’occasione è il 40° dell’enciclica di Paolo VI, l’Humanae Vitae, molto contestata al momento della sua promulgazione nel 1968 anche all’interno della Chiesa e, soprattutto, tanto disattesa ieri come oggi, anche dai cattolici. Ieri Ratzinger ha voluto confermare il no fermo e assoluto della Chiesa alle pratiche anticoncezionali. Al tempo stesso ha cercato di recupare i tanti fedeli poco propensi a seguire i precetti sulla morale sessuale. Lo ha fatto invitando a riflettere sulle ragioni dell’amore coniugale, della sessualità umana e della dimensione di coppia. A questo ha dedicato il suo messaggio al convegno sull’Humanae Vitae promosso dal Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia e dall’Università Cattolica del Sacro Cuore. Spiega cosa sia «il grande sì che implica l’amore coniugale». «Ogni forma d’amore tende a diffondere la pienezza di cui vive, l’amore coniugale ha un modo proprio di comunicarsi: generare figli. Escludere questa dimensione comunicativa - continua - mediante un’azione che miri ad impedire la procreazione significa negare la verità intima dell’amore sponsale con cui si comunica il dono divino». È questa per Ratzinger la ragione di fondo da riaffermare. Poi l’ammissione. Riconosce che «anche molti fedeli trovano difficoltà a comprendere il messaggio della Chiesa che difende la bellezza dell’amore coniugale nella sua manifestazione naturale». Quel generare «è partecipare all’amore di Dio». «Possiamo capire dunque che i figli non sono più l’obiettivo di un progetto umano, ma sono riconosciuti come un autentico dono, da accogliere con atteggiamento di responsabile generosità verso Dio». E pone quella che indica come la questione di fondo: «Il senso della sessualità umana e la necessità di una padronanza responsabile, perché il suo esercizio possa diventare espressione di amore personale». Non basta la ragione, servono «gli occhi del cuore». E quando una nascita può rappresentare un pericolo? O quando è «prudente» distanziare le nascite dei figli o addirittura sospenderle? Allora l’unica via da seguire è quella del metodo «naturale», seguendo i ritmi naturali della fertilità della donna. Il Papa parla di una sessualità da amministrare senza «turbare l’integro significato della donazione sessuale». Per questo serve maturità nell’amore «che non è immediata, ma comporta un dialogo e un ascolto reciproco e un singolare dominio dell’impulso sessuale in un cammino di crescita nella virtù». Sta alla Chiesa favorire questa consapevolezza.
Ma parlare di «dominio dell’impulso sessuale» o di condanna dell’uso dei contraccettivi è un discorso controcorrente, difficilmente comprensibile. L’Arcigay e i radicali hanno rinnovato la critica alla Chiesa. Questa condanna - si osserva - finisce per favorire la diffusione dell’Aids. «Non mi sento di escludere che in alcune condizioni la responsabilità possa indurre il fedele ad usare strumenti di prevenzione della maternità quando è in gioco la salute. Il dovere primo dell'essere umano è quello di difendere la propria salute» è stato, invece, il commento di Vincenzo Saraceni, presidente dell'associazione medici cattolici italiani. Peccato sarebbe fare il contrario.

Repubblica 4.10.08
L’amore addomesticato
di Adriano Prosperi


"Crescete e moltiplicatevi": l´invito divino a Adamo ed Eva (Genesi 1,28) è forse il passo della Bibbia ebraica di più lungo corso nelle omelie ecclesiastiche, almeno a partire da quando l´ingresso del matrimonio nella sfera dei sacramenti ha segnalato la volontà del clero di addomesticare l´eros. Oggi l´invito di papa Benedetto XVI ne ripropone la versione antica, di richiamo al dovere di produrre figli senza ricorrere a metodi contraccettivi "innaturali". Ritorna il volto severo e obbligante in coscienza del matrimonio cristiano come rimedio alla lussuria, strumento per spegnere il fuoco dei sensi ("meglio sposarsi che bruciare", un avvertimento paolino che forse il clero dovrebbe meditare di più. Volto antico: chi sfoglia i testi canonici in materia di matrimonio troverà testi di secoli e secoli fa dove la Chiesa si descrive nata dal costato di Cristo come Eva da quello di Adamo. Ma si dovrà arrivare al decreto approvato dal Concilio Vaticano II il 7 dicembre 1965 per trovare una definizione del matrimonio, dei legami tra marito e moglie e del rapporto coi figli incentrato su di una parola fino ad allora assente: l´amore, non quello spirituale, non quello divino - quello umano.Parole innovative: era l´uscita del linguaggio ufficiale cattolico dalla tradizione medievale dell´alleanza tra un clero celibatario e l´interesse maschile a disporre di una schiava a basso prezzo, per di più portatrice di dote. Con quel matrimonio l´amore, quello profano, non aveva nessun rapporto. Le novelle del Rinascimento ne sono testimoni, come raccontò in un vecchio bel libro Lucien Febvre, un grande storico francese non sospetto di anticlericalismo. Del dovere imposto da quella cultura alla donna - dovere di essere sempre e comunque soggetta al marito e obbligata a concepire e partorire, naturalmente nel dolore - approfittarono poteri d´ogni genere pronti ad allearsi con l´egemonia culturale del clero. Fare figli, possibilmente maschi, servì di volta in volta a tante cose. In primo luogo a far crescere la consistenza e la speranza di durata della famiglia e a trasmetterne il nome - quello maschile, cosa che oggi solo in Italia si ritiene ancora ovvia; ma poi anche a moltiplicare la popolazione come forza lavoro per i campi e le officine, come nerbo della potenza statale e carne da cannone. "La grande proletaria si è mossa", disse Giovanni Pascoli ai tempi di una guerra di Libia di cui paghiamo ancora i costi. La prole che si muoveva era nata da matrimoni obbligati a far molti figli. Ed è singolare che oggi si cerchi di pagare i costi di quella sciagurata avventura con un simbolo indiscutibile dell´amore umano, la Venere di Cirene graziosamente quanto arbitrariamente sottratta da Berlusconi al patrimonio artistico italiano per regalarla a Gheddafi (realizzando così una delle più cupe profezie di Federico Zeri).
Lungo i secoli, l´amore umano era rimasto assente dai documenti canonici e ancor più da quella scienza teologica chiamata a distinguere il lecito e l´illecito degli accoppiamenti umani ? una scienza che si insegnava ai preti nei seminari perché potessero poi interrogare con adeguata competenza in confessione mariti e soprattutto mogli sulle loro pratiche sessuali. Ben diverso dal voyerismo mediato dallo schermo televisivo, la confessione ha consentito per secoli di vedere e ancor più di dirigere gli attori nei gesti e nelle tecniche del momento della riproduzione. Su questo sfondo l´apparizione della parola "amore" in un documento ufficiale cattolico sul matrimonio dette l´impressione di una svolta, di una volontà di riprendere contatto con la vita e coi sentimenti reali di donne e uomini, considerati non più solo come "fedeli", cioè passivamente obbedienti.
Oggi si riapre la questione della contraccezione. Il rapporto coniugale cessa di essere visto come il disegno complessivo di una storia di rapporti umani per tornare a frammentarsi nella meccanica della riproduzione, analizzata nelle sue sequenze da uno sguardo estraniato e sospettoso. Verrà ascoltato questo appello? Il Papa lo ha formulato cercando di conciliarlo col linguaggio del testo conciliare ma tornando sul terreno delle istruzioni tecniche. Lo ha fatto richiamando in vigore quel dispositivo della "Humanae vitae" con cui Paolo VI cercò di mettere il vino nuovo dell´amore umano negli otri antichi di una teologia morale impegnata a sorvegliare gli accoppiamenti, a insinuare tra moglie e marito la presenza del prete. È un segno dei tempi che nello stesso momento giunga tra le mani dei lettori la riflessione del cardinal Martini su questo punto: nientedimeno che una domanda di perdono per la "Humanae vitae". Ripercorrendo il pontificato di Paolo VI il cardinale milanese ha scritto parole dense e pesanti sulla frattura che si è creata con quella enciclica oggi riattualizzata dal papa. La gioventù ? ha detto Martini ? ha cessato di chiedere alla Chiesa della "Humanae vitae" istruzioni per l´uso. È avvenuta una frattura di cui il Papa è stato invitato a tenere conto. Riconosciamo in queste parole l´esistenza di un mondo cattolico che non ha dimenticato quel documento conciliare e che non ha cessato di interrogarsi sulla realtà dei tempi e dei sentimenti. Nella società descritta dal cardinale milanese il messaggio di Benedetto XVI rischia fortemente di cadere nel vuoto, come lui stesso ha mostrato di rendersi conto. Il documento papale è dunque con ogni evidenza una risposta all´appello del cardinal Martini. Una risposta eloquente che documenta in quale direzione il pontificato attuale intende muoversi. Del resto, anche prescindendo dalla lettura di quella pagina del cardinal Martini, al pontefice romano non poteva essere sfuggito un dato di fatto che è sotto gli occhi di tutti: è proprio l´amore umano la molla che ha contribuito a rendere oceanici i raduni giovanili nei grandi eventi pubblici così amati in Vaticano. Un amore con largo uso di contraccettivi "non naturali": lo testimoniano le descrizioni di quel che si trova sui prati quando la festa finisce. E allora, perché tornare su quell´antico deposito di istruzioni tecniche? La domanda si aggiunge alle tante a cui oggi cercano di rispondere i vaticanisti, una specializzazione del sapere giornalistico che si coltiva soprattutto in Italia. Una cosa è certa: la questione della contraccezione sembra toccare ben poco l´opinione pubblica italiana. Il problema della contraccezione e più in generale dell´educazione sessuale è drammatico non da noi ma nei paesi di quegli altri mondi che compongono la geografia della fame e della sete. In Italia il passaggio dalla crescita demografia record del "crescete e moltiplicatevi" alla denatalità anch´essa da record è avvenuto con una rottura improvvisa e radicale, da parte di un popolo che si riteneva complessivamente cattolico ma non prestava molta attenzione agli avvertimenti ecclesiastici.
E tuttavia è facile prevedere che avremo altre occasioni di tornare sull´argomento. Questo appello fa parte di un´offensiva in atto sui diritti e le possibilità di scelta di tutti noi, credenti e non credenti. Diritti relativi ai momenti cruciali dell´esistenza: la nascita, la morte. Il matrimonio non poteva mancare: ma è come la tessera di un puzzle che viene collocata al suo posto. Senza particolare convinzione. Non è la più importante.

l’Unità 4.10.08
Il comunismo fa discutere Bertinotti e Ferrero
L’ex presidente della Camera: «È una parola indicibile». Il segretario del Prc va all’attacco: «Stai sbagliando»


Polemica a distanza tra l’ex leader di Rifondazione, Fausto Bertinotti, e l’attuale segretario Paolo Ferrero. Complice l’ultimo libro di Bruno Vespa - «Viaggio in un’Italia diversa», Mondadori-Eri - e una delle sue molteplici anticipazioni.
«Comunismo è una parola indicibile - sostiene Bertinotti - Se fermi qualcuno per strada e gli dici: io sono comunista, quello non ti capisce». Di qui la necessità di una nuova costituente di sinistra. Sbagliato invece, per Bertinotti, guardare con simpatia a Di Pietro «perché non ti fermi più se dal comunismo precipiti nel populismo». La polemica con Ferrero è più che trasparente.
La sconfitta elettorale? Nessuno, a parte la Caritas «ha capito davvero per tempo quale tragedia sociale abbia prodotto la perdita di potere d'acquisto dei salari. Vista la nostra efficacia ci hanno considerato inutili. Il governo dell' Unione ha colpito l'unica risorsa della sinistra radicale: il suo deposito di coerenza e credibilità». La conclusione: «pur essendo stato fatto cadere da destra, anche per la sinistra questo governo ha avuto un bilancio impresentabile». E Prodi? «C'è sempre stata una sua sordità. Nelle rare occasioni in cui si sono fatte valere un cambio di passo, mi è sembrato impossibile averne un riscontro».
Paolo Ferrero polemizza da un’altra pagina del libro di Vespa. Il comunismo, dice, «Ripropone innanzitutto il tema dell'uguaglianza in una situazione in cui la disuguaglianza sembra diventata un fenomeno naturale». E «ripropone in modo forte l'idea di libertà contro ogni discriminazione di genere, razza, religione, orientamento sessuale». Compito del comunismo «è tenere insieme la questione dei diritti sociali e dei diritti civili».
Ma la polemica libresca non basta. Ieri il segretario del Prc ha stilato un’altra risposta al subcomandante Fausto: «A differenza di Fausto, continuo a pensare che la parola comunismo sia evocativa e utile per illustrare il cammino di una lotta secolare, quella per l'eguaglianza e la libertà. Inoltre, se il problema è il logoramento di alcune parole, anche alcune che Fausto ha usato più volte con forza, come ad esempio la parola socialismo, non mi pare che stiano messe molto meglio della parola comunismo, anzi. Proprio per questo il nostro partito si chiama Rifondazione comunista, perché puntiamo e cerchiamo di elaborare, ormai da decenni, una riqualificazione anche delle parole, oltre che delle scelte e degli impegni politici che ne conseguono». Quanto alle alleanze, impensabili nuovi accordi di governo con Pd, e anche nelle giunte locali se c’è l’Udc.
«Sebbene - replica laconico Bertinotti - non pensi che l'affermazione possa stupire qualcuno e neppure interessare particolarmente chi non mi conosce: sono comunista. Punto».

Repubblica 4.10.08
Neuroscienze
"Il cervello dei musicisti è davvero differente"


ROMA - Geni della musica, e non solo. Sembra infatti che il cervello dei "giovani Mozart" funzioni in modo diverso. Gli psicologi della Vanderbilt University (Usa) hanno scoperto che i musicisti ricorrono in modo più efficace a una tecnica creativa chiamata "pensiero divergente", e usano contemporaneamente l´emisfero destro e sinistro della corteccia frontale più spesso rispetto all´uomo medio. E in generale gli studenti di musica presentano un quoziente di intelligenza più alto dei colleghi non musicisti.

Corriere Fiorentino 4.10.08
La rivolta dei precari (il 40% del totale): futuro incerto, blocco delle assunzioni e del turn over
I ricercatori occupano la sede del Cnr
«Nel giro di pochi mesi molti di noi rischiano di restare senza lavoro»
di Francesco Garozzo


I ricercatori del Cnr di Firenze hanno deciso di avviare la più classica delle forme di protesta: da ieri pomeriggio hanno iniziato un presidio permanente, occupando di fatto i locali della sede. Un allarme e insieme un atto di solidarietà alla lotta dei colleghi ricercatori universitari, che arriva da un ente pubblico formalmente staccato dall'Università, ma che ne condivide gran parte dei problemi.
Per arrivare al Cnr di Firenze bisogna raggiungere il nuovo polo scientifico di Sesto Fiorentino. È lì che, accanto alle facoltà scientifiche, si trova il palazzo del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Ed è lì che ieri mattina si sono incontrati 200 ricercatori del-l'ente, riunendosi in assemblea e votando a maggioranza l'occupazione. A fine mattina l'ingresso era già stato trasformato: effetto «occupazione universitaria» e temi che tornano uguali ai colleghi delle aule di facoltà. I ricercatori precari del Cnr fiorentino sono 235, il 40% del totale, divisi tra i vari istituti e con le più svariate forme contrattuali: si va dagli assegnisti, ai contratti a progetto, dagli interinali a quei 35 «stabilizzandi », gente cioè che doveva essere assunta e che invece sta ancora aspettando.
A fare due passi all'interno dell'aula occupata, ci si accorge che i ricercatori del Cnr assomigliano ai loro colleghi dell'università pubblica. Stessa fascia d'età — da 30 a 45 (e oltre) — stessi argomenti e stesse paure. «Il 40% di precari, in un ente che dovrebbe garantire la qualità della ricerca nazionale, è un dato spaventoso », dice Ilaria Lani, della Flc (federazione lavoratori conoscenza) della Cgil. «Con la legge 133 che limita a tre anni l'utilizzo dei contratti flessibili, nel giro di pochi mesi rischiamo di mandare a casa la maggior parte dei nostri ricercatori precari. Dal 2001 abbiamo assistito a una riduzione del personale del 20%, a causa del blocco delle assunzioni. Nella mozione finale d'assemblea — che i presenti hanno votato all'unanimità — ci siamo anche rivolti ai direttori degli istituti del Cnr, con la speranza che vengano a discutere con noi e ad appoggiare le richieste del personale».
Intanto l'annullamento delle stabilizzazioni in corso, il taglio «del 10% delle piante organiche» e il blocco del turn over fanno paura. Soprattutto perché «in gioco stavolta c'è il futuro della ricerca in Italia», aggiunge Andrea, ricercatore del Lamma, l'istituto toscano di meteorologia. Che subito dopo passa al problema finanziamenti: «Il Cnr basa il finanziamento dei suoi progetti su fondi che in gran parte arrivano dalla Comunità Europea e che ora rischiano di diminuire sensibilmente. Il rischio è che tra un po' non si possa più competere seriamente a livello internazionale: d'altra parte cosa aspettarsi in una situazione che dipende da fondi esterni e basa la sua attività su una forza lavoro precaria?».
Se si va a dare uno sguardo alla situazione nazionale del Cnr, dati aggiornati al 31 dicembre 2006, i numeri sono chiari e parlano di una situazione che riflette bene quella regionale. I dipendenti del Cnr con contratti a tempo determinato sono in Italia 1.056, contro i 6375 assunti: a questi bisogna aggiungere 1.150 assegnisti, 256 borsisti, 536 co.co.pro e altre 859 tipologie contrattuali. Il 37% di precari. A pochi passi dall'ingresso, mentre alcuni dei ricercatori appendono gli ultimi striscioni e altri aggiustano il banchetto con dati e statistiche della loro situazione, chiediamo cosa si aspettano a breve. Due risposte. La prima, generale, di speranza: «Speriamo che venga ritirato l'emendamento Brunetta che abroga le stabilizzazioni e che venga comunque modificata la 133»; la seconda, locale: «Con il nostro gesto speriamo di annullare la distanza, anche geografica, che ci separa dal mondo universitario fiorentino, dando così impulso al momento di lotta».
Il progetto a breve termine dei ricercatori Cnr parla di un viaggio e la destinazione sta scritta nella loro mozione d'assemblea: il prossimo 8 ottobre vanno a Roma, alla manifestazione nazionale. Dove? Sotto le finestre del ministero dell'Istruzione.

Corriere Fiorentino 4.10.08
Università Lo ha deciso il Consiglio di Facoltà
Farmacia, lezioni bloccate e ci sono anche i docenti
Architettura, proseguono le assemblee
di F.C.


E adesso è arrivato il turno di Farmacia. Lunedì prossimo, primo giorno di didattica, non ci sarà nessuna lezione. Lo ha deciso il Consiglio di Facoltà, stabilendo il blocco delle lezioni per una settimana e l'inizio di un confronto tra docenti, ricercatori e studenti sulla protesta contro i tagli previsti dalla legge 133. Farmacia è la più piccola facoltà fiorentina: ha 900 studenti, 60 docenti e 30 ricercatori. Numeri che hanno permesso di decidere per il blocco delle lezioni con una facilità da altre parti solo sognata «Sarà per la nostra mentalità pratica», scherza Alessandro Feis, ricercatore convinto di come «le nostre dimensioni abbiano aiutato a capire che ci si trova davanti a un problema che deve interessare tutte le componenti del mondo universitario. La settimana di informazione tra noi e i ragazzi mi sembra il modo migliore ed efficace per cominciare».
Il documento di Farmacia parla «di una situazione insostenibile, di un disegno di legge chiaramente mirato a colpire il sapere pubblico ». Di pesanti «tagli al Fondo di finanziamento ordinario», di «Università fiorentina già in forte difficoltà economica».
A colpire di Farmacia è anche l'atteggiamento dei docenti, in gran parte solidali con i colleghi ricercatori. La settimana di informazione sarà arricchita da iniziative pensate apposta per gli studenti, come l'apertura dei laboratori di ricerca: per vedere da vicino l'habitat naturale dei protagonisti principali della protesta.
In questo modo l'Ateneo fiorentino è sempre più compatto. La facoltà del Polo di Sesto (tra l'altro in stretti contatti con i neo-occupanti del Cnr) si è così aggiunta al gruppo di chi si è fermato: tutti i corsi di laurea di Scienze, Ingegneria e Architettura. E a chi potrebbe fermarsi: Agraria ne discuterà in due tappe. Lunedì si incontreranno i ricercatori della facoltà, il giorno dopo tutti gli studenti.
Ad Architettura intanto il movimento fa passi avanti. Ieri in Santa Verdiana è andata in scena un'assemblea, circa 350 persone presenti, che ha segnato un passo avanti nella protesta. Per la prima volta si è visto qualche docente ordinario, dato che «incoraggia ad andare avanti su questa strada », dice Alberto Di Cintio, ricercatore di Disegno industriale, presente ieri e intervenuto, tra molti applausi, anche all'assemblea in Rettorato di qualche giorno fa. In piazza San Marco aveva parlato di lotta che non si deve fermare, adesso è soddisfatto di vedere «che molti si sono resi conto della drammaticità del momento. Di come bisognerebbe restare uniti, sia precari che docenti. È emerso un pensiero comune, gli ordinari si stanno convincendo della bontà della protesta. Dobbiamo solo decidere con quale forma continuare la lotta, e mi incoraggiano le scene viste in facoltà».
Le scene viste sono quelle di un' assemblea partecipatissima, con posti a sedere esauriti e studenti in fila fuori dall'aula, a sforzarsi di vedere la faccia di chi prendeva in mano il microfono.
Davanti al preside di facoltà, Raimondo Innocenti, e a tutti i presidi dei corsi di laurea, il microfono l'hanno preso in tanti. Dagli attivissimi professori del dipartimento di Urbanistica guidati dal senatore Francesco Pardi, («il ministro Tremonti si vanta di approvare le leggi in nove minuti», «la ricerca non è una cosa che si può fare in tre mesi») — la professoressa Daniela Poli, il professor Pizziolo, il professor Vernetti del polo di Empoli — a molti studenti e ricercatori. Si sono contati e hanno deciso di istituire una commissione speciale, formata da docenti, ricercatori e studenti.
Uno dei problemi emersi riguarda gli studenti. Alcuni di loro, pur nella solidarietà ai ricercatori e alla comprensione del momento, hanno una paura: non è che, a forza di lezioni sospese, alla fine gli svantaggi più grandi li avremo noi?
Una risposta la suggerisce Di Cintio: «Si potrebbe profilare uno scenario. Tra un po' di giorni sarà chiaro se si è raggiunta l'unità con i docenti. A quel punto, restando fermo lo stato di agitazione e di protesta, le lezioni potrebbero ricominciare ».
Tanto, per Di Cintio e i suoi colleghi, l'importante è un'altra cosa. Che si capisca che «così non si può più andare avanti», che ci si renda conto di vivere in un'Università con pochi fondi e tanti paradossi. Come quello dei ricercatori, «che lavorano meno nel settore per cui sono pagati, la ricerca. E di più in quello dove per contratto non possono prendere una lira, le lezioni». L'impressione è che si sia soltanto all'inizio.

venerdì 3 ottobre 2008

Repubblica 3.10.08
Il potere oltre le regole
di Massimo Giannini


Negli Stati Uniti, alla vigilia del voto del Congresso americano sul maxi-piano di salvataggio bancario più imponente della storia, il segretario al Tesoro Henry Paulson ha compiuto un atto simbolico carico di significati: si è inginocchiato di fronte al presidente Nancy Pelosi, per invocare al Parlamento l´approvazione rapida di quel pacchetto di norme.
Il potere esecutivo, sia pure in una condizione di assoluta emergenza nazionale, si rimette al giudizio solenne del potere legislativo. È un segno tangibile di come, nonostante il caos finanziario che non ha saputo scongiurare e che ora fatica a gestire, la democrazia americana sa riconoscere i suoi valori, le sue regole, le sue istituzioni.
In Italia, alla vigilia del varo imminente dell´ennesimo decreto legge, stavolta sulla prostituzione, il presidente del Consiglio lancia un attacco ideologico contro il Parlamento, colpevole di intralciare l´azione del governo. «Imporrò alle Camere l´approvazione entro due mesi di tutti i decreti legge che riterrò necessari per governare il Paese - annuncia Berlusconi - e non esiterò a porre la fiducia ogni volta che servirà, poiché la fiducia è questione di coraggio e di responsabilità». Il potere esecutivo, sia pure dotato di una maggioranza senza precedenti, sottomette il potere legislativo. È un segno tangibile di come, nonostante l´esistenza formale dei suoi precetti e la resistenza sostanziale dei suoi organi di garanzia, la democrazia italiana rischia di svilire i suoi principi, i suoi precetti, la sua qualità.
L´offensiva del premier tocca un nervo scoperto per il ceto politico, e un punto sensibile per l´opinione pubblica. In questi anni l´odiata Casta che abita le aule parlamentari, tra privilegi e inefficienze, non ha fatto nulla per meritare la fiducia del popolo sovrano. Berlusconi, ancora una volta, cavalca l´onda dell´antipolitica. E da «uomo del fare» che combatte i «parrucconi», ha capito ciò che i governati sfiduciati chiedono ai governanti delegittimati: decidere, o anche solo far finta di aver deciso. È quello che il premier sta facendo, incrociando il senso comune dominante. Sui rifiuti e sull´Alitalia, sui rom e sulla camorra. Non conta ciò che c´è «nel» provvedimento. Conta solo che ci sia «il» provvedimento. Tutto quello che intralcia o rallenta il processo va rimosso, o quanto meno esecrato. Vale la decisione. Non c´è più spazio per la discussione e, a volte, nemmeno per la ragione. E così, oggi, pur guidando un governo del presidente e comandando una maggioranza di 162 tra deputati e senatori, il Cavaliere si permette il lusso di additare proprio il Parlamento come il luogo della «non decisione».
L´attacco al potere legislativo è una mossa ad effetto, che può far presa nella gente. Ma è una scelta grave. Lo è dal punto di vista politico. Anche il Parlamento, per lo più ridotto a «votificio», necessita di riforme. Ma queste riforme non può imporle a forza il capo dell´esecutivo, a colpi di decreti legge e di fiducia. La revisione dei regolamenti parlamentari è opportuna, ma è materia da trattare con cautela e rispetto. Non a caso è disciplinata addirittura dalla Costituzione, che attribuisce ai regolamenti la forza di fonti del diritto e all´articolo 64 ne vincola la modifica alla «procedura rinforzata» delle maggioranze assolute.
Ma la scelta di Berlusconi è grave anche e soprattutto dal punto di vista istituzionale. Ha un solo precedente, evidentemente non casuale, nella storia repubblicana. È Bettino Craxi, che al congresso del Psi di Verona, nel 1984, furibondo per la mancata conversione del decreto di San Valentino sulla scala mobile, tuonò contro i parlamentari che si occupavano «solo di conferenze sulle aspirine» e di «norme in materia di pollame, molluschi, prosciutto di San Daniele e scuole di chitarra». Perché, a distanza di 25 anni, Berlusconi sente oggi il bisogno di replicare, con formule addirittura deteriori, il modello craxiano? Che bisogno ha, proprio ora che tiene il Paese in tasca e domina in splendida solitudine la scena politica, di riaprire un conflitto così aspro e avvelenato con le istituzioni?
C´è una sola risposta con un senso compiuto: è il Quirinale. Il Cavaliere ha fretta di chiudere la Seconda Repubblica e di inaugurare, se serve anche nel fuoco della battaglia, una Terza Repubblica tagliata ancora una volta a misura della sua biografia personale. E colpisce che, di questa trama palese, le anime belle della sedicente «cultura liberale» non vedano i fili. Se Veltroni, per aver accostato il premier a Putin, è accusato di essere ancora prigioniero della «vecchia narrazione» di un centrosinistra tenuto insieme solo dal cemento dell´anti-berlusconismo, di quale «nuova narrazione» sarebbe invece interprete Berlusconi, che ritorna in guerra contro i suoi soliti fantasmi, umilia il Parlamento, svalorizza il Capo dello Stato, minaccia la Corte costituzionale?
La vera «cifra» del nuovo berlusconismo, micidiale miscela di cesarismo regressivo e di populismo deliberativo, è racchiusa in un mirabile enunciato di Giuliano Ferrara, il suo più brillante esegeta: «La democrazia, alla fine, non è expertise, ma è solo consenso». In questi tempi difficili è una verità agghiacciante. Ma purtroppo è esattamente così che Berlusconi sta riducendo la nostra democrazia.
m.gianninirepubblica.it

Repubblica 3.10.08
L´elezione del rettore della Sapienza a Roma e le facoltà del nepotismo
L´ateneo al voto tra i parenti
di Tito Boeri


Oggi i docenti de La Sapienza, il più grande ateneo d´Europa, voteranno per scegliere il loro nuovo Rettore. A meno di sorprese, verrà eletto Luigi Frati, attualmente preside della Facoltà di Medicina. Ha già ricevuto la maggioranza relativa dei voti nei primi scrutini. Sua moglie, in passato docente di lettere al liceo, è diventata professore ordinario nella sua facoltà. Anche suo figlio vi trova impiego come professore associato, chiamato mentre lui era preside. La figlia, pur essendo laureata in Giurisprudenza, ha un posto di professore ordinario all´altra facoltà di Medicina della Sapienza.
Secondo i giornalisti dell´Espresso Primo Di Nicola e Marco Lillo, Frati per il matrimonio di sua figlia ha organizzato un ricevimento con 200 invitati nell´Aula grande del suo istituto. Si può pensare che sia un caso isolato, estremo. Purtroppo non lo è in Italia. Lo documenta in modo inequivocabile un libro di Roberto Perotti, uno dei migliori economisti italiani, uscito in questi giorni per gli Struzzi dell´Einaudi (L´Università truccata). Vi dirò subito, a scanso di equivoci, che sono collega e amico di Roberto. Ho anche avuto la fortuna di scrivere un libro con lui imparando quanto sia meticoloso e pignolo fin nei minimi dettagli. Quindi potete essere sicuri che i dati che sono contenuti nel volumetto sono stati attentamente verificati, uno per uno. E sono davvero impressionanti. Rimaniamo nell´ambito delle facoltà di Medicina. Essendo queste collegate a cliniche universitarie, l´entrata in ruolo ha un valore molto superiore alla sola retribuzione da professore universitario. A Messina quasi il 40 per cento dei docenti (sì, proprio 4 su dieci) ha un omonimo in qualche università della Regione. A Napoli (Federico II e Seconda Università) si viaggia attorno al 35% di omonimie, a Roma (Sapienza, Cattolica e Tor Vergata) non si scende sotto al 30 per cento. Certo, alcune di queste omonimie possono essere del tutto casuali e non sottendere a relazioni di parentela, oppure possono essere legate a sodalizi scientifici, cementati su di una solida produzione scientifica. Ma la dimensione del fenomeno è tale da far pensare ad altro, a un nepotismo addirittura sfacciato. E´ una congettura corroborata dagli approfondimenti compiuti da Perotti su alcune sedi, come la Facoltà di Economia di Bari, dove 42 docenti su 179 hanno almeno un parente stretto nella stessa facoltà; a Statistica l´ex Magnifico Rettore Girone, per dare il buon esempio, ne ha addirittura 4 tra moglie, tre figli e genero, tutti docenti nella stessa facoltà. Perotti ha anche compiuto un lavoro certosino di censimento dei concorsi universitari in Economia dal 1999 al 2007, scoprendo che il fattore di gran lunga più importante nel successo in questi concorsi è l´appartenenza allo stesso ateneo che ha indetto il concorso. La produzione scientifica, misurata in termini di pubblicazioni su riviste internazionalmente riconosciute, non ha alcun peso.
Nepotismo e baronaggio sono sopravvissuti alle mille riforme di carta condotte in questi anni. Cambiavano tutto per non cambiare nulla. Servivano solo al ministro di turno, quale che fosse il suo colore politico, per mettere la propria bandierina senza intaccare i potere delle baronie universitarie. Anche questa legislatura si sta aprendo all´insegna di un futile protagonismo ministeriale. L´auspicio che andrebbe formulato all´inaugurazione dell´Anno Accademico è che il quinquennio si concluda senza che gli studenti universitari vengano obbligati ad indossare il grembiule. Eppure per cambiare davvero le cose non ci vorrebbe molto, come spiega Perotti. Basterebbe che i Ministri si limitassero a far valutare la produzione scientifica delle diverse facoltà e usassero queste valutazioni nel distribuire i fondi alle diverse sedi. E´ una questione di sopravvivenza: se i soldi all´università arrivano solo a condizione di generare un congruo numero di prodotti di ricerca (brevetti, pubblicazioni scientifiche, etc.), gli stessi baroni di oggi saranno i primi a preoccuparsi domani di assumere i ricercatori migliori sulla piazza, anziché cercare di far passare chi ha fatto per anni il loro schiavo rinunciando a qualsiasi ambizione scientifica.
L´università ha un ruolo fondamentale nel promuovere l´innovazione e la crescita. Secondo alcuni studi, un incremento del 3 per cento del numero di persone con un Ph.D in un paese porta all´aumento del numero di patenti e della produttività dell´1 per cento all´anno. Si tratta di un effetto molto rilevante, quando cumulato nel corso del tempo. La qualità di un´Università è fatta dalle competenze di chi vi svolge ricerca e attività didattica. I docenti universitari italiani sono tra i più vecchi d´Europa. Presto andranno in pensione. Questo ci offre l´opportunità unica di rinnovare il nostro corpo docente, portandolo alla frontiera della ricerca, da cui siamo oggi lontani anni luce. C´è un mercato vastissimo di ricercatori stranieri, oggi una rarità nell´università italiana (solo l´1 per cento del corpo docente), cui attingere.
Ma il ministro Gelmini, seguendo a ruota il suo predecessore, ha deciso di tenere nel cassetto l´unica valutazione dell´università italiana, compiuta nel 2006 sulla base di criteri oggettivi, utilizzati a livello internazionale. Nè ci risulta che sia intenzionata ad avviare nuove valutazioni o ad usare quelle esistenti nell´allocare una quota significativa dei fondi pubblici alle università. Si limita a intervenire a convegni invitando tutti a fare meglio il proprio mestiere, richiamandosi alla moralità nel reclutamento di nuovi docenti. In un paese come il nostro questi richiami, per quanto animati dalle migliori intenzioni, sono destinati a cadere nel vuoto. Non c´è purtroppo sanzione sociale per chi concepisce la cattedra come il trono di una dinastia. Ho scoperto proprio in questi giorni che esiste in questo nostro strano paese un centro studi che si chiama "Di padre in figlio". Offre agli imprenditori consulenza nell´affrontare "le problematiche relative alla complessa gestione delle problematiche relative (repetita iuvant?) a famiglia, azienda e patrimonio". È una creatura recente, meno di 10 anni alle spalle e un fulgido avvenire. L´unica cosa che non mi stupisce è che si avvalga del contributo di professori universitari. Sono, in effetti, i massimi esperti in materia.

Repubblica 3.10.08
Si allarga il fronte della protesta anti-Gelmini
Il ministro: solo piccole frange. Negli atenei appello ai rettori: stop alle inaugurazioni
Berlusconi: basta stipendi uguali da sistema socialista, premieremo i più meritevoli
di Mario Reggio


ROMA - La protesta contro la riforma della scuola targata Gelmini si diffonde. Spontanea, organizzata, ironica o canonica. Ieri presidio di genitori, bambini, precari davanti al palazzo gentiliano di viale Trastevere. Oggi sarà la volta dell´Idv con l´Unicobas. Ma le bordate pesanti arriveranno il 17 ottobre con lo sciopero dei Cobas e a fine mese con la scesa in campo della Cgil.
Ma la protesta sale anche nelle università. L´appello è di bloccare le inaugurazioni dell´anno accademico, per difendere la ricerca e la qualità dell´insegnamento, dopo i tagli previsti dal governo. Tra i firmatari Piero Bevilacqua, Alberto Asor Rosa, Gianni Vattimo e Umberto Curi.
E il governo? Per il momento parla di scuola. «Proteste di piccole frange marginali che hanno deciso di non guardare nel merito dei problemi» dice il ministro Mariastella Gelmini a proposito delle contestazioni. Innovazioni futuribili a parte, come la lavagna elettronica, il pomeriggio è stato segnato dalle dichiarazioni del premier Berlusconi in una conferenza stampa a Palazzo Chigi. A partire dagli stipendi degli insegnanti: «C´è un egualitarismo che troverebbe cittadinanza solo in un sistema socialista e non in un Paese liberale e democratico come il nostro». E come differenziare le retribuzioni e premiare il merito di chi si impegna di più? Silenzio sui metodi di valutazione dei docenti, ma una promessa per il futuro: «I sacrifici di oggi serviranno per premiare il personale più bravo nel futuro - ha chiarito la Gelmini - a partire dal 2012, quando i risparmi ci permetteranno di aumentare gli stipendi fino a 7 mila euro l´anno».
Cose già sentite per giorni. Per il resto solo conferme: il maestro unico sarà affiancato da un docente di inglese. La bocciatura alle elementari e alle medie con una sola insufficienza? «Come per il voto in condotta - rassicura Berlusconi - gli insegnanti useranno il buon senso». Qualcuno si chiede perché ci fosse il bisogno di mettere nero su bianco i due provvedimenti in decreto legge, sul quale il governo ha deciso di porre la fiducia.
E sugli 87 mila insegnanti e i 42 mila non docenti tagliati in tre anni? «Nessuna cacciata, sono quelli che andranno in pensione - conferma il presidente del Consiglio - con il contemporaneo blocco del turn over. L´ennesima menzogna della sinistra». Nessuna parola sui 200 mila precari che dovranno cercarsi un altro lavoro. Sul futuro del tempo pieno, che preoccupa centinaia di migliaia di famiglie, nessun problema: «Con l´introduzione del maestro unico sarà aumentato del 50 per cento». Affermazione che non convince Mariangela Bastico, viceministro dell´Istruzione nel governo Prodi: «Il tempo pieno è scomparso dal decreto Gelmini, che parla solo di un´eventuale estensione delle ore di lezione di 10 ore a settimana. Il maestro unico riporta le ore dell´orario scolastico a 24 ore a settimana, non alle 40 del tempo pieno. Qui si porta via una parte dell´istruzione anche nelle sezioni ad orario normale, pari a 30 ore. Con un taglio di 10 mila insegnanti l´anno».

Corriere della Sera 3.10.08
In un libro di François Bégaudeau (diventato film di successo) i disagi dell'insegnamento: docenti e studenti demotivati, istituzione bloccata
Scuola, lotta «di classe» per la democrazia
«L'istruzione di massa rischia il fallimento. Più che il frustino servono impegno e merito»
di Domenico Starnone


Bisognerebbe, per ragionare di scuola, avere sottomano un bel po' di libri come La classe di François Bégaudeau (Einaudi Stile libero, traduzione di Tiziana Lo Porto e Lorenza Pieri, pp. 228, e 16). Dovrebbero essere testi provenienti soprattutto dai Paesi con una lunga storia di istruzione generalizzata. Se ce li avessimo, verrebbe fuori un quadro chiaro della crisi, ovunque, di uno dei grandi sogni democratici: costruire una scuola di qualità per tutti. E si perderebbe meno tempo con soluzioni inadeguate o semplicemente insensate.
Il libro di Bégaudeau ha innanzitutto il merito di mostrarci come nelle aule della scuola media francese le cose vanno proprio come vanno da noi. Anzi peggio, se si pensa che gli alunni che popolano La classe sono, oltre che ragazzi d'oggi, anche i figli di migranti dall'Africa, dall'Asia, portatori cioè di un disagio che da tempo si è affacciato anche nelle nostre scuole e che tuttavia non sentiamo ancora come un nuovo, complesso problema scolastico.
Ma vediamo come orchestra il suo racconto Bégaudeau. Innanzitutto non esce mai dalle mura scolastiche (non a caso il titolo originale del libro, stampato da Gallimard nel 2006, è Entre les murs; e tale rigorosa «chiusura» mantiene il film che ne ha tratto Laurent Cantet e che ha vinto la Palma d'oro quest'anno). Il «fuori» nel testo non esiste ed è una scelta importante per almeno due motivi. Primo, cancellando da un anno di scuola ogni altro tempo di vita (giorno libero, domeniche, vacanze, e quindi la vita privata), i rituali scolastici, l'incontro-scontro con gli allievi, sono offerti al lettore in tutta la loro divertente- ossessiva-ottusa ripetitività. Secondo, il «fuori » appare solo attraverso i filtri scolastici: è ostacolo al lavoro didattico, è chiacchiera psicopedagogica, è disagio e violenza, è necessità di ricorrere al pugno duro.
L'effetto di giostra che gira viziosamente in tondo è uno dei risultati robusti del libro. L'insegnante protagonista che ci racconta il suo anno scolastico non fa che entrare nelle aule, buttar lì un po' di esercizi di grammatica, scoprire che i suoi alunni non hanno nemmeno gli strumenti verbali per capire ciò che lui sta cercando di spiegare, andare in sala professori, fare una capatina dal preside, riunirsi ora per questo ora per quello. Quanto all'eco del mondo esterno essa è data dai luoghi comuni di cui sono portatori gli allievi e i docenti, dalla lingua vaga e vacua del consulente pedagogico, dai genitori le cui apparizioni segnalano cosa c'è dietro il comportamento dei ragazzi. Non parliamo dei colleghi: fanno capolino con brevi battute sciatte e lamentele sulle classi più difficili. Per il resto si sforzano di convincere la macchina che distribuisce bevande ad accettare la monetina e a dare in cambio un caffè.
Il docente-narratore è simpatico, ha modi diretti, sgobba, non è uno che si tira indietro.
Tenendo conto che Bégaudeau è del '71, il suo protagonista dev'essere uno sotto i quaranta, che ha fatto le scuole superiori e l'università tra la seconda metà degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta. Niente ideologismi di vecchia data, è un insegnante dell'ultima generazione, insomma. La sua fatica lì per lì ci appassiona, ci sembra seria.
Ma se lo guardiamo più da vicino, le cose si complicano.
Non lo peschiamo mai mentre cerca di capire quali sono gli ostacoli veri, dentro e fuori, che gli impediscono di lavorare bene. Per lui l'unico ostacolo paiono i ragazzi, specialmente quelli che non gli vogliono bene. Si limita a registrarne l'abbigliamento, l'ignoranza, la pessima educazione. Li combatte per lo più con l'ironia e il sarcasmo, ma a volte pare che stia sul punto di farci a botte.
Spesso li umilia e non a caso gli allievi gli dicono di continuo: professore, lei esagera.
Cerca di affermare la sua autorità, non ci riesce, ricorre a quella del preside. Non prova a stabilire un rapporto di fiducia con la classe, ma tenta sempre e soltanto di piegarla. A tratti pare un tipo di docente (ormai molto diffuso anche da noi) che nella sostanza pensa: io devo insegnarvi il francese ma voi, maledetti imbecilli, mi impedite di farlo e così danneggiate voi stessi e me. In parole povere è la sintesi di come un insegnante, anche pieno di buona volontà, oggi finisca necessariamente per fare della cattiva scuola.
Perché? Bégaudeau non ce lo dice, non ci dice nemmeno cos'è una buona scuola. Ma a tratti gli insegnanti, nella sala professori, dichiarano il loro punto di vista. Una buona scuola coincide, per loro, con una bella classetta. Vale a dire con una scuola senza fannulloni e farabutti, ma fatta di soli capaci e meritevoli: persone diligenti, quiete, piene di pensierini corretti, alle quali si possa insegnare il francese e altro in pace.
In parole povere constatiamo senza sorpresa che questi docenti non vorrebbero lavorare nella scuola di massa. O meglio, poiché la scuola di massa è sempre più piena per sua natura di giovani difficili di ogni provenienza sociale con i quali nessuno sa cosa fare, gli insegnanti, in Bégaudeau, e ancor più nel film di Cantet, mirano al sogno delle classi perfette umiliando ed espellendo, nei limiti del possibile, gli inadatti.
Il libro, in questo senso, è una piccola mappa che, proprio perché parla di un altro Paese, ci aiuta a vedere con maggior distacco il nostro. Dopo il lavorio riformista che si colloca da noi tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Settanta, nessuno, se non a chiacchiere, ha puntato sulla scuola fattivamente, facendo dell'istruzione pubblica il perno della crescita — crescita ad ampio raggio — del Paese. Chi ci ha messo le mani le ha messe dappertutto a vanvera, ma mai al portafoglio (una riforma vera della scuola costa moltissimo) e di conseguenza mai alla sostanza dei problemi. Gli interventi sono stati puramente nominali, spesso hanno inseguito l'abracadabra del momento: il mercato, l'azienda, il manager, lo sponsor, il Pof. Oppure hanno preso la china, a destra ma anche a sinistra, del ritorno alla frusta, strumento molto economico e che induce a fare economie: grembiule, voti, sette in condotta, maestro unico senza grilli per la testa, via i rozzi e bonari insegnanti senza accento padano, selezione classista, coccarde tricolori agli eccellenti e caso mai a tutti gli altri bacchettate sulle nocche, il cappello con le orecchie d'asino. Che è come dire che i problemi della scuola d'oggi, i problemi del mondo d'oggi, si possono affrontare e risolvere solo in chiave sostanzialmente repressiva.
Bene. Il libro di Bégaudeau, che è pieno zeppo di note disciplinari, passeggiate punitive dal preside, espulsioni, dimostra che la crisi della scuola non è banalmente riconducibile all'indisciplina e all'assenza di misure forti. Certo, la buona educazione non ha mai guastato e nemmeno l'impegno negli studi. Ma il problema aperto da ormai un secolo, in tutti i Paesi avanzati, è ben più cospicuo. Di quale tipo di scuola e di insegnanti abbiamo bisogno per trasformare l'istruzione di massa in un'istruzione di elevata qualità per tutti? Come si fa a costruire una scuola efficiente, un'istruzione che non si occupi solo dei capaci e dei meritevoli ma si faccia carico sul serio dei più, di quelli che per motivi vari sembrano incapaci e senza meriti? Se non si riesce a rispondere in tempi brevi a questa domanda, la situazione nelle scuole, grembiule o no, sette in condotta o no, bocciature o no, non divertirà più nessuno, diventerà drammatica.

Corriere della Sera 3.10.08
Un lavoro d'eccellenza curato da Guido Bastianini e Rosario Pintaudi
Il vero Adriano, oltre la Yourcenar
Gli scavi dell'Istituto Vitelli nella città dell'amante Antinoo
di Luciano Canfora


Pubblicati 122 testi e quattro pezzetti figurati Confermata un'intuizione della grande Medea Norsa

Nel 1951 Marguerite Yourcenar ebbe la strana idea di far parlare Adriano con la profondità, il senso del dovere, il filosofico pessimismo di Marco Aurelio. E così nacquero le Memorie di Adriano. Un libro in verità piuttosto lamentoso, che risente ovviamente anche della cultura del tempo. Un esempio per tutti: quando Adriano «prevede» la caduta dell'impero romano ad opera dei «barbari dall'esterno e degli schiavi dall'interno» (p. 110 trad. Einaudi), non fa che riassumere un pensiero divenuto a torto famoso, ma formulato del tutto en passant
da Stalin in un discorso del 1933 ai «colcoziani d'assalto», di lì passato nelle Questioni del leninismo
(tradotte a Parigi per le Éditions Sociales nel 1947) e intanto «codificato» nella Storia di Roma di Sergej Ivanovich Kovaliov l'anno seguente (capitolo XVI). Alla fine degli anni Quaranta, nella Francia di Sartre, di Aragon e della colomba di Picasso, la cosa non deve stupirci. E poi, una scrittrice che si avventurava a far rivivere l'antichità sotto forma di romanzo doveva pur cercare fonti di ispirazione non ovvie!
Ma c'era in lei anche un certo scrupolo topografico. La sepoltura di Antinoo gliene offre il destro. Il dolore di Adriano per la morte di Antinoo è, com'è ovvio, un «pezzo forte» del romanzo, e offre l'occasione all'autrice per parlare dottamente della «città di Antinoo» (Antinoupolis ovvero Antinòpoli) voluta e creata nel Medio Egitto da Adriano per celebrare ed eternare la figura dell'amato giovane. «Le barche ci condussero in quel punto del fiume dove cominciava a sorgere Antinopoli (...) Si profilava la pianta degli edifici futuri tra i mucchi di terreno sterrato. Ma esitavo ancora sulla località del sepolcro (...) Anche il monumento previsto, alle porte di Antinopoli, sembrava troppo esposto e poco sicuro. Seguii il consiglio dei sacerdoti. Essi mi indicarono, sul fianco d'una montagna della catena arabica, a tre leghe dalla città, una di quelle caverne che un tempo i re d'Egitto destinavano a servir loro da sepolcri (...) I secoli sarebbero passati a migliaia su quella tomba» (p. 199).
Quando Yourcenar scriveva queste pagine gli scavi italiani ad Antinoupolis, intrapresi nel 1935-36, languivano per la lunga interruzione dovuta alla guerra. Nel 1940 l'Italia aveva aggredito l'Egitto, e non era facile ripresentarsi nel dopoguerra a scavare come se nulla fosse successo. La ripresa avvenne soltanto nel 1965. Un'altra lunghissima stasi ci fu tra il 1993 e il 2000. Ed ora, finalmente, per merito, ancora una volta, dell'Istituto Papirologico «Vitelli» di Firenze, i risultati dello scavo vengono pubblicati in un primo prezioso ed imponente volume, Antinoupolis.
In un momento particolarmente oscurantistico del nostro recente passato, l'Istituto «Vitelli» stava per essere proclamato «ente inutile», e conseguentemente penalizzato. La minaccia fu sventata, ma era sintomatica di un malcostume intellettuale che continua a dominare, nel segno di un'idea utilitaristica del lavoro intellettuale. Finanziamenti da parte dello Stato e visibili, tangibili risultati immediati, magari tali da farci su un bel «servizio» televisivo, sono considerati entità indissolubili. La necessaria lentezza della ricerca è malvista. Ebbene questo Istituto e le molte forze intellettuali che in vario modo e a vario titolo vi si riferiscono hanno dato alla luce quasi contemporaneamente due consistenti risultati. Da un lato questo primo volume su Antinoupolis, dall'altro l'ultimo nato (il quindicesimo) della serie dei Papiri greci e latini. Scavare ad Antinoupolis fu un'idea di Girolamo Vitelli (scomparso nel settembre del '35). Vitelli aveva una notevolissima conoscenza storica e antiquaria dell'Egitto greco-romano e sapeva intuire dove convenisse orientare gli scavi italiani, dei quali egli era, insieme con Medea Norsa ed Evaristo Breccia, il vero e sapiente promotore.
Negli anni Sessanta, alla ripresa, pur tra mille vicissitudini, un nuovo punto fermo lo mise Sergio Donadoni con il suo prezioso Promemoria sui «kiman» di Antinoe
(1966). Ed ora i «dioscuri fiorentini» Rosario Pintaudi (cattedratico a Messina e custode dei papiri in Laurenziana) e Guido Bastianini (attuale direttore del Vitelli) hanno compiuto l'opera. Intorno a loro una schiera di giovani che sopperiscono con l'entusiasmo e la fiducia nella ricerca, e nei loro maestri, alla mancanza di una dignitosa e meritata collocazione nella sclerotica e pluririformata, e perciò boccheggiante, Università italiana. È ben vero che è tipico del nostro ceto intellettuale, soprattutto dei più giovani (che sono spesso tra i più bravi come Diletta Minutoli, «volontaria» a Messina e ad Antinoupolis) questo «idealismo» del lavoro fatto per «l'arte». Il che tanto più colpisce a fronte dell'elefantiasi burocratica dei nostri atenei ridondanti di uffici inutili.
Lo scavo archeologico è, per natura, uno dei luoghi dove più facile è che si realizzi la collaborazione internazionale. Nel caso dell'Egitto, terra d'elezione della papirologia mondiale, c'è un legame in più che si determina di necessità. È finita da un pezzo l'epoca della gestione «colonialistica» dei beni culturali sepolti sotto il suolo egiziano. Anche se ogni tanto qualche misteriosa (ma non troppo) esportazione clandestina si riaffaccia rumorosamente alla ribalta. L'argomento con cui un tempo veniva zittita la protesta dei nazionalisti egiziani contro il saccheggio era — anche da parte di caste locali infeudate all'Occidente — che gli egiziani non disponevano di studiosi competenti per valorizzare quei tesori. Forse l'argomento era già discutibile allora (ne parlammo diffusamente nel Papiro di Dongo, Adelphi), certo non è accettabile ora, quando l'Egitto dispone di forze notevolissime e qualificate e di un patron dell'Archeologia quale Zahi Hawas, che anche per gli scavi di Antinoupolis è stato e continua ad essere una sponda preziosa. Ma allo scavo partecipano anche ricercatori tedeschi, belgi, cechi. Insomma la missione italiana (anche se gli elargitori di fondi ministeriali non se ne sono accorti) è al centro di una rete internazionale di grande prestigio. Vedremo presto gli altri volumi. E conosceremo la storia della città di Adriano come s'è sviluppata nei secoli: attraverso le monete, e poi il santuario di San Colluto. Uno spaccato della storia mediterranea attraverso un punto di osservazione privilegiato.
Il volume quindicesimo della gloriosa serie fiorentina ci ripaga di una lunga attesa. Centoventidue testi editi con la acribia di sempre, dei quali solo settantasette erano già noti da pubblicazioni parziali. Quasi sessanta sono i testi letterari, e i quattro pezzetti figurati (1571-1574) fanno giustizia, al solo vederli, di tante recenti fantasie in questo campo, dove è così facile prendere abbagli. Tra tanta ricchezza di materiali piace qui ricordare, in conclusione, un caso cui già facemmo cenno nel Papiro di Dongo. Ancora una volta una intuizione testuale di Medea Norsa viene confermata. Parliamo dell'attuale nr. 1480, che è con tutta probabilità un nuovo pezzo di Menandro, come Norsa ben vide (e intendeva già pubblicarlo nel 1948 nel volume XIII). Dopo un vario «errare» tra altre ipotesi si torna a Menandro, come all'ipotesi più probabile. I padri fondatori della papirologia italiana possono andar fieri dei loro eredi.

il Riformista 3.10.08
Esordi. Domenica inizia su Raiuno la maratona biblica
Papa Ratzinger fa il provino per la sua prima tv
di Paolo Rodari


Dicono nei sacri palazzi che, per il grande evento, il Papa abbia voluto fare anche una prova. Già, perché non capita tutti i giorni di andare davanti a delle telecamere a leggere la Bibbia. Anzi, a nessun Pontefice prima di Benedetto XVI era mai successo. E, dunque, occorre prepararsi bene, provare i microfoni, valutare postura e tono della voce. E così Ratzinger ha fatto. All'interno del palazzo apostolico, in piedi dietro un leggio, zucchetto in testa e occhiali ben inforcati, Benedetto XVI ha provato a leggere per intero il testo che, domenica sera, aprirà la maratona televisiva organizzata dalla Rai (fino all'11 ottobre) nella quale il testo sacro (dalla Genesi all'Apocalisse) verrà letto da svariate personalità collegate via video dalla basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Al Papa è toccato il primo e il secondo capitolo (fino alla prima parte del quarto versetto) della Genesi. Lo leggerà in italiano, a eccezione di poche parole che saranno pronunciate in ebraico.
Al Pontefice non serviranno né trucchi né maquillage. Casomai, al massimo sarà il suo fidato segretario particolare don Georg Gaenswein, ad aggiustargli lo zucchetto prima delle riprese qualora ve ne fosse bisogno. La lettura del testo biblico durerà soltanto pochi minuti e, subito dopo, in perfetto ecumenical style, saranno il vescovo ortodosso del patriarcato di Mosca, Hilarion Alfeev, e Maria Bonafede, moderatrice della Tavola valdese, a continuare.
A differenza degli altri lettori il Papa non leggerà in diretta. Il suo intervento verrà registrato in una stanza del palazzo apostolico dal Centro televisivo vaticano che invierà poi il nastro alla Rai. Sono state le udienze da concedere ai tanti vescovi che domenica arriveranno in Vaticano per l'apertura del Sinodo dedicato alla Parola di Dio a non permettere la diretta.
Un Papa in tv a leggere la Bibbia è un evento che non ha precedenti. Quando la televisione arrivò in Italia, Pio XII era alla fine del suo pontificato. Probabilmente lui e tre dei suoi cinque successori (Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo I) mai avrebbero accettato di apparire in una maratona televisiva la quale, seppure abbia al proprio centro il testo sacro, resta pur sempre una non-stop-tv. Pacelli, Roncalli, Montini e chissà, forse anche Luciani, difficilmente avrebbero accettato di perdere quel carattere ieratico e sacro che contraddistingueva il proprio pubblico apparire. Non così Ratzinger, che sta smentendo ogni giorno di più l'immagine cucitagli addosso di freddo professore tedesco. Proseguendo, in questo senso, nella strada aperta da Papa Wojtyla. Fu lui a rompere gli schemi. A far diventare ordinario ciò che non lo era. A far fruttare in ogni suo pubblico apparire le esperienze teatrali intraprese in gioventù. Fino a Luciani - che pure, nelle poche occasioni che ebbe, ruppe il protocollo - il Papa in pubblico doveva, nel limite del possibile, nascondere i propri sentimenti. Da Wojtyla in poi, no. Ratzinger si è adattato a questa rottura protocollare wojtyliana. Fino ad arrivare a leggere in tv la parola di Dio all'interno di un evento del tutto sganciato da ogni azione sacramentale. Una lettura che i più non avrebbero detto nel suo stile. Ma è anche vero che nessuno avrebbe osate immaginare Benedetto XVI assorto in una moschea di Istanbul.

l'Unità 3.10.08
Tesori sottratti al saccheggio
Una mostra al Colosseo celebra 100 anni di tutela del patrimonio nazionale
di Adele Cambria


LE EMOZIONI si sprigionano subito, appena comincia la visita-guidata da Adriano La Regina e dalle giovani archeologhe (e curatrici del catalogo) Elena Cagiano de Azevedo e Roberta Geremia Nucci. La prima sosta è a un meraviglioso altorilievo marmoreo che costituiva la fronte di un sarcofago romano del I°-II° sec.d.C. Si intrecciano, in una plastica raffigurazione quasi carnale, i giovani corpi dei figli e delle figlie di Niobe,(i Niobidi) mentre si consuma su di loro, fra loro, la strage provocata dall'invidia di Latona/Giunone: che invia sulla terra i propri figli, Apollo ed Artemide, con il compito di ucciderli tutti,7 maschi e 7 femmine, per punire Niobe di essersi vantata di una prole più numerosa, e più ardita e splendente, di quella della Dea. Il mito che Ovidio ci trasmette nelle Metamorfosi contiene un monito primario: avverte i mortali di non suscitare mai l'invidia degli Dei..
Quest'opera d'arte sta qui, a documentare la prima sezione della mostra e ha come titolo: «Alle origini della tutela». Infatti la sorte di questo capolavoro si intreccia attraverso i secoli con quella di un altro rilievo con scena di sacrificio (qui rappresentato da un calco): che, nonostante esaltasse il rito pagano del sacrificio di un toro, decorava la porta della Biblioteca di San Marco a Venezia. Ma l'originale fu prelevato dai francesi nel 1797, e mai più restituito.(Si trova al Louvre). In compenso, tuttavia, Venezia, nel 1816 inclusa nell'impero austro-ungarico, si ebbe, dai francesi, lo splendido altorilievo della strage dei Niobidi, murato su una porta del "gran salone" della Villa Borghese, ed anch'esso asportato dai francesi, in periodo napoleonico. «Perché secondo il gusto dell'epoca, nella prima metà dell'Ottocento - spiega La Regina - il sarcofago Borghese era ritenuto di minor valore.
Sosta successiva, davanti alla incantevole statua della Ninfa (anch'essa databile alla fine del I° sec.d.C., ma la testa è più antica), ritrovata nel cortile di Palazzo Carafa Colubrano, a Napoli: i Borboni tentarono di far restare quel capolavoro a Napoli senza riuscirci. La statua fu offerta in vendita J.Wolfang Goethe. E lui seppe resistere alla tentazione di impossessarsi del capolavoro, passato alla storia come "La ballerina di Goethe", accettando il prudente consiglio dell'amica pittrice Angelica Kaufmann. Rivedendo poi la sua "ballerina" nel Museo Pio Clementino in Vaticano(dove si trova tuttora), Goethe espresse rimpianto per «non essere riuscito a portarla in Germania, per associarla a qualche grande raccolta patria».
Recentissime invece le avventure della delicata «Divinità femminile in trono», in argilla rosata, di produzione etrusca del III-I sec. a.C., ritrovata nel corso degli scavi a Luco dei Marsi(L'Aquila), e che è stata scelta come logo della mostra. La dea madre - forse Angizia(Demetra-Cerere) - fu prelevata (e salvata dai tombaroli) al lume delle torce elettriche, dagli archeologi della Soprintendenza d'Abruzzo, scortati dai carabinieri, nella notte del 18 luglio 2003. Ora si trova nel Museo Archeologico "La Civitella" di Chieti.
Tutt'altro capitolo, e drammatico, quello delle esportazioni in Germania fra il 1937 e il 1944. Scrive, nel catalogo, Roberta Geremia Nucci: «Il saccheggio cominciò nel 1937, quando giunse in Italia la prima Commissione del governo tedesco, presieduta dal principe Filippo d'Assia, per la selezione delle opere da 'acquistare', con l'assenso del ministro degli Esteri Ciano o di Mussolini, nonostante i pareri negativi del Ministro dell'Educazione Nazionale Bottai. Singolare la sorte del "Dioniso", una statua gigantesca che fu consegnata all'Ambasciata tedesca il 15 gennaio 1944, e trasferita a Weimar per servire al culto di Nietzsche-Dionysos. Recuperata nel 1991, si trova ora nel Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo alle Terme. Ma la testa originale di "Dioniso" è, dal 1966, nel Ashmolean Museum di Oxford.

marieclaire ottobre 2008
Le attrici non mangiano
E poi: sono delle aliene, per sfondare devono elargire favori sessuali mirati...
Falso. Se siete stufi dei soliti luoghi comuni e ritratti doc, leggere questa sceneggiatura-intervista con Valentina Lodovini. E consolatevi: la vogliono i migliori registi ma non gli uomini che vorrebbe lei
di Luca Rossi

1. CASA LUCA. Int. giorno.
DETTAGLIO del microfono di un telefono vicino alla bocca di un uomo.
Valentina (Fuori Campo): ... In piazza Guadalupe c'è un'edicola, ci possiamo vedere lì.
Luca (FC) (stupito) : Ma c'è un bar, lì, un posto carino dove possiamo andare?
Valentina (FC) No, uno carino no. È chiuso per ferie.
La macchina da presa allarga sull'uomo al telefono, Luca Rossi, 52 anni, capelli brizzolati, abbastanza lunghi, occhiali. Ha un'espressione perplessa, quasi infastidita.
Luca: Be', con questo caldo... Se dobbiamo stare un paio d'ore ...
2. CASA VALENTINA. Int. giorno.
PRIMO PIANO di Valentina Lodovini, 28 anni, attrice. Capelli castani lunghi, occhi grandi, un po' gonfi. Anche lei ha un'espressione infastidita.
Valentina: Allora forse potremmo vederci a Prati, da Antonini ...
Luca (FC) (sollevato): Sì, meglio ...
3. CASA LUCA. Int. giorno. Luca abbassa il telefono, scuote la testa.
Luca (voce pensiero): Cominciamo bene ... Davanti all' edicola ... Valentina Lodovini, zero in pierre ...
4. BAR ANTONINI. Est. giorno.
Valentina è seduta a un tavolino all'ombra. Ha una tshirt rossa, occhiali da sole, calzoni bianchi un po' sporchi sulle tasche, ballerine nere. Davanti a lei Luca, camicia bianca e blue jeans, con un taccuino in mano. Sul tavolo ci sono solo due acque minerali.
Luca: Perché non mi hai invitato a casa tua?
Valentina (sorridendo): E ti pare che facevo salire un giornalista a casa mia? Così poi guardavi che libri leggo, i miei quadri, i cd ...
Luca: Appunto. Che c'è di male?
Valentina(vagamente scandalizzata): Non mi va. Secondo me, l'attore deve rimanere il più anonimo possibile, così può fare più parti. Lo spettatore non lo identifica. Io mi sento più spettatrice che attrice.
Luca: Cioè?
Valentina (guardandosi intorno): Nella folla mi vengono gli attacchi di panico. Davanti alla camera o in teatro no, ma nella vita sì.
Luca: Perché?
Valentina: Non so, nell'incontro con gli altri ho sempre paura di essere sbagliata, o di sbagliare.
Luca(secco): Com'eri da bambina?
Valentina (veloce) Solitaria, sognatrice, riservata, testarda.
Luca: Di dove sei?
Valentina (illuminandosi): Di San Sepolcro, un paese in provincia di Arezzo. Luca (ironico): Una paesana.
Valentina (ridendo, annuisce): Paesana e campagnola. (Convinta, come ricordando) Lì c'è il mio fiume, il Tevere, che è il posto dove mi sento più sicura. Attraverso un bosco selvaggio, non tanto, diciamo cinquecento metri, arrivo a un'insenatura con delle rocce, e c'è il punto preciso: leggo, faccio il bagno nei gorghi ... Se poi ti muovi, c'è la cascatella, altre rocce, altri gorghi ...
Luca (interrompendola): Non ti va stretto, il paese?
Valentina: No, per niente. Ci torno appena posso. (Leggermente ironica) E poi guarda che a San Sepolcro ci sono un sacco di cose. È il paese di Piero della Francesca, c'è la Madonna del Parto. (Seria) La prima volta che l'ho vista ero una bambina, mi ha quasi spaventata, era come se trasudasse vita. E poi ci sono la casa di Michelangelo, quella di Burri, l'arte è molto viva, è un' oasi felice. (Ironica) Ci sono un sacco di corsi d'inglese, il Palio della Balestra ... E poi lì io ho cinque nipoti, un fratello, una sorella, i miei genitori ...
Luca: Se dovessi definire la Toscana?
Valentina (pensandoci un attimo): Eleganza, generosità, e anche discrezione.
Luca: Come hai cominciato?
Valentina: A sei anni, guardando Saranno famosi. Ho pensato subito: vorrei fare una scuola come questa. (Sorridendo) Non ne perdevo una puntata, sapevo a memoria tutti i balletti. Continuo a danzare anche adesso, mi dà disciplina, senso dello spazio. E poi un attore deve saper fare più cose ...
Luca: I film che ti hanno cambiato la vita?
Valentina: (veloce) Bellissima, prima di tutto. Il silenzio degli innocenti mi ha spinta a fare l'attrice, e poi Paisà. Lì mi è proprio scattato l'amore.
Luca (sorpreso): Un film di Visconti del '51, uno di Rossellini del '46, e un horror. Non dovevi essere molto popolare tra i ragazzini di San Sepolcro.
Valentina: No. (Sbrigativa) Ho sempre avuto problemi di relazione, mi autoescludevo. Ma non sono popolare neanche adesso. La fama ti tiene lontana dalla realtà, il successo invece fa parte del lavoro.
Luca: E infatti lavori con i registi più snob. Francesca Comencini, Anna Negri, Carlo Mazzacurati, Paolo Sorrentino, Marco Risi ... (Ridendo, provocatorio) O fai pompini molto mirati, o sei davvero bravissima.
Valentina arretra, si scompone, fa un gesto come di meraviglia, poi scoppia a ridere.
Valentina: Ma no dai, io non ci credo ... (Imbarazzata) Non ci credo che funziona davvero così. (Cambiando tono) Ma tu allora i miei film non li hai mai visti?
Luca: No.
Valentina: Be', anche alcuni dei registi con cui ho lavorato non li avevano visti ... (Ridendo) Ma non me l'hanno mai chiesta, e io non l'ho mai data. Mi hanno fatto fare dei provini, e mi sono trovata in ambienti meravigliosi, con gente che si sporca, che rischia, che non si adagia su un passato glorioso. Persone semplici, vive, umanamente bellissime, non spocchiose, con un senso dell'umorismo incredibile, che mi hanno accolta e sostenuta. Troupe unite, che collaboravano per riuscire a fare quel film. (Ironica) Ora sono preoccupata, non può andarmi sempre così bene ... (Seria) Una volta sola sono stata scelta da un regista che poi però non parlava con me, non mi voleva. E il mio corpo ha preso il sopravvento: che bel seno, che belle gambe, era tutto lì.
Luca: Il provino con Sorrentino?
Valentina: Avevo il cuore a mille, mi sembrava irreale conoscerlo. Ma in parte ero anche tranquilla, ero sicura che non l'avrei visto una seconda volta. Abbiamo parlato dieci minuti, gli piacevano le mie scarpe.
Luca: Che scarpe?
Valentina (con un luccichìo negli occhi): Ballerine rosse.
Luca (guardando i piedi di valentina): Tacchi mai?
Valentina: Sì, perché no? Mi piace trasformarmi, mi piace che non mi riconoscano. È successo persino a una mia amica, mi ha vista da lontano e non ha capito che ero io. Ma della moda non me ne frega un cazzo, m'informo giusto per ragioni d'immagine.
Luca: E comunque il provino è andato bene, Sorrentino ti ha presa.
Valentina: Sì, quando me l'ha detto ero incredula. E poi con lui ho vissuto questa scena meravigliosa, c'era il qui e ora, non so come spiegarmi, e poi non lo so ... (Confondendosi) Non so se voglio dirlo, magari a lui non fa piacere ...
Luca (scoppiando a ridere): E perché mai?
Valentina: Sì, no, non lo so ... (Come imbarazzata) È che a volte non riesci a vivere la scena, quel preciso momento, e invece lì è successo, era buio, io dovevo fare una ragazza con un usuraio, che gli deve dare un anello, e insomma alla fine c'era una tensione, un'intensità mai provata. Se n'è accorto anche lui, mi ha fatto i complimenti. Sono tornata a casa e mi è venuta la febbre a quaranta.
Luca (ridendo): E perché?
Valentina (grave): Perché io accetto più il dolore che l'amore. Guarda anche adesso: il mio sogno è diventato realtà, faccio l'attrice, dovrei essere felice, sorridere, invece sto male, lo vivo con angoscia, mi sento in debito, mi vengono i dubbi: addio perché mi ha scelto, forse si sta sbagliando ...
Luca: Con gli uomini è lo stesso?
Valentina (annuendo): Se sto bene, devo subito trovare un motivo per litigare. Loro rimangono spiazzati, o mi abbandonano. (Lucida) E allora è come una conferma: sono inadeguata, una donna che può solo essere abbandonata. Non sono mai in controllo della situazione, in genere vado verso uomini che non mi vogliono: Valentina subisce, in amore. (Intensa) M'hanno tradita sempre, e io perdono sempre. Faccio finta di niente, ma poi qualcosa si rompe, e ogni donna che vedo è meglio di me. Magari in maniera contorta, ma io amo l'altro più che me: sto bene quando faccio qualcosa per lui, quando lo faccio sentire amato, quando trovo la semplicità. Farlo sentire uomo: quello mi fa star bene.
Luca: Fammi un esempio.
Valentina (con una pausa, ricordando): Stavo girando un film complesso, ero in una città e il giorno dopo avrei dovuto raggiungerne un'altra, ho guardato gli orari degli aerei, ho organizzato tutto e sono tornata a Roma solo per stare di fianco a lui quella notte. Quando mi sono svegliata con il suo corpo vicino, e poi andando via in taxi, mi sentivo molto piena: mi ero lasciata andare, avevo superato le mie seghe mentali. (Cambiando tono, più decisa) Adesso sto interpretando ruoli di donne molto diverse, pratiche, che amano e poi se ne vanno, e quelle donne mi stanno cambiando, mi tolgono una parte adolescenziale, così cresco: devo ringraziare il mio lavoro. Faccio cinema per ricongiungermi con me, non per scappare da me.
Luca: Il primo bacio?
Valentina (sorridendo): A 17 anni, al Palio della Balestra. C'era questo ragazzino che mi piaceva, lo guardavo da lontano, mi avvicinavo appena, in modo che intuisse. Finalmente siamo andati a passeggio sul corso, e lui mi ha baciato a tradimento, di scatto. Mi ricordo che ero stupita, non tanto per il bacio, ma perché mi chiedevo: ma che, gli piaccio?
Luca (guardandola): E tu, ti piaci?
Valentina: Il mio corpo, no, non mi piace. Ma non è importante.
Luca: E agli altri piace?
Valentina (sorridendo, ma dura) Chiediamolo agli altri.
Luca: (con uno sguardo d'intesa) Chi sono gli altri?
Valentina: O hanno la mia età, o vent'anni di più.
Luca (insistente): Quali sono meglio?
Valentina: Gli uomini sono sempre tutti immaturi, ma è più stimolante con i più grandi. (Con un'occhiata obliqua) Uomini che non scappano da se stessi.
Luca: E gli altri altri, come ti percepiscono?
Valentina: Se sanno che sei attrice, ti tengono un po' lontana. O pensano che sei un' aliena e che te la tiri, e allora ti devi proteggere, o ti adorano e sono pieni di attenzioni. lo mi adeguo, cerco di far capire che sono io. A Napoli ero andata ad allenarmi al Convitto per una scena di pallavolo. Sono arrivata presto, mi sono seduta al!' ombra mangiando un panino. Il portiere e gli altri erano diffidenti. Quando ho detto che dovevo girare un film è cambiato tutto: «Sei attrice?». Non la finivano più di scusarsi, volevano l'autografo, si stupivano del panino. (Ridendo) «Ma le attrici non mangiano», dicevano.
Luca: Guadagni tanto?
Valentina: In questo mestiere puoi guadagnare anche mille euro al giorno, ma poi stai ferma anche sei mesi. Ma dei soldi non me ne frega niente: quelli che guadagno li spendo in affitto, sigarette, corsi e viaggi. Per dirti: stavo girando Coco Chanel a Roma, venerdì lavoravo, domenica dovevo andare a Lione, ma ho visto che a Londra c'era Ewan McGregor che faceva Jago in Otello. (Con un luccichìo negli occhi) Ho detto: lo devo vedere. A parte McEwan, che mi piace da morire, Shakespeare è bello anche quando è brutto. Ho preso un aereo, all' una di notte io e la mia amica eravamo davanti al botteghino. Non c'era nessun altro, solo un topo. Verso le quattro ha cominciato ad arrivare la gente, ma noi eravamo le prime della fila, e quando hanno aperto abbiamo avuto i biglietti. Ce n'erano solo dieci, capisci? Siamo andate a dormire in un albergo lì vicino, un quattro stelle, sfinite, e alla sera ci siamo visti un Otello pazzesco. (Ammiccante) Ed Ewan McGregor. Ecco, è così che li spendo. (Ricordando) Ah, il topo lo chiamavamo Ratatouille.
Luca: Ti piacciono le favole?
Valentina: Sì, molto. Mi piacciono le eroine che vanno fino in fondo.
Luca: La tua preferita?
Valentina scuote la testa, pensa, scuote ancora la testa.
Valentina: Adesso non mi viene in mente, te lo dico dopo.
5. CASA LUCA. Est. giorno.
Luca arriva in moto davanti a casa, spegne il motore, scende, si sfila il casco. In quel momento si sente il beep del cellulare. Luca lo prende, lo apre.
DETTAGLIO dello schermo del cellulare con un sms: La Sirenetta. Un pensiero e un sorriso. Da: Valentina Lodovini.