venerdì 13 ottobre 2006

L’espresso 12.10.06
Bellocchio è tornato in famiglia
Due zie zitelle. Due giovani inquieti. E la figlia del regista. Che fa rivivere il set dei 'Pugni in tasca'. Unendo nostalgia e sperimentazione
colloquio con Marco Bellocchio
di Alessandra Mammì


Proprio buono, Marco Bellocchio non è diventato. Ma di certo c'è molta tenerezza in questo ultimo lavoro, che non è propriamente un film né un documentario: piuttosto un collage di frammenti di un discorso amoroso e familiare. La sua, di famiglia, nel cast compare quasi tutta. Ci sono le due sorelle maggiori Letizia e Maria Luisa, il figlio Pier Giorgio, la figlia Elena e la casa di Bobbio dove lui andava in vacanza fin da bambino. La stessa casa dei 'Pugni in tasca', allora claustrofobica e terribile, ora invece domestica, anzianotta e affettuosa. Piena di cose che sono lì da sempre, e non si sa più neanche se belle o brutte, come i nei sulla pelle di tutte le vecchie case di famiglia.

'Sorelle' (che vedremo il 19 ottobre alla Festa di Roma in un confronto ravvicinato con 'Histoire d'eaux', un piccolo film quasi inedito di Bernardo Bertolucci) non è propriamente un film, ma il risultato di un lavoro fatto nel tempo per gli allievi della sua scuola, girato in digitale, diviso in tre episodi diluiti in un arco che va dal 1999 a oggi. La storia poi è in bilico fra verità e finzione. Veri sono gran parte dei ricordi e dei racconti delle due sorelle; immaginaria è la storia dei due fratelli (Pier Giorgio Bellocchio e Angela Finocchiaro) imprigionati nel loro destino di ragazzi di provincia. Vera è la soffocante quotidianità dove ci si invecchia senza accorgersene; immaginaria è la storia della bambina (Elena Bellocchio) che vediamo a cinque, nove e dieci anni, crescere serena e da brava cattolica sotto l'amorevole cura delle zie. Veri sono i flash, i fotogrammi dai 'Pugni in tasca' che arrivano come incursioni nello scorrere placido del film. E vera, verissima, è quella provincia italiana borghese, un mondo tutto sommato solido, pieno di buon senso, discrezione, valori semplici e cultura diffusa, che sembra destinato a scomparire. Quel mondo che nei 'Pugni in tasca' generava rabbia e ribellione e che ora invece suscita nostalgia.

La sua casa, le sue sorelle, i suoi figli, i suoi film, i luoghi dei 'Pugni in tasca'. Marco Bellocchio, che cos'è 'Sorelle': un film sperimentale o una pagina di diario?
"Soprattutto un risarcimento verso due donne nubili, vittime sia pure discrete di una educazione a cui hanno in qualche modo sacrificato la loro vita e sul cui destino non ho alcuna responsabilità diretta, ma che sentivo di dover risarcire".

Due donne serene e deliziose, però. Genius loci di una casa e di una provincia quieta. Stesso set, ma ben altra cosa del teatro di conflitti dei 'Pugni in tasca'.
"Non ho più nessun rancore per questi ambienti. Resta benevolenza e un tocco pacificato. Non ho più neanche quell'età e non procedo più per scatti di rabbia. Ma se son tornato in quei luoghi è per trovare comunque strade nuove, sia pure in un film che, come un acquerello, descrive per accenni, con leggere allusioni a drammi più profondi".

E con una tecnica digitale che stupisce in un regista come lei, così attento al controllo dell'immagine.
"Il digitale è scelta obbligata se, come in questo caso, si tratta di girare in soli 15 giorni e con attori improvvisati un'intera storia, dalla sceneggiatura al montaggio. Realizzare concretamente un film è il mio modo di insegnare in una scuola che non a caso si chiama Fare Cinema".

Fare cinema significa anche assumersi dei rischi, ci ha spiegato al Festival a Venezia, ricevendo il premio Bianchi. E ha aggiunto: "Purtroppo oggi nel cinema non vedo nessun rischio". Cosa voleva dire?
"Il rischio fa parte della ricerca di un artista. A Venezia nel ricevere il premio ho scelto di proiettare 'Il diavolo in corpo' perché è il film dove ho rischiato di più".

Cosa ha rischiato?
"Non solo ho rotto con il produttore, ma ho rischiato di passare per pazzo, uno plagiato da un guru come Massimo Fagioli, psichiatra con la sfrontatezza di rinnegare totalmente Freud. La mia scelta di portarlo sul set era una contrapposizione radicale rispetto alla cultura dominante. Ho messo in pericolo tutto: la serenità economica, i rapporti personali, l'identità di artista che la cultura di sinistra fino allora mi aveva riconosciuto. Ma avevo la convinzione profonda di essere sulla mia strada di ricerca, e sia pure nella sua drammaticità quella vicenda mi ha dato ragione. Se mi fossi piegato e avessi banalizzato il film, allora sì che sarebbe stato un suicidio. Non c'è niente di peggio per un artista che rinnegare se stesso".

Ma perché il cinema oggi non ha più la forza di rischiare?
"Io continuo a correre i miei rischi, ma ho l'impressione che i giovani tendano più a imitare i loro padri e a cercare consenso. Da 'Notte prima degli esami' a 'Tre metri sopra il cielo' si chiede ai giovani di fare film facili dove altri giovani si riconoscano. Tutti film facili che nascono dalla costola della televisione".

Non tutti sono così.
"No, solo la maggior parte. Alcuni provano a correre rischi nella forma e nel contenuto. Sia pure disordinato e in parte ridondante mi ha colpito molto un film come 'Sangue' di Libero De Rienzo. Temo però di non vedere in generale questa spinta verso la ricerca, verso l'ignoto che noi avevamo".

E allora parliamo dei padri, lei e Bernardo Bertolucci, e del pubblico incontro alla Festa di Roma di una storica coppia antagonista, come i Beatles e i Rolling Stones.
"Io direi come Piacenza e Parma".

Ovvero?
"Piacenza, la mia città, è dura, aspra, ottusa. Parma, la città di Bernardo, è la capitale, la bellezza, l'arte. Ha un approccio più morbido con la cultura e la vita. Noi siamo diversi a cominciare da lì. Poi io ho fatto il centro sperimentale, mentre lui era assistente di Pasolini e figlio naturale di un mondo intellettuale. Avevamo riferimenti comuni, ma differente carattere anche cinematografico. Negli anni Sessanta un asso legava fortemente Bernardo alla Nouvelle Vague e all'intero partito dei godardiani. Io, invece, pur stimando Godard, guardavo altrove, mi interessavano più i maestri del passato, da Buñuel al realismo francese anni Trenta. Avevo bisogno, allora come adesso, di storie con traiettorie chiare, che si capiscano a una prima lettura, senza bizzarrie gratuite e nessun estetismo. Un rigore che risponde alla mia formazione. Poi Bernardo, dopo la stagione godardiana, è approdato a film di successo come 'Il conformista' o 'Ultimo tango', fino alla stagione hollywoodiana. È diventato un regista internazionale e ci siamo persi di vista".

Lei però non è un regista piacentino...
"No, ma i miei film, sia pure proiettati in Cina o in Russia, rimangono film di un autore che arriva dall'Italia".

Poi vi siete ritrovati nel 2003 al Festival di Venezia. Lei con 'Buongiorno Notte', lui con 'The Dreamers'. Due film che almeno nel tema suggerivano analogie.
"Indagavano su una stessa realtà, ma con forme che hanno continuato a dimostrarsi profondamente diverse. Lui parlava del sogno dei rivoluzionari, io degli incubi dei terroristi".

E ora eccovi insieme, nel ruolo di padri e maestri del cinema italiano.
"Non so come Mario Sesti abbia immaginato di organizzare questo incontro. Io ho suggerito di dargli come titolo quello di un dittico di Boccioni: 'Stati d'animo: quelli che vanno e quelli che vengono'. E su questo Bernardo è perfettamente d'accordo".

l’Unità 13.10.06
Mussi: «Non chiamateci scissionisti»
Il correntone: congresso «blindato» o niente. La Sereni: nel Pd c’è bisogno di voci critiche
di Simone Collini


«IL NOSTRO DISSENSO resta integrale, vogliamo fare la battaglia congressuale», dice Fabio Mussi al termine della riunione di parlamentari e coordinatori locali del Correntone. Ma ora è chiaro che la battaglia nei Ds comincerà prima ancora che si aprano i lavori che dovrebbero traghettare la Quercia verso il Partito democratico. Lo scontro si aprirà già sul regolamento con cui andare al congresso. Non è una novità, prima di ogni assise si gioca una dura partita su questo fronte, con la maggioranza di turno impegnata a tutelarsi e le minoranze che puntano a essere rappresentate nel miglior modo possibile. Stavolta però è diverso, perché tra le file della sinistra diessina c’è chi non esita a legare all’esito di questa battaglia la decisione se partecipare o meno al congresso. Una posizione estrema, che nessuno ha interesse a rendere esplicita, ma che viene fin d’ora messa in conto.
«Questo non è un congresso in cui si discute, purtroppo, la decisione è stata già presa», lamenta il salviano Giorgio Mele, per il quale sarebbe «necessario trovare una forma più snella di svolgimento dei lavori, che permetta ampia partecipazione e certezza delle regole». Ed è proprio sulle regole che insiste Mussi. «Chiederemo garanzie», fa sapere dopo aver riunito i suoi in una sala di Montecitorio, una anagrafe degli iscritti «nota» e l’individuazione di una data (quando il Consiglio nazionale convocherà il congresso) in cui bloccare i tesseramenti per evitare rigonfiamenti a ridosso dell’apertura dei lavori. E poi, «qualora si decidesse per una votazione diretta da parte della base del segretario, allora dovrà esserci un voto segreto», annuncia il ministro dell’Università e ricerca. Il motivo? Semplice: «Non ne abbiamo ancora parlato, ma penso che presenteremo una nostra candidatura alla segreteria al prossimo congresso Ds».
Se su questa candidatura convergeranno tutti i critici del Partito democratico si vedrà. L’orientamento è questo, e una tappa di avvicinamento in questa direzione è la contro-Orvieto messa in agenda per i primi di novembre, alla quale si metterà a punto un manifesto per una sinistra socialista ed europea e alla quale parteciperanno tutte le componenti diessine contrarie al processo unitario delineato al seminario umbro della scorsa settimana. Vale a dire il Correntone e l’area che fa capo a Salvi, per il quale «Prodi dovrebbe occuparsi meno di creare nuovi partiti e di più dei problemi delle fasce più deboli del Paese», ma anche esponenti della maggioranza che hanno partecipato al seminario di Orvieto. Valdo Spini lamenta il fatto che proprio in quella sede «non c’è stato modo per chi voleva difendere la tesi della piena adesione del Partito democratico al Pse, di andare oltre l’intervento nelle commissioni di lavoro», Giuseppe Caldarola giudica non convincente «né culturalmente né nell’idea di forma partito» il percorso delineato e Gavino Angius non esita a dire che se il nuovo partito è quello di Orvieto, «assomiglia tanto a Fi, con un supervertice e con una base che ogni tanto è chiamata a pronunciarsi».
E se, in un gioco di intrecci in vista del congresso, Caldarola giudica possibile «un dialogo utile con il Correntone» e Mussi dice «parleremo con Angius», un appello da parte della maggioranza arriva da Marina Sereni: «È importante che nel Partito democratico ci siano tutti, anche i critici, perché anche il dissenso è importante se è costruttivo». Ma benché non voglia guardare al dopo-congresso (e tanto mento voglia sentir parlare di scissione: «Noi non diremo mai che chi vuole sciogliere i Ds è un traditore, perché il Pd è una proposta politica, ma non voglio sentir dire che avere un’altra idea politica è scissionista») Mussi lancia un segnale oltre i confini della Quercia: «La Sinistra europea è una cosa interessante», dice il leader del Correntone guardando alla creatura a cui sta lavorando Rifondazione. E il fatto che questa forza non faccia oggi parte della famiglia socialista non impensierisce il ministro: «La formazione del Pd rimetterà in movimento tutto».

l’Unità 13.10.06
E il partito democratico ha una nuova corrente: i Teodem
Loro negano, ma i «cattolici rutelliani» puntano a rappresentare l’area cattolica in alternativa agli ex popolari
di Federica Fantozzi


TENDENZA TEODEM I fondatori hanno appena chiarito di non essere i Papa-boys né un riposizionamento interno dielle, quando Ilvo Diamanti soave pren-
de la parola: «Da tanti anni studio i partiti, vi ringrazio di avermi invitato a vedere dal vivo la nascita di una corrente». La senatrice Paola Binetti resta di stucco: «Veramente noi siamo al massimo una tendenza». E Diamanti: «Certo, anche De Gasperi diceva così della sua area politica dentro la Dc».
Primo giorno del seminario Teodem, la componente cattolico-rutelliana che ha lanciato il guanto di sfida agli ex Popolari nella Margherita. I promotori sono la Binetti, Enzo Carra, l’ex presidente delle Acli Luigi Bobba, Emanuela Baio Dossi. Esplicito l’interrogativo che fa da filo conduttore della tre giorni (dove oggi interverrà Rutelli): «Oltre il cattolicesimo democratico?».
Sarà per questo che nella sala dei Piceni a San Salvatore in Lauro l’unico degli ex Popolari che fa capolino è Sergio Mattarella, seduto nelle ultime file. Assenti tutti i partecipanti del seminario di Chianciano, da Rosy Bindi a Franceschini a Savino Pezzotta. Mentre i Teodem dibattono con Bruno Manghi e Diamanti sui valori dei cattolici in politica e sulle aspirazioni dei ceti popolari, Pierluigi Castagnetti è al Nazareno (la scuola però, non la sede della Margherita) a presentare la rivista «Italia Domani», dedicata in questo numero a Dossetti e La Pira. Facile pensare alla restituzione di uno sgarbo recente: quando il vicepresidente della Camera presentò l’appuntamento di Chianciano, Bobba e Binetti organizzarono una contemporanea conferenza stampa. Ma non è così: in serata Castagnetti farà un salto dai «rivali».
Dal palco il deputato torinese Marco Calgaro premette che «non è che qualcuno ha il copyright della laicità in politica e gli altri sono bigotti» ma attacca il «laicismo da combattimento». Il coordinatore dielle Antonello Soro chiarisce: «Non è la riunione di una setta di fondamentalisti col delirio». Bobba polemizza a distanza con la Bindi: «Macché clericali di sinistra, io sono figlio di Grandi e mi muovo tra ortodossia e autonomia».
Nella cartellina stampa però appare un documento: la nota dottrinale del 2002 sul comportamento dei cattolici in politica firmata dall’allora cardinale Ratzinger e dal suo vice Bertone, oggi Papa e numero due della Chiesa cattolica. Un «manifesto» impegnativo per i Teodem che vieta «di favorire con il proprio voto un programma politico o una legge dove i contenuti fondamentali della fede o della morale siano sovvertiti dalla presentazione di proposte alternative o contrarie a tali contenuti». Esempi citati: aborto, eutanasia, famiglia non fondata sul matrimonio.
In platea ci sono pezzi di Acli, ceto politico romano, i diellini Treu, Lusi e Piscitello, il prodiano Mario Barbi, il diessino cristiano-sociale Mimmo Lucà.
In attesa della «benedizione» rutelliana all’iniziativa, la Margherita fibrilla. Se il Popolare Beppe Fioroni con fair play parla di «contributo utile», il prodiano Franco Monaco teme che la (duplice) resurrezione dell’identità cattolica organizzata inneschi una «corsa all’indietro» nel partito che si riverbererà sul Pd.
Specchio delle tensioni è stata la cena di mercoledì sera a casa Rutelli con Marini, Gentiloni, Franceschini, Parisi, Fioroni e Bordon. Animata la discussione sulla data del congresso dell’anno prossimo e sull’ipotesi di contarsi presentando diverse mozioni. Non solo parisiani, Popolari e Teodem: neppure la Bindi esclude un suo documento. La serata ha registrato anche un diverbio tra Arturo Parisi e Franco Marini sul principio «una testa un voto», sostenuto dal primo e avversato dal secondo. E l’inedita sinergia Parisi-Rutelli, entrambi alla ricerca di «garanzie».

Repubblica 13.10.06
La minoranza presenta la "contro Orvieto" e insiste per il voto segreto sul Partito democratico
Ds, il correntone cerca alleati "Interessanti le mosse del Prc"
Mussi: congresso presto, e forse un nostro candidato
"Nasce una formazione di incerta identità. Non voglio sentire parlare di nostra scissione"
di Carmelo Lopapa


ROMA - Non vogliono sentir parlare di scissione. Ma solo perché saranno gli altri, semmai, la maggioranza della Quercia, a dire addio ai Ds per creare «un altro partito di incerta identità». Che poi sarebbe il Partito democratico al quale invece i dissidenti interni, forti di un 20 per cento di tessere, si preparano ora a dare battaglia. Come? Cercando di costruire un fronte comune con le voci critiche della stessa maggioranza, da Angius a Caldarola, oltre che con le altre minoranze di Mussi e Bandoli, in vista del congresso. E poi guardando con occhio «interessato» alla Sinistra europea alla quale lavora il Prc.
L´iniziativa la prende il Correntone della Quercia (14,5 per cento di consensi, più di 80 mila iscritti) che ha già messo in agenda ai primi di novembre un incontro aperto a tutte le componenti diessine che hanno espresso più di una perplessità sull'accelerazione impressa alla costruzione del nuovo soggetto. Sarà la «contro Orvieto», in cui sarà presentato un manifesto politico destinato a essere la base della battaglia vera, quella che si combatterà al congresso della svolta in primavera. Lo ha annunciato il ministro Fabio Mussi, al termine delle quattro ore di confronto con parlamentari e coordinatori regionali della sua corrente della sinistra Ds. «È emerso un no corale a Orvieto e la richiesta di chiedere un congresso in tempi certi e ravvicinati - ha raccontato il leader del Correntone - perché venga restituita agli iscritti la libertà di discutere e decidere sul futuro della Quercia. Perché finora non c´è una carta, un documento su cui gli iscritti si siano pronunciati». L´intenzione dichiarata è quella di chiedere il voto segreto quando il congresso sceglierà se dare vita con la Margherita al nuovo partito, ma anche sulla scelta del segretario, perché Mussi e i suoi non escludono di avanzare una candidatura alternativa. Sarà una battaglia di principio, con possibilità di successo pressoché nulle. Le minoranze, come ha ricordato lo stesso ministro, raccolgono in tutto il 20 per cento.
Ma è il tam tam della scissione a tenere banco in casa diessina. Mussi, affiancato dai suoi, ha tagliato corto: «Non voglio sentirne parlare. Si fa un altro partito di incerta identità e noi indichiamo un´altra prospettiva politica più a sinistra. Questa non è una scissione». E siccome guardano appunto più a sinistra, ecco che il progetto di Sinistra europea del Prc viene considerato «una cosa interessante: già il fatto che si senta il bisogno di una definizione che non è solo Rifondazione, è una presa di coscienza del problema». Intanto, il Correntone dei Fumagalli e della Buffo plaude all´uscita del senatore Gavino Angius che, dalla sponda della maggioranza interna, nell´intervista di ieri a Repubblica ha promesso battaglia alla fusione con la Margherita. Sarà invitato anche lui all´appuntamento di novembre, come pure la componente ambientalista e la corrente Socialismo 2000 di Cesare Salvi. Scissione? «È una parola che usa chi vuole sciogliere i Ds per creare il Partito democratico» nicchia il senatore. Ma che la Quercia sia in turbolenza lo si capisce dalle parole di un altro big della maggioranza come Giuseppe Calderola, che ormai preferisce definirsi «ex maggioranza» e apre al «dialogo utile con il Correntone». Al meeting dei dissidenti ci sarà forse pure lui. Se poi la sinistra Ds non dovesse entrare nel nuovo partito, comunque «non ci saranno contraccolpi per il governo», secondo il ministro del Lavoro Cesare Damiano. Marina Sereni spera ancora che dentro il Pd ci siano tutti, «anche i critici perché il dissenso è importante se costruttivo». Ma il dissenso interno sembra sempre più intenzionato a costruire altro.

Repubblica 13.10.06
SE DIO CI GUARISCE
La "lectio magistralis" del cardinal Martini che riceve oggi una laurea honoris causa
Il Nuovo Testamento racconta i miracoli di Gesù che viene presentato come guaritore
Molte volte nella Bibbia si ricorda il Signore nelle vesti di colui che cura il suo popolo e ne risana le piaghe
Della potente e misteriosa divinità ebraica non si conosce il volto ma l´agire
Di Cristo medico sta scritto: Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le malattie
di Carlo Maria Martini


Ho un ricordo che risale a dieci anni fa. Sono le parole in ebraico del Salmo 8: «Che cosa è l´uomo perché te ne ricordi / il figlio dell´uomo perché te ne curi? Eppure l´hai fatto poco meno degli angeli, / di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, / tutto hai posto sotto i suoi piedi». Sono le parole che mi suggeriscono qualche riflessione su Dio guaritore. La personalità misteriosa del Dio di Israele viene espressa dalla Bibbia ebraica anzitutto con verbi di azione, poi con aggettivi e infine con sostantivi. I verbi sono quelli con cui vengono indicate le attività fondamentali di Dio a favore del suo popolo e dell´umanità, quelle che lo qualificano in maniera permanente come potente e misterioso, quelle che lo rendono presente, ma in certo senso anche lo nascondono perché non ci viene rivelato il suo volto, ma descritto il suo agire.
I verbi da tenere presente sono molteplici. Qui elenco a modo di esempio i seguenti: Dio crea la terra e l´uomo che in essa abita (Isaia 42,5-6a: «Così dice il Signore Dio, che crea i cieli e li dispiega, distende la terra con ciò che vi nasce, dà il respiro alle genti che la abita e l´alito a quanti camminano su di essa»); Dio fa promesse (Genesi 22,16-18: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore. io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la sua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare. Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni sulla terra»); Dio libera (Esodo 6,6: «Per questo dì agli Israeliti: Io sono il Signore! Vi sottrarrò ai gravami degli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi libererò con braccio teso e con grandi castighi»); Dio riscatta e salva («Non temere perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome. Poiché io sono il Signore tuo Dio, Il Santo di Israele, il tuo salvatore»: Isaia 43,1-3); Dio comanda (Esodo 34,11: «Osserva dunque ciò che io oggi ti comando»); Dio guida (Deuteronomio 8,2: «Ricordatevi di tutto il cammino per cui il Signore vi ha guidato in tutti questi quarant´anni nel deserto. «); Dio perdona (Salmo 65,4: «Pesano su di noi le nostre colpe, ma tu perdoni i nostri peccati»).
Tutti questi verbi e molti altri ancora specificano un´azione positiva di Dio verso Israele. Dio è quindi visto non come qualcuno che anzitutto sussiste in sé, nella sua indipendenza e isolamento, ma come qualcuno che opera per altri e che agisce in particolare con interventi precisi nella storia del suo popolo.
Dalla qualità e molteplicità di questi interventi si ricavano anche alcuni aggettivi, che non sono tuttavia per lo più costitutivi e «definitori» della persona, ma sono derivati dalla frequenza delle azioni indicate nei verbi. Abbiamo così la serie di aggettivi proposta in Esodo 34,6-7, in cui siamo soliti fermarci agli attributi di misericordia, dimenticando la seconda parte dell´elenco: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all´ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma che non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione».
I verbi indicano dunque le azioni costanti di Dio e gli aggettivi tentano di sintetizzare quest´azione costante, per quanto è possibile penetrare nel mistero di Dio, che fugge ad ogni definizione.
In terzo luogo vengono i nomi, presentati non come definizioni proprie e accurate ma come metafore del divino, derivati dai verbi e dagli aggettivi. A questi ultimi occorre dunque richiamarsi per comprendere il significato dei nomi.
Si è proposto di dividere i sostantivi in due categorie: quelli che esprimono una metafora di governo e quelli che esprimono metafore di sostegno.
I primi sono assai più importanti. Essi presentano la figura del giudice, del re, del guerriero, del padre. Le metafore di sostegno sono meno frequenti e presentano soprattutto Dio come colui che ha cura, mantiene, nutre, sorregge il 7-8), come giardiniere e vignaiolo, come madre, come pastore e anche come guaritore.
Quest´ultima metafora non è molto presente, ma la si trova in vari contesti nodali. Essa appare per esempio in Deuteronomio 32,39; Osea 6,1; Esodo 15,26. Una tale qualifica di Dio viene esercitata non come distacco, ma con pathos (Geremia 3,22; 8,22).
Dio guarisce in profondità e non alla leggera, come fanno alcuni profeti o sacerdoti («Essi curano la ferita del mio popolo, ma solo alla leggera, dicendo: «Bene, Bene» ma bene non va»: Geremia 8,11). Tale azione di Dio suppone un contesto di sincerità e non di menzogna o di reticenza (Salmo 32,3-5: «Tacevo e si logoravano le mie ossa. Ti ho manifestato il mio peccato, non ho tenuto nascosto il mio errore. Ho detto «Confesserò al Signore le mie colpe» e tu hai rimesso la malizia del mio peccato»).
L´Antico Testamento conosce anche i limiti di questa capacità di guarire, e questo in particolare quando la persona o il popolo resistono all´azione di Dio. Si veda Geremia 51,5-6: «All´improvviso Babilonia è caduta, è stata infranta; alzate la mente su di essa; prendete balsamo per il suo dolore, forse potrà essere guarita.
Abbiamo curato Babilonia, ma non è guarita. Lasciatela e andiamo ciascuno al proprio paese; poiché la sua punizione giunge fino al cielo e si alza fino alle nubi». Viene subito in mente il passo dei vangeli che descrive la visita di Gesù alla sua città di Nazaret: «E non fece molti miracoli a causa della loro incredulità (Matteo 13,58).
Una caratteristica di Dio guaritore nella Scrittura è che egli non si limita ad alcuni interventi di guarigione, ma pone questa sua azione nel complesso di tutto il suo agire per il popolo, sia direttamente come per mezzo dei suoi intermediari: re, sacerdoti, profeti etc. e delle istituzioni preposte al benessere di Israele, come la Toràh etc. Così anche nel nostro tempo la guarigione non è ipoteca solo di alcuni specializzati, neppure soltanto dei medici, ma si compie nell´insieme di una società che promuove l´uomo e ogni suo aspetto positivo, fino a quello che riguarda la verità e l´autenticità profonda dell´esistenza, a cui è legato anche il senso pieno del nostro benessere.
Nel nuovo Testamento la qualifica di Gesù come medico è certamente più presente, perché Gesù è caratterizzato, soprattutto nella prima parte della sua azione pubblica, come grande guaritore. Perciò i riferimenti alla sua azione sono numerosi. Si veda ad esempio Marco 1,32: «Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demoni». Si veda anche Matteo 8,16: «Venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua parola e guarì tutti i malati, perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie» (Isaia, 53,4).
La sua capacità di guarire le ferite è espressa in particolare nella sua passione. La frase più commovente si trova forse nella prima lettera di Pietro, che si richiama alla profezia di Isaia già sopra citata: «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché non vivendo più nel peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti» (Isaia 53,5.6; Ezechiele 34,1). Gesù stesso aveva detto, parlando di coloro che criticavano il venire a lui di molti peccatori e pubblicani, che: «non sono i sani che hanno bisogno del medico ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,17). In ogni caso anche qui l´azione guaritrice di Gesù si pone come una parte della sua azione totale di rinnovamento della persona ed i riscatto dai suoi peccati.
Tale potenza guaritrice di Gesù è stata lasciata come dono alla sua Chiesa: «questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono. imporranno le loro mani ai malati e questi guariranno» (Mc 16,17s). Difatti noi vediamo negli Atti degli Apostoli descritte le guarigioni operate da Pietro e da Paolo.
Gesù ha sempre impegnato la sua Chiesa ad essere vicina ai malati in tanti modi. Essa spinge oggi ad essere presenti a coloro che sono nella malattia attraverso l´aiuto anche di molti medici i infermieri, che si prendono cura dei malati con spirito evangelico e che guardano al benessere complessivo della persona.
Nel nostro tempo infatti c´è bisogno non soltanto di fare delle diagnosi precise e di indicare delle medicine efficaci. Occorre prendersi cura del malato nella sua totalità, nelle sue debolezze, nel suo bisogno di essere compreso, sostenuto, aiutato e amato. Così il medico compie un´opera che è parte di un insieme più vasto e che tuttavia si ricollega a quella di Gesù ed esprimere la cura della Chiesa per ogni persona sofferente.

La Stampa 13.10.06
Sulle spalle il padre-partito
di Andrea Romano


Perché la discussione sul partito democratico non emoziona nessuno? Perché quello che dovrebbe essere un passaggio decisivo nella storia della sinistra italiana non riesce a varcare i confini della cittadella di Montecitorio? Non sarà forse che in questo passaggio si riconoscono i segni di un altro passato che non passa? Difficile negarlo per i Democratici di Sinistra, dove la generazione dei postcomunisti si appresta a vivere l'ennesima trasformazione della propria ragione sociale all'insegna della più granitica continuità. Ancora una volta tutti insieme, ancora una volta tutti incapaci di trarre con coraggio e coerenza le conseguenze politiche delle proprie azioni. Ciò che in questo caso porterebbe ad esempio Mussi e D'Alema, Fassino e Angius, a seguire strade finalmente separate dopo aver condiviso decenni di militanza comune. Prima nella Fgci e nel Pci, poi nel Pds, infine nei Ds e ora nel Pd. Ripetendo ad ogni svolta la propria incrollabile fedeltà ad un unico filo di continuità: la coesione personale e di gruppo.

Questi figli di Anchise hanno attraversato quasi mezzo secolo di storia italiana portandosi sulle spalle il padre-partito-Enea, alla ricerca di un approdo dove depositarne integre le spoglie. Oggi pensano di averne individuato un altro nel partito democratico, all'interno del quale traghettare i simboli antichi e recenti della propria appartenenza. Se Alfredo Reichlin riconosce in Palmiro Togliatti uno degli ispiratori del Partito democratico, per D'Alema lo stesso Enrico Berlinguer sarebbe stato d'accordo con il nuovo traguardo. Onore a Togliatti e a Berlinguer, viene da dire, ma davvero non si capisce quale ruolo possa avere quella cultura politica nell'impresa che si va preparando. D'altra parte anche gli esponenti dell'ex correntone come Mussi non sono da meno, e dopo averci istruito per anni sulla mitologia di Porto Alegre e del Social Forum riscoprono le virtù di un altrettanto mitologico socialismo europeo allo scopo di contrattare la propria adesione alla nuova casa comune. Su queste basi, quella che si va preparando è una lunga e defatigante trattativa per non perdere per strada nemmeno un pezzetto dello stemma di famiglia.

C'è qualcosa di morboso in questa ansia di continuità, qualcosa che alimenta proprio quel qualunquismo dell'antipolitica che si vorrebbe esorcizzare e che perpetua la percezione dei Ds come gli eredi del Pci. Perché la volontà di tenere insieme ogni cosa, di cambiare tutto l'arredo esterno senza cambiare niente all'interno della casa finisce per respingere chi è fuori da quella storia familiare. Di questo si tratta, del tragitto di una famiglia storica che non ha ancora preso coscienza della propria diversificazione interna e che pretende di mostrarsi unita contro ogni evidenza. Ma le famiglie politiche sono ben altra cosa, specie quando intraprendono un nuovo tragitto. Hanno bisogno della forza e dell'autorevolezza che nasce dalla chiarezza, dall'onestà politica di chi sa dividere quanto deve essere diviso e unire quanto deve essere unito. Il New Labour di Blair e il Neue Mitte di Schroeder, le principali esperienze di rinnovamento avvenute a sinistra nell'ultimo ventennio, sono nate da profonde rotture nella continuità dei rispettivi partiti. Nessuna passione per il frazionismo, ma la coerenza di scegliere un percorso assumendosene pienamente la responsabilità. Anche quando questo significa lasciare per strada i compagni di una vita per trovarne di nuovi, sapendo tuttavia che la potenza della propria proposta politica sarà alla fine ben più efficace.

Aprileonline.info 13.10.06
I cento anni di Hannah Arendt
di Marzia Bonacci


Oggi a Roma presso la Fondazione Olivetti un convegno ricorda il centennale della nascita della grande filosofa. Ne abbiamo parlato con il professor Roberto Esposito, Direttore del Dipartimento di Filosofia e Politica dell'Orientale di Napoli e relatore dell'incontro

"Pensare senza ringhiere" era il suo motto. Una riflessione massimamente libera che, però, non può essere svincolata dalla vita reale, concretamente incarnata in materia vivente, esperienze, passioni. "La manifestazione del vento del pensiero non è la conoscenza; è l'attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto", perchè non può esistere un'attività teorica che non si comprometti e non si mescoli con le scelte etiche, con l'azione pratica, con la decisione morale. E' difficile riassumere in poche righe la filosofia di Hannah Arendt, grande protagista della tradizione del "secolo breve". Nata il 14 ottobre del 1906 da famiglia ebrea, in questi giorni l'Arendt festeggia i suoi cento anni. Sicuramente non tutti vissuti sul palcoscenico della vita, che per lei si concluse in America nel 1975, ma protagonista indiscussa della storia del pensiero, che come tale e per fortuna è destinata a godere dell'eternità. Diventata famosa per l'opera "Le origini del totalitarismo", prima importante denuncia del regime stalinista e del nazismo equiparati nel loro "aver reso superfluo l'uomo", e ricordata anche per il suo legame teorico e umano con il grande filosofo Martin Heidegger, con cui visse una relazione convulsa ma intensa e duratura, l'Arendt ha rappresentato l'anima più intima dell'ebraicità e della condizione umana novecentesca.
Di questa "viaggiatrice" del vecchio secolo, della sua eredità e della sua attualità abbiamo parlato con il professor Roberto Esposito in occasione del convegno organizzato oggi pomeriggio alla Fondazione Adriano Olivetti di Roma e dedicato proprio alla pensatrice. "Filosofia, politica, autenticità. Pensare con Hannah Arendt" era il titolo dell'incontro in cui Esposito è intervenuto come relatore.
Professor Esposito, qual è l'aspetto di maggiore attualità della filosofia e del pensiero di Hannah Arendt?
Certamente la critica a tutte le forme rappresentative di democrazia che tendono a rinsecchirsi, ad evitare o eludere la partecipazione più allargata, chiudendo così il discorso politico all'ambito ristretto dei gruppi dirigenti, ed evitando la costruzione di un rapporto, che è poi vitale, con la società civile. Un tema di fondo che caraterizza il pensiero della Arendt e che mi sembra di grande attualità.
La filosofia della Arendt si è concentrata a lungo e con profondità sul tema del totalitarismo, sempre affrontandolo in rapporto con il suo alterego politico-filosofico: la libertà. Proprio quest'ultima è sempre stata la sua grande passione...
Si. La Arendt ha fornito la prima grande sistemazione teorica della critica al totalitarismo, da lei inteso come mondo che vede addiritura la fine della politica, l'occlusione totale del rapporto vitale fra cittadini, libertà politica e potere. Oggi non viviamo certamente in una situazione totalitaria, tuttavia alcuni elementi del suo pensiero anche in questo senso possono essere attuali, soprattutto laddovè gli spazi di libertà vengono confiscati. E questo accade continuamente attraverso, per esempio, la concentrazione dei media, oppure per mezzo della concentrazione della decisione politica agli apparati ristretti, attraverso tutti quei meccanismi e dispositivi che assottigliano la libertà e le libertà.
Come ha risposto la storia e il mondo del pensiero novecentesco alla produzione teorica della Arendt?
E' una domanda importante e centrale. La tradizione filosofica infatti ha reagito poco e male alla formulazione teorica della Arendt perchè essa non era e non è inseribile all'interno dei suoi quadri tradizionali. Una posizione di diversità che nasce dal fatto che si tratta di un pensiero eterodosso, che non si ri fà a parole d'ordine codificate e che spezza i confini disciplinari fra i vari ambiti, fra i vari linguaggi. La filosofia novecentesca ha avuto molte difficoltà ad acquisire e introiettare in positivo questo insegnamento.
Da circa vent'anni, invece, abbiamo assistito ad una ripresa degli studi heideggeriani e ci si è tornati ad interrogare anche sul rapporto del pensatore di Heidelberg con la Arendt, rimettendo così in gioco questa eredità che è stata per molti versi nascosta, ma che oggi sta dando risultati importanti sul piano della ricerca filosofica.
Il rapporto fra Martin Heidegger e Hannah Arendt è stato un sodalizio filosofico e umano snodatosi per tutta la vita di entrambi. Può essere che questo legame e questa fedeltà della Arendt verso il maestro Heidegger abbiano causato il suo ostracismo dagli ambienti filosofici post-seconda guerra mondiale? Del resto, non si può ignorare che Heidegger sia rimasto legato per tutta la sua esistenza al peso della colpa di non aver preso le distanze dal nazismo.
Il rapporto con Heidegger non può essere ridotto al solo livello sentimentale, la Arendt è stata infatti fortemente condizionata dall'apparato categoriale heideggeriano, anche se poi lo ha sviluppato in una direzione libera e personale. Questo legame ha molto probabilmente giocato in negativo nella ricezione del suo pensiero nel mondo filosofico, soprattutto perchè l'eclissi che Heidegger ha vissuto nel dopoguerra ha in qualche modo trascinato con sé anche la Arendt. Ma poi negli anni ‘60, soprattutto a partire dalla recensione francese, il pensiero di Heidegger è stato rilanciato nel dibattitto internazioale, rilanciando di coseguenza anche quello della Arendt, che oggi si colloca nella sua vicinanza, pur mantenendo le sue profonde differenze e la sua autonomia.
L'Arendt non ha rivendicato la propria dimensione di "genere" nella sua formulazione teorica. Il suo "essere donna" non è mai stato il punto di vista dichiarato dal quale presentare il proprio costrutto filosofica. Questo aspetto richiama quindi il tema del rapporto fra la sua filosofia e quella della differenza. Che tipo di relazione intercorre tra le due?
L'Arendt era una pensatrice della differenza ma non della differenza sessuale. Quello che le stava a cuore era infatti la singolarità assoluta di ciascun essere umano, donna o uomo che fosse. Sicuramente c'è stata una forzatura nell'arruolarla all'interno delle schiere del pensiero femminista. Al contempo, è indubbio il suo essere una pensatrice della differenza, ma nella sua definizione più vasta.

giovedì 12 ottobre 2006

il Riformista editoriale 12.10.06
POSTCOMUNISMI. Se Fausto trovasse il coraggio di dichiararsi socialista


Fausto Bertinotti ha concluso ieri la sua visita a Budapest per il cinquantenario dell’insurrezione ungherese deponendo una corona di fiori sulla tomba di Imre Nagy. È stata per il presidente della Camera una nuova occasione per ribadire la propria «incondizionata» adesione alle ragioni degli insorti antisovietici e per sottolineare «l’indelebile colpa del repressore» e di chi nel movimento comunista internazionale ne difese l’operato. Fin qui nessuna novità. Il ripudio del comunismo novecentesco è ormai patrimonio acquisito di Bertinotti e del partito che ha guidato fino a qualche mese fa. Ciò che è sempre più difficile da comprendere è cosa leghi ancora Rifondazione all’uso della parola “comunista”. Bertinotti ha provato a spiegarlo ai cronisti che lo hanno seguito a Budapest. Prima quasi schernendosi: «Sono comunista per tigna». Poi dando del comunismo una visione a-marxista e destoricizzata: «C’è qualcosa che lega Spartaco, i Ciompi, la Comune. Il Novecento non è che una piccola parentesi in una storia molto più grande». Infine, nascondendo quasi tra le righe l’affermazione più importante: «Non è nella conservazione dei simboli l’aspetto più rilevante, ma nel mantenere vivo un orizzonte in cui gli oppressi possano liberarsi dal lavoro salariato e dall’alienazione capitalistica».
Qui sta il punto: una volta trasformato il comunismo in puro orizzonte teleologico, una volta dismessa in blocco l’ideologia comunista con tutto il suo corollario di tattiche e tappe intermedie, a che pro fregiarsene nel nome e nel simbolo, con quale utilità servirsene nella vita politica di tutti i giorni, quella delle finanziarie, delle riforme di sistema, delle mediazioni con Clemente Mastella e delle beghe di coalizione? La risposta è chiara: a nulla. E Bertinotti ne è cosciente al punto da aver lanciato una seconda fase della sua revisione, riallacciando l’agire di Rifondazione e la propria cultura politica a uno spezzone della tradizione socialista italiana individuato nella sinistra Psi di Riccardo Lombardi e nell’autonomismo di Raniero Panzieri (padre di buona parte delle eresie movimentiste e neocomuniste degli anni Settanta). L’operazione è indispensabile, per il semplice motivo che Rifondazione è già un un partito socialista e molte delle contraddizioni che si trova ad affrontare in questa fase sono le stesse che hanno a più riprese travagliato il Psi, proprio a partire dai fatti d’Ungheria. La verità è che Bertinotti è atteso al guado. Il Partito della sinistra europea, operazione internazionale lanciata per allargare il respiro culturale e la base di consenso del Prc, è già una prima trasfigurazione socialdemocratica. Ma su base nazionale non basta, perché assomiglia troppo a un semplice allargamento di Rifondazione tramite cooptazione di ceto politico altrui. Il passo che occorre è ben più impegnativo e, inutile girarci intorno, passa per il superamento di nome e simbolo. Bertinotti ci pensa da tempo e l’impressione è che, passo dopo passo, si stia avvicinando il momento di affrontare apertamente la questione.
Rifondazione non è il Pdci. Non può bastarle restare dov’è, per campare di rendita su un logo vintage, culto di un pugno di nostalgici e di qualche malinteso duro e puro. Ora che la nascita del Partito democratico si avvia a ridisegnare il volto della sinistra italiana, Rifondazione non può restare ferma. Non foss’altro per non cristallizzare uno stato dell’arte che è forse il punto di massimo incancrenimento dell’anomalia italiana: un partito dichiaratamente socialista, i Ds, che con la fondazione del Pd prende atto di non poter dirsi tale; un partito di fatto socialista, Rifondazione, di cui non si sa ancora se troverà mai il coraggio di rivendicare la nuova identità. Una sinistra ds, nelle cui file l’anti-socialismo (nel senso di ex Psi) è tutt’ora un tratto distintivo non secondario, che pare avviarsi a fondare un partito socialista più per preservare la propria specificità post-comunista che per imbracciare la nuova bandiera.

Aprileonline.info 12.10.06
Se scompare il copyleft
Dallo scorso 3 ottobre non è più possibile - senza corrispondere il dovuto compenso all'editore, e le sanzioni sono decuplicate - riportare il testo di un qualsiasi articolo di un qualsiasi giornale pur citando la fonte
di Stefano Olivieri


E' in vigore dal 3 ottobre il decreto legge 3 ottobre 2006 n. 262, recante "Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria", con cui vengono anticipate alcune delle misure previste dal disegno di legge finanziaria 2007. Fra le varie misure l'articolo 32 che così recita :
Art. 32.
Riproduzione di articoli di riviste o giornali
1. All'articolo 65 della legge 22 aprile 1941, n. 633, dopo il
comma 1, e' inserito il seguente:
«1-bis. I soggetti che realizzano, con qualsiasi mezzo, la
riproduzione totale o parziale di articoli di riviste o giornali,
devono corrispondere un compenso agli editori per le opere da cui i
suddetti articoli sono tratti. La misura di tale compenso e le
modalita' di riscossione sono determinate sulla base di accordi tra i
soggetti di cui al periodo precedente e le associazioni delle
categorie interessate. Sono escluse dalla corresponsione del compenso
le amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165.».
Chi scrive è uno dei numerosi - tantissimi davvero - inserzionisti sul web che malgrado pubblichino ormai da diversi anni i loro articoli su questa o quella testata, non hanno mai ricevuto un euro di compenso, e spesso non lo hanno nemmeno richiesto. Pura passione politica, forse anche un pizzico di civetteria e di esibizionismo, resta il fatto che senza questo imponente esercito di giornalisti a costo zero o quasi il 90 % dei portali di informazione e controinformazione non sarebbe mai nato e nemmeno cresciuto.
Fino al giorno prima del decreto il copyleft era ammesso sul web con la sola restrizione di citare rigorosamente la fonte editoriale e l'autore del pezzo. E' il motivo per cui i miei stessi articoli, dopo qualche giorno che vengono pubblicati su Aprileonline, compaiono anche altrove. E' una cosa che fa piacere, ma a parte la soddisfazione dell'ego personale si realizza in quel modo qualcosa di molto più grande e importante per la democrazia, cioè la libera diffusione di notizie, di opinioni e quant'altro. Se il bavaglio imposto da Berlusconi sui network tv fosse passato anche nella rete, probabilmente non ci sarebbe stato nessun palavobis, non ci sarebbero stati movimenti e girotondi e staremmo ancora oggi in pieno regime.
Ma l'articolo 32 non riguarda soltanto l'aspetto appena descritto. Dal 3 ottobre non è più possibile - senza corrispondere il dovuto compenso all'editore, e le sanzioni sono decuplicate - riportare il testo di un qualsiasi articolo di un qualsiasi giornale pur citando la fonte. Non sarà possibile nemmeno discutere nei forum, proprio un bel problema.
La reazione del web libero per ora è abbastanza blanda. Per ora si registra soltanto una iniziativa di Peacelink, ma la notizia del resto è immersa in un decreto che si occupa d'altro, e l'attenzione politica generale è rivolta al Partito democratico, al TFR, alla Corea etc. etc. Ma io credo sia necessario far salire nella agenda delle emergenze l'immediato approfondimento di questo problema che potrebbe segnare il futuro della libera informazione sul web, a cominciare dalle rassegne stampa.
E' tempo insomma che si apra un dibattito serio, che non riguarda soltanto le penne dorate della stampa nazionale ma il mondo dell'informazione nel suo complesso. Se scompare il copyleft anche il dibattito - apertissimo - su dove si vuole che vada la sinistra italiana potrebbe subire un arresto mortale. Facciamoci sentire.

Repubblica 12.10.06
L’INTERVISTA
Angius, vice presidente del Senato, promette battaglia nei Ds contro la fusione con la Margherita
"Il nuovo partito sembra Forza Italia riducono il socialismo a una corrente"
di Goffredo De Marchis


Molti hanno dubbi. Ci sono molti compagni che hanno i miei stessi dubbi. E credo che possano trasformarsi in una iniziativa politica
Mai con Rifondazione. La nascita del partito democratico lascia un grande vuoto a sinistra ma non è possibile andare col Prc
"Anche D´Alema è preoccupato, ma queste voci trovano difficoltà a farsi sentire"
"Non so cosa faranno Cuperlo e Caldarola, ma io al congresso porterò la mia idea"

ROMA - In quello di Orvieto «non ci starò». Le primarie, il principio enunciato dal prodiano Salvatore Vassallo "una testa, un voto", i gazebo: così il Partito democratico non va. «Le identità storico-politiche più rilevanti della democrazia italiana sono quella cattolica popolare e quella socialista democratica, che sono anche le componenti essenziali, piaccia o no, del nuovo partito. Perchè dunque non chiamarlo partito dei democratici e dei socialisti?», si chiede Gavino Angius, vicepresidente del Senato, ex capogruppo dei Ds al Senato, esponente di punta della maggioranza congressuale. Ma dopo il seminario dello scorso week-end Angius teme che la strada del nuovo soggetto sia segnata.
Basta l´aggettivo socialista per convincerla della bontà del progetto?
«Non basta, ci vuole una correzione di rotta. La nascita del Partito democratico, così come è emerso in Umbria, lascia a sinistra un grande vuoto, il vuoto prodotto dall´assenza solo in Italia di una forza di ispirazione riformista socialista. Altro che novità. Saremmo l´unico paese europeo in cui non è presente un partito che si richiama a quella storia».
Con Caldarola e Cuperlo presenterete una mozione alternativa a quella di Fassino e D´Alema al prossimo congresso della Quercia?
«Non so cosa faranno questi amici e compagni. Io mi impegnerò nel congresso e in tutte le sedi per affermare quello che dovrebbe essere secondo me il profilo di un nuovo partito: collocazione europea molto chiara nell´alveo del partito socialista, memoria condivisa della storia democratica del nostro Paese e difesa del principio di laicità che vedo invece messo continuamente in discussione. In più penso a un partito di massa, radicato nella società italiana, nel mondo del lavoro dei mestieri, delle professioni. E questo significa essere innovatori non conservatori, significa guardare al rinnovamento della politica non al suo passato».
Potreste presentare una mozione con la sinistra ds per andare uniti contro il PD?
«Vedremo. Però so di non essere solo. La mia preoccupazione è quella di tanti. E, ripeto, non deriva dalla paura del nuovo. Semmai a Orvieto è nato qualcosa che assomiglia a un contenitore di correnti, gruppi e componenti. Cioè il vecchio. E non si può ridurre il socialismo a una corrente».
Insomma, mozione sì o mozione no?
«Non sono mica il capo di uno schieramento. Il dibattito è appena cominciato. Ma ci sono molti compagni che hanno i miei stessi dubbi, le mie stesse incertezze. E hanno difficoltà a trovare risposte. Credo quindi che tutto questo possa avere uno sbocco, possa trasformarsi in una iniziativa politica. Non basta dire che il Partito democratico c´è già, è in noi, è nato tanti anni fa. Sappiamo bene che non è così. E non so neanche dove e da chi sia stato deciso».
C´è un deficit di democrazia nei Ds?
«Non c´è dubbio. Ma anche di analisi della società italiana di oggi. Stiamo parlando dello scioglimento dei Ds, perché questo è il termine giusto. E per un evento simile ci vuole un percorso democratico, che viva di un pluralismo interno e reale. Non si può dire un giorno che nasce un partito nuovo e un altro che in fondo tutto proseguirà come prima».
D´Alema a Orvieto ha criticato un partito che pensa di nascere nei gazebo. Può essere lui il garante anche per chi è scettico?
«Le parole di D´Alema dimostrano una certa preoccupazione. Credo sia la stessa di Fassino. Ma ci sono difficoltà a far sentire queste voci nel percorso del nuovo partito che, se è quello di Orvieto, assomiglia tanto a Forza Italia, con un supervertice e con una base che ogni tanto è chiamata a pronunciarsi. Sono abituato a concepire la politica in un altro modo».
Lei quindi non aderirà al PD?
«Beh, ho seri dubbi a starci dentro, a parteciparvi senza un mutamento di linea. Dirò la mia nel congresso e ogni volta che mi verrà chiesto di pronunciarmi. Del resto, non siamo una chiesa, non c´è da abbracciare una fede».
E se le strade si divideranno, lei pensa a una forza di sinistra che raggruppi gli anti Partito democratico dei Ds e Rifondazione comunista?
«No. Siamo molto lontani dalla cultura propria della sinistra radicale. Ciò a cui io tengo è il patrimonio ideale culturale e politico del socialismo più avanzato e moderno, quello capace di dare risposte alle contraddizioni delle società contemporanee».

l’Unità Roma 12.10.06
Sinistra Ds fra modello Roma e scissione
Labucci: a che serve ora un congresso?
Tocci: bisogna guardare ai contenuti del Pd
di Mariagrazia Gerina


QUELLI CHE lo conoscono bene raccontano che alla vigilia del seminario di Orvieto Vincenzo Vita, pur persuaso delle ragioni aventiniane del Correntone, fosse molto dispiaciuto di non partire. Una certa voglia di partecipare al costituendo partito democratico
da parte dell’assessore alla Cultura della Provincia di Roma era trapelata l’ultima sera della Festa de l’Unità, a Pesaro, quando, tra i primi, Vita aveva dettato alle agenzie di stampa una entusiasta reazione al discorso conclusivo del segretario Piero Fassino. «Mi ero candidamente augurato che quel suo riferimento al socialismo europeo potesse rappresentare uno spunto per riaprire il dialogo - racconta Vita -. Poi il seminario di Orvieto, a cui ad altre condizioni mi avrebbe fatto piacere partecipare, ha rappresentato invece una forzatura». E quindi la decisione, «sofferta ma necessaria», di non andare: «Anche se avrei avuto la mia da dire». All’interno dell’ala romana della Sinistra Ds, Vita è di quelli che ora invoca il confronto e un «congresso chiarificatore». Dall’estremo opposto, il presidente della Provincia Adriano Labucci: «Non siamo andati ad Orvieto e adesso la segreteria nazionale dice che si faranno cento Orvieto in cento città diverse, Roma compresa, per decidere del Partito democratico. A questo punto però si rende inutile il congresso. A che pro partecipare?», si domanda Labucci con un piede già fuori: «Ma non sono io che esco, è il luogo dove sto che non c’è più».
Prove di dibattito pre-congressuale all’interno della sinistra Ds, che, a livello regionale, si è data appuntamento sabato all’Hotel Palatino di via Cavour. Tema: «Cambiare la sinistra, cambiare da sinistra». Introduce Angelo Fredda e conclude Carlo Leoni. «Discuteremo come prepararci al congresso - spiega il vice-presidente della Camera -. La fase è complessa, soprattutto perché mancano le sedi per discutere all’interno del partito, ma il nostro obiettivo condiviso è contrastare la nascita del partito democratico e difendere l’esistenza dei Ds».
Eppure oggi, un’altra parte della sinistra Ds si ritroverà a discutere proprio di partito democratico. Alle 17.30, a Palazzo Marini, prove tecniche di confronto aperto tra Pasqualina Napoletano, Marina Sereni, Cesare Damiano. Un’iniziativa che sa di appuntamento alternativo. A promuoverlo Francesco Simoni, nella segreteria regionale fino a poco tempo fa. Ufficialmente ancora iscritto alla sinistra Ds, anche se, insieme ad altri esponenti locali, ha già scelto per lo strappo, andando ad Orvieto «per non chiudere la porta al confronto sul partito democratico». Accanto a lui, a introdurre i lavori, ci sarà Walter Tocci, sperimentatore del «modello romano» ai tempi di Rutelli, in questo momento ben contento di definirsi «una delle poche persone che all’interno dei Ds ha scelto di non aderire a nessuna mozione». Eppure a luglio, durante un’affollata assemblea della sinistra Ds al Teatro Quirino, il suo era stato uno degli interventi più applauditi. «Penso - osserva Tocci, reduce da Orvieto e attento a tenersi fuori dal dibattito tra correnti - che in questo momento dovremmo tutti ragionare a mente libera, fuori dai vecchi schemi di schieramento interni, e preoccuparci di cosa può fare la sinistra per il futuro dell’Italia. Poi vedremo anche le scelte di ognuno». Tra gli ospiti attesi anche Pasqualina Napoletano, trattenuta da una riunione del Partito socialista europeo: «Mi sembra che il confronto sul partito democratico sia tutt’altro che concluso. Voglio vivere laicamente questo passaggio - osserva l’europarlamentare da Bruxelles -, senza avere ruoli di interdizioni. Ma dico anche che rinviare nodi importanti come il legame con il socialismo europeo è segno che ci sono troppe contraddizioni».

il manifesto 12.10.06
Bertinotti ricorda il '56, in piazza gli oppositori di oggi
Il presidente a Budapest: «Gli ideali di allora nell'Europa unita». Davanti al parlamento le proteste contro il premier Gyurcsány
di Massimo Congiu


Budapest. Una mattinata di sole ha accolto l'arrivo delle delegazioni straniere all'assemblea nazionale ungherese per rendere omaggio alle vittime dell'insurrezione del 1956 di cui, questo ottobre, il paese celebra il cinquantesimo anniversario. Brevi i discorsi dei vari ambasciatori e presidenti di parlamento, unanime il ringraziamento ai protagonisti di quei fatti che sono stati rievocati da un documentario. In bianco e nero le immagini delle manifestazioni di quel 23 ottobre di cinquant'anni fa, che segnarono l'inizio della sollevazione, e quelle dei combattimenti per le strade della capitale. All'inizio del suo intervento - subito dopo quello dell'ambasciatrice americana, enfatico e pieno di commozione a stelle e strisce - Fausto Bertinotti si è soffermato sui volti degli insorti visti in fotografia, il giorno prima, all'Istituto italiano di cultura che ospita fino al 24 una mostra fotografica dedicata alla ricorrenza. «Basterebbero le immagini e i volti degli insorti, la loro intensità e la loro voglia di futuro - ha detto il presidente della camera dei deputati - per convincersi che tutte le ragioni stavano dalla loro parte».
Una verità, secondo Bertinotti, che «fa parte del patrimonio di quell'Europa che oggi ci stiamo impegnando a costruire». L'emozione è l'altro denominatore comune dell'incontro svoltosi sulle rive del Danubio, emozione e solennità nel ricordare la sollevazione schiacciata dai carri armati sovietici. Bertinotti fa sua la definizione data da Imre Nagy, primo ministro nel 1956, giustiziato due anni dopo, a questa pagina di storia: un'insurrezione nazionale e democratica. «La definizione più convincente - ha aggiunto il presidente della camera - per un grande moto di popolo e di libertà». L'ex segretario di Rifondazione ha poi fatto riferimento al ruolo dei giovani, degli intellettuali ungheresi nel 1956 e ai discorsi sulla libertà e sulla democrazia che gli stessi facevano al circolo intitolato al poeta patriottico Sándor Petofi, diventato, nel 1848, uno degli ispiratori del movimento rivoluzionario per l'indipendenza magiara e morto l'anno dopo nel corso della repressione. Riferimenti anche al contributo degli operai che all'epoca si organizzarono in consigli che miravano all'autogestione. Su tutto, fa notare Bertinotti, la domanda di democrazia e di partecipazione di un intero paese che cercava di guadagnarsi un futuro libero. Poi la repressione, l'aggressione delle truppe inviate dall'Unione Sovietica che, per Bertinotti costituiscono una «colpa indelebile» che «ha segnato in modo irreversibile i regimi dell'Est». E ancora il '56 visto come la premonizione del crollo dell'impero sovietico e del muro di Berlino, «quelli che sembravano essere gli sconfitti si sono rivelati vincitori e coloro che, invece, hanno represso con le armi questa insurrezione hanno palesato la loro debolezza storica».
Per Bertinotti il modo migliore di ricordare i fatti di cinquant'anni fa è farli diventare memoria dell'Europa futura, l'Europa della convivenza e della pace; «mai più carri armati, la ragione è sempre dalla parte del popolo». E un po' di popolo era radunato, come ogni giorno, di fronte al parlamento. Il popolo dei manifestanti, ieri mattina non numerosi, che vuole le dimissioni del premier Gyurcsány. Le sue bandiere, le tende che ha piazzato, i suoi vessilli, compresi quelli che si ispirano alle tristemente famose croci frecciate, sono ancora lì. Diversi dimostranti, forse la maggior parte di loro, forse tutti, si sentono gli eredi degli insorti del '56, ma gli storici negano ogni legame tra i fatti di tanto tempo fa e quelli che si svolgono oggi. Fischietti e musica all'uscita dal parlamento, prima di andare al cimitero di Rákoskeresztúr, dove erano attese le delegazioni ufficiali per le solennità e i fiori da deporre sulle tombe di Nagy e degli altri protagonisti del '56 ungherese. i giornalisti italiani hanno chiesto a Bertinotti come conciliasse le celebrazioni in corso con il suo essere comunista, «qui oggi rappresento lo stato italiano - ha risposto - delle mie idee ho parlato ieri».

Repubblica 12.10.06
I tribunali della storia
Grazia e giustizia tra Medioevo e attualità: intervista ad Adriano Prosperi


La pratica della tortura. L'uso della confessione e l'abuso delle coscienze Cosa rimane della cultura inquisitoriale
Lo studioso terrà la lectio magistralis al FestivalStoria di Savigliano Tema, i processi che hanno mutato il costume
Nella condanna di Gesù ha radice l'intreccio tra la civiltà giuridica romana e la rivelazione divina
La storiografia fondata sugli atti processuali Il complicato rapporto tra giudice e storico

Dal processo a Socrate a quello contro Galileo, dai processi dell´Inquisizione ai riti contemporanei per mafia e scandali finanziari, la storia appare come punteggiata da differenti liturgie giudiziarie, che seppure con modalità diversissime hanno prodotto rilevanti cambiamenti nella coscienza pubblica e individuale. «Imputato, alzatevi! Il processo nei secoli» è il tema dell´attuale edizione del FestivalStoria - dal 19 al 22 ottobre tra Saluzzo e Savigliano - una rassegna internazionale di public history ideata lo scorso anno da Angelo D´Orsi. La lectio magistralis è stata affidata ad Adriano Prosperi, eminente modernista della Scuola Normale Superiore di Pisa, autore delle pagine più dense e illuminanti sui "tribunali della coscienza", che è poi anche il titolo d´un suo celebre lavoro sull´egemonia cattolica costruita attraverso l´Inquisizione, la predicazione dei missionari e la pratica della confessione. Questi argomenti figurano anche nella relazione su Grazia e Giustizia nella storia del lungo Medioevo, una riflessione che si ferma al mutamento di sensibilità prodotto dalle idee illuministe. Se l´excursus dello studioso - tra storia, teologia, carte processuali - è quanto di più distante dall´attualità, forse non sorprenderà che alcune idee di quel vetusto e terrifico modello medioevale siano tornate inopinatamente in auge.
Ancora oggi nel linguaggio ricorre una terminologia che ci riporta al significato religioso delle categorie di grazia e giustizia.
«È come se sopravvivesse una sacralità del processo, dalla quale si sviluppa una liturgia. Non a caso diciamo che si celebra un processo, così come si celebra un sacrificio religioso».
Centrale in questo retaggio religioso è la nozione di colpa.
«La colpa, certo, alla quale s´accompagnano specularmente le idee dell´espiazione e del perdono. Il funzionamento della giustizia, nel corso del lungo Medioevo europeo, si gioca proprio sul rapporto tra l´uomo per sua natura impastato di male e l´ampiezza del perdono di Dio, di cui i magistrati sono strumento. Il problema della giustizia moderna è la mancata reintegrazione del colpevole, oggi oggetto di riflessione sia da parte cattolica che laica».
Ciò che distingue - o dovrebbe distinguere - la sensibilità contemporanea è un´idea di pena tesa alla rieducazione del condannato.
«Un principio rivendicato anche dalla Costituzione italiana. Il compito della punizione è reintegrare nella società colui che è stato ritenuto colpevole. Ma a volte sembrano prevalere pratiche sancite dai tribunali dell´Inquisizione. Pensi al trattamento riservato ai terroristi negli Usa: non è molto diverso dalla tortura inflitta dai giudici dell´età inquisitoriale per il reato politico, il crimen lesae maiestatis. La ricerca della verità giustificava qualsiasi violenza: sia per salvare la potestà ecclesiastica dal suo mortale nemico, l´eretico; sia per preservare l´autorità temporale insidiata dal ribelle».
Lei insiste molto sulla sovrapposizione tra giustizia celeste e giustizia terrena, tra magistrato ecclesiastico e magistrato laico, un tratto che caratterizza tutto il sistema giudiziario medioevale. All´origine di questa "confusione" - se si può chiamare così - c´è il processo più importante della storia degli uomini, ossia il processo a Gesù.
«L´intera storia del mondo cristiano ha trovato in quel processo - con la condanna di un giusto, il Giusto per definizione - un´inesauribile fonte di significati. Lì ha radice l´intreccio tra la civiltà giuridica della tradizione romana e il tema misterico della rivelazione d´un messaggio divino. Da quel momento la verità che ogni tribunale produce è sempre in rapporto con una superiore verità divina. Rapporto che si può presentare di volta in volta come di omogeneità o di opposizione».
I giudici come strumenti di Dio o strumenti del diavolo.
«Il giudice può essere schierato con le forze del bene o con le forze del male, e in questo caso produce dei martiri, testimoni di una verità superiore».
L´accostamento è assai azzardato, ma non le pare che questa pratica della demonizzazione del giudice segni anche il costume contemporaneo?
«Intendiamoci, si tratta di due figure - il magistrato medioevale e quello contemporaneo - quanto mai diverse. Ciò che le distingue è proprio il distacco dalla matrice religiosa, che vedeva il giudice terreno come un semplice e fallibile strumento di Dio, criticabile e criticato. Oggi il potere di giudicare non rinvia più al livello superiore del giudizio divino: il risultato è che si erige a potenza autonoma, con la conseguenza dell´insopportabile giaculatoria sulla "fiducia nella magistratura" ribadita da tutti gli incriminati. Però riconosco che, intorno a questo ruolo sociale, è rimasta inalterata oggi l´attitudine a una drammatizzazione molto forte, con un´intensa carica simbolica».
Lo stesso emblema della croce, nelle aule di giustizia, evocava la possibilità di una giustizia ingiusta.
«Gli avvocati difensori ne fecero un argomento obbligato nella loro contestazione degli errori giudiziari. È rimasta celebre la frase pronunciata dall´avvocato di Zola, il dottor Clemenceau, per l´affaire Dreyfuss: "Il primo errore giudiziario della storia, ecco qua"».
Il processo può divenire il luogo della verità conculcata. I suoi materiali, lei scrive, possono consentire allo storico di rovesciare le sentenze ingiuste. È così che si sviluppa il rapporto tra storico e giudice?
«Molta storiografia è fatta oggi di atti processuali, con possibile rovesciamento delle sentenze. Alcuni capitoli centrali della storia europea sono segnati da processi celebri come quelli contro i Templari o papa Bonifacio VIII, voluti da Filippo il Bello al principio del Trecento. O i processi per stregoneria o eresia. O i processi rivoluzionari che portarono all´esecuzione di Carlo I re di Inghilterra nel 1641 e all´uccisione di Luigi XVI e Maria Antonietta nel 1792. O anche i processi staliniani. Ed ancora, il processo di Norimberga, e moltissimi altri».
Nel rapporto tra storia e giustizia lei indica due figure di riferimento: Piero Calamandrei e Carlo Ginzburg. Perché?
«Entrambi insistono su un punto: la ricerca della verità accomuna sia il giudice che lo storico, ma le loro strade si diversificano nel rapporto con il potere e con la stessa verità. Nel suo libro sul caso Sofri, Ginzburg ha dimostrato che nella lettura di un processo lo storico non è prigioniero delle carte, ma cerca di capire la vita che c´è dietro le carte. Ha scoperto una parte non verbalizzata, ma non meno vera del processo. Credo che proprio la vicenda di Sofri, che considero allucinante anche per la protratta umiliazione inflitta al condannato, contenga elementi che ci risospingono a un´idea medioevale di giustizia».
Dove oggi vede riaffacciarsi pericolosamente i segni d´una mentalità inquisitoriale?
«Nel modo in cui talvolta si discute di giustizia. Prenda ad esempio l´idea di sospendere tutti i diritti civili quando si ritiene vi sia una minaccia per l´assetto sociale. In fondo non è molto diverso dal controllo inquisitoriale che - a partire dalla fine del XV secolo - si esercitava sulla minoranza degli ebrei nella penisola iberica. Mi sembra che avanzi ovunque l´idea dell´eliminazione - non fisica certo, ma sociale - e del controllo stretto sulla parte che si ritiene più pericolosa. Penso alla recente proposta di Tony Blair di inserire microchip elettronici sotto la pelle delle persone sospette. Il fine è sempre quello di espungerle dal contesto civile: un po´ come fece il domenicano fra Venturino da Bergamo quando nel terzo decennio del Trecento organizzò una crociata fatta solo di ladri e assassini».
Nella costruzione del sistema coercitivo, pur fondato da un´ispirazione religiosa, lei attribuisce un ruolo chiave a Sant´Agostino.
«Mi sembra che la madre delle disgrazie successive abbia radice proprio nel vescovo di Ippona, quando autorizza la pratica della violenza contro gli eretici. Sant´Agostino stabilisce una sorta di gioco delle parti tra uomini di chiesa e amministratori di giustizia: a questi ultimi spetta punire, anche se ai primi è permesso esercitare il perdono delle anime».
La collaborazione tra potere ecclesiastico e potere della corona a un tratto si infrange sull´istituto della confessione.
«È in realtà una contesa intorno al controllo delle anime: la volontà di potenza che si insinua dentro la coscienza. A chi spettava amministrare il sacramento? La confessione come racconto delle colpe a un sacerdote o come confessione dei crimini al giudice? Ciascuno difendeva la propria giurisdizione».
Nella sua lezione, lei si sofferma sull´esercizio della grazia come pratica assai diffusa tra i monarchi europei d´età medievale. Un atto da cui il sovrano traeva legittimità e consenso, con una finalità dichiarata di coesione sociale. Anche qui l´accostamento può apparire vertiginoso, ma oggi l´indulto viene annoverato tra gli atti più impopolari dell´attuale governo.
«Mi verrebbe da risponderle che la diffusa protesta contro l´apertura delle carceri conferma l´anima forcaiola del popolo italiano, ma sarebbe un po´ affrettato. Certamente alla base del malumore c´è il carattere pasticciato del provvedimento, che comporta una soluzione superficiale del problema del sovraffollamento, senza misure autentiche per la prevenzione e il reinserimento. Ma in fondo agisce anche questo desiderio di eliminare il criminale non con la pena di morte - siamo pur sempre il paese di Beccaria - ma con l´annientamento civile. Un bisogno di sicurezza che può far regredire a un´idea arcaica di giustizia».

il manifesto 12.10.06
Quando serve punire
di Franco Carlini


Gli altruisti saranno sempre sconfitti dai predatori egoisti, più cinici e spregiudicati. Ma si può reagire, con un castigo sociale, ai comportamenti ingiusti, ristabilendo un equilibrio e incoraggiando l'agire solidale e cooperativo

Cooperazione e condivisione (sharing) di questi tempi sono le parola d'ordine del web, grazie al movimento Open Source, a tal punto robusto da presentarsi come seria alternativa, anche commerciale, ai software proprietari. E' anche per questa tendenza praticata socialmente che gli studiosi del comportamento umano e della sua evoluzione, hanno accelerato le loro ricerche, nel tentativo di spiegare il «mistero dell'altruismo». Tra gli psicologi e i sociologi il termine «altruismo» non ha alcun particolare valore morale, ma viene usato per indicare quei comportamenti degli umani, ma anche degli animali, in cui qualcuno compie delle azioni a favore di altri, azioni che a lui costano un prezzo (di denaro, di tempo, di fatica e, nei casi estremi, di sacrificio della vita).
L'altruismo è relativamente facile da spiegare verso i parenti: più stretti sono i rapporti di consanguineità, più ci si dona senza calcolo alcuno. In altri casi, all'interno di un gruppo o di una organizzazione, prenderà la forma di «reciprocità», venata da un sottinteso utilitarismo: si dona agli altri scommettendo, magari inconsciamente, che quel dono o favore ci verrà restituito. La difficoltà vera, in una cultura come la nostra, dominata dalla supposta razionalità utilitaristica, viene da quei comportamenti in cui si agisce altruisticamente verso degli sconosciuti, che magari non si incontreranno più.
E allora perché lo facciamo? Una delle spiegazioni avanzate dice così: la specie umana, e anche diverse specie animali, trae vantaggio dal vivere in comunità, dove fatiche e benefici possano essere suddivisi; perciò i gruppi sociali in grado di agire in maniera cooperante e solidale al proprio interno hanno un vantaggio sugli altri gruppi che non ne sono capaci. Dunque nella competizione per le risorse tra diversi gruppi, i più coesi vinceranno. Come si vede questa teoria non fa ricorso a nessuna ipotesi sulla bontà d'animo degli umani e non si addentra nella discussione filosofica sulla natura dell'uomo, se si sia di per sé buono o invece selvaggiamente proteso a sopravanzare gli altri, costi quel che costi. Laicamente, e senza addentrarsi in giudizi di valore, registra, anche storicamente, la forza dei popoli coesi, per esempio capaci di andare in guerra, anche se la guerra costerà la vita di molti appartenenti al gruppo. Cooperazione e altruismo interno diventano armi competitive per difendere un territorio o un mercato. Anche i tentativi delle aziende di ottenere spirito di squadra e creatività dai dipendenti rientrano in questa descrizione.
Ma come si forma la solidarietà interna alle popolazioni e la propensione a collaborare (almeno un po') altruisticamente? Sia i modelli matematici che gli esperimenti sul campo ci dicono che gli altruisti all'interno di un gruppo, anche quando siano abbastanza numerosi, possono venire sconfitti e mutarsi in menefreghisti a causa dalla presenza di un numero pur piccolo di «predatori» che approfittano della bontà altrui, raccogliendone in frutti sotto forma di aiuti diretti o di beni comuni di cui disporre senza cooperare al sistema sociale.
Per restare nell'attualità politica di questi giorni, è ben evidente che chi paga tutte le tasse, per senso civico o per obbligo, sarà fortemente spinto invece a evaderle se altri non lo fanno e tuttavia godono come lui dei beni che lo stato mette a disposizione grazie alle entrate fiscali. Si genera un ciclo di retroazione negativo: i comportamenti predatori spingono anche i virtuosi a lasciar perdere e l'esito può essere la disgregazione sociale.
Gli studiosi della politica ci spiegano da tempo che la disgregazione sociale individualistica prodotta da pochi predatori può essere evitata se esiste un sistema di sanzioni. E fin qua niente di nuovo, dato che tutti gli stati, a seconda dei loro valori, puniscono con multe o carcere i comportamenti antisociali. Tuttavia spesso ciò non basta perché non è sempre facile far rispettare le leggi (c'è un costo in apparati polizieschi e giudiziari) e perché certi comportamenti egoistici non sono catalogati come reati e tuttavia, nel loro piccolo, ma moltiplicato per milioni di volte, nuocciono al gruppo sociale: dalle cartacce buttate per terra, al posteggio in seconda fila, allo scavalcare la coda facendo i furbi. In questi casi diventa importante che i singoli, in presenza di tali egoismi, reagiscano. Nei nostri paesi civilizzati non si tratta di farsi giustizia da soli, ma di esprimere pubblica riprovazione, la quale comporta una sanzione sociale, un discredito. In molti villaggi o piccole comunità, la riprovazione sociale, arrivando fino alla emarginazione di chi non si adegua ai valori comuni, può essere più efficace di un sistema formale di norme e punizioni codificate.
Ovviamente è facile reagire agli atteggiamenti predatori quando se ne è vittime, per esempio quando uno ci passa davanti in coda, procurandoci un danno diretto. Ma più interessante è il comportamento di quelli che gli studiosi chiamano «punitori altruistici». Sono quelle persone che, pur non essendo coinvolte, intervengono attribuendo una punizione ai predatori e magari lo fanno pagando esse stesso un prezzo. Un esempio banale: di fronte a una macchina posteggiata in doppia fila che blocca il traffico un punitore altruista potrebbe aspettare l'arrivo del conducente e fargli una ramanzina davanti a tutti; così facendo dovrà usare del proprio tempo e caricarsi del rischio di essere mandato a quel paese con male parole.
Esistono diversi modelli matematici che descrivono il comportamento di popolazioni costituite da un mix di agenti egoisti e altruisti e che studiano la loro evoluzione nel tempo; per esempio è stato verificato che la presenza nella popolazione di un certo numero di punitori altruisti frena la disgregazione e impedisce che l'egoismo diventi il comportamento dominante. Infatti gli altruisti, vedendo che qualcuno interviene disinteressatamente per punire gli atteggiamenti predatori, si sentono incoraggiati e non passano nella schiera dei delusi. I predatori, stupiti di incontrare una reazione sociale al loro agire, adatteranno le proprie scelte future quantomeno limitando il proprio egoismo. Tutto questo viene simulato con matrici di vincita (punteggi) e facendo girare i programmi al computer molte volte finché la situazione non si stabilizza. Ma come vanno le cose con gli umani in carne e ossa? Quei modelli matematici hanno qualche rapporto con i comportamenti reali nelle nostre civiltà d'oggi?
Un gruppo di ricercatori, guidato da Joseph Henrich, del dipartimento di antropologia della Emory University di Atlanta, ha voluto verificarlo non già, come si fa di solito, usando gli studenti universitari, popolazione troppo culturalmente omogenea, ma andando a fare tre esperimenti di teoria dei giochi in mezzo a 15 popolazioni diverse, dagli Isanga della Tanzania agli Tsimane della Bolivia, dagli abitanti delle isole Yasawa nelle Fiji ai Gusii del Kenya. Una vera ricerca antropologica multiculturale. Il test centrale di questa ricerca viene sinteticamente spiegato in questa stessa pagina.
I risultati, pubblicati nel mese di giugno sulla rivista Science (vol. 312, pag. 1767- 1770) ci dicono tre cose: (1) Intanto che il comportamento punitivo ma disinteressato esiste in ogni cultura, indipendentemente dalla struttura sociale ed economica delle popolazioni; un po' come se un certo senso della giustizia e dell'ingiustizia fosse patrimonio comune di tutti gli abitanti il pianeta. (2) Tuttavia l'intensità di questi comportamenti, ovvero la percentuale di individui che agisce da castigatori altruisti, varia da situazione a situazione; in certi casi, addirittura si è notato una certa tendenza a punire anche i comportamenti troppo generosi, e non solo quelli troppo egoistici, quasi che un eccesso di generosità fosse disdicevole perché segno di una esibizione di potere. (3) Infine, questa tendenza a punire per tutelare un senso di giustizia pubblico, va di pari passo, ovvero è matematicamente correlato, con i risultati del terzo test che misurava l'altruismo, in altre parole sono proprio quelli più pronti a donare che più facilmente sono anche pronti a sanzionare l'egoismo degli altri. Insomma comunità che si autoregolano, sia nel promuovere comportamenti cooperativi, sia nel criticare e disincentivare quelli predatori.

Repubblica Salute 12.10.06
Schizofrenia, la solitudine delle famiglie
Al Congresso di neuropsicofarmacologia studio in 8 paesi: stessi problemi
di Silvia Baglioni


Parigi. "Nel mondo vi sono più di 50 milioni di persone che soffrono di malattie mentali gravi. Se calcoliamo tutti i familiari, si capisce immediatamente quanto è lunga l'ombra dei disturbi mentali". Con queste parole Preston Garrison, del World Federation for Mental Health (WFMH), ha introdotto la ricerca "Keeping care constant", la prima indagine internazionale condotta sui familiari che si occupano di malati affetti da disturbo mentale (schizofrenia, disturbo bipolare o schizoaffettivo), presentata a Parigi durante il congresso dell'European College of the Neuropsycopharmacology.
Lo studio, realizzato con il contributo della farmaceutica Lilly, è stato condotto in otto Paesi (Italia, Australia, Canada, Germania, Francia, Spagna, Regno Unito e USA) e ha coinvolto più di 100 familiari. Ciò che è emerso supera le frontiere e le differenze tra i diversi sistemi sanitari: queste famiglie, ovunque vivano, hanno gli stessi problemi e le stesse aspettative.
Sigrid Steffen della Federazione Europea delle Associazioni di Familiari di Persone con Disturbi Mentali (EUFAMAI) sottolinea i problemi: la gestione quotidiana della malattia, le difficoltà nel trovare la terapia adatta e personalizzata, le drammatiche conseguenze legate all'interruzione dei trattamenti, le ricadute che richiedono interventi repentini e a volte devastanti, la solitudine e, non ultimi, i pregiudizi.
Dalla ricerca emerge che circa il 50 per centodei malati vive in famiglia. Per oltre il 70% il disturbo mentale rappresenta uno stato cronico, e, nella maggioranza dei casi, sono stati necessari almeno due anni per individuare la terapia adatta. E sono proprio i farmaci la prima preoccupazione delle famiglie che, molto spesso, lamentano l'abbandono della terapia.
"Questo avviene principalmente in due casi" spiega Dieter Naber, psichiatra e psicoterapeuta dell'Università di Amburgo, "quando gli effetti collaterali sono molto pesanti, oppure quando i sintomi sembrano scamparsi e la persona si sente sicura di sé, dimenticandosi che quello stato di benessere è indotto proprio dalla terapia".
I familiari chiedono, attraverso le loro associazioni, che gli specialisti siano in grado di trattare le fasi acute con farmaci non troppo pesanti e di suggerire terapie adatta a cure croniche; un accesso facile ai servizi; sostegni economici. "In tutti i Paesi il budget destinato ai disturbi mentali è bassissimo" spiega la Steffen "e non è neppure confrontabile a quello destinato ad altre patologie".
In Italia la riforma psichiatrica del 1978 ha chiuso i manicomi spostando l'assistenza sul territorio: modello da molti imitato, ma ancora problematico. "In Paesi come quelli anglosassoni i pazienti gravi vengono ricoverati in strutture specializzate" afferma Maria Luisa Cardini, dell'Associazione ARAP, "da noi non succede. Le strutture territoriali spesso non hanno le risorse né le competenze per intervenire. Così, nei casi disperati, si arriva all'assurdo che i genitori denuncino i figli pericolosi al fine di farli internare nelle sole strutture presenti, i manicomi criminali".

saluteeuropa.it 10.10.06
Psichiatri, giudici e criminologi a confronto sulla malattia mentale


”Come cambia l’obbligo della cura in psichiatria” è il titolo del convegno che il prossimo 14 ottobre a Bergamo, nella sala Piatti di via San Salvatore in Città Alta, riunirà psichiatri, criminologi e giudici con l’obiettivo di esplorare i rapporti fra malattia mentale, servizi psichiatrici, carcere e ospedali psichiatrici giudiziari. L’iniziativa è organizzata dalla Fondazione Emilia Bosis e dal Dipartimento Salute Mentale degli Ospedali Riuniti di Bergamo con l’obiettivo di fare il punto sul trattamento di pazienti che, nei loro comportamenti patologici, sono risultati attori di reato, dalla clamorosità minacciosa fino al delitto più grave e drammatico. Il direttore del Dipartimento Salute Mentale dell’ospedale di Bergamo, dott. Massimo Biza anticipa: “A Bergamo, grazie ad un lungo lavoro di collaborazione fra servizi di psichiatria e uffici giudiziari oggi è possibile far si che i comportamenti malati, ancorché giudicabili come reato, possano dar vita ad un'iniziativa sanitaria, invece che semplicemente repressiva e ciò già a partire dalle primissime fasi del procedimento penale. In tal senso la nostra esperienza, finalizzata ad utilizzare le comunità residenziali di riabilitazione psichiatrica per curare malati che in passato, in un diverso regime o in altre esperienze italiane meno avanzate, andavano in carcere o in ospedale psichiatrico giudiziario, è considerata per molti aspetti pilota. I nostri servizi - aggiunge il dott. Biza - non si sostituiscono al carcere o al manicomio criminale. Come testimonieranno i direttori dei due principali ospedali psichiatrici giudiziari in rapporto con i servizi del Dipartimento di Bergamo, Castiglione delle Stiviere e Reggio Emilia, i servizi ospedalieri certamente consentono di evitare il ricorso a quelle istituzioni in tutti i casi in cui ciò è reputato possibile dal concorso di pareri degli psichiatri e dei giudici”. I comportamenti disturbanti, le misure e i servizi per farvi fronte saranno analizzati da psichiatri particolarmente impegnati nel settore come per esempio Gemma Brandi, direttrice della rivista nazionale "Il reo e il folle”, Vittorio Volterra, cattedratico di psichiatria a Bologna con docenze di psicopatologia forense, Isabella Merzagora Betsos, cattedratica di criminologia a Milano e Pierpaolo Martucci, docente di antropologia criminale a Trieste.

Corriere.it 12.10.06
Onu: violenza sui bambini emergenza globale
Uno studio delle Nazioni Unite denuncia: oltre 220 milioni di bambini vittime di abusi. Fenomeno spesso socialmente accettato


NEW YORK - Si potrebbe parlare dell'agghiacciante «normalità del male» leggendo i dati sulla violenza esercitata sui bambini nel mondo diffusi da uno studio commissionato dal segretario generale dell'Onu Kofi Annan, e frutto di quattro lavori di ricerche. Secondo l'indagine circa 150 milioni di bambine, il 14% della popolazione infantile del pianeta, sono vittime di abusi sessuali ogni anno, così come il 7% dei maschi, il che vuol dire 73 milioni di bambini. Inoltre tra l'80 e il 93% dei bambini subisce punizioni fisiche a casa, anche se molti di loro non ne parlano per vergogna e mancanza di fiducia nei sistemi legali. La casa può essere anche un posto pericoloso per le 82 milioni di bambine circa che si sposano prima di compiere i 18 anni e che possono subire violenze da parte dei loro partner. Infine: in 106 Paesi sono ancora permesse le punizioni fisiche nelle scuole. La violenza sui minori è, insomma, largamente accettata nel mondo come qualcosa di normale e spesso socialmente approvata, quando non addirittura legale.
EMERGENZA GLOBALE - «La protezione dalla violenza è una emergenza», scrive il professore Paulo Sergio Pinheiro, autore dello sconvolgente rapporto. Per Pinheiro - riferisce la Bbc on line - questa situazione non è accettabile e decenni di abusi silenziosi non possono rimanere incontrastati. «Molta gente, anche bambini, accetta la violenza come parte inevitabile della vita» spiega l'esperto nello studio, il primo di questo tipo, che registra i vari tipi di violenza, dalla prostituzione al bullismo a scuola, sviluppato in diversi ambienti e luoghi della vita dei bambini: a casa, nella comunità e nelle istituzioni.
SEGNI A LUNGO TERMINE - Queste violenze - sottolineano gli autori della ricerca - possono lasciare gravi segni psicologici a lungo termine. «Esorto gli stati - conclude Pinheiro - a proibire qualunque forma di violenza contro i bambini, in tutte le sue forme, includendo tutte le punizioni corporali, pratiche tradizionali dannose - come la mutilazione femminile genitale, i matrimoni prematuri e obbligati e i cosiddetti delitti d'onore - violenze sessuali e torture e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti».

mercoledì 11 ottobre 2006

LaStampaweb 11.10.06
Violenza contro le donne, un flagello mondiale
Così l'Onu: una donna su tre la subisce almeno una volta nella vita


NEW YORK. «Un flagello mondiale»: così l'Onu definisce la violenza contro le donne, che una su tre subisce almeno una volta nella vita, e in 192 stati tra quelli che fanno parte delle Nazioni Unite non esistono leggi che puniscano gli uomini protagonisti di tali violenze.
Questo il tema del rapporto dell'Onu che si è occupato in prevalenza di violenze fisiche, sessuali, psicologiche ma anche di mutilazioni genitali e di ciò che accade alle donne durante le guerre. In una conferenza stampa l'assistente del segretario generale Kofi Annan, Rachel Mayanja, ha detto: «Finalmente il velo sulle violenze contro le donne è stato squarciato; la realtà è diventata di pubblico dominio e ciò ci obbliga ad agire». Il rapporto, di 139 pagine, afferma che solo 89 paesi hanno una legislazione sulle violenze familiari e che tra il 40 e il 70 per cento delle donne assassinate lo sono dal marito o dall'amante.
Il rapporto parla anche di mutilazioni genitali subite da 130 milioni di ragazze nel mondo, soprattutto in Africa, in alcuni paesi del Medio Oriente e nelle comunità di immigrati.
Anche nei conflitti armati la violenza contro le donne ha spesso carattere sessuale. L'Onu stima che durante il genocidio del Ruanda del 1994, tra le 250 e le 500 mila donne siano state violentate e che tra le 20 e le 50 mila abbiano subito la stessa sorte durante il conflitto in Bosnia, negli anni Novanta.
Secondo il rapporto Onu allora il modo migliore per combattere tale flagello è quello di fare conoscere publicamente il fenomeno, parlarne, prendere impegni politici davanti all'opinione pubblica, coinvolgere la società civile e le organizzazioni, in particolare quelle delle donne, nell'elaborazione di leggi dedicate.

Corriere.it 10.10.06
Un libro svela i lati oscuri del controverso rapporto con il dottor Greenson
Marilyn, diario segreto di una schizofrenica
«Un'orfana a caccia d'amore». E il suo analista violò ogni regola
di Ranieri Polese


Per lui, lei era «la mia schizofrenica preferita », lui invece era l’uomo da cui lei voleva farsi adottare. Per trenta mesi, fra l’inizio del 1960 e il 4 agosto 1962, tra Marilyn Monroe e il dottor Ralph Greenson si svolse un folle corpo a corpo, devastante come una passione d’amore fatale, perversa, senza sesso. Da cui la diva sarebbe uscita cadavere lasciando il suo dottore a ripetere fino alla morte (1979) le sue giustificazioni. Marilyn dernières séances («Marilyn, le ultime sedute», pagine 533) è il romanzo di Michel Schneider uscito da poco in Francia da Grasset che racconta questa vicenda di amour fou. È stato uno dei libri caldi di Francoforte, e per l’Italia la gara è ancora aperta. Se già il taglio di questo romanzo è originale (l’ultima analisi di Marilyn come una grande storia d’amore), ancora di più è la scelta di Schneider di stare dalla parte del dottor Greenson, di voler comprendere il suo dramma.
A dispetto di biografi e fans della bionda divina che vedono in lui l’uomo da odiare. Così, questo autorevole freudiano (il suo Tecnica e pratica psicoanalitica, tradotto anche in italiano, è stato per molti anni testo di studio) che con la sua celebre paziente aveva infranto ogni regola terapeutica, è diventato un dottor Caligari vagamente satanico, l’uomo con la siringa in mano come lo mostra la biografia a fumetti Marilyn. Shooting Star uscita in Francia da Casterman. E invece «il dottor Greenson era un uomo perbene», dice nel libro uno strano personaggio, quel John Miner che non molti anni fa cercò di vendere le trascrizioni dei nastri incisi da Marilyn per il suo psicoanalista. Un tipo sospetto (lui stesso diceva di aver scritto a memoria le «libere associazioni» molti anni dopo) che proponeva un testo pieno di sesso, clisteri e un po’ di Joyce, il monologo di Molly Bloom, ovviamente. Ma il romanziere Schneider si prende la libertà di credergli, tralascia di riportare le frasi pornografiche di quei presunti nastri, e invece lo arruola come testimone a difesa del freudiano deragliato per amore. Gli spostati. Gennaio 1960. Marilyn, impegnata nelle riprese di Facciamo l’amore, sta male: il matrimonio con Arthur Miller vacilla, il rapporto con il regista George Cukor è pessimo, anche la relazione con Yves Montand crea tensione. Così ricorre al dottor Ralph Greenson, consigliatole da Marianne Kris che l’aveva avuta in cura a New York. Alla prima seduta, lei arriva in ritardo. Lui, comunque, non la fa stendere sul lettino. Dice di aver capito subito la fragilità della paziente, comincia un misto bizzarro di terapia, confidenze, familiarità. Si sentono per telefono, lei dopo un po’ resta a cena a casa di lui diventando amica dei figli e della moglie, si scambiano regali. Per fermare l’abuso di sonniferi e psicofarmaci, Greenson chiama un medico di sua fiducia e una governante. Ma intanto consiglia a Marilyn di servirsi come avvocato del proprio cognato, Milton Rudin.
Quando nel 1961 Marilyn gira Gli spostati su un soggetto scritto per lei da Miller, si verificano nuove crisi: Greenson le concede di tornare alle medicine proibite. Dopo il divorzio da Miller, il 1962 sarà un susseguirsi di cadute, che culminano nel licenziamento: per le continue assenze dal set di Something’s Got To Give, la Fox le darà il benservito. E il film resterà incompiuto. Il presidente Kennedy rompe con lei,ma gli subentra il fratello Robert. In questi mesi Marilyn e l’analista si vedono per molte ore tutti i giorni, weekend compresi. A maggio Greenson si prende una vacanza in Europa, ma dovrà tornare precipitosamente. Dal 28 giugno al fatale 4 agosto, i due non si lasceranno più. Pene d'amor perdute. Il dottor Greenson, nel romanzo, è un uomo con tante debolezze: sicuramente è lusingato di aver per paziente la donna più famosa di Hollywood, ne parla, se ne vanta. Ma intanto si fa invadere da lei, dice di amarla ma «come un’orfana bisognosa di infinito amore», crede di poter riuscire a gestire il transfert violando tutti i comandamenti del setting ortodosso. Non ha più una vita sua. Non vuole confessarsi di essere lui a dipendere dalla sua paziente. Lui, che aveva cambiato in Ralph il nome Romeo datogli dai genitori, gioca pericolosamente con eros e thanatos. Così—qui scatta l’intuizione romanzesca di Schneider, psicoanalista oltre che scrittore — farà di tutto per non perderla, a costo pure di provocare la tragedia. È Marilyn, ci dice il romanziere, che comincia a non voler più questo legame. Non vive senza Greenson, è vero, eppure confessa agli amici che vuole chiudere. Non ce la farà. Un complotto freudiano? Ma com'è morta Marilyn? Suicidio o omicidio? E nel caso sia stata uccisa, da chi e perché? Schneider, che ha letto moltissime biografie e ricerche sull’attrice (Summers, Spoto, Wolfe e naturalmente Mailer,la Oates e tanti altri), sa che non è possibile dare una risposta convalidata da prove inoppugnabili.
Così sceglie la via del romanzo: i personaggi sono veri, i fatti si possono ricostruire a piacimento. «Solo la finzione narrativa apre la via del reale» scrive. Mala verità che ci propone non ha nessun valore documentale. Certo, alcune coincidenze inquietano. Una soprattutto colpisce Schneider, la rete psicoanalitica entro cui l’attrice è finita intrappolata. Riprendendo lo studio di Luciano Mecacci (Il caso Marilyn,La terza, compare nella bibliografia di Schneider) lo scrittore ricompone questa famiglia tremenda, promiscua, «ai limiti dell’incesto». Negli anni ’30 Greenson si era fatto psicoanalizzare a Vienna da Wilhelm Stekel, un allievo di Sigmund Freud. Un altro allievo di Freud, Otto Fenichel, era stato il maestro di Rudolph Loewenstein, l’analista di Arthur Miller. Marianne Kris, discepola di Freud e analista di Marilyn, poi avrebbe avuto in cura anche Jacqueline Kennedy, moglie del presidente John, amante di Marilyn. Anton Kris, figlio di Marianne, era l’analista delmarito della governante di Marilyn. Anna Freud aveva curato Marilyn a Londra al tempo del film Il principe e la ballerina conLaurence Olivier. Fra i pazienti del dottorGreenson c’era Frank Sinatra, uno degli amanti di Marilyn. Greenson, dopo la morte dell’attrice, si fa psicoanalizzare a New York daMax Schur, ilmedico amico di Freud che nel 1939 a Londra lo aiutò a morire con lamorfina (le sue memorie escono ora, in Italia, da Bollati Boringhieri). Nei colloqui avuti con John Miner pochi giorni dopo la morte dell’attrice (veri, falsi, verosimili?, ma qual è il discrimine tra romanzo e verità?) Greenson avrebbe detto: «Non so chi abbia ucciso Marilyn. La psicoanalisi, certo, ha avuto un ruolo in tutto questo. Non è stata lei a ucciderla, come dicono gli antifreudiani e gli antisemiti. Però non l’ha aiutata a sopravvivere».

Unità.it 11.11.06
Iraq, studio Usa: «655mila morti per la guerra»


«655mila iracheni sono morti dall´inizio della guerra». Scuote gli Stati Uniti il nuovo calcolo delle vittime civili del conflitto iracheno iniziato nel 2003 realizzato da un gruppo di ricercatori statunitensi della Scuola medica Bloomberg dell'Università Johns Hopkins. Pubblicato sulla rivista britannica The Lancet lo studio arriva sulle prime pagine del Washington Post e del New York Times. E poi anche in apertura del sito internet della Cnn.

In effetti quello degli studiosi della prestigiosa università statunitense è il bilancio più alto registrato finora sul conflitto iracheno. Lo stesso sito internet Iraqbodycount che fino ad oggi era stato preso come punto di riferimento indipendente per la stima delle vittime della guerra, parlava di una cifra compresa tra i 43mila e i 48mila morti. Mentre la rivista britannica Lancet aveva pubblicato nel 2004 uno studio che riferiva di 100.000 morti nei primi 18 mesi di conflitto

Ma adesso si parla di 655.000 vittime complessive di cui 601.000 decedute in seguito ad atti di violenza e le restanti per malattie o altre cause. I ricercatori affermano di aver registrato un regolare incremento della mortalità dall'inizio del conflitto, con un forte aumento nell'ultimo anno. La ricerca è stata condotta da medici iracheni sotto il controllo degli epidemiologi della Scuola medica Bloomberg dell'Università Johns Hopkins.

Lo studio è stato condotto da otto medici iracheni dell'Università Mustansiriya di Baghdad nel periodo compreso tra il 20 maggio e il 10 giugno scorsi su un campione di 1.849 famiglie, composte in media da sette membri, sparse in 47 zone del paese. Le aree sono state scelte in base alla densità di popolazione e non al tasso di violenza. Ogni membro di ciascuna famiglia ha riferito dei lutti avuti nei 14 mesi precedenti la guerra e nel periodo successivo. Stando ai risultati dello studio, prima del conflitto si avevano 5,5 morti ogni 1.000 persone, dopo la guerra 13,3 ogni 1.000. Le ferite da arma da fuoco hanno causato il 56% delle morti violente, mentre autobombe e altre esplosioni il 14%. Un altro 31% è stato causato dai bombardamenti o dalle operazioni delle forze di coalizione.

Intanto arriva l´ennesimo allarme dell´Onu sulla drammatica situazione dei civili in Iraq. Il Sottosegretario delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, Jan Egeland, ha denunciato che negli ultimi otto mesi 315.000 iracheni sono stati costretti ad abbandonare le proprie case a causa del «peggioramento molto preoccupante» delle loro condizioni di vita. Il ministro iracheno per l'Immigrazione, Abdul-Samad Sultan, aveva pochi giorni fa affermato che sono oltre 300.000 le persone sfollate nel paese dall'inizio della guerra, nel marzo 2003. Egeland, invece, ha sottolineato che la fuga è stata innescata dalle violenze seguite all'attacco contro il mausoleo sciita di Samarra, avvenuto lo scorso febbraio. «Da allora ogni settimana abbiamo una media di 9.000 sfollati», ha detto il Sottosegretario Onu alla stampa.

l’Unità 11.10.06
Bertinotti a Budapest per l’anniversario del ’56: «Il crollo del muro cominciò da qui»
Il presidente della Camera oggi sulla tomba di Nagy: «Quella rivolta spenta coi carrarmati ci dice quanto è grande il costo per la conquista della democrazia»
di Simone Collini


IL MURO «Il crollo del Muro di Berlino comincia qui, a Budapest». Fausto Bertinotti non usa mai la formula generica «fatti d'Ungheria». Quella del '56, dice ripren-
dendo una definizione veicolata dallo stesso Imre Nagy prima di essere impiccato, è stata «una insurrezione nazionale e democratica». Il presidente della Camera è in visita nella capitale ungherese per commemorare il cinquantesimo anniversario di quella che già nel recente faccia a faccia con Fini aveva definito «una tragedia, una nefandezza». Ora visita la mostra fotografica allestita per la ricorrenza all’Istituto italiano di cultura e approfondisce il discorso. «Tutta la nostra solidarietà e adesione sono per gli insorti», mette subito in chiaro, «incondizionata condanna della repressione armata da parte di un paese straniero come l'Unione sovietica». La rivolta ungherese, dice, «ha annunciato tutti i temi irrisolti che hanno portato al crollo dell’Urss e dei regimi dell'Est». La repressione nel sangue di quel "moto di popolo", aggiunge, «ha segnato gli eventi successivi, le vittime ma anche i carnefici».
Guarda le foto di quei giorni dell'autunno '56, le piazze piene di gente festante il 24 ottobre, la statua di Stalin buttata giù, la bandiera con un grande buco al centro, dove prima c'erano la falce e martello. Guarda quella stessa gente immortalata con i fucili in spalla nei giorni successivi («guarda quante donne»», dice alla moglie Lella che lo accompagna), le immagini del presidente Nagy che parla alla Kossuth Radio. Poi guarda i palazzi sventrati e le colonne di carri armati che il 4 novembre entrano nella città, i morti per le strade e quelli che con valigie e sacchi in spalla fuggono verso l'Austria.
All'epoca Bertinotti aveva 16 anni. «A quell'età stai sempre con gli insorti», sorride. «Ma direi il falso se dicessi che era frutto di una coscienza politica sostenibile». Oggi, dice concordando sul fatto che allora avesse ragione Nenni, questa coscienza è radicata. Complice anche quanto avvenuto anni dopo a Praga: «Lì si consuma l'idea dell'irriformabilità dei paesi dell'Est».
Il Pci nel '56 si piazzò «da una parte della barricata», quella dell'Armata rossa. E se Togliatti disse «oggi ho bevuto un bicchiere di vino in più» a un Ingrao titubante prima di scrivere quell'editoriale su l'Unità, Bertinotti non esita a dire che «ci sono momenti in cui c'è la sospensione dell'umanità». Più tardi, parlando con l'ambasciatore dell'Italia a Budapest Paolo Guido Spinelli, aggiunge anche un'altra cosa sull'allora segretario del Pci: «In Italia il partito ottenne un buon risultato alle elezioni che seguirono l'insurrezione e la repressione. Si dice che Togliatti chiese all'Unione sovietica di rimandare a dopo il voto l'esecuzione di Nagy. Si dice», chiude con un sorriso e alzando le braccia.
Ma se si prova a chiedergli che senso abbia ancora oggi, per un uomo o per un partito, definirsi comunista, Bertinotti butta là una battuta ("per tigna"), per poi argomentare serio: «Finché ci sono oppressi ed oppressori rimane l'idea che gli oppressi possano farcela. Non fa decadere la ragione del comunismo la tragedia del suo rovesciarsi in un regime oppressivo. Per negare la possibilità di dirmi comunista mi si dovrebbe dimostrare che non esiste più il lavoro salariato né l' alienazione capitalista».
Oggi sarà al Parlamento ungherese per la sessione commemorativa del cinquantenario, e poi alla tomba di Nagy. Questa celebrazione, dice sottolineando che questa è l'unica frase pronunciata come presidente della Camera, «ci dice quanto costi la conquista della democrazia». Ma siccome essere equivocati è facile, poi aggiunge: «La democrazia non può essere esportata, può solo essere conquistata, non imposta».

il manifesto 11.10.06
A Budapest
Bertinotti: nel '56 fu rivolta di sinistra


Le ragioni della sinistra non possono mai essere dalla parte della repressione e dei carri armati. Il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, era ieri a Budapest in occasione del cinquantenario della rivolta anti-sovietica: «I conti con la storia non si chiudono mai - osserva Bertinotti - certo che oggi inequivocabilmente si può dire che se esiste una ragione per il futuro della sinistra, questa nel 1956 viveva qui dalla parte degli insorti e non dalla parte dei carri armati dell'Unione Sovietica». Un mese fa il presidente della repubblica Giorgio Napolitano era stato sulla tomba del leader della rivolta Imre Nagy per rendere omaggio al leader sia come presidente della repubblica che come ex leader del partito comunista italiano disposto a un «mea culpa» formale ed esplicito. Ora è il presidente della camera a fare lo stesso con un gesto che potrebbe far discutere almeno un pezzo del partito di cui fa parte ed è stato a lungo segretario, Rifondazione comunista. «La repressione operata tragicamente nei confronti degli insorti - ha spiegato Bertinotti - l'intervento armato, l'invasione dell'esercito dell'Unione sovietica ha scritto una delle pagine più angoscianti e terribili della storia moderna. Quali che siano le nostre propensioni politiche quello che va acquisito per il futuro è che gli insorti interpretavano le ragioni nazionali e democratiche di un paese. Quando rivolte popolari accadono la politica se non sa ascoltare, diventa una forma brutale di repressione che contraddice le sue ragioni stesse di essere». Non è stata un'abiura del comunismo, ha detto subito dopo Bertinotti spiegando che continuerà a dirsi comunista fino a che ci sarà il capitalismo: «Vorrei quasi rispondervi che mi dico comunista per tigna - ha detto ai giornalisti presenti sserva - ma poi credo che perché si determini la situazione di negare la possibilità di dirsi comunista, bisognerebbe dimostrare che non esiste più il lavoro salariato e l'alienazione capitalistica. Allora la parola comunista sarebbe finita, solo allora: finito il capitalismo, saremmo entrati in un'altra società e tutto l'armamentario del comunismo non sarebbe più utilizzabile, perché si riferisce a un'altra società. Se scompare il capitalismo finisce anche il comunismo». Sull'Ungheria, però, è necessaria una riflessione: «Questa è stata una tappa, quello che è accaduto qui è stata una tragedia, che per qualcuno lo è di più che per altri, perché chiama in causa una corresponsabilità per quanto indiretta e in senso lato. Qui è venuto prima di me ad inginocchiarsi Willy Brandt. Qui è stata scritta una pagina grande della storia d'Europa, che ci avverte tutti del rischio di un potere che, restraniandosi dal popolo, diventa soltanto oppressione».

Liberazione 11.10.06
Il presidente della Camera in Ungheria per le celebrazioni del ’56

Bertinotti: «La democrazia come
la rivoluzione si conquista, non si impone»
di Anubi D’Avossa Lussurgiu


L’Istituto italiano di cultura a Budapest è un’antica sede del Parlamento: nella sala che ospitò i primi eletti dal popolo il presidente della Camera dei deputati italiana, Fausto Bertinotti, entra solo al termine di un lungo e attento pellegrinaggio tra le fotografie della mostra “il 1956 raccontato per immagini”. Nel palazzo di Bròdy Sàndor 8 sono un mare le immagini di cinquant’anni fa, trascorrendo dai momenti topici della rivoluzione iniziata il 23 ottobre e chiusa il 4 novembre dall’ingresso a tradimento di 2500 carri armati sovietici, fino all’ultima di Imre Nagy durante l’estrema difesa al processo che lo mandò al patibolo, passando per le decine di rare testimonianze visive delle migliaia di ungheresi trascinati in esodo nei campi profughi austriaci e di mezzo mondo (37mila solo in Canada). L’allestimento nell’antica aula parlamentare è un suggestivo riassunto per grandi immagini, distese cronologicamente a terra e per istantanee emblematiche alle pareti: in queste ultime, Bertinotti trova l’occasione per una prima notazione che appare quasi di sfogo, «guardate quell’ufficiale ritratto dopo la caduta di Budapest, com’è diverso dagli altri che hanno volti di persone, la sua faccia di pietra sembra l’emblema del potere».

Il Presidente della Camera è in visita nella capitale ungherese, segnata dal duro scontro politico in atto fra il governo socialista e l’opposizione che ha scelto la via della piazza, all’inizio delle celebrazioni del cinquantennale di quel ’56. Oggi parteciperà nel palazzo del Parlamento attuale, in piazza Kossuth, alla sessione commemorativa cui parteciperà l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e delegazioni istituzionali di 19 stati. Poi, andrà a deporre personalmente una corona al monumento ai martiri della rivoluzione e renderà omaggio alle tombe di Nagy e dell’eroe ignoto. Ma ieri, nella prima, breve porzione di questo viaggio in due giorni, ha voluto comunicare subito con i giornalisti italiani al seguito. Molti e per fortuna già appagati dalle dichiarazioni rese nel corso della trasmissione di “Otto e mezzo” di lunedì per quanto concerne l’attualità politica di casa nostra: così Bertinotti può concedersi una riflessione più approfondita, tutta radicata nella storia personale e collettiva di chi si sente «sia pur indirettamente» comunque «responsabile» di una rielaborazione della storia che il 1956 ha segnato. Tiene molto, l’ex Segretario di Rifondazione comunista e attuale Presidente della Sinistra europea al separare il proprio ruolo di terza carica dello Stato da quello di singolo uomo politico nelle parole che pesa attentamente. Nella prima veste dichiara subito un «omaggio senza condizioni» a quella «rivoluzione», anzi una «adesione assoluta alle ragioni dei rivoltosi» e una «condanna altrettanto totale della repressione». E ancora in questa veste riconosce la «tappa storica» di quella che con le parole di Nagy al processo chiama «rivoluzione nazionale democratica».

E’ una definizione con cui inizia anche il suo ragionamento di persona e personaggio politico, di comunista alle prese con la testimonianza di una così grande rovina del «comunismo reale».
Lo fa rispondendo alle domande, prima delle quali quella di Riccardo Barenghi che gli chiede se nella vicenda ungherese di cinquant’anni fa veda «i due volti del comunismo» oppure la contrapposizione tra il comunismo dominato dall’esperienza sovietica e un’istanza di libertà che non poteva che contrapporvisi: proprio qui torna la definizione di Nagy, che Bertinotti ricorda essere stata mutuata da due altri protagonisti della rivoluzione, Ferenc Donàth e Geza Losoncsy. Due membri, sottolinea, del comitato centrale del Partito comunista ungherese, sbattuti dal regime filosovietico restauratore di Janos Kadàr in carcere, il secondo morto in seguito all’alimentazione forzata. Comunisti fino all’ultimo e tuttavia autori loro stessi di quella definizione della rivoluzione cui avevano prendevano parte; rivoluzionari contrapposti al potere sovietico, nazionali e democratici, e tuttavia comunisti fino all’ultimo.

Dunque per Bertinotti non si tratta di rilevare due anime dell’esperienza comunista nei fatti del ’56, che in sé descrivono un processo «complesso», partecipato sì da una prevalenza operaia e segnato dai Consigli dei lavoratori, ma appunto sintetizzabile in una rivolta nazionale e democratica. Che al centro aveva e restituisce oggi alla memoria presente una questione «fondamentale»: quella «della democrazia». Quel che interessa dal punto di vista della riflessione politica di chi, come lui incalzato dai cronisti, continua ad affermare l’orizzonte di un «comunismo» anzitutto e in ultimo quale «necessità e possibilità di liberazione» almeno «finché esistono oppressi ed oppressori», fino a che «non mi si dimostri che viviamo in una società diversa da quella dello sfruttamento e dell’alienazione capitalistica», è altro: quel che interessa a chi ragiona così è la «lezione» di una rivoluzione negata dalla «concezione del potere come macchina oggettiva», dalla «superiorità delle ragioni del Partito in cui si considera inverato un destino storico», dal «ricatto psico-politico insito nella subordinazione delle persone agli obiettivi “strategici”». Cioè le «caratteristiche» di una cultura politica che ha segnato tanta parte del comunismo novecentesco e con esso dello stesso movimento operaio. Un’accumulazione di elementi sfociati in un «disastro» con cui «non si può cessare di fare i conti».

Bertinotti tiene molto anche a sottolineare che queste riflessioni non tendono ad una sorta di lavacro di coscienza, per quanto personalmente non coinvolta. Punta, invece, a rendere testimonianza di una interrogazione che è al fondo di ogni sforzo di elaborazione politica per continuare a cercare una “uscita da sinistra” da quel disastro. Quella evocata nella storia viva del 1956 ungherese consiliare e operaio, ma ancor più quella resa necessaria dalla presa di consapevolezza che il suo schiacciamento fu una «tappa irreversibile» di una storia. In questo orizzonte non c’è più «presunzione di autosufficienza del partito» che tenga, anche se rimane il riconoscimento alla «straordinaria peculiarità» dell’esperienza del partito comunista italiano nella sua «felice ambiguità tra struttura autoritaria e costituzione materiale di popolo»; non c’è più nessuna difendibilità di «ragioni superiori della Storia» di fronte alle «istanze di libertà», non c’è più nemmeno la «priorità» di una «denominazione partitica». Resta invece quella ricerca di liberazione. Ormai, e proprio in nome dell’esperienza storica, inseparabile nei suoi interrogativi da quelli che un 1956 pone alla «politica per intero»: il rapporto tra individuo e potere, tra identità e libertà, tra democrazia e liberazione sociale.