sabato 21 giugno 2014

l’Unità 21.6.14
Ai lettori

Ecco i giornalisti che hanno realizzato il giornale oggi in edicola. La redazione continuerà la sua battaglia in difesa del giornale e dei posti di lavoro fino all’incontro con i liquidatori della società editrice. In quell’occasione, chiederemo certezze sul futuro del quotidiano e sul pagamento di tutte le spettanze maturate. Senza queste certezze dovute, lo sciopero sarà inevitabile così come iniziative di carattere legale a tutela della testata e dei nostri posti di lavoro.
IL CDR

l’Unità 21.6.14
Nuovo Senato, ecco che funzioni avrà. E ritorna l’immunità


I 20 emendamenti a firma Finocchiaro e Calderoli
Sono in tutto20 gli emendamenti dei relatori, Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli, depositati in commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama al ddl costituzionale. Per quanto riguarda la composizione del nuovo Senato, si prevede che ne facciano parte100 senatori, dei quali 95 «rappresentativi delle istituzioni territoriali» e cinque che possono essere nominati dal presidente della Repubblica. In particolare, «74sono eletti dai consigli regionali e dai consigli delle province autonome di Trento e Bolzano fra i loro membri - si legge in un emendamento- in proporzione alla loro composizione. Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a tre, Molise, Valle D’Aosta e province autonome ne hanno uno». La ripartizione dei seggi tra le regioni si effettua in proporzione alla popolazione. Ventuno senatori sono eletti dai consigli regionali e delle Province autonome fra i sindaci di Comuni della Regione nella misura di uno per ciascuna. Per quanto riguarda invece le funzioni del nuovo senato, si prevede che quella legislativa sia esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di referendum popolare, per le leggi che autorizzano la ratifica dei trattati europei. Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati. Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro 10 giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei 30giorni successivi il Senato può deliberare proposte di modifica del testo sulle quali la Camera dei deputati, entro i successivi20 giorni, si pronuncia in via definitiva. Se il Senato non ha modifiche da apportare la legge si promulga.

il Sole 21.6.14
Riforme istituzionali
Accordo sul Senato Pd-Fi-Lega
Accordo raggiunto sulla riforma del Senato: ieri Pd, Forza Italia e Lega hanno depositato gli emendamenti condivisi
di Emilia Patta

ROMA. I venti emendamenti condivisi alla riforma del Senato e del Titolo V a firma dei relatori Anna Finocchiaro (Pd, presidente della commissione Affari costituzionali del Senato) e Roberto Calderoli (Lega) sono stati depositati ieri sera proprio quando in Senato si stava diffondendo la voce di uno slittamento a lunedì. Il via libera di Forza Italia è dunque arrivato, e un po' prima del previsto. A dare l'annuncio della "svolta" è Calderoli: «Chi l'ha dura la vince! Alla fine andiamo verso un vero Senato delle autonomie come quello tedesco dotato di pieni poteri, le regioni incrementeranno la propria autonomia e finalmente i principi del federalismo fiscale saranno costituzionalizzati». Le cose non stanno esattamente così per il premier Matteo Renzi, che subito precisa: «Calderoli prova a rigirare la frittata facendo finta di aver vinto – dice il premier parlando con i suoi collaboratori –. Ma chi conosce la vicenda sa come sono andate le cose: il Senato non sarà elettivo; infrastrutture, energia, commercio con l'estero, promozione turistica sono materie che passano dalle Regioni allo Stato; il Cnel viene abolito; le indennità dei consiglieri regionali diventano come quelle dei sindaci». Si tratta dunque di «un ottimo punto di arrivo», conclude Renzi con soddisfazione. «La Lega era tagliata fuori dal patto tra la maggioranza e Forza Italia e adesso prova a mettere la sua bandierina. Facciano pure, se hanno bisogno di visibilità: a noi interessano le riforme».
L'impianto della riforma, dopo l'asse rinsaldato con Fi, resta dunque quello "renziano", anche se il premier ha dovuto cedere su una minore presenza dei sindaci nel nuovo Senato. Come anticipato dal Sole 24 Ore nei giorni scorsi la nuova Camera delle Autonomie, che non darà la fiducia al governo superando decenni di bicameralismo perfetto, sarà composta da soli 100 membri invece dei 143 previsti inizialmente dal testo del governo: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 nominati da capo dello Stato per la durata di 7 anni. L'elezione, rigorosamente di secondo livello, avverrà nell'ambito dei consigli regionali con modalità che saranno stabilite da una prossima legge di attuazione. Quanto ai poteri del nuovo Senato, il bicameralismo resterà solo per le modifiche costituzionali, per le leggi elettorali e per i referendum: su tutto il resto legifererà la sola Camera dei deputati. Con la riforma del Titolo V si cancella inoltre la legislazione concorrente e molte materie di interesse nazionale tornano sotto l'egida dello Stato, a cominciare da energia e grandi reti infrastrutturali. La concessione alla Lega (da qui, forse, il "vanto" di Calderoli) riguarda il ritorno, rispetto al testo del governo, di una compartecipazione delle Regioni alla gestione e all'organizzazione in materie come ambiente, beni culturali e turismo (si veda l'articolo in pagina). Concessione che potrebbe in effetti mantenere in parte aperta la porta del contenzioso tra Stato e Regioni davanti alla Consulta. Tra le novità dell'ultima ora la previsione di un giudizio di costituzionalità preventivo da parte della Consulta sulle leggi elettorali («mai più un Parlamento in sospetto di costituzionalità», spiega il capogruppo del Pd in Senato Luigi Zanda riferendosi alla recente bocciatura del Porcellum). Altra novità – che sicuramente farà discutere – è l'introduzione dell'immunità, nel testo del governo prevista solo per i deputati, anche per i nuovi senatori.
L'accordo con Fi ha tenuto e terrà, dunque. E come lascia chiaramente intendere la ministra per le Riforme Maria Elena Boschi è un accordo che comprende anche l'Italicum e il suo impianto bipolarista garantito dal ballottaggio nazionale: «Non si cambia partner all'ultimo momento – ha detto Boschi a proposito dell'incontro di mercoledì con la delegazione del M5S –. Eventuali modifiche possono essere prese in considerazione solo se saranno condivise dalle altre forze che hanno contribuito sin qui alla legge elettorale e alle riforme». Ossia se saranno condivise da Fi. Era quello che voleva Berlusconi, timoroso di essere scavalcato dall'apertura dei grillini. Che rispondono con evidente nervosismo, nella consapevolezza di arrivare a giochi quasi fatti: «Diamo a Renzi l'opportunità di uscire da quel ricatto di Berlusconi che lui stesso disse esserci quando affermò che non c'era alternativa al Cavaliere - replica alla Boschi il deputato M5S Manlio Di Stefano -. Noi gli diamo un'alternativa: chiarisca se preferisce continuare con lui o aprirsi a un percorso nuovo con noi».

il Sole 21.6.14
A Mix 24. Il fondatore di Mediolanum
Doris: Renzi e Berlusconi faranno le riforme insieme


Crede nel presidente del consiglio Matteo Renzi, si dice «felice» che sia apparso sulla scena e «convinto» che assieme a Silvio Berlusconi farà le riforme. Ennio Doris, fondatore di Mediolanum (gruppo bancario-assicurativo) in alleanza con lo stesso Berlusconi (quindi uomo tra i più ascoltati dall'ex premier), ne ha parlato ieri a Mix24 di Giovanni Minoli su Radio 24. «Credo in Renzi perché Renzi è proprio un prodotto, un figlio del modo di fare politica di Berlusconi - ha detto Doris -. Sono felice che sia apparso un Renzi nella scena politica italiana. Insieme Renzi e Berlusconi faranno le riforme. Ritengo che a Renzi sia piovuta la storia addosso. Perché si trova in una condizione nella quale non si è mai trovato nessun primo ministro - ha detto poi Doris -. In primo luogo se lui dà le dimissioni il Presidente della Repubblica non ha alternative e quindi con questa arma in mano può imporre molte cose agli altri politici e, secondo, è la prima volta che c'è un accordo con l'opposizione per fare le riforme».
Ma Doris ha anche parlato del tema caldo degli stipendi dei top manager: «Se un top manager è veramente bravo e tu non lo paghi a sufficienza se ne va e quindi quella banca ha un danno e quindi anche i dipendenti. C'è un mercato», ha sottolineato così Doris concedendo però che «molto spesso si paga chi non se lo merita». Secondo Doris poi «la turbo finanza speculativa che ha dominato questi ultimi anni è arrivata al capolinea, ma riprenderà. Perché l'avidità umana non ha confini. Quindi prima o poi viene fuori. Finita una bolla ne comincia sicuramente un'altra, non sappiamo quando ma sarà così», ha spiegato. Quanto alle banche, ha evidenziato: «Hanno la responsabilità di non essere state sempre molto trasparenti con la clientela. I servizi bancari sono un po' complicati, quindi necessitano di uno sforzo enorme perché il cliente capisca che cosa gli viene offerto». In conclusione Doris ha ricordato il suo rapporto con l'ex premier: «Mediolanum l'ho proposto solo a Berlusconi e lui in un istante ha capito e mi ha veramente sconvolto. Senza Berlusconi molto difficile che avrei fatto Mediolanum».

l’Unità 21.6.14
Doppio turno e niente preferenze: Renzi blinda l’Italicum


Aspetta di leggere tutte le dichiarazioni, adesso che gli emendamenti dei relatori in Commissione Affari costituzionali sono stati depositati. L’Italia ha appena perso la partita, l’umore non aiuta, ma quel tentativo di Roberto Calderoli di intestarsi la quadratura del cerchio non se lo manda giù. E così Matteo Renzi con i suoi non la lascia passare: «Si tratta di un ottimo punto di arrivo. Calderoli prova a rigirare la frittata facendo finta di aver vinto. Ma chi conosce la vicenda sa come sono andate le cose: il Senato non sarà elettivo e infrastrutture, energia, commercio con l’estero, promozione turistica, sono materie che passano dalle Regioni allo Stato». Rivendica cioè quell’impostazione iniziale che è sempre stata il suo pallino fisso e oggi dice, «si tratta di un ottimo punto di arrivo. La Lega era tagliata fuori dal patto tra la maggioranza e Fi e adesso prova a mettere la sua bandierina. Facciano pure se hanno bisogno di visibilità. A noi interessano le riforme». Sa bene il premier che adesso la tentazione di salire sul carro del vincitore è forte, mesi fa nessuno avrebbe scommesso un euro sul percorso delle riforme e sulla tenuta del patto del Nazareno. Adesso, persino il M5S ha capito di essere finito nell’angolo e cerca di mostrare aperture che sanno di strumentale.
Ma come aveva anticipato ieri l’Unità, Renzi sulle riforme non intende rallentare né arretrare di un millimetro. Quindi, bene l’incontro con M5S ma l’impianto della legge elettorale è quello uscito dalla Camera e quello del superamento del Senato resta ancorato al lavoro che i due relatori stanno facendo in Commissione Affari Costituzionali. Ci sono margini di intervento ma non si può stravolgere il lavoro svolto fin qui. E così, preso atto che Beppe Grillo nel giro di due giorni ha cambiato due volte idea - prima la richiesta di incontro con il premier, poi con il Pd e dunque una delegazione parlamentare – il mandato è chiaro. «Si va e si ascolta ma non si accettano ultimatum né si manda all’aria l’accordo su cui si è costruita l’intesa di questi ultimi mesi».
Anche sull’Italicum, modello di riforma elettorale su cui il Pd non intende cambiare idea, ci sono margini di intervento ma molto meno ampi di quanto si possa immaginare. È vero che ieri la ministra Maria Elena Boschi durante la conferenza stampa a Palazzo Chigi ha lasciato intendere possibili aperture sulle liste bloccate, ma è pur vero che in questa fase pre-incontro con i pentastellati non si possono mostrare troppe rigidità. In realtà a Palazzo Chigi non sono affatto intenzionati ad aprire alle preferenze: se interventi si possono fare durante il passaggio al Senato, è soprattutto sui collegi, dove c’è più disponibilità, e su liste più corte di quelle attuali. Su una cosa Renzi non intende trattare: il ballottaggio nel caso in cui nessuno riesca ad aggiudicarsi la maggioranza al primo turno. «Noi dobbiamo dare ai cittadini una legge elettorale che una volta chiuse le urne, dica con chiarezza chi ha vinto e che permetta a chi ha vinto di governare per l’intera legislatura». E questo in sostanza sarà il messaggio che la delegazione Pd che mercoledì incontrerà il M5s. Stesso discorso sulla riforma del Senato e il Titolo V: sì a miglioramenti, no a stravolgimenti. Renzi sa che dopo il risultato elettorale, che gli ha dato grande forza politica e legittimazione, non si può perdere tempo. I risultati dovranno arrivare già da luglio, con l’inizio del semestre italiano in sede Ue. La forza che gli ha dato il voto del25maggio, nel ragionamento del premier, sarà consolidata soltanto dai primi risultati concreti proprio sul fronte delle riforme. Da lì, dalla capacità di fare un salto in avanti sullo sfoltimento burocratico, l’efficientamento della Pa, la riforma della giustizia, la razionalizzazione della spesa pubblica, il rilancio degli investimenti in Italia e quindi nuova occupazione, dipenderà la credibilità del nostro Paese a Bruxelles. Sul fronte interno il segretario del Pd guarda con attenzione a quanto sta accadendo in Sel e in Scelta civica: quel partito della Nazione, di cui ha parlato Reichlin, rilanciato e fatto proprio da Renzi, prende forma sempre più nitidamente. Ma il rischio di perdere pezzi mentre se ne aggiungono altri non sfugge. Non a caso il vice segretario Lorenzo Guerini eil responsabile Enti Locali, Stefano Bonaccini, stanno girando tra Perugia, Livorno, Padova (dove il Pd alle elezioni è andato male) per cercare di riannodare i fili con gli elettori. «Coraggio e responsabilità» le parole d’ordine rivolte ai dirigenti locali. In Calabria, dove a novembre si tornerà al voto per il rinnovo del Consiglio regionale e per eleggere il sindaco di Reggio Calabria, la parola è soltanto una: rinnovamento.

Repubblica 21.6.14
Il preventivo
di Sebastiano Messina


“SPETT.le ditta Renzi & C., a seguito dei contatti intercorsi con il nostro amm. re unico dottor B. siamo lieti di sottoporVi la nostra migliore offerta per le opere da eseguire negli stabili di Palazzo Madama e Montecitorio.
A) Lavori di ristrutturazione della seconda Camera, con demolizione dei poteri superflui. Prezzo: n. 1 legge per depenalizzazione prostituzione minorile. B) Progettazione e posa in opera di legge elettorale nuova, comprensiva di liste bloccate a norma. Prezzo: n. 3 grazie presidenziali in bianco. C) Fornitura di 127 grandi elettori pronti all’uso per Palazzo Quirinale (nome da concordare). Prezzo: n. 1 colpo di spugna per interdizioni dai pubblici uffici. Nel sopraccitato preventivo sono compresi materiali e manodopera. Pagamento entro 30 gg. da pubblicazione su Gazzetta Ufficiale. Distinti saluti, e Forza Italia».

l’Unità 21.6.14
Senato e legge elettorale Renzi ascolti le obiezioni
Eugenio Mazzarella


LO STRAORDINARIO RISULTATO DI RENZI ALLE EUROPEE, MERITO DELL’ABILITÀ CON CUI RENZI HA PROPOSTO AGLI ITALIANI IL PD come alternativa di cambiamento sostenibile contro lo sfascismo di Grillo e l’impotenza diffusa delle altre proposte politiche in campo, ha aperto un’inattesa finestra di possibilità alle riforme istituzionali. Tanto da costringere Grillo a prendere atto della forte legittimazione di Renzi a guidare questo processo. Una presa d’atto che, al netto di tatticismi, ha ulteriormente rafforzato il premier nel dialogo con Berlusconi sulle riforme.
Ci sono tutte le condizioni per mettere le mani davvero alle riforme istituzionali, a cominciare dal Senato, in un percorso parlamentare che non tagli fuori nessuno. La prova di forza di Renzi nelle urne, e anche nel dibattito interno al Pd, si è tutta risolta a suo vantaggio. Ora si va in aula. Merito di Renzi. Sarà il primo a portare in Europa, si spera, un inizio di processo riformatore. E poiché sul punto non c’è più nulla da dimostrare, né velocità né tasso di decisionismo, il premier ha tutto da guadagnare da un approccio di ponderazione e lungimiranza sulle obiezioni che restano nel merito della riforma del Senato. E della legge elettorale.
Acquisito l’obiettivo del superamento del bicameralismo perfetto, irrobustite pare le funzioni da assegnare al nuovo Senato, fondamentalmente non incisive sull’indirizzo di governo, ma piuttosto sulla governance istituzionale di lungo periodo (diritti, materie costituzionali, organi di garanzia, a cominciare dall’elezione del Presidente della Repubblica), resta il nodo della fonte di legittimazione del Senato: il modo della sua elezione.
Anche su questo non è impossibile trovare una ragionata e ragionevole condivisione parlamentare. Qui Renzi è chiamato a rispondere a due problemi, che sono reali. L’elezione indiretta dei senatori consegnerebbe al ceto politico locale - quale che siano le proporzioni tra sindaci e governatori - la designazione dei senatori, in un modo ristretto (se individuato come collegata alla funzione, sindaco o presidente di regione, che sia) o più ampio (se eletti da un collegio di rappresentanti politici locali).
Come già nello schema dell’Italicum, i cittadini non avrebbero parola diretta nella scelta dei senatori. L’obiezione è forte, e non può essere derubricata a freno riformatore. Ma c’è un’obiezione di sociologia politica, oggi come oggi a mio avviso ancora più stringente. Può un ceto politico locale che da Messina a Milano a Venezia (ma fondamentalmente da vent’anni in tutta Italia) sta dando pessima prova di sé sotto ogni punto di vista (dal contributo all’esplosione senza costrutto della spesa pubblica, al clientelismo capillare, alla macroscopica propensione all’infortunio giudiziario) vedersi intestata anche la fonte di legittimazione di un organo costituzionale, il Senato, che - disimpegnato dal contribuire all’indirizzo di governo - dovrebbe patrocinare l’eticità della legislazione, intesa come uno sguardo lungo e di garanzia nell’interesse del Paese, e non della contingente maggioranza di governo? Questo punto etico- politico lo ritengo ancora più discriminante della questione elezione diretta o indiretta dei senatori. Quale obiezione ontologico-politica si può avanzare all’elezione diretta di un centinaio di senatori? Il loro emolumento?
È obiezione residuale, e di un populismo che forse non serve neanche più. Se all’elezione diretta dei senatori si aggiungesse, fermo restando il ballottaggio per sapere la sera delle elezioni chi ha vinto, nella legge elettorale per la Camera correttivi costituzionalmente sostenibili (soglia per il premio di maggioranza al 40%; soglia unica di sbarramento al quattro o cinque per cento; preferenze o - molto meglio! - collegi), il processo delle riforme avrebbe dentro e fuori il Parlamento consenso ben maggiore di altre soluzioni, per cui allo stato delle cose c’è più forza politica che ponderatezza istituzionale.
Renzi ha sufficiente forza politica per permettersi di valutare positivamente queste considerazioni, e di passare dall’Italicum al Savium. Sarà il primo a guadagnarne.

La Stampa 21.6.14
Svolta storica, ma la vera prova sarà come si vota
di Luigi La Spina

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l’Unità 21.6.14
L’ira dell’ex Cav: «Mi vogliono umiliare, così salta tutto»


Altro che grazia, questi vogliono farmi revocare i servizi sociali e spedirmi in carcere». Un Berlusconi furioso rientra ad Arcore dopo la mattinata passata con i malati di Alzheimer mentre fioccano pessime notizie dagli uffici giudiziari di Milano e Napoli. Si sente ferito e umiliato. Impedito anche di parlare, «quando ci vuole ci vuole, mi hanno provocato» ripete con i pochi fedelissimi che ammette a tiro di voce e di parola. Si riferisce allo sfogo avuto giovedì a Napoli, in aula come testimone, con il presidente Giovanna Ceppaluni. «Hanno insistito per farmi testimoniare a tutti i costi mentre io sono imputato in un procedimento connesso, mi hanno fatto aspettare un’ora e mezzo in una stanzina, mi hanno tempestato di domande per oltre un’ora e hanno anche fatto ascoltare quelle intercettazioni che non erano ammissibili...». Uno sfogo lunghissimo, amaro, sconfortato, perché «non si tratta così un ex premier che sta collaborando in modo serio e responsabile al percorso delle riforme».
Ecco, già, le riforme. L’argomento in sé, nei suoi dettagli, non ha mai appassionato Berlusconi che pure ne ha sempre rivendicato la necessità e l’urgenza per dare una svolta al Paese. Ma cosa succederebbe se Berlusconi dovesse decidere di sfilarsi dal patto con Renzi e il Pd? Ipotesi del terzo tipo che tra una botta d’ira, un moto di rabbia e silenzi di depressione s’affaccia però qua e là. Certo, la disponibilità di Grillo apre a maggioranze variabili e potrebbe rendere la collaborazione di Forza Italia non più indispensabile e quindi costringere Berlusconi a restare in qualche modo a quel tavolo.
In ogni caso questo uno-due giudiziario non ci voleva proprio. E complica le cose. Il professor Coppi e il fedelissimo Ghedini passano le giornate a tranquillizzare l’illustre cliente.
C’è molta attesa per lunedì quando la procura di Napoli ascolterà la trascrizione dell’udienza e deciderà se aprire un fascicolo per oltraggio (art.342 cp) e trasmettere la segnalazione all’Uepe, l’ufficio che deve valutare il suo percorso di affidato ai servizi sociali. Si ragiona sul confine sottile che tra i divieti c’è quello di non aggredire singoli magistrati con ingiurie e offese. E che in questo caso Berlusconi, che si sente un perseguitato della giustizia, ha espresso il suo giudizio generale sulla magistratura. «Aggiungendo anche che rispetta le istituzioni».
Gli spiegano che il verdetto dell’Appello Ruby così ravvicinato (18 luglio) non è nè un bene nè un male. «È un percorso normale», nessuna persecuzione. Certo non sarebbe male allungare il voto in aula al Senato sulle riforme fino al 18. Perchè, ed è veramente l’ultima speranza per Berlusconi, gli avvocati sono «sommessamente» convinti di poter avere quel giorno una bella sorpresa. Non grazie ad una carta segreta. O una legge ad personam. Ma in nome del diritto. L’ex Cavaliere non s’illude. Gli avvocati però gli hanno spiegato con calma e pazienza cosa hanno scritto a metà marzo le Sezioni Unite della Cassazione, massimo organo giurisdizionale. Giudicando su una storie di presunte mazzette promesse in Puglia, gli ermellini si sono per la prima volta pronunciati sull’applicazione della legge Severino che ha distinto tra il reato di concussione (12 anni) e quello di induzione indebita a dare o promettere altre utilità (8 anni).
Berlusconi, nel processo Ruby, è stato condannato per concussione (la procura aveva contestato la induzione indebita). Ma secondo i principi fissati dalle Sezioni Unite, potrebbe essere difficile ravvisare la concussione nelle telefonate di Berlusconi visto che «non c’è stata minaccia seria» nei confronti dei poliziotti (le Sezioni Unite parlano di «concusso con le spalle al muro»). E non ci sono stati neppure «indebiti vantaggi» per quegli stessi poliziotti.
Ecco, si tratta di vedere come la Corte d’Appello vorrà tener di conto di questa sentenza. Potrebbe derivarne, ad esempio, una condanna più leggera. Non un granché per tenere buono Berlusconi. Ma in fondo si tratta di aspettare il 18 luglio.

il Fatto 21.6.14
Renzi chiude con B. e Lega. E finge dialogo con M5S
Il premier trova l’accordo sul Senato non elettivo e addio al Cnel. L’incontro di mercoledì con il movimento perde di sostanza
di Luca De Carolis


L’incontro che incuriosisce tutti andrà in scena mercoledì prossimo, alla Camera. Ma il confronto in streaming tra Cinque Stelle e Pd pare già ridotto a incombenza burocratica, perché il rottamatore ha(quasi) chiuso la partita sulle riforme. Accordo fatto con Fi e Lega, e strada spianata al nuovo Senato non elettivo di cento membri, all’abolizione del Cnel, alla corsia preferenziale per i ddl del governo. Insomma, al bicameralismo imperfetto e a un esecutivo più forte. Questo prevedono i 20 emendamenti al ddl del governo su Senato e Regioni, a firma di Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli, depositati ieri in commissione Affari Costituzionali a palazzo Madama. “Un ottimo punto di arrivo” celebra Renzi. Proprio nel giorno in cui 5 Stelle e Democratici fissano per mercoledì l’incontro su legge elettorale e sulle riforme. Il premier aveva chiesto per lettera all’M5S se preferiva incontrare il governo o il Pd. E ieri il blog di Grillo ha risposto così: “Ringraziamo Renzi per l’invito. All’incontro del 25 giugno parteciperà una delegazione del Movimento composta dai capogruppo di Camera e Senato , Giuseppe Brescia e Maurizio Buccarella, e dai deputati Danilo Toninelli e Luigi Di Maio (quella già annunciata, ndr). Vorremmo confrontarci con il Pd come forza parlamentare”. Renzi ha preso atto. Stando a quanto filtra, i Dem decideranno la delegazione martedì. Soprattutto, resta da capire se il segretario Pd ci sarà.
NELL’ATTESA il colpo lo ha piazzato proprio lui, con gli emendamenti al ddl sul Senato. Perché ha tenuto il patto del Nazareno con B. E ha funzionato l’accordo con la Lega. Così, ecco il nuovo Senato dei 100: 74 eletti dai consigli regionali e dai consigli delle Province autonome di Trento e Bolzano, 21 tra i sindaci, 5 dal capo dello Stato. Il mandato dei senatori coincide con la durata degli enti locali (quelli nominati dal Quirinale restano in carica 7 anni). Da qui, si passa al bicameralismo imperfetto, nel quale solo Montecitorio potrà fare le leggi. Nel dettaglio: “La Camera dei deputati è titolare del rapporto di fiducia con il Governo ed esercita la funzione di indirizzo politico, la funzione legislativa e quella di controllo dell’operato del Governo”. Mentre “il Senato rappresenta le istituzioni territoriali. Concorre, nei casi e secondo le modalità stabilite dalla Costituzione, alla funzione legislativa ed esercita la funzione di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica”. Il parere di palazzo Madama è obbligatorio “sulle leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di referendum popolare, per quelle che autorizzano la ratifica dei trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea”. Mantenuta l’immunità per i senatori. Gli emendamenti danno più potere al governo. L’esecutivo può chiedere alla Camera che un ddl “essenziale” sia sottoposto al voto entro 60 giorni “o anche meno”. Decorso il termine, il testo viene votato senza modifiche. Comuni, città metropolitane e Regioni possono indebitarsi “solo per spese di investimento. Esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti contratti”. Eliminata la legislazione concorrente tra Regioni e Stato. Finocchiaro: “Credo che si possa votare in aula entro luglio”. Chissà ora come si potrà svolgere l’incontro M5S-Pd. Maria Elena Boschi (ri)mette paletti: “Non si ricomincia da capo”. Ossia la base del confronto sulla legge elettorale rimane l’Italicum renziano, maggioritario. Distante dal Democratellum proporzionale dell’M5S. Anche se la Boschi apre uno spiraglio sulle liste bloccate: “Siamo disposti a rivederle, a patto che Fi sia d’accordo”. Tirate le somme, si potrebbe discutere su preferenze, soglie di sbarramento e seggi per il primo partito. Roberta Lombardi: “La Boschi mette le mani avanti sull’incontro con noi, ma le ricordo che nessuno ha la verità in tasca”.

Corriere 21.6.14
Rischia di essere già archiviato il dialogo con M5S
di Massimo Franco


L’incontro sarà tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico, perché Beppe Grillo vuole discutere con chi siede in Parlamento. Non con il premier Matteo Renzi, dunque. Ma chiunque sia presente, politicamente il dialogo è già archiviato: nasce morto. Ieri sera il leghista Roberto Calderoli ha annunciato che il governo ha trovato l’accordo con FI e Carroccio sulla riforma del Senato. E il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, avverte che «non si cambia partner all’ultimo momento». Le proposte del M5S saranno valutate solo se c’è il «placet» di Forza Italia.
La puntualizzazione significa, di fatto, che non sarà possibile nessuna intesa con Grillo. Più passano i giorni, infatti, più il suo Movimento fa emergere una strategia tesa a sottolineare polemicamente l’asse Renzi-Berlusconi, proponendo invece se stesso come un’alternativa a disposizione del premier. In altre parole: il tentativo è di dimostrare che Palazzo Chigi non è stato costretto a trattare le riforme istituzionali con FI, ma ha scelto di farlo. Bisogna aspettarsi dunque scontro, più che dialogo. Si capirà già qualcosa dalla composizione della delegazione che alla Camera siederà davanti a quella del movimento di Grillo, dalla quale sarà assente il leader.
Per paradosso, l’iniziativa del M5S potrebbe avere cementato l’accordo che sta prendendo forma sul nuovo Senato. Di certo, lo ha accelerato, spingendo Berlusconi a confermare gli impegni assunti col premier. Il martellamento di FI contro un M5S «incompatibile con qualunque confronto democratico» dovrebbe di mostrare l’inutilità del dialogo appena cominciato; e l’inevitabilità dell’asse istituzionale Pd-FI.
Al punto che c’è da chiedersi se di qui a mercoledì cambierà qualcosa; se lo scontro tra Grillo e i berlusconiani non diventerà così virulento da provocare l’annullamento del confronto in Parlamento. È evidente il sospetto che la manovra sia stata l’ultimo, disperato tentativo di sabotare riforme difficili ma in dirittura d’arrivo. Giorgio Napolitano, accusato dal M5S di «dare ordini» a Renzi, ieri ha tenuto a precisare che non si occupa di «consultazioni tra le forze politiche». Ill capo dello Stato si limita a seguire con attenzione un percorso che incoraggia da anni; e per il quale comincia finalmente a intravedere un esito positivo.
La preoccupazione della maggioranza era ed è che Grillo voglia perdere tempo; che aspiri non a favorire le riforme ma a sabotarle. Spera di diventare il referente di quanti, nel Pd, in FI e nel Nuovo centrodestra, vedono male sia la fine del bicameralismo che il nuovo sistema elettorale ipotizzato dal governo. L’operazione è così strumentale che difficilmente avrà successo. Consentirà magari a Grillo di presentarsi come unica vera opposizione, schiacciando FI su Palazzo Chigi. Ma confermerà soprattutto la centralità di un Pd che sta raggiungendo un compromesso tale da farlo apparire, di nuovo, vincente.

La Stampa 21.6.14
A un M5S “balcanizzato” basterebbero le preferenze
di Jacopo Iacoboni

qui

il Fatto 21.6.14
Il decreto Madia resta fantasma
Il ministro rassicura: arriva presto, ma ancora non si vede. Nuovi annunci sulle semplificazioni fiscali
di Carlo Di Foggia


La “grande rivoluzione” della Pubblica amministrazione non decolla, e così il governo prova a rimediare con la “grande opera di semplificazione” del fisco. Dal modulo 730 precompilato ai rimborsi Iva più veloci, il primo pacchetto di norme attuative della delega fiscale viene licenziato dal Consiglio dei ministri.
IN CONFERENZA stampa, però, le domande sono tutte per il decreto sulla Pubblica amministrazione, dato per fatto al termine del Consiglio dei ministri del 13 giugno scorso e poi scomparso dai radar. Che fine ha fatto? Il ministro della Funzione Pubblica, Marianna Madia prova a fugare i dubbi: il decreto c’è, non è “fantasma”, ma è stato spacchettato in due provvedimenti. Tutto per accogliere le preoccupazioni e i rilievi arrivati dal Quirinale, dove il provvedimento è arrivato solo due giorni fa. La Madia ha smentito gli attriti con il Colle, ma l’avversione di Giorgio Napolitano per i decreti “omnibus” è nota: troppe le misure non coerenti con la materia, dal pubblico impiego alle infrastrutture, ai parchi nazionali. Alcune norme - come quella che abbassa a 70 anni l’età di pensionamento per i magistrati, che causerebbe l’uscita di scena di molti uffici giudiziari - sono invece state modificate nel testo finale per non irritare ulteriormente il Quirinale. La firma è attesa “entro lunedì prossimo”, assicura Madia, cioè a dieci giorni esatti dal “via libera” annunciato dal premier Matteo Renzi.
E COSÌ, al termine del Consiglio tocca al ministro delle Riforme Maria Elena Boschi presentare il diversivo. Il chiodo fisso del premier - la dichiarazione dei redditi precompilata - è servito, anche se la “prima volta” sarà una specie di esperimento. “Inizierà nel 2015 - spiega la Boschi - e riguarderà potenzialmente 30 milioni di italiani”. Probabile invece che si tratterà dei 18,6 milioni di contribuenti, cioè quelli che, mediamente, presentano il modello 730: dipendenti pubblici, privati, pensionati e lavoratori con redditi assimilati al lavoro dipendente come i co.co.co. Sarà l’Agenzia delle Entrate a precompilare il documento, il contribuente potrà “controllarlo” e “acettarlo” così com’è, o modificarlo aggiungendo altri dati, in particolare le spese detraibili. “Le modifiche saranno inevitabili - spiega Alessandro Cotto, del centro studi Eutekne - le detrazioni sono complesse, è impossibile calcolarle in automatico attraverso le banche dati. Per ora quel documento è solo un buon semilavorato”.
TRA LE NORME APPROVATE, i rimborsi Iva fino a 15 mila euro non avranno più bisogno di una fideiussione e le comunicazioni delle operazioni effettuate nei Paesi in black list (ritenuti paradisi fiscali) diventano annuali e obbligatorie solo oltre i 10 mila euro; le società in perdita, potranno invece chiudere i bilanci in rosso per cinque anni di fila senza penalizzazioni fiscali, come l’aliquota Ires al 38 per cento. L’unica sorpresa rispetto alle bozze circolate nei giorni scorsi è la norma sulla responsabilità solidale fiscale nei subappalti, invocata da Confindustria e sparita all’ultimo dal testo finale. Toccherà quindi sempre agli appaltatori verificare che il subappaltatore abbia versato le ritenute. Un onere per le imprese che il Sole 24 Ore stima in 1,3 miliardi di euro, ma che la relazione tecnica smentisce. Primo passo anche verso la leggendaria riforma del catasto, con il rinnovamento delle commissioni censuarie che dovranno rivedere gli algoritmi di calcolo delle rendite catastali.
Oltre alla nomina dei viceministri, attesa da mesi, il cdm ha confermato il presidente della Corte d’Appello di Torino, Mario Barbuto a capo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria del Ministero della Giustizia. A Torino, Barbuto si è adoperato, con ottimi risultati, per sveltire l’iter dei procedimenti, riuscendo a smaltire il 26 per cento dei fascicoli arretrati, a costo zero e con gli elogi di Strasburgo. Un metodo organizzativo che ha convinto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando a chiamarlo ai vertici del ministero. Via libera anche al decreto legge sui risarcimenti ai detenuti vittime del sovraffollamento carcerario: uno sconto di pena di un giorno ogni 10 vissuto in celle troppo piccole, mentre per chi è già uscito un risarcimento di 8 euro per ogni giornata di detenzione in condizioni sanzionate dai giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo. Una cifra considerevole, ma inferiore della metà di quanto avremmo pagato se i risarcimenti fossero stati stabiliti dalla Corte di Strasburgo.

il Fatto 21.6.14
Pure la Camusso cerca il testo misterioso


DECRETO FANTASMA così il segretario nazionale di Cgil Susanna Camusso, dalla festa della Cgil a Schiranno, ha definito il decreto legge sulla pubblica amministrazione, presentato (per la seconda volta) ieri in conferenza stampa dal ministro Marianna Madia. ”Per un cittadino italiano l’applicazione di questo decreto non cambia nulla. Non riduce una coda, non diminuisce le procedure burocratiche e non riduce la necessità che sia il cittadino a fare le pratiche amministrative al posto della Pubblica Amministrazione. Se il decreto non cambierà nel corso dell’iter parlamentare, sfideremo il governo a fare davvero una riforma che determini un miglioramento delle condizioni di cittadini e lavoratori”, ha poi aggiunto. Luigi Angeletti, segretario generale della Uil boccia apertamente il decreto: “Merita un 5 in pagella. Lo Stato negli ultimi anni è stato il peggiore datore di lavoro. Non ha rinnovato i contratti e ha tagliato i permessi sindacali.” Più moderate le critiche dalla Cisl. “Vogliamo una vera riforma delle Pa, che coinvolga i lavoratori. Non bisogna spezzare il filo del dialogo, le critiche non vanno interpretate in modo pregiudizievole”, ha detto Raffaele Bonanni, aprendo a un dialogo con il ministro.

Corriere 21.6.14
Da Sel al centro, l’onda dei fuoriusciti
Così il Pd è diventato una calamita
Andrea Romano: con un partito 2.0 e Renzi alla guida, potrei coabitare con Migliore
di Tommaso Labate


ROMA — «Mi sta chiedendo se Renzi è in grado di calamitare tutto quello che gli sta attorno, se è il nuovo Blair? Se parliamo in termini strettamente politici, forse il paragone è improprio. Ma se la affrontiamo sul tema del rinnovamento delle classi dirigenti sì, probabilmente lo è», sussurra Matteo Orfini, che renziano non lo è mai stato, e che oggi si ritrova a presiedere il Pd. Ed è niente rispetto a quanto mette a verbale lo storico Andrea Romano, che prima di essere eletto con Scelta Civica è stato vicino sia a Massimo D’Alema che a Luca Cordero di Montezemolo. «Certo, nessun problema. Se ci fosse un Pd 2.0 con Renzi alla guida, io potrei tranquillamente stare nello stesso partito di Gennaro Migliore». E Titti Di Salvo, che ha seguito Migliore fuori dai confini di Sel, chiude il cerchio: «Non possiamo chiudere gli occhi rispetto a quello che è successo nell’ultima tornata elettorale. La sfida della sinistra europea all’austerità passa da Matteo Renzi».
Un mese fa, probabilmente, nessuno di costoro avrebbe sostenuto quanto sostiene oggi, nel momento in cui tanto dai vendoliani quanto dai montiani c’è chi marcia nella direzione del presidente del Consiglio. Perché, all’indomani del 40,8% incassato alle ultime elezioni, Matteo Renzi sembra essere una calamita che attrae tutto. A destra e a manca. Se per anni una parte della politica italiana ha vissuto nel mito mai realizzatosi del «grande Centro», adesso – all’alba dell’estate del 2014 – il «grande Renzi» è una realtà che ha sostituito l’utopia centrista di cui sopra. Sel si scinde e Scelta Civica dibatte. E il punto d’approdo è sempre lui. Il premier fiorentino.
Nel momento in cui si fa concreta l’ipotesi che nasca alla Camera un gruppo parlamentare cuscinetto con pezzi di Scelta Civica, socialisti, fuoriusciti di Sel e dissidenti grillini, il “montiano” (virgolette d’obbligo) Andrea Romano lo dice senza troppi giri di parole: «Al Grande centro non ho mai creduto, ma il Grande Renzi è una realtà. Degli elettori di Scelta Civica, il 25 maggio nove su dieci hanno votato per lui. E sapete perché? Perché, e lo dico con ammirazione, Renzi ha saputo mettere in pratica una razzia positiva sui nostri valori. E anche su quelli dei berlusconiani, se vogliamo dirla tutta». Il deputato-storico livornese, che ha firmato anche una delle più vendute biografie italiane di Blair, vede analogie con «The Boy». «Io e Migliore possiamo stare nello stesso partito di Renzi perché il premier può davvero costruire una grande tenda sotto la quale ci stiamo bene tutti noi. Come fece Blair nel Labour britannico».
È un po’ sulla falsariga del vecchio spot del «grande pennello» per una «grande parete». «Per fare le riforme di un grande paese, serve una grande tenda. E Renzi», insiste Romano, «può costruirla». D’altronde, segue a ruota Titti Di Salvo – uscita da Sel insieme a Gennaro Migliore - «il 25 maggio è arrivato un risultato elettorale che nessuno si poteva immaginare. E di fronte al quale chiudere gli occhi è stato impossibile».
Laura Boldrini, presidente della Camera eletta con Sel, si dice rammaricata per quanto sta accadendo tra i vendoliani. «Mi dispiace, è sempre molto doloroso quando un gruppo si divide. Sto provando molta amarezza ma spero sempre che si riesca a trovare un punto di contatto». E ancora, sempre dalla viva voce della terza carica dello Stato: «Non mi sento orfana perché non ho un gruppo di appartenenza. Mi dispiace però per lo strappo». Intanto, però, il «grande Renzi» è una realtà dalla quale sono immuni – ormai – solo leghisti, grillini, berlusconiani doc e vendoliani ortodossi. E il paradosso è che non è difficile trovare punti di raccordo nei ragionamenti di chi, come Renato Brunetta e Giorgio Airaudo, sta dalle parti opposte della barricata.
«Il fronte Renzi è unito da una sola cosa. Dal potere. Si allarga a sinistra per promettere cose di destra», scandisce il capogruppo di Forza Italia. «Tutto questo assomiglia alla definizione di “regime”. Quanto può durare questa follia? Tantissimo. O pochissimo». Ed è un’analisi che inconsapevolmente Airaudo, il sindacalista Fiom eletto con Sel, sembra condividere: «Il partito unico non ha nulla a che vedere con la democrazia. In una democrazia matura ci sono partiti diversi? Renzi ha avuto un successo elettorale derivante dagli ottanta euro e dal voto contro Grillo. E rischia l’effetto rana. Si ingrossa fino a scoppiare…». Ma la calamita, intanto, quella c’è. Sta a Palazzo Chigi. Attira, eccome se attira.

Corriere 21.6.14
«Matteo una sirena, ma Vendola faccia un passo indietro»
Rangeri: il partito paga le Europee L’immagine del leader è ormai usurata
intervista di Daria Gorodisky


ROMA — Norma Rangeri dirige il manifesto e una decina di giorni fa, sul suo «quotidiano comunista», aveva pronosticato che il ripensamento di Barbara Spinelli (prima, mi candido alle Europee ma poi lascio entrare un giovane; poi, no mi tengo la poltrona) avrebbe «prodotto un forte contraccolpo sul partito di Sel e si rischia l’effetto domino».
Però adesso si assiste a qualcosa di più simile a un terremoto che non a un contraccolpo.
«Chiaramente quel 40 e passa per cento di Renzi ha un’enorme forza di attrazione. È un richiamo di sirena, non soltanto per Scelta civica, ma anche per la sinistra. E soprattutto per il partito di Sel, che si è sempre posto come sinistra di governo».
Appena uscito da Sel, Gennaro Migliore ha ipotizzato una sua candidatura a sindaco di Napoli: crede che nel canto della «sirena» qualcuno possa aver colto promesse?
«Sento Matteo Renzi e Graziano Delrio che annunciano “porte aperte”. Immagino che ci sarà una contropartita. L’anno prossimo ci saranno Regionali, Amministrative e sembra di capire anche che la rappresentanza ministeriale del Ncd potrebbe essere ridotta. E se si è sulla scia del vincitore…»
Ci sono anche delle responsabilità di Sel, del suo vertice, per quanto sta accadendo?
«Renzi ha provocato l’agorafobia alla sua sinistra, la paura dello spazio aperto. Così c’è chi va a cercare rifugio nel Pd, il che certamente non rappresenta una grande ambizione».
L’operazione Lista Tsipras non è stata un successo: ha portato tre seggi all’Europarlamento ma poi subito dopo tanta delusione per il caso Spinelli. Molti si sono sentiti presi in giro.
«È vero. Però la Lista Tsipras ha raccolto oltre un milione di voti in due mesi e ha superato lo sbarramento, il tutto con la grande stampa che la ignorava. Non è poco, ha dimostrato che esiste una base senza la quale i nomi famosi non sarebbero stati sufficienti. Detto questo, certamente ritrovarsi come eletti due giornalisti e un rappresentante di Rifondazione è stato un brutto colpo. Ed è stato anche un buon pretesto per questa uscita di parlamentari da Sel».
Crede che ci sia ancora spazio per una sinistra radicale?
«Il partitone di Renzi è un omnibus, c’è dentro tutto. Mi ricorda un po’ l’idea di Veltroni nel 2008, che diceva di volere tutti in una formazione e nessuno alla sua sinistra. Invece lo spazio a sinistra esiste, eccome, ed è enorme. Solo che è necessario ripartire, ricominciare a costruire. E credo anche che Sel debba rinnovare la propria leadership».
Vendola deve fare un passo indietro?
«Ha fondato Sel, ha sempre avuto un ruolo importantissimo. Però, indubbiamente, la sua immagine è usurata. La sinistra deve guardare alle nuove generazioni, penso che Vendola ne sia consapevole».
Non apparirebbe soltanto come un intervento estetico, di pura immagine? Insomma, un nuovo leader può bastare a resuscitare la sinistra?
«Il vero Tsipras, cioè Alexis, ha vinto in Grecia perché sono anni che il suo partito si muove nei quartieri, tra la gente. In Italia non lo fa più nessuno. Ecco, la sinistra deve abbandonare le operazioni a tavolino e tornare lì dove c’è bisogno di noi, fare attività sociale vera, essere riconosciuti. Per le Europee, la campagna elettorale l'hanno fatta i comitati, sono stati loro le gambe forti che hanno conquistato i voti. Bisogna ripartire da lì».

Repubblica 21.6.14
Pd, effetto calamita sui “satelliti”
Da Sel a Scelta Civica, dopo l’exploit alle Europee sale l’afflusso di parlamentari nella squadra di Renzi
Ma Bersani avverte: “Stiamo attenti agli opportunismi”. Migliore e gli altri verso l’adesione al gruppo misto
di Giovanna Casadio



ROMA. Chi può negare adesso che il PdR, il Pd di Renzi, sia una calamita? Dopo la scissione di Sel e le uscite in ordine sparso di Scelta civica, i Dem pigliatutto devono stare attenti. È Pierluigi Bersani, l’ex segretario, a mettere in guardia dagli opportunismi. «Come si consolida quel risultato straordinario del Pd alle europee? Correndo dietro a tutti gli opportunismi? No. Consiglio prudenza perché siamo in Italia e c’è sempre stata una proporzione diretta tra servo encomio e codardo oltraggio».
Il tema è caldo. Bersani lo affronta nel seminario di Area riformista, la mega corrente democratica che si è riunita a Massa Marittima. Ma è tutto il partito a discuterne. Il vice segretario Lorenzo Guerini - che è stato informato nei giorni scorsi tappa per tappa della scissione di Sel - parla di un «Pd come campo largo di forze: è evidente che questo è l’approdo ». Dal punto di vista parlamentare nei prossimi giorni i sei fuoriusciti vendoliani capeggiati da Gennaro Migliore, a cui se ne dovrebbero sommare altrettanti nella prossima settimana, andranno nel gruppo misto e costituiranno un sottogruppo con i socialisti di Nencini. L’orizzonte politico tuttavia è il Pd. Ugualmente lo è per molti della diaspora montiana, da Andrea Romano a Edoardo Nesi a Linda Lanzillotta. Guerini in una riunione al Nazareno ha osservato che proprio il largo consenso elettorale ha ridefinito il Pd, «il suo progetto, la sua identità» e che Renzi ha attualizzato la famosa vocazione maggioritaria di veltroniana memoria.
Tuttavia costruire un Partito della nazione non è cosa semplice. La sinistra del Pd è in trincea. Ancora Bersani avverte: «Un partito si consolida dando profondità a un processo di riforme e dando continuità alla base politica, cioè lavorando a un concetto moderno e nuovo di partito». Non è tenero su nulla, l’ex segretario. Al Pd che va verso una gestione unitaria, cioè con tutte le correnti nella segreteria, ricorda che non sta tanto in quell’“unitaria” il punto critico, ma bisogna capire quale “gestione” si immagina. E poi si toglie più di un sassolino dalla scarpa: «Mi criticano perché chiamo “ditta” questo nostro partito riformista del nuovo secolo, ma c’è gente anche nella mia città a Piacenza che non vuole che si dica “ditta” perché vuole la caserma... quando erano minoranza erano bombaroli anarchici, ora generali dei parà». Invita poi a discutere sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e sul segretario dem che è anche premier: «Due cosucce - dice - su cui riflettere». Non le sole. Dal momento che, bacchetta Bersani, «tra decreti e fiducie stiamo accumulando una serie di imperfezioni che ci presenteranno il conto. Ci vuole lo stesso tempo a fare la cosa giusta e la cosa sbagliata».
I dubbi sul Pd-pigliatutto sono all’ordine del giorno del seminario di Area riformista. Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro e ora presidente della commissione di Montecitorio, ironizza: «Se il Pd diventa la Nuova Dc io sarò Donat Cattin leader di Forze nuove». E intanto in Sel sono previsti addii anche tra dirigenti locali e amministratori. Ileana Piazzoni, che del gruppo vendoliano è stata segretaria, dichiara: «Pentita? No casomai ho un senso di liberazione». Ma è l’ora dei sospetti e di una resa dei conti che non finirà presto. Migliore contrattacca: «Io candidato sindaco di Napoli? E’ possibile ». Vendola, il leader di “Sinistra ecologia e libertà” tiene il punto: «Chi pensa che Sel debba sciogliersi e diventare componente del governo e del Pd ha in testa la bandiera della resa». In un tweet aggiunge: «La sinistra può essere forza di governo anche quando frequenta la trincea dell’opposizione ».
Il quadro politico è scomposto e magmatico. Scelta Civica si è data tre mesi di tempo prima di decidere della sua sorte, affidando l’istruttoria a Renato Balduzzi, sempre che gli esodi si fermino.

Repubblica 21.6.14
Stefano Fassina
“Ma il nostro non può diventare un partito-contenitore”
intervista di G. C.


ROMA. «Il Pd non deve essere un contenitore indifferenziato. Non reggerebbe altrimenti la sfida che abbiamo davanti». Stefano Fassina, uno dei leader della sinistra dem, diffida di un PdR, il Pd di Renzi, pigliatutto.
Fassina, overbooking nel Pd?
Tutti sul carro di Renzi?
«Non sono sicuro che ci siano solo motivazioni nobili in quest’affollamento... Comunque noi Democratici dobbiamo mettere tutte le risorse a disposizione di un progetto di cambiamento progressivo».
Il Pd è diventato pigliatutto?
«Il risultato elettorale ha dato un messaggio chiaro. Tra gli italiani prevale il sentimento di speranza, la volontà di ricostruire. E il Pd è il protagonista della ricostruzione. L’effetto è che diventa indispensabile misurarsi con noi Democratici».
Il Pd è quindi una nuova Dc?
«No. Il Pd è il partito della ricostruzione morale prima che economica, che punta a consolidare un così ampio consenso. Deve essere un partito plurale con una asse chiaro per il cambiamento ».
Può tenere insieme i fuoriusciti sia di Scelta civica che di Sel?
«Ciascuno farà le scelte che ritiene».
Lei è sempre stato molto critico con i montiani. Ora li vede bene nel Pd?
«L’agenda Monti non sarebbe adeguata, anche perché l’agenda europea che cerchiamo di costruire come governo italiano è assai diversa. Tuttavia chi pensasse di entrare nelle file dem, potrebbe dare un contributo. Il punto fondamentale è una politica economica discontinua rispetto alla linea di austerità e svalutazione del lavoro ».
E i dissidenti di Sel siete pronti ad accoglierli?
«Rispetto il travaglio. Ma il Pd sia attento sia verso chi sceglie di entrare nel partito sia verso chi mantiene una posizione politica autonoma, cioè Vendola. Dobbiamo essere punto di riferimento degli uni e degli altri. La sinistra vendoliana deve evitare le scorciatoie».
A voi della sinistra dem non fa molto piacere questo allargamento di campo?
«Ripeto, no a un partito contenitore, non bastano i numeri, serve la forza del pensiero, critico. Il Pd è un soggetto di centrosinistra. Sta dalla parte del lavoro, dell’uguaglianza, dello sviluppo sostenibile e dei diritti civili, della re distribuzione del reddito e della ricchezza. Deve avere un orientamento chiaro di centrosinistra».
Ammetta di essere diventato un po’ renziano?
«Rimango fassiniano, però riconosco il valore aggiunto di Renzi. Osservo che le cose cambiano. Sento dire dal premier che l’Europa ha fallito negli ultimi anni e trovo una corrispondenza con le mie posizioni. Alcuni ultras renziani chiedevano le mie dimissioni da responsabile economico, quando sostenevo le tesi oggi proposte dal presidente del consiglio».

Repubblica 21.6.14
L’amaca
di Michele Serra


SI PENSAVA c he, se Lista Tsipras avesse ottenuto il quorum, la sinistra radicale avrebbe brindato allo scampato pericolo e si sarebbe compattata nella sua nuova formula; e che solo in caso di mancato quorum si sarebbe ancora una volta disfatta. Ma questa si chiama sottovalutazione: la sinistra radicale non obbedisce a regole così banali. A sfasciarsi dopo una sconfitta sono capaci tutti: il difficile è sfasciarsi dopo una vittoria, e “la difficoltà della sfida”, come sa chiunque abbia dimestichezza con quelle assemblee, quelle riunioni, quelle care e complicate persone, è uno dei cliché più amati dalla sinistra in genere e dalla sinistra radicale in special modo. È curioso dover constatare che la sinistra, che per statuto dovrebbe avere spirito collettivo, è invece collezionista inimitabile di scissioni, liti, fuoruscite, anatemi reciproci, e lo è con una pervicacia che non conosce stanchezza. Lo è anche - questo va detto - con evidente disinteresse: nel senso che non ne trae mai vantaggio o lucro, solo danni irreparabili. Ora si attende di sapere quali nuove aggregazioni siano in vista, in modo da poter prevedere per tempo le nuove scissioni.

l’Unità 21.6.14
Sel, il sisma non si ferma
In periferia choc per gli addii


Non si ferma il sisma che sta scuotendo Sel. Dopo l’uscita del capogruppo Gennaro Migliore e di altri tre deputati (tra cui uno dei fondatori, Claudio Fava) il partito di Nichi Vendola è in uno stato di choc. Si attendono per l’inizio della settimana altre uscite, sei-sette parlamentari che andranno a irrobustire la pattuglia di Migliore, per ora nel gruppo Misto.
Vendola si prepara alla riunione della direzione prevista per mercoledì, quando lo stillicidio di uscite dovrebbe essere concluso. Ma resta sulla sua posizione: «Una parte dei parlamentari guidati da Gennaro Migliore pensa che sinistra di governo significhi automaticamente diventare sinistra al governo. È un grave errore, mi pare che ci sia un giudizio sbagliato sull’attuale Pd e la leadership di Renzi. Entrare nel Pd significa alzare la bandiera della resa». E aggiunge: «La sinistra non deve mai portare il proprio cervello all’ammasso. Io non vivo la seduzione nei confronti dell’uomo della provvidenza. Ma non posso tenere con la forza accanto a me chi vuole correre sul carro del vincitore».
Sui territori c’è senza dubbio uno sbandamento, confermato da entrambe le fazioni. I “miglioristi” attendono le assemblee locali previste tra oggi e domani: alcuni parlamentari, infatti, prima di lasciare Sel hanno deciso di parlare con i loro militanti. L’obiettivo è quello di portare via una parte della truppa. «La nostra non è una scelta individuale, ma un progetto politico», spiega Titti Di Salvo, ex vice capogruppo. «E io credo che in Sel a tutti i livelli ci sia una sofferenza, ci si senta orfani della cultura politica che ci ha fatto nascere nel 2009».
Una mappa dei rapporti di forza a livello locale è ancora prematura. «Il clima che si respira è quello dell'8 settembre del 1943», dice Massimo Mezzetti, assessore della Regione Emilia Romagna, che chiede l’azzeramento dei vertici del partito e l’affidamento a un comitato di reggenza guidato dai sindaci Pisapia e Zedda. Mezzetti chiede un congresso straordinario, e accusa Vendola di «leaderismo». Ma la sua è una voce abbastanza isolata. Per ora, anche dai luoghi in cui Sel è più “di governo”, non si levano molte voci critiche con l’attuale vertice. Tacciono i sindaci di punta, come Zedda e Pisapia, la Puglia è schierata a falange con “Nichi”, in Campania c’è già stato lo strappo del deputato Michele Ragosta (entrato nel Pd) con una ventina di dirigenti del salernitano, mentre in Calabria c’è già stato l’addio, il primo, del deputato Ferdinando Aiello. Ma i coordinatori regionali restano fedeli, come dimostra la risposta a Mezzetti della coordinatrice emiliana Elena Tagliani: «Nessuno sbandamento. Il congresso si è tenuto ed è passata una linea politica chiara, ribadita dall’assemblea nazionale di sabato scorso, con il 95% dei voti». Dura con i transfughi anche la capogruppo a Bologna Cathy La Torre: «In questo momento mi appare evidente la logica delle “convenienze” e faccio fatica a vedere qualcos’altro». Mezzetti critica la scissione, ma controbatte: «È pericoloso e disonesto sottintendere che chi esprime malessere per la deriva massimalista di una parte di Sel sia automaticamente derubricato sotto la voce filorenzismo». Come si vede, la battaglia non è solo tra il gruppo degli scissionisti e i fedelissimi di Vendola. C’è una terra di mezzo che non seguirà Migliore ma resta molto critica sulle ultime scelte di Sel. «Molti amministratori locali sono in sofferenza sulla linea Tsipras», spiega Ileana Piazzoni, deputata già uscita da Sel. «Sono certa che ci saranno delle conseguenze anche sui territori».
In Liguria uno strappo c’è già stato, ai primi di giugno, con l’addio dell’assessore regionale Matteo Rossi: «Non credo più nel progetto di Sel». Per le prossime ore è probabile l’addio del deputato ligure Stefano Quaranta, così come di Fabio Lavagno (Piemonte), del veneto Alessandro Zan, della toscana Martina Nardi, dell’abruzzese Gianni Melilla e di Nazzareno Pilozzi (Lazio). L’impressione è che non si porteranno dietro grosse truppe, o almeno questa è la convinzione dei vertici, che giudicano queste uscite «una operazione di palazzo». Ma «la preoccupazione nei territori è molto forte», avverte un deputato non allineato come Arturo Scotto: «Siamo davanti a un fatto politico rilevante, non si può fare finta di niente, serve una grande campagna di ascolto sui territori, Sel deve subito rimettersi in pista rilanciando le sue ragioni fondative».
Entro una settimana ci saranno assemblee in tutte le regioni, si parte oggi con la Sicilia. Migliore intanto non smentisce l’ipotesi di candidarsi a sindaco di Napoli: «È possibile, ne sarei onorato. Credo che il Sud sia il vero banco di prova per il governo e per il centrosinistra. In questo momento non accetterei incarichi di governo». Si chiama fuori dalla contesa la presidente della Camera Laura Boldrini: «È una separazione dolorosa, ma non mi sento orfana perché non ho gruppo di appartenenza».

l’Unità 21.6.14
Nicola Fratoianni
«Fa ridere chi ci accusa di essere vocati all’opposizione»
«I compagni che se ne vanno sbagliano, scelgono l’omologazione. La sinistra è più utile se è autonoma Non sono venute meno le ragioni della nascita di Sel»


«È una ferita, non ci sono dubbi. Persino nelle relazioni umane, come accade quando si rompe una storia comune. Ma Sel c’è, non si arrende, non sono venute meno la ragioni della sua nascita, e cioè una sinistra che non è omologata ma neppure di testimonianza». Nicola Fratoianni, coordinatore di Sel, delfino di Vendola, è stato in queste settimane il vero avversario di Gennaro Migliore e della pattuglia di fuoriusciti. Lui ha vinto il congresso sulla linea pro Tsipras e oggi non disconosce quel percorso.
«Ma dopo quello che abbiamo realizzato in questi anni in Puglia mi fa sorridere che ci si dica che non abbiamo cultura di governo o che vogliamo fare la sinistra radicale vocata all’opposizione... ».
Perché Sel è arrivata fino alla scissione?
«Ci siamo divisi sul sostegno al governo Renzi, è inutile girarci intorno. I compagni che se ne vanno fanno una scelta legittima ma sbagliata: è la scelta dell’omologazione. Noi invece pensiamo che oggi la sinistra sia più utile se resta autonoma, se incalza, interloquisce, e non si rinchiude».
E tuttavia negli ultimi mesi l’identità di Sel e la sua opposizione sono apparse sotto tono. A rischio dell’irrilevanza a livello parlamentare.
«Il problema c’era, e anche con la pattuglia parlamentare al completo. Siamo stati poco efficaci perché abbiamo faticato troppo a elaborare il lutto del 25 febbraio 2013, il lutto per quella coalizione col Pd su cui avevamo molto investito pensando a una stagione di cambiamento e che invece si è trasformata nel suo contrario con i governi Letta e poi Renzi. Ci è mancato un profilo chiaro, ed è su questo che ora dobbiamo lavorare».
Uno dei rischi è che Sel torni indietro di 5 anni: una sinistra di piazza e di movimento, che magari si riunifica con Rifondazione nel segno di Tsipras...
«A chi immagina che Sel si rinchiuda do una brutta notizia. Nel nostro percorso c’è anche il rapporto con la lista Tsipras, a partire da quel milione e 200mila voti presi in un turno in cui il Pd ha prosciugato interi bacini elettorali, non il nostro: quel 4% è stato un piccolo miracolo».
Dopo la scissione per voi ora sarà inevitabile guardare a sinistra...
«Non è così. L’idea di una costituente di sinistra per sciogliere Sel in un’ipotesi raffazzonata non c’è mai stata. Non ho in testa alcun rassemblement. Chi ci ha lasciato non l’ha fatto per Tsipras ma per il governo Renzi. Per noi la collocazione all’opposizione, dialettica e di merito, è decisiva».
Migliore motiva la sua uscita con una «sanzione di incompatibilità» da parte di Vendola.
«Mi pare curioso. È più utile dire la verità, c’era un giudizio diverso sul governo e sul Pd. La vicenda del decreto Irpef è stata caricata di un enorme significato, con uno stillicidio di annunci di scissione per settimane. Vendola ha posto il tema del raccordo tra partito e gruppi parlamentari, ma c’era la disponibilità a confermare Migliore nel ruolo di capogruppo. Il suo non è un tradimento, ma una scelta legittima che considero profondamente sbagliata».
Ora cosa farete? La conferenza programmatica in autunno non è una data
troppo lontana?
«Ci sarà una direzione mercoledì e credo che la conferenza possa essere anticipata. Il mandato del gruppo dirigente, a partire dal mio, è a disposizione del partito».
Un congresso anticipato?
«Ne parleremo in modo laico».
Si sente responsabile per la scissione?
«No, ho fatto una battaglia politica trasparente».
Per Sel si è chiuso un ciclo? Forse il ciclo di Vendola?
«Un ciclo si è chiuso a febbraio 2013, con la sconfitta alle politiche. Ma Nichi non si discute, lui è un punto di riferimento fondamentale, nessuno può attribuirgli responsabilità per la scissione».
Spesso voi motivate la vostra distanza dal governo con la presenza di Alfano e Formigoni. Ma il problema è Renzi. O no?
«La destra di Ncd continua a condizionare in modo pesante il governo, e con loro non possiamo collaborare. C’è chi pensa che Renzi oggi sia l’unico terreno di innovazione della sinistra. Io no. La distanza non è sulla persona, ma sulle politiche concrete, a partire dal lavoro, dove Renzi è in continuità con la precarizzazione degli ultimi anni. Così sulle coperture degli 80 euro: si tagliano gli enti locali, come faceva Tremonti. La sua idea di Paese non mi convince: per me Renzi resta l’avversario delle primarie del 2012, con tutte le distanze che avevamo evidenziato».

l’Unità 21.6.14
Il dilemma a sinistra del Pd
di Michele Prospero


Lo smembramento del gruppo parlamentare di Sel non è proprio una buona notizia. Non lo è per una formazione che si candidava a presidiare il fianco sinistro di una possibile coalizione di governo e invece si è frantumata trascinando con sé i costi politici (e non solo) che sempre accompagnano gli abbandoni.
E non lo è per il sistema politico che di sicuro conserva uno spazio per una forza di sinistra più marcata nel profilo identitario e capace di assorbire spezzoni preziosi dei radicalismi che, nei tempi di crisi, trovano altri interpreti, sovente inquietanti, cui aggrapparsi.
Ma quando alla fuga da un partito si perviene, e con dimensioni così ampie, a nulla vale ricamare su ciò che c’è dietro le scelte dei singoli transfughi, sui contatti avuti chissà con quale emissario. Chiacchiere. Una rottura così lacerante, come quella ancora in corso, si spiega solo con il fallimento di una strategia politica. E ne portano le responsabilità chi esce dal progetto, perché lo avverte come ormai logorato e irriconoscibile al punto da preferire l’addio, e chi intende rilanciarlo ma con minori forze da impiegare nella manovra.
L’assai deludente risultato elettorale del 2013 segnava di fatto l’usura del sogno originario di Sel. Come soggetto politico responsabile, con una netta identità ma senza nostalgia, e anzi con una attenzione strategica verso il socialismo europeo (quando sul tema il Pd ancora nicchiava), Sel coltivava l’ambizione di una sinistra radicale nei principi ma leale nella gestione della vita parlamentare. Per questo, in una età di collasso del sistema e di impressionante volatilità elettorale, ha attratto solo modiche quantità di voto di opinione, quelle prevalentemente cittadine, secolarizzate e colte. In una contesa normale, avrebbe potuto anche incalzare il Pd da sinistra e metterlo in imbarazzo su precarietà, lavoro, rigore, diritti civili (in diverse città ha vinto non a caso le primarie di coalizione). Ma in tempi di caduta del regime dei partiti, Sel non ha incassato il plusvalore della rabbia, della rivolta di masse che si sono orientate presso altri lidi, più chiassosi e incendiari.
La crisi acuta del progetto fondativo veniva confermata anche con la parabola della lista Tsipras. Ha ottenuto (in termini percentuali, almeno) un dignitoso risultato alle europee. E però paradossale, per certi versi del tutto impolitico, è parso il modo della formazione della lista, il suo asse programmatico e lo stile comunicativo, il modo della selezione e gestione delle candidature, il nodo della inopinata dipendenza di organizzazioni politiche sia pure fragili da opinionisti e organi di stampa.
Le difficoltà di Sel sono racchiuse tutte in questo dilemma ineludibile: se accentua il tratto della responsabilità di governo e del dialogo organico con il Pse calpesta il terreno già coltivato dal Pd(e in Europa non ci sono esempi significativi di convivenza di due partiti della sinistra di governo), se accarezza invece il richiamo dell’antagonismo e i rumori della protesta diventa più autonomo dal Pd ma rischia di infrangere ogni ipotesi di confluenza coalizionale (quasi ovunque in Europa ci sono due sinistre ma, si pensi alla Germania, operano senza intrattenere qualsiasi relazione diplomatica tra di loro. Persino in Francia solo il doppio turno mantiene in vita qualche lontano ricordo della disciplina repubblicana).
I dubbi esistenziali che tormentano Sel sono quindi seri, non risolvibili senza un pensiero forte. Con quadri amministrativi rodati, con sindaci di valore, con collegamenti significativi con il mondo sindacale, Sel non ha però mostrato una grande ingegneria organizzativa necessaria per costruire un efficace modello di partito (a lungo ha anzi accarezzato la seduzione della leadership personale, con le fabbriche di Nichi, con le tessere raffiguranti il volto di Vendola). Fin quando brillava la stella del leader, ha potuto anche incassare i frutti di una certa simpatia dei media. Ma quando la copertura dei media rifluiva, e una fortezza organizzativa era del tutto assente, cominciavano i guai per un partito leggero e non strutturato.
A sinistra del Pd c’è uno spazio, in astratto piuttosto ampio (come lo è in Spagna, Germania, Francia), che però nessuna offerta politica è riuscita a conquistare stabilmente dopo l’evaporazione della vecchia rifondazione comunista, e la rovina del movimento giustizialista di Di Pietro. Quest’area vasta, che raccoglieva domande di radicalismo sociale e istanze di intransigenza legalitaria, nel suo nucleo più grosso si è dispersa tra astensionismo, disincanto e persino approdo nel grillismo. È possibile, è realistico, frequentare questo mondo rimasto privo di rappresentanza, e attratto dalle simbologie del populismo trionfante, senza però rompere con una prospettiva unitaria nelle alleanze di governo? È una incognita. Ma non meno arduo è l’interrogativo che accompagna i fuoriusciti. Davvero è pensabile un Pd così elastico e indifferenziato da assorbire in un sol colpo le truppe di Monti e quelle di Migliore?

il Fatto 21.6.14
Il Migliore tra i “fagiolini” rinnova il dramma a sinistra
La scissione di Sel verso i democratici rende protagonista lo psichiatra-guru Massimo Fagioli, celebre per gli attacchi a Nichi Vendola “omosessuale e cattolico”
di Fabrizio d’Esposito


Fagiolini a 80 euro al chilo. Ma la spending review di Francesca Pascale a Palazzo Grazioli stavolta non c’entra nulla. La questione dei fagiolini è da intendersi nel senso degli omonimi e fedeli seguaci di Massimo Fagioli, il guru trasteverino che all’inizio del nuovo secolo stregò Fausto Bertinotti e mezza Rifondazione comunista, compreso un giovane Gennaro Migliore.
Lo stesso Migliore che, nel nome del sì agli 80 euro renziani, ha provocato l’ultima miniscissione in quel che resta della sinistra sinistra, senza centro, di Sel, il partito di Nichi Vendola. Anche Migliore, napoletano, era un fagiolino e frequentava le lunghe sedute di questo eretico della psiche e dell’anima veneratissimo nella Capitale ma pressoché sconosciuto nel resto del Paese. Cacciato dalla Società psicoanalitica italiana negli anni settanta (definì Freud “un imbecille”), lo psichiatra Fagioli è diventato un guru con l’analisi collettiva praticata in 120 metri quadrati all’angolo di piazza San Cosimato, a Trastevere. Attorno a lui è cresciuta una holding, anche editoriale, da anni coccolata dalla gauche romana. E oggi che il guru si è riposizionato nel campo del Pd, ecco spuntare il filo del fagiolismo nel dramma politico-sentimentale della scissione di Sel. Perché Migliore e i miglioristi sembrano diretti laddove i fagiolini li hanno preceduti, tra le rassicuranti braccia del partitone di Renzi. Solo un caso?
FAGIOLI, un tempo, rivendicò la “svolta non violenta” di Rifondazione e quando poi Bertinotti passò il testimone il frontale a Vendola fu vistoso e clamoroso: “Vendola non vale mezzo Bertinotti. È un’aporia vivente. È all’unisono cattolico, comunista e omosessuale. È mai possibile conciliare queste tre identità? Si deve curare”. Migliore, che per Vendola è stato “un figlio”, da fagiolino praticante arrivò a predire una strano umanesimo rossiccio: “Rifondazione deve diventare un’aggregazione politica che rilanci un nuovo umanesimo, mettendo al centro l’uomo.
Paolo di Tarso ci avrebbe fatto dire: ‘Non ci conformiamo con la mentalità del secolo, ma ci trasformiamo rinnovando la nostra mente’, e il subcomandante Marcos avrebbe detto: ‘Siamo quello di ieri, ma siamo diversi’”.
Ufficialmente gli ex di Rifondazione, con Bertinotti in testa, hanno rotto con Fagioli e il fagiolismo un lustro fa. Il guru voleva prendersi Liberazione, il quotidiano di partito, e il sub-comandante Fausto non tollerò gli insulti dello psichiatra a Vendola e pure a Piero Sansonetti, oggi direttore del Garantista, definito “un eterno ragazzino del Sessantotto, praticamente un malato di mente”. Non solo. Quando i fagiolini inclusero il settimanale Left nella loro galassia, Giulietto Chiesa abbandonò il giornale, rifiutandosi di scrivere per una setta.
DA ALLORA i fagiolini hanno marciato in direzione del Pd, non senza riconoscimenti in prima fila. Il fagiolino Matteo Fago, per esempio, ha la maggioranza della società editoriale dell’Unità, la Nie. Fago non è un fan di Renzi e ondeggia tra Sel e l’ala sinistra di Pippo Civati nel Pd. Ma a rappresentare meglio i fagiolini in salsa democratica è la saga dei Bonaccorsi, Luca e Ilaria, fratello e sorella. Lei è la moglie di Ivan Gardini, figlio di Raul, ed è stata candidata nel Pd alle ultime Europee. Ha raccolto poco più di cinquantamila voti. Non ce l’ha fatta. La presentazione di un libro all’Eliseo di Roma, in piena campagna elettorale, è stata però un evento seguitissimo. Sul palco, oltre a lei, il guru Fagoli e l’economista antirenziano Stefano Fassina, tra i volti del Pd nell’era bersaniana. Il fratello Luca, invece, marito di Geppi Cucciari, è la mente editoriale, che dopo il crac di Terra, ha preso in mano le sorti di Left. I Bonaccorsi, come Fagioli, sono dichiaratamente civatiani, nel senso di Pippo, e l’ingresso di Migliore nel Pd potrebbe contribuire ad allargare l’area di sinistra nel monolite renziano. La corrente fagiolina è solo una suggestione al momento e da Sel precisano che il fagiolismo non ha avuto alcun peso in questa nuova frattura. Ma il retroterra politico-sentimentale è più o meno quello. Certo, contano anche le poltrone e l’ambizione e ieri Migliore ha detto che gli piacerebbe fare il candidato sindaco a Napoli, con centrosinistra unitario. Per il momento l’etichetta appiccicata addosso ai neogovernisti è quella di miglioristi. Potenza di un cognome. In origine fu il Migliore (Togliatti) e miglioristi furono quelli come Napolitano che volevano un comunismo riformista e graduale. I nomi vivono sempre stagioni nuove. Aspettando Fagioli.

Corriere 21.6.14
Licenziamenti e tagli nei partiti
La battaglia dei tesorieri
di Pierpaolo Velonà


MILANO — «Sono un tesoriere senza tesoro». Salvatore Ruggeri è l’uomo che amministra la cassaforte dell’Udc. E pur non avendo vissuto in prima linea i tempi d’oro della Dc, tradisce una nota di rimpianto per i bei tempi andati mentre elenca le difficoltà dell’ultimo bilancio: «Abbiamo messo in cassa integrazione 20 persone. Ci rimangono solo dieci dipendenti, ma se vogliamo continuare la nostra storia, saremo costretti a trasferirli sul budget dei parlamentari. Siamo passati da una gestione di 12 milioni degli anni passati, ai 4 milioni del 2013 e quest’anno avremo a disposizione solo 400 mila euro. La campagna elettorale non ci ha premiato, di contributi elettorali ne sono arrivati pochissimi. Abbiamo pure dovuto cambiare sede a Roma: sempre in via Due Macelli, ma al piano di sotto. Pagheremo 8 mila euro al mese, prima erano 30 mila». L’unica consolazione, per Ruggeri, è la consapevolezza di essere in buona compagnia.
Da quest’anno, i partiti dovranno fare i conti con la legge che eliminerà (progressivamente) il finanziamento pubblico sostituendolo con il contributo volontario dei cittadini. E così la crisi — che ha già intaccato sedi, benefit e costi delle campagne elettorali — inizia ora ad abbattersi sui dipendenti dei partiti con l’ingresso in politica di un istituto, la cassa integrazione, finora esclusivo delle cronache aziendali.
Forza Italia ha da poco congedato con una lettera di licenziamento 41 dipendenti ereditati dal vecchio Pdl (molti dei quali di area ex An) che non saranno riassorbiti nel nuovo partito e sta chiudendo sedi a raffica in tutto lo Stivale. Ha il fiato corto anche il Pd che in Sicilia ha messo in cassa integrazione 13 collaboratori di vecchia data e nelle federazioni provinciali stringe la cinghia già da un bel po’. Il tesoriere nazionale dei Democratici Francesco Bonifazi dovrà fare salti mortali per non tagliare i 202 dipendenti assunti al Nazareno: «Nel 2014 ci siamo impegnati a non licenziare nessuno — dice Bonifazi —. Potremmo però valutare l’introduzione del regime di solidarietà. Con la nuova legge sul finanziamento pubblico avremo meno entrate, ma puntiamo comunque al pareggio del bilancio». Sarebbe già un buon risultato. Chiudendo il consuntivo 2013 del suo partito — all’epoca guidato dal tandem Bersani-Epifani — Bonifazi ha definito la situazione «estremamente complessa». L’anno scorso il Pd ha incassato 37,6 milioni di euro e ne ha spesi 48,9. «Ecco, per dare credibilità alla politica è molto importante che i partiti non producano più le perdite del passato», avverte il tesoriere renziano. Per fare luce sulle cause del passivo, i Democratici si sono affidati alle indagini dello studio legale Dla Piper che ha setacciato i conti della vecchia gestione scoprendo numerose falle. Per esempio il peso eccessivo di servizi e forniture (1,1 milioni di consulenze, 373 mila euro per il sito web); o gli affitti troppo alti per sedi poco utilizzate; oppure i costi eccessivi dell’attività politica (6,9 milioni per le elezioni 2013 e più di un milione per forum, segreteria e iniziative). La spending review, tra i Dem, è già iniziata: nel 2009 le Europee erano costate 13,5 milioni, quest’anno 3,3 milioni di euro.
Stringe la cinghia anche la Lega Nord, uscita con le ossa rotte dalla gestione Belsito. Del piano-austerity si sta occupando personalmente il segretario Matteo Salvini che dice: «Prima guardo i numeri e poi vediamo. Ma noi, oltre ai dipendenti, abbiamo anche uno zoccolo duro di volontari». Ed è tutta in salita, ancor più in queste ore, la strada del tesoriere di Sel Sergio Boccadutri: «Noi non abbiamo licenziato nessuno ma abbiamo solo 12 dipendenti. Ma se non saremo in grado di fare una grande campagna di autofinanziamento, dovremo rivedere tante cose».

l’Unità 21.6.14
Per dire basta all’austerità
di Stefano Fassina


La scorsa settimana, un gruppo composto in larga misura di economisti e giuristi, ha depositato in Corte di Cassazione 4 quesiti referendari per incidere sull’applicazione dell’art 81 della Costituzione e del fiscal compact. I quesiti intervengono sulle norme della Legge 243 dell’aprile 2012, la legge di attuazione del principio del pareggio di bilancio.
Come già spiegato su queste pagine da due dei promotori del referendum, Massimo D’Antoni e Riccardo Realfonzo, i quesiti si propongono il massimo obiettivo possibile dati i vincoli costituzionali vigenti: intendono abrogare «un’applicazione nazionale non necessitata e esasperata» degli impegni di finanza pubblica europei.
L’iniziativa referendaria, promossa sotto il titolo «Si alla fine dell’austerità, si all’Europa del lavoro e dello sviluppo», è formalmente di portata limitata: i suoi effetti eliminano l’eccesso di zelo, ma l’impianto liberista delle norme oggetto di intervento rimane. Tuttavia, il referendum ha un elevato valore simbolico e politico. Avvia un dibattito proibito. Apre la porta alla partecipazione democratica sul terreno della politica economica, spazio costitutivo della polis ma finora sottratto all’agorà. E così rompe il tabù fondativo dell'ideologia liberista: l'eliminazione della politica, ossia della democrazia, dall'economia, disciplina dalle fondamenta etiche e politiche, ma raccontata, insegnata, praticata come tecnica esoterica, astratta da giudizi di valore e interessi materiali, religione amministrata da sacerdoti incontaminati, interpreti di verità assolute. Un tabù al quale anche larga parte della sinistra cosiddetta riformista, in particolare nella versione «nuovista», è stata e continua a essere culturalmente subalterna. Qui si ritrovano le ragioni della burocratica approvazione sia delle modifiche all'articolo 81 della Costituzione, sia della relativa legge di attuazione. Certo, tra l’autunno del 2011 e la primavera del 2012 eravamo nel mezzo della tempesta finanziaria. Gli spread impazzivano. Ma la spiegazione di fondo dell'assenza di discussione alla Camera e al Senato, ben raccontata da un interessante pamphlet di Andrea Cangini, «L'onore e la sconfitta», in raffronto al drammatico dibattito parlamentare del 1947 per la ratifica del Trattato di pace, sta nella convinzione culturale della natura oggettiva della misura dettata dalle tecnostrutture e dagli interessi dominanti.
La raccolta di firme parte insieme alla presidenza italiana dell’Unione europea. La nostra presidenza è stata caricata di responsabilità straordinarie, generate dalle condizioni di sofferenza e dalle tristi prospettive delle economie europee e dalle domande di cambiamento espresse nelle elezioni del 22-25 maggio scorso. Ma attenzione: il cambiamento non è neutro. Larga parte delle domande di cambiamento è stata intercettata da partiti e movimenti regressivi. L’Italia è stata, insieme alla Grecia di Syriza, la principale eccezione. Il nostro governo, forte della legittimazione elettorale, deve promuovere l’agenda del cambiamento progressivo. A tal fine, l’iniziativa referendaria può contribuire a affermare una realistica lettura della fase: l’euro-zona è sulla rotta del Titanic. Anche nel medio periodo ripresa rimane, per tutti, anemica, inadeguata a dare lavoro. Gli interventi non convenzionali e disperati appena assunti dalla Bce lo confermano. La via mercantilista imposta dalla Germania e dalla finanza ottusa e raccomandata dalle tecnostrutture europee e internazionali al seguito è insostenibile sul piano economico, sociale e politico. Continuare tutti insieme a puntare su recupero di competitività attraverso la svalutazione del lavoro, data l’impossibilità di svalutare la moneta, porta al baratro: la competitività relativa rimane invariata, si deprime la domanda interna di ciascun giocatore e i debiti pubblici continuano a salire fino a imporre la ristrutturazione.
È necessaria una radicale correzione di rotta. La priorità è sostenere la domanda interna, nazionale e europea, attraverso aumento degli investimenti pubblici e redistrbuzione del reddito e del tempo di lavoro. Le riforme strutturali sono importanti, ma va esclusa ulteriore precarizzazione del lavoro e smantellamento dei contratti nazionali, come invece insiste a chiedere l'Fmi, per annullare la residua capacità negoziale dei lavoratori e tagliare le retribuzioni all’inseguimento di una depressiva competitività di costo.
L’iniziativa referendaria è utile e va sostenuta. Ad essa, alcuni parlamentari del Pd hanno accompagnato emendamenti al Disegno di Legge di riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione per riscrivere il comma 2 dell’art 81 e rendere possibile il deficit per investimenti produttivi. La spinta dei cittadini attraverso il referendum può dare forza a chi in Parlamento, a Roma e Bruxelles, è impegnato a ricostruire il primato della politica sull'economia e a salvare il «Titanic Europa» dall'impatto con l'iceberg dei partiti e movimenti regressivi, nutriti dalla disperazione delle classi medie senza prospettive.

l’Unità 21.6.14
Risarcimenti e sconto di pena per le condizioni inumane
Decreto carceri: saranno compensati con 8-10 euro i detenuti costretti in meno di 3 metri quadri


Dagli 8 ai 10 euro al giorno, a compensazione delle «condizioni inumane» di vita per chi è stato o è costretto in celle con meno di tre metri quadri a testa. Le misure del decreto carceri varato ieri dal Consiglio dei ministri erano annunciate, le polemiche pure.
L’Italia risarcirà i detenuti che hanno vista violata la propria dignità dietro le sbarre, se oggi sono di nuovo liberi; per chi di loro vive ancora recluso si applicherà uno sconto del 10% sulla pena residua. Ci sono poi interventi più generali: il governo innalza da 21 a 25 anni il limite per la permanenza negli istituti di pena minorile, così da alleggerire gli ingressi in carcere e attivare percorsi rieducativi specifici. E ancora, elimina la custodia cautelare e i domiciliari per pene sotto i tre anni, con la modifica del Codice di procedura penale. Nel caso di domiciliari si autorizza l’imputato a recarsi a casa senza scorta («salvo particolari esigenze»). C’è anche un aumento della dotazione del ruolo degli agenti, con il divieto di distacco in altre amministrazioni per il primo biennio. Ma insorgono gli agenti penitenziari del Sappe («uno scandalo il risarcimento ai delinquenti») e dell’Ugl («inaccettabile»), la Lega attacca la scelta del governo come «infame». Le nuove norme sono invece promosse dalla Fns Cisl, che però ora chiede di risolvere il «blocco contrattuale » per la polizia penitenziaria.
Il binario seguito dal Cdm su richiesta dello stesso premier Matteo Renzi e del ministro della Giustizia Andrea Orlando era peraltro obbligato. La sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a gennaio 2013 condannava come insufficienti gli spazi a disposizione dei detenuti italiani e li qualificava come «inumani», a partire dal ricorso di 14 reclusi. L’Italia aveva un anno per adempiere (a partire dalla sentenza definitiva), per evitare pesanti sanzioni e anche ulteriori ricorsi: giusto per capire, «a oggi davanti alla Cedu ne pendono alcune migliaia» spiega il presidente onorario di Antigone Stefano Anastasia. Roma ha comunque ottenuto di modulare i risarcimenti, dunque di ridurre la pena per chi è ancora recluso; a chi invece è già uscito dal carcere spetteranno appunto 8-10 euro, ovvero la metà dei 20 euro previsti in un primo tempo per ogni giorno passato dietro le sbarre «in condizioni inumane». La Cedu ha detto ‘sì’ anche perché ha visto soddisfatta la richiesta di una soluzione «interna» al sistema: «Il detenuto che ritiene di avere vissuto o vivere in condizioni degradanti potrà presentare istanza al magistrato di sorveglianza», questo l’iter riassunto dalla presidente della Commissione Giustizia alla Camera, Donatella Ferranti.
Il decreto di ieri arriva dopo una serie di interventi, che nel complesso hanno convinto l’Europa che l’Italia poteva invertire la rotta e ridurre il sovraffollamento (lo svuotacarceri dell’agosto 2013, il decreto del governo Letta alla fine dello scorso anno, i decreto di aprile con cui si è introdotta tra l’altro la messa in prova). Una vera emergenza: gli ultimi dati (2012) vedevano l’Italia fanalino di coda della Ue a 28 paesi, con 145 detenuti ogni 100 posti contro una media europea di 98 su 100. Il malumore della Fns Sappe chiama in causa le difficili condizioni di lavoro: «Non ci pagano da anni avanzamenti di carriera, indennità, ci fanno pagare l`affitto per le stanze in caserma e poi stanziano soldi per chi le leggi le infrange». Gli agenti rivendicano di avere «sventato in vent’anni 16 mila tentati suicidi e impedito 113 mila atti di autolesionismo» di detenuti: numeri che suonano però come un’indiretta conferma delle condizioni di vita impossibili nel “sistema” carcere. Ancora ieri, una detenuta straniera di 50 anni in attesa di giudizio si è suicidata impiccandosi alle sbarre della finestra della propria cella, a Teramo.

Corriere 21.6.14
Detenuti da risarcire: il caos dei ricorsi
di Luigi Ferrarella


Chi è stato detenuto in celle così sovraffollate (meno di 3 mq a testa) da rientrare nella definizione di «trattamento disumano» per la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2013 con la «sentenza Torreggiani» ha condannato l’Italia a risarcire 7 detenuti di Busto Arsizio e Piacenza con 23.500 euro per 3 anni e 3 mesi di prigionia, se oggi è in libertà potrà chiedere di essere risarcito dallo Stato con 8 euro al giorno; se invece è ancora in carcere, potrà chiedere di godere di uno sconto di 1 giorno di pena ogni 10 trascorsi in detenzione «degradante». Consiste in questo il «rimedio interno» promesso al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, e ieri introdotto per decreto legge dal premier Renzi e dal Guardasigilli Orlando. In questo modo non verranno più decisi da Strasburgo i 6.829 ricorsi italiani lì già pendenti.
Non era però questo l’unico rimedio interno possibile, anzi il coordinamento nazionale dei giudici di sorveglianza aveva già paventato che lo sconto di 1 giorno ogni 10, «con esplicite ed “eteronome” finalità risarcitorie per il detenuto», sarà «di difficile applicazione pratica e dal modesto effetto deflattivo». E che «il risarcimento pecuniario in misura forfettaria, a fronte dell’incommensurabilità del bene supremo della dignità umana che non conosce prezzo, percorre una via indennitaria diversa dalla strada maestra della garanzia giurisdizionale», che avrebbe piuttosto dovuto essere il «diritto al risarcimento integrale dei danni conseguenti ai trattamenti disumani e degradanti, di competenza del giudice civile» secondo quanto «indicato dalla Cassazione», e non dei giudici di sorveglianza.
L’entità del risarcimento è peraltro meno della metà degli standard liquidati dalla Corte di Strasburgo. Sicché il rimedio scelto rischia di poter essere brutalmente riassumibile come quello di uno Stato che con un po’ di liberazione anticipata prima «tortura» uno, ma poi per compensarlo lo «tortura» un poco di meno; o che con una manciata di soldi massimizza pure i propri risparmi, giacché prima «tortura» uno e poi, per compensarlo, gli liquida un «trattamento di fine rapporto» da 8 euro al giorno, quando un giorno di carcere costa complessivamente allo Stato (stando alle tabelle ministeriali) circa 124 euro. Infine c’è da considerare che in questo modo si abbatteranno nuove migliaia di istanze sui giudici di sorveglianza, già sommersi da altri recenti interventi legislativi sul carcere: solo che questi giudici sono sempre e solo 153 in tutta Italia per 60.000 detenuti e 25.000 condannati in misure alternative. E ora i giudici di sorveglianza, nel definire «utile ma precaria, eventuale e del tutto insufficiente» la ieri prevista dal governo «autorizzazione all’impiego di volontari a supporto», sperano «in un supplemento di saggezza politico-istituzionale»: prima che «le nuove competenze» producano «conseguenze disastrose su produttività e efficienza» .

Repubblica 21.6.14
“Carceri, corruzione negli appalti”
di Federica Angeli



ROMA. Appalti per lavori nelle carceri assegnati a ditte, sempre le stesse, di familiari di funzionari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Carte falsificate per fare entrare nel giro di ristrutturazione degli istituti penitenziari italiani solo chi era “amico di”. Lo scandalo del Piano carceri era una bomba a orologeria. Perché a fine 2013, nel corso di un’audizione alla Camera, Alfonso Sabella, l’ex direttore generale della Direzione mezzi e servizi del Dap, ne aveva denunciato sprechi e anomalie. E perché un mese fa il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, aveva fatto partire un’inchiesta interna e segnalato ai magistrati illeciti nei lavori effettuati nelle carceri di Voghera, Lodi e Frosinone.
Il caso è esploso ieri, quando gli uomini della polizia tributaria della guardia di Finanza capitolina hanno bussato alle porte delle sedi del Dap di Roma, Milano e Catania, delle due imprese edili coinvolte (la Me. ta Costruzioni di Caserta e la Devi Impianti di Busto Arsizio), degli uffici e delle abitazioni dei sette indagati.
Per falso, abuso d’ufficio e diffamazione i pm della procura romana Mario Palazzi e Paolo Ielo hanno indagato il prefetto Angelo Sinesio, commissario straordinario al piano carceri. Insieme a lui tre funzionari del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e tre amministratori di società edili hanno ricevuto l’avviso di garanzia per corruzione.
Il ruolo del prefetto Sinesio nell’ affaire, stando a quanto raccontano le carte, è piuttosto imbarazzante: secondo gli inquirenti avrebbe truccato le carte rispetto a un decreto per la «rifunzionalizzazione» del carcere di Arghillà (Reggio Calabria), messo in atto «un artificioso frazionamento delle opere relative» a quel penitenziario suddividendole in due distinte gare: la prima per circa 3,5 milioni di euro e la seconda per 4,5 milioni, «così eludendo la procedura obbligatoria per gli appalti sopra la soglia dei 5 milioni» prevista dalla normativa, e «così da scegliere le ditte da invitare». E mentre faceva tutto questo, diffamava e screditava il suo principale accusatore Sabella.
Nel capitolo di indagine in cui si ipotizza il reato di corruzione sono coinvolti Sergio Minotti, direttore dei lavori e direttore operativo in Lombardia per la realizzazione del nuovo padiglione della casa circondariale di Voghera, e dalla funzionaria del Provveditorato regionale lombarda, Raffaella Melchionna, per aver appaltato quei lavori alla ditta del fratello e del padre (la Me. ta costruzioni). Un’ipotesi di tentata corruzione è contestata, invece, a Carmelo Cavallo, funzionario Dap, per aver preso soldi da un imprenditore in cambio della vittoria alle gare per forniture al ministero della Giustizia. Le perquisizioni hanno riguardato altri cinque funzionari Dap, al momento non ancora indagati.

Repubblica 21.6.14
Le carte che accusano il commissario
“Ecco come gonfiò ad arte i lavori”
di Fabio Tonacci e Francesco Viviano


ROMA. Se l’Italia vuole davvero convincere l’Europa dell’umanità e dell’equità con cui sta trattando i suoi detenuti, dovrà inventarsi qualcosa di meglio di questo asfittico scatolone in legno, con finestre minuscole, infissi blu e tetto in lamiera. Il nome tecnico è «modulo per attrezzare spazi dove trascorrere il tempo fuori dalle celle e dalle sezioni » ed l’unica struttura creata ex novo in quattro anni e tre mesi con i 675 milioni del Piano carceri, il cui Ufficio commissariale, alle dipendenze dirette della presidenza del Consiglio, è finito sotto inchiesta per abuso d’ufficio, falso e corruzione. Nella contabilità del Piano carceri ci sarebbero numeri che non tornano, appalti dati con ribassi «fuori mercato» «commissioni di gara composte in modo inopportuno» «scarsa trasparenza negli atti». Per dirla con le parole di Alfonso Sabella, ex direttore generale delle risorse del Dipartimento amministrazione penitenziaria e autore dell’esposto di 60 pagine che ha dato il la all’indagine, c’è molta «matematica creativa». Soprattutto nelle dichiarazioni ufficiali del Commissario straordinario, ora indagato, Angelo Sinesio.
LA «MATEMATICA CREATIVA»
Il j’accuse di Sabella, non proprio uno sprovveduto visti i suoi trascorsi da pm antimafia in Sicilia, demolisce parola per parola l’audizione di Sinesio alla commissione Giustizia della Camera il 22 ottobre 2013. In quella sede il prefetto sostenne che il Piano carceri originario, quello deliberato nel 2010, prevedeva il completamento di padiglioni già avviati dal Dap e ristrutturazioni di istituti. Per cui il computo dei posti detentivi, nonostante il taglio di 228 milioni di euro dai 675 iniziali, saliva da 9.150 a 11.573. «Matematica creativa» la definisce Sabella nel suo esposto. Argomentando così: «Sono state intestate al Piano carceri opere costruite e pagate dal ministero delle Infrastrutture o dal Dap, gonfiando i numeri». Gonfiati quanto? Almeno di 4 mila unità, stando all’esposto. «L’inclusione nel Piano dei nuovi padiglioni di Terni, Modena, S. Maria Capua Vetere, Livorno, Catanzaro e Nuoro, già avviati dal Dap, è stata virtuale. Per altri 11 padiglioni da 2.400 posti servivano opere minime, costate appena 5,1 milioni a fronte dei 150 investiti ». Dettagli, questi, che Sinesio ha omesso davanti al Parlamento e anche alla Corte dei Conti, tanto da indurla in errore. Scrive Sabella: «Sulla base dei dati forniti dal Commissario, la Corte dei Conti ha attestato già nel settembre 2012 l’avvenuta stipula dei contratti per alcuni padiglioni, quando ancora non si erano nemmeno concluse le gare ».
LO SCATOLONE DI REBIBBIA
Un sudoku virtuale, dunque, che ha come risultato quello di celare i ritardi, questi sì reali, della realizzazione dei quattro penitenziari di San Vito al Tagliamento, Catania, Nola e Pianosa (per un totale di 2800 posti). Quattro anni e tre mesi sono trascorsi dall’inizio del Piano, e ancora sono in alto mare. Qualcosa di nuovo e di autonomo, oltre alle ristrutturazioni, è stato ultimato. Lo scatolone di Rebibbia. Partorito con i fondi del Piano carceri e subito contestato. «Esprimo tutto il mio dissenso in merito al modulo realizzato nella casa circondariale femminile - scrive nel febbraio scorso l’architetto Cesare Burdese, già componente della commissione presso l’Ufficio di Gabinetto del ministero della Giustizia - non ha i requisiti tecnico/architettonici ed estetici che simile struttura richiederebbe». Rilievi che, sostiene Burdese, erano stati indirizzati a Sinesio stesso, con una chiosa che una qualche attenzione la doveva destare: «Così continueremo a dare all’Europa l’immagine di un Paese inadempiente rispetto ai diritti umani ».
I RIBASSI «FUORI MERCATO»
La procura di Roma ora ha dei sospetti sui lavori fatti a Voghera, Lodi e Frosinone. Ma già nel suo dossier Sabella segnalava evidenti anomalie nell’assegnazione di cinque padiglioni, gli ultimi mandati a gara. «Sono stati aggiudicati con ribassi fuori mercato, oltre il 48 per cento con una punta di quasi il 54 per cento». Cifre così basse che ne suggeriscono all’ex pm il possibile esito: «Senza ulteriori e onerosi interventi, sarà impossibile che le relative opere vedano la luce». C’è anche un caso Arghillà, dal nome del penitenziario di Reggio Calabria. «Le gare si sono svolte in base a un decreto di secretazione che non è stato emesso dal soggetto competente, e cioè il dirigente generale», scrive Sabella. Oltretutto la motivazione, di due righe, è « «tautologica». Risibile. Altra stranezza: l’appalto è stato frazionato in due lotti, «in violazione al Codice dei contratti», con importi tali da scendere sotto la soglia comunitaria. Le imprese invitate, inoltre, sono state scelte «non per sorteggio o con altri criteri trasparenti, ma in maniera discrezionale e anti concorrenziale». E il ribasso, in questo caso, è stato più basso della media: appena il 10 per cento.

Corriere 21.6.14
Boldrini critica l’Europa: non fa la sua parte sui barconi
di Felice Cavallaro


SIRACUSA — Parte dalla città delle tragedie greche l’appello del presidente della Camera Laura Boldrini perché «si mobilitino le ambasciate e i consolati di tutti i Paesi europei, prima della partenza dei migranti che rischiano la vita nel Mediterraneo». Un richiamo alle cancellerie di un’Europa che «non fa la sua parte» per salvare vite umane, lasciando spesso «l’Italia sola» in un’operazione come Mare Nostrum. Ed è proprio per rendere omaggio a istituzioni, forze militari e organizzazioni umanitarie impegnate su questa trincea che Boldrini, senza dimenticare il suo passato di portavoce per l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite, si è trasferita ieri in Sicilia per la Giornata mondiale del rifugiato, visitando la nave San Giorgio in rada a Siracusa, poi un Centro accoglienza, a colloquio con 200 immigrati, infine al Teatro Greco per toccanti testimonianze echeggiate prima della messa in scena di Agamennone.
È stata una occasione per rivedere i medici dell’Ordine di Malta, i ragazzi di Save the children, i volontari della Croce rossa o dell’Oim tante volte incrociati davanti ai barconi. Ecco l’abbraccio con Viviana Valastro che con i suoi capelli biondi sembra una tedesca, minuta davanti alla mole di Anouar Bel Rhazi, il marocchino che ha spesso fatto da interprete a Laura Boldrini. E lei abbraccia i compagni di viaggio arrivati da Lampedusa, Pozzallo, Augusta. Dicendo a loro e ai militari schierati davanti al Capo di Stato Maggiore della Marina militare, ammiraglio Giuseppe De Giorgi, «di essere orgogliosi di quanto fate perché il vostro operato rende onore al nostro Paese».
Un omaggio esteso alle forze non presenti sulla San Giorgio, a cominciare dall’Esercito che in Sicilia partecipa con 700 militari, compresi anche mediatori culturali in divisa, soldati italiani di origine africana che parlano le lingue dei migranti e che testimoniano con la loro stessa presenza l’integrazione possibile.
Non basta, però, come dice Boldrini: «Mare Nostrum è una grande operazione, assolutamente necessaria, ma non sarà mai in grado di dare una risposta completa». Di qui il richiamo all’Ue: «Le ambasciate europee si attrezzino nei Paesi di transito per esaminare sul posto le domande di richiesta d’asilo e poi per far arrivare i profughi in Europa senza far loro rischiare la vita in mare, tagliando gli affari dei trafficanti». Franca nel confronto con eritrei e somali che chiedono «documenti» per ripartire verso Nord: «Il diritto d’asilo è una cosa seria, occorrono informazioni e tempi da rispettare».
Poi l’auspicio di «una cabina di regia» per distribuire i 55 mila migranti arrivati da gennaio: «La Sicilia ne ospita il 33%, mentre la Lombardia è al 7% e il Veneto al 3%».

il Fatto 21.6.14
Pubblico nervoso
Boldrini in Sicilia per i rifugiati: gelida accoglienza
Dopo un tour de force bestiale, la Presidente della Camera sloggiata dal teatro greco
di Veronica Tomassini


Siracusa. Sembra un bell’inizio. “Per me Siracusa è tornare a casa”, una dichiarazione che dovrebbe rompere il ghiaccio o piuttosto un’ora di attesa per tutti. Sono le 19.37, al Teatro greco di Siracusa. La gente in platea aspetta dalle 18.30. La presidente della camera Laura Boldrini si presenta, prima dell’Agamennone, dunque con circa un’ora di ritardo, ringrazia i siciliani per il sacrificio e il senso di accoglienza. È lì che succede qualcosa, qualcuno urla “basta”, altri fanno eco, da una parte all’altra della cavea, qualcuno fischia, l’insofferenza è contagiosa. È imbarazzante, ma un applauso copre i fischi. Finisce così la giornata mondiale del rifugiato per la Boldrini, con questo mormorio in platea, con i fischi e gli applausi riparatori. Lei ieri è stata ovunque: in Capitaneria di Porto, quindi nella nave anfibia San Giorgio, poi in visita nei centri di accoglienza della provincia.
UNA PROVINCIA STANCA evidentemente dei trentamila sbarchi dall’inizio dell’anno, poco più poco meno. Non c’è stato a dir la verità un gran clamore, i siti siciliani ne hanno parlato appena. La Boldrini era ovunque, nel pomeriggio è riuscita persino a raggiungere Cassaro, microscopico paesino a nord ovest di Siracusa, per visitare l’ennesimo Sprar. Da lì il rientro, al teatro greco, per la breve cerimonia prevista prima dello spettacolo dell’Agamennone, c’era tra gli altri il commissario straordinario Alessandro Giacchetti. Ma la gente ha fischiato, stanca di aspettare lei, forse, o stanca di sentir parlare di sacrificio e accoglienza. Lo stesso imbarazzo procurato dal gelo di alcune file, a fine discorso, quando la Boldrini ha concluso con i ringraziamenti: “Grazie a tutti gli uomini e a tutte le donne che non hanno ceduto all’egoismo e che ogni giorno danno il loro tempo e la loro vita a chi soffre”. Ancora “basta” urlati dalle file più alte.

Corriere 21.6.14
Botte e sevizie ai malati psichici
A Rovigo una clinica degli orrori
Immagini choc dalle telecamere nascoste. Fra i 10 arrestati c’è un medico
di R. F.


Insulti, umiliazioni, botte, addirittura torture. Sono impressionanti le immagini girate all’interno degli Istituti Polesani, una struttura per disabili psichici e fisici di Ficarolo (Rovigo). Un medico e altri nove operatori sanitari (sette donne e due uomini) sono stati arrestati per i maltrattamenti di cui erano vittima i pazienti. L’indagine con cui Carabinieri del Nas e Polizia hanno scoperchiato l’ennesimo polo sanitario degli orrori, aveva preso il via dalla denuncia presentata lo scorso anno da alcuni parenti delle vittime, che avevano notato lividi ed ecchimosi sul corpo dei loro familiari ospiti della struttura.
«Chissà che ti venga un tumore alla gola così non ti sentiamo più». È l’«augurio» che un medico ha rivolto a un paziente cieco che si era lamentato con i parenti per i continui maltrattamenti subiti. Ma quella era quasi una «carezza» se confrontata alle sberle, alle botte in testa e al viso con scarpe da ginnastica, alle spinte, alle umiliazioni anche sessuali che venivano riservate ai pazienti della casa-lager, quasi tutti non autosufficienti. 
L’indagine ha fatto emergere una situazione estremamente preoccupante, documentata dagli inequivocabili filmati dei maltrattamenti, divenuti consuetudine quotidiana nell’istituto di Ficarolo.
«Insulso», «stupido», «ignorante», «tua sorella ti ha rispedito qui dentro» erano le colonne sonore, registrate dalle intercettazioni ambientali che accompagnano soprusi di vario genere. Dall’infilare le scarpe a chi era costretto a letto, alle tirate di capelli per «aiutare» chi dal letto doveva scendere; dal cambio di pannoloni in pubblico, davanti a degenti di sesso opposto, al paziente lasciato nudo sulla sedia a rotelle, costretto ad infilarsi in bocca una maglietta. Un elenco minuzioso di torture contenuto nelle 50 pagine di ordinanza del gip Carlo Negri. Una realtà di violenza e brutalità davanti alla quale c’era anche chi, e per questo è indagato, si voltava dall’altra parte. La direzione degli Istituti Polesani si è detta all’oscuro dei fatti avvenuti dentro al struttura, esprimendo «stupore e sgomento» per gli arresti.
La residenza sanitaria, in apparenza modello di funzionalità, avrebbe nascosto dietro le finestre chiuse un vero e proprio lager, in cui erano costretti coloro che avevano maggior bisogno di cure e affetto. Alle richieste dei familiari delle vittime di avere chiarimenti circa le lesioni riscontrate ai propri cari, il personale dell’Istituto si giustificava, ogni volta, sostenendo che i pazienti si erano infortunati a causa delle precarie condizioni fisiche, derivanti da problematiche motorie o da malattie psichiatriche.
Nell’ordinanza il gip sottolinea la gravità dell’operato del medico a carico del quale «emerge il gravissimo episodio della perdita della vista da un occhio di una signora in occasione della quale fece ai figli della paziente dichiarazioni fuorvianti, tese a minimizzare oltre al limite del verosimile l’accaduto e le cause».

il Fatto 21.6.14
Botte e schiaffi in una clinica a Rovigo
In manette 10 medici e infermieri: maltrattavano anziani e malati psichiatrici
Indagini dopo i sospetti dei parenti
di Giulia Merlo


Una signora anziana è stesa nel suo letto d’ospedale, con le sponde ai lati alzate. D’un tratto nell’inquadratura entra un’infermiera vestita di bianco. Afferra la testa della donna, le tira i capelli, la schiaffeggia con forza e la sbatte violentemente sul cuscino più volte. Poi le copre il viso con il lenzuolo e lo schiaccia con entrambe le mani, come se volesse soffocarla.
Questa è solo una delle terribili immagini che i carabinieri della squadra mobile di Rovigo hanno visionato. Ieri, poi, sono scattati gli arresti di 10 persone e 5 denunce a piede libero tra medici, infermieri e personale ausiliario della struttura privata convenzionata “Istituti Polesani” di Ficarolo. L’indagine, durata molti mesi, ha portato alla luce le violenze e la brutalità cui i pazienti , anziani e affetti da turbe psichiche, erano costantemente sottoposti dal personale che avrebbe dovuto accudirli e curarli.
“UN LAGER”, ha definito la struttura il questore di Rovigo Eugenio Russo. Gli episodi di accanimento contro i degenti sono più di cento e sono stati scoperti grazie alle denunce dei parenti delle vittime. La prima risale al febbraio 2013 ed è stata presentata da una donna che aveva due fratelli gemelli ricoverati nella struttura. Era da oltre due anni che notava sui loro corpi lividi e anche punti di sutura, giustificati in modo poco convincente dagli infermieri. Solo uno dei due fratelli era in grado di comunicare e ha raccontato che a picchiarlo era stato un infermiere. Dopo la prima denuncia, un’altra signora aveva lamentato come un parente ricoverato fosse stato evidentemente preso a calci e a pugni.
A quel punto sono scattate le indagini e le telecamere nascoste hanno ripreso vessazioni di ogni tipo su pazienti inermi, che venivano picchiati con manici di scopa, vassoi e scarpe. Strattonati e gettati con forza sulle sedie a rotelle. Di fronte alle domande dei familiari, che notavano le ecchimosi sui loro cari, il personale della clinica si giustificava sostenendo che le ferite se le erano procurate gli stessi ospiti, molti dei quali sono affetti da gravi problemi motori o patologie psichiatriche. Non solo, per tenere lontani i familiari il regime della struttura prevedeva che le visite ai pazienti potessero avvenire solo su appuntamento e nessuno poteva accedere alle stanze. Una violenza sistematica , nascosta dietro le mura di un istituto sanitario che - almeno in apparenza - era considerato un modello di funzionalità, conosciuto in tutta la provincia come esempio di eccellenza nella cura dei pazienti. Sono ancora in corso perquisizioni per accertare eventuali responsabilità di altre persone, anche esterne alla struttura.
“TOLLERANZA ZERO con l’istituto”, ha commentato il presidente della Regione Veneto Luca Zaia. “Gli operatori sanitari hanno tradito la loro missione. Per quanto mi riguarda ho già disposto un’ispezione amministrativa interna e, se tutte le accuse saranno confermate, la struttura verrà cancellata da qualsiasi collaborazione con il pubblico”.
In una nota la direzione degli “Istituti Polesani” ha provato a difendersi, dichiarando di essere all’oscuro di tutto e scaricando interamente la responsabilità sul proprio personale. “Si tratta di episodi isolati, addebitabili esclusivamente ai singoli che li hanno posti in essere”, aggiungendo che “chi conosce da vicino gli Istituti Polesani sa bene che la realtà quotidiana in cui vivono i nostri ospiti è ben diversa”. Solo pochi giorni fa, dopo che le denunce di alcuni familiari avevano trovato spazio sui media locali, i vertici della clinica si erano affrettati a convocare una conferenza stampa insieme al sindaco di Ficarolo Fabiano Pigaiani, per assicurare che non esisteva alcun problema nel trattamento dei pazienti.

il Fatto 21.6.14
Miracoli di Scola: Milano avrà un vescovo ciellino
Il cardinale è riuscito a rompere l’incantesimo che non voleva ai vertici della diocesi sacerdoti troppo schierati con gli eredi di don Guissani
di Gianni Barbacetto


Milano. Ci siamo, sussurrano nelle chiese e in curia: il cardinale arcivescovo Angelo Scola ha cominciato a “ciellizzare” la diocesi di Milano. Il 28 giugno ordinerà in Duomo il primo vescovo ausiliare ciel-lino nella storia della chiesa milanese. Si chiama Paolo Martinelli, è un frate cappuccino, fa il professore all’Antonianum di Roma ed è vicino al movimento di Comunione e liberazione. Diventerà vescovo ausiliare (un aiuto all’arcivescovo nel governo di una delle diocesi più grandi del mondo) insieme ad altri due preti ambrosiani: Franco Agnesi e Pierantonio Tremolada.
AGNESI è stato il pro-vicario generale della diocesi e il “moderator curiae” voluto dal cardinale arcivescovo Carlo Maria Martini. Ora è vicario episcopale di Varese, e chi ha quell’incarico (come anche il vicario episcopale di Milano città) è tradizionalmente ordinato vescovo. Tremolada è invece vicario episcopale per un settore importante, quello dedicato all’evangelizzazione e i sacramenti. Entrambi sono “martiniani”, cioè cresciuti nel solco della tradizione pastorale e teologica della diocesi milanese, guidata negli ultimi anni da vescovi “forti” come Carlo Maria Martini e poi Dionigi Tettamanzi.
I preti di Milano e le loro comunità, nella stragrande maggioranza, hanno sempre guardato con sospetto i gruppi di Cl che crescevano ai margini delle parrocchie, considerati come una sorta di setta autonoma che non riconosce l’autorità diocesana e, per di più, tende a mescolare in maniera spregiudicata e disinvolta religione , politica e affari. Scola, che è cresciuto nel movimento di don Giussani, conosce bene questa tradizione ambrosiana e sa che è antecedente all’arrivo come vescovo di Martini: perché egli stesso, per diventare sacerdote, nel 1970 ha dovuto abbandonare il seminario diocesano (di fatto, una espulsione), perché al mitico rettore di Venegono, monsignor Bernardo Citterio, non piacevano i ciellini che usavano il seminario ambrosiano come un taxi per farsi ordinare preti, ma senza riconoscere di fatto i “superiori” diocesani, perché avevano i loro superiori, i loro teologi, i loro padri spirituali e, sopra tutti, lui, don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e liberazione. Così Scola emigrò a Teramo, dove fu ordinato da un vescovo vicino al movimento di Cl.
NEL 2011, ha avuto la sua rivincita: è tornato da arcivescovo nella diocesi che non lo aveva voluto fare prete. Ci è arrivato anche sospinto da una lettera mandata in Vaticano dal capo di Cl, Juliàn Carròn: una “raccomandazione” che conteneva giudizi duri sul predecessore, Tettamanzi, accusato, pur senza farne il nome, di “intimismo e moralismo”, di aver sostenuto il centrosinistra e Giuliano Pisapia e soprattutto di aver bollato “come affarismo le opere educative, sociali e caritatevoli dei movimenti” (cioè di Cl). Quando la lettera è diventata pubblica, Scola è stato chiamato dai suoi preti a spiegare quei giudizi e ha risposto rivendicando la sua autonomia dal movimento da cui proviene e promettendo di garantire la continuità con le tradizioni ambrosiane.
Finora ha sostanzialmente mantenuto la promessa. Dal 28 giugno, però, l’incanto si rompe. Arriva un vescovo ausiliare ciellino. Quale ruolo avrà nella diocesi? Mistero: ancora non è stato annunciato quale sarà il suo incarico.
Scola ha già inserito un altro ciellino nell’organigramma della curia: dopo aver “spacchettato” in quattro settori l’ufficio Ecumenismo, ha chiamato a dirigere quello dedicato al dialogo con le religioni orientali don Ambrogio Pisoni, assistente spirituale all’università Cattolica di Milano e uomo di Cl.
C’È CHI SPIEGA così l’accelerazione degli ultimi mesi: Scola, dopo aver fatto il patriarca di Venezia, era arrivato a Milano con il programma di restarci poco; il passaggio dalla diocesi ambrosiana doveva servire per il grande salto a Roma, dove avrebbe dovuto sostituire Joseph Ratzinger e diventare papa. Non è andata così. Papa Francesco ha scombussolato anche questi piani. Così Scola si è convinto che ora la deve governare, questa grande diocesi. Anche cambiando organigrammi e tradizioni culturali.

il Fatto 21.6.14
La Curia si tiene l’impero Faac Liquidati con 60 milioni gli eredi
di Annalisa Dall’Oca


Bologna. Alla fine, l’accordo è stato raggiunto: la Curia avrà la Faac, multinazionale dei cancelli automatici valutata 1,7 miliardi di euro, e alla famiglia di Michelangelo Manini, che dell’azienda di Zola Predosa, in provincia di Bologna, era proprietario, andranno 60 milioni di euro. Purché i sette parenti, impugnatari del testamento, rinuncino alla causa civile.
SI CHIUDE COSÌ, una vicenda che nei due anni trascorsi dalla morte dell’imprenditore bolognese, scomparso a 50 anni in seguito a una lunga malattia, ha via via assunto sempre più i contorni di una soap opera. Con tanto di colpi di scena. Una vicenda iniziata a marzo del 2012, quando il testamento lasciato da Manini designava la Curia erede universale del suo patrimonio, ma che mese dopo mese si è fatta sempre più complicata: quattro testamenti, tre olografi e uno lasciato nelle mani di un dentista, scritto su un modulo di consenso informato, analizzati dagli uomini del Ris di Parma, una cugina che dice di essere una sorella e avvia la pratica per il riconoscimento postumo di paternità, centinaia di lavoratori a rischio di licenziamento.
E ancora l’ombra dello Ior, la Banca Vaticana, ipotizzata dalla magistratura quando, tra le diverse inchieste aperte sul caso Faac, spuntarono i nomi di due cardinali della Curia romana vicini a Tarcisio Bertone, cioè Giuseppe Versaldi, presidente della Prefettura per gli affari economici della Santa sede, vero e proprio ministro di Papa Bergoglio, e Domenico Calcagno, ex membro della commissione cardinalizia di vigilanza per lo Ior, nominato negli ultimi giorni di pontificato di Benedetto XVI finchè a gennaio non è stato rimosso dall’incarico assieme a Berto-ne. E poi quel conto milionario a Lugano, altri 22 milioni di euro, sempre di Manini, intestataria l’Arcidiocesi di Bologna, le intrusioni notturne negli uffici legali e persino i tentativi di estorsione ai danni della Curia, per i quali poi, lo scorso maggio, la Procura di Bologna ha chiesto l’archiviazione.
Al centro del contendere il colosso multinazionale specializzato nella produzione di cancelli automatici, nato dall’intuizione di Giuseppe Manini nel 1965 e detentore, nel 2011, di un fatturato di 214 milioni di euro: in tutto, più di 1.000 dipendenti, 24 consociate di distribuzione nel mondo, 12 stabilimenti e 2 milioni di prodotti commercializzati. Il gioiello della manifattura emiliano romagnola per cui, anno dopo anno, lo scontro tra la Curia e i sette parenti di Manini ha occupato le aule di tribunale, congelando e scongelando i beni, ma anche il futuro di quegli operai che alla Faac lavorano. Ora quel capitolo sembrerebbe chiuso, e salvo ulteriori colpi di scena, l’accordo verrà trasmesso lunedì 23 giugno al Tribunale civile. Alla Curia verranno restituite le quote societarie che il giudice civile aveva sequestrato e affidato a un custode, il 66%, le altre sono in mano ai soci francesi della Faac, e poi si parlerà, finalmente, del futuro dell’azienda.
UNA PROSPETTIVA che pare mettere tutti d’accordo, a partire proprio dai famigliari di Manini. “Avrei voluto che le reciproche tesi venissero giudicate con una sentenza, ma mi sono inchinata alla richiesta di fare un passo indietro - commenta Mariangela Manini, cugina del defunto Michelangelo - adesso penso davvero che il futuro della Faac sia in buone mani e ritengo avrà sempre maggior successo”.

il Fatto 21.6.14
Fanfare
Pensionati e musei, l’inesistente “rivoluzione” di Franceschini
di Tomaso Montanari


Una cosa bisogna riconoscerla, a Dario Franceschini: ha il miglior ufficio stampa che si sia mai visto ai Beni Culturali. Già, perché il ministro non si limita a godere dell’effetto Renzi (quello per cui i massimi quotidiani italiani si sono autoridotti a scendiletto del governo), ma dimostra capacità di seduzione mediatica degne di un incantatore di serpenti. Non si spiega altrimenti il coro unanimamente osannante che ha annunciato una “rivoluzione nei musei italiani”. La rivoluzione sarebbe che è stato abolito l’ingresso gratuito per chi ha più di 65 anni. Come dire ai pensionati: “Rimanete ai giardinetti, per favore”. La propaganda dice che quelle gratuità sono state ora concesse ai minori di 18 anni: fosse davvero così si tratterebbe di una singolare applicazione della rottamazione al diritto alla cultura.
Ma almeno sarebbe una notizia: che però non esiste, visto i minorenni già entrano gratis in tutti i musei statali. E non è nemmeno vero che con quei soldi si faranno entrare gratis gli insegnanti (qualunque cosa insegnino): che è una cosa sacrosanta, ma già decisa da Maria Chiara Carrozza e Massimo Bray.
E DUNQUE dove vanno i soldi risparmiati con la norma escludi-pensionato? Nell’apertura gratuita della prima domenica del mese e in due “notti al museo” (con ingresso a un euro) all’anno: un po’ pochino per parlare di rivoluzione. Franceschini ha detto che così “si evita l’assurdità che anche facoltosi turisti stranieri over 65 non paghino il biglietto, come avviene oggi”. Ma francamente togliere un diritto a un quinto della popolazione nazionale (questi i numeri) per sbarrare la strada a qualche milionario giapponese o americano non pare proprio un’idea geniale. Dal 1° luglio chi ha la pensione minima non potrà più nemmeno consolarsi esercitando davvero la sua proprietà costituzionale di Michelangelo e Raffaello.
Se proprio Franceschini voleva recuperare soldi sugli ingressi, poteva seguire le indicazioni della Corte dei Conti, e ritirare la concessione ai grandi gruppi privati for profit che oggi intascano le percentuali sui biglietti dei grandi siti italiani.
Un ministro per i Beni culturali (specie se progressista) dovrebbe allargare, e non contrarre, il diritto alla cultura. Il gettito della bigliettazione rappresenta oggi circa il 13% del bilancio del patrimonio culturale pubblico: un bilancio che è stato letteralmente dimezzato da Bondi nel 2008. Se Franceschini facesse ciò che davvero dovrebbe fare, e tornassimo a una quota pre-Bondi (riavvicinandoci alla media europea) potremmo permetterci di non far pagare nessuno: e questa sì che sarebbe una rivoluzione. Più in generale, la politica degli annunci dei Beni Culturali meriterebbe un’osservazione più stretta e severa. Nei corridoi del Mibac si sussurra che l’Art Bonus sarà un colossale flop (per il primo anno si calcola che arriveranno 5 milioni di euro: praticamente nulla). E sono interdetti i direttori dei musei cui Franceschini ha scritto personalmente annunciando l’accredito dei soldi dei loro biglietti: non hanno nemmeno un conto in banca, né tantomeno l’autonomia di bilancio per spenderli.
Se a questo aggiungiamo le recentissime e mediocrissime nomine nei comitati tecnico-scientifici (addirittura oscene quelle per la storia dell’arte) appare chiaro che la rivoluzione sta solo sui giornali. Purtroppo.

Repubblica 21.6.14
Bossetti allo psicologo
“Non sono il mostro se fossi io il colpevole mi sarei già ucciso”
di Paolo Berizzi



BERGAMO. Eccolo il racconto di Bossetti. «Sono tranquillo e sereno. Adesso sono il mostro della porta accanto, ma ho la coscienza a posto. Verrà dimostrata la mia innocenza. Se fossi stato io ad ammazzare Yara, mi sarei già ucciso». Le 10.15 di venerdì. Infermeria del Gleno, il carcere di Bergamo. La stanza medica è in fondo al corridoio che parte dalla rotonda, come è chiamato lo snodo da cui si raggiungono le sezioni del penitenziario. Sono passate 24 ore dall’udienza di convalida del fermo del presunto killer di Brembate. Ancora piantonato nella sua cella, Bossetti si sottopone alla visita medica di routine. È la quinta da quando è dietro le sbarre.
L’ex Ignoto1 affronta un lungo colloquio con lo psicologo che fa parte dell’équipe coordinata da Franco Berté, dirigente medico del carcere di Bergamo. Prima di riportare il contenuto della conversazione con Bossetti, è opportuno sottolineare un dato clinico: cristallizzato in un referto, e per nulla secondario. L’uomo accusato di avere massacrato Yara Gambirasio e di averla «abbandonata agonizzante in un campo isolato dopo avere operato sevizie e agito con crudeltà », è descritto dai medici che lo seguono al Gleno con queste parole: una «persona equilibrata»; un detenuto in «stato integro», che gode di un «buon equilibrio psicofisico» e «presenta un sufficiente grado di contenimento». Questo è il Massimo Giuseppe Bossetti ingrandito dalla lente di psicologi e psichiatri. Che, con una visita specialistica, hanno voluto valutare le sue condizioni e il grado di «inserimento ambientale» in carcere.
«Chiaro». «Lineare». «Disarmante ». Viene riferito in questi termini, a “Repubblica”, l’atteggiamento del muratore quarantaquattrenne. «Non sono io il colpevole, e questa consapevolezza mi fa sentire a posto con la mia coscienza - ha spiegato Bossetti in infermeria - Sono qui dentro, in carcere. Ovvio che vorrei, anzi dovrei, non starci: perché non c’entro niente con l’omicidio di quella povera ragazzina. Ma sono sicuro che le indagini andranno avanti, e dimostreranno la mia innocenza».
È questo il punto di equilibrio del grande accusato? Possibile che tra le pieghe della sua mente non vi sia neanche un filo di smarrimento o di umana angoscia? «Se fossi stato io a fare una cosa del genere, mi sarei già ucciso», ha risposto Bossetti al medico che gli chiedeva come si sentisse dopo la vicenda che, colpevole o meno, lo ha travolto. Le parole del detenuto non hanno evidenziato «nessuna traccia di pulsioni autolesioniste», dice lo specialista. Bossetti - difeso dall’avvocato Silvia Gazzetti - si sente innocente e lo dice con forza. Al punto che per un attimo si spinge a affermare: «Non voglio nemmeno pensare a un processo. Io non ho ucciso Yara, non l’ho mai incontrata né conosciuta: l’ho vista solo in tv».
Dichiarazioni, queste, già consegnate al gip durante l’udienza di giovedì. Udienza sul cui esito, ora, si interroga lo stesso accusato. «Se per loro sono io l’assassino perché non hanno convalidato il fermo?». In infermeria Bossetti ha offerto argomenti per spiegare il suo stato d’animo. Sempre in difesa. Del ritrovamento del suo Dna aveva già detto di essere sorpreso e di non sapere come sia possibile che sia stato trovato sui leggins e sugli slip di Yara. Ora si spinge oltre. «È una delle tante stranezze di questa storia. La più grande. Ma sono sereno perché sono sicuro che la mia estraneità verrà presto a galla».
Agli psicologi interessa altro. Per esempio capire anche se, come e quanto l’impatto della macchina mediatica abbia influito negli ultimi giorni sui pensieri e i meccanismi cognitivi di Bossetti. Lui ha risposto così: «Adesso per tutti sono il mostro cattivo. Ma non è così e la verità verrà fuori. Non sono un criminale, non sono un maniaco, non sono uno che va dietro alle ragazzine. Chi mi conosce, i miei familiari, mia madre, mia sorella, i miei figli, ma anche i miei amici e i miei colleghi, sanno benissimo che non potrei mai commettere un crimine come questo». Basta questa consapevolezza esibita per tenersi su e non precipitare in uno stato d’ansia? «Se dentro di me non sapessi di essere innocente probabilmente adesso mi troverei in uno stato di depressione devastante. Mi sarei già ucciso. Trovo forza nel sapere che le cose non stanno come pensano i magistrati e le forze dell’ordine».
C’è un aspetto che ha colpito Bossetti. E lo ha ammesso lui stesso davanti ai medici. È lo spaccato collaterale di questa storiaccia che ha sconvolto la vita di due, anzi tre famiglie: prima i Gambirasio, poi i Guerinoni, adesso anche i familiari di Bossetti, a partire da sua sorella gemella Letizia Laura (ha scoperto assieme al fratello di non essere figlia di quello che credeva essere il suo padre naturale, Giovanni Bossetti). «Scoprire dai giornali e dalle televisioni (Bossetti ha la tv in cella, ndr) che il mio padre naturale è un altro, mi ha provocato un forte turbamento. È una cosa che elaborerò col tempo ma che, indipendentemente da come sono andare davvero le cose, non cambierà il mio rapporto e il mio sentimento di amore e di affetto per mia madre. So anche che i miei familiari continueranno a starmi vicino e a sostenere la mia innocenza».
Tra gli accertamenti clinici, i colloqui con lo psicologo sono considerati uno dei momenti più significativi per «l’adattamento del detenuto e la valutazione della sua situazione emotiva. Specie se appena arrivato e soprattutto se in condizione di isolamento ». Così ritengono il direttore del carcere Antonino Porcino e la responsabile dell’area trattamentale Anna Maioli. Lui, Bossetti, dopo il quinto giorno dietro le sbarre, si sente così: «Ho trovato umanità da parte di tutte le persone con le quali sono entrato in contatto. In carcere non mi sento trattato da mostro. Sono entrato con un’accusa, ma questo non significa che sono un assassino».

Repubblica 21.6.14
Domande e risposte
Gli scienziati e la firma del Dna “Ecco perché inchioda il killer”
di Piero Colaprico


BERGAMO. Può sembrare quasi una magia il fatto che da una macchia di materia organica (sangue, sperma, sudore, saliva) trovata su un corpo si possa arrivare, com’è successo nell’indagine su Yara Gambirasio, alla certezza da parte degli investigatori di aver individuato l’assassino. Come funziona una simile indagine sui Dna? L’abbiamo chiesto a 4 genetisti.
Sui resti di Yara viene trovata una «macchia organica mista », cioè c’è sia il Dna di Yara sia quello di un soggetto maschile, che verrà chiamato «Ignoto Uno»: come si possono individuare in una sola macchia due Dna?
«Avete presente un “file” sul computer? Il Dna è uguale», dice lo scienziato Edoardo Boncinelli. «C’è per esempio la parola pappagallo, si o no? C’è la parola rivincita, sì o no? A ogni domanda, la sua risposta. Se dieci o quindici domande ricevono la risposta, se ci sono le “parole”, ogni Dna trovato diventa inconfondibile».
Se due Dna mescolati in una macchia dicono che i due soggetti erano là insieme, nella ricerca scientifica non serve «separare» i due Dna diversi?
«No», conferma Boncinelli: «Se ogni Dna è un “file”, è come se nella macchia ci fossero i due “file” che si sono mescolati. E grazie all’analisi molecolare, i due testi possono essere rintracciati e ricomposti, parola per parola. Quindi si può dire che c’è Yara, grazie alle parole di Yara, e che c’è “Ignoto uno”, per le parole di “Ignoto uno”. Infatti, sarebbe meglio - spiega Boncinelli - dire non “il” test del Dna, ma “i” test del Dna, al plurale, perché si cercano tante parole».
La macchia mista venne mandata a quattro laboratori diversi che identificano lo stesso Dna di “Ignoto uno”. Perché?
«La regola della scienza - risponde ancora Boncinelli - è “mai una volta sola”. Potrebbe succedere che batterio, muffa o fungo alterino qualche “parola”. Qui non è successo».
Viene trovata una somiglianza tra il Dna di «Ignoto uno» e quello del frequentatore di una discoteca, non lontana dal prato dove emersero i resti di Yara. E da lì si è arrivati a Giuseppe Guerinoni, autista di bus, morto nel 1999.
Com’è possibile?
«Ogni figlio - spiega il professor Guido Barbujani dell’università di Ferrara - ha il 50 per cento del Dna paterno e il 50 per cento del Dna materno. Ma ci sono degli eccessi di somiglianza negli stessi gruppi parentali. Per capirci, sicuramente esiste persino una minuscola somiglianza del Dna tra un signore che passa per strada e Nelson Mandela, ma ci sono molte più somiglianze se si è nello stesso gruppo di parenti, o se si abita da tempo nella stessa zona».
Ma dal gruppo dei parenti, come si può essere sicuri di arrivare al padre?
«Per tentativi. E avendo riesumato il corpo di Giuseppe Guerinoni, ogni dubbio - continua il professore di Ferrara - s’è dissolto. Il Dna stabilisce che lui è il padre di “Ignoto uno”».
«Ignoto uno», però, non aveva nel suo 50 per cento di Dna femminile quello della moglie di Giuseppe Guerinoni: bastava per escludere i maschi discendenti legittimi dell’autista?
«Sono stati immediatamente esclusi, infatti - dicono Carlo Previderè e Pierangela Grignani, genetisti dell’Università di Pavia - gli investigatori cercavano la madre di “ignoto uno” e hanno prelevato i campioni di donne che potevano aver avuto rapporti sessuali con Guerinoni o che avevano cambiato indirizzo. Solo a noi ne sono arrivati circa 500».
Ma come si può rintracciare una madre naturale?
«Abbiamo evidenziato nel Dna di “Ignoto uno” - spiegano i genetisti pavesi - un allele raro di provenienza materna. Quindi abbiamo messo a punto a Pavia un test specifico per tracciare questa caratteristica e uno dei campioni delle donne arrivati in laboratorio possedeva la caratteristica peculiare. Quello di Ester Arzuffi. C’era tra i due Dna piena compatibilità. Madre e figlio».
È importante per la ricerca la circostanza che “Ignoto uno” avesse un allele materno molto raro?
«È come dire che una madre ha un occhio chiaro e un occhio scuro: è lei la persona che si cerca e «ignoto uno», figlio, porta in sé questa strana caratteristica», dice ancora Barbujani.
Quindi, seguendo il filo del discorso, Ester Arzuffi, madre naturale di «Ignoto uno», ha concepito i suoi gemelli con Guerinoni, tant’è vero che non è stato nemmeno necessario fare l’esame del Dna al padre anagrafico. Perché?
«Perché - risponde Boncinelli - “Ignoto uno” ha, stando ai test del Dna, dentro di sé le parole del padre e quelle della madre, e possono essere solo quelle».
I test domenica notte rivelano che «Ignoto uno», il presunto assassino, è Massimo Giuseppe Bossetti, 44 anni, muratore, padre di tre figli, che si proclama innocente. Viceversa, siccome i due Dna - “Ignoto” e Bossetti - presentano 21 marcatori uguali, l’accertamento, viene detto, è «a prova di bomba»: perché?
«Se diciamo che un soggetto ha il sangue zero positivo, sappiamo che non basta, perché ci sono moltissime persone zero positivo. Ma in questo sangue, c’è il Dna. Nel Dna ci sono alcuni marcatori molto, ma molto più rari di altri. Se vengono individuati tra gli 11 e i 13 marcatori uguali, la possibilità che il soggetto non sia quello, sapete di quant’è? È una su 300 miliardi. Quindi, se i marcatori sono 21, le possibilità di errore sono ben oltre. Ma al mondo, dice un mio amico inglese, per fortuna ci sono solo 7 miliardi di persone», conclude il professor Barbujani.
Il Dna di Massimo Bossetti - va ricordato - è stato trovato all’interno dei leggings e degli slip di Yara. Come c’è arrivato? È a questa domanda che, per ora, manca la risposta.

Corriere 21.6.14
«Così ho individuato Ignoto 1, la sua identità è certa»
La genetista che ha capito come leggere la traccia su Yara
«Era l’alba e in laboratorio ci siamo fatti i complimenti»
di Armando Di Landro


Un’esultanza contenuta, alle tre del mattino. Poche ore prima dell’alba di lunedì 16 giugno uno dei laboratori di Medicina Legale e Scienze Forensi dell’Università di Pavia era aperto. Al lavoro c’erano Carlo Previderè — già protagonista delle analisi scientifiche nel caso dell’omicidio di via Poma — e la sua collaboratrice Pierangela Grignani. Entrambi, allo scoccare delle tre, hanno fatto fatica a credere ai loro occhi: il profilo genetico estratto dalla saliva di Massimo Giuseppe Bossetti, 43 anni, di Mapello (Bergamo), corrispondeva pienamente con il Dna di «Ignoto 1», l’uomo che ha lasciato due tracce biologiche sui vestiti di Yara Gambirasio.
«Il campione, consegnatoci dai carabinieri nella prima serata di domenica, è risultato perfettamente sovrapponibile», ha specificato lo stesso Previderè dopo la conferenza stampa di ieri della procura di Bergamo. «Non credo possano esserci dubbi sull’identità di quel profilo che per mesi è stato chiamato “Ignoto 1”»: queste le parole della Grignani, una ricercatrice appassionata, ma modesta, rimasta in disparte per quasi tutta la conferenza.
Le era già scaduta la borsa di studio quando ha messo a punto un metodo che ha permesso di velocizzare i tempi sui campioni di Dna delle 532 madri emigrate dalla Val Seriana, la zona di Giuseppe Guerinoni, il padre naturale dello stesso Bossetti. Ma era rimasta al lavoro gratis, per arrivare alla verità. Proprio lei, la Grignani, come ha riconosciuto più volte lo stesso Previderè, aveva notato che il profilo genetico di «Ignoto 1», conteneva un particolare «allele», ovvero un gene, piuttosto raro, di provenienza materna. E aveva suggerito che il confronto tra Dna per rintracciare la madre dell’uomo senza volto e senza nome, potesse avvenire anche solo cercando quel gene. Un tratto biologico particolare, difficile farlo corrispondere a una caratteristica fisica precisa. «Ma comunque si tratta di un elemento utile sotto l’aspetto della ricerca — commenta Fabio Buzzi, il responsabile dell’unità operativa di Medicina Legale e Scienze Forensi dell’Università di Pavia —. Il metodo proposto dalla ricercatrice è stato determinante, negli ultimi mesi, per velocizzare i lavori, non di poco. Grignani e Previderè hanno occhio».
La prima svolta è arrivata venerdì scorso, quando le analisi hanno dato un responso determinante: l’allele messo sotto la lente non era presente solo nel profilo genetico di «Ignoto 1», ma anche in quello di una donna di 67 anni, Ester Arzuffi, di casa a Terno d’Isola, sempre in provincia di Bergamo. La madre dell’uomo che carabinieri e polizia cercano da tre anni è lei. E a quel punto, domenica, gli investigatori hanno messo in scena un finto controllo stradale, facendo soffiare nell’etilometro il figlio della Arzuffi, il Massimo Giuseppe Bossetti che è in carcere. Poco più di un’ora dopo la sua saliva era nei laboratori di Pavia. Anche lui, il muratore dagli occhi azzurri, ha un Dna contenente quel particolare gene, che è stato una sorta di faro nel laboratorio di Previderè e della Grignani.
«Naturalmente — specificano dall’Università — le definitive conferme sono poi arrivate confrontando i profili completi, con 21 marcatori genetici (ovvero utilizzando tutta la stringa dei Dna da confrontare, ndr ). Ma i test precedenti si erano rivelati corretti».

La Stampa 21.6.14
Ma se non c’è la confessione sono solo indizi
di Carlo Federico Grosso


Nel suo interrogatorio davanti al Gip dell’altro ieri, Massimo Bossetti ha negato disperatamente di essere l’omicida di Yara Gambirasio. «Non so spiegare perché il mio Dna sia finito sui leggings e sulle mutandine di quella bambina», ha dichiarato, «ma Yara non la conoscevo e non l’avevo mai vista ». Eppure, quantomeno sul terreno della gravità degli indizi a carico, la prova scientifica sembra inchiodarlo.
Se nell’accertamento compiuto sulla sostanza organica trovata sugli indumenti della ragazzina non sono stati commessi errori, ed il Dna che è stato rilevato corrisponde (come pare certo) a quello dell’indagato, il passo compiuto dall’inchiesta è stato decisivo: agli atti del processo è stata acquisita la prova di una vicinanza fisica fra l’indagato e la vittima che difficilmente consentirà al primo di svincolarsi dalla stretta degli accusatori.
La coincidenza cromosomica costituisce elemento dotato di un coefficiente altissimo di attendibilità, e ad indebolire la sua efficacia probatoria non appaiono sufficienti, da soli, la testarda negazione di responsabilità da parte dell’indiziato (una sorta di assurdo «muro contro muro» con la Procura della Repubblica che lo accusa) o il disperato tentativo di sua madre di negare, in un’intervista, l’evidenza «scientifica» della paternità dell’indagato. Ben altro sarebbe necessario dimostrare per consentire a Massimo Bossetti di ribaltare il corso, prevedibile, della vicenda giudiziaria che l’ha coinvolto.
Cionondimeno, neppure si può affermare che il caso sia, ormai, definitivamente «risolto». Tutt’altro. Rimangono rilevanti vuoti di conoscenza che sarà indispensabile colmare per potere arrivare, alla fine del processo, ad una sentenza accettabile.
Come bene ha spiegato ieri il Procuratore di Bergamo, con l’utilizzazione di una sofisticata ed innovativa tecnica scientifica il suo ufficio è stato in grado di superare un quadro iniziale di totale buio investigativo, riuscendo pian piano a risalire alla persona del Bossetti quale soggetto fortissimamente indiziato. In questo momento una sola circostanza è stata, tuttavia, sicuramente accertata a suo carico: che egli è stato, fisicamente, vicino alla vittima. Ciò consente di affermare che contro di lui pende un indizio gravissimo, quasi insuperabile, di colpevolezza.
Manca tuttavia, a quel che consta, tutto il resto: la ricostruzione del contesto in cui il delitto è maturato, l’individuazione delle modalità dell’approccio dell’assassino alla persona offesa, l’accertamento di come la vittima è stata attirata nel luogo dove è stata aggredita, la ricostruzione della dinamica del fatto criminale, la ricostruzione dell’effettiva intenzione dell’assassino (chi ha ucciso la ragazzina voleva ucciderla fin dall’inizio, ha premeditato l’omicidio o aveva invece, originariamente, un’intenzione orientata in tutt’altra direzione? Quando ha cominciato a colpire, voleva uccidere o soltanto ferire? Quando ha abbandonato la vittima ferita, si è reso conto che essa sarebbe inevitabilmente morta di freddo o d’inedia ed ha accettato consapevolmente il rischio di tale decesso?).
Si tratta, si badi, di profili di grandissimo rilievo in un processo penale d’omicidio, che possono modificare profondamente la tipologia del delitto (omicidio premeditato, omicidio volontario in senso stretto, omicidio volontario caratterizzato dal solo dolo eventuale, omicidio preterintenzionale) e cambiare significativamente la dimensione della pena inflitta. Ma non solo. Sul terreno probatorio complessivo, la sola prova scientifica costituita dal riscontro del Dna del Bossetti sugli indumenti della vittima sarà davvero in grado di tenere fino in fondo davanti ad una Corte di Assise, formata in maggioranza da giudici popolari, o sarà necessario, per la procura della Repubblica, disporre di un più articolato compendio di riscontri oggettivi dell’impostazione accusatoria?
Nel caso di specie alcuni labili riscontri all’impostazione accusatoria sono, in realtà, emersi: la moglie del Bossetti non si è detta certa che il marito fosse a casa la sera della scomparsa di Yara, e non ha confermato pertanto il suo alibi; il fratello di Yara ha testimoniato che la sorella prima di scomparire gli aveva confidato di avere, da qualche tempo, paura di andare in palestra, in quanto aveva notato un individuo, con la barbetta, che la osservava con uno sguardo strano da una macchina di colore grigio chiaro; il cellulare dell’indagato, la sera della scomparsa della ragazza, era stato spento circa mezz’ora prima che essa uscisse dalla palestra (ma poteva essere scarico, come ha sostenuto l’indagato); la cella del cellulare aveva agganciato il luogo in cui si trovavano la palestra, e quindi Yara (ma la cella agganciava anche l’abitazione dell’indagato).
Ancora troppo poco, dunque, per essere assolutamente certi del risultato processuale. Nonostante la fortissima valenza indiziante del riscontro del Dna, se nel corso delle indagini, o nel processo, non dovessero emergere ulteriori apporti probatori, il processo che si profila avrà tutte le caratteristiche, e tutte le incertezze, del processo indiziario. A meno che dovesse sopravvenire - ma di ciò, fino a questo momento, non vi è la minima avvisaglia - una salvifica confessione liberatoria da parte dell’indagato.

Corriere 21.6.14
il Dna non è la «Pistola Fumante» ecco Perché da solo non Basta
Prova solo che c’è stato contatto con la vittima. Gallo: la genetica non è infallibile
di Giusi Fasano


Il Dna, questo sconosciuto. Servito in tavola con i servizi del tiggì o affrontato a colazione con i titoli dei giornali. Non c’è famiglia italiana che in quest’ultima settimana non l’abbia ospitato almeno una volta fra gli argomenti di casa: sarà un esame infallibile oppure no? Ma era sangue oppure sudore? E quel tipo arrestato è davvero l’assassino di Yara o gli scienziati possono sbagliare?
Ignazio Marcello Gallo ha novant’anni e, come dice lui, «mi occupo di diritto penale da quando ne avevo 22». Ex professore alla Sapienza, autore di moltissimi testi giuridici (sul dolo, l’imputabilità, la colpa...), è considerato uno dei più grandi giuristi italiani e di tutto questo discutere sul test del Dna ne fa quasi una questione filosofica: «Non credo nell’infallibilità degli approdi scientifici che per principio non considero definitivi ma provvisori. Fortunatamente al mondo è tutto in divenire: una scalinata che dobbiamo percorrere gradino per gradino e ognuno ci rimanda a uno successivo». Se insegnasse ancora, ai suoi studenti direbbe di «non accontentarsi mai della sola risultanza scientifica in un dato momento» perché «io ho un certo disagio a considerare il Dna una prova unica» e perché «per quanto la scienza possa considerare altissima una certa probabilità, per accertare la responsabilità c’è bisogno lo stesso di elementi ulteriori, esterni al dato scientifico».
Lo scenario al processo
Se è vero che nel caso di Yara la procura non ha soltanto l’esito del test per costruire il processo, è anche vero che però quello è fondamentale e che tutto gli ruoterà attorno. Dal punto di vista scientifico nemmeno un timore. «Il Dna funziona bene, non esiste nessuna probabilità di errore» giura Emiliano Giardina, il genetista dell’Università Tor Vergata che ha lavorato su «Ignoto 1». Che sospira e aggiunge: «A questo punto mi assumo la responsabilità di dire che dobbiamo superare il termine “compatibile” perché serve soltanto a confondere le idee. Compatibile vuol dire identico. È lui. Punto. Sennò la gente non capisce. E mi spiego meglio: la possibilità che due persone possano condividere lo stesso profilo genetico è di 1 seguito da 24 zeri. Per essere ancora più chiari: ci sono le stesse probabilità di vincere tre volte consecutivamente la lotteria degli Stati Uniti». E che non si parli di materiale degradato: «Se si degrada non dà segnale. Non è possibile che una traccia degradata porti in galera qualcuno».
Ma posto che il dato scientifico sia certo, il passaggio successivo, e cioè che Bossetti sia l’assassino, è tutt’altro che automatico. Per dirla con Marzio Capra, genetista milanese con un passato nei carabinieri del Ris, «il riscontro del Dna è un elemento certo che sta dentro un caso. Non mi dice che il soggetto è un assassino. Mi dice soltanto che c’è stato un contatto sicuro fra lui e la vittima. Faccio un esempio: se lui fosse l’uomo che ha spostato il corpo? Lo puoi condannare per omicidio? So che i colleghi hanno lavorato molto e approfonditamente, e so che dal punto di vista del risultato non ci sono dubbi. Io avrei preferito mantenere un frammento della traccia trovata per un eventuale dibattimento, ma questo non ha nulla a che vedere con l’esito del test».
L’esame irripetibile
Eccolo, un altro problema: pare non ci sia più materiale a sufficienza per ripetere l’esame del dna nel processo. Man mano che lo screening è andato avanti la materia biologica su cui lavorare è finita. E la difesa dell’imputato potrebbe farne un punto a suo favore. Perché se non si può ripetere il test significa che i consulenti delle difesa non possono partecipare all’esecuzione di un nuovo esame per verificare che tutte le fasi siano svolte correttamente.
«Sarà un caso interessante dal punto di vista della costruzione della responsabilità» prevede il professor Franco Coppi, avvocato di Raniero Busco, l’uomo accusato del delitto di via Poma. «In quel caso il Dna era stato il punto di svolta per riaprire il caso — ricorda — ma alla fine non è valso niente perché il povero Busco aveva avuto un rapporto con Simonetta Cesaroni prima dell’omicidio e quindi non era impossibile trovare le tracce di lui sul corpetto della ragazza. Questo dimostra che servono sempre tanti tasselli per il puzzle di un processo e di una condanna. Che la prova regina da sola non esiste».
Nuova luce sugli indizi
Anche l’avvocato Giuseppe Marazzita è incappato in un processo Dna-dipendente. Parliamo del caso dell’Olgiata, la contessa Alberica Filo Della Torre uccisa il 10 luglio del 1991. «Per noi è stato risolutivo. L’abbiamo invocato chiedendo la riapertura delle indagini e sapevamo che i progressi della scienza ci avrebbero aiutato anche dopo vent’anni». Così è stato: le tracce del Dna di Manuel Winston, il domestico, sul lenzuolo con il quale la contesa fu strangolata lo hanno incastrato. Lui ha confessato, tutti i vecchi indizi sono stati riletti alla luce del risultato del test e la verità è venuta a galla. «Se mi trovassi a difendere il presunto assassino di Yara — ipotizza Marazzita — direi che per adesso potrei parlare di indizi, prove che lui l’abbia uccisa non ne vedo».
La perizia e i falsi positivi
La faccenda del Dna che risolve tutto se la ricordano bene anche gli avvocati di Danilo Restivo, Alfredo Bargi e Marza Scarpelli. Restivo è stato incastrato per una perizia genetica che l’avvocato Scarpelli definisce «passata impropriamente come prova regina». È stato condannato a 30 anni per aver ucciso Elisa Claps, scomparsa misteriosamente a Potenza e ritrovata 17 anni dopo. «Secondo noi — dice l’avvocato — il risultato è molto incerto e potrebbe aver dato dei falsi positivi. Valuteremo tutto in Cassazione».
Per dirla con Ignazio Marcello Gallo: «Da che mondo è mondo gli scienziati affermano che i loro risultati sono certezze. Ma poi l’abbiamo visto: la terra non è piatta. Lo sviluppo ha dimostrato che così è per ogni cosa su questa terra: per l’uomo ogni passo avanti è da considerarsi un arricchimento prezioso. Ma poi ci vuole quello che noi chiamiamo un bagaglio probatorio sufficiente per affermare o negare le responsabilità di ciascuno». Viene in mente la prova regina per antonomasia: la confessione. «Per anni il feticismo del procedimento inquisitorio ha fatto credere al mondo che quella fosse una signora prova, unica addirittura. E poi abbiamo imparato che magari un uomo può anche confessare per risparmiarsi una tortura».

Corriere 21.6.14
La fedeltà al giuramento d’Ippocrate, il medico difende la sua indipendenza
di Adriana Bazzi


La rivolta parte dall’Ordine dei medici e degli odontoiatri di Milano: noi continueremo a mantenere il vecchio giuramento d’Ippocrate. Quello nuovo, che è stato discusso a Bari nei giorni scorsi e costituisce una sorta di prefazione al Codice deontologico dei medici (appena approvato a Torino), è dannoso e pericoloso.
Dannoso, secondo il presidente dell’Ordine milanese Roberto Carlo Rossi, perché elimina il concetto di «alleanza terapeutica» e la sostituisce con una più generica «relazione di cura» che non sottolinea abbastanza il valore di uno stretto rapporto medico- paziente. Pericoloso, perché minaccia l’indipendenza della categoria e rischia di aprire la porta a derive come il caso Stamina o la richiesta per i medici di pronto soccorso di denunciare gli immigrati clandestini (è stata, infatti, cancellata la frase che recitava: «Osserverò le norme giuridiche che non sono in contrasto con la mia professione»).
Così i nuovi medici che si laureeranno nei prossimi mesi e si iscriveranno all’Ordine di Milano (ma probabilmente anche a quello di Bologna e di Ferrara, che si sono posti sulla scia di Milano) continueranno a giurare sul vecchio testo che, rispetto alla versione originale del medico di Kos, è stato via via aggiornato fino all’ultima versione del 2006-2007.
Il rifiuto da parte dell’Ordine milanese del nuovo giuramento è il primo segnale concreto di una protesta che riguarda il nuovo Codice di deontologia medica, vissuto come non necessario, dal momento che in otto anni la professione medica non è cambiata radicalmente e, in alcuni punti, inaccettabile (per esempio, l’obbligo di assicurazione per il medico).
Ma se respingere il nuovo giuramento di Ippocrate è semplice perché su questo tema gli ordini possono deliberare autonomamente, ricorrere contro un codice con tanto di articoli è molto più complicato. Rifiutare il nuovo e confermare il vecchio creerebbe non pochi problemi agli ordini in caso di provvedimenti disciplinari e ai tribunali in caso di contenziosi giudiziari .

Repubblica 21.6.14
Siena, indagata la multinazionale svizzera “Con l’allarme suina aumentò i prezzi dei farmaci”
La truffa del supervirus a Novartis 16 milioni per i vaccini inutili
di Michele Bocci



FIRENZE. Venne prospettata come un’epidemia devastante, una pandemia. Un ceppo di influenza partito dai maiali e pronto a diffondersi tra gli uomini. L’Oms dette l’allarme e i governi mondiali contattarono i produttori di vaccini, per affrontare il virus A (H1N1). Sono passati cinque anni da quegli appelli e la suina non si è mai vista. In compenso sono stati venduti tantissimi vaccini che, ritengono i Nas e la procura di Siena, sono stati pagati più del dovuto. L’Italia avrebbe sprecato 16 milioni a causa del prezzo delle dosi di Focetria gonfiato dalla casa farmaceutica di vertice nel settore, la Novartis vaccines and diagnostics, attraverso un sistema di sovrafatturazioni tra società del gruppo. E il sospetto è che lo stesso meccanismo sia stato utilizzato anche con il Fluad, venduto per prevenire le “normali” influenze stagionali. Ieri i carabinieri hanno perquisito la sede di Origgio (Varese) e lo stabilimento di Siena della multinazionale svizzera, che di recente ha ceduto il settore a Glaxo. È stato indagato per truffa aggravata l’ad della sezione vaccini, Francesco Gulli. La Novartis, sotto accusa per l’illecito amministrativo connesso al reato del suo dirigente, si difende: «Il nostro operato è, ed è sempre stato, improntato al pieno rispetto della legge e delle disposizioni vigenti».
È un periodo difficile per la multinazionale. A marzo l’Antitrust l’ha multata per 180 milioni di euro insieme a Roche per ilcartello volto a favorire il costosissimo Lucentis come rimedio contro la maculopatia a spese del più economico Avastin. Il ministero della Salute ha poi chiesto un danno da un miliardo e 200 milioni.
C’era molta fretta di intervenire nel 2009, e quando c’è fretta si rischia di sbagliare. Dopo l’allarme dell’Oms, il ministero istituì l’unità di crisi che paventò molti morti in Italia. Si decise di vaccinare 24 milioni di persone. Fu il sottosegretario alla protezione civile Bertolaso a dire a Novartis e a Sanofi che il governo voleva acquistare i vaccini. Il 31 luglio, il presidente del consiglio Berlusconi incaricò il ministero di comprarli con procedura di somma urgenza. In ragione proprio di quell’urgenza, il contratto fu vistato dalla Corte dei conti, anche se non venne attestata la congruità del prezzo. A prendere la decisione fu Vittorio Giuseppone, il giudice arrestato il 3 giugno scorso per corruzione nell’ambito dell’inchiesta sul Mose.
Per quei 24 milioni di dosi lo Stato aveva concordato un prezzo di 184 milioni 800 mila euro. Nel 2010 ci si rese conto che la pandemia non sarebbe arrivata, e il ministero chiese di bloccare la fornitura ai primi 12 milioni di vaccini. Novartis avviò un contenzioso al Tar. Nel 2012 si raggiunse un accordo transattivo per 20 milioni di euro. Due milioni 700 mila sarebbero stati di troppo, secondo i Nas e la procura senese. Per giustificare i costi, Novartis presentò fatture americane dell’Mf59, un “adiuvante”, il cui prezzo sarebbe stato gonfiato del 500%, cioè passato da 660 euro a 3.964 euro al litro. Quel componente viene prodotto in Germania, ma dalle fatture risultava acquistato negli Usa, una triangolazione usata per incrementare i prezzi. Ma anche il costo pattuito nel 2009 per le 12 milioni di dosi di Focetria risentirebbe del sovrapprezzo dell’Mf59. Così il danno potrebbe raggiungere i 16 milioni. Stesso discorso vale per i vaccini contro l’influenza stagionale, ma in questo caso non è stato ancora calcolato l’eventuale impatto economico.

La Stampa 21.6.14
51.200.000
Mai così tanti rifugiati dalla Seconda guerra mondiale
Rapporto Onu: nel 2013 sei milioni in più. Scappano da guerre e persecuzioni


Quasi l’intera popolazione italiana. Una nazione di disperati fatta di donne, uomini, bambini costretti a a mettersi in viaggio per sfuggire a guerre, persecuzioni e violazioni dei diritti umani. Secondo l’ultimo rapporto dell’Alto commissariato Onu (Unhcr), il numero di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale ha superato i 50 milioni: alla fine del 2013 erano 51,2 milioni (sei milioni in più rispetto al 2012). A spingere il numero verso l’alto è il conflitto in Siria, che ha trasformato il vicino Libano nel terzo Paese al mondo per numero di rifugiati (856 mila) - in cima alla lista restano Pakistan (1,6 milioni), dove in questi giorni 180 mila profughi sono fuggiti dai raid anti-taleban in Waziristan, e Iran (857 mila). Sempre più spesso, però, questa massa di disperati cerca la salvezza in Europa: a giugno, secondo i dati del Viminale, gli sbarchi sulle coste italiane erano già oltre 53 mila. Di 2 mila bambini arrivati, 1500 sono siriani. [E. Cap.]

Corriere 21.6.14
Hong Kong vota online per la democrazia
Pechino: «E’ illegale»
Alta la partecipazione al referendum
di Guido Santevecchi


Da quando nel 1997 Hong Kong è tornata sotto sovranità cinese con la formula «Un Paese, due sistemi», dopo 150 anni di amministrazione britannica, il capo dell’esecutivo viene votato da 1200 persone scelte da Pechino
Dal 2017, quando dovrebbe essere introdotto il suffragio universale, i 1.200 (lo 0,02% dei 7 milioni di abitanti) sceglieranno i candidati autorizzati, all’interno di una rosa di nomi ben visti da Pechino
Il movimento Occupy Central e l’Università di Hong Kong hanno lanciato un referendum simbolico per chiedere elezioni democratiche, subito bollato dal governo locale come privo di valore legale
Sono 400.000 (secondo gli organizzatori) le persone che hanno preso parte ieri al voto, che si tiene sia online sia in 15 seggi elettorali. Dopo pesanti attacchi cibernetici contro i server, è stato deciso di dare tempo fino al 29 giugno

PECHINO — La battaglia per il futuro di Hong Kong si combatte su Internet (per ora). Il movimento democratico dell’ex colonia britannica, tornata alla Cina nel 1997 ma sotto amministrazione speciale, ha lanciato un referendum online sul sistema elettorale. L’obiettivo è di ottenere che i cittadini possano scegliere liberamente i candidati alla carica di «chief executive», il capo del governo locale. E il risultato del primo giorno di votazione è stato imponente: già 400 mila dei sette milioni di hongkonghesi si sono espressi, secondo gli organizzatori.
Ma il sito web dei referendari ha anche subito un cyber-attacco tra i più massicci e sofisticati nella storia: con un bombardamento di «denial-of-service» gli hacker hanno tentato di far saltare il sistema. La consultazione durerà fino a domenica 29 e in città sono stati aperti anche una quindicina di seggi dove si può votare manualmente.
Nessuno dubita che dietro l’assalto degli hacker ci sia la mano di Pechino. Il referendum, che non ha valore legale, è infatti un tentativo politico per forzare la Cina a mantenere la situazione eccezionale di Hong Kong. L’ex colonia e piazza finanziaria globalizzata è governata sotto il principio «un Paese due sistemi», concordato nel 1984 da Deng Xiaoping e Margaret Thatcher prima della restituzione, avvenuta nel 1997. In base a quel negoziato, fino al 2047 la Repubblica popolare cinese decide direttamente solo sulla politica di difesa ed estera di Hong Kong; il resto, dal sistema giudiziario alla pubblica istruzione, alle scelte economiche, alla libertà di stampa, resta affidato al governo locale presieduto dal «chief executive».
Nel 2017 è in programma l’elezione dell’esecutivo hongkonghese: a suffragio universale, un uomo un voto, un sistema che nel resto della Cina è sconosciuto, un tabù. Ma per non correre il rischio di dover accettare un esperimento di vera democrazia, Pechino ha annunciato che la gente di Hong Kong non potrà scegliersi i candidati: questi saranno sempre selezionati da un comitato di maggiorenti e notabili controllato dalla madrepatria. La decisione finale sulla legge elettorale è prevista per la fine dell’estate o l’inizio dell’autunno.
E di fronte alla sfida rappresentata dal referendum e dal movimento Occupy Central che minaccia di paralizzare il distretto finanziario e commerciale di Hong Kong, la Cina ha appena pubblicato un Libro bianco che decreta la fine dell’illusione sui «due sistemi». Il documento ricorda che «l’alto grado di autonomia di Hong Kong non è un diritto ereditario, ma una pura concessione del governo centrale. I candidati alle elezioni debbono essere patriottici e amare la madrepatria». Lo stesso monito al patriottismo cinese è stato lanciato a giudici e avvocati dell’isola, che ora sono indipendenti. Il Libro bianco rivela che il presidente Xi Jinping ha evidentemente cambiato politica: non considera più Hong Kong la vetrina della promessa «un Paese due sistemi» che avrebbe dovuto convincere alla lunga anche Taiwan a rientrare nella madrepatria. La vetrina può essere presa a martellate perché la Cina ormai è così potente da poter forzare qualsiasi tipo di accordo.
Il professor Joseph Cheng che insegna scienze politiche alla City University spiega al Corriere : «A che serve accettare il principio “un uomo un voto” se poi alla gente viene proposta l’alternativa tra una mela bacata e un’arancia marcia?». Le dichiarazioni di Pechino però non lasciano spazio a queste ambizioni. «Se la Cina è disposta a pagare un prezzo, in termini di credibilità internazionale, può sicuramente avere tutto quello che vuole», ci dice il professore, ma conclude: «Alla fine dei conti, io mi batto per la mia dignità, se perderemo posso emigrare a Taiwan, o in Canada».

Corriere 21.6.14
Caccia ai rapiti, uccisi 2 giovani palestinesi


GERUSALEMME — A una settimana dal rapimento di tre ragazzi ebrei lo scorso 12 giugno in Cisgiordania, la loro sorte resta un mistero mentre sale la tensione nei Territori dove la caccia a tappeto delle forze israeliane, fra irruzioni e retate, è sfociata ieri notte nell’uccisione di due giovani palestinesi, fra cui un ragazzo di 13 anni. A pochi chilometri da Hebron, a Dura, la scorsa notte, un’unità israeliana incaricata di compiere perlustrazioni è stata accolta dalle pietre lanciate da ragazzi palestinesi, cui i soldati hanno risposto sparando. Un proiettile al petto ha ucciso il tredicenne Muhammad Jihad Dudein. Nelle stesse ore, in un raid a Qalandya, Ramallah, è stato colpito alla testa il 23enne Mostafa Hosni Aslan: subito ricoverato in ospedale, è deceduto per le ferite. Le Brigate dei Martiri di al-Aqsa (braccio armato di al-Fatah) hanno annunciato di voler vendicare la morte dei due.

Corriere 21.6.14
Barriere di cemento e odio settario
I muri ritornano a dividere Bagdad
Alti 4 metri, eretti tra sciiti e sunniti, intorno a caserme e checkpoint
di Lorenzo Cremonesi


BAGDAD — I muri sono tornati. Li vedi subito viaggiando dall’aeroporto internazionale sulla superstrada che conduce al centro. Guardi verso Abu Ghraib e le regione di Al Anbar, dove sono attestate le avanguardie della rivolta armata sunnita, e ringrazi per la presenza di queste lunghe barriere lungo il percorso. Si trovano sui perimetri delle caserme, ai nuovi posti di blocco militari. Sono tornati a tracciare la divisione tra i quartieri tradizionalmente più violenti, tra i luoghi di incontro nelle aree a popolazione mista. Li stanno ampliando presso la «zona verde», dove sono gli edifici governativi e le ambasciate straniere, attorno agli ospedali maggiori. Hanno alzato quelli che circondano i grandi alberghi a piazza Furdus. Così sono tornati i muri. Non solo quelli fisici, ma soprattutto quelli nella testa degli uomini, che dividono, separano, ingigantiscono le diversità, trasformano il vicino in nemico e stravolgono le città in labirinti di paure. Alti quasi quattro metri, brutti, sgraziati, intrusivi. Barriere in cemento grigio composte di pannelli pesanti sino a mille chili. Sono tornati i muri ed è curioso come all’improvviso gli abitanti di Bagdad si accorgano di loro.
Poiché, intendiamoci, questi muri hanno già quasi otto anni. Quando vennero eretti, nel pieno della guerra civile nel 2006-2007, la popolazione li accolse con sollievo. Ogni mese morivano mediamente 3.000 persone, in maggioranza civili, sorpresi nel mezzo di uno scambio a fuoco, vittime degli attentati suicidi, delle auto bomba, o semplicemente di un loro errore per avere infranto i confini non codificati delle nuove divisioni inter-etniche, dell’odio settario e religioso. Poi gli americani, grazie alla cooperazione dei grandi clan sunniti, riuscirono a isolare la guerriglia qaedista e pacificare la regione. Di conseguenza i muri diventarono superflui, persino provocatori. «Perché le barriere? Gli iracheni sono un popolo pacifico che ama l’unità», sostennero tanti già nel 2009 e poi al momento del ritiro militare americano due anni dopo. Fu così che tratti delle barriere più lunghe vennero rimossi, o semplicemente furono tolti alcuni pannelli, aprendo ampi varchi che nei fatti nullificavano l’opera intera. Per qualche tempo sembrò che Bagdad potesse tornare normale, aperta, accessibile.
Ma è proprio il riaffacciarsi della guerra settaria a riproporre i muri. In città i posti di blocco sono in media 500 metri l’uno dall’altro. Il premier sciita Nouri al Maliki li aveva voluti per garantire il successo delle elezioni parlamentari del 30 aprile scorso. Non sono stati più tolti. Ieri, in occasione della giornata di preghiere nelle moschee per il venerdì musulmano, i quartieri (oltre 400 nell’intero nucleo urbano che supera i 7 milioni di abitanti) parevano tanti microcosmi semi-autonomi. Traffico scarso sulle vie di collegamento, ma forti intasamenti presso le moschee locali. Bagdad è divisa in due parti dal Tigri. Dopo i trasferimenti etnici semi-forzati seguiti all’invasione anglo-americana del 2003, gli sciiti si sono concentrati sulla sponda orientale, i sunniti in quella occidentale. Fanno eccezione i due quartieri tra i più importanti del centro, Adhamiya, sunnita, e Kadhimiya, sciita. E’ qui che avvengono in genere le stragi più gravi. Ad Adhamiya abbiamo visto numerose milizie armate non governative fare la guardia a negozi, centri commerciali e piazze. «Non è vero che la rivolta sunnita è fatta di terroristi. Chi lo afferma dimentica che sette anni fa i nostri leader politici e i capi tribali furono pronti a collaborare con gli americani per battere al Qaeda. Ma poi Maliki ci ha ignorato e perciò ora i sunniti si ribellano. Noi difendiamo la nostra rivoluzione, che combatte contro i nemici settari”, sostiene Abu Mohammad, un tecnico petrolifero 42enne. Il quartiere è povero, molto meno sviluppato di Khadimiya. Quest’ultimo si raggiunge attraverso il ponte di Al-Aaimmah, dove il 31 agosto 2005 quasi mille sciiti persero la vita in seguito agli scontri con i sunniti e l’intervento della polizia. Molti saltarono nel fiume per non essere schiacciati dalla folla. E alcuni vennero salvati in acqua dai sunniti. Un fatto che allora fece sperare nella cooperazione per porre fine al conflitto. Ma così non è stato. Ieri gli sciiti promettevano di «combattere sino alla morte» per fare fronte all’offensiva nemica. «Gli oltranzisti sunniti vanno battuti, a tutti i costi. In ogni casa sciita ci si sta preparando alla battaglia finale. Però Maliki ha sbagliato politica. Non è riuscito a inglobare sunniti e curdi nel suo governo. E’ ora che lasci per facilitare la nascita di una coalizione di unità nazionale. Sarebbe gravissimo dovesse tornare premier per il terzo mandato di fila», dice Jabbar, 42enne impiegato.
A lui fanno eco, però, più militanti che mai, le frotte di giovani che stanno rispondendo agli appelli del Grande Ayatollah Alì al Sistani per la difesa dei luoghi santi dello sciismo. A Sadr City, il gigantesco quartiere sciita (oltre 2 milioni di abitanti) posto alla periferia orientale, oggi si terrà una grande manifestazione destinata a raggiungere il cuore di Bagdad. «Ci stiamo mobilitando in massa. Qui a Sadr City ci sono quasi 5.000 volontari divisi in tre milizie principali. Abbiamo armi e preparazione», promettono due trentenni, che però confessano di non essere riusciti ad ottenere un fucile. Poco lontano, nel quartiere misto di Karada, la zona commerciale, le teste di cuoio dei commando presidenziali sembrano molto più pessimiste: «Siamo stati traditi. I nostri comandanti sono scappati di fronte alla guerriglia sunnita nel nord. E i curdi ci sparano contro. In queste condizioni la sorte di Bagdad è più caduca che mai».

Corriere 21.6.14
Meriam, incostituzionale la condanna a morte


KHARTOUM — La condanna a morte per Meriam (nella foto), la donna sudanese accusata di apostasia, è incostituzionale. Questo il parere della Commissione nazionale per i diritti umani del Sudan. I giudici, infatti, nel processo hanno applicato la sharia, la legge coranica in vigore in Sudan dal 1983, ma in contrasto con l’articolo 38 della Costituzione di Khartoum, emanata nel 2005, che garantisce la libertà di culto a tutti i cittadini. In base a questa interpretazione, nel processo d’appello a Meriam il giudice non dovrà tener conto delle motivazioni che lo scorso 15 maggio hanno portato alla condanna a morte, ma basarsi solo sulla Costituzione. Quello della commissione è un parere consultivo ma che non potrà non avere un peso giuridico-politico nella vicenda. Il testo della commissione è stato consegnato dall’ambasciatore sudanese in Italia, Amira Daoud Gornass, all’associazione Italians for Darfur. La nostra ong ha inviato al presidente sudanese Omar Hassam el Bashir un documento nel quale si suggerisce al governo di Khartoum di adempiere ai testi dei trattati dei quali è firmatario per garantire l’applicazione dei diritti umani.

Repubblica 21.6.14
Islanda, niente ruspe nei luoghi del mito così gli Elfi fermano la nuova autostrada
I lavori si bloccano davanti alle rocce “Lì da millenni vivono gli uomini invisibili”
Il governo cede, esultano gli ambientalisti
di Paolo G. Brera



HANNO vinto gli elfi. Giù le mani dalle nostre case di lava, dai silenzi della verde brughiera. Ferme le ruspe, spenti i caterpillar: la nuova superstrada che doveva collegare la periferia della capitale Reikjavik con la meravigliosa penisola di Alftanes, dove si trova la Casa Bianca del presidente Olafur Grimsson, si è improvvisamente arrestata davanti al “popolo invisibile”: «Dicono che gli elfi vivano in un gruppo di rocce lungo il percorso: dobbiamo rispettare questa credenza », ha spiegato il portavoce del Dipartimento stradale islandese Petur Matthiasson all’incredula inviata della Bbc , mostrando i puntini rossi della “Cappella degli elfi” e della “Chiesa degli elfi” sulla cartografia ufficiale del progetto.
Il braccio di ferro tra economia e fiaba andava avanti da mesi, e si è risolto a vantaggio dei miti del Grande Nord agitati come un vessillo dagli ambientalisti: un simbolo contro cui la ragion di stato ha abbassato la guardia e stralciato il progetto. Alla fine si è trovata una mediazione: la casa degli elfi è salva, le immense rocce della “Chiesa” e della “Cappella” di roccia lavica in cui la veggente Ragnhildur Jonsdottir assicura che gli “uomini invisibili” vivano indisturbati da millenni non saranno demolite per distendere l’asfalto della superstrada ma verranno accuratamente sollevate e spostate un po’ più in là, lasciando il tempo agli elfi di trasferirsi temporaneamente al sicuro per sopportare il trasloco. Un’operazione che costerà una fortuna, ma che rispetterà i gioielli disegnati dalla natura nei campi di lava di Galgahraun, la terra selvaggia abitata dagli elfi che la superstrada attraverserà.
Dicono gli studi (Università d’Islanda, 2007) che sei islandesi su dieci credano agli elfi, ma non è esattamente come credere a Babbo Natale: identificano negli elfi la personificazione della natura incredibile che in Islanda è intensa come uno schiaffo. Il canto dei ghiacciai in movimento, il tremito della terra schiantata dai vulcani, la magia delle aurore boreali... «Qui la tua casa può essere distrutta da qualcosa che non vedi, i terremoti; il vento può sollevarti da terra, l’odore di zolfo ti avverte che il fuoco brucia non troppo lontano dalle tue suole», dice Terry Gunnell, docente di cultura popolare all’Università d’Islanda.
Dopotutto, «mi sono sposato in una chiesa con un Dio invisibile esattamente quanto gli elfi, quello che può sembrare assurdo in realtà è piuttosto comune in Islanda», spiegò l’ambientalista Andri Snaer Magnason a dicembre quando scoppio la protesta contro la superstrada e iniziò la sua battaglia combattuta fianco a fianco con la veggente amica degli elfi. Per mesi, giorno dopo giorno una piccola folla di islandesi inferociti per una strada «inutile» che avrebbe «tagliato in due i campi di lava » creando «un danno ambientale immenso» ha assediato il cantiere tentando di fermare i lavori. Alla fine, gli elfi hanno convinto il governo. Se c’è una cosa che non piace agli islandesi è sentirsi apostrofare come paesani creduloni. Ma gli elfi, quelli non si toccano: il mondo misterioso della natura non si offende, si rispetta.

Corriere 21.6.14
Cervello superstar
Il nuovo dominio delle neuroscienze
Perché prima di agire è sempre meglio capire
di Matteo Persivale


Quando Bill Gates e sua moglie Melinda sono saliti sul podio dell’università di Stanford per pronunciare il tradizionale discorso ai neolaureati, qualche giorno fa, indossavano occhialoni da vista tenuti insieme con il nastro isolante come gli indimenticati protagonisti del film degli anni 80 La rivincita dei nerd s . E, giocando con l’imperitura reputazione da imbranato di Bill, i due si sono dichiarati con orgoglio membri della «Nerd Nation», la comunità stanfordiana degli studenti secchioni. Foto immediatamente virale condivisa sui social network (hashtag: #nerdnation ) come di solito capita a quelle delle celebrities della tv-verità più che a quelle di un gigante della tecnologia ora diventato filantropo a tempo pieno, ultimo e più recente esempio della prevalenza dell’uomo di pensiero e del fascino che il cervello esercita in modo sempre più pressante.
Il fascino del cervello si traduce nel trionfo delle neuroscienze, che sembrano essere diventate la chiave di una serie sempre più nutrita di discipline. Gli esempi più recenti vanno dal marketing (le confezioni dei prodotti, specialmente quelli alimentari, sono disegnate in base ai dettami delle neuroscienze per renderle più appetibili, scrive Adweek ) alla filosofia (il Mit sta cercando il neurone del libero arbitrio; e anche i topi, non solo gli umani, provano rimpianti, racconta Nature ). Gabriel Kreiman, il professore del Mit che lavora sul libero arbitrio, ha raccontato con serenità alla rivista dell’università che «ho una teoria in qualche modo estrema: che non c’è nulla di realmente libero nel libero arbitrio».
Dall’indagine del professor Kreiman (una volta era tema filosofico, vedi Cartesio) si arriva fino alla cultura pop: con lunghe analisi nelle sezioni di spettacoli di riviste e siti dedicate a come le neuroscienze riescano a spiegare il comportamento dei personaggi dei libri e del telefilm della serie «Il trono di spade», o dei film di Stanley Kubrick.
Utilizzano le neuroscienze gli uffici del personale delle aziende americane che hanno appreso come il cervello umano funzioni al massimo in brevi periodi di attività intensa che vanno interrotti da pause regolari secondo una particolare scansione (è interessante notare che la giornata lavorativa di otto ore venne resa canonica da Henry Ford: non aveva ancora le neuroscienze a disposizione, ma commissionò studi che mostravano come dopo otto ore i lavoratori cominciassero a commettere molti più errori, per stanchezza, facendo più danni che altro).
Usa le neuroscienze ( probabilmente è stato il primo, i progetti erano top secret in passato) il Pentagono che investe decine di milioni di dollari sui futuribili «brain implants» che potranno controllare il funzionamento del cervello con l’obiettivo dichiarato di aiutare i veterani con problemi di salute mentale (chi ha letto le recenti rivelazioni di Edward Snowden sul modus operandi delle agenzie di sicurezza americane è autorizzato a accogliere questa notizia con una certa preoccupazione; chi ha visto il vecchio film Vai e uccidi con Frank Sinatra si preoccuperà ancor di più). D’altronde Francis Crick, uno degli scopritori della struttura del Dna con James Watson e Rosalind Franklin, suggerì già 40 anni fa che i neuroscienziati avrebbero fatto bene a indagare su come fare a prendere il controllo di specifiche cellule del cervello.
Futuri scenari bellici a parte, Roger Dooley, autore di «Brainfluence», ha articolato la sua visione «neuromarketing» e sottolinea che «il 95 per cento dei nostri pensieri, delle nostre emozioni e del nostro apprendimento succede quando non ce ne rendiamo conto». Questo trionfo dello studio del subconscio applicato alla vendita di alimentari fa sì che perfino Dooley, che vi ha costruito una carriera redditizia di autore conferenziere, ammetta che «i consumatori continuano a ritenere questo argomento piuttosto inquietante».
Il professor Leonard Mlodinow, l’unico fisico teoretico che da Berkeley e dalla Fondazione Max Planck ha nel curriculum sia escursioni da sceneggiatore hollywoodiano (i telefilm «Macgyver» e «Star Trek Next Generation») sia collaborazioni con Stephen Hawking, ha usato una citazione di Jung sulle «radici quasi invisibili dei nostri pensieri» per cominciare il suo best seller «Subliminal», che torna a occupare militarmente il campo dell’inconscio lasciato da quasi un secolo agli psicologi. Il motivo? La nostra reazione agli stimoli subliminali «è un dono dell’evoluzione. Di importanza cruciale per la nostra sopravvivenza come specie».

l’Unità 21.6.14
Scelto per voi
Il film di oggi
Una coppia che scoppia nel cuore (oppresso) dell’Iran


UNA SEPARAZIONE (2011) Siamo a Teheran dove una giovane coppia con figlia decide di espatriare e cambiare vita. L’indecisione del marito nel lasciare solo il padre manda in crisi il progetto al punto di arrivare alla «separazione» del titolo. Asghar Farhadi dopo «About Elly» si conferma un grande autore capace di indagare i rapporti umani con straordinaria sensibilità. Oscar al cinema iraniano.

Repubblica 21.6.14
Roma blindata per i Rolling Stones tra i resti della città antica
Domani al Circo Massimo il concerto evento strade chiuse e polemiche sull’uso dei monumenti
di Anna Rita Cillis



ROMA. È IL concerto dell’anno e non solo perché a suonare, domani sera a Roma, saranno i Rolling Stones. Ma anche perché questa volta la voce di Mick Jagger e i riff di Keith Richards riecheggeranno al Circo Massimo per gli oltre 65mila spettatori che si sono aggiudicati i biglietti dell’attesissimo show tra i resti della Roma antica. Una location che ha scatenato non poche polemiche nei mesi scorsi, e che si sono riaccese, in parte, a poche ore dal grande evento. Al punto che è stato deciso di mandare sul campo, per scongiurare possibili danni, anche venti addetti della Soprintendenza con il compito di sorvegliare l’area archeologica di Palatino e Circo Massimo. C’è poi la questione dei costi, altra polemica dell’ultima ora che il Campidoglio ha cercato di smontare rimarcando che gli «extra saranno a carico degli organizzatori».
Intanto l’attesa per l’unica tappa italiana del “14 On fire” dei Rolling Stones, che tornano a suonare nella Capitale dopo sette anni, si fa sempre più frenetica: il conto alla rovescia è iniziato, e ora dopo ora si aggiungono anche nuovi dettagli per quello che si preannuncia l’evento del 2014. Per esempio il possibile intervento sul palco di Bruce Springsteen che sarebbe in questi giorni in vacanza a Roma. Insomma si fa spazio la speranza che il Boss possa bissare il duetto con Mick Jagger a Lisbona il 29 maggio. Tanto che ieri sui social network è partito il tam tam sulla possibile ospitata di Springsteen alimentato da una foto postata venerdì sera sul profilo Facebook e Twitter del quartiere di Trastevere che ritrae il Boss mentre passeggia in una strada, presumibilmente di Roma, ma non si sa, però, scattata quando.
Una eventuale sorpresa che gli organizzatori del concerto romano degli Stones, negano categoricamente: l’unica guest- star prevista domani, dicono, è il cantautore americano John Mayer che aprirà la serata e che potrebbe poi unirsi per una performance a Jagger &Co.
Rumors e speranze a parte, intanto, la città ieri ha già subito il primo contraccolpo: una delle principali arterie che costeggia l’area, ovvero via dei Cerchi, è stata chiusa al traffico per permettere agli organizzatori di montare il mega-palco, mettendo però a dura prova, complice anche il corteo dei vigili urbani, parte della viabilità. E nelle prossime ore sarà off-limits, tranne a residenti e spettatori, la “zona rossa”: un’area importante del centro, compreso un tratto di Lungotevere, che abbraccia il Circo Massimo, con inevitabili ripercussioni sul traffico. Ma a vegliare sul tutto ci saranno oltre 400 agenti delle forze dell’ordine ai quali andranno ad aggiungersi i mille steward ingaggiati dai promoter, alcuni dotati di scanner anti ticket falsi. Il tutto mentre ieri pomeriggio i Rolling Stones sbarcavano a Roma. Il loro domicilio è un hotel extra lusso con suite da 14mila euro a notte, già assediato dai fan e dal quale Jagger e Richards si sono affacciati per salutare.

Questa sera alle 20.30 alla libreria Fahrenheit di Roma, Derive di Flore Murard-Yovanovitch sarà letto nel corso dell'evento "Letti di Notte"
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