sabato 15 marzo 2008

l’Unità 15.3.08
Il ritorno di Mussi: ci metto tutta l’anima
Bertinotti attacca il Pd: è una forza di centro vuole recuperare il ruolo che fu della Dc
di Marco Tedeschi


RITORNO Dopo giorni e giorni di campagna elettorale, la sinistra Arcobaleno apre ufficialmente a Milano la sua campagna elettorale. Giornata particolare per Fausto Bertinotti, che ha cominciato il suo percorso milanese partecipando alla commemorazione di Fausto Tinelli e Lorenzo Jannucci, Fausto e Iaio, i due giovani del centro sociale Leoncavallo uccisi il 18 marzo di trent’anni fa (senza che mai un colpevole sia stato condannato), e lo ha proseguito tra via Solferino (sede del Corriere), via Ollearo (sede di Radio Popolare), il Pio Albergo Trivulzio e, infine, il Teatro Smeraldo.
Giornata ancora più particolare anche per Fabio Mussi, che riprendeva la scena ancora in convalescenza a un mese da un doppio trapianto di reni. Tutto bene, ha rassicurato Mussi: «L'anima è pronta, il corpo con qualche prudenza, ma c'è tutta la voglia di darsi da fare perchè credo fortemente nel progetto della sinistra arcobaleno...». «Perchè - ha sottolineato Fabio Mussi - ritengo impensabile che in un grande paese europeo come l'Italia non possa esistere più una forza rilevante che si chiami orgogliosamente sinistra». «Non auspicavo 35-40 partiti, ma non auspico neppure il bipartitismo coatto di due grandi aggregati che la fanno da padrone», ha continuato Mussi. «Anche perché - ha concluso - rischiano di restare due forze tra le quali si determina una attrazione fatale».
Secondo il candidato premier per la Sinistra l'Arcobaleno, Fausto Bertinotti, c'è «nelle corde» di Walter Veltroni l'ipotesi di «un'alleanza con il centro, anche per la sua tendenza a configurare il Pd programmaticamente come formazione di centro». Il Pd, ha voluto argomentare Bertinotti, nel corso di una videochat sul sito del Corriere della Sera, «ha la vocazione a recuperare il ruolo che fu della Dc, formazione sostanzialmente a-classista, interclassista, in grado di avere all’interno la sinistra di Donat Cattin e la destra di Andreotti e anche oltre, l'idea di contenere laici e clericali».
Per il presidente della Camera non bisogna però cadere nell'errore «di identificazione con la Dc che è stata altra storia in altro tempo: basti pensare ad esempio alla forza e al peso dell'intervento pubblico nell'economia che ha caratterizzato l’amministrazione democristiana».
Dalla politica ai simboli,presenti e passati. «Teniamoci la falce e martello, come tutte le cose importanti, non si cancellano per un simbolo elettorale, ma portiamoli anche a costruire la storia» ha risposto Bertinotti, all'appello «ridateci la falce e martello, vi prego», rivoltogli durante il forum online organizzato dal Corriere. «Invitiamo chi ha la falce e martello nel cuore a considerare l'arcobaleno come la prefigurazione di un futuro, in cui questo rosso di molti di noi si mescola con gli altri colori - ha aggiunto - E che sia un futuro di allegria colorata, in modo da ricostruire una nuova prospettiva di sinistra».
Parlando poi al teatro Smeraldo, Bertinotti ha espresso solidarietà allo scrittore Roberto Saviano e alla cronista del Mattino di Napoliminacciati dai boss della camorra e ha poi affrontato le questioni di politica estera a partire dalle provocazioni dell’ex ministro Martino. «Le destre vorrebbero andarsene dal Libano, dove l'unica cosa che hanno in comune tutti è l'apprezzamento per la missione italiana, preferendo l'Iraq dove tutti ormai riconoscono il fallimento della politica americana» ha replicato all’ex ministro di Berlusconi.

Corriere della Sera 15.3.08
Candidato premier Il leader della Sinistra Arcobaleno: Pd come la Dc, ma non paga tenere insieme tutto
Bertinotti: con l'Inno di Mameli si suoni anche l'Internazionale


MILANO — Un'alleanza postelettorale tra Casini e Veltroni? «Tenderei ad escluderlo anche se è nelle corde di Walter il posizionamento al centro». L'eliminazione di quelle differenze tra centro e sinistra che hanno creato problemi di stabilità a Prodi? «Il Pd sta facendo proprio il contrario, candidando l'operaio che chiede più soldi in busta paga e il "falco" di Federmeccanica che non glieli voleva dare». Il superamento di simboli e ideologie? «E perché mai? Tra i giovani c'è una riscoperta della Resistenza. E la falce e il martello sono dentro di noi anche in una nuova prospettiva di sinistra».
Fausto Bertinotti guarda al futuro senza dimenticare il passato.
E nel botta e risposta con i lettori di Corriere.it, nella videochat moderata dal vicedirettore Pierluigi Battista, lo ribadisce in più occasioni: «Nel Paese c'è ancora bisogno di sinistra ». La «lotta di classe» non è tramontata e resta la necessità di un diverso modo di fare «l'opposizione alla destra». Perché è vero che Berlusconi non ha ancora vinto, ma la scelta di una corsa solitaria «potrebbe costare la vittoria al Pd». Bertinotti ne è convinto: candidare tutto e il contrario di tutto, come succedeva con la vecchia Dc che «metteva insieme la sinistra di Donat-Cattin e la destra di Andreotti», è una scelta che oggi non paga. Perché «se anche il Pd vincesse si ritroverebbe con le diversità interne che già si registravano nell'Unione, ma amplificate».
Il candidato della Sinistra Arcobaleno parla poi delle liste, «frutto di un faticosissimo compromesso», e mette le mani avanti ammettendo forse «non saranno così convincenti ». Le domande inviate dai lettori — quasi 1.300 — affrontano i programmi. Due le priorità: aumento dei salari, da realizzare con una forma di indicizzazione all'inflazione almeno una volta all'anno, e lotta al precariato, «malattia sociale del nostro tempo». La battuta di Berlusconi alla precaria? «La gravità non è nella battuta, ma nel messaggio: non c'è niente da fare per la tua condizione, tenta la strada della fortuna, la lotteria, fai la velina...». Il presidente della Camera rivaluta anche il concetto di patria («stravolto dal fascismo») e l'inno di Mameli, scelto da Veltroni per aprire le proprie convention: «Quell'inno è di tutti. Quello che non va bene è che sia utilizzato al posto dell'Internazionale. Andrebbero invece intonati entrambi».
Alessandro Sala

l’Unità 15.3.08
Comunicato del Cdr
Preoccupazione per le notizie di stampa su imminenti cambiamenti ai vertici della società editrice del quotidiano


È con grande preoccupazione che la redazione de l'Unità accoglie notizie di stampa su eventuali imminenti cambiamenti ai vertici della società editrice del quotidiano. Ipotesi che, a giudicare da quel che viene scritto, appaiono se non altro opache sotto il profilo sia delle motivazioni editoriali sia di quelle tecnicamente imprenditoriali. Ancora una volta chiediamo garanzie chiare circa un passaggio cruciale nella vita del giornale. L'esperienza dovrebbe insegnare a evitare metodi di trattativa sbrigativi e superficiali nella scelta degli interlocutori, a maggior ragione in considerazione della identità politica del giornale e del suo peculiare rapporto con i lettori. Come già negli ultimi travagliati mesi, il Cdr chiede che l'attuale compagine azionaria non segua strade che non diano sufficienti garanzie di solidità né certezze circa la capacità di investimento necessarie allo sviluppo del giornale. Ed è per questo, per avere chiarezza sul futuro e per ottenere tempestiva informazione sugli ulteriori sviluppi nelle trattative con eventuali acquirenti, che il Cdr chiede un incontro immediato con la presidente della società editrice, Marialina Marcucci, convocando, inoltre, l'assemblea dei redattori per lunedì 17 alle ore 15. Ancora una volta siamo a ribadire che per il bene del giornale si debba evitare di perseguire strade che alla fine possano rivelarsi senza sbocco, implicando peraltro - se le notizie di stampa venissero confermate - quella che si configurerebbe come una sorta di svendita. E, ancora una volta, chiediamo che vengano verificate fino in fondo tutte le disponibilità, chiare ed esplicite, che si sono manifestate a tutt'oggi, prima fra tutte quella dell'editore di Europa 7, Francesco Di Stefano. A lui chiediamo però di andare oltre le parole e di esprimere in tempi rapidi atti espliciti che dimostrino nei fatti la volontà di diventare editore del giornale fondato da Antonio Gramsci. L'Unità merita una soluzione che sia all'altezza della sua storia. Il cdr de l'Unità

l’Unità 15.3.08
Se il mondo va a sinistra
di Giuseppe Tamburrano


I socialisti hanno vinto in Spagna Francia e Germania. Le cause sono quelle classiche: impoverimento dei ceti più deboli, arricchimento assoluto dei più ricchi, difficoltà nel sistema capitalistico globalizzato

Una spinta a sinistra si avverte nel mondo occidentale. Le cause sono quelle classiche: impoverimento dei ceti più deboli, arricchimento assoluto dei più ricchi, difficoltà crescenti nel sistema capitalistico globalizzato. Ah! Immortale Carlo Marx!
In dettaglio. I socialisti hanno vinto in Spagna nonostante la situazione economica dia segni di crisi. I socialisti non hanno cambiato nè nome nè simbolo. E i giornali raccontano che la grande folla che ha accolto il vincitore Zapatero ha gridato: «Olè, a sinistra».
In Francia i socialisti che sembravano senza speranze, sono invece ancora sul terreno e con i loro colori risorgono e crescono nelle elezioni amministrative. Colui che sarà molto probabilmente il nuovo leader dopo le baruffe “chiozzotte” della famiglia Royal-Hollande, il sindaco di Parigi Delanoë, è favorevole ad una alleanza di tipo neomitterandiano con la sinistra (residua!)
In Germania la sinistra (Linke) cresce alle elezioni dei Länder, e mentre si indebolisce la Grande coalizione tra democristiani e socialisti, questi ultimi cominciano a prendere in considerazione la prospettiva di un dialogo con Lafontaine.
In Inghilterra il tramonto di Blair è anche crisi della sua linea liberista: non sappiamo cosa pensano i suoi guru, Giddens in testa. Non credo che ripristineranno la clausola IV dello Statuto che prevedeva la collettivizzazione dei beni di produzione e di scambio, ma sicuramente dirà “qualcosa di sinistra” questo Labour che è diventato new ma è rimasto Labour.
Un vento di sinistra spira anche oltreoceano dove i programmi sia di Hillary Clinton che di Barack Obama sono sempre più ispirati ad un “preoccupante populismo”, come lo definisce il campione del liberismo ortodosso, l’Economist, visibilmente contrariato dalla cosa (1 marzo 2008) e promettono riforme sociali, specie quella sanitaria, e interventi governativi. È in America che più forti si avvertono i segnali di crisi economica, che non è solo congiunturale (recessione), ma investe il dollaro, investe il capitalismo liberista e globalizzato le cui magnifiche sorti e progressive degli ultimi anni sono fortemente appannate.
E veniamo a casa nostra. L’Italia è sempre un caso a sè, un’anomalia. Qui da noi il cosiddetto “populismo” riemerge non a sinistra, ma a destra. Ha scritto Dario De Vico sul Corriere della Sera (11 marzo 2008): «Sembrava che le ricette dei due principali partiti avessero un po’ lo stesso spirito, che le tendenze centripete all’interno dei due schieramenti stavano finalmente prendendo il sopravvento ... poi è arrivato il pamphlet di Tremonti» e con esso si è rotta la pace centripeta e «mercatista» per usare una parola dell’autore di La paura e la speranza. Un libro “populista” che chiede dazi, controlli, interventi pubblici nei confronti di un liberismo “degenerato” e della globalizzazione. Avremo una politica economica interventista di destra e una liberista di sinistra?
Ovviamente non si può chiedere a Veltroni di accogliere nelle sue vele il vento che viene da Spagna, Francia, Germania e Stati Uniti e cambiare il programma nel corso della campagna elettorale. Ma il problema si porrà dopo le elezioni. Sia se vince, sia soprattutto se perde, il Pd non potrà isolarsi dal socialismo europeo in forte ripresa. Mi rendo conto che la tendenza “centripeta” impressa da Veltroni al Pd ha avuto forti ragioni: scrollarsi di dosso gli ultimi pezzi di intonaco del crollo del muro di Berlino e accreditarsi al centro verso il ceto medio che lavora e l’imprenditoria privata che produce. Ma lavorano, producono (e muoiono in fabbrica) anche gli operai: ci sono le famiglie a reddito basso e medio basso, i pensionati, i ceti più deboli: insomma il nostro mondo, il mondo della sinistra che si impoverisce, ed è vittima di grave disagio. E ci sono i nostri valori, il laicismo cavallo di battaglia vincente di Zapatero, in una Spagna più cattolica dell’Italia; c’è il nostro cuore antico. E se ci distraiamo ascoltando le sirene della concorrenza, l’Ocse ci ricorda che i salari italiani sono agli ultimi posti in Europa.
E in proposito mi ha fatto una forte impressione la posizione della Conferenza dei vescovi la quale ha invitato gli elettori a “discernere” con riferimento non solo ai valori cattolici della vita e della famiglia - e ciò era scontato - ma anche ai temi più scottanti (puntualmente elencati) della crisi sociale ed economica italiana allo scopo di migliorare le «condizioni di vita della parte più consistente della popolazione». La Cei chiede “larghe intese” su questi problemi di prezzi e salari: e ciò appartiene all’ecumenismo della Chiesa, ma ciò che colpisce è il contenuto, è il contributo fortemente sociale dell'intervento. Evviva per una volta ai preti? Finalmente si può votare secondo l’insegnamento della Chiesa cattolica che qualche volta si ricorda che Cristo fu il “primo socialista”. Anche se non lo si può mettere accanto al Cardinale Bagnasco, è sintomatico che Mario Monti sostenga che «la globalizzazione ... richiede di essere molto più governata dai pubblici poteri».
Nello scenario politico non vi può, non vi deve essere un populismo demagogico della destra al quale si contrappone un liberismo innaturale, duro e puro del Pd. Bisogna che la sinistra ritrovi le sue radici e i suoi legami con i partiti europei di ceppo comune.
Caro Walter, il socialismo non è morto. Rianimiamolo.

l’Unità Roma 15.3.08
Lazio in testa alle denunce per razzismo
Donne e immigrati dalla pelle scura insultati in strada o sui mezzi pubblici oppure
respinti da un luogo di lavoro per il colore della pelle. Su 11mila casi accolti il 27% a Roma
di Massimiliano Di Dio


Nella capitale c’è un maggior numero di presenze straniere e c’è l’associazionismo che aiuta a veicolare il messaggio», spiega l’esperto dell’Unar

C'è la ragazza etiope, addetta di un'impresa di pulizia, allontanata dal palazzo di un ente pubblico nel centro di Roma perché «lei è di colore, la gente non la vuole». E ancora la signora marocchina aggredita e insultata perché uscita dal lato sbagliato della metro o l'autista di un bus capitolino accusato anche da un testimone italiano di aver chiuso le porte alla vista di un senegalese. Il tutto accompagnato da insulti vari come i classici «Marocchino di m.. tornatene nel tuo paese. Qui comandiamo noi» o i nuovi «Non siamo razzisti, abbiamo dipendenti stranieri ma neri proprio no». È il piccolo catalogo delle denunce pervenute al contact center dell'Unar(ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) che a maggio presenterà il rapporto nazionale ma a L'Unità anticipa i dati relativi al Lazio e Roma. Su circa 300 casi attendibili di molestie o discriminazioni estrapolate dalle 11mila chiamate pervenute da tutta Italia, 76 hanno avuto luogo sul territorio laziale. Roma si colloca al primo posto e con il 27,3 per cento delle denunce valutate positivamente o oggetto di un ricorso giudiziario. A seguire Milano (11,2 per cento) e Torino (5 per cento). Ma il primato della capitale ha diverse ragioni, come spiega Pietro Vulpiani, esperto dell'Unar. «C'è una forte presenza di stranieri. E Roma si fanno grandi campagne informative e le associazioni territoriali aiutano».
Nel Lazio le principali vittime sono donne: 63,2 contro 36,8 per cento degli uomini. La maggior parte delle segnalazioni, il 22 per cento dei casi, ruota attorno al lavoro. «Il progetto lavorativo è al centro della vita migratoria - spiega Vulpiani - Quando viene messo in discussione è avvertito con maggior fastidio. Quel che non viene ancora denunciata è la disparità di retribuzione. «Il ricatto è ancora molto forte e poi molti credono che sia normale essere pagati la metà di un italiano». Tra gli ambiti della discriminazione subito c'è la casa (17,1 per cento). Qui prevale la rassegnazione su annunci che dicono "no affitto a stranieri e romeni" e turbano i conflitti condominiali. «Aumentano gli attriti tra italiani e stranieri per i problemi più vari, come odori, rumori o sovraffollamenti. Cerchiamo di intervenire subito di fronte a queste piccole situazioni di tensione che possono trasformarsi in violenza dettata da odio razziale». Insulti e molestie non mancano anche nel trasporto pubblico (14,5 per cento) o nelle strade (10,5). Mass media e forze dell'ordine si attestano intorno al 5 per cento. «Spesso si ha la sensazione di non potere far nulla - commenta sempre Vulpiani - Molti stranieri hanno paura e non denunciano. Si arriva quasi a una condivisione della discriminazione subita». Tra le nazionalità presenti nel Lazio che più si rivolgono al contact center dell'Unar c'è quella romena con il 15,5 per cento dei casi. «Hanno maggiore consapevolezza dei loro diritti» precisa l'esperto prima di affrontare il delicato momento dell'omicidio Reggiani. «È stato un periodo nefasto ma non abbiamo avuto picchi di denunce. Questo non vuol dire che non vi siano state maggiori discriminazioni. Probabilmente la comunità romena da quel momento ha cercato di evitare ogni visibilità, per il timore di risposte xenofobe».

Repubblica 15.3.08
Aborti nella clinica delle suore
di Giuseppe Filetto


GENOVA - Le suore di Villa Serena, la clinica gestita dalle religiose, dove il ginecologo Ermanno Rossi avrebbe praticato l´aborto clandestino, ripetono che "nella casa di cura si sono effettuati semplici raschiamenti". Ma a contraddirle sarebbe un´intercettazione telefonica: «Dottor Rossi, ho deciso di interrompere la gravidanza», dice la donna al telefono. «Va bene, ci vediamo al più presto - risponde il medico, indagato e suicida lunedì scorso - prendo l´agenda e le cerco un appuntamento».
La telefonata è di una delle due pazienti che si sono sottoposte all´aborto clandestino a "Villa Serena", clinica elegante nel quartiere residenziale di Albaro. A Genova, nella città del cardinale Angelo Bagnasco, il presidente della Cei, che guida anche l´ospedale Galliera, dove anche la procreazione assistita è un "imbarazzo".
Altre simili intercettazioni, raccolte dai Nas, sarebbero contestate alle 8 donne indagate, ieri interrogate dal pm Sabrina Monteverde. Gli atti dell´inchiesta sono secretati, ma da Palazzo di Giustizia trapela che potrebbero esserci nuovi avvisi di garanzia. Infatti, la donna sotto interrogatorio avrebbe ammesso al pm l´aborto e non il raschiamento. Giura, però, che era all´oscuro di violare la legge 194 ed avrebbe raccontato che in sala operatoria, oltre al ginecologo, erano presenti un anestesista e un´infermiera ferrista. E forse anche un altro ginecologo. Così nell´inchiesta oltre alle otto donne indagate potrebbero essere coinvolti anche anestesisti e ferristi che avrebbero aiutato il medico. Stando a quanto dicono i ginecologi, sarebbe impossibile che uno specialista possa praticare l´aborto senza il sostegno di altro personale qualificato. Non solo nella clinica Villa Serena, ma anche negli studi di Genova e di Rapallo.
Ieri, seconda giornata di interrogatori, è stata anche un´assistente del ginecologo, una quarantenne con due figli, che saputo di essere incinta per la terza volta, ha chiesto di abortire. Nello stesso studio medico in cui lavorava. Una funzionaria di 35 anni avrebbe interrotto la gravidanza a Villa Serena, con la prognosi ufficiale di "raschiamento". Le indagini avrebbero accertato che si trattava di un aborto. «Non ci risulta dalla documentazione clinica», ripete Pierpaolo Bottino, legale della casa di cura. Comunque, nei giorni scorsi i carabinieri hanno sequestrato alcune cartelle cliniche e ieri il consiglio di amministrazione di Villa Serena ha comunicato che "non sono mai state praticate interruzioni volontarie di gravidanza in quanto casa di cura retta, fin dalla sua fondazione, da personale religioso ovviamente contrario sia dal punto di vista del diritto naturale sia per morale cristiana all´aborto volontario".
In ogni modo, la scelta della clinica privata sarebbe stata motivata dalla riservatezza e dai tempi rapidi, cose che stando alle dichiarazioni delle donne indagate, "non sarebbero garantite dalle strutture pubbliche". In proposito l´assessore regionale alla Sanità, Claudio Montaldo, assicura che la Regione anticiperà le linee guida redatte dal ministro Livia Turco sull´applicazione della "194".

Repubblica 15.3.08
La telepolitica sotto il duopolio
di Giovanni Valentini


Con l´autorevole avallo del presidente della Repubblica e del presidente del Senato, le due più alte cariche dello Stato, l´applicazione della "par condicio" adottata dall´Autorità sulle comunicazioni in questa campagna elettorale che si svolge all´insegna del duopolio politico è stata definitivamente sancita e legittimata in funzione del duopolio televisivo. Bersagliata inopportunamente dalle critiche del senatore Di Pietro, in realtà l´Authority presieduta da Corrado Calabrò non ha fatto altro che convalidare l´impostazione della Commissione parlamentare di Vigilanza, estendendo la stessa disciplina dal servizio pubblico alla televisione privata. E non potendo evidentemente intervenire a priori, proprio per evitare qualsiasi forma di censura preventiva, s´è predisposta a monitorare la competizione televisiva in modo da garantire che sia il più equilibrata possibile con i poteri e gli strumenti che la legge le conferisce.
La verità è che le polemiche sulla "par condicio", giuste o sbagliate che siano, mettono a nudo l´incongruenza della legge elettorale in vigore e l´instabilità politica che ne deriva. Dal bipolarismo imperfetto siamo passati a un bipartitismo imperfetto o si potrebbe anche dire artificiale, coatto, imposto dalla logica verticistica dei due partiti maggiori che si confrontano in questa pantomima. È naturale, dunque, che oggi il regime della "par condicio" risulti ancora più controverso, in rapporto all´articolazione di uno schieramento politico simile a una costellazione stellare che invece di un sole, ne annovera due, con alcuni pianeti satelliti che ruotano intorno a essi.
A chi voglia chiarirsi le idee, si può consigliare il libro appena pubblicato da Anna Chimenti, docente di Diritto costituzionale e di Diritto pubblico dell´informazione, intitolato L´ordinamento televisivo italiano (Giappichelli editore, Torino): è un compendio molto puntuale e istruttivo sulle vicende della tv italiana, dall´epoca del monopolio fino al disegno di legge Gentiloni. E in particolare suggeriamo di leggere il capitolo che ricostruisce passo per passo la storia della "par condicio", avanzando anche un´ipotesi critica: «Se tutte le cose che la par condicio richiede non si possono fare nelle forme prescritte e ammesse dalla Costituzione, questo non significa forse che è proprio la par condicio che non si può fare?».
Risalendo al 1994, cioè alla fatidica discesa in campo di Berlusconi, a proposito del conflitto di interessi la stessa autrice scrive che «il problema era difficile da risolvere perché non esistevano disposizioni costituzionali in materia e (…) non vi era neppure una legislazione chiara». Ma è anche vero che vigeva e vige tuttora una legge del ´57 che stabilisce l´ineleggibilità del concessionario pubblico, già aggirata a suo tempo con un artificio burocratico, per cui il proprietario di Mediaset può essere eletto in Parlamento e invece colui che risulta formalmente titolare della concessione non può. Il solo fatto che ormai questo impedimento sia stato come rimosso nella memoria e nella coscienza collettiva, o per così dire cancellato dall´ordalia elettorale, dimostra qual è il livello di vigilanza della politica e dell´opinione pubblica su un´anomalia tanto macroscopica.
E non diciamo, per carità, che ormai il duopolio televisivo non esiste più perché in campo c´è anche Sky. Il settore della pay-tv differisce strutturalmente da quello della tv in chiaro, cosiddetta generalista: tant´è che a tutt´oggi La7 non è riuscita a conquistare una quota sufficiente di mercato ed Europa 7 non ha neppure ottenuto le frequenze per utilizzare la concessione nazionale che s´era aggiudicata nel ´99. I canali di Murdoch, inoltre, trasmettono prevalentemente film ed eventi sportivi e l´unico canale dedicato alle news non ha certamente il peso o l´influenza delle reti Rai e Mediaset: sarebbe il caso, piuttosto, di preoccuparsi che all´ombra delle parabole non si consolidi un nuovo monopolio satellitare. Non vorremmo che questo falso argomento del duopolio-che-non-c´è-più diventasse, magari in modo inconsapevole, un alibi per rallentare o rinviare la transizione al sistema digitale terrestre come inopinatamente ha fatto in extremis il governo uscente.
Il fatto è che anche in questo caso si rischia di confondere l´effetto con la causa: cioè la questione della "par condicio" con quella ben più grave di una legge elettorale immonda che, oltre a generare un bipartitismo imperfetto, attraverso il meccanismo delle liste bloccate consente ancora le candidature multiple e soprattutto l´investitura dei candidati dall´alto. Così i parlamentari vengono nominati dalle segreterie dei partiti, piuttosto che essere eletti dal popolo: e sono quindi da considerarsi alla stregua di funzionari di partito. Tanto da compromettere fin d´ora la rappresentatività del futuro Parlamento, com´era già accaduto del resto per quello appena sciolto.
Hanno ragione perciò Mario Segni e Giovanni Guzzetta quando rivendicano al referendum elettorale l´unica "chance" di restituire funzionalità e credibilità alla nostra democrazia. Senza una grande spinta popolare, come loro sostengono, è assai improbabile che il sistema riesca ad autoriformarsi. In mancanza dunque di una nuova legge elettorale, capace di riformare sostanzialmente quella in vigore, a giugno dell´anno prossimo i cittadini italiani saranno chiamati a pronunciarsi direttamente e allora sarà il responso delle urne a fare giustizia di tutti gli equivoci e di tutte le ambiguità a cui stiamo assistendo in questa incresciosa vigilia.
(sabatorepubblica.it)
La normativa sulla par condicio voluta dal centrosinistra e votata dal Parlamento non è una legge giusta in assoluto, nel senso di valida sotto qualsiasi latitudine. Più semplicemente è una legge necessaria per l´Italia di oggi.
(da Par condicio? di Gianni Cuperlo Donzelli, 2004 – pag. 135)

Repubblica 15.3.08
Mozart. Svelato il mistero lungo due secoli spunta in un dipinto il vero volto
L’immagine romantica mostra un ragazzo molto più bello
di Enrico Franceschini


Un gran nasone, labbra carnose, fronte spaziosa, accenno di doppio mento e una parrucca di capelli grigi: Wolfgang Amadeus Mozart era fatto così. Niente a che vedere con l´immagine che conosciamo tutti, riprodotta su piatti di porcellana, magliette, scatole di cioccolatini. Il vero volto del grande compositore austriaco viene alla luce soltanto ora, duecento e passa anni dopo la sua morte, grazie a due ritratti finora sconosciuti, per i quali Mozart posò durante diverse epoche della sua vita e che adesso un esperto ha autenticato per la prima volta. Il professor Cliff Elsen, docente di storia della musica al King´s College di Londra, ha trovato prove documentate, scritte personalmente dal musicista e da suo padre, che identificano i due quadri a olio.
Come per Shakespeare, di cui esistono mezza dozzina di ritratti considerati genuini ma fonte di infuocate discussioni, come per tanti altri personaggi della storia che non hanno lasciato un ritratto o una statua «ufficiali», da Cleopatra a Gesù all´imperatore Gin della Cina, anche sulle reali sembianze di Mozart imperversava il dibattito. L´eccitazione del mondo della musica per la scoperta dei quadri che lo ritraggono, preannunciata ieri dal Times, è perciò incontenibile. Le due tele saranno esibite questo fine settimana durante una conferenza a Londra.
Resta da vedere se seppelliranno l´immagine romanticizzata del «Mozart dei cioccolatini»: decisamente più bello, impossibile negarlo, di quello che si vede in questi ritratti.
Il primo fu dipinto nel 1783, durante gli anni che il compositore trascorse a Vienna, quando era di ottimo umore subito dopo il matrimonio con Costanza. Quando posò per Joseph Hickel, pittore alla corte dell´imperatore, Mozart aveva 27 anni: nel quadro, bisogna dire, ne dimostra parecchi di più, ma lo spirito dell´epoca era diverso dal nostro nel considerare, e disegnare, i giovani. Il secondo risale al 1764, quando Mozart, a 8 anni, dimostrava il suo talento di straordinario «ragazzo prodigio»: nel quadro appare con la sorella Nanneri. Il valore dei due dipinti, ora che il soggetto è stato identificato come Mozart, è salito alle stelle: il primo è stato assicurato per 3 milioni di euro.
Appartengono entrambi a un anonimo collezionista americano, che li ha acquistati da discendenti di Johann Lorenz Hagenauer, banchiere, proprietario della casa dei Mozart e amico di Leopold, il padre di Wolgang. «Considerati i loro rapporti personali, è naturale che oggetti in passato appartenuti ai Mozart siano finiti in mano ad Hagenauer», osserva il professor Eisen.
La certezza che l´uomo del quadro del 1783 è Mozart viene da una lettera autografa del compositore alla baronessa Martha Elisabeth von Waldstatten, in cui descrive minuziosamente la giacca rossa «coi bottoni di madreperla» che indossa. «Questo è probabilmente il più importante ritratto di Mozart tra i quattro che sono arrivati sino a noi», afferma l´autore dell´identificazione. Nell´altro ritratto, quello del compositore bambino, lui e la sorella indossano eleganti abiti di taglio inglese che il loro padre Leopold aveva comprato a Londra e che descrive in altre lettere. Sicché, grazie a due vestiti, possiamo finalmente dare un volto alla celestiale musica di Mozart.

Repubblica 15.3.08
Scriveva: "Tutto è freddo"
Quelle piroette per mascherare l'eterna ansia
Il volto segreto e l'anima di Mozart
di Pietro Citati


Non so dirvi se il ritratto, pubblicato su Times, sia il vero ritratto di Mozart. Posso dirvi soltanto come appariva alla moglie e agli amici nei suoi ultimi anni di vita.
I suoi slanci d´amore verso la moglie ci ricordano sovente le tenerezze di Papageno piuttosto che i sublimi ardori di Tamino: «Cara donnina del mio cuore», così chiamava la moglie, con le stesse parole usate dal suo uccellatore; «Acchiappa - acchiappa! bs-bs-bs-bs-bs - bacini volano nell´aria verso di te - bs - ecco ne trotterella ancora un altro». «O stru! stri! - ti bacio e ti stringo 1095060437082 volte (così potrai esercitarti nella pronuncia) e sono il tuo eternamente fedele marito ed amico...». Poi, con il suo gusto per i giochi di parole senza senso, aggiungeva: «Sii eternamente la mia stanzi Marini, come io sarò eternamente il tuo Stru! - Knaller - paller-schnip-schnap-schnur-Schnepeperl». Faceva l´Arlecchino, il Pulcinella, il buffone salisburghese.
Mescolava la volgarità, che aveva appreso mangiando per tanti anni tra valletti e cocchieri, con le capriole delle maschere veneziane, e i giochi immateriali dell´elfo romantico.
Queste piroette gioiose ed infantili non riescono ad illuderci. Dietro di esse, si agitava un´ansia nevrotica, un amore che consumava e si consumava, una tensione spirituale che poteva distruggerlo. Le lettere alla moglie sono scritte sempre più velocemente, come se volessero sopravanzare il battito dei minuti. I nervi guizzano di continuo sulla carta: i temi vengono mutati ad ogni rigo, l´umore si innalza e si abbassa, si rallegra e si incupisce.
Qualche volta si confessava alla moglie: «Se la gente potesse vedere nel mio cuore, dovrei quasi vergognarmi. Tutto è freddo per me - freddo come il ghiaccio». «Non ti posso dire quello che provo, è un certo vuoto - che mi fa male - una certa nostalgia, che non viene mai appagata, che non cessa mai - continua sempre, anzi cresce di giorno in giorno... Vado al piano e canto qualcosa delle mie opere, ma debbo smettere subito - fa troppo impressione. Basta!». Questo gelo, questo vuoto, questa nostalgia, questa angoscia, nessuna parola, mai, avrebbe potuto colmarla.
Spesso la mattina alle cinque, dopo aver dormito pochissimo, lasciava il numero 970 della Rauhensteingasse, come se qualche demone lo trascinasse fuori casa. Qualcuno lo prendeva per un garzone di sartoria che si avviava al lavoro. Passeggiava a lungo per le strade, dove il sole cominciava a dorare gli alberi e le case di Vienna. Durante il giorno, l´inquietudine lo faceva correre attraverso la città, inseguito da torture reali ed immaginarie. Faceva visite, dava lezioni, andava a trovare gli amici, cercando danaro in prestito, con cui avrebbe pagato debiti, che aveva contratto pagando altri debiti. Ora dormiva nella propria casa: ora in quella di Leitgeb o di Schikaneder.
Mangiava al ristorante, perché aveva paura di restare solo: o da qualche amico, che preparava in onor suo un piccolo banchetto, dove Mozart beveva champagne e dei grandi bicchieri di punch. La sera giocava a biliardo: talvolta a casa, da solo, «assieme al signor von Mozart collaboratore di Schikaneder», più spesso in un caffè presso casa, dove trovava quel calore umano di cui aveva così perdutamente bisogno.
Qualche volta, gli amici guardavano con ansia quell´uomo piccolo e magro, dal viso un po´ gonfio, dagli occhi azzurri sbiaditi, con i bei capelli biondi, fini e ondulati che gli scendevano sulle spalle. Era sempre di buon umore. Ma anche quando si abbandonava alla più estrema allegria, sembrava che pensasse a qualche altra cosa, che lo assorbiva del tutto. Quale essa fosse, nessuno poteva dire. Poi, all´improvviso, diventava molto sereno e grave.
Andava alla finestra, suonando con le dita sul davanzale, e dava risposte sempre più vaghe ed indifferenti, finché non udiva più nulla, quasi fosse senza coscienza. Non restava mai fermo. La mattina, mentre si lavava il viso, andava e veniva per la stanza, battendo un tallone contro l´altro. A tavola prendeva un angolo del tovagliolo, lo torceva e se lo passava e ripassava sotto il naso, e intanto faceva una strana smorfia con la bocca. Muoveva di continuo le piccole, mobilissime mani: le strisciava sopra i polsini, sopra una gamba o un braccio: giocava con il cappello, con la catena dell´orologio, con lo schienale di una seggiola, con la tastiera del piano; e infilava e sfilava le mani dalle tasche, come se soltanto così potesse mitigare la sua inquietudine.

Repubblica 15.3.08
Pavese. Quel segreto amore di gioventù
di Massimo Novelli


Anche lei era di Santo Stefano Belbo. Aveva nove anni più di lui
Rimangono tracce nelle lettere e in un appunto del "Mestiere di vivere"
Prima di incontrare la "donna con la voce rauca" lo scrittore ebbe una storia con una giovane insegnante, Elena Scagliola

Cesare Pavese ebbe grandi e tormentati amori, come rivelano la sua corrispondenza, il diario, le biografie a lui dedicate: da Tina Pizzardo a Fernanda Pivano, da Bianca Garufi a Costance Dowling. Ma nella sua vita ci fu un´altra donna, la cui identità è rimasta sconosciuta fino a oggi per varie ragioni: innanzitutto la precoce morte di lei, avvenuta appena tre anni dopo il suicidio dello scrittore, e quindi la decisione, da parte di una sorella, di bruciare le lettere inviatele da Pavese dagli inizi degli anni Trenta, probabilmente a partire dal 1932, al 1942. Il tempo cancella, tuttavia a volte restituisce qualche frammento, magari per una semplice casualità: un pronipote, Paolo Scagliola, ha scoperto in casa, ad Alba, le copie di alcune poesie che Pavese aveva dato a lei. Ne ha parlato con Ugo Roello, a lungo responsabile della Biblioteca «Luigi Einaudi» di Dogliani e appassionato cultore pavesiano. I due sono andati a trovare l´avvocato Igino Scagliola, l´anziano fratello della donna, nonché nonno di Paolo.
Così la figura di Elena Scagliola è riemersa dall´oblio. È la storia di una giovane donna (era nata nel 1899) bruna e minuta, libera (amava fumare il toscanello), vivace e piuttosto colta rispetto alla maggioranza delle coetanee dell´epoca, che non aveva esitato ad andare a vivere da sola per qualche mese in Francia per potere perfezionare il suo francese, che avrebbe insegnato. Era nata e cresciuta in una agiata famiglia di commercianti di vino di Santo Stefano Belbo, lo stesso paese natio di Pavese, più giovane di nove anni. I ricordi dell´avvocato Scagliola sono stati fondamentali. Il Centro studi «Gozzano-Pavese» dell´Università di Torino, diretto dalla professoressa Mariarosa Masoero, ha consentito poi di consultare le lettere (nove), le cartoline (quattro), un telegramma e un biglietto postale che Elena spedì a Cesare fino al 1942.
Fu un vero amore? Per un certo periodo, sicuramente. Non soltanto perché lei, il 18 gennaio del 1937, da Fano, dove si era trasferita per lavoro, gli domandava in un biglietto: «Perché non scrivi? Sono in pensiero. Fatti vivo anche con un semplice saluto». E il primo gennaio del 1938, ricevendo una copia di Lavorare stanca con la dedica «a Elena», gli scriveva con nostalgia «... tu già vivi tra i miei ricordi più cari». Oppure perché ancora nel marzo del ´38 gli faceva sapere: «Carissimo Pavese, sei il ricordo più bello della mia vita». C´è dell´altro. Soprattutto tre lettere dell´autore de La luna e i falò, conservate tra le sue carte e successivamente pubblicate nel volume einaudiano delle Lettere 1924-1944, che testimoniano l´intensità della relazione. Risalenti al settembre-ottobre del 1932 e indirizzate a una certa E., che nelle note dei curatori dell´epistolario viene definita «collega di Pavese nell´insegnamento», contengono frasi eloquenti: «Sono stato male tutto il giorno a non vederti sulla strada di Crevacuore»; «Fa, E., che tutto non finisca qui: dammi una probabilità di amarti meglio, di esserti più fedele nei miei pensieri, più degno di te!»; «... io non dimenticherò mai una sola cosa: che ti ho insegnato - ti ho costretta - a baciarmi sulla bocca. Ho sentito contro le mie braccia, svegliarsi in te una vita nuova».
Si amarono. L´apice della relazione coincise con i giorni trascorsi a Bra, dove entrambi avevano ottenuto una supplenza. In seguito la passione si stemperò in una amicizia affettuosa, anche perché, nel frattempo, Pavese si era invaghito di Tina Pizzardo, la «donna dalla voce rauca». Fu la guerra, con ogni probabilità, a separarli per sempre. C´è un appunto di Pavese, ne Il mestiere di vivere, risalente al 26 gennaio del 1938, che parrebbe indicare l´incrinarsi del loro rapporto: «Oseresti tu causare tanto male? Ricorda come hai congedato Elena. Ma tutto è ambivalente. L´hai congedata per virtù o per vigliaccheria?». Sembra scontato che il riferimento sia alla E. delle lettere d´amore del ´32. L´avvocato Scagliola, che ha novantasei anni e una memoria straordinaria, non sa quando tramontò la passione fra sua sorella e lo scrittore. Rammenta benissimo invece la prima volta che lo vide in casa sua, a Santo Stefano Belbo, vicino alla ferrovia.
Era il periodo in cui Pavese veniva a trascorrere qualche giorno nel suo paese, affittando una stanza alla trattoria della stazione, nei pressi dell´abitazione di Elena. Racconta l´avvocato: «Doveva essere settembre, si era all´imbrunire. Rientravo dopo avere fatto la mia partita di biliardo. In salotto trovai tutto buio. In un angolo mia mamma sonnecchiava su una poltrona. Pavese e mia sorella erano seduti sul divano, lui stava con le braccia dietro la testa, appoggiato allo schienale, e guardava verso il soffitto. Nessuno parlava. Ho acceso la luce, ci siamo salutati. Dopo, quando Pavese se ne è andato, ho chiesto a mia madre che cosa avesse detto ad Elena. E lei, con il suo accento genovese: "In due ore non ha detto una parola". Ma è probabile che non parlassero perché non erano soli, come avrebbero preferito». Prosegue l´avvocato Scagliola: «Volete sapere che tipo di rapporto ci fu fra Elena e Pavese?». Sorride, risponde: «Qualcosa di più di un´amicizia, un po´ di più. Anche se tra loro c´era pure un´attrazione sul piano intellettuale. Elena, del resto, era la più istruita e la più libera della famiglia».
Elena morì nel 1953, dopo essersi sposata con un cugino nel 1947. «Quando mia sorella Gisella riordinò le sue carte, si imbatté nelle lettere di Pavese. E volle bruciarle», ricorda. «Perché lo fece? Per rispetto verso Elena». Del loro amore, allora, scomparve ogni traccia. Conclude Igino Scagliola: «Mi chiederete perché questa storia non era venuta alla luce. Ve lo spiego subito: nessuno mi aveva mai chiesto di raccontarla». Ora, grazie anche a lui, l´amore fra Elena e Cesare ritrova la tenerezza e le illusioni di una bella estate.

Repubblica 15.3.08
Da oggi lo speciale in onda su RaiSat Extra, con tg dell’epoca e testimonianze
Aldo Moro, trent'anni dopo


Oltre 60 ore di programmazione su Raisat Extra per il trentennale della morte di Aldo Moro. Il canale satellitare diretto da Marco Giudici propone uno speciale stasera, dalle 21 fino all´alba, dedicato ai discorsi di Moro, conservati nelle teche Rai, restaurati ma mai andati in onda. Domani, invece, a cura di Antonio Maria Mira, giornalista dell´Avvenire, parte un ciclo di 55 puntate, (fino al 9 maggio), ogni giorno alle 13.30, col montaggio dei telegiornali Rai andati in onda nei 55 giorni di prigionia. Aldo Moro. Il volto, la voce, le parole. 1968-1978-2008 è il titolo della non stop di oggi, in cui per la prima volta vengono proposti in tv i discorsi di Moro: spiccano quello al Consiglio nazionale della Dc del 21 novembre 1968 e l´ultimo, ai gruppi parlamentari Dc, del 28 febbraio 1978. L´introduzione è di Stefano Folli. Alcuni testi sono letti da Roberto Herlitzka, che ha interpretato lo statista nel film di Bellocchio Buongiorno notte. Lucia Annunziata ricostruisce cosa avvenne la mattina del 16 marzo ‘78. E poi testimonianze sullo statista di Guido Bodrato, di Eugenio Scalfari, autore dell´ultima intervista a Moro e di Emanuele Macaluso. Infine, il direttore delle relazioni esterne della Luiss, Roberto Ippolito, spiega il vocabolario del presidente della Dc. «Siamo partiti da una constatazione semplice» spiega Giudici «quella di un uomo che è stato prigioniero non solo delle Br ma anche, per trent´anni, di una fotografia: imprigionato in quella istantanea che lo ritrae sofferente. Oggi vedere e ascoltare Moro suscita un´emozione forte».

Corriere della Sera 15.3.08
Un matrimonio fallito su 5 annullato dalla Sacra Rota
Le richieste aumentano del 25% l'anno
di Paolo Conti


ROMA — Benedetto XVI è allarmato. Non solo la famiglia è in crisi. Ma persino l'apparato mondiale dei Tribunali ecclesiastici locali e della Rota Romana centrale, che devono pronunciarsi sulle richieste di annullamento dei matrimoni religiosi, seguono lo spirito dei tempi concedendo molte (forse troppe, per Ratzinger) sentenze favorevoli. Dice Gian Ettore Gassani, presidente dell'Associazione matrimonialisti civili italiani: «Ormai un matrimonio fallito su cinque in Italia viene sciolto da un Tribunale ecclesiastico. Le richieste stanno aumentando da tre anni del 20-25 per cento». Ma il fenomeno riguarda tutto il mondo. Nel 2005 i matrimoni religiosi sciolti dai Tribunali statunitensi in primo grado sono stati ben 24.343, le sentenze contrarie appena 998. Sempre nel 2005, le domande presentate negli Usa sono state 28.844 e in tutto il mondo 48.655, cioè quasi 50.000. In quanto alla sola Rota Romana, autentica Cassazione mondiale dei tribunali ecclesiastici, al 1 gennaio 2008 le cause aperte provenienti dall'Italia erano 421, contro le 215 del 1999 o le 331 del 2003.
Per queste ragioni il Papa, nel suo discorso al Tribunale del 26 gennaio per l'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha attaccato «le giurisprudenze locali, sempre più distanti dall'interpretazione comune delle leggi positive e persino dalla dottrina della Chiesa sul matrimonio ». E ha condannato la «compilazione di regole astratte e ripetitive, esposte al rischio di interpretazioni soggettive e arbitrarie» ricordando che la Rota «influisce molto sull'operato delle chiese locali». Non per niente la Rota Romana ha già cominciato a invertire la tendenza. Nonostante la quantità di cause pendenti, nel 2007 le sentenze definitive di nullità sono state 160, di cui 79 per la nullità e 81 contrarie. Nel 2006 erano stato 172, di cui 96 per la nullità e 76 contrarie.
Il Pontefice teme che i Tribunali ecclesiastici diventino un'alternativa al divorzio? Gli Usa sono una spina nel cuore di Roma: troppo spesso viene invocato il canone 1095 del codice di diritto canonico che prevede i casi di «incapacità di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio», una sorta di «incapacità psichica» e di «immaturità affettiva». Concetti molto vasti, come si vede. Per di più negli Stati Uniti il secondo appello viene quasi sempre sostituito da un rapido decreto di ratifica. Un anno o poco più, e il gioco è fatto.
Dice l'avvocato Gassani: «L'iter però non è sempre così semplice. Perché la sentenza ecclesiastica abbia efficacia giuridica in Italia, occorre una "delibazione" da parte di una Corte d'appello chiamata a controllare che le motivazioni non siano in contrasto con le leggi repubblicane. Da alcuni anni il 40 per cento non vengono trascritte. Non c'è più automatismo ». Accusa Diego Sabatinelli, segretario della Lega per il divorzio breve e membro della direzione dei radicali italiani: «Se si incontra un buon avvocato, la Rota Romana può chiudere una causa anche in un anno e mezzo, massimo due. Così si discrimina il separato cattolico rispetto al separato normale. Ovviamente, è tutta una questione economica. Sappiamo con assoluta precisione e documentazione di cause che costano anche 20.000 euro. Si paga e si va avanti».
Circostanze duramente smentite dai duecento avvocati rotali iscritti allo speciale albo (per accedere occorre seguire tre anni di «Studio rotale» e laurearsi in diritto canonico). Dal 2004 esistono minimali e massimali rigidissimi per le parcelle: dai 1500 ai 2850 euro, più 500 di costi fissi. Non solo, ma secondo le statistiche del 1 gennaio 2008 il 65% delle cause hanno beneficiato del patrocinio gratuito. Dice l'avvocato Alessandro D'Avack: «La nostra clientela è mista, persone benestanti ma anche tanta povera gente che ha autentici problemi di coscienza. Qui si viene soprattutto per convinzione anche se statisticamente, vista la crisi della famiglia, siamo entrati in collisione con l'istituto del divorzio. In quanto ai compensi, le tariffe sono quelle. Spese a parte possono arrivare eventualmente per le definizioni patrimoniali ». Suggerimenti a chi vuole sciogliere il matrimonio religioso? «Dire sempre e comunque la verità. Inutile inventarsi favolette che non reggono in tribunale».
Monsignor Giuseppe Sciacca, uno dei ventuno «Prelati Uditori» di nomina pontificia, cioè i veri giudici della Rota Romana, difende il lavoro dell'istituzione: «La vera pastoralità non è mera accondiscendenza a una semplice richiesta di nullità del matrimonio. Invece è un servizio di verità che è autentica carità e quindi giustizia: i fedeli hanno il preciso diritto di conoscere la realtà del proprio stato matrimoniale. Il giudizio del tribunale ecclesiastico ha un carattere dichiarativo e di accertamento sulla validità o meno del vincolo. La Rota Romana non può "annullare" alcun matrimonio ma solo accertarne la nullità o meno dopo un accurato procedimento giudiziario». Il richiamo del Papa per monsignor Sciacca va nella direzione corretta: «Una diga contro l'arbitrarietà, il personalismo e il relativismo». Forse per questo, Benedetto XVI, chiudendo il suo discorso si è augurato un «autentico rinnovamento di questa venerabile istituzione».

Corriere della Sera 15.3.08
Sentenze. Nella relazione del 2007 raccolte le motivazioni dei processi arrivati a conclusione
Le cause: dal disturbo narcisistico al delirio di gelosia
di P. Co.


ROMA — La stragrande quantità di cause di nullità derivano da un «vizio di consenso» (o incapacità consensuale). E, seguendo il testo della relazione annuale della Rota Romana del 2007, ci si imbatte in una serie di cause psichiche molto variegate, tutte collegate al canone 1095 del diritto canonico («grave difetto di discrezione di giudizio» e «incapacità di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio »). Ecco alcuni casi accettati come ragione di annullamento: «disturbo affettivo bipolare», «disturbo di personalità schizoide», «disturbo di personalità antisociale», «disturbo di personalità narcisistico », «sindrome ansioso-depressiva conseguente alla morte del primo coniuge», «personalità ossessivo- compulsiva», «personalità passivo- aggressiva e dipendenza dalla madre», «personalità borderline », «disturbo di personalità antisociale e narcisistico», «disturbo con aspetti ipertimici e associato ad abuso alcolico», «disturbo di personalità istrionico», «immaturità affettiva e sessuale», «disturbo di personalità connesso, tra l'altro, a grave sofferenza cerebrale di origine traumatica», «disturbo di personalità con aspetti misti ed evitanti », «personalità globalmente psicopatica», «delirio di gelosia con abuso alcolico», «paranoia alcolica », «marcata irresponsabilità connessa a una nevrosi d'ansia con componenti ossessive, a sua volta legata a infermità somatiche del soggetto».
In un caso di immaturità di donna ha contato «la giovanissima età al momento del matrimonio, 15 anni, la gravidanza intervenuta e la bassa capacità intellettiva».
Poi ci sono i casi di «simulazione del consenso». «Caso di matrimonio di convenienza, celebrato dalla donna convenuta solo per conseguire l'agiatezza economica ». «Mentalità divorzistica acquisita dalla moglie durante la permanenza in Inghilterra negli anni sessanta ».
Oppure: «La donna subordinava la durata del matrimonio alla responsabilizzazione dell'uomo. Si sposò perché era rimasta incinta e non voleva sottoporsi a un secondo aborto, dopo quello già compiuto durante la relazione prematrimoniale ». Capitolo prole, ovvero la volontà di avere figli. Causa di nullità legate alla deliberata assenza di figli: «Forte repulsione verso l'idea di maternità», «prevalente considerazione della prospettiva lavorativa », «paura che i figli rivivano le proprie esperienze negative», «desiderio di tutelare la propria libertà ».
Nel 2003 fece sensazione una sentenza legata alla «mascolinità sicula di un uomo» che rivendicava «esagerata supremazia sulla fidanzata », dicendosi pronto al divorzio se «la donna non fosse stata all'altezza».
Sempre quell'anno viene dichiarato nullo un matrimonio in cui una ragazza incinta aveva costretto il fidanzato a sposarla «minacciando di abortire», un chiaro caso (per i giudici) di «timore invalidante il consenso». Nel 1993 fece discutere quella di una coppia che non credeva nell'indissolubilità del matrimonio in quanto «succube di teorie legate all'atmosfera negativa suscitata dall'introduzione del divorzio in Italia».

Corriere della Sera 15.3.08
Omaggio a Goethe
Provocazioni. Il direttore israeliano (e con passaporto palestinese) suonerà nel teatro voluto da Hitler nella capitale tedesca
Sfida di Barenboim: Wagner a Berlino con l'orchestra arabo-ebraica
di Mara Gergolet


Daniel Barenboim alla guida dell'Orchestra del Divano Occidentale Orientale: il nome è un omaggio a una collezione di liriche di Goethe ispirate alla poesia persiana. E ovviamente un'allusione alla composizione israelo-palestinese dell'orchestra stessa

GERUSALEMME — Sul palcoscenico del lupo. Nell'arena musicale che Hitler costruì per i giochi olimpici di Berlino '36, la Waldbühne, dove gli atleti passavano a salutarlo col braccio alzato, Daniel Barenboim dirigerà la Valchiria. Un direttore ebreo, con la sua orchestra di giovani israeliani e arabi, a suonare Wagner: la musica preferita del Führer, e bandita in Israele.
Una provocazione? Un insulto, questo concerto fissato per il 23 agosto, per molti in Israele. Lui dice l'opposto: «Se Hitler e Wagner ci sentissero si rivolterebbero nella tomba».
Daniel Barenboim è così. Ebreo e israeliano, ma con passaporto anche palestinese (oltre che argentino). Uno dei grandissimi direttori d'orchestra, che apre la stagione della Scala, e che però dice seriamente: «L'orchestra Divan, quest'orchestra di giovani ebrei e palestinesi, è l'impresa musicale più importante della mia vita». L'ha fondata una decina d'anni fa con il suo amico, l'intellettuale palestinese Edward Said, la porta in giro nei grandi teatri del mondo. «Non crediamo che la questione israelo-palestinese si possa risolvere militarmente. I due popoli devono imparare a convivere e ascoltare. Noi musicisti lo facciamo ogni giorno ». I soldi del concerto serviranno a costruire una sala da concerti per i palestinesi a Ramallah: «Se mai ci riusciremo — dice — mi impegno a portare un musicista di valore ogni 4-6 settimane».
Wagner, però, in Israele è una faccenda seria. Vietato sulla tv pubblica, bandito (anche se non formalmente) nel Paese. Scatena passioni e ricordi angoscianti, non tutti ridono con Woody Allen che — ogni volta che sente la Valchiria — prova l'impellente urgenza di invadere la Polonia. Il primo che sfidò il bando fu Zubin Mehta, nel 1985. Fu interrotto da un anziano signore che balzò sul palco, si spoglio e mostrò le cicatrici dei campi di concentramento: «Questa è la musica che sentivo nei Lager ». Mehta rinunciò.
Il tabù fu violato solo nel 2001, in un clamoroso concerto a Gerusalemme, e proprio da Barenboim. A fine programma chiese al pubblico: volete sentire Tristano e Isolda? Discussero mezz'ora, gli piovvero addosso accuse di «fascista» e «antisemita », qualcuno si alzò in piedi e uscì, ma la maggioranza restò. Fu una standing ovation che lo portò quasi alle lacrime. La politica, il giorno dopo — da Sharon a Olmert (sindaco di Gerusalemme) all'( allora) presidente Katsav — lo condannò quasi senza eccezioni.
Lui dice di trovare «mostruose» le idee di Wagner, e «quasi nobile e generosa» la sua musica. «Capisco — ha detto in un'intervista con Edward Said, poco prima che questi morisse — che a molti Wagner generi associazioni col nazismo. E rispetto quelli a cui queste associazioni risultano oppressive. Ma è democratico suonare Wagner per chi lo desidera sentire».

Corriere della Sera 15.3.08
Etica e diritti Prescrizioni negate, ma la legge non lo prevede
Fecondazione, obiettori tra i medici di base
Rifiutano i farmaci. L'Ordine: interverremo
I casi dei camici bianchi che per motivi di coscienza ostacolano anche le pratiche conformi alla legge
di Monica Ricci Sargentini


MILANO — La fecondazione assistita in Italia è sempre più una corsa a ostacoli. Oltre alle limitazioni imposte dalla legge 40, le coppie dei pazienti si trovano di fronte a un nuovo fenomeno: l'obiezione di coscienza di alcuni medici di base che, nonostante la normativa non lo consenta, si rifiutano di prescrivere i farmaci necessari per la fecondazione in vitro o le analisi che i centri richiedono prima di effettuare la terapia. È accaduto, a fine febbraio, a Chiari, in provincia di Brescia, dove una ragazza di 29 anni alla prima Fivet si è recata dalla sua dottoressa di famiglia con il piano terapeutico firmato dal centro specialistico: «Mi ha gelato — racconta — con un "va contro la mia morale. Io ho firmato e depositato l'obiezione di coscienza"». La paziente, in lacrime, si reca alla Asl di zona, quella di Palazzolo. Ha i giorni contati. Senza quei farmaci dovrà rimandare il tentativo. Lì la questione viene risolta cambiando medico di base. «La dottoressa Pasini — dice al Corriere Lia Giovanelli dell'ufficio comunicazioni con il pubblico della Asl di Brescia— ha sbagliato. Però non l'abbiamo chiamata perché non ci sembrava giusto fare un intervento attivo». E non è un caso isolato. All'associazione Cerco Un Bimbo (www.cercounbimbo.net) fioccano le richieste d'aiuto: «Di segnalazioni di questo tipo ne abbiamo ricevute molte — racconta al Corriere Federica Casadei, presidente e fondatrice di Cub, un portale che vanta ben 22mila utenti —, purtroppo è un fenomeno molto sommerso, tanti pazienti non hanno il coraggio di presentare denuncia o pensano che i medici siano nel giusto. Noi consigliamo sempre di rivolgersi alla Asl e di contattare l'ordine dei medici. Per nostra esperienza se si protesta il caso si risolve. L'ordine nazionale dovrebbe istituire un telefono verde per le coppie in difficoltà». Ipotesi da non scartare. Maurizio Benato, vicepresidente della Federazione Nazionale Ordini dei Medici, è netto: «Non esiste l'obiezione di coscienza per la procreazione assistita. È un nostro dovere curare ogni patologia.
Di fronte a casi del genere l'Ordine dei medici potrebbe intervenire con delle direttive serie».
Alcuni dottori invocano la coscienza anche per la semplice prescrizione di un'analisi dello sperma o di una mammografia. È successo a Schio, in provincia di Vicenza. A una donna che, incinta grazie alla Fivet, non riesce a portare a termine la gravidanza vengono prescritti accertamenti per la poliabortività. Il medico di base dice no. «Mi ha detto che era normale che l'avessi perso perché avevo usato una tecnica contro natura» racconta la paziente. Il caso finisce all'Ordine dei medici di Vicenza: «Sì è vero — dice il ragionier Baldinato — il dottore si è rifiutato di prescrivere delle analisi nell'ambito della fecondazione assistita ma la paziente poteva anche andare da un'altra parte ». Interpellato dal Corriere il dottor Buratto non smentisce: «Mi sembrano questioni private — dice —. Io sono obiettore di coscienza sull'aborto, per il resto mi attengo al codice».

Corriere della Sera 15.3.08
Grande Guerra. La crudeltà di Cadorna
Fucilazioni sommarie nella fucina dei genocidi
di Frediano Sessi


Alle radici del primo genocidio del Novecento, quello degli armeni, la Grande guerra segna «l'inizio di un imbarbarimento » del modo di concepire i conflitti, che ci appare oggi come una sorta di «laboratorio» delle future violenze dei regimi totalitari. È probabilmente nei suoi campi di battaglia, come scrive Omer Bartov, che gli ideatori della «soluzione finale» conoscono il loro «battesimo di fuoco». Non stupisce perciò che, per contrastare le proteste dei soldati, costretti a combattere in condizioni estreme, il generale Luigi Cadorna, fin dal 1916, si esprima a favore della decimazione, la fucilazione sommaria di un soldato ogni dieci, nei reparti macchiatisi di «reati collettivi». Poiché, malgrado l'obbligo di registrare le esecuzioni sommarie, tale dovere era spesso disatteso, oggi ancora non conosciamo il numero esatto delle vittime.
I due episodi di decimazione ai danni della valorosa Brigata Catanzaro (formata con soldati calabresi a cui si aggiunsero pugliesi, molisani, lucani e siciliani), ricostruiti da Pluviano e Guerrini sulla base di fonti d'archivio, esemplificano assai bene il livello aberrante cui giunsero la crudeltà e l'incapacità dei comandi. Il reparto fu colpito in modo sproporzionato ben oltre ogni addebito giudiziario, legato ad alcuni episodi di protesta e insubordinazione o allo sbandamento durante un attacco sulle pendici del Monte Mosciagh. Gli autori al termine chiedono la riabilitazione delle vittime a più di novant'anni di distanza.
M. PLUVIANO I. GUERRINI Fucilate i fanti della Catanzaro GASPARI PP. 126, e 18

Corriere della Sera 15.3.08
Vienna. Malinconia e passione
I tormenti del corpo e dell'anima nell'arte della Mitteleuropa
di Francesca Montorfano


È una delle opere più celebri di Egon Schiele, quell'Abbraccio dal segno aspro e dall'intensa drammaticità, a dare il nome e l'immagine alla mostra che si apre oggi nella settecentesca cornice di Villa Olmo, a Como. Un abbraccio che si può leggere anche come un affresco della grande arte mitteleuropea, che si propone di delineare la svolta storica della Secessione e dell'Espressionismo tornando indietro nel tempo a ricercarne le origini, passando dal Barocco al Biedermeier alla Belle Epoque fino ad arrivare alle linee magnetiche e conturbanti di Klimt, ai corpi deformati di Schiele, alle rivoluzionarie sperimentazioni degli artisti del primo Novecento.
«Abbiamo pensato a una rassegna che fosse un'immersione totale in quello straordinario laboratorio di idee che è stata la Vienna tra l'Otto e il Novecento. Una rassegna che consentisse di respirarne la cultura nei suoi vari aspetti: dalle vicende di Sissi ai valzer di Strauss, dagli studi di Freud sull'inconscio alla nascita della psicanalisi — ha precisato Sergio Gaddi, assessore alla cultura di Como che ha curato la mostra insieme a Franz Smola, già curatore del Museo del Belvedere —. Infatti una ricerca interiore lega le oltre 75 opere esposte, mettendo a nudo la realtà delle emozioni e della sofferenza esistenziale. Come al Belvedere, anche a Villa Olmo dipinti e sculture dialogano con strutture architettoniche, arredi e allestimenti secondo quell'ideale di arte totale sostenuto dagli stessi secessionisti ».
A raccontare la ricchezza festosa del tardo Barocco e lo splendore dell'Austria imperiale sono le opere legate a temi storici e mitologici di Paul Troger o i ritratti di corte dall'intenso realismo descrittivo di Van Meytens, mentre le esasperate deformazioni di Messerschmidt sembrano già anticipare l'arte del Novecento. A segnare la caduta della tensione rivoluzionaria e il mutamento del quadro politico dopo il 1815 è invece la nascita di un nuovo stile, il Biedermeier, che porterà a una fase di ripiegamento su toni più intimistici, ben rappresentati dai lavori di Waldmüller e Von Amerling, dove lo studio della luce e la cura nei dettagli si fondono con la grazia delle scene. Ma è a partire dalla seconda metà del secolo che Vienna godrà di un periodo di eccezionale fioritura artistica ed economica, che si manifesterà anche nel nuovo assetto urbano e negli imponenti palazzi della Ringstrasse. È il momento della Belle Epoque con il suo sfarzo, la sua gioia di vivere e le opere di Hans Makart, tra cui i sontuosi ritratti dell'alta società e la spettacolare «Caccia sul Nilo». I primi segnali che porteranno al tramonto dell'impero asburgico sono però alle porte. A interpretare tali inquietudini, ad opporsi allo stagnante ottimismo borghese e alle rigide tradizioni accademiche, sono alcuni giovani artisti desiderosi di rivoluzionare i fondamenti stessi dell'arte figurativa, in una svolta radicale verso la modernità. Grande interprete di quest'epoca splendida e malinconica insieme è Gustav Klimt, figura carismatica del Secessionismo, di cui la rassegna presenta capolavori come «Signora davanti al camino» e il «Ritratto di Johanna Staude», a sottolineare la fascinazione dell'artista per l'enigmatico e conturbante mondo femminile, in una costante ricerca di una superiore armonia estetica. Ed ecco Kolo Moser con i ritratti e i paesaggi, ed Oskar Kokoschka con il suo libero e personalissimo Espressionismo ed opere che ne rivelano lo stile duro e disarmonico, i colori dissonanti, la forte caratterizzazione psicologica dei personaggi. Ed infine Egon Schiele, con la rappresentazione di una sessualità tormentata, di un corpo umano indagato nella sua fragilità, con la sua visione disincantata e amara della vita. E proprio «L'abbraccio» dipinto nel 1917, alla vigilia del crollo dell'Impero ma anche della sua morte avvenuta a soli 26 anni, ne è una drammatica testimonianza.

Corriere della Sera 15.3.08
Ritratto sentimentale Uno scrittore e la metropoli austriaca: dalla storia ai ricordi personali
Quel senso della bellezza più forte di ogni tragedia
La mia città ferita e umiliata. Eppure crocevia unico per musica, arte, scienza
di Giorgio Pressburger


Ho visto Vienna per la prima volta da ragazzo. Era inverno. Le strade innevate a ogni angolo mostravano carcasse di cavalli di frisia, il filo spinato attorcigliato pendeva ancora dalle sbarre. I quattro eserciti occupanti (inglese francese, americano, sovietico) avevano appena tolto il presidio della città. La sfarzosa capitale imperiale d'un tempo, occupata per cinque anni dai nazisti, e per dieci dai liberatori, pareva il relitto della propria grande storia. Non soltanto della storia di dominio militare di mezza Europa, ma anche dell'immensa cultura che negli ultimi secoli l'Impero aveva sviluppato. A Vienna le lotte per il potere politico e militare erano sempre andate di pari passo con le scoperte scientifiche fondamentali della nostra civiltà, con la nascita di innovazioni artistiche in ogni campo, con il sorgere di un nuovo tipo di industria e di artigianato. Di tutto questo allora sapevo ben poco. Ma vedendo Vienna in quello stato misero, avevo provato una stretta al cuore. I valzer di Johann Strauss dov'erano?
Eppure c'era qualcosa di positivo in quella Vienna pur così mal ridotta. L'Austria ora era diventata una nazione neutrale, al di fuori della Guerra fredda che allora affliggeva e divideva in modo ferreo l'Europa. L'Austria si preparava a diventare quello che dopo è diventata: il punto di incontro di grandi potenze contrapposte, palcoscenico di trattative internazionali. A poco a poco, quella città di nuovo aveva assunto l'aspetto di un tempo, quello della capitale raffinata e colta, ma nello stesso tempo popolare, vivace, buontempona. (Almeno nell'immaginario comune).
In realtà questo luogo non è per niente una metropoli, rimane anzi quasi di dimensione familiare, e quindi appare molto ospitale. Penso che non ci sia ungherese o ceco, o croato o sloveno la cui famiglia non avesse mandato a Vienna negli ultimi due secoli qualche suo membro. All'epoca d'oro dei primi anni del Novecento i grandi artisti e progettisti delle Wiener Werkstätte, (Officine Viennesi che fabbricavano oggetti d'uso quotidiano) si chiamavano Powolny o Moholyi-Nagy, o Kokoschka, nomi non tedeschi ma tipici dei Paesi compresi nella corona Austro-Ungarica. Secondo Musil (uno degli scrittori più profondi dell'Impero asburgico di quegli anni) gli austriaci sono un popolo dalla composizione indefinibile. «Chi sono gli austriaci? — domandava Musil —. Possiamo solo dire che sono gli austro-ungarici meno gli ungheresi».
Una ventina d'anni fa fu allestita a Vienna una grande mostra per commemorare l'assedio della città, nel 1686, da parte dei turchi, e la sua liberazione. La capitale austriaca durante la mostra era stata piena di tende turche, di accampamenti ricostruiti filologicamente, di esposizioni e luoghi di conferenze. Perché questo? Forse per ricordare quel lontano momento liberatorio e la conseguente ascesa repentina di Vienna a capitale europea. In che cosa consisteva questa ascesa? I nuovi quartieri, i magnifici palazzi principeschi stavano sorgendo rapidamente. Il principe Eugenio di Savoia, vincitore di molte battaglie contro i turchi, vi aveva edificato il suo Belvedere, da lui stesso destinato a dimora e pinacoteca. Perché oltre che militare e stratega, era anche amante dell'arte e appassionato collezionista.
Anche all'epoca di quell'assedio, Vienna si era ridotta alla fame, anche allora si era risollevata. Un ramo della mia famiglia si stabilì nei sobborghi della città all'inizio del Settecento. Venivano dalla Slovacchia. Quel nugolo di piccoli artigiani, andato avanti con caparbia ostinazione per due secoli, finì di esistere al termine della Prima Guerra mondiale, quando l'Austria stessa crollò di colpo. Quel crollo fu peggiore di quello successivo, della Seconda guerra. Il grande Impero collassò, si ridusse a un piccolo Paese. E i miei parenti? Tutti quei parenti morirono di fame e di febbre spagnola. Mio padre, ragazzo, fu mandato in loro aiuto da Budapest, con un carico di cibo e medicine. Viaggiò sul tetto di un treno. Al suo arrivo nessuno della famiglia era più in vita.
Anche Gustav Klimt morì allora; come del resto Otto Wagner, architetto, autore degli edifici più eloquenti della Vienna moderna. Tutti e due furono vittime degli stenti e del contagio. In quegli anni anche altri architetti come Joseph Hoffmann, Kolomann Moser, Olbrich (tutti sopravvissuti) avevano coltivato il sogno di estendere l'arte a tutti gli abitanti dell'Impero. Avevano disegnato e fatto riprodurre in grandi «tirature» mobili, stoviglie, orologi, caffettiere, bricchi, stoffe per diffondere la bellezza in tutti gli strati della popolazione. Abbellire la vita quotidiana: questo era il loro scopo. Da quella volta questo desiderio è rimasto in qualche modo vivo, a Vienna. Perciò anche oggi avverto un senso di fraterno affetto per quella città. Che ha anche conosciuto ingiustizie, soprusi, burocrazia, ignominia, violenza. Ma che è rimasta ugualmente un serbatoio di grandi aspirazioni all'armonia e all'equilibrio.

Corriere della Sera 15.3.08
Le tele dell'alta borghesia viennese nel mirino del nazismo
«Troppe ebree nei ritratti» E Hitler rinnegò Klimt
Quando il Führer annullò l'esposizione dell'artista suo idolo
di Francesca Bonazzoli


Nel 1907 due diciottenni presentarono domanda di ammissione all'Accademia di Vienna: uno si chiamava Egon Schiele e venne accettato; l'altro respinto. Il suo nome era Adolf Hitler. Ritentò anche l'anno seguente, ma venne nuovamente bocciato e allora quel ragazzo poverissimo, frustrato, pieno di risentimento verso la società che lo escludeva dalla vita artistica che sognava, passò alla politica senza però mai rinunciare all'hobby della pittura.
Essere artista, musicista o scrittore nella Vienna del tempo equivaleva a godere dello stesso prestigio sociale di un medico o un avvocato. Nei caffé si riunivano Arthur Schnitzler, Hugo von Hofmannsthal, Karl Kraus, Lev Trotzkij, Gustav Mahler, Sigmund Freud o Theodor Herzl, il teorizzatore dello stato ebraico. Molti di loro erano ebrei, i sudditi più fedeli dell'imperatore e del suo regno multiculturale dove si sentivano a proprio agio nel crogiolo di nazionalità slave, tedesche, austriache, magiare, ceche, slovacche. E nonostante alle municipali del 1895 l'antisemita militante Karl Lueger avesse vinto le elezioni (per ben due volte dopo che l'imperatore si era rifiutato di ratificare il voto), tutti continuavano a vivere con spensieratezza in un clima che Herman Broch chiamava di «gioiosa apocalisse ».
Il ritrattista più conteso da questa alta borghesia viennese era Gustav Klimt e a lui toccò in sorte di ritrarre l'aristocrazia finanziaria ebraica che a sua volta lo sostenne fin dal grande scandalo suscitato dai dipinti per l'atrio dell'Università: accusato di «pornografia» ed «esasperata perversione », Klimt fu difeso solo da Emil Zuckerkandl, preside ebreo della facoltà di Medicina. Così come fu l'industriale ebreo Karl Wittgenstein, padre del filosofo, a finanziare il movimento della Secessione presieduto da Klimt il quale ricambierà, nel 1905, con uno splendido ritratto della figlia Margaret, amica dell'ebreo Freud, in abito nuziale. E che dire dei Lederer? Nel 1899 Klimt aveva ricevuto un onorario di 35 mila corone per il ritratto di Serena Lederer, moglie di August, che diverrà il suo maggior cliente. Il magnifico ritratto con sfondo cinesizzante del 1914 della baronessa Bachofen- Echt, non è che l'effige della figlia di August e Serena Lederer, così come quello di Maria Munk sul letto di morte altri non è che quello della giovane nipote suicida di Serena Lederer.
Il capolavoro di Klimt, poi, il ritratto dorato di Adele Bloch-Bauer, immortala una delle più ricche e affascinanti donne ebraiche di Vienna, la moglie dell'industriale Ferdinand.
Furono così tante le donne ebree ritratte da Klimt che quando Hitler, pare alla fine degli anni Trenta, dopo l'annessione dell'Austria, volle organizzare una mostra dedicata a Klimt, in gioventù idolo suo e di Schiele, la annullò stizzito perché ogni volta che domandava chi fosse questa donna, chi quest'altra, gli venivano riferiti nomi ebraici. Il problema fu risolto qualche anno dopo da Baldur von Schirach, il responsabile della città di Vienna nominato da Hitler, ex capo della gioventù hitleriana e responsabile della deportazione di circa 185 mila ebrei. Il 7 febbraio 1943 si inaugurò una mostra di 66 dipinti e 34 disegni di Klimt nella Sala delle Esposizioni nella Friedrichstrasse omettendo in catalogo i nomi dei personaggi ebraici ritratti. Con la resa dei tedeschi a Stalingrado e la Germania coinvolta nella guerra totale, un mese dopo i dipinti, compresi i dieci sequestrati alla famiglia Lederer, furono trasferiti nel castello di Immendorf, vicino al confine ceco. Nel maggio 1945, prima di lasciare il castello in mano ai russi, i tedeschi lo riempirono di esplosivo. Il rogo durò dall'8 all'11 maggio. Ma i ritratti di Serena Lederer, sua madre e sua figlia si salvarono: poiché erano ebree, le loro effigi non erano state ritenute degne di essere portate in salvo a Immendorf.

il Riformista 15.3.08
Intese. Veltroni e Berlusconi si sfidano a Cernobbio, le diplomazie lavorano su Rai, riforme e nomine
Aspettando «quota 75» Pd e Pdl stringono i primi accordi
La somma dei due partiti pesa quasi quanto i singoli risultati
di Stefano Cappellini


La rimonta del Pd, per ora, s'è fermata. Da un paio di settimane tutti i sondaggi inchiodano il partito di Walter Veltroni a 4-5 punti dal Pdl e sotto quota 35, che poi - come in privato ammette lo stratega principe del Loft Goffredo Bettini - è anche la soglia minima per garantire la sopravvivenza tranquilla della leadership anche in caso di sconfitta. D'altra parte, in ossequio alla teoria del «voto utile», l'esito delle elezioni di aprile sarà giudicato al quartier generale democratico anche sul metro di un altro obiettivo, quantificabile in «quota 75»: la somma dei voti al Pd e al Pdl necessaria affinché lo spariglio bipartitista di "Silvio" e "Walter" possa dirsi riuscito e il prossimo Parlamento risultare in pratica diviso in due. E questa seconda cifra, dal punto di vista di entrambi i duellanti, non è meno importante. Lo impone la natura di questa campagna elettorale, dove le ragioni della sfida e quelle dell'intesa futura convivono senza contraddizione.
Tre dossier. Ecco perché l'inizio della campagna non ha spento la macchina della diplomazia parallela e sotterranea tra Pd e Pdl, sull'asse principale Letta-Bettini. Si preparano le larghe intese? Non la loro formalizzazione. Ma una costituzione materiale delle larghe intese c'è già, perché scenari come il pareggio, un governo di minoranza o anche solo la necessità di chiudere virtuosamente la riforma bipartitica, hanno suggerito a Veltroni come a Berlusconi di istruire per tempo i principali dossier del dopo-voto. Gli abboccamenti in corso riguardano tre questioni in particolare: riforme, Rai, nomine.
Nuove regole. Si tratta dell'intesa più avanzata. Esiste già una bozza per modificare i regolamenti parlamentari subito dopo l'insediamento delle nuove Camere. Ne è autore il senatore forzista Gaetano Quagliariello, già capo della diplomazia berlusconiana nella trattativa sulla riforma elettorale, e sul testo c'è il via libera di Veltroni. In sostanza, si vieta la formazione di gruppi parlamentari non presenti sulla scheda elettorale (norma che impedisce un caso radicali all'indomani del voto), si velocizza l'iter delle proposte dell'esecutivo e si rafforzano le tutele per l'opposizione. Va bene al Pd presunto perdente, va bene al Pdl favorito dal pronostico. Spiega Quagliariello: «La proposta è tarata sulle esigenze di due partiti a vocazione maggioritaria».

giovedì 13 marzo 2008

l’Unità 13.3.08
Italiani brava gente? Guardate questo film
di Jolanda Bufalini

Il generale Benelli definì la strage «una salutare lezione»
Alla Rai il filmato non interessava

La guerra fredda fece affossare le azioni legali sui crimini italiani
Un magistrato ora ha riaperto il caso

IN TV Nel febbraio del ’43 i militari italiani fecero una rappresaglia nel villaggio greco di Dominikon uccidendo 150 civili. Racconta questa strage il documentario «La guerra sporca di Mussolini» in onda domani sera su History Channel su Sky e poi su Rete4

Domenikon, 16 febbraio 1943. Il piccolo villaggio rurale della Tessaglia, non lontano dal confine greco con la Macedonia, quel giorno vede un’azione partigiana contro gli occupanti dell’Asse. Dalle colline sparano sui convogli italiani, nove militari perdono la vita. La rappresaglia, durissima, si rivolge contro la popolazione civile. Le case vengono incendiate. I maschi, dai 14 anni in su, vengono strappati alle famiglie e fucilati. «Una salutare lezione» dirà il generale Cesare Benelli, che comandava la divisione Pinerolo. Sono 150 i morti civili di questa Marzabotto greca e il massacro, questa volta, è perpetrato dalle forze dell’esercito italiano. Domenikon nel 1998 è stata proclamata in Grecia città martire ma, ancora oggi, è difficile ricostruire la storia di questa e di altre atrocità compiute dalle forze di occupazione italiane in Grecia nella Seconda guerra mondiale. Sarebbero 1500 i militari che si macchiarono, dal 1942, di crimini contro l’umanità: stupri, uccisioni di massa, incendi, saccheggi.
È questo il tema del film-documentario «La guerra sporca di Mussolini», prodotto da Gioia Avvantaggiato, diretto da Giovanni Donfrancesco, che sarà trasmesso domani alle 21 da History Channel su Sky e, in seguito, da Rete 4. La Rai, invece, non aveva manifestato interesse al progetto. Il documentario si avvale delle ricerche di Stathis Psomiadis, che nel massacro perse il nonno e che si è dedicato alla raccolta delle testimonianze di ciò che avvenne nel suo villaggio di origine. E di Lidia Santarelli, storica italiana, docente alla Columbia University a New York. Nel film i vecchi sopravvissuti rievocano: alcuni che capivano l’italiano, sentendo i militari dire «bruciamo tutto», avvertirono gli altri. «Qui ci ammazzano tutti». Ci fu chi riuscì a salvare un figlio buttandolo in un fosso.
Dice Lidia Santarelli, che ha dedicato molte ricerche alle testimonianze e alla memoria in Grecia negli anni dell’occupazione italiana, che c’è una strana discrasia fra i documenti che riportano le testimonianze immediate sulle atrocità italiane e le memorie degli anni successivi al 1950. «Subito dopo la Liberazione il governo greco sottopose alle Nazioni Unite centinaia di casi in cui i militari italiani erano ritenuti responsabili di crimini di guerra contro l’umanità» ed è documentato, sostiene la storica, che le truppe italiane furono impiegate massicciamente nelle operazioni volte a stroncare la lotta partigiana e a sradicare le organizzazioni della Resistenza nelle aree rurali della penisola. «Esiste la documentazione storica che testimonia che, a cominciare dalla fine del 1942, la politica repressiva degli italiani si trasformò in una guerra condotta contro i civili».
Insomma, anche quella italiana fu, come sono tutte le guerre e particolarmente quelle di occupazione che fronteggiano l’ostilità delle popolazoni civili, una «guerra sporca». In Grecia come nei Balcani, in Slovenia, in Etiopia. E però le denunce non ebbero corso. Per questo, e poiché i crimini di guerra sono sempre perseguibili, il sostituto procuratore militare di Padova, Sergio Dini (presente alla proiezione del film, ieri a Roma alla Casa del Cinema) ha presentato una denuncia formale alla procura militare di Roma, l'unica competente per tali reati commessi da italiani all'estero.
Eppure, le testimonianze successive cambiano, nella stessa Grecia, dove si tende a distinguere fra gli italiani bonari e i nazisti tedeschi. «Italiani brava gente - dice un altro storico intervistato nel film documentario, Lutz Klinkhammer - non è una invenzione ma è falso che questo fosse l'aspetto dominante nell'occupazione di quei territori». Klinkhammer cita le fucilazioni italiane in Slovenia che, nella provincia di Lubiana, ebbero le stesse dimensioni delle fucilazioni tedesche in Alta Italia dopo l'8 settembre. Oltre 100 mila slavi transitarono per i campi di concentramento italiani in Jugoslavia. Nell'isola di Rab, di cui il film mostra cadaveri scheletrici, morì il 20% dei prigionieri. Cosa avvenne? Perché quella discrasia che ancora oggi pesa sulle «macchie bianche» della storia italiana, sulla difficoltà nostra a fare i conti con la storia? Nel 1946 cambia tutto. C’è il roll back, c’è il mondo spaccato in due. La Grecia infiammata dalla guerra civile tra comunisti e monarchici è il primo banco di prova della confrontation nel mondo bipolare. La guerra fredda mette fine alle aspirazioni di giustizia.

l’Unità 13.3.08
Un libro-inchiesta di Mario La Ferla, grazie a inediti documenti dell’Fbi, getta una nuova luce sulla vita e sulla morte della celebre attrice
Marilyn Monroe? Bella, brava, bionda e comunista
di Rinaldo Gianola

Noi lo abbiamo sempre saputo. Ne eravamo convinti, anche se non ne avevamo le prove. Anche quando, stretta in un abitino trasparente, sussurrava melensa «Happy birthday, mister president» al Madison Square Garden di New York davanti a quel John Kennedy che voleva invadere la Cuba di Fidel, anche allora, adesso possiamo scriverlo, stava dalla nostra parte. Il cuore di Marilyn Monroe batteva a sinistra, non ci sono storie.
Tra miliardari e mafiosi, tra un marito drammaturgo e un altro leggenda del baseball, con decine di amanti tra cui un premio Nobel e i fratelli della dinastia apparentemente più progressista d’America, il mito degli anni Sessanta era «una comunista, una spia, una cospiratrice» per il tremendo capo dell’Fbi, Edgar Hoover. Lo scrive Mario La Ferla, valoroso giornalista che ha consumato molte suole su molti marciapiedi, nel suo libro-inchiesta Compagna Marilyn (pp. 312, euro 13,50, Stampa Alternativa), un titolo finalmente rassicurante che ci conforta di tante offese e frustrazioni del passato.
Il lavoro si basa su una documentazione finora inedita, secondo quanto scrive l’autore, custodita nella sede centrale dell’Fbi di Washington. La storia è complessa e tortuosa almeno quanto gli amori di Marilyn, potrebbe benissimo essere il canovaccio di uno di quei film ambientati a Los Angeles ispirati dai romanzi torbidi e disperati di Ellroy. La nostra Marilyn, con quei capelli e quel corpo trionfanti, era spiata e controllata, come molti personaggi di Hollywood, fin dai tempi del matrimonio con Arthur Miller, intellettuale e per questo sospettato di simpatie comuniste, e a maggior ragione quando divenne l’amante di Yves Montand, morettone francese iscritto al Pcf e marito di un’altra splendida attrice, Simone Signoret.
Ma i veri guai iniziarono quando l’Fbi si mise spiare i suoi misteriosi viaggi in Messico dove Marilyn incontrava il miliardario in dollari Frederick Vanderbilt Field, erede di una grande dinastia industriale che aveva abbandonato la sua reggia sulla Quinta Strada di New York per fondare il Partito comunista americano. Strano e bizzarro come possono essere i miliardari figli di miliardari che, forse pentiti della loro ricchezza e in cerca di riscatto etico, si dedicano alla causa proletaria, Vanderbilt fu costretto a riparare in Messico dopo aver teorizzato l’apertura verso l’Unione Sovietica e la Cina. Ospitato nella patria di Pancho Villa, il miliardario progressista raccolse nell’«American Communist Group in Mexico» scrittori, cantanti e artisti che sostenuti dalla letteratura, dalla tequila e da passioni di varia natura celebravano il loro dissenso dalla Washington imperialista, per non dire di peggio. Nel gruppo c’erano, tra gli altri: Norman Mailer, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Bob Dylan, Allen Ginsberg, Jack Keruoac. Insomma, tanta bella gente di quella stagione. In questo scenario Marilyn è una protagonista assoluta. Altro che splendida oca. Nelle sue frequentazioni irreferibili con il capo della Casa Bianca, John Kennedy, e poi con il fratello Robert, ministro della Giustizia, carpisce piani e segreti dell’amministrazione Usa. Nel fruscio delle lenzuola Marilyn apprende che gli americani vogliono invadere Cuba e assassinare Fidel Castro. Le informazioni vengono passate a Vanderbilt che si premura di trasmetterle a l’Avana. Il blitz americano alla Baia dei Porci si trasforma in un disastro. E Hoover, a quel punto, si convince che Marilyn è una spia, una collaboratrice dei comunisti, quindi una traditrice degli interessi vitali del Paese. La «bionda» era diventata un pericolo pubblico. Nella notte del 5 agosto 1962, due mesi dopo il fallito sbarco a Cuba, Marilyn Monroe viene uccisa nella sua villa di Los Angeles. Il suo delitto resta avvolto nel mistero. E qui, per noi, finisce la storia.
Anche se, però, bisognerebbe dare conto, come elenca La Ferla, delle miserie e delle cattiverie seguite alla scomparsa di Marilyn, per le solite storie di eredità, di soldi, di patrimoni, di mariti e amanti mascalzoni e figli sconosciuti apparsi all’improvviso. Bisognerebbe ricordare almeno l’«esemplare» storia della canzone Candle in the rain, composta nel 1973 da Bernie Taupin in memoria di Marilyn. La canzone viene reinterpretata nel 1990 da Elton John per ricordare un amico morto di Aids. Passano sette anni e lo stesso Elton John la ritira fuori dal cassetto, toglie il riferimento iniziale a Marilyn e la dedica alla principessa Diana, schiantatasi sotto un ponte a Parigi nell’agosto 1997. Il disco vende 34 milioni di copie e produce, ovviamente, diritti miliardari. Da un mito femminile all’altro, la canzone va sempre bene. Basta cambiare l’attacco.

l’Unità Firenze 13.3.08
Giordano: «Impossibile l’alleanza con il Pd»

Ma a livello locale il capolista della Sinistra in Toscana Franco Giordano riapre all’Unione

DISTANZA programmatica con il Pd su tutta la linea ma via libera all’esperienza dell’Unione sul territorio se ci sono le condizioni per un’intesa. Il segretario nazionale del Prc Franco Giordano, capolista de “La sinistra L’arcobaleno” in Toscana per la Camera, ieri a Firenze per la campagna elettorale, distingue in modo netto il piano nazionale da quello amministrativo. «Anche quando i socialisti erano al governo a livello locale i comunisti stringevano alleanze con loro». Il problema è che in molte realtà toscane le distanze tra Prc e Pd si sono acuite. «È vero, l’anomalia toscana anticipa le contraddizioni insite nella scelta nazionale del Pd di correre da solo», dice Giordano. Scende nel dettaglio il segretario regionale del Prc Niccolò Pecorini: «Il Pd in Toscana si è fatto prendere un po’troppo la mano da Veltroni. E ha scelto di correre da solo anche in realtà in cui fino ad ora abbiamo governato bene insieme, come a Impruneta. Ma una cosa è farlo, un’altra è vincere, credo che i dirigenti se ne dovranno rendere conto». Auotocritica, invece, per quanto riguarda la formazione delle liste, dove sono confermati molti nomi uscenti. «Scontiamo un deficit di innovazione - ammette Giordano - ma è un premio che dobbiamo pagare all’avvio del processo unitario, per la precipitazione con cui abbiamo dovuto fare le liste». E annuncia: «Ma sarà l’ultima volta. È necessario costruire un metodo democratico per le candidature, anche con le primarie. Dobbiamo radicarci nel territorio e soprattutto presentare il 50% secco di candidature femminili». Attualmente sono ferme al 40%, nel 2006 erano al 41%. Il momento autocritico finisce qui e ogni spiraglio per dialogare con il Pd rimane confinato a livello locale. Perché sul piano nazionale è esclusa ogni possibilità. Nemmeno in funzione strategica per battere la destra. «Le nostre identità politiche sono diverse - spiega Giordano - Noi siamo in grado di dire le stesse cose che erano nel programma dell’Unione: superamento della legge 30, abrogazione della 40. Non può dire altrettanto il Pd». Risultato, per Giordano la Sinistra arcobaleno è candidata a unico movimento di sinistra del paese. «Mi piacerebbe discutere con Zapatero - incalza - ma in Italia non c’è. Veltroni stesso si definisce riformista e non di sinistra». E tira dritto: «Ci sono candidature che parlano più di qualsiasi programma. Si può tenere Calearo e Colaninno e parlare della lotta alla precarietà?». Lo scenario probabile delineato da Giordano, è quello delle grandi intese, come scudo politico per arginare la crisi di Oltreoceano. «Sarebbe gravissimo perché significherebbe scaricarne i costi sul mondo del lavoro - continua Giordano - dove c’è una questione sicurezza da risolvere urgentemente». Il mondo del alvoro è stato al centro della giornata fiorentina di Giordano. In mattinata ha incontrato i rappresentanti Rsu di Telecom, Ginori e Manetti & Roberts. «È necessario riallineare il salario con l’inflazione programmata - conclude - e la lotta di classe è uno strumento importante». Nel pomeriggio l’incontro con i lavoratori dell’Electrolux. Per loro la prospettiva più allettante è la riconversione della produzione sul fotovoltaico. Anche alla luce del piano regionale energetico. Sonia Renzini

Repubblica 13.3.08
Sinistra Cgil contro il sindacalista-candidato

ROMA - Non è piaciuta a una parte del sindacato e alla Sinistra arcobaleno, la stretta di mano tra Paolo Nerozzi, dirigente della Cgil e Massimo Calearo, ex presidente di Federmeccanica, entrambi candidati del Partito democratico. «È un danno di immagine per la Cgil» ha detto Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom, mentre il segretario generale, Gianni Rinaldini ha definito l´incontro tra i due candidati una «sceneggiata triste». Secondo Maurizio Zipponi della Sinistra arcobaleno, quella stretta di mano, simbolo del "patto tra produttori" promosso dal leader del Partito democratico Walter Veltroni «è una tassa che Nerozzi ha dovuto pagare per essere candidato nel Pd».

Repubblica 13.3.08
Interruzioni di gravidanza fai-da-te con i farmaci fenomeno in aumento, i medici lanciano l'allarme

ROMA - Allarme per gli aborti fai-da-te, quelli fatti acquistando pillole su internet o tramite canali illegali, farmaci che hanno come effetto collaterale l´espulsione del feto. «È un fenomeno in crescita e incontrollato al quale è necessario porre degli argini», denuncia il presidente della Federazione degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri, la Fnomceo. E gli aborti di questo tipo sono estremamente pericolosi. «L´uso improprio di farmaci destinati ad altre funzioni può portare a conseguenze gravi», dice il farmacologo Silvio Garattini. I rischi maggiori, sottolinea, sono quelli di forti emorragie ed infezioni.

Corriere della Sera 13.3.08
Saviano: «Ho detto no ai partiti: dimenticano la mafia»
di Marco Imarisio

Saviano, autore del bestseller «Gomorra», racconta come i partiti, da An al Pd alla Sinistra Arcobaleno, l'abbiano cercato: «Ma non parlano più di mafia» .

Lo scrittore «Sulla criminalità una rimozione bipartisan»
Saviano: dico no alla politica che non parla più di mafia
«Mi volevano dal Pd ad An. Ma non posso essere di parte»

Vorrei tanto che il centrodestra riprendesse i valori dell'antimafia, quelli che aveva Almirante e che avevano ispirato Borsellino 17 Settembre 2007
L'intellighenzia di sinistra dà sempre per scontato che la mafia stia dall'altra parte. Il complesso di superiorità applicato alla criminalità

ROMA — Roberto Saviano è ancora un ragazzo. E ogni tanto riesce anche a sorridere, con le labbra che si tendono su una faccia sempre più tesa, sempre più pallida. Quando racconta della presentazione di Gomorra
ad Helsinki, con lo speaker che lo introduce come «Roberto Soprano», e i finlandesi che sono lì soltanto per via della serie televisiva americana, riesce pure a ridere di «loro». Li chiama così, «loro». I suoi nemici. Come se fosse una questione personale, tra lui e i mafiosi di Casal di Principe che lo hanno costretto ad una vita infame, da animale braccato.
Quella di Saviano è una storia di paradossi. Con il suo libro ha avuto fama, celebrità, il traguardo del milione di copie vendute tagliato in questi giorni. Con il suo libro ha perso il resto, la libertà personale, la possibilità di vedere il mondo con i propri occhi. «È come se mi sentissi sempre in colpa» sintetizza così il suo stato d'animo, come se qualcuno andasse da sua madre a chiedere «cosa ha fatto tuo figlio?» Ad un certo punto, Saviano si era anche convinto che in Italia ci fosse qualcuno disposto a condividere la sua ossessione. Da Walter Veltroni alla Sinistra Arcobaleno, passando per il Popolo della Libertà, sponda An, tutti hanno cercato l'autore di Gomorra,
blandendolo con la lotta al potere mafioso. «Ma non è il mio mestiere. Non si può parlare di mafia ad una sola parte politica. È un argomento sul quale non ci si può permettere di essere partigiani. La mia responsabilità è la parola ».
Chi è stato il più insistente?
«Quando Veltroni mi ha chiamato nel suo ufficio al Campidoglio, abbiamo parlato a lungo di mafia e appalti. Mi disse che quello sarebbe stato uno dei primi punti della sua agenda».
Promessa mantenuta?
«Non mi sembra. Ma il Pd è in buona compagnia. Purtroppo, la lotta alla mafia è la grande assente di questa campagna elettorale, a sinistra come a destra».
Altri pretendenti?
«Fausto Bertinotti mi ha fatto arrivare una proposta tramite l'assessore regionale campano Corrado Gabriele. Io ho molto apprezzato il lavoro di Forgione alla commissione antimafia, ma credo che anche la sinistra debba fare outing, e ammettere di non essere stata così rigorosa nell'allontanare gli affaristi collusi con la mafia».
Avanti con l'elenco delle avances.
«Alleanza nazionale mi ha mandato messaggi di apprezzamento. Persino l'Udeur prima che si dissolvesse».
Destra, sinistra, centro.
«Io sono cresciuto in una terra dove Pci e Msi stavano dalla stessa parte, contro la camorra. E vorrei tanto che il centrodestra riprendesse i valori dell'antimafia, quelli che aveva Giorgio Almirante e che avevano ispirato Paolo Borsellino. Li vedo trascurati, nonostante una base che al Sud ha voglia di sentirli affermare».
A sentirla, non sembra che il Pd sia molto più attivo.
«Affatto. Anzi, a Veltroni ho detto che a mio parere anche il centrosinistra ha commesso molti errori in questi anni».
Il più grande?
«L'intellighenzia di sinistra dà sempre per scontato che la mafia stia dal-l'altra parte. Il complesso di superiorità applicato alla criminalità organizzata. Credersi immune dalle infiltrazioni, pensare che questo sia sempre e solo un problema degli altri. Le dico di più: spero che il Pd riesca a non aver paura di perdere le elezioni pur di cambiare. Solo così potrà davvero vincere».
Dove vuole arrivare?
«Spero che non abbia paura di parlare del voto di scambio, di denunciarlo. Fino ad ora non lo ha fatto nessuno. Ed è il voto di scambio che determinerà l'esito delle prossime elezioni. Si vince o si perde nei piccoli paesi, dove il clientelismo è l'unica moneta corrente. Si vincono le elezioni per bollette pagate, cellulari regalati, di questo bisogna parlare. La vera sfida sarebbe quella di non svendere il voto. E alzare la voce, denunciare».
E invece?
«Il grande silenzio. La mafia è la più grande azienda italiana, il suo giro d'affari è il triplo di quello della Fiat. È innaturale che non se ne parli in campagna elettorale. Ma è così. Al massimo qualche cosa simbolica, una celebrazione, qualche commemorazione. Una rimozione bipartisan».
Si è chiesto il perché?
«È un tema pericoloso sul piano della comunicazione. Se qualcuno parla di mafia, molta gente pensa che si stia occupando soltanto di una parte ben circoscritta del Paese, che si interessi di cose ai margini, lontane. Nessuno è riuscito a far passare l'idea che la mafia sia qualcosa che riguarda anche Milano, Parma, Roma, Torino. È tornata ad essere un fatto esotico, lontano, noioso».
«Non valete niente». Era il 23 settembre 2006 quando sfidò i boss di Casal di Principe a casa loro. Lo rifarebbe?
«A vedermi da fuori, come se non fossi stato io, lo rifarei. Ma sarei falso se non dicessi che con quel gesto ho distrutto la mia vita. Mi è diventato impossibile vedere il mondo, confrontarmi con altre persone, poter sbagliare. Sono diventato un simbolo, ma in cambio ho perso tutto».
Quando ha scritto Gomorra, cosa si aspettava?
«Confesso l'ambizione. Volevo fare un libro che davvero cambiasse le cose. All'inizio, la camorra lo ignorò. I miei problemi cominciarono verso le centomila copie. La gente pensa che io sono come Salman Rushdie, colpito da una fatwa della camorra. Ma non è così. Lui rischia per quel che scrive, io perché mi leggono. Non è Saviano ad essere pericoloso, ma Gomorra
e i suoi lettori».
Il disinteresse della politica rende più difficile la sua situazione?
«Acuisce la solitudine, questo sì.
Gomorra ha fatto sì che la letteratura diventasse un problema per la mafia. Parlarne è un modo per fermarli. Perché la politica non fa lo stesso? È come se questo paese non accettasse di essere raccontato così. Ma è il silenzio che ci distrugge».
Se pensa al suo futuro, cosa immagina?
«Spero di riavere la mia libertà, un giorno. Come un ragazzino, immagino di aprire la porta e poter camminare in strada, da solo. Ma è solo un sogno».
E la realtà?
«Me la faranno pagare. Troveranno un modo per colpirmi. Prima con la diffamazione, diranno che è tutto falso, l'operazione di un ragazzotto assetato di visibilità. Poi chissà. È l'unica certezza che ho».

Corriere della Sera 13.3.08
Per il Campidoglio La vicepresidente di Scienza e Vita: sui valori fronte comune tra fedeli dei due poli
Cattolici in corsa a fianco di Rutelli
In 15 con la Scaraffia nella lista civica: «Anche Roma affronti i temi bioetici»
di Roberto Zuccolini

ROMA — «Fra tante voci che parlano c'è bisogno che venga ascoltata anche la nostra ». E così Lucetta Scaraffia decide di candidarsi nella lista civica di Francesco Rutelli alla riconquista del Comune di Roma, con il preciso compito di rappresentarne l'anima cattolica.
Docente di Storia contemporanea, pur avendo un curriculum molto diverso, milita come la senatrice teodem Paola Binetti in Scienza e Vita, associazione dove ricopre la carica di vicepresidente. E la battaglia promessa è simile: «Sarebbe importante affrontare anche a Roma i temi che riguardano la bioetica ». Ma questa tornata elettorale la vede invece contrapposta (anche se si tratta di un'altra campagna, quella delle politiche) a Eugenia Roccella: l'ex radicale approdata, anche lei, tra i cattolici vicini a Scienza e Vita e animatori degli ormai vari
Family Day, è infatti candidata nel Pdl di Silvio Berlusconi.
Scaraffia promette di svolgere una precisa «missione» nella lista collegata a Rutelli: «I cattolici della Capitale sono conosciuti soprattutto a livello sociale.
Ed è giusto che sia così. Ma io cercherò di portare avanti una battaglia soprattutto sul piano culturale. Penso alle discussioni pubbliche, quelle che si potrebbero tenere all'Auditorium, a temi che riguardano la difesa della vita. E non solo: anche ad altri eventi come il 150˚ anniversario dell'Unità d'Italia. Ovviamente in un contesto pluralista, discutendo sempre con autorevoli interlocutori laici, ma con la possibilità, per i cattolici, di essere visibili e di avere una loro dignità».
La lista civica «Roma per Rutelli » ospiterà quindi anche cattolici impegnati, come Consuelo Battistelli, non vedente, responsabile dell'accessibilità per l'Ibm, insieme a tanti altri, ad attori come Francesco Siciliano e jazzisti come Lino Patruno. Ma conferma, di fatto, anche la diaspora dei cattolici tra i vari partiti di destra, di centro e di centrosinistra, in questa tornata elettorale, sia a livello nazionale che a livello locale.
Per Lucetta Scaraffia non è comunque un problema, anzi una ricchezza: «È come a Scienza e Vita: so benissimo che fra di noi c'è chi simpatizza per schieramenti anche opposti tra loro. Ma sulla fedeltà ai valori irrinunciabili si continua a fare fronte comune. E sarà sempre così. Non può essere altrimenti ».

Corriere della Sera 13.3.08
Argentina. È la prima vittima dei golpisti a portare in tribunale la famiglia
Figlia di desaparecidos denuncia i genitori adottivi «Sono ladri di bambini»
«Voglio per loro 25 anni di carcere»
di Alessandra Coppola

Quelli che pensi siano i tuoi genitori, irascibili e violenti ma comunque la tua famiglia, un giorno scopri che sono dei «ladri», che t'hanno sottratto neonata a una donna rinchiusa in un centro clandestino di tortura «per soddisfare il desiderio egoista di avere un figlio»: «In nome di tutti i bambini nelle mie condizioni, nell'interesse dell'intera società» María Eugenia Sampallo Barragán vuole adesso — ed è il primo caso in Argentina — che quella coppia sia riconosciuta colpevole di sequestro e negazione di identità, e condannata al massimo della pena, 25 anni di galera. Gli stessi chiesti ieri dal pm. Più o meno il periodo che lei, ora trentenne, ha passato a casa dei due impostori, la signora Gómez e il signor Rivas, con la finta madre che non faceva che gridare e una volta — così ha testimoniato in aula una vicina — arrivò a dirle: «Se sei tanto ribelle devi essere figlia di una guerrigliera...». Comunque non sua.
Il 24 luglio del 2001 l'esame del Dna ha provato definitivamente che María Eugenia è nata da due militanti comunisti, Mirta Mabel Barragán e Leonardo Ruben Sampallo, operai attivi nel sindacato e per questo nel 1977 sequestrati e fatti sparire dalle squadre al servizio dei militari golpisti.
Rinchiusa nel centro di tortura Club Atlético e poi a El Banco, Mirta viene tenuta in vita fino al '78: è incinta, e la bimba che dà alla luce a febbraio di quell'anno può rientrare nel «traffico» di figli di dissidenti (almeno 500, calcolano le Nonne di Plaza de Mayo, 88 ritrovati finora) affidati a famiglie vicine al regime.
È la sorte di María Eugenia. Grazie all'intervento dell'ex capitano Berthier — coimputato dei finti genitori nel processo in corso a Buenos Aires — vecchio amico della Gómez, la coppia a maggio del '78, riceve la neonata e usando un falso certificato di nascita la registra come figlia propria.
«Un oggetto — accusa l'avvocato della ragazza —. Rivas e Gómez non sono mai stati una famiglia per lei. La trattarono come un oggetto, cancellarono la sua identità e la privarono del legame con la sua famiglia, che l'ha cercata per 24 anni». Certamente l'ha fatto la nonna Barragán. Ma anche un fratello maggiore, nato dalla precedente unione della madre, come nella trama del film Hijos (figli) dell'italoargentino Marco Bechis si è impegnato tanto per ritrovarla.
I primi dubbi a María Eugenia vengono già da bambina e sono gli stessi genitori a instillarglieli. Quando la piccola ha 7 anni, Rivas e Gómez le confessano che è stata adottata, inventando però via via delle storie sempre più perverse: che i suoi veri genitori sono morti in un incidente d'auto, che sua madre è una domestica che ha regalato loro la bambina, anzi no, che è un'hostess rimasta incinta in Europa in seguito a una relazione extraconiugale...
Una marea di bugie, unite a liti furibonde e maltrattamenti, che nel 2000 — María Eugenia già è andata via di casa da due anni — convincono la ragazza a bussare alla porta della Commissione nazionale per il diritto all'identità (Conadi), istituita presso il ministero della Giustizia argentino. A riceverla è Claudia Carlotto, coordinatrice della Conadi — nonché figlia della leader delle Nonne di Plaza di Mayo, Estela — che l'aiuta ad avviare le ricerche per l'identificazione dei veri genitori (è proprio lei a comunicarle il nome della madre), e a impostare il processo ora arrivato alla fase del dibattimento.
Un percorso faticoso e commovente per María Eugenia, raccontano, fatto anche di pressioni psicologiche, di telefonate mute e intimidazioni, soprattutto da parte di quel capitano Berthier, l'intermediario coimputato, il vecchio e ambiguo amico di famiglia.
«María Eugenia è una ragazza molto coraggiosa — dice al telefono Estela Carlotto —, la prima vittima in Argentina a portare in tribunale i "ladri" che l'hanno sequestrata. Ci auguriamo che la condanna sia esemplare».

Corriere della Sera 13.3.08
La responsabile esteri del Psoe risponde al primate di Spagna
«Nel mirino di Zapatero l'intesa tra cattolici integralisti e popolari»
di Elisabetta Rosaspina

MADRID — Zapatero sciupafamiglie? In un certo senso, sì. Elena Valenciano, segretaria alle relazioni internazionali del partito socialista spagnolo ed europarlamentare, legge le dichiarazioni del primate di Spagna, il cardinale di Toledo Antonio Cañizares, al Corriere della Sera, e riconosce che effettivamente un matrimonio c'è, nel mirino della riconfermata maggioranza di governo: «L'unione tra la cupola del partito popolare e la cupola integralista della chiesa spagnola. Quello sì, è un accordo che sarebbe bene si rompesse finalmente».
Nell'interesse della stessa opposizione, aggiunge: «Mariano Rajoy sa che deve rompere questo rapporto se vuole conquistare il voto di centro. È vero che ha una base importante di elettori, ma non potrà mai vincere senza i voti di quanti rifiutano l'intromissione della gerarchia ecclesiastica nella politica. Il Pp ha bisogno del voto laico. La Spagna è un Paese cattolico, ma libero. Non vive come la Chiesa predica, vietando i rapporti sessuali prematrimoniali o l'uso dei preservativi. Sono direttive insostenibili nel tempo».
Nonostante l'indifferenza ostentata in questi giorni da José Luis Rodríguez Zapatero, i socialisti seguono con interesse le manovre in casa avversaria e sono convinti che almeno due battaglie parallele siano in corso: una all'interno del partito conservatore e una nell' episcopato. «Vedremo come va a finire — non ha fretta Elena Valenciano —. Ma è chiaro che la radio della Conferenza episcopale, Cadena Cope, e i giornali vicini alla destra più determinata non sostengono più Rajoy e pretendono le sue dimissioni. Anche nella cupola ecclesiastica non c'è omogeneità. Il nuovo presidente della Cee, Antonio Maria Rouco Varela, eletto per un solo voto, sembra voler smorzare i toni della polemica con il governo, mentre Cañizares, con le sue dichiarazioni, va in un'altra direzione ». Modi diversi di manifestare la medesima opposizione alla politica sociale di Zapatero? «Soltanto in Spagna si vedono i vescovi manifestare per le strade. Non si è visto in Italia e nemmeno in Polonia — obietta Elena Valenciano —. La verità è che la legge sull'aborto è la stessa che era in vigore con il governo Aznar, quando la chiesa non protestava, e che l'eutanasia è rimasta illegale in Spagna anche nell'ultima legislatura ». Il cardinale Cañizares prevede però un ampliamento della legge sull'aborto, nella prossima: si sbaglia? «C'è l'intenzione di migliorare la legge, per aumentare le garanzie e la privacy delle donne. Gli aborti sono quasi impraticabili nella sanità pubblica per l'obiezione di coscienza dei medici, che però intervengono in quella privata».
Elena Valenciano non prevede cambiamenti nelle relazioni fra Stato e Chiesa: «Probabilmente sarà sempre Maria Teresa Fernández de la Vega a tenere i rapporti con la gerarchia ecclesiastica. E soltanto se i problemi con i vertici della Conferenza Episcopale dovessero peggiorare, chiederemo l'intervento diretto del Vaticano ».

Corriere della Sera 13.3.08
Così sarà il mio Baudelaire
Un poeta per difendere la nostra cultura, minacciata dall'esterno
di Roberto Calasso

Vorrei innanzitutto ringraziare Antoine Gallimard e Marc Fumaroli per le loro parole, quanto mai generose e per me tanto più significative, data l'antica ammirazione che provo per entrambi. Ma, oltre che a loro, vorrei dire la mia gratitudine a un testimone muto, che è il luogo dove ci troviamo in questo momento. Devo confessarvi che sono un devoto osservatore e cultore delle coincidenze, nelle quali intravedo le ultime tracce nel nostro mondo di quelli che i veggenti vedici chiamavano i bandhu, le «connessioni». Ora, si dà il caso che questo luogo ne racchiuda una che per me è trascinante.
Innanzitutto da qui sono usciti quei libri che, quando da ragazzino li vedevo schierati in drappelli compatti, nella loro elegante divisa bianca con filetti neri e rossi, sul primo banco a sinistra della libreria Seeber a Firenze, significavano la Francia stessa e la sua letteratura, traboccanti di malie e di misteri. Ma c'è anche qualcos'altro: esattamente qui, al 17 di rue de l'Université, abitò in un periodo cruciale della sua vita e della Francia, nel 1790, un personaggio che sarebbe poi diventato per me lo Hermes psicopompo nell'impresa che ho avviato con La rovina di Kasch:
Monsieur de Talleyrand. Perciò in certo modo è come se la quintessenza della mia doppia vita, di scrittore e di editore, si fosse cristallizzata fra queste mura.
Nulla potrebbe aiutarmi meglio a spiegare quella sorta di compulsione — o altrimenti attrazione magnetica — che ha condotto sempre di nuovo chi vi parla verso questi luoghi. Una compulsione che proverò brevemente a raccontarvi. Tutto comincia con tre volumi Gallimard, la prima edizione della Recherche di Proust nella Pléiade, che fu il più bel regalo di Natale che abbia mai ricevuto. Era il 1954 e avevo tredici anni. Ricordo che mi ero fatto male a un ginocchio e dovevo restare immobile a letto per qualche giorno. Fu allora che mio padre mi portò quei tre volumi, nei quali mi immersi con un senso di ebbrezza che forse non ho più incontrato.
Pochi mesi dopo, Parigi fu la prima città straniera dove mi trovai a vivere da solo. Abitavo da amici dei miei nonni a Montmorency e ogni mattina prendevo il treno per Parigi da Enghien. Poi, fino alla notte, vagavo ovunque. Non credo di aver mai camminato senza meta in un luogo per così tanti chilometri come a Parigi in quelle settimane. E non vi è città di cui abbia mai conosciuto così bene la rete del métro, con una sorta di partecipazione erotica ai nomi delle stazioni, un po' come accadeva a Marcel per le stazioni ferroviarie intorno a Balbec. E il métro anche mi nutriva, con i suoi automates pieni di sucreries che mi fornivano energia per camminare.
Da quei giorni un filo teso e ininterrotto mi collega al punto in cui, circa trent'anni fa, tracciai un primo disegno, piuttosto temerario, di un'opera composta da vari pannelli al tempo stesso autosufficienti e interconnessi. A oggi, di quell'opera sono apparsi cinque volumi, che formano un insieme di più di duemila pagine. Li si potrebbe definire il romanzo di una famiglia capillarmente ramificata, eccentrica e migratoria, i cui membri si possono incontrare nella Francia sia di Port-Royal sia del Palais-Royal come nella Grecia di Omero e di Nonno, nell'India dei veggenti vedici o nel paese senza nome di Franz Kafka o nella Venezia di Giambattista Tiepolo. Per introdurre le storie di questa turbolenta famiglia avevo bisogno di un maestro di cerimonie — e uno solo si impose di autorità: era M. de Talleyrand, il quale a pochi metri da qui una sera introdusse in società, nel corso di un ballo memorabile per Joséphine all'Hôtel Galliffet, colui che avrebbe istituito la Légion d'Honneur ed era allora il generale Bonaparte. E così come, nella Rovina di Kasch, Talleyrand guida il racconto attraverso una fuga di saloni, nella sesta parte di questo romanzo di famiglia, che dovrebbe essere pubblicata nell'ottobre di quest'anno, a fare da guida sarà ancora una volta qualcuno che è nato non lontano da qui, a un incrocio di boulevard Saint-Germain. Si tratta di Charles Baudelaire — e i primi passi della narrazione non saranno nei salons descritti dalla duchessa d'Abrantès ma nei Salons della pittura, dove Baudelaire cominciò a esercitare la sua prosa.
Tutto questo mi induce a pensare che, quando mi trovo a uno snodo decisivo in questo abnorme romanzo di famiglia, qualcosa mi spinge irresistibilmente verso l'aria e le storie dei luoghi dove ci troviamo in questo momento. E, se mi domando perché, penso subito a Cioran, il quale preferiva la sua mansarda della rue de l'Odéon a ogni altro domicilio, non solo perché gli permetteva di fare agevolmente lunghe passeggiate solitarie al Luxembourg, ma perché aveva la vaga impressione che la stessa rue de l'Odéon fosse una sorta di perno cosmico, in qualche modo congeniale alla sua ipocondria ed euforia balcaniche. Cioran era convinto che in questa lingua, in queste strade e nella loro storia si celasse qualcosa che coinvolge nella sua interezza quel «piccolo capo del continente asiatico » (come diceva Valéry) in cui ogni europeo ha avuto in sorte di nascere. È un punto su cui ho sempre concordato pienamente con Cioran — e oggi vorrei solo aggiungere, come preliminare a ogni altra considerazione, le parole che ha detto una volta in un'intervista del 1985 (si osservi la data), il glorioso decano degli scrittori francesi, Claude Lévi-Strauss: «Ho cominciato a riflettere in un'epoca in cui la nostra cultura aggrediva altre culture — e a quel tempo mi sono eretto a loro difensore e testimone. Oggi ho l'impressione che il movimento si sia invertito e che la nostra cultura sia finita sulla difensiva di fronte a minacce esterne, fra le quali figura probabilmente l'esplosione islamica. E di colpo mi sono ritrovato a essere un difensore etnologico e fermamente deciso della mia stessa cultura».

Corriere della Sera 13.3.08
Guido Paduano analizza il carattere degli eroi
Achille, Odisseo, Enea ovvero l'egoismo l'intelletto e l'altruismo
di Eva Cantarella

L'eroe, alla cui figura e tipologia è dedicato il bel libro di Guido Paduano ( La nascita dell'eroe. Achille, Odisseo, Enea: le origini della cultura occidentale) èun personaggio — superfluo dirlo — diverso dagli altri; ma le sue qualità variano nel tempo e nella pluralità delle culture. Le qualità di Achille, per limitarci a un esempio, sono molto diverse da quelle di Giovanna d'Arco, di Robin Hood o di Re Artù. E insieme al modello eroico, si dice, cambia anche l'atteggiamento della società nei confronti dell'eroismo. Nel mondo moderno, sostengono alcuni, l'ideale eroico, perso il fascino e la funzione di un tempo, è stato «decostruito». Sul che sembra lecito avere dei dubbi: a seguito di un radicale mutamento di valori, piuttosto, l'ideale eroico è stato dislocato.
Chi considererebbe un eroe, oggi, un personaggio come Achille? Uomo ferocissimo, tra l'altro diverso non solo dagli eroi odierni, ma anche da quelli greci classici: Leonida, ad esempio, il generale spartano che nel 480 a.C., con i suoi soldati, riuscì a bloccare per tre giorni al passo delle Termopili l'immane esercito persiano e, infine, accerchiato, rifiutò di arrendersi, sacrificando la vita sua e dei suoi celebri Trecento. Leonida muore per la patria, per il bene comune. Achille non si sarebbe mai sognato di fare una cosa simile: per lui, quel che contava era l'interesse suo, privato, non di rado brutalmente egoista. Che importava se, dopo che si era ritirato dalla battaglia perché Agamennone gli aveva sottratto la schiava-concubina Briseide, i greci morivano a migliaia? Agamennone gli aveva fatto un torto, aveva offeso il suo onore: che i greci morissero pure, a lui non interessava. Solo quando Ettore uccide l'amatissimo Patroclo, l'eroe riprende le armi. Per fare vendetta. Ma allora, quali sono le qualità che fanno di lui il personaggio che rappresenta il modello eroico nell'Iliade?
La figura eroica, scrive Paduano, è una singolarità che sollecita ad approfondire la condizione umana, guidando nell'esplorazione di territori sconosciuti. E poiché nulla è più sconosciuto della morte, l'eroe è, in primo luogo, quello le cui azioni non sono mosse dal-l'istinto di conservazione, comune agli altri «mortali» (brotoi). L'eroe afferma il primato dell'essere umano sulla morte. E nei grandi poemi classici, ci mostra Paduano, lo fa in forme diverse, che vengono a costituire tre modelli dello statuto della dimensione eroica distinti tra loro, ma in stretta relazione l'uno con l'altro, così come sono in relazione i tre poemi che li celebrano.
L'Odissea, superfluo dirlo, presuppone la guerra di Troia, raccontata dall'Iliade: senza di questa, non vi sarebbero i «nostoi», i racconti dei ritorni in patria degli eroi greci. E la tipologia eroica di Odisseo, protagonista di un ritorno, è diversa da quella di Achille. L'impossibilità di misurare l'indicibile superiorità di Achille sui commilitoni e sui nemici è tale da fare di lui la «singolarità assoluta». Nessun altro è comparabile a lui. La sua relazione con la morte è diversa da quella degli altri eroi. A differenza di questi, egli non spera nel ritorno; sa, senza possibilità di dubbio, che da quella guerra non tornerà, e domina questa certezza, prezzo della sua gloria eterna.
Diverso il caso di Odisseo, che nel ritorno investe tutte le sue capacità. Nel corso del viaggio, egli rifiuta il dono dell'immortalità: la ninfa Calipso, innamorata di lui, glielo offre a condizione che resti con lei, nella sua isola fiorita. Ma per Odisseo la dimostrazione del valore non sta nel superare la morte, offerta contro prezzo; sta nello sconfiggere chi tenta di usurpare il suo potere e rubargli la moglie, sta nel restaurare la vita civile a Itaca. Il ritorno gli consente di mettere alla prova le qualità di un nuovo eroe, possessore di astuzia e intelligenza, le qualità che gli fanno sconfiggere il Ciclope. Ulisse è l'eroe della ragione.
Quanto all'Eneide, la relazione con i poemi più antichi emerge dal continuo rimando a motivi omerici. Virgilio non può essere letto senza Omero. Ma, lo abbiamo visto, il confronto non significa solo dipendenza: Odisseo è diverso da Achille, e l'eroe di Virgilio è diverso da ambedue. Il destino di Enea, che avrebbe voluto morire con la sua città, è quello di vivere — pur sentendone il disagio — per realizzare un disegno divino, che peraltro egli condivide: la costruzione del mondo di Augusto. Si imparano queste e molte altre cose, leggendo il bel libro di Guido Paduano. Si leggono in chiave diversa storie e personaggi che si pensava di conoscere: ma che, si scopre, hanno molte altre cose da dirci.

Corriere della Sera 13.3.08
Com'era ingenuo il giovane Rilke
di Paola Capriolo

È noto che negli anni della maturità Rainer Maria Rilke prese le distanze dalle sue prime pubblicazioni, tanto dallo sconsigliarne all'editore la ristampa definendole «un punto di partenza sbagliato nella parabola ascendente dell'opera pura». Se questo giudizio si riferiva principalmente alla produzione poetica, possiamo supporre che l'autore non fosse più tenero nei riguardi dei suoi racconti giovanili, rimasti in gran parte inediti fino a quando, nel 2004, il Rilke-Archiv li raccolse in un volume curato da August Stahl e ora tradotto in italiano da Nicoletta Dacrema con il titolo Serpenti d'argento (Guanda, pp. 234, e 16,50). In effetti, queste prove non lasciano minimamente presagire il genio futuro dell'autore. Dimostrano, è vero, un certo istinto narrativo, che in parte andrà perduto nelle opere più mature; ma lo stile è quasi sempre di un'ingenuità disarmante e soprattutto di una sorprendente banalità, come se l'esordiente avesse fretta di ripercorrere tutti i cliché del naturalismo e del simbolismo prima di intraprendere la faticosa ricerca di una propria voce personale. Sotto gli occhi del lettore sfila un'impressionante galleria di creature infelici (bambini maltrattati, povere sartine, mogli incomprese), tutte crudelmente ferite dalla vita e deluse, in special modo, dalle relazioni amorose. Le più accorte o rassegnate, come la coppia di fidanzati del racconto Due sognatori, arrivano addirittura a giocare d'anticipo separandosi di comune accordo prima di incorrere nell'inevitabile disillusione; ma non vi è pagina in cui non si respiri un acuto terrore della realtà e del suo potere di distruggere le nostre speranze. Difficile immaginare cammino più lungo e impervio di quello che conduce da un pessimismo così ossessivo alla «lode infinita » celebrata nei Sonetti a Orfeo o all' «Essere qui è splendido» che, nella «Settima Elegia», squarcia come un lampo il cielo incupito di un'epoca; eppure proprio lui, il triste sognatore atterrito dalla durezza del mondo, sarebbe arrivato a rivendicare di fronte agli angeli la grandezza del destino terreno, e forse non avrebbe potuto farlo con tanta persuasività senza il lento, assiduo apprendistato della disperazione di cui questi racconti ci offrono una testimonianza.

Corriere della Sera 13.3.08
Il pensiero occidentale
La non-contraddizione: un «male» necessario
di Armando Torno

Il principio di non-contraddizione è presente in tutta la storia del pensiero occidentale, da Parmenide in poi. Su di esso hanno riflettuto i sommi, da Leibniz a Kant a Hegel. Oggi lo conosciamo attraverso l'espressione cara ai logici: è impossibile che una cosa insieme sia e non sia. Aristotele, nella Metafisica, ci offrì la formulazione classica: «Niente può insieme essere e non essere la stessa cosa»; Tommaso d'Aquino nella Summa Theologiae lo sciolse: «Non si può insieme affermare e negare la stessa cosa».
Ora Gianluigi Pasquale, discepolo di Rino Fisichella e professore di teologia dommàtica alla Lateranense, ci offre un prezioso saggio intitolato Il principio di non-contraddizione in Aristotele (è la traduzione dalla seconda edizione del 2006, scritta in inglese per la prestigiosa Academia Verlag). Ci ricorda che in «ogni attimo della nostra breve esistenza» utilizziamo codesto principio, indimostrabile e al tempo stesso inevitabile, che la logica classica ha sempre ritenuto base essenziale del ragionamento. Il saggio di Pasquale offre nuove prospettive di lettura, indicando la possibilità di giustificare il celebre assunto attraverso la conoscenza intuitiva, riconoscendone l'indimostrabilità ma anche il carattere non ipotetico. Pagine che ripercorrono il testo aristotelico con grande competenza, chiamando in causa pensiero e storiografia filosofica contemporanea da Severino a Berti, da Ayer a Tarski, da Reale a Ross.
G. PASQUALE Il principio di non-contraddizione in Aristotele BOLLATI BORINGHIERI PP. 102, e 13

Corriere della Sera 13.3.08
Presentata l'edizione critica. Salvatore Settis: escluso che sia dell'800. I dubbi filologici
«Artemidoro, il papiro non è un falso»
Gli esperti a Berlino: l'analisi chimica lo fa risalire al I secolo dopo Cristo
di Dino Messina

BERLINO — Il papiro di Artemidoro campeggia da ieri in una sala dell'Altes Museum di Berlino, circondato da altri antichi reperti ellenistici ed egizi. E con l'apertura della mostra viene esibita anche un'edizione critica senza eguali, considerata dai curatori, Claudio Gallazzi, antichista dell'università di Milano, Barbel Kramer, dell'università di Treviri, e Salvatore Settis, storico dell'arte antica e direttore della Normale di Pisa, la «prova del nove» che quella sottile e preziosa pergamena acquisita dalla Fondazione per l'arte della Compagnia di San Paolo per 2.750.000 euro sia autentica. O meglio, proprio di Artemidoro non è, ma è una copia che risale «almeno al primo secolo dopo Cristo».
In realtà di argomentazioni per contestare l'ipotesi del falso sostenuta da Luciano Canfora ne sono state portate parecchie. Lo ha fatto ieri sera Settis durante una lectio magistralis, continueranno oggi gli altri studiosi italiani e stranieri in un convegno interdisciplinare.
Innanzitutto per la prima volta verranno resi noti dal fisico Pier Andrea Mandò, del Labec, il Laboratorio per i beni culturali di Firenze, le conclusioni delle analisi chimico fisiche condotte sul papiro e sull'inchiostro. «Le analisi condotte con il carbonio 14, utilizzando la tecnica della spettroscopia di massa con acceleratore su tre campioni del papiro — ci ha detto Mandò — ci fa dire che al 95% il reperto può essere datato tra il 40 avanti Cristo e il 130 dopo Cristo: al 68% l'intervallo di probabilità è compreso tra il 15 e l'85 dopo Cristo». Anche sulla base di questi risultati, ha confessato Gallazzi, «abbiamo spostato, di circa un secolo la datazione del testo, rispetto a una prima ipotesi del 1998. Dal I secolo avanti Cristo al primo dopo Cristo». Non l'originale dunque del II libro della Geografia di Artemidoro, ma una sua copia fatta su un papiro che secondo la famosa teoria delle tre vite, ribadita ieri sera da Settis, fu abbandonato per un errore, quindi servì in un primo tempo come repertorio con disegni di animali reali o fantastici in una bottega artigiana, quindi fu usato per disegni anatomici. Le analisi chimiche hanno riguardato anche l'inchiostro. «Il papiro di Artemidoro — ha detto Mandò — è stato scritto con inchiostro vegetale, a base puramente organica, non con inchiostro metallo-gallico, basato cioè su sali metallici, come si usava nell'Ottocento». Una affermazione che escluderebbe totalmente l'ipotesi avanzata da Canfora secondo cui il papiro potrebbe essere opera di un falsario greco vissuto nell'Ottocento, Costantino Simonidis.
E la prova di polvere di grafite che un anno fa trapelò da un laboratorio di Brescia? «Si tratta di cristallizzazioni di sostanze vegetali avvenute successivamente ». Dall'analisi chimico fisica a quella dello stile, i curatori del volume non hanno trascurato nessun aspetto, tanto da chiedere il contributo del filologo della Sapienza di Roma, Albio Cesare Cassio, convinto assertore dell'autenticità ma anche del fatto che Artemidoro, soprattutto nelle prime due colonne del testo, una sorta di proemio che canta le lodi della geografia, «era scrittore a tratti involuto, diremmo oggi barocco, raro esempio di prosa "asiana". Ma di qui a sostenere, come fa Luciano Bossina, che si tratti di un linguaggio teologico risalente a epoche bizantine ce ne corre. L'errore che fanno i sostenitori dell'ipotesi che il papiro sia un falso è di non considerare quanto sia grande il patrimonio perso della cultura antica, sicché quasi ogni papiro scoperto ci propone una parola che non conoscevano o ci fa retrodatare di secoli l'uso di un altro termine».
Questo è l'argomento usato contro chi come Stefano Micunco ha sostenuto che alcune parole, quali
kenalopex, anatra con volpe, fossero state attinte dal falsario Simonidis addirittura da repertori del 1600. «Considero Canfora — ci confida Cassio — uno studioso di intelligenza e competenze superiori alla media, ma questa volta lui e i suoi allievi si sono innamorati di una ipotesi sbagliata».
Il problema, incalza Settis, «non è l'interpretazione di Canfora, ma i problemi aperti da questo papiro che nemmeno l'edizione critica riesce a risolvere appieno. Qual è per esempio la funzione di quella cartina in cui si vedono strade, fiumi e vignette ma senza precise indicazioni toponomastiche?». Forse si tratta di una parte della Spagna descritta nelle colonne quarta e quinta del testo, ma non ne siamo sicuri.
E l'obiezione di fondo secondo cui il papiro di Artemidoro conterrebbe una sintesi fatta da Marciano, poi ripresa da Stefano di Bisanzio, quindi nel decimo secolo da Costantino Porfirogenito, quindi edita e corretta nel 1800 da August Meinecke? Rivelerebbe insomma tutti questi passaggi e sarebbe perciò un falso.
Secondo Settis, «questa obiezione non sta in piedi. Canfora e i suoi allievi hanno in realtà rovesciato i termini del problema e hanno creduto così di ricostruire il falso». Quanto alle «congetture» apportate da Meinecke, «a mio avviso — aggiunge Cassio — ci restituiscono l'Artemidoro autentico».
Insomma in questi due giorni berlinesi si parla molto di filologia, chimica, fisica, papirologia. Al centro della discussione Artemidoro, ma anche Luciano Canfora, che non si sa perché non sia stato invitato. Avrebbe potuto rispondere alle obiezioni a lui mosse fra le pagine 56 e 60 dell'edizione critica pubblicata dalla Led. Compresa questa: «Se si guardano i disegni al microscopio, si vede agevolmente che essi furono tracciati su un supporto perfettamente integro, giacché non ci sono sbavature di inchiostro nei fori, né segni stesi su fibre scomposte, né tratti interrotti prima dei buchi, che sono indizi di contraffazione. Non è pensabile che un rotolo di 3 metri senza la minima lesione possa essere venuto nelle mani di un falsario, il quale lo avrebbe imbrattato di disegni, per poi farlo a pezzi e nasconderlo dentro un ammasso di papier maché da vendere per pochi soldi a Saiyd Khashaba Pasha».

Corriere della Sera 13.3.08
Il carbonio 14. E Canfora fa il corsaro con una mail in tedesco
di D.M.

BERLINO — Lo scomodo assente di questa due giorni artemidorea, Luciano Canfora, il filologo dell'università di Bari, che da due anni, con ricerche, saggi e conferenze, va sostenendo la tesi della falsità del papiro, ha trovato il modo di far sentire la sua voce. Alcuni studiosi invitati e partecipanti al convegno hanno ricevuto via email un testo in tedesco intitolato «Perché non può essere un papiro di Artemidoro». Il saggio, a firma dello stesso Canfora e del bizantinista Luciano Tossina, dell'università di Gotingen, contiene tuttavia una prefazione di tre pagine in italiano che introduce un nuovo elemento di polemica. Secondo i due filologi sarebbe proprio l'autenticità del papiro a dimostrarne la falsità. Spieghiamoci meglio, magari con una citazione testuale: «Ci viene rivelato che prove inoppugnabili (carbonio 14) portano al I a.C./I d.C. Per parte nostra l'abbiamo sempre pensato e, in certo senso paventato: giacché se così stanno le cose, la falsificazione è certa, purtroppo. Poiché infatti il testo presente nella colonna quarta è largamente ricavato da Marciano, come potrebbe uno scritto sorto comunque dopo il IV secolo d.C. trovarsi su di un supporto del I a.C.? Solo un taumaturgo — o più ragionevolmente un falsario! — potrebbe realizzare questo "miracolo". E quanto all'inchiostro è ben noto che falsari capaci di imitare gli inchiostri antichi (descritti, tra l'altro, in antiche ricette giunte sino a noi) ce ne sono e ce ne sono stati». Non invitato, Canfora fa sapere ai suoi colleghi che secondo lui più che la chimica conta la filologia. E insiste con la tesi del falsario greco vissuto nel XIX secolo Costantino Simonidis, vero autore secondo lo studioso, qui a Berlino in veste corsara, del frammento attribuito al secondo libro della geografia di Artemidoro.

Corriere della Sera Roma 13.3.08
Matematica. Knutson e Giorello all'Auditorium: «Così il mondo degli scienziati usa i numeri per studiare i giocolieri»
di Lauretta Colonnelli

C'è un indovinello che i matematici raccontano a proposito dei loro rapporti con la giocoleria. Un uomo deve attraversare un ponte che regge un peso di 81 chili. L'uomo pesa 80 chili ma deve portare con sé tre palle d'oro da mezzo chilo ciascuna. Soluzione: può attraversare il ponte solo giocolando per tutto il percorso, perché, quando si giocola, almeno una pallina sta sempre in aria, quindi non influisce sul peso del giocoliere. L'indovinello è riportato da Leonardo Angelini nel suo libro «L'attore giocoliere», (di prossima uscita presso le edizioni Un mondo a parte-Dipartimento di arti e scienze dello spettacolo dell'Università La Sapienza), che dedica un lungo capitolo al rapporto tra giocoleria e scienza. Il juggling è una pratica millenaria, ma è soltanto in questo secolo che ha affascinato e interessato scienziati e matematici. Uno di questi è Allen Knutson, che si esibirà per il pubblico del Festival della matematica sabato prossimo alle 21 all'Auditorium Parco della Musica, accompagnato dalle suggestioni del filosofo Giulio Giorello. Knutson, che è professore associato alla University of California di Berkeley, è stato anche il detentore del record del mondo della International Jugglers' Association dal 1990 al 1995 nella specialità dei giocolieri in coppia con la palla (il record era di 12 palle mentre oggi è di 13).
Che cosa succederà sabato sul palco dell'Auditorium? «Andremo senza copione, perché ritengo che l'elemento caratteristico della giocoleria sia proprio il gusto di sorprendere», annuncia Giorello. «Sarebbe bene far capire che il gioco è una cosa molto seria e che ha degli aspetti matematici affascinanti, molti dei quali si annidano nel tentativo di esprimere in una sequenza finita di simboli le varie posizioni del nostro corpo. Così si mettono in connessione due aspetti affascinanti della matematica: quello classico che ha a che fare con l'infinito e quelle matematiche "finite" o "combinatorie" che hanno a che fare con un numero limitato di oggetti».
Durante gli ultimi decenni sono stati sviluppati anche numerosi sistemi di notazione numerica per semplificare e spiegare tricks (lanci) ai giocolieri di tutto il mondo. Il sistema che ha riscosso maggior successo e diffusione è stato il siteswap, elaborato nel 1985, quasi contemporaneamente - e a conferma - dell'interesse scientifico diffuso per il juggling. «Per spiegare veramente uno schema di juggling - dice Knutson - l'ideale sarebbe quello di riuscire a descrivere la posizione di ogni muscolo del corpo del giocoliere in ciascuna frazione di secondo, compresa quella in cui pronuncia la sua battuta. L'idea che sta dietro il siteswap è quella di seguire la traccia dell'ordine in cui le palle vengono lanciate e prese. Poiché in qualsiasi tipo di juggling, quello che si fa è lanciare e prendere le palline in un certo ordine, ci sarà sempre un qualche siteswap che potrà descriverlo. Un altro obiettivo può essere quello di prendere una descrizione e cercare di giocolare in quel preciso modo. Poiché è impossibile tenere traccia di tutti i movimenti di uno schema, allo stesso modo è probabile che non esista un'unica maniera per mettere in pratica la suddetta descrizione. A quanto pare nel siteswap esiste uno standard. Ma esistono anche lanci talmente unici che definirli siteswap equivarrebbe a darne una descrizione riduttiva».
❜❜ Andremo senza copione, perché ritengo che l'elemento caratteristico della giocoleria sia proprio il gusto di sorprendere

Corriere della Sera Roma 13.3.08
Cibo, libri e sound con Don Pasta
di D. To.

Il team di L-Ektrica, conosciuto a Roma per le serate all'Akab, moltiplica le sue attività con L-Ektrica Deluxe. La musica, in questo caso, s'incastra perfettamente con cibo, lettura e arte, per dare vita al progetto Soul Food. L'evento di domani, che si terrà al Lanificio (via di Pietralata 159), sarà a cura di Don Pasta, protagonista di performance di cibo, suoni e immagini. Per investire tutti gli organi sensoriali del pubblico presente sono stati chiamati a raccolta i Gastronauts, gruppo di chef capaci di veri Food Set, che assicureranno l'esplosione del gusto, mentre Alif Tree (dj e produttore della Compost Record) penserà alla ricetta musicale costruita su l'omaggio a Miles Davis e al funk orchestrale di Isaac Hayes. Una ripresa in diretta del lavoro svolto in cucina, elaborata e filtrata da Francesco Quarto, darà vita ad una danza di immagini suggestive. Don Pasta, alias Daniele De Michele, dj economista con la passione per la gastronomia e già protagonista di performance musical- golose, sarà il direttore, come fa nelle serate organizzate in tutta Europa, di quest' inedito spettacolo dei sensi.
Questa sera torna l'appuntamento con la musica house, funky e disco anni '70 a London Calling al Rialtosantambrogio
(via di Sant'Ambrogio 4). Dj set di Gino Woody Bianchi. Venerdì al Goa (via Libetta 13) è di scena Misstress Barbara, dj performer, che da anni gira il mondo toccando paesi come le Filippine, la Germania, la Francia, con una presenza grintosa in club come il Twilo di New York ed il Florida 135 di Barcellona. Sulla consolle del Rashomon (via degli Argonauti 16) sabato sale Konrad Black, considerato uno degli artisti più interessanti nella scena dell'elettronica contemporanea.
Dj e vintage market potrebbe essere la formula ideale della domenica pomeriggio. E' l'appuntamento del Micca Club (via P.Micca 7a), dalle ore 18 banchetti di dischi, abbigliamento, accessori e il dj set di Marvin.