giovedì 15 agosto 2019

il manifesto 15.8.19
Il Tar del Lazio boccia Salvini: «Open Arms entri in Italia»
L’ong catalana, dopo 13 giorni, va a Lampedusa. Il Viminale ricorre al Consiglio di stato
di Adriana Pollice


«Ci dirigiamo verso Lampedusa. Secondo il Tar del Lazio possiamo entrare in acque italiane»: l’annuncio è arrivato ieri pomeriggio via social da Open Arms, la nave dell’ong catalana che navigava senza porto di sbarco dall’1 agosto, giorno del primo salvataggio. I naufraghi a bordo ieri erano 147, al tredicesimo giorno di permanenza senza una fine in vista, almeno fino alla pubblicazione della sentenza che, ancora una volta, ha sconfessato norme e divieti salviniani anche se non ha espressamente disposto lo sbarco. «Chiederemo l’evacuazione medica per tutti i naufraghi», ha spiegato Oscar Camps. Il Viminale ha già annunciato il ricorso urgente al Consiglio di Stato contro il decreto del Tar proprio mentre la ministra alla Difesa, Elisabetta Trenta (uno dei bersagli di Salvini), annunciava la scorta della Marina all’ingresso di Open Arms in territorio italiano, in modo da essere pronti a un eventuale trasferimento dei 32 minori sulle due motovedette militari.
IL TAR DEL LAZIO ieri ha innescato la svolta con la pubblicazione della sentenza con cui ha accolto il ricorso dell’ong (presentato martedì), disponendo «l’annullamento del provvedimento del ministero dell’Interno del primo agosto» (cofirmato da Trasporti e Difesa) che disponeva il divieto di ingresso per la nave in acqua nazionali. Una bocciatura del decreto Sicurezza bis, convertito in legge con i voti dei 5S.
NEL DISPOSITIVO il presidente Leonardo Pasanisi rileva un «vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti e di violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso». Il Viminale, infatti, nel formulare il divieto riconosce che il gommone soccorso in area Sar libica «quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo, era in distress, cioè in situazione di evidente difficoltà». Ne consegue che «appare contraddittoria la valutazione di “passaggio non inoffensivo”» utilizzata per bloccare i volontari.
È LA SECONDO VALUTAZIONE, dopo quella della gip di Agrigento Alessandra Vella su Carola Rackete, che boccia la tesi del Viminale sulle ong. La sospensione del divieto, spiega ancora il Tar, è necessaria poiché «sussiste, alla luce della documentazione prodotta (medical report, relazione psicologica, dichiarazione del capo missione), una situazione di eccezionale gravità e urgenza, tale da giustificare una tutela cautelare», cioè far entrare Open Arms in acque territoriali per prestare immediata assistenza alle persone soccorse, «come del resto sembra sia già avvenuto per i casi più critici».
ERANO GIÀ SBARCATE due donne incinte al nono mese e, martedì notte, una famiglia con due gemelli di nove mesi, ma solo perché uno dei neonati aveva urgente bisogno di cure. A causa del braccio di ferro imposto da Salvini, il trasbordo è avvenuto col buio e con il mare diventato, nel frattempo, agitato. I video mostrano i soccorritori impegnati a saltare dalla barca alla motovedetta della Guardia costiera con i piccoli stetti alla tuta in una manovra rischiosa a causa del mare. Che i bambini dovessero sbarcare l’aveva chiarito la garante per l’Infanzia. Il tribunale dei Minori di Palermo ha poi chiesto spiegazioni al governo specificando che venivano violati i diritti dei più piccoli. «Il Tar ha riconosciuto le ragioni della nostra azione in mare – il commento da Open Arms – ribadendo la non violabilità delle Convenzioni internazionali e del diritto del mare».
SALVINI ieri ha attaccato a testa bassa: «C’è un disegno per aprire i porti, per trasformare il paese nel campo profughi d’Europa. È un paese strano quello dove una nave spagnola in acque maltesi si rivolge a un avvocato di un tribunale amministrativo per chiedere di sbarcare in Italia. Nelle prossime ore firmerò il mio no perché complice dei trafficanti non voglio essere». Dopo aver innescato la crisi di governo, Salvini si asserraglia al Viminale e continua la sua propaganda elettorale. Il premier Giuseppe Conte ieri mattina aveva inviato una lettera al leader leghista chiedendo almeno di «mettere in sicurezza i minori», alla luce dell’intervento del tribunale di Palermo. «Non mi arrendo, resisto a questa vergogna – la replica di Salvini da Recco -. Staremo attenti perché a Roma non si formi una coppia contro natura tra Pd e 5S e tra Renzi e Grillo per riapre i porti». Quindi l’annuncio del ricorso al Consiglio di stato contro il provvedimento del Tar con la motivazione: «Open Arms ha fatto sistematica raccolta di persone con l’obiettivo politico di portarle in Italia».
L’OCEAN VIKING, dell’ong Sos Méditerranée e Medici senza frontiere, resta in mare con 356 naufraghi (103 minori) in balia del mare grosso: «Abbiamo chiesto il porto di sbarco a Italia e Malta, stiamo valutando cosa fare dopo la novità del Tar del Lazio», hanno spiegato ieri. Intanto il premier francese Emmanuel Macron ha attivato la Commissione europea per portare a terra i migranti.

il manifesto 15.8.19
Le proteste di Hong Kong e il dilemma di Pechino
Hong Kong. Tirare la corda, per quanto legittimo, non è un buon viatico per trattare con Pechino, sensibile alla percezione che nel mondo si ha della Cina
di Simone Pieranni


La «presa» per due giorni dell’aeroporto internazionale di Hong Kong da parte dei manifestanti ha acuito la problematicità di quanto sta accadendo nell’ex colonia britannica. L’azione è stata giustificata come una sorta di ultima spiaggia dagli stessi protagonisti, che sono però incorsi in errori che in parte complicano la loro legittima lotta. Il quadro attuale è il seguente: chi protesta ha dimostrato di poter reggere una mobilitazione che dura ormai da giorni.
Per quanto «orizzontali e senza leader» i manifestanti hanno mostrato un’ottima organizzazione capace di coordinare le tante istanze anti-cinesi che hanno unito le centinaia di migliaia di persone scese in piazza. Sono stati commessi però alcuni errori tattici: in primo luogo la comparsa delle bandiere americane e poi quelle di epoca coloniale. Poi la vicinanza di alcuni dei personaggi più in vista durante le proteste con personale dell’ambasciata americana.
Non segnalare una pubblica distanza dagli Usa ha dato la possibilità alla Cina di accusare i manifestanti di essere sostenuti dagli Usa.
Possibile che Washington abbia provato a complicare le cose alla Cina ma un’eterodirezione è una falsità riguardo le motivazioni delle proteste, che sono profonde e non avevano bisogno di essere aizzate da forze esterne.
Poi all’aeroporto i manifestanti sono incorsi in un altro errore: hanno malmenato e bloccato una persona sospettata di essere un poliziotto infiltrato. Invece era un giornalista dell’ultra nazionalista quotidiano di Pechino, il Global Times, che ha avuto buon gioco a scatenare specie sui social cinesi (WeChat in primis) nuove accuse contro i manifestanti.
Ieri da diversi gruppi che partecipano alle proteste sono arrivate le scuse per questo evento, ma al di là di questi errori tattici, quello che pare mancare al momento è la possibilità reale di arrivare a qualche risultato dopo settimane di manifestazioni che hanno spinto la tensione a un punto tale da rendere complicata una soluzione che permetta alla Cina di non perdere la faccia.
    Tirare la corda, per quanto legittimo, non è un buon viatico per trattare con Pechino, piuttosto sensibile alla percezione che nel mondo si ha della Cina.
In questo senso le richieste di dimissioni della chief executive Carrie Lam e quella di un’indagine sulle violenze della polizia, potrebbero essere due argomenti sui quali Pechino potrebbe addirittura essere disposta a trattare. Ma quanto i manifestanti sembrano sottovalutare, è proprio l’attuale situazione politica della Cina.
Bisogna dunque procedere in due direzioni differenti. Quasi tutti i sinologi sono concordi nel rileggere tutta la storia imperiale cinese proprio attraverso la complessità del rapporto tra centro e periferia. È questa dinamica a costituire il motore politico della Cina imperiale.
A questo proposito il concetto di impero in Cina è arrivato dall’Occidente (e dal Giappone) durante il periodo Qing, l’ultima dinastia cinese. Nella visione cinese, infatti, vigeva il concetto di tianxia «tutto quanto sta sotto il cielo». Si tratta di una visione che rapportandosi non solo agli altri, bensì al cosmo intero, concepiva l’influenza cinese attraverso cerchi concentrici capaci di arrivare anche in posti ben distanti territorialmente dal «centro».
Il sistema dei tributi fu uno degli strumenti che la Cina utilizzò per gestire questa serie di relazioni.
Il concetto di Stato-nazione ha complicato enormemente le cose e Hong Kong è un esempio di quanto questa relazione centro-periferia sia ancora oggi un dilemma in Cina e quanto la «modernità anti-moderna» come l’ha definita l’intellettuale Wang Hui, abbia portato Pechino a dover concepire nuove forme di interazione con le sue articolazioni periferiche.
C’è poi un tema contemporaneo: cosa farà Xi Jinping? Esistono forze interne che, forse, stanche del suo enorme potere potrebbero spingere a prendere la decisione sbagliata su quanto sta accadendo a Hong Kong. Non è semplice saperlo, ma l’intensa attività di puntellamento della propria autorità ha per forza di cose lasciato strascichi.
Parte dell’esercito cinese è a Shenzhen, si tratta di un dato confermato perfino dall’ambasciata cinese in Italia; nella sua newsletter il personale dell’ambasciata ha specificato che «secondo quanto stabilisce la legge della Repubblica Popolare Cinese, tra i compiti della polizia armata figurano la partecipazione a operazioni volte a sedare ribellioni, rivolte, incidenti violenti e illegali, attacchi terroristici e altre minacce alla sicurezza sociale».
Xi Jinping ha in mano le carte e deve scegliere: trovare un compromesso capace di salvare la faccia alla Cina, perfino concedendo qualcosa ai manifestanti, oppure optare per la via della repressione, forte del fatto che la comunità internazionale, ormai, sembra piuttosto disposta ad accettare qualsiasi scelta arriverà da Pechino.

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mercoledì 14 agosto 2019

Corriere 14.8.19
La nuova alleanza
di Antonio Polito


È la crisi più pazza del mondo. Si va al Senato convinti di assistere a una delle ore più gravi della Repubblica, e se ne esce con la sensazione che effettivamente la situazione politica è grave, ma non seria.
I senatori arrivano dritti dritti dalle vacanze, e si vede. Salvini sfotte quelli del Pd sostenendo che ne invidia l’abbronzatura, e quelli del Pd rispondono «Papeete Papeete». Sono stati tutti convocati il 13 di agosto per decidere se il presidente del Consiglio Conte deve andare in Aula a riferire della crisi oggi 14 agosto, anniversario della tragedia del Ponte Morandi, o martedì 20 agosto. Pare una questione di vita o di morte, e infatti c’è il pienone delle grandi occasioni. Salvini esige di votare subito la sfiducia al governo per farlo dimettere, non può aspettare neanche un giorno di più. Ma appena otto giorni fa, il 5 agosto, gli ricorda soave una senatrice sudtirolese, ha chiesto e ottenuto dalla stessa aula del Senato il voto di fiducia al governo sul decreto sicurezza-bis. Nel frattempo, però, il leader della Lega non si dimette né fa dimettere i suoi ministri, unico metodo sicuro per provocare la crisi di governo che pure tanto dichiara di volere.
La sua volontà di accelerare la distruzione del governo di cui fa ancora parte viene però bocciata dall’Aula, che lo mette in minoranza (in fin dei conti dispone solo del 17% dei seggi): il calendario è votato da un’alleanza nuova e spuria, che mette insieme Cinque Stelle e Pd e tutti quelli che non vogliono essere mandati a casa dal ministro dell’Interno (sono molti, anche in Forza Italia, ancora in attesa di sapere se verrà ammessa nella coalizione in caso di elezioni). Sembrerebbe profilarsi una sconfitta tattica per Salvini. Quella che un’ora prima del dibattito ha annunciato in conferenza stampa Renzi, vero e proprio regista dell’operazione Tutti Contro Matteo (l’altro). Ricuce con Zingaretti, accetta il lodo Bettini, e si dice convinto che la nuova maggioranza comparsa ieri al Senato possa diventare politica, darsi un programma, formare un nuovo governo, durare l’intera legislatura ed eleggere il successore di Mattarella nel 2022. Una specie di «contratto-bis»: così come Cinque Stelle e Lega si allearono dopo essersi combattuti alle elezioni, ora potrebbe succedere lo stesso tra Cinque Stelle e Pd che dopo le elezioni si respinsero sdegnati.
Ma ecco che Salvini, fiutata la trappola, prova a uscire dall’angolo in cui Renzi voleva metterlo, e infila una zeppa non da poco tra Di Maio e i democratici: dichiara di accettare lui la richiesta grillina di votare prima il taglio dei parlamentari e poi dopo («subito dopo», precisa) andare alle elezioni.
Il Pd accusa chiaramente il colpo. Non se l’aspettava nessuno. Anche perché chiedere la crisi di governo per il giorno successivo e la riforma costituzionale per la settimana appresso è davvero un colpo di teatro. Il capogruppo dei Cinque Stelle salta sulla contraddizione: senza un governo non ci può essere il voto sul taglio, dunque ritirate la mozione di sfiducia. Ci sarebbe anche un altro problemino: se si approva una riforma costituzionale bisogna poi aspettare per mesi un eventuale referendum prima che vada in vigore. Lo risolve Salvini: il taglio dei parlamentari — precisa — sarebbe a futura memoria, non varrebbe per il prossimo Parlamento ma per quello dopo ancora. Si può fare? Boh. Ma così intanto inguaia il Pd, che contro quella legge ha già votato tre volte e ne teme l’effetto maggioritario implicito, capace di trasformare un’ipotetica maggioranza elettorale di centrodestra del 50% nel 65% di seggi, un blocco che potrebbe anche da solo cambiare la Costituzione.
Fatto sta che la Camera dei deputati, un’ora dopo, mette in calendario per il 22 di agosto il voto definitivo sul taglio dei parlamentari. E ora nessuno sa più che cosa succederà. Cadrà prima il governo Conte il 20 agosto al Senato, o la Camera il 22 agosto approverà prima la più grande riforma del governo cadente?
I coscritti del Senato sciamano verso i lidi da cui provengono in preda a questi dilemmi. La crisi intanto non è per questa settimana: Ferragosto con i tuoi. Forse nemmeno la prossima, e quella dopo ancora finisce il mese. La road map al voto anticipato è molto più tortuosa della rotta tracciata dal Capitano. Anzi, per dirla tutta, al momento pare che al timone non ci sia nessuno.

Corriere 14.8.19
Un memoriale per Nellie Bly, rivoluzionaria del giornalismo
di Gian Antonio Stella

«Prendete una donna sana fisicamente e mentalmente, rinchiudetela, tenetela inchiodata a una panca per tutto il giorno, impeditele di comunicare, di muoversi, di ricevere notizie, fatele mangiare cose ignobili. In due mesi sprofonda nella follia».
Fermò il fiato il primo reportage di Nellie Bly dal «Women’s Lunatic Asylum» di Blackwell’s Island, a sud-est di Manhattan. Nessuno aveva mai osato prima fingersi demente per introdursi nella tana nera di un manicomio. Col rischio di fare una brutta fine in quella terra dominata dalla prepotenza. Anzi, nessuno ci aveva mai pensato, prima che quella ragazza di ventidue anni così decisa e sfrontata convincesse il «New York World» diretto dal mitico Joseph Pulitzer a pubblicare quelle cronache dagli inferi che, raccolte nel libro «Dieci giorni in manicomio» spinsero le autorità americane addirittura a cambiare le leggi sui ricoveri coatti e il trattamento dei pazienti.
Fu la più grande della sua generazione, Nellie Bly. E come racconta Nicola Attadio in Dove nasce il vento. Vita di Nellie Bly, a free American girl, fu la prima a rifiutare i ruoli delle giornaliste delegate a occuparsi di scarpe, gioielli, giardinaggio. La prima a rompere gli schemi. La prima a battersi sul terreno dei reportage e delle inchieste. Fino a percorrere mezzo Messico sfidando ogni pericolo: «Mi dimetto dal giornale e come freelance mi paghi per i pezzi che ti mando, tu risparmi un bel po’ di soldi ma mi finanzi il viaggio». La prima a farsi arrestare per denunciare i soprusi sul detenute. E ancora la prima a sfidare davvero, in treno, a cavallo, in barca e a dorso d’asino, Jules Verne e il suo Giro del mondo in 80 giorni. Anzi, i suoi resoconti ebbero un successo tale che un milione di lettori parteciparono alla lotteria inventata da Pulitzer su chi si fosse più avvicinato all’ora del ritorno a New York, avvenuto dopo 72 giorni, 6 ore, 11 minuti e 14 secondi.
Il reportage dentro il manicomio, però, resta unico. Ed è bello sapere che nella Grande Mela c’è chi è pronto a tirar fuori mezzo milione di dollari per ricordare tanti anni dopo con un memoriale quell’impresa straordinaria che cambiò per sempre il modo di vedere i «matti».

Il Sole 14.8.19
Proteste senzafine
La governatrice di Hong Kong: «Siamo sull’orlo dell’abisso»
di Stefano Carrer


Ancora bloccato l’aeroporto, dove ci sono stati scontri tra dimostranti e polizia
Trump: « Movimenti di truppe cinesi al confine» L’invito è alla calma
Per un attimo, è sembrata trattenere le lacrime. Ma il messaggio lanciato ieri dalla chief executive di Hong Kong Carriel Lam - in una conferenza stampa in cui ha svicolato dalle domande - è stato duro nella sostanza e senza aperture, al di là dei tocchi emotivi: le proteste violente stanno creando «panico e caos» facendo imboccare una «strada senza ritorno» che rischia di spingere verso un «abisso».
Un discorso che ha fatto da prologo agli scontri tra polizia e dimostranti avvenuti in serata all’aeroporto, rimasto semi-paralizzato per il secondo giorno consecutivo. Mentre il ricorso a metodi di repressione più brutali da parte della polizia ha spinto negli ultimi giorni i manifestanti ad alzare la posta - nella speranza che infliggere danni all’economia possa avvicinare l’accoglimento delle loro richieste -, una parallela escalation di minacciosi avvertimenti comincia a rendere concreta la sensazione che Pechino stia perdendo la pazienza e si prepari a intervenire se le autorità locali non riusciranno a riportare la situazione sotto controllo.
Per la verità, il governo cinese in serata è tornato a esprimere il suo pieno appoggio a Carrie Lam e al suo governo: lo ha fatto attraverso una nota della missione a Ginevra in cui ha respinto con durezza la presa di posizione della responsabile per i diritti umani dell’Onu, Michelle Bachelet, che ha raccomandato alle autorità di Hong Kong di agire con moderazione e di investigare sul ricorso a eccessivi mezzi di repressione in violazione delle norme internazionali. Per Pechino, si tratta di una interferenza nei suoi affari interni che invia «un segnale sbagliato a violenti criminali». Inquietante è l’aggiunta che i dimostranti stiano «mostrando una tendenza a ricorrere al terrorismo». In un messaggio ufficiale alla comunità internazionale, insomma, si evoca il «terrorismo», ossia l’elemento che potrebbe essere utilizzato per una giustificazione legale di un intervento diretto nella regione amministrativa speciale. Ingenti forze paramilitari sono già confluite nella metropoli limitrofa di Shenzhen, come evidenziato dal rilascio di nuovi video.
Dopo le accuse cinesi di interferenze americane, il presidente Donald Trump - che si era attirato critiche per aver parlato di “sommossa” e di affari interni cinesi - ieri ha twittato «Molti stanno dando la colpa a me e agli Stati Uniti per i problemi in corso a Hong Kong. Non riesco a immaginare il perché» e «La nostra intelligence ci ha informato che il governo cinese sta spostando truppe al confine con Hong Kong. Tutti stiano calmi e tranquilli”!». A voce ha parlato di «situazione molto difficile» a Hong Kong, che spera si risolva pacificamente e «per la libertà». Un portavoce del ministero degli esteri cinese ha stigmatizzato gli ultimi commenti di alcuni leader del Congresso di opposti schieramenti, come Mitch McConnell e Nancy Pelosi, anche come ulteriore prova di interferenze statunitensi. Molto preoccupato appare l’ultimo governatore britannico di Hongk Kong, Chris Patten, secondo cui è necessario un «processo di riconciliazione», mentre un intervento cinese «sarebbe una catastrofe per la Cina e ovviamente per Hong Kong».
Intanto la Borsa locale ha perso un altro 2,1%: ha spazzato via tutti i guadagni di quest’anno e risulta del 16% sotto i picchi di aprile (-8% dal 12 giugno, quando la protesta prese slancio). Il dollaro HK è sceso a ridosso del limite della sua fascia di oscillazione sul dollaro Usa . Molti analisti pronosticano un ulteriore indebolimento dei mercati, in quanto i crescenti rischi politici si riverberano in pressioni verso un deflusso di capitali.

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martedì 13 agosto 2019

il manifesto 13.8.19
Più di 500 migranti abbandonati in mare
Mediterraneo . Bloccati dalla politica dei porti chiusi dell’Italia. Dopo Richard Gere, con la Open Arms anche Banderas e Bardem
di Leo Lancari


Giusto il tempo di lanciare i giubbotti di salvataggio e il gommone si è afflosciato riempiendosi di acqua e scaraventando in mare quanti si trovavano a bordo: 105 migranti, tutti uomini e tra questi anche 29 minori, tra i quali uno di appena 5 anni e uno di 12. Sono il risultato dell’ultimo salvataggio, il quarto in pochi giorni, messo a punto dalla nave Ocean Viking di Sos Mediterranee e Medici senza frontiere a 40 miglia dalle coste libiche. I volontari delle due ong fortunatamente sono riusciti a mettere tutti in salvo ma adesso a bordo della nave, che può ospitare al massimo 200/250 persone, si ritrovano in 356 e per quanto sia attrezzata per le emergenze la situazione rischia di diventare pesante.
Sommando i migranti salvati dalla Ocean Viking a quelli presenti sulla Open Arms, a questo punto salgono a 507 i migranti bloccati in mare dalla politica dei porti chiusi dell’Italia. «Una follia», per la ong spagnola giunta ormai al suo undicesimo giorno ferma in mare. «La stanchezza è tanto, ma non è solo fisica. E’ la consapevolezza della follia di questa situazione, stiamo parlando 160 persone fragili e bisognose di aiuto», spiegano i volontari. Ieri è stato completato il trasferimento a Malta di due donne con gravi problemi di salute e dei loro familiari, il che ha fatto scendere a 151 il numero sei migranti ancora a bordo. «Siamo con loro con il cuore, in bocca a lupo per le loro vite e il loro futuro», ha scritto sui social la ong.
Intanto Matteo Salvini continua con l’atteggiamento di sempre. «Più d 350 migranti a bordo di una nave norvegese di una ong francese e quasi 160 a bordo di una nave spagnola di una ong spagnola: ribadiamo l’assoluto divieto di ingresso di queste due navi straniere nelle acque italiane», ha ripetuto. «Aprano i porti di Francia, Spagna e Norvegia». Ma prosegue anche la mobilitazione degli attori. Dopo Richard Gere e Antonio Banderas, ieri è intervenuto a sostegno di Open Arms Javier Bardem. In un video il premio Oscar chiede al premier spagnolo Pedro Sanchez di intervenire perché i migranti che si trovano a bordo possono essere distribuiti in Europa «perché crediamo che sia necessario che un paese membro dell’Europa debba coordinare questo processo e riteniamo che la Spagna sia il più adatto perché è il Paese di origine della ong», ha spiegato Bardem.
Peccato che, almeno per ora, dall’Unione europea non arrivino segnali di nessun tipo. Pur essendoci stati dei contatti con gli Stati, un portavoce della Commissione europea ha spiegato infatti che non è stato avviato il coordinamento» perché «non c’è stata alcuna richiesta da parte degli Stati».
Che la politica del Viminale serva soprattutto a raccogliere consensi elettorali lo dimostra il fatto che mentre l’attenzione è concentrata sulle navi delle due ong, continuano gli sbarchi di quanti riescono a raggiungere le coste italiane autonomamente o con barchini che vengono lasciati al largo dalle navi dei trafficanti: 89 solo ieri in tre differenti sbarchi avvenuti Sciacca, in provincia di Agrigento, Lampedusa e Crotone.

il manifesto 13.8.19
A Hong Kong si mette male. Cina: «Proteste sono terrorismo»
Hong Kong. I media cinesi mostrano assembramenti di truppe a Shenzhen. Voli annullati nell'ex colonia britannica fino a stamattina per i sit-in organizzati in aeroporto. Week end di scontri: la polizia ha usato gas lacrimogeni contro i manifestanti
di  Simone Pieranni


Dopo ormai dieci settimane di proteste a Hong Kong, da ieri c’è una domanda che aleggia nella tensione generale dell’ex colonia britannica: la Cina sopporterà ancora le manifestazioni senza compiere nessun atto concreto? Fino a ieri l’ipotesi di un intervento militare sembrava completamente fuori discussione: le due conferenze stampa tenute dall’ufficio politico di Pechino a Hong Kong avevano lanciato avvertimenti, avevano bollato le proteste come «rivoluzione colorata» aizzata dagli Stati uniti, e si erano limitate a sottolineare le violenze dei ragazzi e delle ragazze per strada contro la polizia locale, cui la dirigenza cinese aveva espresso sostegno.
Da oggi, invece, pur apparendo ancora un azzardo, l’ipotesi militare acquisisce un peso diverso nelle valutazioni: ieri Pechino ha invece accusato apertamente i manifestanti di Hong Kong di «terrorismo» a causa della loro «violenza», con la quale secondo la Cina hanno affrontato la polizia locale. Ma non solo perché nella giornata di ieri i media cinesi, prima l’ultra nazionalista Global Times e poi l’organo ufficiale del partito comunista, il Quotidiano del popolo, hanno mostrato un video di truppe dell’esercito cinese radunate a Shenzhen, la città confinante con Hong Kong e dalla quale si può raggiungere la città in tempi brevissimi.
SECONDO I DUE MEDIA CINESI si tratterebbe «apparentemente di esercitazioni», ma la vicinanza geografica e la tensione palpabile non lasciano troppo spazio all’ottimismo.
Resta da chiedersi se la Cina davvero possa permettersi un eventuale colpo di mano militare, dopo anni di faticosa costruzione di una reputazione internazionale capace di accreditarla come potenza responsabile.
Tutto quanto raccontato nelle occasioni internazionali rispetto alla propria «ascesa pacifica» potrebbe essere smentito con una semplice decisione.
La Cina – nel caso di un intervento militare – potrebbe giustificarlo con la scusa che Hong Kong è «un affare interno» come più volte ripetuto.
PROPRIO COME FA con il Xinjiang, la regione nord occidentale a maggioranza musulmana. Se ancora qualcuno nutre dei dubbi riguardo l’esistenza di veri e propri campi di rieducazione – che la Cina definisce «vocazionali» – nessuno può mettere in discussione la clamorosa campagna securitaria e repressiva che si è abbattuta sulla minoranza uigura. Eppure, ben pochi a livello internazionale hanno protestato contro il comportamento cinese. Per quanto riguarda Hong Kong, però, c’è anche un altro elemento: bisogna prendere atto che politicamente un compromesso politico al momento è impossibile.
Kerry Brown, grande conoscitore della Cina, su The Spectator ha scritto un commento nel quale ritiene che la mancanza di uniformità tra le anime dei manifestanti possa costituire un vantaggio per Pechino. Ma questa frammentazione, unita alla mancanza di un programma politico unificante da contrapporre innanzitutto al governo cittadino, potrebbe risultare anche un’eventualità capace di mettere in difficoltà il governo centrale cinese: Pechino infatti, posto che voglia trattare, al momento non ha alcuna proposta su cui si può davvero arrivare una mediazione.
I CITTADINI DI HONG KONG che protestano, soprattutto giovani di tutte le fasce sociali, non vogliono vivere in una città sotto il dominio cinese. Aspirazione legittima ma purtroppo per loro inattuale: nel 2047 come stabilito tra Cina e Gran Bretagna, Hong Kong passerà definitivamente sotto l’egida politica di Pechino, che a sua volta sceglierà come amministrare la città. L’obiettivo politico dei dimostranti, dunque, dovrebbe poter trovare un possibile compromesso alla luce di questo passaggio. Difficile sapere quale.
UN POSSIBILITÀ potrebbe essere quella di spingere sulla richiesta di suffragio universale, così come garantito – pur all’interno di passaggi graduali – dall’articolo 68 della Basic Law, la Costituzione (sottoscritta da Pechino) potrebbe essere un primo passo.
Intanto, in questi giorni, il sit in all’aeroporto ha ottenuto grande solidarietà nonostante i disagi, da parte di tante persone che hanno portato ai manifestanti cibo e acqua. Oggi il sit in, che ha bloccato tutti i voli, continuerà nonostante non sia stato autorizzato: i manifestanti tra le altre rivendicazioni chiedono anche un’inchiesta seria e trasparente sulle violenze compiute dalla polizia che nei giorni scorsi – dopo la figuraccia internazionale per l’«aiuto» avuto da criminali delle triadi lanciati in giro a picchiare ragazze e ragazzi inermi all’interno di una stazione della metro – ha fatto largo uso di gas lacrimogeni e di infiltrati, come denunciato in rete e sui canali di Telegram.

La Stampa 13.8.19
La governatrice di Hong Kong ai manifestanti: “Non portate la città nell’abisso”
Decima settimana di scontri in piazza. Carrie Lam in lacrime davanti ai giornalisti. Nuova manifestazione in aeroporto


HONG KONG. La violenza durante le proteste a Hong Kong spingerà la città «lungo un percorso di non ritorno», ha avvertito martedì la governatrice della città, Carrie Lam -immergerà la società in una situazione molto preoccupante e pericolosa» queste le sue parole durante una conferenza stampa nella quale è anche scoppiata a piangere: «La situazione a Hong Kong nella scorsa settimana mi ha fatto preoccupare molto, è pericolosa». Ai manifestanti che stanno protestando da 10 settimane ha chiesto di «evitare labisso».

Aeroporto occupato
Intanto, centinaia di manifestanti a favore della democrazia hanno organizzato una nuova manifestazione all'aeroporto di Hong Kong, il giorno dopo una massiccia protesta che ha provocato la paralisi dello scalo internazionale. Solo un pugno di manifestanti era rimasto durante la notte e i voli sono ripresi, pur fra ritardi e cancellazioni. Poi altre centinaia di contestatori sono arrivate per una nuova manifestazione.

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domenica 11 agosto 2019

Corriere 118.19
Il leader leghista ha sottovalutato e reazioni alla sua mossa
L’istinto di onnipotenza di Salvini comincia a fare i conti con la Costituzione e il Parlamento.
di Massimo Franco

Il suo blitz teso a portare l’Italia alle elezioni anticipate sta riuscendo, ma solo in parte. Sancire unilateralmente la fine della maggioranza con il Movimento 5 Stelle potrebbe condurre quasi per forza di inerzia alle urne. Eppure l’esito è incerto. La Lega, nella sua corsa affannosa verso il voto, addita e pretende il traguardo vicinissimo; il Parlamento, nel quale per ora ha solo il 17% dei voti, invece, lo osserva col cannocchiale rovesciato: più lontano, forse non a portata di ottobre. D’altronde, lo strappo leghista costituisce una forzatura che ha fatto scivolare in secondo piano l’interesse nazionale, privilegiando solo i calcoli elettorali di un partito sicuro di avere il vento in poppa e di doverlo sfruttare subito. Il Carroccio sembra avere sottovalutato l’allarme che il suo diktat sta provocando, e non solo in Italia, per la forte componente estremistica e antieuropea che sprigiona. Esistono impegni finanziari e scadenze di governo da rispettare, e vincoli che non possono essere scansati solo per permettere la «presa del potere» salviniana dai contorni di una guerra-lampo sulla pelle dell’Italia. Restituire lo scettro della crisi al Parlamento e al Quirinale è una via obbligata costituzionalmente. Non si tratta di frenare le ambizioni di vittoria leghiste ma di permettere all’opinione pubblica di comprendere le ragioni della rottura e renderla trasparente nei suoi passaggi. Non sarà facile. Il terrore grillino di un voto anticipato che falcidierebbe i suoi consensi e le sue rappresentanze parlamentari porta un redivivo Beppe Grillo a invocare un fronte contro i «barbari» di Salvini: versione aggiornata e pasticciata di unità nazionale. Proposta singolare. Il «nuovo» si aggrappa all’odiato sistema non per salvare il Paese e la tenuta dei conti pubblici, ma soprattutto per salvare se stesso, contando di mettere insieme paure trasversali. È una reazione simmetrica e opposta a quella della Lega. E offre il medesimo brutto spettacolo da parte della ormai ex maggioranza. Avventurismo elettorale leghista e strumentale trasformismo grillino vanno a braccetto, accompagnati dal solito corredo di insulti. Con quali esiti, si vedrà. Ma proprio per questo, ora più che mai Costituzione, Parlamento e Quirinale sono le uniche garanzie di serietà contro azzardi e furbizie accomunati da una spregiudicatezza venata di irresponsabilità. Se e quando si arriverà alle elezioni è ancora da capire. E non è detto che sia la cosa migliore per il Paese. Si dovranno evitare pasticci e ammucchiate improbabili, ma anche scongiurare accelerazioni foriere solo di fratture più profonde e pericolose, per i rapporti interni, per la tenuta dell’Italia e per le relazioni con i nostri alleati europei. Il rispetto delle regole è il minimo che si debba pretendere da chi da tempo mostra una prepotente inclinazione a calpestarle per il proprio esclusivo tornaconto. Sarebbe bene se ne rendessero conto anche le opposizioni, per non ridursi al ruolo di strumenti subalterni di una demagogia che ha già prodotto molti guasti.


Il Sole 11.8.19
Un esecutivo neutrale per il voto
La crisi di governo che sta per aprirsi si presenta con dei connotati in parte inediti. Non nasce infatti semplicemente, come in occasioni del passato, a causa del distacco di una delle forze politiche della maggioranza dall’accordo di governo, e nemmeno perché è stato approvato in Parlamento un provvedimento non condiviso da una parte del Governo
di Valerio Onida


La vicenda delle mozioni sulla Tav poteva non essere di per sé decisiva, se uno dei partiti di governo avesse semplicemente accettato (e così in fondo è stato per il M5s) un voto parlamentare in cui prevalesse una delle due posizioni espresse dai partiti al governo. Si può ricordare, si parva licet componere magnis, che le leggi sul divorzio (1970) e sull’aborto (1978) passarono in Parlamento contro la posizione espressa dalla Dc, che era all’epoca il maggior partito del governo in carica ed esprimeva il Presidente del Consiglio dei ministri; e non provocarono di per sé crisi di governo né dislocazioni decisive nella maggioranza parlamentare che sorreggeva il Governo. In regime parlamentare è possibile, anche se non frequente, che su singoli temi, che si accetta non facciano parte del programma di governo, si manifestino maggioranze diverse da quella che sostiene l’esecutivo.
Ciò che di singolare ha questa crisi è piuttosto il fatto che essa nasce da dissensi e scontri fra le due forze della maggioranza persino più aspri di quelli che caratterizzano la dialettica fra maggioranza e opposizioni. In ogni modo, è una crisi, quella attuale, che non sembra poter avere altro sbocco se non le elezioni. Infatti la maggioranza non c’è più, e non sembra che nell’attuale Parlamento possa manifestarsi una qualsiasi diversa maggioranza politica, ricomponendo il puzzle degli attuali gruppi parlamentari.
Non solo dunque il Governo in carica deve necessariamente dimettersi, aprendo anche formalmente la crisi; ma esso non sembra possa avere alcuna alternativa politica in questa legislatura. A questo punto, è bene però che le dimissioni del Governo conseguano ad un voto o almeno ad un dibattito parlamentare che ratifichi esplicitamente l’apertura della crisi: e bene ha fatto il Presidente Conte a volere questo passaggio per la cosiddetta “parlamentarizzazione” della crisi. Non che dal dibattito possa emergere, per quanto è prevedibile, una qualsiasi maggioranza alternativa per governare, sulla base degli attuali rapporti di forza nelle Camere: ma almeno dovrebbero risultare chiare le posizioni dei vari gruppi sugli indirizzi fondamentali sui quali gli elettori saranno chiamati a pronunciarsi. Le elezioni appaiono dunque come l’unica strada possibile per ridare un indirizzo politico di governo al Paese.
Non sembra infatti plausibile nemmeno l’ipotesi di un Governo “tecnico” che duri magari fino ad elezioni non del tutto prossime, sul modello del Governo Monti del 2011. Questo nacque, lo ricordiamo, da una più o meno convinta accettazione da parte di molte forze parlamentari, della maggioranza uscente e delle opposizioni, di una fase di “decantazione”, di fronte a problemi in parte nuovi posti dai rapporti con le istituzioni europee, e quindi con un programma ben individuabile. Oggi i problemi, vecchi e nuovi, sussistono, certo, ma non sembra esserci all’orizzonte di questo Parlamento alcun indirizzo di “larga coalizione” attorno a cui possa sorgere un nuovo esecutivo.
In queste condizioni normalmente il Governo, dimissionario perché sfiduciato, assume il compito di assicurare gli “affari correnti” fino al voto e al successivo formarsi di una nuova maggioranza. Però oggi questa non sembra a sua volta una soluzione facile e pacifica. Infatti, in attesa del voto e poi della formazione della nuova maggioranza, avremmo una fase che non sembra facilmente affrontabile in termini di “ordinaria amministrazione”. Da un lato abbiamo una compagine governativa attraversata da divisioni anche più profonde di quelle che normalmente caratterizzano la dialettica fra maggioranza e opposizioni: ed è quindi difficile che questo Governo, con questi ministri, sia in grado di amministrare il Paese con la necessaria “neutralità” politica che dovrebbe caratterizzare l’attesa delle decisioni degli elettori. Dall’altro lato, nei mesi che dovranno trascorrere prima della formazione del nuovo Governo post-elettorale dovranno essere prese delle decisioni, ad esempio in materia di bilancio, che difficilmente potranno essere solo di “ordinaria amministrazione”: non foss’altro una decisione che “congeli” la situazione finanziaria e apra la strada a un esercizio provvisorio (espressamente previsto dalla Costituzione) in attesa della definizione della nuova politica di bilancio per il 2020.
Occorre, dunque, che il Governo in carica nel periodo elettorale sia in grado e sia capace di adottare queste decisioni col massimo possibile di “neutralità”, e dunque con il consenso parlamentare più ampio possibile. In definitiva, un Governo che si proponga come esclusivo fine quello di consentire lo svolgimento delle elezioni in un clima in cui le esasperazioni polemiche di tutti contro tutti possano lasciare il posto, almeno in parte, ad un confronto più serio, in sede elettorale e postelettorale, sugli indirizzi di fondo da imprimere alla politica nazionale, europea e internazionale del nostro Paese.

Il Sole 11.8.19
Etica. Pubblicato il ciclo di conferenze tenute a Friburgo dal 1920 al 1924
Quando a lezione Husserl criticò Kant
di Ermanno Bencivenga

Triste è il destino dei grandi filosofi. Per capirli sarebbe necessaria una mente alla loro altezza, rara come una mosca bianca; di solito, rimangono ostaggio degli «studiosi» che in ogni occasione citano libro e versetto ma sul senso di quelle sacre scritture ne sanno quanto i sei ciechi della parabola su come è fatto un elefante. Ogni tanto compare all’orizzonte un altro grande filosofo, e capita pure, magari, che voglia dire la sua sul collega; ma le grandi menti hanno poco tempo per i dettagli altrui, impegnate come sono ad articolare i propri. E poi sono ambiziose: se parlano di un collega, è per usarlo come trampolino di lancio per i loro voli, come ombra sullo sfondo della quale far risplendere i loro bagliori.
L’Introduzione all’etica comprende un ciclo di lezioni tenute da Edmund Husserl nel 1920 e ancora nel 1924, a Friburgo, davanti a un pubblico d’eccezione che comprendeva Norbert Elias, Karl Löwith, Herbert Marcuse e Hans Jonas. Tratta il suo argomento storicamente, il che è insolito in Husserl, seguendo un percorso cronologico che va dai sofisti a Kant. Ci sono scelte idiosincratiche: Aristotele viene appena menzionato ma si presta attenzione ad Aristippo; nella modernità la Gran Bretagna è meglio rappresentata (con Hobbes, Locke, Hume e Mill) del continente europeo.
Ma il confronto più teso e sostenuto è con il personaggio culmine della vicenda: il saggio di Königsberg, al quale Husserl dedica in chiusura una quarantina di pagine ma la cui figura incombe su tutto il testo. Viene introdotto con rispetto: due interi paragrafi sono dedicati a un sommario di alcune parti della Critica della ragion pratica. E gli viene riconosciuto il grande merito di aver combattuto l’edonismo (definito «la negazione dell’etica»). Ma tali concessioni servono solo a indorare l’amara pillola: precedute da un minaccioso «Passiamo ora alla critica», gli vengono riversate contro le accuse più severe, senza appello. I suoi sono «meri concetti, significati morti, estranei agli atti della vita originariamente conferente senso»; le sue dottrine sono assurde, incomprensibili, fallimentari e perfino impensabili.
Qual è l’oggetto del contendere? Ce ne sono vari, ma accomunati da una cruciale differenza di tono. Kant ci consegna un mondo indeterminato e pericolante, in cui gli oggetti sono fragili aggregazioni di dati, tenuti insieme da misteriosi atti sintetici e pronti a disfarsi quando meno dovrebbero, o a esplodere in antinomie se facciamo troppe domande. In ambito etico, dichiara che è la ragione a dare ordini, ma la lettura dei nostri comportamenti alla luce delle sue ingiunzioni formali sarà sempre aperta al dubbio: potremo solo sperare di aver fatto la cosa giusta, la nostra perfezione morale va perseguita «con timore e tremore».
Husserl, invece, è pieno di certezze: basta che mi concentri sul contenuto della mia coscienza e «posso cogliere verità generali in una certezza assoluta, posso vederle in atti di una perfetta comprensione evidente». «Come sempre, solo l’indagine fenomenologica può fare chiarezza su tali questioni.»
Perché dunque porsi tanti problemi con le entità instabili, fenomeniche che popolano la nostra quotidianità? Non ci sono forse oggetti ideali, per esempio matematici, che possiamo cogliere con perfetta evidenza? E non è il bene un oggetto di questo tipo? Kant esitava a riconoscere uno statuto cognitivo indipendente alla matematica, e non aveva tutti i torti: qualche anno dopo queste lezioni di Husserl, il teorema di Gödel avrebbe dimostrato che delle teorie matematiche non siamo in grado di conoscere non dico la verità, ma neanche la coerenza.
Kant attribuisce il giudizio morale alla ragione, e per Husserl è «impensabile un volere che non abbia basi motivazionali» sensibili. Kant però lo sapeva, e infatti dice: «La legge morale contiene senza dubbio delle prescrizioni, ma non dei moventi; essa manca di quella forza esecutiva, che costituisce il sentimento morale». Basterebbe leggerlo. Che io sappia che cosa dovrei fare non implica che lo farò; posso solo sperare, dicevo, che l’educazione che ho ricevuto, la società che mi circonda e i sentimenti che entrambe mi hanno ispirato siano efficaci al proposito.
La bella sicurezza ostentata da Husserl ha fatto il suo tempo; oggi a darle credito sono rimasti pochi fedeli (e, si capisce, gli «studiosi»). Rimane il rimpianto per l’incomprensione e l’arroganza testimoniate in queste pagine e ingiustificate sulla base del reale rapporto tra i due filosofi. Lasciando al loro destino le sciocchezze di verità ideali percepite con assoluta evidenza, la fenomenologia ha fatto molto per sviluppare l’idealismo trascendentale, che Kant aveva iniziato e abbozzato ma non aveva completato. La faticosa costruzione dell’impianto «copernicano» continua in Husserl e nella sua scuola, con le incertezze e i dubbi che naturalmente le si accompagnano, ed è opera di innegabile valore. Se solo le grandi menti la smettessero di darsi addosso e imparassero a lavorare insieme!





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