il Manifesto 15.7.17
«Lotte di donne, migranti e operai: cresce l’onda socialista Usa»
Stati
uniti. Intervista a Ahmed Shawki, fondatore della casa editrice
Haymarket e protagonista della quattro giorni di Socialism2017: «I
Democratic Socialist sono passati da 8.500 membri a 22mila. Ma più
importante è la qualità del dibattito tra i giovani, al livello degli
anni '70»
di Yurii Colombo
CHICAGO Lo scorso
week end a Chicago si sono incontrati oltre duemila attivisti della
sinistra americana per discutere su come continuare la battaglia contro
l’amministrazione Trump e le destre.
Socialism2017 è stata
sponsorizzata dalle riviste Jacobin, International Socialist Review
(Isr), socialistworker.org e dalla casa editrice Haymarket Books. Nella
quattro giorni si sono svolti 160 dibattiti e seminari che hanno
spaziato su tutti i temi più importanti: dalle lotte del movimento
femminista americano fino allo studio delle lotte operaie degli operai
neri a Detroit negli anni ’60.
L’occasione ci ha permesso di intervistare Ahmed Shawki, fondatore della Haymarket e redattore della Isr.
A che punto siamo qui in America con i movimenti sociali contro Trump e le destre?
Quello
che è successo dopo l’elezione di Trump lo presagivamo ma non in queste
dimensioni. Lo sciopero delle donne dell’8 marzo è stato un punto di
svolta. A partire dall’appello di Angela Davis e della nostra compagna
Keeanga-Yamahtta Taylor si è prodotta una mobilitazione di massa delle
donne mai vista in questo paese.
Le lotte per difendere il diritto
di immigrazione stanno continuando a livello locale. Per esempio il
movimento in California per liberare Claudia Reuda, attivista dei
diritti umani che rischiava di essere deportata. Dopo una lunga lotta
siamo riusciti a farla rilasciare. Anche a livello sindacale le cose si
stanno muovendo: proprio ieri a Boston migliaia di infermiere sono scese
in sciopero per migliori salari e condizioni di lavoro.
Qui a Socialism2017 si è toccato con mano che ormai in America la parola socialismo non fa più paura.
La
campagna per la candidatura di Bernie Sanders è stata decisiva.
Migliaia di giovani si sono mobilitati nelle primarie, milioni di
americani hanno sentito parlare per la prima volta alla tv di socialismo
democratico. L’onda sta proseguendo. I Democratic Socialist of America
in un anno sono passati da 8.500 membri a 22mila. A Socialism lo scorso
anno erano venute circa 1.400 persone, quest’anno abbiamo superato le
duemila. Sono numeri importanti per gli Stati uniti.
Ma ancora più
importante è la qualità del dibattito tra i giovani militanti di
sinistra: per avere un livello del genere bisogna tornare agli anni ’70.
Certo, le organizzazioni di sinistra americana hanno differenze tra di
loro, è naturale quando si arriva da diverse tradizioni e culture. Ma
l’importante è che il dibattito prosegua nella mobilitazione unitaria e
che sia franco ma non settario.
Parlaci della vostra casa editrice, Haymarket Books.
Senza
falsa modestia credo che la Haymarket Books sia oggi la casa editrice
più importante della sinistra radicale americana. Abbiamo ormai un
catalogo di 500 opere. Naomi Klein ha deciso di pubblicare il suo ultimo
libro con noi. Nel nostro catalogo abbiamo opere di Howard Zinn,
Arundhati Roy, Noam Chomsky, Angela Davis. Questi autori di fama
mondiale ci hanno permesso di pubblicare molti altri libri sulla storia
del movimento operaio come per esempio la trascrizione completa dei
Congressi del Comintern, le opere di Gramsci, studi sui movimenti
sociali, lgbt, femministi. Andremo ancora avanti perché le idee della
sinistra abbiano sempre più canali per penetrare nella società
americana.
Quali rapporti si possono costruire tra sinistra europea e americana?
Guardiamo
con grande rispetto alla tradizione della sinistra europea. L’ascesa di
Corbyn in Gran Bretagna è di grande ispirazione e interesse. Ogni anno
invitiamo a Socialism attivisti e studiosi europei. Quest’anno erano
presenti dirigenti di Podemos, di Unità Popolare greca e del Npa
francese. E poi militanti dall’Olanda, la Svizzera, l’Irlanda, la
Scozia. Si è parlato della Russia putiniana. Credo che la sinistra
europea debba trovare degli spazi specifici per discutere di tattica e
strategia su scala continentale e mondiale. In questo quadro daremo
sicuramente il nostro contributo.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 15 luglio 2017
Repubblica 15.7.17
Cronache di una rivoluzione 1917 2017
Gli intellettuali traditi
Uomini e donne della San Pietroburgo letteraria, cresciuti nel culto del popolo, sono in un primo tempo sedotti e poi colpiti duramente dai fatti del 1917
di Ezio Mauro
SAN PIETROBURGO Doveva essere un’eco terribile, che risaliva dal profondo della storia russa, il rumore dell’acqua che batte nelle fondamenta del bastione Trubezkoj, sotto il livello della Neva, e il rimbombo della campana sulla fortezza che sembra chiamare a un funerale tutto il giorno e anche di notte, quattro volte ogni ora. Usciti i bolscevichi, nelle celle rettangolari erano entrati i dignitari dello Zar, presidenti del Consiglio, ministri, ciambellani, dame di Corte, capi della polizia, e adesso dovevano muoversi tra un letto di ferro, un secchio, un minuscolo lavandino grigio, un tavolo con l’unica sedia. Mi sono affacciato allo spioncino di legno delle celle, per inquadrare il ribaltamento del mondo avvenuto proprio qui cent’anni fa: quando il conte Frederiks, generale, cavaliere dell’Ordine dei Serafini e ministro di Corte si sedette su questo pagliericcio, passando in poche ore dal palazzo imperiale alla rivoluzione, talmente in fretta da precipitare subito e per sempre nella demenza senile. A quello stesso spioncino il mattino del 19 maggio arrivò Aleksandr Blok con i suoi capelli folti, il colletto alto, l’amore russo per le poesie che lo circondava e lo accompagnava per tutto il Paese, convinto che lui scrivesse i suoi versi direttamente davanti a Dio. A 37 anni, era il più grande poeta russo di un’epoca di ferro, come l’aveva definita sporgendosi “su quell’abisso cupo e solitario che si chiama Pietroburgo”. Faceva sogni profondi come presagi, da cui ricavava l’immagine “di una terribile oscurità, con questa nube minacciosa che ci viene incontro”, mentre “l’Anima del mondo si vendica su di noi, che custodiamo moltissimo presente e solo una goccia di futuro”, per veder giungere infine sulla Russia “un fuoco tranquillo, che si diffonde a consumare tutto”.
Proprio quel fuoco lo ha portato qui, nella fortezza di Pietro e Paolo, prigione di tutte le Russie, chiunque comandi. È il segretario della Commissione straordinaria d’inchiesta sui crimini zaristi e prima degli interrogatori visiterà le celle dei trenta prigionieri, fermandosi sull’ex Capo del governo Goremykin che sonnecchia col pomello d’oro sul bastone nero e i pantaloni a righe, respirando a fatica col suo grosso naso, sull’ex ministro degli Interni Protopopov in calzoni corti e lo sguardo infantile disorientato, sulla favorita della Zarina Anna Vyrubova (le faranno una visita ginecologica per accertare che non sia stata anche l’amante dello Zar) che si regge con una stampella mentre getta le sue carte stracciate nella padella. Odore di latrina identico in tutte le celle, la stessa luce metallica al chiuso, l’angelo dorato sulla guglia che spunta all’angolo della finestra, mentre l’orologio a carillon della fortezza suona le dieci.
Solo la Russia, che per ripararsi dalla tragedia trasforma in leggenda la realtà mentre la sta vivendo, poteva affidare a un poeta la stenografia in carcere dei verbali d’interrogatorio dell’impero sconfitto dalla rivoluzione. Il nuovo potere giudicherà: ma intanto Blok guarda, e se a Palazzo d’Inverno osserva indifferente la sala del trono con tutta la stoffa rossa strappata sui gradini, nella fortezza vede il vecchio Presidente del Consiglio che perde la memoria, il vicecapo dei gendarmi Kafafov che piange, l’ex capo della polizia Belezkij che tentenna davanti alle domande, nasconde le mani in tasca, ritrae le gambe. “Tutte queste persone – dirà – non le ho conosciute nello splendore del potere, le incontro oggi nell’umiliazione. Non ho una visione chiara di quel che sta accadendo, ma per volere del destino sono stato elevato a testimone di una grande epoca”. La conclusione è scritta nei suoi taccuini: “Non si può giudicare nessuno. L’uomo nell’ora del dolore diventa un fanciullo”.
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Blok faceva sogni da cui ricavava l’immagine di una terribile oscurità Solo la Russia poteva affidare a un poeta i verbali degli interrogatori
Come molti scrittori, Blok aveva vissuto il Febbraio nel fragore futurista subitaneo, “come uno scontro tra due treni in piena notte, un ponte che si sfascia, una casa che crolla”. “È accaduto un miracolo – scriveva alla madre subito dopo la prima rivoluzione –, e ce ne possiamo aspettare altri”. “Se dobbiamo vivere – annotava con slancio una sera – ebbene, viviamo”. Poi, dopo un mese appena di interrogatori in carcere si accorgerà che i suoi nervi sono diventati “ottusi”, perché “tutti costoro, figli vivi e uccisi del mio secolo, dimorano in me”. Da qui la riflessione sulla democrazia, “non si può mai dimenticare che è cinta di tempesta”, la confessione intima (“è tutto talmente senza scampo, nell’anima e nel corpo c’è un indicibile peso, il denaro vola, la vita diventa mostruosa, turpe, insensata, depredano ovunque”), fino alla frase del rifiuto e della condanna sussurrata da un amico al telefono e riportata nel segreto del diario, di notte: “è ripugnante il paradiso socialista-piccolo borghese-bolscevico”. Poi la resa. Prima nell’anima della città: “Voci sulla chiusura di tutte le botteghe, mancano i generi di prima necessità, quello che c’è ha prezzi folli. Gelo, oscurità quasi completa. Un vecchio urla, morendo di fame”. Quindi si arrende l’anima del poeta: “Ormai non sono più in grado di lavorare sul serio, finché sul collo mi balla il cappio dello stato poliziesco”. Lui, l’autore dei Dodici, con le Guardie Rosse che marciavano guidate da Gesù Cristo, morirà per denutrizione, per esaurimento, ma soprattutto per la sua “asma spirituale”, come la chiama Andrej Belyj, delusione e angoscia. Non scriveva più: “Tutti i suoni sono cessati. Soffoco, soffochiamo tutti, anche la quiete e la libertà ci vengono tolte. E il poeta muore perché non ha più nulla da respirare, la vita ha perso significato”.
Ingigantita dalla sua figura e dal suono ipnotico dei suoi versi, la parabola di Blok è quella di gran parte dell’intellettualità russa, tradita e colpita dalla rivoluzione dopo essere stata sedotta: perché cresciuta nel culto del popolo, anzi con la missione di costruire nel popolo un’ideologia di ribellione al potere autocratico, tanto che Nikolaj II chiederà di cancellare dal vocabolario la parola “intellighentija”. Per questo i funerali del poeta segneranno la fine degli anni d’argento, l’inizio secolo delle avanguardie artistiche, tanto che per due settimane si parlò sottovoce nel retropalco dei teatri, nelle librerie sul lato illuminato dal sole del Prospekt Nevskij, al Club Artistico, al Circolo Musicale, alla Casa del Letterati, come se fosse morta una certa idea di Pietroburgo. Ho risalito le scale da cui il 10 maggio del ’21 Blok è sceso per l’ultima volta accompagnato dal canto funebre ortodosso, dal vento caldo che arrivava dal mare, da Belyj, Berberova, Achmatova, Zamjatin, in mezzo a centinaia di sconosciuti coi fiori e le candele in mano, richiamati dai versi senza più voce, come se la città non avesse più luce.
In quelle stesse ore, Anna Achmatova aveva saputo dell’arresto dell’ex marito, il poeta Nikolaj Gumilev, accusato di far parte dell’”Organizzazione Combattente di Pietrogrado”, e condannato alla fucilazione, nonostante le intercessioni e le richieste di grazia che a un certo punto fecero sbottare Dzerzhinskij, il Capo della polizia segreta, la Ceka: “Perché mai dobbiamo giustiziare gli altri e salvare un poeta”? Eppure all’inizio il Febbraio aveva trovato Piter dentro un sommovimento artistico senza precedenti, le due rivoluzioni sembravano parlarsi. Cinquecento film russi in produzione nell’anno fatale, il 1917, i primi attori dell’Aleksandrinskij che non ricevono più il portasigarette dorato dello Zar con l’aquila tempestata di diamanti ma vedono le orchestre che decidono di suonare senza direttore, i poeti di strada acclamati come maghi nel silenzio della sera, i pittori tra cubismo e futurismo che colorano gli alberi e trasformano le case in tele gigantesche. Per poi cominciare la notte in fondo a via Italianskaja al “Cane Randagio” (con le foto dei poeti appese al muro ancora oggi, tra i “bicchieri gelati sul tavolino e il vapore odoroso del caffè nero”), e continuarla alla Casa delle Arti dove vivevano insieme – bruciando d’inverno al fuoco del camino le vecchie carte della banca vicina – Mandelshtam, Chodasevic, Olga Forsh, e Nina Berberova a Capodanno ballava il fox trot nella sala degli specchi. Poi tutto, musica, letteratura, poesia e rivoluzione, andava a finire alla “Bashnja”, la Torre di Vjaceslav Ivanov che riceveva gli ospiti in guanti neri il mercoledì discutendo di Dioniso e di Cristo, mentre i poeti recitavano i loro versi fino all’alba, sporgendosi dai tetti per veder sfiorire il bianco della notte.
“All’assalto delle porte del paradiso/ noi avanziamo/ per gli altri abbiamo sfondato la porta” – cantava nei primi mesi della rivoluzione Vladimir Majakovskij che nel 1930 si sparerà un colpo di pistola al cuore dopo aver scritto il suo addio al “compagno governo” – “Più in alto, nostro vessillo/ falce, in un giunco di fiamma/ abbraccia il martello con l’arcobaleno del tuo arco”. “Voglio seguire l’epoca, il rumore e il germogliare del tempo”– aggiungeva Osip Mandelshtam, che morirà nel gulag nel ‘38 – “Mio secolo, mia belva, chi saprà guardare nelle tue pupille”? E Andrej Belyj spiegava convinto: “Come un colpo dal sottosuolo che tutto distrugge, arriva la Rivoluzione. Arriva come un uragano, che spazza via ogni forma, come una statua, una pietra, grandine, inondazione, cascata. Tutto batte oltre ogni limite, tutto è esagerato. La Rivoluzione si riversa nell’anima dei poeti, e da lì rinasce e riemerge nel colore azzurro del romanticismo e nell’oro del sole”. Ma Lenin diffidava, nonostante gli ardori poetici. Per lui gli intellettuali di Pietrogrado “non comprendono, non imparano, non dimenticano”, mentre l’energia culturale operaia cresce e si rafforza, emarginando l’intellighentija “che si crede il cervello della nazione, e invece è soltanto lo sterco della Russia”. Diceva che la letteratura “deve essere partigiana, la ruota e la vite della grande macchina del partito”: e per questo addirittura seguì da vicino gli studi del premio Nobel Ivan Pavlov sul riflesso condizionato, pensando di unire bolscevismo e scienza per modificare l’uomo, portando dopo i corpi anche l’anima dentro il vortice della rivoluzione.
In quel vortice del ’17 gli scrittori e i poeti russi erano finiti ad uno ad uno, sorpresi ognuno in un punto diverso della Russia e della vita, come sotto un uragano. A Boris Pasternak la notizia del Febbraio arrivò nel pieno dei suoi 27 anni, mentre correva su una slitta da Tichie Gory verso Mosca, dentro tre cappotti, affondato nel fieno, con tre cavalli che tiravano nella neve la “kibitka” coperta sui pattini. L’Ottobre per lui cominciò invece a Mosca, con una telefonata del cugino: si spara nel quartiere della Precistenka, è una vera battaglia, guai a uscire di casa. Poi era saltato subito il telefono, e Pasternak rimase isolato per una settimana, senza sapere nulla di ciò che accadeva in città ma sentendo il suono delle granate lanciate dall’Arbat, il sibilo delle pallottole come api nel cortile, il crepitio delle lampadine che lampeggiavano per spegnersi subito e infine l’incedere sordo e massiccio di un carrarmato che risaliva la strada: subito dopo, tornato un silenzio pauroso, lo scrittore che uscì nel suo cappotto studentesco di panno capì che la Mosca fin lì conosciuta era finita per sempre.
A Piter Zinaida Gippius – che fino a poche settimane prima riceveva vestita di bianco o di rosa, guardando gli ospiti dall’occhialino che reggeva con una stanghetta – viveva proprio davanti a palazzo Tauride, la sede della Duma, e dalle finestre chiuse per paura delle pallottole poté partecipare dall’alto alle convulsioni della rivoluzione. A Febbraio quello è l’epicentro del terremoto che scuote il Paese, passano davanti alla casa le fanfare dei reggimenti ammutinati, le prime bandiere rosse, i marinai dormono per strada, lo spazio davanti a Tauride e le vie vicine sono bloccate dalla folla, gli amici impiegano 5 ore per arrivare dalla stazione fin qui, dove quasi ogni sera sale il vecchio amico Kerenskij. Zinaida guarda: “Non posso cambiare nulla, ho solo la consapevolezza che accadrà. Le parole e le frasi, tutto ormai ha perso di significato. Gli uomini si sono stretti un cappio alla gola, c’è nell’aria un soffio di mistero. Come se guardassimo nell’acqua torbida, non sappiamo a quale distanza ci troviamo dal crollo”. Fuori, tram bloccati, giornali assenti, scuole chiuse, giardini sbarrati, “risplendono solo i teatri pieni zeppi e i falò delle truppe che bivaccano sulle strade”. Per la scrittrice “non è l’ora di pronunciare giudizi, è un momento terribile e insieme gioioso”. Poi ecco “gli aculei scintillanti” delle baionette, i soldati che sparano alle finestre, la fiaba che diventa “minacciosa e terribile”, su un terreno ardente. E a settembre, la profezia: “Kerenskij è un autocrate pazzo”, “i bolscevichi sono ottusi fanatici”. Poi un’ultima cena alla vigilia dell’Ottobre, frutta, baranki col cumino, vino georgiano. Quindi salta la luce, Zinaida sbarra le finestre, la strada è buia, lei scrive davanti a un mozzicone di candela. È “il potere delle tenebre: che il diavolo se li porti”.
Tutti i diavoli e i santi, dice Nina Berberova, avevano già deciso di convergere su Pietroburgo in quell’anno in cui ogni cosa sembrò precipitare di colpo: “Una folla felice, irata, esitante, un lampo che balena, lo sfacelo cruento, un patriottismo nocivo e a buon mercato, parole, parole e l’incapacità di fare alcunché”. Si stava sfasciando il vecchio ordine che il popolo disprezzava, ma si avvicinava la rovina di fasce intere di popolazione “perdendo due generazioni di intellettuali, un ce- to colto che verrà eliminato e che non si riuscirà a ricostruire nemmeno in 200 anni”. Per la scrittrice il ’17 è l’ultimo anno del ginnasio, ma anche della scoperta dei Dodici di Blok e del primo amore. In poche settimane passerà dal conforto di una casa borghese all’inferno di una povertà che non aveva mai conosciuto. Quando la famiglia, pochi mesi dopo l’Ottobre, si trasferisce a Mosca sente per la prima volta la miseria dei suoi 17 anni trascinati nella polvere e nell’afa del Bulvar senza amici, con l’ingresso nelle mense pubbliche, una stanza in coabitazione, il pomeriggio a guardare le salsicce sul marmo di un negozio in viale Smolenskij, l’umiliazione della fame, le focacce con la buccia delle patate, e nonostante tutto il conforto di vedere il paiolo con la minestra sul fuoco e di sapere che ci sono i libri alla biblioteca del Corso. Il ritorno a Piter è l’ingresso con le poesie in mano alla Casa dei Poeti, poi in quella “Nave dei folli” che è la “Casa dei Letterati”, il cappotto rivoltato e gli stivali cuciti col feltro della moquette per arrivare al Capodanno del ’22 “nella città mezza morta”, vino, musica, profumo di Houbigant“ e tutti presentivano che sarebbero stati oppressi, tormentati, che gli avrebbero tappato la bocca, costretti a morire o a abbandonare la letteratura”. Finché arrivano i passaporti numero 16 e 17 per lei e Chodasevic, il marito poeta, e si può partire.
Se ne andrà anche Vladimir Nabokov, una settimana dopo l’Ottobre, per paura di un arruolamento forzato. Si chiuderà alle spalle la casa dove oggi stanno riportando alla luce gli affreschi, al numero 47 di quella via Morskaja che metteva in fila l’abitazione del principe Oginskij al 45, l’ambasciata italiana al 43, quella tedesca al 41, per arrivare infine a piazza Mariinskij. Lui sente “l’alito ardente di straordinari sconvolgimenti, un sordo brontolio dietro le quinte” già nel 1915, quando con la sua prima ragazza, Tamara, gira per Pietroburgo in ghette bianche, ma con un tirapugni nella tasca di velluto. Dopo la prima rivoluzione, ascolterà la notizia della rinuncia al trono di Mikhail tra una lezione di scherma e un’ora di boxe con monsieur Loustalot. Prima, da bambino, c’è il bacio della madre attraverso la rete sottile della veletta, i gioielli custoditi in un tramezzo dello spogliatoio e che poi in esilio verranno nascosti in una scatola di talco per essere venduti a poco a poco, il gioco al mattino con Volkov l’autista, per capire se lo accompagnerà a scuola con la Benz o con la nuova Wolseley munita d’interfono, che sarà smontata e nascosta in campagna dopo la rivoluzione per paura della confisca. Il padre è segretario del Consiglio dei ministri nel primo governo provvisorio, la famiglia ha tre tenute di campagna, uno stemma araldico con due leoni, 50 persone a servizio, un valletto che sta in piedi tra i pattini della slitta guidata da Zachar, nel suo pastrano azzurro imbottito d’ovatta.
Tutto questo si rovescia fino a scomparire di colpo, quando i marinai bolscevichi vogliono arrestare Nabokov padre che riesce a scappare verso la Crimea con uno zaino che gli porta il cameriere Osip all’ultimo momento: tutta la vita che resta è ormai lì dentro, insieme con i sandwich al caviale del cuoco Nikolaj Andreevic. Svanisce la geografia familiare di Piter, la scuola, il negozio inglese sul Nevskij, cambiano a Jalta gli odori e i colori, è nuova anche la preghiera del muezzin ogni sera, il raglio di un asino al tramonto. Arriveranno fin qui i bolscevichi, e allora da Sebastopoli la famiglia Nabokov salperà per il Pireo, prima tappa dell’esilio, fino alla pallottola fascista che nel ’22 a Berlino ucciderà il padre, curvato per proteggere il suo maestro Miljukov. Per Vladimir Nabokov comincia la vita da émigré, che lui definirà di indigenza materiale e di lusso intellettuale: “Con pochissime eccezioni tutte le energie creative di orientamento liberale, poeti, narratori, critici, storici, filosofi, lasciavano la Russia di Lenin. Quelli che non lo facevano, o avvizzivano laggiù, o adulteravano il proprio talento uniformandolo ai dettami politici di Stato”.
Non tutti, o almeno non sempre. Maksim Gorgkij, amico di Lenin dal 1905, già nel giugno del ’17 coltiva una forte critica nei confronti dei bolscevichi. Prima nelle lettere private (“sono i veri idioti russi, li disprezzo e li odio ogni giorno di più”), poi in un articolo sul suo giornale, Novaja Zhizn: “Sia Lenin che Trotzkij non hanno nessuna idea di ciò che significhino la libertà e i diritti dell’uomo. Sono già intossicati dal malefico veleno del potere, come si capisce dalla condotta vergognosa decisa nei confronti delle libertà democratiche, a partire dalla libertà di parola fino alla libertà personale”. Gorkij polemizzerà con Zinovev, capo del partito a Pietroburgo, parlando di crimini vergognosi, con Dzerzhinskij, denunciando l’arresto delle migliori menti della Russia. Andrà all’estero, poi tornerà a ricevere gli onori del regime che gli ammazzerà il figlio, e finirà nel più ideologico cimitero sovietico, le mura del Cremlino. “Ha un talento artistico prodigioso – dirà di lui Lenin –, ma per quale motivo deve intromettersi nella politica”?
In quel luglio del ’17, non sono ancora gli intellettuali a preoccupare Vladimir Ilic. È titubante (la Pravda uscirà con uno spazio bianco in prima pagina per l’indecisione del partito) quando scoppia la rivolta del Primo Reggimento Mitraglieri che si rifiuta di partire per il fronte, quando si aggiungono i 30 mila operai delle officine Putilov, quando arrivano i marinai di Kronstadt che affollano palazzo Tauride chiedendo tutto il potere ai Soviet. Ci sono spari tra l’esercito e le Guardie Rosse, ma Lenin rientrato in fretta dalla Finlandia pensa che il tempo dell’insurrezione finale non sia ancora venuto, perché non è certo l’appoggio delle truppe al fronte. Lo scossone porta alle dimissioni del governo L’vov, Kerenskij diventa Primo Ministro e lancia subito una campagna contro Lenin, Zinovev e Kamenev, con tre mandati di cattura per intelligenza col nemico e tradimento al soldo della Germania. Lenin entra subito in clandestinità, fuggendo verso la frontiera finlandese dopo essersi tagliato il pizzo e i baffi, grazie a una chiamata d’emergenza nell’appartamento della sorella in via Shirokaja, dove si poteva telefonare alla rivoluzione componendo il numero 24-643.
Anni dopo, Lenin ricorderà queste avventure estreme, tentando un bilancio quando Gorkij gli chiederà conto dell’oppressione di tanti intellettuali: “la nostra generazione ha compiuto un’impresa meravigliosa. La crudeltà della nostra vita, resa necessaria dalle circostanze, sarà compresa e perdonata. Tutto sarà compreso, tutto”. Ma basterebbe solo leggere il Requiem di Anna Achmatova, per capire che non può essere così: “Di morte sopra noi stavano stelle/ e innocente la Rus’ si contorceva/ calpestata da stivali sanguinosi”. Si cammina piano ancora oggi nella casa della poetessa, in fondo al cortile dove giocano i bambini, davanti alle finestre dove scrisse “come un fiume io fui deviata/ mi deviò la mia era poderosa”. Nel salotto c’è ancora il posacenere rotondo di peltro dove finivano i versi del Requiem, scritti in poche righe su un foglietto per gli amici in visita che in silenzio li imparavano a memoria, perché non si potevano nemmeno pronunciare, nel terrore che qualcuno ascoltasse. Poi lei accendeva un fiammifero, e li bruciava qui dentro. I versi nel fuoco per diventare polvere di carta, prima di ritornare parola, ma settant’anni dopo. Dopo la cenere russa della poesia.
Cronache di una rivoluzione 1917 2017
Gli intellettuali traditi
Uomini e donne della San Pietroburgo letteraria, cresciuti nel culto del popolo, sono in un primo tempo sedotti e poi colpiti duramente dai fatti del 1917
di Ezio Mauro
SAN PIETROBURGO Doveva essere un’eco terribile, che risaliva dal profondo della storia russa, il rumore dell’acqua che batte nelle fondamenta del bastione Trubezkoj, sotto il livello della Neva, e il rimbombo della campana sulla fortezza che sembra chiamare a un funerale tutto il giorno e anche di notte, quattro volte ogni ora. Usciti i bolscevichi, nelle celle rettangolari erano entrati i dignitari dello Zar, presidenti del Consiglio, ministri, ciambellani, dame di Corte, capi della polizia, e adesso dovevano muoversi tra un letto di ferro, un secchio, un minuscolo lavandino grigio, un tavolo con l’unica sedia. Mi sono affacciato allo spioncino di legno delle celle, per inquadrare il ribaltamento del mondo avvenuto proprio qui cent’anni fa: quando il conte Frederiks, generale, cavaliere dell’Ordine dei Serafini e ministro di Corte si sedette su questo pagliericcio, passando in poche ore dal palazzo imperiale alla rivoluzione, talmente in fretta da precipitare subito e per sempre nella demenza senile. A quello stesso spioncino il mattino del 19 maggio arrivò Aleksandr Blok con i suoi capelli folti, il colletto alto, l’amore russo per le poesie che lo circondava e lo accompagnava per tutto il Paese, convinto che lui scrivesse i suoi versi direttamente davanti a Dio. A 37 anni, era il più grande poeta russo di un’epoca di ferro, come l’aveva definita sporgendosi “su quell’abisso cupo e solitario che si chiama Pietroburgo”. Faceva sogni profondi come presagi, da cui ricavava l’immagine “di una terribile oscurità, con questa nube minacciosa che ci viene incontro”, mentre “l’Anima del mondo si vendica su di noi, che custodiamo moltissimo presente e solo una goccia di futuro”, per veder giungere infine sulla Russia “un fuoco tranquillo, che si diffonde a consumare tutto”.
Proprio quel fuoco lo ha portato qui, nella fortezza di Pietro e Paolo, prigione di tutte le Russie, chiunque comandi. È il segretario della Commissione straordinaria d’inchiesta sui crimini zaristi e prima degli interrogatori visiterà le celle dei trenta prigionieri, fermandosi sull’ex Capo del governo Goremykin che sonnecchia col pomello d’oro sul bastone nero e i pantaloni a righe, respirando a fatica col suo grosso naso, sull’ex ministro degli Interni Protopopov in calzoni corti e lo sguardo infantile disorientato, sulla favorita della Zarina Anna Vyrubova (le faranno una visita ginecologica per accertare che non sia stata anche l’amante dello Zar) che si regge con una stampella mentre getta le sue carte stracciate nella padella. Odore di latrina identico in tutte le celle, la stessa luce metallica al chiuso, l’angelo dorato sulla guglia che spunta all’angolo della finestra, mentre l’orologio a carillon della fortezza suona le dieci.
Solo la Russia, che per ripararsi dalla tragedia trasforma in leggenda la realtà mentre la sta vivendo, poteva affidare a un poeta la stenografia in carcere dei verbali d’interrogatorio dell’impero sconfitto dalla rivoluzione. Il nuovo potere giudicherà: ma intanto Blok guarda, e se a Palazzo d’Inverno osserva indifferente la sala del trono con tutta la stoffa rossa strappata sui gradini, nella fortezza vede il vecchio Presidente del Consiglio che perde la memoria, il vicecapo dei gendarmi Kafafov che piange, l’ex capo della polizia Belezkij che tentenna davanti alle domande, nasconde le mani in tasca, ritrae le gambe. “Tutte queste persone – dirà – non le ho conosciute nello splendore del potere, le incontro oggi nell’umiliazione. Non ho una visione chiara di quel che sta accadendo, ma per volere del destino sono stato elevato a testimone di una grande epoca”. La conclusione è scritta nei suoi taccuini: “Non si può giudicare nessuno. L’uomo nell’ora del dolore diventa un fanciullo”.
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Blok faceva sogni da cui ricavava l’immagine di una terribile oscurità Solo la Russia poteva affidare a un poeta i verbali degli interrogatori
Come molti scrittori, Blok aveva vissuto il Febbraio nel fragore futurista subitaneo, “come uno scontro tra due treni in piena notte, un ponte che si sfascia, una casa che crolla”. “È accaduto un miracolo – scriveva alla madre subito dopo la prima rivoluzione –, e ce ne possiamo aspettare altri”. “Se dobbiamo vivere – annotava con slancio una sera – ebbene, viviamo”. Poi, dopo un mese appena di interrogatori in carcere si accorgerà che i suoi nervi sono diventati “ottusi”, perché “tutti costoro, figli vivi e uccisi del mio secolo, dimorano in me”. Da qui la riflessione sulla democrazia, “non si può mai dimenticare che è cinta di tempesta”, la confessione intima (“è tutto talmente senza scampo, nell’anima e nel corpo c’è un indicibile peso, il denaro vola, la vita diventa mostruosa, turpe, insensata, depredano ovunque”), fino alla frase del rifiuto e della condanna sussurrata da un amico al telefono e riportata nel segreto del diario, di notte: “è ripugnante il paradiso socialista-piccolo borghese-bolscevico”. Poi la resa. Prima nell’anima della città: “Voci sulla chiusura di tutte le botteghe, mancano i generi di prima necessità, quello che c’è ha prezzi folli. Gelo, oscurità quasi completa. Un vecchio urla, morendo di fame”. Quindi si arrende l’anima del poeta: “Ormai non sono più in grado di lavorare sul serio, finché sul collo mi balla il cappio dello stato poliziesco”. Lui, l’autore dei Dodici, con le Guardie Rosse che marciavano guidate da Gesù Cristo, morirà per denutrizione, per esaurimento, ma soprattutto per la sua “asma spirituale”, come la chiama Andrej Belyj, delusione e angoscia. Non scriveva più: “Tutti i suoni sono cessati. Soffoco, soffochiamo tutti, anche la quiete e la libertà ci vengono tolte. E il poeta muore perché non ha più nulla da respirare, la vita ha perso significato”.
Ingigantita dalla sua figura e dal suono ipnotico dei suoi versi, la parabola di Blok è quella di gran parte dell’intellettualità russa, tradita e colpita dalla rivoluzione dopo essere stata sedotta: perché cresciuta nel culto del popolo, anzi con la missione di costruire nel popolo un’ideologia di ribellione al potere autocratico, tanto che Nikolaj II chiederà di cancellare dal vocabolario la parola “intellighentija”. Per questo i funerali del poeta segneranno la fine degli anni d’argento, l’inizio secolo delle avanguardie artistiche, tanto che per due settimane si parlò sottovoce nel retropalco dei teatri, nelle librerie sul lato illuminato dal sole del Prospekt Nevskij, al Club Artistico, al Circolo Musicale, alla Casa del Letterati, come se fosse morta una certa idea di Pietroburgo. Ho risalito le scale da cui il 10 maggio del ’21 Blok è sceso per l’ultima volta accompagnato dal canto funebre ortodosso, dal vento caldo che arrivava dal mare, da Belyj, Berberova, Achmatova, Zamjatin, in mezzo a centinaia di sconosciuti coi fiori e le candele in mano, richiamati dai versi senza più voce, come se la città non avesse più luce.
In quelle stesse ore, Anna Achmatova aveva saputo dell’arresto dell’ex marito, il poeta Nikolaj Gumilev, accusato di far parte dell’”Organizzazione Combattente di Pietrogrado”, e condannato alla fucilazione, nonostante le intercessioni e le richieste di grazia che a un certo punto fecero sbottare Dzerzhinskij, il Capo della polizia segreta, la Ceka: “Perché mai dobbiamo giustiziare gli altri e salvare un poeta”? Eppure all’inizio il Febbraio aveva trovato Piter dentro un sommovimento artistico senza precedenti, le due rivoluzioni sembravano parlarsi. Cinquecento film russi in produzione nell’anno fatale, il 1917, i primi attori dell’Aleksandrinskij che non ricevono più il portasigarette dorato dello Zar con l’aquila tempestata di diamanti ma vedono le orchestre che decidono di suonare senza direttore, i poeti di strada acclamati come maghi nel silenzio della sera, i pittori tra cubismo e futurismo che colorano gli alberi e trasformano le case in tele gigantesche. Per poi cominciare la notte in fondo a via Italianskaja al “Cane Randagio” (con le foto dei poeti appese al muro ancora oggi, tra i “bicchieri gelati sul tavolino e il vapore odoroso del caffè nero”), e continuarla alla Casa delle Arti dove vivevano insieme – bruciando d’inverno al fuoco del camino le vecchie carte della banca vicina – Mandelshtam, Chodasevic, Olga Forsh, e Nina Berberova a Capodanno ballava il fox trot nella sala degli specchi. Poi tutto, musica, letteratura, poesia e rivoluzione, andava a finire alla “Bashnja”, la Torre di Vjaceslav Ivanov che riceveva gli ospiti in guanti neri il mercoledì discutendo di Dioniso e di Cristo, mentre i poeti recitavano i loro versi fino all’alba, sporgendosi dai tetti per veder sfiorire il bianco della notte.
“All’assalto delle porte del paradiso/ noi avanziamo/ per gli altri abbiamo sfondato la porta” – cantava nei primi mesi della rivoluzione Vladimir Majakovskij che nel 1930 si sparerà un colpo di pistola al cuore dopo aver scritto il suo addio al “compagno governo” – “Più in alto, nostro vessillo/ falce, in un giunco di fiamma/ abbraccia il martello con l’arcobaleno del tuo arco”. “Voglio seguire l’epoca, il rumore e il germogliare del tempo”– aggiungeva Osip Mandelshtam, che morirà nel gulag nel ‘38 – “Mio secolo, mia belva, chi saprà guardare nelle tue pupille”? E Andrej Belyj spiegava convinto: “Come un colpo dal sottosuolo che tutto distrugge, arriva la Rivoluzione. Arriva come un uragano, che spazza via ogni forma, come una statua, una pietra, grandine, inondazione, cascata. Tutto batte oltre ogni limite, tutto è esagerato. La Rivoluzione si riversa nell’anima dei poeti, e da lì rinasce e riemerge nel colore azzurro del romanticismo e nell’oro del sole”. Ma Lenin diffidava, nonostante gli ardori poetici. Per lui gli intellettuali di Pietrogrado “non comprendono, non imparano, non dimenticano”, mentre l’energia culturale operaia cresce e si rafforza, emarginando l’intellighentija “che si crede il cervello della nazione, e invece è soltanto lo sterco della Russia”. Diceva che la letteratura “deve essere partigiana, la ruota e la vite della grande macchina del partito”: e per questo addirittura seguì da vicino gli studi del premio Nobel Ivan Pavlov sul riflesso condizionato, pensando di unire bolscevismo e scienza per modificare l’uomo, portando dopo i corpi anche l’anima dentro il vortice della rivoluzione.
In quel vortice del ’17 gli scrittori e i poeti russi erano finiti ad uno ad uno, sorpresi ognuno in un punto diverso della Russia e della vita, come sotto un uragano. A Boris Pasternak la notizia del Febbraio arrivò nel pieno dei suoi 27 anni, mentre correva su una slitta da Tichie Gory verso Mosca, dentro tre cappotti, affondato nel fieno, con tre cavalli che tiravano nella neve la “kibitka” coperta sui pattini. L’Ottobre per lui cominciò invece a Mosca, con una telefonata del cugino: si spara nel quartiere della Precistenka, è una vera battaglia, guai a uscire di casa. Poi era saltato subito il telefono, e Pasternak rimase isolato per una settimana, senza sapere nulla di ciò che accadeva in città ma sentendo il suono delle granate lanciate dall’Arbat, il sibilo delle pallottole come api nel cortile, il crepitio delle lampadine che lampeggiavano per spegnersi subito e infine l’incedere sordo e massiccio di un carrarmato che risaliva la strada: subito dopo, tornato un silenzio pauroso, lo scrittore che uscì nel suo cappotto studentesco di panno capì che la Mosca fin lì conosciuta era finita per sempre.
A Piter Zinaida Gippius – che fino a poche settimane prima riceveva vestita di bianco o di rosa, guardando gli ospiti dall’occhialino che reggeva con una stanghetta – viveva proprio davanti a palazzo Tauride, la sede della Duma, e dalle finestre chiuse per paura delle pallottole poté partecipare dall’alto alle convulsioni della rivoluzione. A Febbraio quello è l’epicentro del terremoto che scuote il Paese, passano davanti alla casa le fanfare dei reggimenti ammutinati, le prime bandiere rosse, i marinai dormono per strada, lo spazio davanti a Tauride e le vie vicine sono bloccate dalla folla, gli amici impiegano 5 ore per arrivare dalla stazione fin qui, dove quasi ogni sera sale il vecchio amico Kerenskij. Zinaida guarda: “Non posso cambiare nulla, ho solo la consapevolezza che accadrà. Le parole e le frasi, tutto ormai ha perso di significato. Gli uomini si sono stretti un cappio alla gola, c’è nell’aria un soffio di mistero. Come se guardassimo nell’acqua torbida, non sappiamo a quale distanza ci troviamo dal crollo”. Fuori, tram bloccati, giornali assenti, scuole chiuse, giardini sbarrati, “risplendono solo i teatri pieni zeppi e i falò delle truppe che bivaccano sulle strade”. Per la scrittrice “non è l’ora di pronunciare giudizi, è un momento terribile e insieme gioioso”. Poi ecco “gli aculei scintillanti” delle baionette, i soldati che sparano alle finestre, la fiaba che diventa “minacciosa e terribile”, su un terreno ardente. E a settembre, la profezia: “Kerenskij è un autocrate pazzo”, “i bolscevichi sono ottusi fanatici”. Poi un’ultima cena alla vigilia dell’Ottobre, frutta, baranki col cumino, vino georgiano. Quindi salta la luce, Zinaida sbarra le finestre, la strada è buia, lei scrive davanti a un mozzicone di candela. È “il potere delle tenebre: che il diavolo se li porti”.
Tutti i diavoli e i santi, dice Nina Berberova, avevano già deciso di convergere su Pietroburgo in quell’anno in cui ogni cosa sembrò precipitare di colpo: “Una folla felice, irata, esitante, un lampo che balena, lo sfacelo cruento, un patriottismo nocivo e a buon mercato, parole, parole e l’incapacità di fare alcunché”. Si stava sfasciando il vecchio ordine che il popolo disprezzava, ma si avvicinava la rovina di fasce intere di popolazione “perdendo due generazioni di intellettuali, un ce- to colto che verrà eliminato e che non si riuscirà a ricostruire nemmeno in 200 anni”. Per la scrittrice il ’17 è l’ultimo anno del ginnasio, ma anche della scoperta dei Dodici di Blok e del primo amore. In poche settimane passerà dal conforto di una casa borghese all’inferno di una povertà che non aveva mai conosciuto. Quando la famiglia, pochi mesi dopo l’Ottobre, si trasferisce a Mosca sente per la prima volta la miseria dei suoi 17 anni trascinati nella polvere e nell’afa del Bulvar senza amici, con l’ingresso nelle mense pubbliche, una stanza in coabitazione, il pomeriggio a guardare le salsicce sul marmo di un negozio in viale Smolenskij, l’umiliazione della fame, le focacce con la buccia delle patate, e nonostante tutto il conforto di vedere il paiolo con la minestra sul fuoco e di sapere che ci sono i libri alla biblioteca del Corso. Il ritorno a Piter è l’ingresso con le poesie in mano alla Casa dei Poeti, poi in quella “Nave dei folli” che è la “Casa dei Letterati”, il cappotto rivoltato e gli stivali cuciti col feltro della moquette per arrivare al Capodanno del ’22 “nella città mezza morta”, vino, musica, profumo di Houbigant“ e tutti presentivano che sarebbero stati oppressi, tormentati, che gli avrebbero tappato la bocca, costretti a morire o a abbandonare la letteratura”. Finché arrivano i passaporti numero 16 e 17 per lei e Chodasevic, il marito poeta, e si può partire.
Se ne andrà anche Vladimir Nabokov, una settimana dopo l’Ottobre, per paura di un arruolamento forzato. Si chiuderà alle spalle la casa dove oggi stanno riportando alla luce gli affreschi, al numero 47 di quella via Morskaja che metteva in fila l’abitazione del principe Oginskij al 45, l’ambasciata italiana al 43, quella tedesca al 41, per arrivare infine a piazza Mariinskij. Lui sente “l’alito ardente di straordinari sconvolgimenti, un sordo brontolio dietro le quinte” già nel 1915, quando con la sua prima ragazza, Tamara, gira per Pietroburgo in ghette bianche, ma con un tirapugni nella tasca di velluto. Dopo la prima rivoluzione, ascolterà la notizia della rinuncia al trono di Mikhail tra una lezione di scherma e un’ora di boxe con monsieur Loustalot. Prima, da bambino, c’è il bacio della madre attraverso la rete sottile della veletta, i gioielli custoditi in un tramezzo dello spogliatoio e che poi in esilio verranno nascosti in una scatola di talco per essere venduti a poco a poco, il gioco al mattino con Volkov l’autista, per capire se lo accompagnerà a scuola con la Benz o con la nuova Wolseley munita d’interfono, che sarà smontata e nascosta in campagna dopo la rivoluzione per paura della confisca. Il padre è segretario del Consiglio dei ministri nel primo governo provvisorio, la famiglia ha tre tenute di campagna, uno stemma araldico con due leoni, 50 persone a servizio, un valletto che sta in piedi tra i pattini della slitta guidata da Zachar, nel suo pastrano azzurro imbottito d’ovatta.
Tutto questo si rovescia fino a scomparire di colpo, quando i marinai bolscevichi vogliono arrestare Nabokov padre che riesce a scappare verso la Crimea con uno zaino che gli porta il cameriere Osip all’ultimo momento: tutta la vita che resta è ormai lì dentro, insieme con i sandwich al caviale del cuoco Nikolaj Andreevic. Svanisce la geografia familiare di Piter, la scuola, il negozio inglese sul Nevskij, cambiano a Jalta gli odori e i colori, è nuova anche la preghiera del muezzin ogni sera, il raglio di un asino al tramonto. Arriveranno fin qui i bolscevichi, e allora da Sebastopoli la famiglia Nabokov salperà per il Pireo, prima tappa dell’esilio, fino alla pallottola fascista che nel ’22 a Berlino ucciderà il padre, curvato per proteggere il suo maestro Miljukov. Per Vladimir Nabokov comincia la vita da émigré, che lui definirà di indigenza materiale e di lusso intellettuale: “Con pochissime eccezioni tutte le energie creative di orientamento liberale, poeti, narratori, critici, storici, filosofi, lasciavano la Russia di Lenin. Quelli che non lo facevano, o avvizzivano laggiù, o adulteravano il proprio talento uniformandolo ai dettami politici di Stato”.
Non tutti, o almeno non sempre. Maksim Gorgkij, amico di Lenin dal 1905, già nel giugno del ’17 coltiva una forte critica nei confronti dei bolscevichi. Prima nelle lettere private (“sono i veri idioti russi, li disprezzo e li odio ogni giorno di più”), poi in un articolo sul suo giornale, Novaja Zhizn: “Sia Lenin che Trotzkij non hanno nessuna idea di ciò che significhino la libertà e i diritti dell’uomo. Sono già intossicati dal malefico veleno del potere, come si capisce dalla condotta vergognosa decisa nei confronti delle libertà democratiche, a partire dalla libertà di parola fino alla libertà personale”. Gorkij polemizzerà con Zinovev, capo del partito a Pietroburgo, parlando di crimini vergognosi, con Dzerzhinskij, denunciando l’arresto delle migliori menti della Russia. Andrà all’estero, poi tornerà a ricevere gli onori del regime che gli ammazzerà il figlio, e finirà nel più ideologico cimitero sovietico, le mura del Cremlino. “Ha un talento artistico prodigioso – dirà di lui Lenin –, ma per quale motivo deve intromettersi nella politica”?
In quel luglio del ’17, non sono ancora gli intellettuali a preoccupare Vladimir Ilic. È titubante (la Pravda uscirà con uno spazio bianco in prima pagina per l’indecisione del partito) quando scoppia la rivolta del Primo Reggimento Mitraglieri che si rifiuta di partire per il fronte, quando si aggiungono i 30 mila operai delle officine Putilov, quando arrivano i marinai di Kronstadt che affollano palazzo Tauride chiedendo tutto il potere ai Soviet. Ci sono spari tra l’esercito e le Guardie Rosse, ma Lenin rientrato in fretta dalla Finlandia pensa che il tempo dell’insurrezione finale non sia ancora venuto, perché non è certo l’appoggio delle truppe al fronte. Lo scossone porta alle dimissioni del governo L’vov, Kerenskij diventa Primo Ministro e lancia subito una campagna contro Lenin, Zinovev e Kamenev, con tre mandati di cattura per intelligenza col nemico e tradimento al soldo della Germania. Lenin entra subito in clandestinità, fuggendo verso la frontiera finlandese dopo essersi tagliato il pizzo e i baffi, grazie a una chiamata d’emergenza nell’appartamento della sorella in via Shirokaja, dove si poteva telefonare alla rivoluzione componendo il numero 24-643.
Anni dopo, Lenin ricorderà queste avventure estreme, tentando un bilancio quando Gorkij gli chiederà conto dell’oppressione di tanti intellettuali: “la nostra generazione ha compiuto un’impresa meravigliosa. La crudeltà della nostra vita, resa necessaria dalle circostanze, sarà compresa e perdonata. Tutto sarà compreso, tutto”. Ma basterebbe solo leggere il Requiem di Anna Achmatova, per capire che non può essere così: “Di morte sopra noi stavano stelle/ e innocente la Rus’ si contorceva/ calpestata da stivali sanguinosi”. Si cammina piano ancora oggi nella casa della poetessa, in fondo al cortile dove giocano i bambini, davanti alle finestre dove scrisse “come un fiume io fui deviata/ mi deviò la mia era poderosa”. Nel salotto c’è ancora il posacenere rotondo di peltro dove finivano i versi del Requiem, scritti in poche righe su un foglietto per gli amici in visita che in silenzio li imparavano a memoria, perché non si potevano nemmeno pronunciare, nel terrore che qualcuno ascoltasse. Poi lei accendeva un fiammifero, e li bruciava qui dentro. I versi nel fuoco per diventare polvere di carta, prima di ritornare parola, ma settant’anni dopo. Dopo la cenere russa della poesia.
Repubblica 15.7.17
La via della seta scopre il treno Entro l’anno sbarco a Milano
di Angelo Aquaro
CHONGQING. La lunga marcia della Cina verso Milano non si ferma, il treno della nuova via della seta punta fin sotto alla Madonnina: prossima fermata Duomo? L’ipotesi c’è: magari allungando i binari che da Chongqing potranno sbucare undicimila chilometri più in là, fino a Trieste. «Vogliamo arrivare a Milano entro l’anno» dice Li Bin, il numero due dei trasporti di questa supermetropoli da venti milioni di abitanti e capofila di Obor, cioè One Belt One Road, letteralmente Una cintura Una strada, il grande piano da più di un miliardo di dollari disegnato dal presidente Xi Jinping. «Stiamo organizzando centri di distribuzione merci lungo tutta la via: in Turchia, Iran, Ungheria, Turkmenistan e Kirghizistan. In Europa abbiamo già diversi punti: e Milano potrebbe diventare un centro di smercio strategico. Vogliamo parlarne con Trenitalia».
Non bastavano dunque la Pirelli, l’Inter e il Milan? L’Italia per la verità è da sempre nel mirino di Pechino per la sua posizione nel Mediterraneo e quindi di ponte verso l’Europa. E la Cina è di converso il grande mercato che incanta l’Italia: se un miliardo e quattrocento milioni di potenziali consumatori vi sembrano pochi. Mica per niente la partecipazione alla nuova via della seta potrebbe portare fino a un miliardo e mezzo di ricavi per il nostro fisco. Dalla moda alle banche all’hi tech (è qui che Huawei ha aperto il suo centro europeo) Milano è un brand di forte richiamo – e “Mission Milano” è perfino il titolo di un film col divo Andy Lau che qui quest’anno ha fatto cassetta. Però i cinesi stanno guardando anche altrove: verso Verona, che avrebbe il vantaggio della direttrice Brennero, e soprattutto Trieste, che alla fine potrebbe essere la prima scelta grazie a quel porto con i fondali profondi fino a 18 metri e quindi già pronti ad accogliere le navi container del Dragone. Visto da Pechino il suo molo è fra l’altro lì accanto a quello di Venezia: e mettere la bandierina sulla città di Marco Polo regalerebbe alla nuova via della seta la benedizione di quella originale.
Comunque vada, e soprattutto dove, sarà un successo. «L’interesse crescente dimostra che il nostro paese può legittimamente e concretamente ambire a diventare il terminale occidentale di Obor» dice l’ambasciatore Ettore Sequi. Anche se i cinesi si sono già comprati il Pireo ai saldi imposti dalla troika ad Atene? «Intanto via marittima e terrestre non sono per niente in competizione. E poi l’ha detto il premier Paolo Gentiloni, in visita qui, che l’operatore ferroviario greco è controllato da Trenitalia ». Per tacere il piccolo particolare che la ferrovia nei Balcani si deve ancora costruire: si può dunque ancora sperare di spezzare non sia mai le reni ma i sogni sì della Grecia?
Quello che è certo è che è sull’Italia che convergono i cinesi: come dimostra l’apertura a settembre di un altro snodo ferroviario milanese, il treno che passando da Varsavia collegherà Chengdu a Pavia. Ma perché insistere proprio sul traffico su rotaie? «Il treno è più veloce della nave, 15 giorni contro 50, e più economico dell’aereo» riassume Sergio Maffettone, il console italiano a Chongqing: «Ideale dunque per quei beni di nicchia del made in Italy dove il costo del trasporto incide sul prezzo finale». L’esempio classico sono le auto di lusso: mercato qui fiorentissimo visto che solo Maserati si aspetta quest’anno un balzo del 47%. E ancora: a scegliere i binari sono soprattutto i big dell’e-commerce. «È con i nostri treni che arrivano in Cina la birra polacca e i vini francesi» spiega il boss dei trasporti di Chongqing nell’incontro promosso dal dipartimento italiano di China Radio International: «Speriamo, adesso, di rilanciare anche i vostri», che già nel 2016 qui crescono addirittura del 39%.
Miracoli della via della seta. I treni in partenza da una ventina di centri cinesi collegano ormai una dozzina di grande città europee. Percorsi che legano nomi che fatichiamo a individuare sulla mappa a destinazioni più familiari: Lianyungang a Rotterdam, Suzhou a Varsavia, Zhengzhou ad Amburgo, Chengdu e Lodz, Yiwu a Madrid e ora anche Londra, Chongqing a Duisburg. È proprio su quest’ultima rotta, aperta nel 2011 è già ricca del passaggio di oltre 1.140 treni, che si innesterà adesso la deviazione per Milano o Trieste: puntando appunto Oltralpe dalla Germania, raggiunta attraverso questo lungo viaggio tra Kazakhstan, Russia, Bielorussia e Polonia, o proseguendo attraverso la diramazione che passa per Belgrado. Saliremo in carrozza in Centrale per sbarcare direttamente quaggiù in Cina? «Abbiamo cominciato con le merci, ora trasportiamo anche la posta. Per le persone sarebbe un viaggio troppo lungo« ammette Li Bin. «Però stiamo studiando la possibilità di organizzare treni charter per turisti». Chongqing- Trieste-Milano tutta una tirata: se non è una lunga marcia questa.
La via della seta scopre il treno Entro l’anno sbarco a Milano
di Angelo Aquaro
CHONGQING. La lunga marcia della Cina verso Milano non si ferma, il treno della nuova via della seta punta fin sotto alla Madonnina: prossima fermata Duomo? L’ipotesi c’è: magari allungando i binari che da Chongqing potranno sbucare undicimila chilometri più in là, fino a Trieste. «Vogliamo arrivare a Milano entro l’anno» dice Li Bin, il numero due dei trasporti di questa supermetropoli da venti milioni di abitanti e capofila di Obor, cioè One Belt One Road, letteralmente Una cintura Una strada, il grande piano da più di un miliardo di dollari disegnato dal presidente Xi Jinping. «Stiamo organizzando centri di distribuzione merci lungo tutta la via: in Turchia, Iran, Ungheria, Turkmenistan e Kirghizistan. In Europa abbiamo già diversi punti: e Milano potrebbe diventare un centro di smercio strategico. Vogliamo parlarne con Trenitalia».
Non bastavano dunque la Pirelli, l’Inter e il Milan? L’Italia per la verità è da sempre nel mirino di Pechino per la sua posizione nel Mediterraneo e quindi di ponte verso l’Europa. E la Cina è di converso il grande mercato che incanta l’Italia: se un miliardo e quattrocento milioni di potenziali consumatori vi sembrano pochi. Mica per niente la partecipazione alla nuova via della seta potrebbe portare fino a un miliardo e mezzo di ricavi per il nostro fisco. Dalla moda alle banche all’hi tech (è qui che Huawei ha aperto il suo centro europeo) Milano è un brand di forte richiamo – e “Mission Milano” è perfino il titolo di un film col divo Andy Lau che qui quest’anno ha fatto cassetta. Però i cinesi stanno guardando anche altrove: verso Verona, che avrebbe il vantaggio della direttrice Brennero, e soprattutto Trieste, che alla fine potrebbe essere la prima scelta grazie a quel porto con i fondali profondi fino a 18 metri e quindi già pronti ad accogliere le navi container del Dragone. Visto da Pechino il suo molo è fra l’altro lì accanto a quello di Venezia: e mettere la bandierina sulla città di Marco Polo regalerebbe alla nuova via della seta la benedizione di quella originale.
Comunque vada, e soprattutto dove, sarà un successo. «L’interesse crescente dimostra che il nostro paese può legittimamente e concretamente ambire a diventare il terminale occidentale di Obor» dice l’ambasciatore Ettore Sequi. Anche se i cinesi si sono già comprati il Pireo ai saldi imposti dalla troika ad Atene? «Intanto via marittima e terrestre non sono per niente in competizione. E poi l’ha detto il premier Paolo Gentiloni, in visita qui, che l’operatore ferroviario greco è controllato da Trenitalia ». Per tacere il piccolo particolare che la ferrovia nei Balcani si deve ancora costruire: si può dunque ancora sperare di spezzare non sia mai le reni ma i sogni sì della Grecia?
Quello che è certo è che è sull’Italia che convergono i cinesi: come dimostra l’apertura a settembre di un altro snodo ferroviario milanese, il treno che passando da Varsavia collegherà Chengdu a Pavia. Ma perché insistere proprio sul traffico su rotaie? «Il treno è più veloce della nave, 15 giorni contro 50, e più economico dell’aereo» riassume Sergio Maffettone, il console italiano a Chongqing: «Ideale dunque per quei beni di nicchia del made in Italy dove il costo del trasporto incide sul prezzo finale». L’esempio classico sono le auto di lusso: mercato qui fiorentissimo visto che solo Maserati si aspetta quest’anno un balzo del 47%. E ancora: a scegliere i binari sono soprattutto i big dell’e-commerce. «È con i nostri treni che arrivano in Cina la birra polacca e i vini francesi» spiega il boss dei trasporti di Chongqing nell’incontro promosso dal dipartimento italiano di China Radio International: «Speriamo, adesso, di rilanciare anche i vostri», che già nel 2016 qui crescono addirittura del 39%.
Miracoli della via della seta. I treni in partenza da una ventina di centri cinesi collegano ormai una dozzina di grande città europee. Percorsi che legano nomi che fatichiamo a individuare sulla mappa a destinazioni più familiari: Lianyungang a Rotterdam, Suzhou a Varsavia, Zhengzhou ad Amburgo, Chengdu e Lodz, Yiwu a Madrid e ora anche Londra, Chongqing a Duisburg. È proprio su quest’ultima rotta, aperta nel 2011 è già ricca del passaggio di oltre 1.140 treni, che si innesterà adesso la deviazione per Milano o Trieste: puntando appunto Oltralpe dalla Germania, raggiunta attraverso questo lungo viaggio tra Kazakhstan, Russia, Bielorussia e Polonia, o proseguendo attraverso la diramazione che passa per Belgrado. Saliremo in carrozza in Centrale per sbarcare direttamente quaggiù in Cina? «Abbiamo cominciato con le merci, ora trasportiamo anche la posta. Per le persone sarebbe un viaggio troppo lungo« ammette Li Bin. «Però stiamo studiando la possibilità di organizzare treni charter per turisti». Chongqing- Trieste-Milano tutta una tirata: se non è una lunga marcia questa.
Repubblica 15.7.17
Turchia
Un anno fa il golpe fallito L’opposizione accusa “Erdogan sapeva tutto”
Così il Sultano si è rafforzato: la sollevazione militare “prevista e controllata”, dice un dossier dei kemalisti
di Marco Ansaldo
ISTANBUL. Erdogan lo definì “un dono di Dio”. Come un inaspettato regalo dal cielo. Quattro ore di caos, fra le 10 di sera e le 2 del mattino del 15 luglio 2016. Nelle prime due ore i militari golpisti sembrarono poter avere la meglio, eliminando i soldati lealisti, occupando a Istanbul il ponte che collega l’Asia all’Europa, bombardando il Parlamento a Ankara. Ma dopo la mezzanotte le truppe regolari ripresero il controllo, il disordine si ricompose e la legalità fu ripristinata in tutto il Paese. I reprobi sono presi a scudisciate lungo la strada, denudati e messi a sedere in un capannone. Il leader fa scattare lo stato di emergenza per 3 mesi, rinnovato per 4 volte, e avvia una repressione formidabile, reiterata giorno per giorno contro sospettati e avversari, fino a incarcerare 50 mila persone, licenziandone 150 mila e reintegrandone 30 mila dopo avere constatato la loro innocenza. Dell’ultima purga si è avuta notizia proprio ieri: 7000 tra poliziotti, funzionari dei ministeri e accademici cacciati con l’accusa di aver «agito contro la sicurezza dello Stato».
Ora è il primo anniversario dell’ultimo colpo di Stato in Turchia. Il più recente di una lunga serie, inaugurata negli anni Sessanta. L’unico non riuscito, che però si chiuse con un bilancio di 249 morti e 2300 feriti. Da molti mesi osservatori ed esperti discutono se il putsch organizzato da militari di seconda fila, fedeli alla laicità espressa alla Costituzione degli anni 80 e desiderosi di sovvertire il governo sempre più confessionale di Erdogan, sia stato mal condotto, oppure un falso, o addirittura un auto golpe condotto dai fedelissimi del presidente con il solo scopo di provocare una minaccia e intervenire brutalmente facendo piazza pulita e una volta per tutte dei nemici.
L’ultima versione, con l’imprimatur della principale forza dell’opposizione, quella di Kemal Kilicdaroglu, il “Gandhi” turco protagonista recente di una lunga marcia a piedi fra Ankara e Istanbul per chiedere il ripristino dei diritti e il ritorno nel Paese della giustizia e della democrazia, parla di un golpe “controllato”. Cioè, come si legge nel rapporto da poco presentato in Parlamento, “previsto e non evitato” dal governo di Ankara e dal presidente Erdogan, il quale, è scritto, “ne ha beneficiato”.
Accuse durissime. A sostenerle un dossier, portato in Assemblea dal Partito repubblicano, quello kemalista vicino alla socialdemocrazia: 307 pagine preparate dai deputati Zeynel Emre, Aykut Erdogdu, Sezgin Tanrikulu and Aytun Ciray. Secondo il rapporto l’intelligence conosceva da tempo i progetti che circolavano intorno a un possibile intervento di militari delusi, rimasti oltretutto in secondo piano rispetto agli anni in cui l’Esercito era il punto imprescindibile delle istituzioni turche. Il putsch stava già prendendo forma alla fine del 2015. Il Mit, il servizio segreto, ne avrebbe ricevuto informazione alcune ore prima dell’inizio delle operazioni, direttamente dal pilota di un elicottero militare. Costui racconta di avere ricevuto l’ordine di rapire il capo della struttura degli 007, il potentissimo Hakan Fidan, un tempo uomo fidato di Erdogan e in seguito più defilato. E giornali e riviste specializzate, su iniziativa di reporter molto ben introdotti, avevano addirittura segnalato iniziative anomale all’interno delle Forze armate. Con un preavviso di settimane. Come è possibile pensare che l’astutissimo e solitamente ben informato Erdogan non fosse a conoscenza di nulla?
Con il presidente in vacanza in un resort di Marmaris, sulla costa a sud ovest, il tentativo di golpe non fu fermato sul nascere. Alla vigilia si tenne un incontro, durato sei ore, fra lo stesso Hakan Fidan e il capo di Stato maggiore dell’Esercito, Hulusi Akar. E l’azione prese il via. Dodici teste di cuoio passate tra le file dei golpisti si fiondarono sull’hotel dove si trovava il leader. Erdogan fu portato via solo 15 minuti prima, e prese un volo per tornare nella capitale. «Volevano ucciderlo», disse il suo consigliere per le questioni internazionali Egemen Bagis. Alcune voci raccontarono che un aereo dei putschisti affiancò persino il velivolo dove il capo dello Stato si era nascosto. Il pilota giurò che sul volo c’erano bambini, e i ribelli non mitragliarono. Erdogan fu salvo. Si legge oggi nel dossier: «I decreti dello stato d’emergenza sono strumentali a mantenere in vita il regime di un uomo solo, di Erdogan». Dal giorno dopo il golpe sono partiti lo stato d’emergenza, gli arresti, i licenziamenti. E le accuse, rivolte in maniera univoca contro l’imam Fetullah Gulen, ex alleato al tempo in cui gli islamisti volevano abbattere il potere dei militari, e adesso nemico del Sultano. È lui ad avere organizzato tutto dal suo rifugio in Pennsylvania, si sostiene ad Ankara, dove il leader pretende l’estradizione del predicatore e chiede a gran voce il ritorno della pena di morte.
Turchia
Un anno fa il golpe fallito L’opposizione accusa “Erdogan sapeva tutto”
Così il Sultano si è rafforzato: la sollevazione militare “prevista e controllata”, dice un dossier dei kemalisti
di Marco Ansaldo
ISTANBUL. Erdogan lo definì “un dono di Dio”. Come un inaspettato regalo dal cielo. Quattro ore di caos, fra le 10 di sera e le 2 del mattino del 15 luglio 2016. Nelle prime due ore i militari golpisti sembrarono poter avere la meglio, eliminando i soldati lealisti, occupando a Istanbul il ponte che collega l’Asia all’Europa, bombardando il Parlamento a Ankara. Ma dopo la mezzanotte le truppe regolari ripresero il controllo, il disordine si ricompose e la legalità fu ripristinata in tutto il Paese. I reprobi sono presi a scudisciate lungo la strada, denudati e messi a sedere in un capannone. Il leader fa scattare lo stato di emergenza per 3 mesi, rinnovato per 4 volte, e avvia una repressione formidabile, reiterata giorno per giorno contro sospettati e avversari, fino a incarcerare 50 mila persone, licenziandone 150 mila e reintegrandone 30 mila dopo avere constatato la loro innocenza. Dell’ultima purga si è avuta notizia proprio ieri: 7000 tra poliziotti, funzionari dei ministeri e accademici cacciati con l’accusa di aver «agito contro la sicurezza dello Stato».
Ora è il primo anniversario dell’ultimo colpo di Stato in Turchia. Il più recente di una lunga serie, inaugurata negli anni Sessanta. L’unico non riuscito, che però si chiuse con un bilancio di 249 morti e 2300 feriti. Da molti mesi osservatori ed esperti discutono se il putsch organizzato da militari di seconda fila, fedeli alla laicità espressa alla Costituzione degli anni 80 e desiderosi di sovvertire il governo sempre più confessionale di Erdogan, sia stato mal condotto, oppure un falso, o addirittura un auto golpe condotto dai fedelissimi del presidente con il solo scopo di provocare una minaccia e intervenire brutalmente facendo piazza pulita e una volta per tutte dei nemici.
L’ultima versione, con l’imprimatur della principale forza dell’opposizione, quella di Kemal Kilicdaroglu, il “Gandhi” turco protagonista recente di una lunga marcia a piedi fra Ankara e Istanbul per chiedere il ripristino dei diritti e il ritorno nel Paese della giustizia e della democrazia, parla di un golpe “controllato”. Cioè, come si legge nel rapporto da poco presentato in Parlamento, “previsto e non evitato” dal governo di Ankara e dal presidente Erdogan, il quale, è scritto, “ne ha beneficiato”.
Accuse durissime. A sostenerle un dossier, portato in Assemblea dal Partito repubblicano, quello kemalista vicino alla socialdemocrazia: 307 pagine preparate dai deputati Zeynel Emre, Aykut Erdogdu, Sezgin Tanrikulu and Aytun Ciray. Secondo il rapporto l’intelligence conosceva da tempo i progetti che circolavano intorno a un possibile intervento di militari delusi, rimasti oltretutto in secondo piano rispetto agli anni in cui l’Esercito era il punto imprescindibile delle istituzioni turche. Il putsch stava già prendendo forma alla fine del 2015. Il Mit, il servizio segreto, ne avrebbe ricevuto informazione alcune ore prima dell’inizio delle operazioni, direttamente dal pilota di un elicottero militare. Costui racconta di avere ricevuto l’ordine di rapire il capo della struttura degli 007, il potentissimo Hakan Fidan, un tempo uomo fidato di Erdogan e in seguito più defilato. E giornali e riviste specializzate, su iniziativa di reporter molto ben introdotti, avevano addirittura segnalato iniziative anomale all’interno delle Forze armate. Con un preavviso di settimane. Come è possibile pensare che l’astutissimo e solitamente ben informato Erdogan non fosse a conoscenza di nulla?
Con il presidente in vacanza in un resort di Marmaris, sulla costa a sud ovest, il tentativo di golpe non fu fermato sul nascere. Alla vigilia si tenne un incontro, durato sei ore, fra lo stesso Hakan Fidan e il capo di Stato maggiore dell’Esercito, Hulusi Akar. E l’azione prese il via. Dodici teste di cuoio passate tra le file dei golpisti si fiondarono sull’hotel dove si trovava il leader. Erdogan fu portato via solo 15 minuti prima, e prese un volo per tornare nella capitale. «Volevano ucciderlo», disse il suo consigliere per le questioni internazionali Egemen Bagis. Alcune voci raccontarono che un aereo dei putschisti affiancò persino il velivolo dove il capo dello Stato si era nascosto. Il pilota giurò che sul volo c’erano bambini, e i ribelli non mitragliarono. Erdogan fu salvo. Si legge oggi nel dossier: «I decreti dello stato d’emergenza sono strumentali a mantenere in vita il regime di un uomo solo, di Erdogan». Dal giorno dopo il golpe sono partiti lo stato d’emergenza, gli arresti, i licenziamenti. E le accuse, rivolte in maniera univoca contro l’imam Fetullah Gulen, ex alleato al tempo in cui gli islamisti volevano abbattere il potere dei militari, e adesso nemico del Sultano. È lui ad avere organizzato tutto dal suo rifugio in Pennsylvania, si sostiene ad Ankara, dove il leader pretende l’estradizione del predicatore e chiede a gran voce il ritorno della pena di morte.
Corriere 15.7.17
Il 69% di chi vota M5S non vuole alleati
Il 70% per Di Maio a Palazzo Chigi
Ma metà degli elettori di Lega, Pd e FI apre a un asse con il Movimento
di Nando Pagnoncelli
L o scorso anno, di questi tempi, il Movimento 5 Stelle prendeva il largo nei sondaggi sulle intenzioni di voto grazie alla conquista di Roma e Torino alle elezioni Comunali di giugno che avevano conferito al movimento un’immagine vincente e lo avevano accreditato come una possibile alternativa di governo.
Le Comunali di quest’anno secondo gli italiani hanno avuto un esito diverso: ha vinto il centrodestra mentre Pd e M5S ne sono usciti ammaccati e tutto ciò si è riflesso sugli orientamenti di voto nazionali. I pentastellati si confermano una forza molto competitiva, costantemente alle prese con una testa a testa con il Pd, favorito anche dalla presenza di un centrodestra diviso, ma rispetto a un anno fa registrano un calo di oltre il 4%. Le chance di vittoria del Movimento alle elezioni dividono le opinioni degli italiani: il 5% è convinto che vincerà sicuramente, il 34% lo ritiene probabile mentre il 53% è del parere che non vincerà. I pronostici sono nettamente più favorevoli tra gli elettori pentastellati, anche se coloro che non hanno dubbi sulla vittoria rappresentano solo il 13% a cui si aggiunge una larga maggioranza (73%) di elettori moderatamente ottimisti. Va osservato che tra gli elettorati avversari all’incirca un terzo ritiene probabile la loro vittoria.
Il gradimento
Nel sondaggio abbiamo voluto verificare quale, tra i più noti esponenti del Movimento, sarebbe giudicato il migliore presidente del Consiglio nel caso di vittoria. Luigi Di Maio viene indicato dal 40%, seguito a molta distanza da Alessandro Di Battista (8%), Paola Taverna (2%) e Roberta Lombardi (1%). Circa un intervistato su due, tuttavia, non si esprime in proposito. Gli elettori M5S, in attesa delle consultazioni che si terranno in rete dopo l’estate, sembrano non avere dubbi: ad oggi Di Maio prevale su Di Battista 70% a 21%.
Da ultimo, il tema delle alleanze dopo le elezioni. Dato che gli orientamenti di voto attuali difficilmente fanno presagire il superamento della soglia del 40 per cento si profila l’esigenza di un’alleanza post elettorale.
Le scelte dopo le urne
Con chi dovrebbe allearsi il Movimento per ottenere una maggioranza di governo? Il 40% degli italiani ritiene che dovrebbe rimanere all’opposizione, il 17% con il Pd il 14% con i partiti sovranisti (Lega e FdI) e il 9% con l’intero centrodestra. Tra i pentastellati sembra prevalere «una vocazione minoritaria»: il 69%, infatti, eviterebbe alleanze rimanendo all’opposizione; in subordine il 15% preferirebbe governare con i sovranisti, il 9% con il Pd e il 4% con tutto il centrodestra. Tra gli altri elettorati dei principali partiti prevale nettamente l’ipotesi di un’ alleanza del M5S con il proprio partito: 56% tra i leghisti, 51% tra i dem e 49% tra quelli di Forza Italia.
I passaggi cruciali
Il M5S sta attraversando un passaggio delicato, non tanto per la flessione di consensi che, comunque, al momento non pregiudica la possibilità di vittoria, quanto per il possibile cambio di posizionamento da forza di opposizione a forza di governo. È un passaggio che investe 3 aspetti:
1) Il rapporto con un elettorato molto trasversale, sia per provenienza politica sia per caratteristiche socio demografiche, portatore di domande e aspettative non sempre convergenti; la trasversalità può rappresentare un punto di forza per chi sta all’opposizione ma può tradursi in debolezza una volta al governo, per il rischio di scontentare una parte dei propri sostenitori.
2) Le capacità di governo: stando all’opposizione il derby tra onestà e competenza è tutto a favore della prima, ma in una prospettiva di responsabilità di governo l’estrema complessità dei temi da affrontare potrebbe far prevalere dubbi sulle attuali capacità del ceto dirigente. Inoltre il ricorso a personalità «esterne» con profilo tecnico non è privo di controindicazioni, perché potrebbe indebolire la connotazione politica dell’esecutivo.
3) Le alleanze: fin dalle sue origini il Movimento è vissuto dai suoi sostenitori come unico, diverso dai partiti tradizionali, dotato di forti tratti distintivi (integrità, prossimità ai cittadini, capacità di innovazione), una sorta di Robin Hood della politica. Si tratta di un posizionamento che si è consolidato nel tempo anche a seguito dell’indisponibilità ad accordi con altre forze politiche su specifici temi. Ne consegue che il possibile ricorso ad un’alleanza per poter governare il Paese fa registrare un ampio dissenso, probabilmente nel timore di una «contaminazione» con i partiti tradizionali e del ricorso a compromessi che stravolgerebbero l’immagine e la proposta del Movimento.
Il 69% di chi vota M5S non vuole alleati
Il 70% per Di Maio a Palazzo Chigi
Ma metà degli elettori di Lega, Pd e FI apre a un asse con il Movimento
di Nando Pagnoncelli
L o scorso anno, di questi tempi, il Movimento 5 Stelle prendeva il largo nei sondaggi sulle intenzioni di voto grazie alla conquista di Roma e Torino alle elezioni Comunali di giugno che avevano conferito al movimento un’immagine vincente e lo avevano accreditato come una possibile alternativa di governo.
Le Comunali di quest’anno secondo gli italiani hanno avuto un esito diverso: ha vinto il centrodestra mentre Pd e M5S ne sono usciti ammaccati e tutto ciò si è riflesso sugli orientamenti di voto nazionali. I pentastellati si confermano una forza molto competitiva, costantemente alle prese con una testa a testa con il Pd, favorito anche dalla presenza di un centrodestra diviso, ma rispetto a un anno fa registrano un calo di oltre il 4%. Le chance di vittoria del Movimento alle elezioni dividono le opinioni degli italiani: il 5% è convinto che vincerà sicuramente, il 34% lo ritiene probabile mentre il 53% è del parere che non vincerà. I pronostici sono nettamente più favorevoli tra gli elettori pentastellati, anche se coloro che non hanno dubbi sulla vittoria rappresentano solo il 13% a cui si aggiunge una larga maggioranza (73%) di elettori moderatamente ottimisti. Va osservato che tra gli elettorati avversari all’incirca un terzo ritiene probabile la loro vittoria.
Il gradimento
Nel sondaggio abbiamo voluto verificare quale, tra i più noti esponenti del Movimento, sarebbe giudicato il migliore presidente del Consiglio nel caso di vittoria. Luigi Di Maio viene indicato dal 40%, seguito a molta distanza da Alessandro Di Battista (8%), Paola Taverna (2%) e Roberta Lombardi (1%). Circa un intervistato su due, tuttavia, non si esprime in proposito. Gli elettori M5S, in attesa delle consultazioni che si terranno in rete dopo l’estate, sembrano non avere dubbi: ad oggi Di Maio prevale su Di Battista 70% a 21%.
Da ultimo, il tema delle alleanze dopo le elezioni. Dato che gli orientamenti di voto attuali difficilmente fanno presagire il superamento della soglia del 40 per cento si profila l’esigenza di un’alleanza post elettorale.
Le scelte dopo le urne
Con chi dovrebbe allearsi il Movimento per ottenere una maggioranza di governo? Il 40% degli italiani ritiene che dovrebbe rimanere all’opposizione, il 17% con il Pd il 14% con i partiti sovranisti (Lega e FdI) e il 9% con l’intero centrodestra. Tra i pentastellati sembra prevalere «una vocazione minoritaria»: il 69%, infatti, eviterebbe alleanze rimanendo all’opposizione; in subordine il 15% preferirebbe governare con i sovranisti, il 9% con il Pd e il 4% con tutto il centrodestra. Tra gli altri elettorati dei principali partiti prevale nettamente l’ipotesi di un’ alleanza del M5S con il proprio partito: 56% tra i leghisti, 51% tra i dem e 49% tra quelli di Forza Italia.
I passaggi cruciali
Il M5S sta attraversando un passaggio delicato, non tanto per la flessione di consensi che, comunque, al momento non pregiudica la possibilità di vittoria, quanto per il possibile cambio di posizionamento da forza di opposizione a forza di governo. È un passaggio che investe 3 aspetti:
1) Il rapporto con un elettorato molto trasversale, sia per provenienza politica sia per caratteristiche socio demografiche, portatore di domande e aspettative non sempre convergenti; la trasversalità può rappresentare un punto di forza per chi sta all’opposizione ma può tradursi in debolezza una volta al governo, per il rischio di scontentare una parte dei propri sostenitori.
2) Le capacità di governo: stando all’opposizione il derby tra onestà e competenza è tutto a favore della prima, ma in una prospettiva di responsabilità di governo l’estrema complessità dei temi da affrontare potrebbe far prevalere dubbi sulle attuali capacità del ceto dirigente. Inoltre il ricorso a personalità «esterne» con profilo tecnico non è privo di controindicazioni, perché potrebbe indebolire la connotazione politica dell’esecutivo.
3) Le alleanze: fin dalle sue origini il Movimento è vissuto dai suoi sostenitori come unico, diverso dai partiti tradizionali, dotato di forti tratti distintivi (integrità, prossimità ai cittadini, capacità di innovazione), una sorta di Robin Hood della politica. Si tratta di un posizionamento che si è consolidato nel tempo anche a seguito dell’indisponibilità ad accordi con altre forze politiche su specifici temi. Ne consegue che il possibile ricorso ad un’alleanza per poter governare il Paese fa registrare un ampio dissenso, probabilmente nel timore di una «contaminazione» con i partiti tradizionali e del ricorso a compromessi che stravolgerebbero l’immagine e la proposta del Movimento.
Repubblica 15.7.17
I dubbi sulla strategia “solitaria” dell’ex premier. Franceschini: “Resto preoccupato, se non siamo competitivi lasciamo il Paese a Grillo e Berlusconi”. Orlando: “Stiamo perdendo troppi pezzi”. Perplesso anche Delrio
Il malessere dei ministri dem: rischiamo di scendere al 20%
di Goffredo De Marchis
ROMA. Dario Franceschini si è messo in attesa, ma non farà passi indietro. «Resto molto preoccupato. E le uscite sparse dal partito confermano quello che ho detto in direzione: in questo modo, di sicuro il Pd non compete per vincere le elezioni e consegna il Paese a Grillo o a Berlusconi». Andrea Orlando, il leader della minoranza, ha incassato l’addio di Elisa Simoni, cugina alla lontana di Matteo Renzi, sapendo che la deputata del Valdarno non è l’unica. «In giro per l’Italia ci sono altre piccole scissioni. Non è una cosa organizzata, però è preoccupante. Per la mia corrente? Certo. Ma soprattutto per il Pd che perde pezzi». Graziano Delrio non strapperà mai con Renzi che sul suo cellulare era memorizzato con il nome di Mosè. Eppure lo descrivono in fase di tribolazione; non nasconde i suoi dubbi sulla linea scelta da “Matteo” con il quale gli ultimi colloqui sono stati molto diretti, quasi tesi.
Dunque, si è innescata una “rivolta dei ministri” molto diversi tra di loro, per storia, carattere e rapporti con il segretario. Non solo. Qualche crepa sul tema dell’isolamento renziano comincia ad apparire anche tra i fedelissimi. Alessandro Alfieri, segretario regionale della Lombardia e fiore all’occhiello del renzismo, ha aperto la festa dell’Unità di Milano spiegando che «serve un centrosinistra largo e civico». Un modo per dire che la rottura dei ponti con tutti mette in pericolo anche la corsa del Pd alla regionali, fissate per l’anno prossimo (ma che Roberto Maroni vuole anticipare all’autunno). Poi, sui renziani c’è l’effetto amministrative, diffuso a macchia di leopoardo. Lì dove si è perso male o molto male, i dirigenti locali iniziano a far di conto per le elezioni politiche: quanto prenderà il Pd, il collegio che sembrava sicuro lo è ancora? Dubbi che si insinuano e non aiutano la cavalcata immaginata da Renzi.
Ieri ha riunito la sua corrente Gianni Cuperlo, da mesi il principale indiziato di una nuova scissione per via dei suoi ottimi rapporti con Giuliano Pisapia. In realtà, il suo gruppo con una serie di proposte su tasse, casa, povertà, diritto allo studio, investimenti chiede «spazio di manovra » dentro al Pd. Ma l’ex presidente del partito ammette: «Il tema dell’addio sta nella testa di molti ma la fatica, finché questo partito è il nostro, è starci con autonomia e agibilità». Il “finché” è allarmante. E nei territori il pressing di Mdp sulla sponda sinistra del Pd si sente, eccome.
I sondaggi non sono negativi (il Pd viene indicato intorno al 28 per cento). Come dire che Renzi sarà pure solo, insieme con milioni di italiani pronti a votarlo. Però le uscite e la difficoltà di avere rapporti con i potenziali alleati fanno temere una emorragia. Fino a cifre catastrofiche tra il 17 e il 20 per cento. In questa fase il leader non sembra avere intenzione di modificare la rotta. Anzi, secondo alcuni, ha in mente di tirare dritto, anche sulla liste elettorali. Potrebbe lasciare a tutte le minoranze (Orlando e Michele Emiliano) il 10 per cento complessivo dei posti di capolista. Il punto, dicono alcuni, è che in questo 10 vorrebbe comprendere anche la componente di Franceschini, schierato dalla sua parte al congresso. Dopo lo scontro in direzione, infatti, il segretario lo considera il nemico numero uno.
Il tema delle alleanze, che Renzi considera astruso, politicista e fuori dal mondo, rischia di diventare centrale, soprattutto se le scissioni dovessero continuare. Silvio Berlusconi, si dice, preferirebbe andare al governo con il Pd piuttosto che con la Lega di Salvini. Ma se con il Pd non avesse i numeri per fare una maggioranza? Orlando e Franceschini sono invece sicuri che ad Arcore la strategia sia cambiata. Il Cavaliere potrebbe tornare a spingere per il maggioritario, spiazzando Renzi che rifiuta alleanze. Oppure, con il proporzionale, darebbe vita a un listone. «Le comunali — dice un parlamentare della minoranza — dimostrano che l’elettorato di centrodestra si somma. Al dunque, è compatto. E competitivo». A quel punto, sì che il tema del centrosinistra diventerebbe cruciale.
I dubbi sulla strategia “solitaria” dell’ex premier. Franceschini: “Resto preoccupato, se non siamo competitivi lasciamo il Paese a Grillo e Berlusconi”. Orlando: “Stiamo perdendo troppi pezzi”. Perplesso anche Delrio
Il malessere dei ministri dem: rischiamo di scendere al 20%
di Goffredo De Marchis
ROMA. Dario Franceschini si è messo in attesa, ma non farà passi indietro. «Resto molto preoccupato. E le uscite sparse dal partito confermano quello che ho detto in direzione: in questo modo, di sicuro il Pd non compete per vincere le elezioni e consegna il Paese a Grillo o a Berlusconi». Andrea Orlando, il leader della minoranza, ha incassato l’addio di Elisa Simoni, cugina alla lontana di Matteo Renzi, sapendo che la deputata del Valdarno non è l’unica. «In giro per l’Italia ci sono altre piccole scissioni. Non è una cosa organizzata, però è preoccupante. Per la mia corrente? Certo. Ma soprattutto per il Pd che perde pezzi». Graziano Delrio non strapperà mai con Renzi che sul suo cellulare era memorizzato con il nome di Mosè. Eppure lo descrivono in fase di tribolazione; non nasconde i suoi dubbi sulla linea scelta da “Matteo” con il quale gli ultimi colloqui sono stati molto diretti, quasi tesi.
Dunque, si è innescata una “rivolta dei ministri” molto diversi tra di loro, per storia, carattere e rapporti con il segretario. Non solo. Qualche crepa sul tema dell’isolamento renziano comincia ad apparire anche tra i fedelissimi. Alessandro Alfieri, segretario regionale della Lombardia e fiore all’occhiello del renzismo, ha aperto la festa dell’Unità di Milano spiegando che «serve un centrosinistra largo e civico». Un modo per dire che la rottura dei ponti con tutti mette in pericolo anche la corsa del Pd alla regionali, fissate per l’anno prossimo (ma che Roberto Maroni vuole anticipare all’autunno). Poi, sui renziani c’è l’effetto amministrative, diffuso a macchia di leopoardo. Lì dove si è perso male o molto male, i dirigenti locali iniziano a far di conto per le elezioni politiche: quanto prenderà il Pd, il collegio che sembrava sicuro lo è ancora? Dubbi che si insinuano e non aiutano la cavalcata immaginata da Renzi.
Ieri ha riunito la sua corrente Gianni Cuperlo, da mesi il principale indiziato di una nuova scissione per via dei suoi ottimi rapporti con Giuliano Pisapia. In realtà, il suo gruppo con una serie di proposte su tasse, casa, povertà, diritto allo studio, investimenti chiede «spazio di manovra » dentro al Pd. Ma l’ex presidente del partito ammette: «Il tema dell’addio sta nella testa di molti ma la fatica, finché questo partito è il nostro, è starci con autonomia e agibilità». Il “finché” è allarmante. E nei territori il pressing di Mdp sulla sponda sinistra del Pd si sente, eccome.
I sondaggi non sono negativi (il Pd viene indicato intorno al 28 per cento). Come dire che Renzi sarà pure solo, insieme con milioni di italiani pronti a votarlo. Però le uscite e la difficoltà di avere rapporti con i potenziali alleati fanno temere una emorragia. Fino a cifre catastrofiche tra il 17 e il 20 per cento. In questa fase il leader non sembra avere intenzione di modificare la rotta. Anzi, secondo alcuni, ha in mente di tirare dritto, anche sulla liste elettorali. Potrebbe lasciare a tutte le minoranze (Orlando e Michele Emiliano) il 10 per cento complessivo dei posti di capolista. Il punto, dicono alcuni, è che in questo 10 vorrebbe comprendere anche la componente di Franceschini, schierato dalla sua parte al congresso. Dopo lo scontro in direzione, infatti, il segretario lo considera il nemico numero uno.
Il tema delle alleanze, che Renzi considera astruso, politicista e fuori dal mondo, rischia di diventare centrale, soprattutto se le scissioni dovessero continuare. Silvio Berlusconi, si dice, preferirebbe andare al governo con il Pd piuttosto che con la Lega di Salvini. Ma se con il Pd non avesse i numeri per fare una maggioranza? Orlando e Franceschini sono invece sicuri che ad Arcore la strategia sia cambiata. Il Cavaliere potrebbe tornare a spingere per il maggioritario, spiazzando Renzi che rifiuta alleanze. Oppure, con il proporzionale, darebbe vita a un listone. «Le comunali — dice un parlamentare della minoranza — dimostrano che l’elettorato di centrodestra si somma. Al dunque, è compatto. E competitivo». A quel punto, sì che il tema del centrosinistra diventerebbe cruciale.
Il Fatto 15.7.17
“Avanti”, ma anche vade retro sinistra
di Gianfranco Pasquino
Di tanto in tanto, gli estimatori di Matteo Renzi discettano sul modello di partito che l’ex-segretario ritornato segretario sull’ondina di un consenso più ristretto starebbe costruendo. Per un po’ di tempo, questi estimatori, quando i numeri sembravano promettenti, si erano appassionati all’idea del Partito della Nazione. Suonava, il termine, molto potente. Era quasi un programma, non è mai stato chiarito di cosa, forse di un’ipertrofica aggregazione al centro, con tutti gli altri contro “la nazione”. Poi, di tanto in tanto, ma senza troppa convinzione, il Partito di Renzi avrebbe rappresentato il nuovo Ulivo, ma, in tutta sincerità né le premesse né le azioni di Renzi giustificavano una qualsiasi costruzione di un qualsiasi Ulivo che avesse qualche riferimento al vecchio.
L’assenza più evidente nella discussione, peraltro mai centrale, del nuovo partito (sì, dell’ultimo partito ancora esistente in Italia), era relativa proprio alla motivazione con la quale i Ds e i Popolari della Margherita avevano troppo rapidamente proceduto a quella che fu criticata come “fusione fredda” e che ebbe come esito il Partito Democratico. Che dovesse contenere il meglio delle culture riformiste del paese fu detto troppe volte, ma, al di là del non coinvolgimento dei socialisti che, in fondo, non poca cultura riformista avevano formulato, avuto e espresso, le altre culture politiche erano già declinate, se non esauste al momento della fusione. Per questa assenza di fondo di qualsiasi cultura politica divenne fin troppo facile flirtare con definizioni di partiti immaginari, mai sostenuti da idee, quindi sempre mobili quanto serviva, per esempio, ad attrarre il riformista Verdini, sul continuum destra/sinistra.
La prima segreteria di Renzi non diede alcuno spazio a riflessioni di cultura politica. La grande occasione delle riforme costituzionali non fu neppure presa in considerazione per andare ad una esplicitazione della cultura, non solo costituzionale, che le sottintendeva, ma per aggiungervi anche quei principi e quei valori che esprimono e danno corpo ad una cultura più specificamente politica. Respinta la richiesta delle minoranze per una conferenza programmatica che precedesse le votazioni per il segretario tenutesi alla fine d’aprile 2017, il discorso sembra definitivamente chiuso.
Il Partito Democratico è un partito vote and office-seeking, che cerca voti e cariche. Punto e basta. Qualche volta, però, un libro potrebbe essere il luogo dove riflettere sulla cultura di un partito, quello che si guida e quello che si vorrebbe. Invece, no. Non lo fece Veltroni nella sua cavalcata del 2007 (La nuova stagione. Contro tutti i conservatorismi, Rizzoli 2007) che delineò non un partito nuovo, ma un programma di governo, se non del tutto alternativo a quello del già traballante Prodi, sicuramente competitivo. Non lo fa affatto il libro di Renzi che il suo autore presenta come segue: “Questo libro non è solo un diario personale, una riflessione sulla sinistra o il programma del governo che verrà. Più di tutto, è la condivisione di idee, emozioni e speranze che spesso si sono perse nel racconto della comunicazione quotidiana. I risultati ottenuti e gli errori commessi. Il viaggio tra passato e futuro di un’Italia che non si ferma. Che vuole andare avanti”. Niente, dunque, che possa riguardare la cultura politica del Pd di Renzi il quale si esprime semmai soltanto in critiche, talvolta offensive, a tutti coloro che si muovono nella sinistra e dintorni.
Per fortuna, ma certo non per virtù, i commentatori politici renziani, politologi (che sarebbe un’aggravante), e no (che è molto più di un’aggravante!), dalle Alpi alla Sicilia, l’hanno trovata loro la cultura politica del partito renziano. Certo, bisogna aguzzare la vista, cogliere anche gli indizi più labili, tuffarsi in un linguaggio che proprio non facilita la scoperta di elementi culturali appena malamente abbozzati. Soltanto ai, “diciamo”, meglio attrezzati apparirà allora che Renzi sta costruendo un partito di “sinistra liberale”.
Gli opposti essendo sicuramente due: un partito di destra liberale (che non può certamente essere quello di Berlusconi in conflitto d’interessi permanente) e un partito di sinistra illiberale (quello del passato, di D’Alema e Bersani?, quello del futuro, nel campo di Pisapia?) Naturalmente, il paese attende di essere istruito sia sul sostantivo “sinistra”, secondo Renzi e non solo secondo Michele Salvati, che è il non-politologo che auspica instancabilmente la vittoria definitiva di Renzi, sia sull’aggettivo liberale per il quale, però, non ritengo che sia Salvati lo studioso meglio in grado di illuminarci. Peccato che nel libro di Renzi e nelle quarantasette anticipazioni non si trovi nulla né relativo alla sinistra né relativo al liberalismo.
“Avanti”, ma anche vade retro sinistra
di Gianfranco Pasquino
Di tanto in tanto, gli estimatori di Matteo Renzi discettano sul modello di partito che l’ex-segretario ritornato segretario sull’ondina di un consenso più ristretto starebbe costruendo. Per un po’ di tempo, questi estimatori, quando i numeri sembravano promettenti, si erano appassionati all’idea del Partito della Nazione. Suonava, il termine, molto potente. Era quasi un programma, non è mai stato chiarito di cosa, forse di un’ipertrofica aggregazione al centro, con tutti gli altri contro “la nazione”. Poi, di tanto in tanto, ma senza troppa convinzione, il Partito di Renzi avrebbe rappresentato il nuovo Ulivo, ma, in tutta sincerità né le premesse né le azioni di Renzi giustificavano una qualsiasi costruzione di un qualsiasi Ulivo che avesse qualche riferimento al vecchio.
L’assenza più evidente nella discussione, peraltro mai centrale, del nuovo partito (sì, dell’ultimo partito ancora esistente in Italia), era relativa proprio alla motivazione con la quale i Ds e i Popolari della Margherita avevano troppo rapidamente proceduto a quella che fu criticata come “fusione fredda” e che ebbe come esito il Partito Democratico. Che dovesse contenere il meglio delle culture riformiste del paese fu detto troppe volte, ma, al di là del non coinvolgimento dei socialisti che, in fondo, non poca cultura riformista avevano formulato, avuto e espresso, le altre culture politiche erano già declinate, se non esauste al momento della fusione. Per questa assenza di fondo di qualsiasi cultura politica divenne fin troppo facile flirtare con definizioni di partiti immaginari, mai sostenuti da idee, quindi sempre mobili quanto serviva, per esempio, ad attrarre il riformista Verdini, sul continuum destra/sinistra.
La prima segreteria di Renzi non diede alcuno spazio a riflessioni di cultura politica. La grande occasione delle riforme costituzionali non fu neppure presa in considerazione per andare ad una esplicitazione della cultura, non solo costituzionale, che le sottintendeva, ma per aggiungervi anche quei principi e quei valori che esprimono e danno corpo ad una cultura più specificamente politica. Respinta la richiesta delle minoranze per una conferenza programmatica che precedesse le votazioni per il segretario tenutesi alla fine d’aprile 2017, il discorso sembra definitivamente chiuso.
Il Partito Democratico è un partito vote and office-seeking, che cerca voti e cariche. Punto e basta. Qualche volta, però, un libro potrebbe essere il luogo dove riflettere sulla cultura di un partito, quello che si guida e quello che si vorrebbe. Invece, no. Non lo fece Veltroni nella sua cavalcata del 2007 (La nuova stagione. Contro tutti i conservatorismi, Rizzoli 2007) che delineò non un partito nuovo, ma un programma di governo, se non del tutto alternativo a quello del già traballante Prodi, sicuramente competitivo. Non lo fa affatto il libro di Renzi che il suo autore presenta come segue: “Questo libro non è solo un diario personale, una riflessione sulla sinistra o il programma del governo che verrà. Più di tutto, è la condivisione di idee, emozioni e speranze che spesso si sono perse nel racconto della comunicazione quotidiana. I risultati ottenuti e gli errori commessi. Il viaggio tra passato e futuro di un’Italia che non si ferma. Che vuole andare avanti”. Niente, dunque, che possa riguardare la cultura politica del Pd di Renzi il quale si esprime semmai soltanto in critiche, talvolta offensive, a tutti coloro che si muovono nella sinistra e dintorni.
Per fortuna, ma certo non per virtù, i commentatori politici renziani, politologi (che sarebbe un’aggravante), e no (che è molto più di un’aggravante!), dalle Alpi alla Sicilia, l’hanno trovata loro la cultura politica del partito renziano. Certo, bisogna aguzzare la vista, cogliere anche gli indizi più labili, tuffarsi in un linguaggio che proprio non facilita la scoperta di elementi culturali appena malamente abbozzati. Soltanto ai, “diciamo”, meglio attrezzati apparirà allora che Renzi sta costruendo un partito di “sinistra liberale”.
Gli opposti essendo sicuramente due: un partito di destra liberale (che non può certamente essere quello di Berlusconi in conflitto d’interessi permanente) e un partito di sinistra illiberale (quello del passato, di D’Alema e Bersani?, quello del futuro, nel campo di Pisapia?) Naturalmente, il paese attende di essere istruito sia sul sostantivo “sinistra”, secondo Renzi e non solo secondo Michele Salvati, che è il non-politologo che auspica instancabilmente la vittoria definitiva di Renzi, sia sull’aggettivo liberale per il quale, però, non ritengo che sia Salvati lo studioso meglio in grado di illuminarci. Peccato che nel libro di Renzi e nelle quarantasette anticipazioni non si trovi nulla né relativo alla sinistra né relativo al liberalismo.
il manifesto 15.7.17
Non un piccolo Ulivo ma una lista unitaria e di sinistra
Sinistra. Il bivio dell’area Bersani e compagni è chiaro: o costruisce il fronte di sinistra o si arrende alla pax renziana che però significa il riflusso e, alla fine, il fallimento
di Michele Prospero
A spingere verso una lista unitaria della sinistra è un fattore nuovo, di cui occorre avere percezione: il voto di sanzione. Dopo un Pd esploso, un M5S inadeguato come forza di alternativa reale, movimenti sociali e di cittadinanza hanno riacquistato visibilità.
Se a sinistra alcun processo di riaggregazione politica si apre le conseguenze saranno inevitabili. Una punizione ricadrà su tutte le offerte elettorali residuali in campo (una variante dell’Arcobaleno o una reinterpretazione della lista Ingroia) che invano cercheranno di superare lo sbarramento.
Dopo lo stimolo della piazza e del teatro si avverte una esigenza non di generica unità ma di efficacia del voto che richiede la presenza in competizione di un simbolo comune capace di raccogliere un consenso di massa.
Ciò impone alle due principali forze esistenti a sinistra, il Mdp e SI, di progettare la convergenza di un più arco ampio di soggetti per delineare una formula che abbia l’ambizione di incidere nell’immediato e di crescere in prospettiva.
Il Mdp mostra però una qualche esitazione ad allargare il fronte unitario e concentra la sua iniziativa esitante ad una preliminare alleanza con il Campo progressista di Pisapia. Senza una verifica dei rapporti di forza, strappa i galloni a Speranza, che se li era guadagnati anche con un limpido gesto di disobbedienza a Renzi, e assegna proprio al magico federatore il compito di dirigere le operazioni. Altre forze dovrebbero solo in seguito confluire al seguito di una leadership già assegnata, senza il loro concorso. L’ipotesi politica del Mdp (con il distinguo di D’Alema che muove da un’analisi più accorta e spietata) è che occorra cautela e senso dei confini per costruire un centrosinistra attrattivo per i moderati.
Il problema è però che il centrosinistra come formula indica una coalizione ampia e plurale che si arma per affrontare la competizione bipolare per vincere le elezioni. Il gruppo di Insieme invece è solo una micro-coalizione che nel mercato elettorale dovrebbe rimarcare la propria parzialità e non configurarsi già come una eterogenea aggregazione delle culture di sinistra e di centro. Realistica come obiettivo della coalizione major che punta a vincere la contesa, la categoria del centro sinistra è del tutto sfasata per una coalizione minor che nasce come ipotesi alternativa al Pd. Inseguire un ulivo in miniatura, che ha per obiettivo realistico la conquista di un 10 per cento come dote elettorale da cui ripartire per ulteriori scalate, è quindi un’idea politica sbagliata. A una lista unitaria, che non è così forte da proporsi già come blocco di governo, servirebbe un più preciso perimetro di sinistra e non una troppo generica mescolanza di culture.
Se si va a combattere in nome dell’Ulivo minore, che intende vendicare l’oltraggio al centrosinistra vero compiuto dal Pd, denunciato (con i volti di Cuperlo e Orlando) quale falso interprete del centrosinistra autentico (quello di Bersani, Letta, Prodi) non si fa molta strada. Il rischio tattico (ammesso che schivata sia la mina vagante della proposta di Pisapia di convocare nuove primarie di coalizione per giocarsi il bastone del comando con Renzi) è di rimanere intrappolati nelle reti delle armi gigliate. Una insidia ulteriore, che minaccia di far esplodere il Mdp, è poi contenuta nell’ultima carta gettata sul tavolo da Repubblica: mantenere Renzi quale segretario e però costringerlo, con i segnali di fuoco che certi poteri forti sanno ben lanciare per far precipitare il capo in fuga in un’assordante solitudine, ad accordare i gradi a Gentiloni quale candidato premier.
Le incertezze del Mdp (tenere aperte le vie del dialogo confidando in un Pd a renzismo più marginale) rischiano di farlo naufragare tra le sue contraddizioni irrisolte sino a sterilizzarlo come autonomo soggetto e ridurlo a partner del tutto irrilevante. Il bivio che l’area di Bersani ha di fronte è trasparente: o lavora per costruire il fronte sinistro della rappresentanza o si arrende alla pax renziana che significa però riflusso e fallimento della sua disobbedienza. Alla fine la forza delle cose indurrà il Mdp alla opzione adesso indigesta di un incontro a sinistra per non perire come un esperimento abortito. Le sue inquietudini tattiche (attesa della sconfitta del Pd in Sicilia come ultima occasione di una bella congiura per l’uccisione del leader) e le chiusure dialogiche ostacolano però il respiro strategico da conferire alla lista unitaria.
La tessitura con Sinistra italiana non potrà a lungo essere rinviata, pena un tardivo incontro di ceti politici allo sbando per il naufragio delle sirene della de-renzianizzazione del Pd. Malgrado una emorragia per la fuga del 75 per cento dei suoi gruppi parlamentari, SI ha saputo svolgere una funzione di opposizione rilevante in aula e conservare lo stesso radicamento elettorale nel paese. Per questo può convertire la sua centralità per debolezza (attrazione centripeda verso il Mdp e centrifuga verso aree più radicali) in una centralità per forza aggregativa. Per contrastare una campagna elettorale monotematica incardinata sull’immigrazione, è indispensabile mostrare una radicalità sociale della sinistra. Occorre vagliare le suggestioni di liste civiche nazionali (non hanno una diffusione territoriale omogenea le pratiche collettive premiate a Padova e Bologna) per prepararsi a uno scontro che richiede piuttosto una visibilità identitaria della sinistra e un qualche radicamento nei ceti popolari.
Dopo il soccorso dei federatori, che ha richiesto un passo indietro dei partiti e l’appalto a figure esterne con il mandato di navigare nell’incertezza, è necessario che le leadership garantiscano il raccordo indispensabile con le armi della politica, con i suoi tempi e anche ritualità. Ricevute le benedizioni di Santi Apostoli e del Brancaccio per una cosa unitaria, tocca non deludere il principio di speranza per una lista della sinistra. Solo così il voto di sanzione non scatterà.
Non un piccolo Ulivo ma una lista unitaria e di sinistra
Sinistra. Il bivio dell’area Bersani e compagni è chiaro: o costruisce il fronte di sinistra o si arrende alla pax renziana che però significa il riflusso e, alla fine, il fallimento
di Michele Prospero
A spingere verso una lista unitaria della sinistra è un fattore nuovo, di cui occorre avere percezione: il voto di sanzione. Dopo un Pd esploso, un M5S inadeguato come forza di alternativa reale, movimenti sociali e di cittadinanza hanno riacquistato visibilità.
Se a sinistra alcun processo di riaggregazione politica si apre le conseguenze saranno inevitabili. Una punizione ricadrà su tutte le offerte elettorali residuali in campo (una variante dell’Arcobaleno o una reinterpretazione della lista Ingroia) che invano cercheranno di superare lo sbarramento.
Dopo lo stimolo della piazza e del teatro si avverte una esigenza non di generica unità ma di efficacia del voto che richiede la presenza in competizione di un simbolo comune capace di raccogliere un consenso di massa.
Ciò impone alle due principali forze esistenti a sinistra, il Mdp e SI, di progettare la convergenza di un più arco ampio di soggetti per delineare una formula che abbia l’ambizione di incidere nell’immediato e di crescere in prospettiva.
Il Mdp mostra però una qualche esitazione ad allargare il fronte unitario e concentra la sua iniziativa esitante ad una preliminare alleanza con il Campo progressista di Pisapia. Senza una verifica dei rapporti di forza, strappa i galloni a Speranza, che se li era guadagnati anche con un limpido gesto di disobbedienza a Renzi, e assegna proprio al magico federatore il compito di dirigere le operazioni. Altre forze dovrebbero solo in seguito confluire al seguito di una leadership già assegnata, senza il loro concorso. L’ipotesi politica del Mdp (con il distinguo di D’Alema che muove da un’analisi più accorta e spietata) è che occorra cautela e senso dei confini per costruire un centrosinistra attrattivo per i moderati.
Il problema è però che il centrosinistra come formula indica una coalizione ampia e plurale che si arma per affrontare la competizione bipolare per vincere le elezioni. Il gruppo di Insieme invece è solo una micro-coalizione che nel mercato elettorale dovrebbe rimarcare la propria parzialità e non configurarsi già come una eterogenea aggregazione delle culture di sinistra e di centro. Realistica come obiettivo della coalizione major che punta a vincere la contesa, la categoria del centro sinistra è del tutto sfasata per una coalizione minor che nasce come ipotesi alternativa al Pd. Inseguire un ulivo in miniatura, che ha per obiettivo realistico la conquista di un 10 per cento come dote elettorale da cui ripartire per ulteriori scalate, è quindi un’idea politica sbagliata. A una lista unitaria, che non è così forte da proporsi già come blocco di governo, servirebbe un più preciso perimetro di sinistra e non una troppo generica mescolanza di culture.
Se si va a combattere in nome dell’Ulivo minore, che intende vendicare l’oltraggio al centrosinistra vero compiuto dal Pd, denunciato (con i volti di Cuperlo e Orlando) quale falso interprete del centrosinistra autentico (quello di Bersani, Letta, Prodi) non si fa molta strada. Il rischio tattico (ammesso che schivata sia la mina vagante della proposta di Pisapia di convocare nuove primarie di coalizione per giocarsi il bastone del comando con Renzi) è di rimanere intrappolati nelle reti delle armi gigliate. Una insidia ulteriore, che minaccia di far esplodere il Mdp, è poi contenuta nell’ultima carta gettata sul tavolo da Repubblica: mantenere Renzi quale segretario e però costringerlo, con i segnali di fuoco che certi poteri forti sanno ben lanciare per far precipitare il capo in fuga in un’assordante solitudine, ad accordare i gradi a Gentiloni quale candidato premier.
Le incertezze del Mdp (tenere aperte le vie del dialogo confidando in un Pd a renzismo più marginale) rischiano di farlo naufragare tra le sue contraddizioni irrisolte sino a sterilizzarlo come autonomo soggetto e ridurlo a partner del tutto irrilevante. Il bivio che l’area di Bersani ha di fronte è trasparente: o lavora per costruire il fronte sinistro della rappresentanza o si arrende alla pax renziana che significa però riflusso e fallimento della sua disobbedienza. Alla fine la forza delle cose indurrà il Mdp alla opzione adesso indigesta di un incontro a sinistra per non perire come un esperimento abortito. Le sue inquietudini tattiche (attesa della sconfitta del Pd in Sicilia come ultima occasione di una bella congiura per l’uccisione del leader) e le chiusure dialogiche ostacolano però il respiro strategico da conferire alla lista unitaria.
La tessitura con Sinistra italiana non potrà a lungo essere rinviata, pena un tardivo incontro di ceti politici allo sbando per il naufragio delle sirene della de-renzianizzazione del Pd. Malgrado una emorragia per la fuga del 75 per cento dei suoi gruppi parlamentari, SI ha saputo svolgere una funzione di opposizione rilevante in aula e conservare lo stesso radicamento elettorale nel paese. Per questo può convertire la sua centralità per debolezza (attrazione centripeda verso il Mdp e centrifuga verso aree più radicali) in una centralità per forza aggregativa. Per contrastare una campagna elettorale monotematica incardinata sull’immigrazione, è indispensabile mostrare una radicalità sociale della sinistra. Occorre vagliare le suggestioni di liste civiche nazionali (non hanno una diffusione territoriale omogenea le pratiche collettive premiate a Padova e Bologna) per prepararsi a uno scontro che richiede piuttosto una visibilità identitaria della sinistra e un qualche radicamento nei ceti popolari.
Dopo il soccorso dei federatori, che ha richiesto un passo indietro dei partiti e l’appalto a figure esterne con il mandato di navigare nell’incertezza, è necessario che le leadership garantiscano il raccordo indispensabile con le armi della politica, con i suoi tempi e anche ritualità. Ricevute le benedizioni di Santi Apostoli e del Brancaccio per una cosa unitaria, tocca non deludere il principio di speranza per una lista della sinistra. Solo così il voto di sanzione non scatterà.
Repubblica 15.7.17
Fratoianni: “Alla sinistra serve un Pierino Pisapia moderato, D’Alema ha un’età”
Dalla società viene una domanda di radicalità Servono nuove traiettorie di rivolta
di Concetto Vecchio
ROMA. Onorevole Fratoianni, per D’Alema lei è «un simpatico giovanotto, a volte inutilmente polemico».
«Anche lui è simpatico, anche se non è più un giovanotto ».
Pisapia forse preferirebbe non averla nella lista unitaria: gli ricorda la sinistra dei Bertinotti.
«Serve un po’ di irrequietezza, un po’ di polemica. La condizione del Paese è allarmante».
Questo suo spirito da Pierino come si concilia con il nuovo centrosinistra?
«Essere un Pierino è bellissimo. Questo non è il momento della calma o della stabilità, servono nuove traiettorie di rivolta, di insubordinazione. Questo deve fare la sinistra, sennò lo fa qualcun altro».
Ma non bisogna anche puntare a vincere le elezioni?
«Dalla società viene una domanda di radicalità. Oggi ero a Monfalcone, con gli operai della Fincantieri che lavorano a 55 gradi nella pancia delle navi: 1500 lavoratori stabilizzati, più altri 5000 dell’indotto, alcuni con i contratti più disparati. La sinistra non intercetta più queste persone».
Cosa chiedono gli operai?
«Presentatevi uniti, ma rimettete al centro della politica le nostre vite».
Quante vale oggi Sinistra italiana?
«I sondaggi dicono il 3 per cento».
Così tanto?
«C’è potenzialmente un grande spazio. Pensi alle battaglie che si potrebbero fare. In Italia in media si lavora più che negli altri paesi, 1800 ore all’anno, in Germania sono 1500, in Francia 1400. Bisognerebbe ridurre questo tempo al lavoro, per conquistare più spazio di vita ma anche per allargare la base lavorativa».
Lei è ancora convinto che in Italia serva un Corbyn?
«Sì, assolutamente».
E chi sarebbe?
«Non c’è purtroppo».
E allora che si fa?
«Si può fare un programma italiano alla Corbyn. O alla Mélenchon, che in Francia ha preso il 20%».
Ma allora chi può essere il leader di questa lista unitaria della sinistra che lei propone da giorni?
«Il leader si sceglie in genere in due modi. O la leadership s’impone naturalmente E questo direi non è il nostro caso. Oppure si sceglie democraticamente. Questo vale anche per Pisapia».
Perché ha queste riserve nei confronti di Pisapia?
«Lo stimo, ma da lui mi divide il fatto che ha votato Sì al referendum. Inoltre non lo capisco quando dice che con il Pd sono più le cose che lo uniscono da quelle che lo dividono».
Se è così cosa ci state ancora fare?
«Occorre definire un profilo. Se poi permane com’è adesso allora converrebbe andare da soli ».
Non teme la soglia del 3%?
«Ma non possiamo neanche morire di moderatismo, sennò si finisce come Renzi che ora dice dei migranti “aiutiamoli a casa loro”».
Ha letto il libro di Renzi?
«No, e in vacanza vorrei leggere dei romanzi».
Fratoianni: “Alla sinistra serve un Pierino Pisapia moderato, D’Alema ha un’età”
Dalla società viene una domanda di radicalità Servono nuove traiettorie di rivolta
di Concetto Vecchio
ROMA. Onorevole Fratoianni, per D’Alema lei è «un simpatico giovanotto, a volte inutilmente polemico».
«Anche lui è simpatico, anche se non è più un giovanotto ».
Pisapia forse preferirebbe non averla nella lista unitaria: gli ricorda la sinistra dei Bertinotti.
«Serve un po’ di irrequietezza, un po’ di polemica. La condizione del Paese è allarmante».
Questo suo spirito da Pierino come si concilia con il nuovo centrosinistra?
«Essere un Pierino è bellissimo. Questo non è il momento della calma o della stabilità, servono nuove traiettorie di rivolta, di insubordinazione. Questo deve fare la sinistra, sennò lo fa qualcun altro».
Ma non bisogna anche puntare a vincere le elezioni?
«Dalla società viene una domanda di radicalità. Oggi ero a Monfalcone, con gli operai della Fincantieri che lavorano a 55 gradi nella pancia delle navi: 1500 lavoratori stabilizzati, più altri 5000 dell’indotto, alcuni con i contratti più disparati. La sinistra non intercetta più queste persone».
Cosa chiedono gli operai?
«Presentatevi uniti, ma rimettete al centro della politica le nostre vite».
Quante vale oggi Sinistra italiana?
«I sondaggi dicono il 3 per cento».
Così tanto?
«C’è potenzialmente un grande spazio. Pensi alle battaglie che si potrebbero fare. In Italia in media si lavora più che negli altri paesi, 1800 ore all’anno, in Germania sono 1500, in Francia 1400. Bisognerebbe ridurre questo tempo al lavoro, per conquistare più spazio di vita ma anche per allargare la base lavorativa».
Lei è ancora convinto che in Italia serva un Corbyn?
«Sì, assolutamente».
E chi sarebbe?
«Non c’è purtroppo».
E allora che si fa?
«Si può fare un programma italiano alla Corbyn. O alla Mélenchon, che in Francia ha preso il 20%».
Ma allora chi può essere il leader di questa lista unitaria della sinistra che lei propone da giorni?
«Il leader si sceglie in genere in due modi. O la leadership s’impone naturalmente E questo direi non è il nostro caso. Oppure si sceglie democraticamente. Questo vale anche per Pisapia».
Perché ha queste riserve nei confronti di Pisapia?
«Lo stimo, ma da lui mi divide il fatto che ha votato Sì al referendum. Inoltre non lo capisco quando dice che con il Pd sono più le cose che lo uniscono da quelle che lo dividono».
Se è così cosa ci state ancora fare?
«Occorre definire un profilo. Se poi permane com’è adesso allora converrebbe andare da soli ».
Non teme la soglia del 3%?
«Ma non possiamo neanche morire di moderatismo, sennò si finisce come Renzi che ora dice dei migranti “aiutiamoli a casa loro”».
Ha letto il libro di Renzi?
«No, e in vacanza vorrei leggere dei romanzi».
Repubblica 15.7.17
Pisapia, il velo sottile del leader mancante
di Stefano Folli
A SINISTRA del Pd la matassa è parecchio ingarbugliata senza che sia chiaro chi potrà e vorrà dipanarla. Non è solo la notizia che Giuliano Pisapia non intende candidarsi alle prossime elezioni. Il motivo addotto dall’ex sindaco di Milano («in passato ho già svolto due mandati e sono sempre stato contrario al terzo») gli fa onore sul piano etico, ma è un velo troppo sottile per mascherare la realtà. Che è fatta di divisioni, personalismi, idee diverse sul “che fare” con il governo Gentiloni. Sulle misure volte al salvataggio delle banche si è già avuta la prova di quanto sia difficile per il plotone Pisapia restare unito. Ed è ancora poca cosa rispetto all’autunno, quando verranno al pettine i nodi della legge di stabilità e della politica economica. Quindi la mancata candidatura è più che altro la spia del problema di fondo: fino a oggi non si è affermata una leadership abbastanza forte e determinata per unificare quell’arcipelago di sigle, programmi e ambizioni — dal Campo progressista a Sel passando per Articolo1-Mdp — che punta a una robusta rappresentanza parlamentare, ma nel frattempo dovrebbe preoccuparsi del cortocircuito in cui è bloccato. Il ruolo di federatore era riservato, appunto, a Pisapia. E in teoria la rinuncia al Parlamento non lo contraddice. Nei fatti però è quasi una resa, un gesto che indebolisce l’intera operazione e soprattutto ne cambia la cifra. Non stupisce che gli ambienti vicini a Renzi non facciano alcuno sforzo per nascondere il compiacimento. Almeno in apparenza si conferma la loro tesi secondo cui l’unico collante degli altri è il rancore verso il “renzismo”. E poi, secondo aspetto, si dimostra che Pisapia non è il nuovo Prodi, capace di imporre un’autorità personale su un gruppo di alleati riottosi e gelosi ciascuno del proprio orto.
Come è logico, Renzi e i suoi fanno il loro gioco. E non è escluso che adesso tornino a proporre una specie di annessione al Pd a quei “progressisti” amici dell’ex sindaco di Milano che non siano ostili per principio alla linea renziana. In una simile eventualità Pisapia, da gentiluomo della politica, non farà certo parte del drappello. Ma egli non intende nemmeno coprire con il suo nome le risse e le rivalità che covano a sinistra. Gli accordi intercorsi fino a oggi — e di cui si trova traccia nell’intervista di D’Alema al Fatto quotidiano — sembrano riservargli una funzione di rappresentanza, sia pure nobilitata dalla prospettiva delle “primarie”. Una sorta di portavoce di scelte non sempre condivise. Come è noto, il progetto originario era alquanto diverso: il Campo progressista intendeva rinvigorire la sinistra idealmente e moralmente, in un rapporto dialettico con il Pd senza il quale, s’intende, non esisterebbe il centrosinistra. Questi elementi di novità Pisapia non è riuscito fin qui a farli passare: né sul piano dei temi, i famosi “contenuti”, né sul terreno del rinnovamento. Il messaggio all’opinione pubblica troppe volte è apparso un po’ generico, cioè non abbastanza incisivo per opporsi alla virulenza del “renzismo”.
Probabilmente Pisapia ha bisogno di tempo. Ma il tempo non c’è. A ben vedere, la nuova sinistra avrebbe dovuto avere già oggi un’impalcatura abbastanza solida, così da dedicare l’autunno a un’azione capillare di propaganda per farsi conoscere dagli elettori, mettendo a punto un programma e una coerente visione socialdemocratica. Viceversa, la nave è lontana da questo approdo. Il mezzo passo indietro dell’ex sindaco testimonia il desiderio di non essere risucchiato in una resa di conti fra renziani e scissionisti anti-renziani che si trasforma immediatamente nello scontro fra pezzi di vecchio ceto politico interessati a ottenere o riottenere un seggio in Parlamento.
Non tutto è perduto, naturalmente, perché lo spazio a sinistra di Renzi esiste ed è ampio. Proprio gli ultimi eventi indicano l’urgenza di muoversi e di rimescolare le carte. In fondo, nella politica moderna c’è sempre bisogno di un volto, di un’immagine. E a sinistra il volto di Pisapia non è facilmente sostituibile. Se fosse così, il passo indietro di oggi potrebbe tradursi nel passo avanti di domani.
Pisapia, il velo sottile del leader mancante
di Stefano Folli
A SINISTRA del Pd la matassa è parecchio ingarbugliata senza che sia chiaro chi potrà e vorrà dipanarla. Non è solo la notizia che Giuliano Pisapia non intende candidarsi alle prossime elezioni. Il motivo addotto dall’ex sindaco di Milano («in passato ho già svolto due mandati e sono sempre stato contrario al terzo») gli fa onore sul piano etico, ma è un velo troppo sottile per mascherare la realtà. Che è fatta di divisioni, personalismi, idee diverse sul “che fare” con il governo Gentiloni. Sulle misure volte al salvataggio delle banche si è già avuta la prova di quanto sia difficile per il plotone Pisapia restare unito. Ed è ancora poca cosa rispetto all’autunno, quando verranno al pettine i nodi della legge di stabilità e della politica economica. Quindi la mancata candidatura è più che altro la spia del problema di fondo: fino a oggi non si è affermata una leadership abbastanza forte e determinata per unificare quell’arcipelago di sigle, programmi e ambizioni — dal Campo progressista a Sel passando per Articolo1-Mdp — che punta a una robusta rappresentanza parlamentare, ma nel frattempo dovrebbe preoccuparsi del cortocircuito in cui è bloccato. Il ruolo di federatore era riservato, appunto, a Pisapia. E in teoria la rinuncia al Parlamento non lo contraddice. Nei fatti però è quasi una resa, un gesto che indebolisce l’intera operazione e soprattutto ne cambia la cifra. Non stupisce che gli ambienti vicini a Renzi non facciano alcuno sforzo per nascondere il compiacimento. Almeno in apparenza si conferma la loro tesi secondo cui l’unico collante degli altri è il rancore verso il “renzismo”. E poi, secondo aspetto, si dimostra che Pisapia non è il nuovo Prodi, capace di imporre un’autorità personale su un gruppo di alleati riottosi e gelosi ciascuno del proprio orto.
Come è logico, Renzi e i suoi fanno il loro gioco. E non è escluso che adesso tornino a proporre una specie di annessione al Pd a quei “progressisti” amici dell’ex sindaco di Milano che non siano ostili per principio alla linea renziana. In una simile eventualità Pisapia, da gentiluomo della politica, non farà certo parte del drappello. Ma egli non intende nemmeno coprire con il suo nome le risse e le rivalità che covano a sinistra. Gli accordi intercorsi fino a oggi — e di cui si trova traccia nell’intervista di D’Alema al Fatto quotidiano — sembrano riservargli una funzione di rappresentanza, sia pure nobilitata dalla prospettiva delle “primarie”. Una sorta di portavoce di scelte non sempre condivise. Come è noto, il progetto originario era alquanto diverso: il Campo progressista intendeva rinvigorire la sinistra idealmente e moralmente, in un rapporto dialettico con il Pd senza il quale, s’intende, non esisterebbe il centrosinistra. Questi elementi di novità Pisapia non è riuscito fin qui a farli passare: né sul piano dei temi, i famosi “contenuti”, né sul terreno del rinnovamento. Il messaggio all’opinione pubblica troppe volte è apparso un po’ generico, cioè non abbastanza incisivo per opporsi alla virulenza del “renzismo”.
Probabilmente Pisapia ha bisogno di tempo. Ma il tempo non c’è. A ben vedere, la nuova sinistra avrebbe dovuto avere già oggi un’impalcatura abbastanza solida, così da dedicare l’autunno a un’azione capillare di propaganda per farsi conoscere dagli elettori, mettendo a punto un programma e una coerente visione socialdemocratica. Viceversa, la nave è lontana da questo approdo. Il mezzo passo indietro dell’ex sindaco testimonia il desiderio di non essere risucchiato in una resa di conti fra renziani e scissionisti anti-renziani che si trasforma immediatamente nello scontro fra pezzi di vecchio ceto politico interessati a ottenere o riottenere un seggio in Parlamento.
Non tutto è perduto, naturalmente, perché lo spazio a sinistra di Renzi esiste ed è ampio. Proprio gli ultimi eventi indicano l’urgenza di muoversi e di rimescolare le carte. In fondo, nella politica moderna c’è sempre bisogno di un volto, di un’immagine. E a sinistra il volto di Pisapia non è facilmente sostituibile. Se fosse così, il passo indietro di oggi potrebbe tradursi nel passo avanti di domani.
Repubblica 15.7.17
La guerra delle mini-scissioni Mdp: “È slavina”. Il Pd: “Falso”
La deputata Simoni, cugina di Renzi, passa con Bersani Altre defezioni sul territorio. Ma Cuperlo: non vado via
di Annalisa Cuzzocrea
ROMA. Una deputata che se ne va con i bersaniani di Mdp, l’area di Cuperlo che decide di restare, ma promette battaglia, e territori colabrodo, dove il travaso di dirigenti e attivisti verso il progetto di Bersani e Pisapia appare irreversibile (sebbene derubricato dall’inner circle di Renzi a «roba da poco»).
Per capire come il disagio, nel Pd, abbia superato il livello di guardia, bastava assistere ieri all’interminabile riunione di Sinistra-Dem. Sei ore che Gianni Cuperlo definisce «belle, alte, di contenuti», ma che hanno di fatto messo a punto un programma alternativo a quello del segretario, a partire dall’Imu sulla casa per i ricchi e da un manifesto su «pace, accoglienza e sicurezza da portare in giro nelle feste democratiche».
Nel giorno in cui Elisa Simoni - deputata toscana definita in Transatlantico “la cugina di Renzi” per via di una lontana parentela - lascia dicendo all’Huffington
Post:
«Il partito è ora più simile a Forza Italia del ‘94 che al Pd del Lingotto», le scelte di Cuperlo e di Cesare Damiano (ospite all’assemblea con i suoi “Laburisti”) sono opposte: «Restiamo spiega Cuperlo - ma con un’agibilità da ricostruire perché non si risolve il tema della scissione che ha spinto fuori una cultura fondativa del Pd insultando chi è uscito e ignorando la perdita di milioni di voti». «Mi pare che dalle parti della segreteria non si faccia niente per includere», dice Damiano, e profetizza: «Non c’è ancora una scelta di abbandono collettivo, ma possono esserci “smottamenti individuali” importanti». Al progetto di Giuliano Pisapia e Mdp sono vicini due senatori come Luigi Manconi (amico dell’ex sindaco da trent’anni) e Massimo Mucchetti. Gli smottamenti, però, sono soprattutto sul territorio. «C’è una slavina che viene verso di noi», dice Roberto Speranza, «anche se ancora riusciamo a recuperare solo in parte chi fugge dal Pd di Renzi». Non c’è solo la Simoni («Non è mia cugina! Come devo dirlo?», si è infuriato il segretario pd nel vedere la notizia battuta dalle agenzie. A essere cugini erano i nonni). L’elenco lo fa l’Mdp Nico Stumpo: «Negli ultimi giorni hanno abbandonato il Pd per venire da noi il capogruppo in regione Marche, il segretario provinciale di Lecce con 103 dirigenti, metà della lista di Mira, l’organizzazione giovanile di Reggio Calabria, con 300 ragazzi, poi qualche giorno fa il segretario dei giovani democratici di Modena, i due segretari provinciali della Basilicata, il consigliere regionale di Milano Onorio Rosati e con lui un pezzo di gruppo dirigente ». Noccioline, secondo il renziano Ernesto Carbone: «Abbiamo oltre 400mila iscritti, di cosa stiamo parlando? Piuttosto che fare la conta dei pochi che vanno da loro dovrebbero pensare a mettersi d’accordo su una linea politica: non mi sembra che Bersani, D’Alema e Pisapia parlino la stessa lingua». Il progetto di fusione è in effetti ancora confuso. Messo in crisi dall’annuncio di Pisapia di non volersi candidare in Parlamento. Massimo D’Alema - che invece per sé non lo esclude - ha detto ieri al Fatto che l’ex sindaco di Milano è un «leader che genera speranza», si è augurato che alla fine si candidi e che si possa lavorare uniti. Poi ha accusato Renzi di educare all’odio, per il passaggio del suo libro in cui il segretario pd rivela che la figlia gli chiese se era certo che Orfini avesse abiurato il dalemismo. «L’unica abiura - ribatte Orfini - l’ha fatta D’Alema. Io sono rimasto nella sinistra riformista mentre lui fa i forum con Asor Rosa e il Manifesto».
La guerra delle mini-scissioni Mdp: “È slavina”. Il Pd: “Falso”
La deputata Simoni, cugina di Renzi, passa con Bersani Altre defezioni sul territorio. Ma Cuperlo: non vado via
di Annalisa Cuzzocrea
ROMA. Una deputata che se ne va con i bersaniani di Mdp, l’area di Cuperlo che decide di restare, ma promette battaglia, e territori colabrodo, dove il travaso di dirigenti e attivisti verso il progetto di Bersani e Pisapia appare irreversibile (sebbene derubricato dall’inner circle di Renzi a «roba da poco»).
Per capire come il disagio, nel Pd, abbia superato il livello di guardia, bastava assistere ieri all’interminabile riunione di Sinistra-Dem. Sei ore che Gianni Cuperlo definisce «belle, alte, di contenuti», ma che hanno di fatto messo a punto un programma alternativo a quello del segretario, a partire dall’Imu sulla casa per i ricchi e da un manifesto su «pace, accoglienza e sicurezza da portare in giro nelle feste democratiche».
Nel giorno in cui Elisa Simoni - deputata toscana definita in Transatlantico “la cugina di Renzi” per via di una lontana parentela - lascia dicendo all’Huffington
Post:
«Il partito è ora più simile a Forza Italia del ‘94 che al Pd del Lingotto», le scelte di Cuperlo e di Cesare Damiano (ospite all’assemblea con i suoi “Laburisti”) sono opposte: «Restiamo spiega Cuperlo - ma con un’agibilità da ricostruire perché non si risolve il tema della scissione che ha spinto fuori una cultura fondativa del Pd insultando chi è uscito e ignorando la perdita di milioni di voti». «Mi pare che dalle parti della segreteria non si faccia niente per includere», dice Damiano, e profetizza: «Non c’è ancora una scelta di abbandono collettivo, ma possono esserci “smottamenti individuali” importanti». Al progetto di Giuliano Pisapia e Mdp sono vicini due senatori come Luigi Manconi (amico dell’ex sindaco da trent’anni) e Massimo Mucchetti. Gli smottamenti, però, sono soprattutto sul territorio. «C’è una slavina che viene verso di noi», dice Roberto Speranza, «anche se ancora riusciamo a recuperare solo in parte chi fugge dal Pd di Renzi». Non c’è solo la Simoni («Non è mia cugina! Come devo dirlo?», si è infuriato il segretario pd nel vedere la notizia battuta dalle agenzie. A essere cugini erano i nonni). L’elenco lo fa l’Mdp Nico Stumpo: «Negli ultimi giorni hanno abbandonato il Pd per venire da noi il capogruppo in regione Marche, il segretario provinciale di Lecce con 103 dirigenti, metà della lista di Mira, l’organizzazione giovanile di Reggio Calabria, con 300 ragazzi, poi qualche giorno fa il segretario dei giovani democratici di Modena, i due segretari provinciali della Basilicata, il consigliere regionale di Milano Onorio Rosati e con lui un pezzo di gruppo dirigente ». Noccioline, secondo il renziano Ernesto Carbone: «Abbiamo oltre 400mila iscritti, di cosa stiamo parlando? Piuttosto che fare la conta dei pochi che vanno da loro dovrebbero pensare a mettersi d’accordo su una linea politica: non mi sembra che Bersani, D’Alema e Pisapia parlino la stessa lingua». Il progetto di fusione è in effetti ancora confuso. Messo in crisi dall’annuncio di Pisapia di non volersi candidare in Parlamento. Massimo D’Alema - che invece per sé non lo esclude - ha detto ieri al Fatto che l’ex sindaco di Milano è un «leader che genera speranza», si è augurato che alla fine si candidi e che si possa lavorare uniti. Poi ha accusato Renzi di educare all’odio, per il passaggio del suo libro in cui il segretario pd rivela che la figlia gli chiese se era certo che Orfini avesse abiurato il dalemismo. «L’unica abiura - ribatte Orfini - l’ha fatta D’Alema. Io sono rimasto nella sinistra riformista mentre lui fa i forum con Asor Rosa e il Manifesto».
Corriere 15.7.17
Cabina di regia a sinistra senza D’Alema e Bersani Una svolta per Pisapia
L’idea di un coordinamento con la «nuova generazione»
di Tommaso Labate
ROMA «Giuliano ce l’aveva detto da settimane che non avrebbe voluto riprendere la sua vecchia vita da parlamentare». Dall’annuncio pubblico sulla decisione di Giuliano Pisapia di non ricandidarsi in Parlamento sono passate ventiquattr’ore. Ventiquattr’ore in cui hanno preso corpo gli scenari più disparati, le ipotesi più suggestive, le voci più incontrollate. Ma ora che il residuo della medicina amara s’è depositato sul fondo del bicchiere, perché comunque la scelta dell’ex sindaco di Milano di rimaner fuori dalle liste non è comunque una bella notizia, Pier Luigi Bersani e i suoi ostentano tranquillità. La tranquillità di chi, comunque, già conosceva le sua intenzioni. La tranquillità di chi è convinto che, mano nella mano con Pisapia, ci saranno delle «novità» già nei prossimi giorni.
La più importante dovrebbe avvenire tra martedì e mercoledì, quando Pisapia tornerà nella Capitale per incontrare i luogotenenti romani del pacchetto di mischia che ha dato vita al progetto «Insieme». Tra martedì e mercoledì, insomma, prenderà corpo un vero e proprio coordinamento politico chiamato a guidare il movimento nei prossimi delicatissimi passaggi. Della cabina di regia, questo è l’orientamento, non dovrebbero far parte né Bersani né D’Alema. Spazio a Roberto Speranza e a quella «nuova generazione» che, nelle ultime settimane, ha lavorato ventre a terra per sottrarre terreno al Pd. In Parlamento, come si è visto ieri con l’arrivo di Elisa Simoni, che dovrebbe essere seguita nei prossimi giorni da almeno un altro paio di parlamentari dati in allontanamento dall’orbita del Nazareno. E anche in giro per l’Italia, dove Mdp ha registrato nelle ultime ore adesioni importanti dal punto di vista simbolico (metà dei consiglieri comunali pd di Mira, comune appena sottratto ai Cinque Stelle) e non solo (il capogruppo pd al consiglio regionale delle Marche, Gianluca Busilacchi).
Il coordinamento di «Insieme», a cui Pisapia lavorerà dalla prossima settimana, sarà chiamato a varare una piattaforma programmatica da portare in giro per l’Italia. «Un programma su cui vogliamo sfidare tutti», scandisce Speranza. Al primo punto ci sarà la «prova regina» che il solco tra l’ex sindaco di Milano e Renzi è ormai incolmabile. E cioè «il ritorno all’articolo 18» dello Statuto dei lavoratori, che verrà usato come risposta uguale e contraria al Jobs act. A seguire, una proposta per l’immigrazione, anch’essa distante dall’adagio «aiutiamoli a casa loro» che il leader del Pd ha ribadito nel suo libro «Avanti».
Non c’è soltanto la definizione «nero su bianco» delle ragioni programmatiche che spingeranno Pisapia a rimanere alla guida di un soggetto politico di sinistra lontano anni luce da Renzi. C’è un’altra riflessione che, a denti stretti, i bersaniani fanno propria. «Renzi è ormai il nostro alleato più stretto», confessa uno di loro. «Se lui rimane in sella, la nostra strada insieme a Giuliano continuerà ad essere in discesa», aggiunge. Un modo come un altro per evocare l’operazione che in tanti, nel gruppo degli ex Pd, attribuiscono a ragione o a torto a Romano Prodi. Solo il Professore sarebbe in grado di scompaginare il quadro politico rimettendo tutti sotto lo stesso tetto, Pisapia compreso. Anche per tentare di scongiurare questo scenario, in un’intervista al Fatto quotidiano di ieri, D’Alema ha messo un punto a tutte le voci che lo davano per insofferente in una «cosa» guidata dall’ex sindaco di Milano. Dicendolo senza troppi giri di parole: «Giuliano è il mio leader».
Cabina di regia a sinistra senza D’Alema e Bersani Una svolta per Pisapia
L’idea di un coordinamento con la «nuova generazione»
di Tommaso Labate
ROMA «Giuliano ce l’aveva detto da settimane che non avrebbe voluto riprendere la sua vecchia vita da parlamentare». Dall’annuncio pubblico sulla decisione di Giuliano Pisapia di non ricandidarsi in Parlamento sono passate ventiquattr’ore. Ventiquattr’ore in cui hanno preso corpo gli scenari più disparati, le ipotesi più suggestive, le voci più incontrollate. Ma ora che il residuo della medicina amara s’è depositato sul fondo del bicchiere, perché comunque la scelta dell’ex sindaco di Milano di rimaner fuori dalle liste non è comunque una bella notizia, Pier Luigi Bersani e i suoi ostentano tranquillità. La tranquillità di chi, comunque, già conosceva le sua intenzioni. La tranquillità di chi è convinto che, mano nella mano con Pisapia, ci saranno delle «novità» già nei prossimi giorni.
La più importante dovrebbe avvenire tra martedì e mercoledì, quando Pisapia tornerà nella Capitale per incontrare i luogotenenti romani del pacchetto di mischia che ha dato vita al progetto «Insieme». Tra martedì e mercoledì, insomma, prenderà corpo un vero e proprio coordinamento politico chiamato a guidare il movimento nei prossimi delicatissimi passaggi. Della cabina di regia, questo è l’orientamento, non dovrebbero far parte né Bersani né D’Alema. Spazio a Roberto Speranza e a quella «nuova generazione» che, nelle ultime settimane, ha lavorato ventre a terra per sottrarre terreno al Pd. In Parlamento, come si è visto ieri con l’arrivo di Elisa Simoni, che dovrebbe essere seguita nei prossimi giorni da almeno un altro paio di parlamentari dati in allontanamento dall’orbita del Nazareno. E anche in giro per l’Italia, dove Mdp ha registrato nelle ultime ore adesioni importanti dal punto di vista simbolico (metà dei consiglieri comunali pd di Mira, comune appena sottratto ai Cinque Stelle) e non solo (il capogruppo pd al consiglio regionale delle Marche, Gianluca Busilacchi).
Il coordinamento di «Insieme», a cui Pisapia lavorerà dalla prossima settimana, sarà chiamato a varare una piattaforma programmatica da portare in giro per l’Italia. «Un programma su cui vogliamo sfidare tutti», scandisce Speranza. Al primo punto ci sarà la «prova regina» che il solco tra l’ex sindaco di Milano e Renzi è ormai incolmabile. E cioè «il ritorno all’articolo 18» dello Statuto dei lavoratori, che verrà usato come risposta uguale e contraria al Jobs act. A seguire, una proposta per l’immigrazione, anch’essa distante dall’adagio «aiutiamoli a casa loro» che il leader del Pd ha ribadito nel suo libro «Avanti».
Non c’è soltanto la definizione «nero su bianco» delle ragioni programmatiche che spingeranno Pisapia a rimanere alla guida di un soggetto politico di sinistra lontano anni luce da Renzi. C’è un’altra riflessione che, a denti stretti, i bersaniani fanno propria. «Renzi è ormai il nostro alleato più stretto», confessa uno di loro. «Se lui rimane in sella, la nostra strada insieme a Giuliano continuerà ad essere in discesa», aggiunge. Un modo come un altro per evocare l’operazione che in tanti, nel gruppo degli ex Pd, attribuiscono a ragione o a torto a Romano Prodi. Solo il Professore sarebbe in grado di scompaginare il quadro politico rimettendo tutti sotto lo stesso tetto, Pisapia compreso. Anche per tentare di scongiurare questo scenario, in un’intervista al Fatto quotidiano di ieri, D’Alema ha messo un punto a tutte le voci che lo davano per insofferente in una «cosa» guidata dall’ex sindaco di Milano. Dicendolo senza troppi giri di parole: «Giuliano è il mio leader».
Corriere 15.7.17
Gioco di specchi tra il pd e la nebulosa di sinistra
di Massimo Franco
Il «no» di Giuliano Pisapia alla propria candidatura in Parlamento è soprattutto il rifiuto di assecondare lo schema che alcuni suoi compagni di strada vorrebbero imporgli. E insieme è la conferma della difficoltà di rompere l’involucro delle forze politiche che tendono a abbracciarlo e a usarlo. In miniatura e con contorni per il momento più nebulosi, quanto sta avvenendo somiglia un po’ all’operazione che negli Anni Novanta del secolo scorso fece Romano Prodi con l’allora Pds per costruire l’Ulivo. Lo scioglimento dell’ Mdp uscito dal Pd renziano per costruire qualcosa di totalmente nuovo, per ora non sembra né scontata né indolore.
Lo si era capito nella manifestazione d’esordio del 1° luglio scorso a Roma, con le bandiere spuntate in piazza nonostante l’intenzione di rinunciare ai vessilli delle singole formazioni. E con la presenza sul palco di Pier Luigi Bersani, leader al quale Pisapia sente di essere riconoscente: nonostante Prodi avesse consigliato un’apparizione solitaria per marcare una totale novità. Lo scarto dell’ex sindaco di Milano sulla propria candidatura è un messaggio, seppure in ritardo, a Massimo D’Alema e a quanti, nella sinistra radicale, tendono a conferire al suo progetto una piega di sinistra e antirenziana.
È un’impostazione che Pisapia non condivide: anche perché sembra convinto che l’unico modo per attrarre altre componenti del Pd e soprattutto elettori di centrosinistra, sia di insistere sull’unità e non sullo scontro. Va segnalato il fatto che ieri il portavoce del Pd, Matteo Richetti abbia insistito sull’esigenza di «lavorare per combattere lo spettro della scissione». È l’ammissione che qualcosa non sta funzionando; e del timore che la politica dell’«io contro tutti» di Renzi finisca per favorire i suoi avversari, interni e esterni.
E soprattutto che aumentino i rischi di una seconda rottura in pochi mesi: sebbene Richetti parli della scissione come di una «remota possibilità». Ma a suo avviso «le scissioni fanno comunque male, perché dimostrano che non si riesce a stare insieme». Letto in modo speculare a quanto avviene tra i dem, il passo indietro di Pisapia appare dunque una sfida ai propri alleati che non vogliono abbandonare l’ossessione della rivincita su Renzi. È un invito implicito a lasciare in secondo piano ambizioni personali e a a mettersi tutti in gioco.
Anche perché prima è necessario trovare un equilibrio tra le varie componenti basato su criteri nuovi. Non si tratta di una strategia facile. Il problema è che Pisapia e chi gli è più vicino la considerano irrinunciabile. Dunque, il «no» è una sorta di bussola per tutti. Non nel senso che non ci si debba candidare, ma che quel problema viene dopo la definizione della politica e degli equilibri all’interno del suo movimento. Su questo sfondo, il «ripensamento» di Pisapia invocato dallo stesso D’Alema è altamente probabile: sempre che si accetti un metodo nuovo.
Gioco di specchi tra il pd e la nebulosa di sinistra
di Massimo Franco
Il «no» di Giuliano Pisapia alla propria candidatura in Parlamento è soprattutto il rifiuto di assecondare lo schema che alcuni suoi compagni di strada vorrebbero imporgli. E insieme è la conferma della difficoltà di rompere l’involucro delle forze politiche che tendono a abbracciarlo e a usarlo. In miniatura e con contorni per il momento più nebulosi, quanto sta avvenendo somiglia un po’ all’operazione che negli Anni Novanta del secolo scorso fece Romano Prodi con l’allora Pds per costruire l’Ulivo. Lo scioglimento dell’ Mdp uscito dal Pd renziano per costruire qualcosa di totalmente nuovo, per ora non sembra né scontata né indolore.
Lo si era capito nella manifestazione d’esordio del 1° luglio scorso a Roma, con le bandiere spuntate in piazza nonostante l’intenzione di rinunciare ai vessilli delle singole formazioni. E con la presenza sul palco di Pier Luigi Bersani, leader al quale Pisapia sente di essere riconoscente: nonostante Prodi avesse consigliato un’apparizione solitaria per marcare una totale novità. Lo scarto dell’ex sindaco di Milano sulla propria candidatura è un messaggio, seppure in ritardo, a Massimo D’Alema e a quanti, nella sinistra radicale, tendono a conferire al suo progetto una piega di sinistra e antirenziana.
È un’impostazione che Pisapia non condivide: anche perché sembra convinto che l’unico modo per attrarre altre componenti del Pd e soprattutto elettori di centrosinistra, sia di insistere sull’unità e non sullo scontro. Va segnalato il fatto che ieri il portavoce del Pd, Matteo Richetti abbia insistito sull’esigenza di «lavorare per combattere lo spettro della scissione». È l’ammissione che qualcosa non sta funzionando; e del timore che la politica dell’«io contro tutti» di Renzi finisca per favorire i suoi avversari, interni e esterni.
E soprattutto che aumentino i rischi di una seconda rottura in pochi mesi: sebbene Richetti parli della scissione come di una «remota possibilità». Ma a suo avviso «le scissioni fanno comunque male, perché dimostrano che non si riesce a stare insieme». Letto in modo speculare a quanto avviene tra i dem, il passo indietro di Pisapia appare dunque una sfida ai propri alleati che non vogliono abbandonare l’ossessione della rivincita su Renzi. È un invito implicito a lasciare in secondo piano ambizioni personali e a a mettersi tutti in gioco.
Anche perché prima è necessario trovare un equilibrio tra le varie componenti basato su criteri nuovi. Non si tratta di una strategia facile. Il problema è che Pisapia e chi gli è più vicino la considerano irrinunciabile. Dunque, il «no» è una sorta di bussola per tutti. Non nel senso che non ci si debba candidare, ma che quel problema viene dopo la definizione della politica e degli equilibri all’interno del suo movimento. Su questo sfondo, il «ripensamento» di Pisapia invocato dallo stesso D’Alema è altamente probabile: sempre che si accetti un metodo nuovo.
Corriere 15.7.17
Mario Monti
«Renzi è un disco rotto, ripete accuse a impatto zero Insensato il deficit al 2,9%»
di Federico Fubini
L’ex premier: senza il Fiscal compact lo spread sarebbe risalito
Io ho lasciato una finanza riequilibrata a chi è venuto dopo
Mario Monti non è tipo da tirarsi indietro in una polemica, ma stavolta ne avrebbe quasi voglia. «Dibattere con il presidente Matteo Renzi è, purtroppo, impossibile — dice il senatore a vita —. Le argomentazioni degli altri non gli interessano. Come un disco rotto, ormai ripete senza fine i suoi slogan e le sue accuse. Il rumore e la rissosità crescono esponenzialmente. L’impatto, in Italia e all’estero, tende asintoticamente a zero. Pari a zero è anche il suo rispetto per gli interlocutori e per la realtà».
Però Renzi la accusa di aver approvato il Fiscal compact, lasciando ai governi successivi l’onere di applicarlo. Vorrà pur rispondergli.
«Il Fiscal compact ha un padre, Mario Draghi, che lanciò l’idea nel dicembre 2011 appena diventato presidente della Bce, e una madre, Angela Merkel, che la spinse politicamente. Draghi doveva accreditarsi presso quel mondo tedesco che era preoccupato per l’arrivo al vertice della Bce di un italiano, sia pure con ottima reputazione. Draghi decise anche di cessare gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte della Bce, che avevano dato ossigeno al governo Berlusconi nell’estate e autunno 2011, senza peraltro riuscire a frenare l’impennata dello spread a causa della sfiducia dei mercati verso un governo che non era in grado di prendere i provvedimenti necessari».
Dunque lei non lo sostenne?
«Quando a metà novembre fui chiamato a fronteggiare l’emergenza finanziaria, l’esigenza di Draghi di presentarsi come “falco”, che pure comprendevo, rendeva il compito del mio governo ancora più difficile: fine del sostegno ai titoli italiani e corsetto ancora più stretto sui conti dello Stato. Nacque allora la strategia del governo. Avremmo dovuto farcela senza l’aiuto della Bce, senza ricorrere a prestiti Ue o Fmi che avrebbero messo per anni le decisioni del governo e del parlamento in mano alla troika , ma con le sole nostre forze. Questo voleva dire: in Italia, risanamento dei conti pubblici e riforme strutturali, per riacquisire credibilità; in Europa, uso delle nostre credenziali europee e della ritrovata credibilità dell’Italia, per spingere la Germania e gli altri a rendere la governance dell’eurozona, più forte di fronte alla crisi finanziaria. Contribuire in modo decisivo a migliorare l’Europa da una posizione iniziale di estrema debolezza, è stato motivo di soddisfazione».
Dunque lei vede la stretta di bilancio di allora come inevitabile?
«Quei miglioramenti hanno portato vantaggi, in particolare all’Italia. Draghi difficilmente avrebbe potuto, di colpo, motu proprio , annunciare nel luglio 2012 una politica monetaria espansiva e poi metterla in opera, se non si fosse creato un contesto per lui rassicurante, tale da escludere che la Merkel prendesse posizione contro il suo annuncio. Quel contesto si realizzò a fine giugno 2012 quando al Vertice dell’eurozona, a seguito del pressing italiano sulla Germania, anche la Merkel si rassegnò a dare il suo assenso allo scudo anti-spread».
Renzi dice che ha lasciato un deficit più basso di lei...
«Sulla gara a chi è stato più rigoroso, i dati annui grezzi di deficit, come il 2,3% del Pil esibito da Renzi, hanno poco significato. Molto è dovuto alla spesa per interessi, che Renzi si è trovata fortemente ridotta per effetto del risanamento fatto dai suoi predecessori e della politica della Bce».
Altra accusa del leader del Pd: lei non ha «saputo trattare in Europa», sulle banche oltre che sul Fiscal compact.
«Il Fiscal compact l’ho firmato, certo. Se in quel momento l’Italia, il Paese più a rischio dell’eurozona, non l’avesse sottoscritto, lo spread sarebbe subito tornato ben oltre i livelli ai quali l’avevo trovato. Ma l’ho firmato in base a due considerazioni: quegli stessi vincoli su disavanzo e debito pubblico erano già stati introdotti in forma cogente nelle regole europee, durante il governo precedente al mio; e prima di firmarlo eravamo riusciti a far modificare, in senso meno penalizzante per i Paesi ad alto debito, la procedura per sanzionare gli eventuali eccessi.
E sulle banche?
«Forse Renzi ignora che il trattamento più severo della storia sulle banche tedesche fu operato quindici anni fa, quando ero commissario europeo per la Concorrenza; che il passaggio dal bail-out al bail-in , che a me peraltro sembra ragionevole perché credo che il denaro dei contribuenti debba essere rispettato, è stato deciso a livello europeo con il consenso dell’Italia non durante il mio governo, ma durante i due governi seguenti; che se vuol sentirsi spiegare ancora una volta perché, nel momento difficile in cui mi è stato chiesto di governare, mi sono ben guardato dall’immaginare di mettere a carico dello Stato, esso stesso quasi in default, oneri per salvare le banche da eventuali problemi che dovessero avere a seguito dell’incompetenza o delle malefatte di politici legati a banchieri o di banchieri legati a politici, può sempre leggere una mia lettera pubblicata dal Corriere il 2 agosto 2016. Ma dove Renzi brilla per viltà è quando mi accusa di avere lasciato oneri a carico dei futuri governi».
Che intende dire?
«Ho accettato di governare in un momento in cui nessuno voleva prendersi quel rischio e non ho, come lui, preteso di governare quando un collega lo stava facendo decorosamente. Il mio governo, con il conforto del presidente Napolitano e l’appoggio del Parlamento, ha lasciato a chi è venuto dopo una finanza pubblica riequilibrata, un Paese uscito dalla procedura di disavanzo eccessivo, integro nella sua sovranità senza cessioni di poteri alla troik a , uno spread ridottosi ad un terzo di quello trovato, un processo di riforme avviato, una governance europea migliore, con una Bce più libera di esprimere la propria indipendenza e una disciplina di bilancio che per la prima volta ammetteva una certa flessibilità, limitatamente alla spesa pubblica per investimenti. Sarà stato forse per questi motivi che un Matteo Renzi già rottamatore, ma non ancora accecato prima dal successo e poi dall’insuccesso, scriveva nel programma delle Primarie 2012 : “A livello europeo, l’autorevolezza di Mario Monti ha facilitato l’assunzione di decisioni importanti, che vanno nella giusta direzione”».
Che pensa della proposta di un deficit al 2,9% del Pil per cinque anni?
«Confido che non venga fatta propria dal governo. Appartiene al genere delle improvvisazioni in cui l’annuncio precede la riflessione, come del resto fu la strategia fiscale del governo Renzi, annunciata ad un’assemblea Pd a Milano senza che neanche il ministro dell’Economia — scommetto, e spero per lui — ne sapesse nulla. Anziché “tornare a Maastricht”, bisogna far evolvere il patto di Stabilità introducendo uno spazio legittimo per veri investimenti pubblici. Una volta fatto questo, si può puntare verso il pareggio (al netto del disavanzo per investimenti), corretto per tenere conto del ciclo economico. Creare uno spazio indiscriminato del 2,9%, dichiaratamente per ridurre le tasse in disavanzo, mi sembra una recidiva senza senso».
E che dice dell’idea, che avanza nel Pd e nel governo, di mettere un veto all’inserimento del Fiscal compact nel diritto dell’Unione Europea?
«Si è riusciti a rendere anche questa una questione di bandiera, per misurare chi ce l’ha più duro. Intendo, naturalmente, il senso dell’orgoglio nazionale».
Mario Monti
«Renzi è un disco rotto, ripete accuse a impatto zero Insensato il deficit al 2,9%»
di Federico Fubini
L’ex premier: senza il Fiscal compact lo spread sarebbe risalito
Io ho lasciato una finanza riequilibrata a chi è venuto dopo
Mario Monti non è tipo da tirarsi indietro in una polemica, ma stavolta ne avrebbe quasi voglia. «Dibattere con il presidente Matteo Renzi è, purtroppo, impossibile — dice il senatore a vita —. Le argomentazioni degli altri non gli interessano. Come un disco rotto, ormai ripete senza fine i suoi slogan e le sue accuse. Il rumore e la rissosità crescono esponenzialmente. L’impatto, in Italia e all’estero, tende asintoticamente a zero. Pari a zero è anche il suo rispetto per gli interlocutori e per la realtà».
Però Renzi la accusa di aver approvato il Fiscal compact, lasciando ai governi successivi l’onere di applicarlo. Vorrà pur rispondergli.
«Il Fiscal compact ha un padre, Mario Draghi, che lanciò l’idea nel dicembre 2011 appena diventato presidente della Bce, e una madre, Angela Merkel, che la spinse politicamente. Draghi doveva accreditarsi presso quel mondo tedesco che era preoccupato per l’arrivo al vertice della Bce di un italiano, sia pure con ottima reputazione. Draghi decise anche di cessare gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte della Bce, che avevano dato ossigeno al governo Berlusconi nell’estate e autunno 2011, senza peraltro riuscire a frenare l’impennata dello spread a causa della sfiducia dei mercati verso un governo che non era in grado di prendere i provvedimenti necessari».
Dunque lei non lo sostenne?
«Quando a metà novembre fui chiamato a fronteggiare l’emergenza finanziaria, l’esigenza di Draghi di presentarsi come “falco”, che pure comprendevo, rendeva il compito del mio governo ancora più difficile: fine del sostegno ai titoli italiani e corsetto ancora più stretto sui conti dello Stato. Nacque allora la strategia del governo. Avremmo dovuto farcela senza l’aiuto della Bce, senza ricorrere a prestiti Ue o Fmi che avrebbero messo per anni le decisioni del governo e del parlamento in mano alla troika , ma con le sole nostre forze. Questo voleva dire: in Italia, risanamento dei conti pubblici e riforme strutturali, per riacquisire credibilità; in Europa, uso delle nostre credenziali europee e della ritrovata credibilità dell’Italia, per spingere la Germania e gli altri a rendere la governance dell’eurozona, più forte di fronte alla crisi finanziaria. Contribuire in modo decisivo a migliorare l’Europa da una posizione iniziale di estrema debolezza, è stato motivo di soddisfazione».
Dunque lei vede la stretta di bilancio di allora come inevitabile?
«Quei miglioramenti hanno portato vantaggi, in particolare all’Italia. Draghi difficilmente avrebbe potuto, di colpo, motu proprio , annunciare nel luglio 2012 una politica monetaria espansiva e poi metterla in opera, se non si fosse creato un contesto per lui rassicurante, tale da escludere che la Merkel prendesse posizione contro il suo annuncio. Quel contesto si realizzò a fine giugno 2012 quando al Vertice dell’eurozona, a seguito del pressing italiano sulla Germania, anche la Merkel si rassegnò a dare il suo assenso allo scudo anti-spread».
Renzi dice che ha lasciato un deficit più basso di lei...
«Sulla gara a chi è stato più rigoroso, i dati annui grezzi di deficit, come il 2,3% del Pil esibito da Renzi, hanno poco significato. Molto è dovuto alla spesa per interessi, che Renzi si è trovata fortemente ridotta per effetto del risanamento fatto dai suoi predecessori e della politica della Bce».
Altra accusa del leader del Pd: lei non ha «saputo trattare in Europa», sulle banche oltre che sul Fiscal compact.
«Il Fiscal compact l’ho firmato, certo. Se in quel momento l’Italia, il Paese più a rischio dell’eurozona, non l’avesse sottoscritto, lo spread sarebbe subito tornato ben oltre i livelli ai quali l’avevo trovato. Ma l’ho firmato in base a due considerazioni: quegli stessi vincoli su disavanzo e debito pubblico erano già stati introdotti in forma cogente nelle regole europee, durante il governo precedente al mio; e prima di firmarlo eravamo riusciti a far modificare, in senso meno penalizzante per i Paesi ad alto debito, la procedura per sanzionare gli eventuali eccessi.
E sulle banche?
«Forse Renzi ignora che il trattamento più severo della storia sulle banche tedesche fu operato quindici anni fa, quando ero commissario europeo per la Concorrenza; che il passaggio dal bail-out al bail-in , che a me peraltro sembra ragionevole perché credo che il denaro dei contribuenti debba essere rispettato, è stato deciso a livello europeo con il consenso dell’Italia non durante il mio governo, ma durante i due governi seguenti; che se vuol sentirsi spiegare ancora una volta perché, nel momento difficile in cui mi è stato chiesto di governare, mi sono ben guardato dall’immaginare di mettere a carico dello Stato, esso stesso quasi in default, oneri per salvare le banche da eventuali problemi che dovessero avere a seguito dell’incompetenza o delle malefatte di politici legati a banchieri o di banchieri legati a politici, può sempre leggere una mia lettera pubblicata dal Corriere il 2 agosto 2016. Ma dove Renzi brilla per viltà è quando mi accusa di avere lasciato oneri a carico dei futuri governi».
Che intende dire?
«Ho accettato di governare in un momento in cui nessuno voleva prendersi quel rischio e non ho, come lui, preteso di governare quando un collega lo stava facendo decorosamente. Il mio governo, con il conforto del presidente Napolitano e l’appoggio del Parlamento, ha lasciato a chi è venuto dopo una finanza pubblica riequilibrata, un Paese uscito dalla procedura di disavanzo eccessivo, integro nella sua sovranità senza cessioni di poteri alla troik a , uno spread ridottosi ad un terzo di quello trovato, un processo di riforme avviato, una governance europea migliore, con una Bce più libera di esprimere la propria indipendenza e una disciplina di bilancio che per la prima volta ammetteva una certa flessibilità, limitatamente alla spesa pubblica per investimenti. Sarà stato forse per questi motivi che un Matteo Renzi già rottamatore, ma non ancora accecato prima dal successo e poi dall’insuccesso, scriveva nel programma delle Primarie 2012 : “A livello europeo, l’autorevolezza di Mario Monti ha facilitato l’assunzione di decisioni importanti, che vanno nella giusta direzione”».
Che pensa della proposta di un deficit al 2,9% del Pil per cinque anni?
«Confido che non venga fatta propria dal governo. Appartiene al genere delle improvvisazioni in cui l’annuncio precede la riflessione, come del resto fu la strategia fiscale del governo Renzi, annunciata ad un’assemblea Pd a Milano senza che neanche il ministro dell’Economia — scommetto, e spero per lui — ne sapesse nulla. Anziché “tornare a Maastricht”, bisogna far evolvere il patto di Stabilità introducendo uno spazio legittimo per veri investimenti pubblici. Una volta fatto questo, si può puntare verso il pareggio (al netto del disavanzo per investimenti), corretto per tenere conto del ciclo economico. Creare uno spazio indiscriminato del 2,9%, dichiaratamente per ridurre le tasse in disavanzo, mi sembra una recidiva senza senso».
E che dice dell’idea, che avanza nel Pd e nel governo, di mettere un veto all’inserimento del Fiscal compact nel diritto dell’Unione Europea?
«Si è riusciti a rendere anche questa una questione di bandiera, per misurare chi ce l’ha più duro. Intendo, naturalmente, il senso dell’orgoglio nazionale».
Il Fatto 15.7.17
Tutti gli omissis del libro di Matteo
“Avanti” - Fonzie non chiedeva mai scusa, Renzie non nomina il caso che coinvolge il padre e gli amici
di Marco Lillo
La versione di Renzi non prevede la parola Consip. Come Fonzie, l’eroe degli Happy Days di Matteo, non riusciva a dire scusa, così il leader del Pd non ce la fa a citare nel suo libro la società che tanti problemi ha creato non solo a lui ma agli italiani. Bisogna capirlo. Se Renzi nel libro avesse citato Consip poi avrebbe dovuto inserire anche la parola odiata dal suo idolo di infanzia. Come fai a scrivere Consip senza chiedere scusa per aver favorito la nomina di un amico di papà Tiziano al vertice? Come fai a non vergognarti di una società capace di una performance così imbarazzante sulla gara più grande d’Europa?
Meglio non citare Consip che dover spiegare perché in tre anni e mezzo di corso renziano la centrale acquisti non sia riuscita ad assegnare la gara più importante di cui si è mai occupata, la FM4 per la manutenzione e la pulizia di tutti gli uffici pubblici italiani.
Secondo la testimonianza di Luigi Marroni quella gara interessava tanto al compare del Babbo e Tiziano Renzi lo raccomandò a lui. Il compare si chiama Carlo Russo e il suo nome ovviamente nel libro non c’è.
La sindrome Renzie è in realtà più grave della sindrome Fonzie. Il mitico bullo americano in fondo non riusciva a pronunciare solo la parola “scusa”, il suo emulo toscano ha difficoltà con più nomi.
Renzi non ha mai scritto il nome Consip, ma in 240 pagine roboanti di storytelling
mancano anche i nomi di altri due protagonisti dello scandalo che tiene banco da mesi: Luigi Marroni e Filippo Vannoni, i manager renziani che con le loro dichiarazioni hanno inguaiato Luca Lotti e il padre Tiziano sono fantasmi.
Il libro Avanti
pubblicato da Feltrinelli riesce nel miracolo di non citare né l’ex amministratore delegato di Consip né il presidente della Publiacqua fiorentina.
Renzi salta a pié pari le loro deposizioni, al centro dell’indagine per rivelazione di segreto e favoreggiamento per la quale è stato ieri interrogato Luca Lotti. Peccato davvero. Così Matteo perde la grande occasione di spiegare agli italiani perché il manager Marroni, nominato da lui e amico del babbo, avrebbe dovuto accusare falsamente il padre di avergli raccomandato un “facilitatore”, compare di Tiziano, cioè il solito Carlo Russo.
Peccato davvero. Perché così Matteo Renzi perde l’occasione di rispondere a quelle domande che i distratti intervistatori tv incontrati finora mai gli hanno posto.
Per esempio Renzi non spiega il comportamento tenuto da lui e dal padre nei confronti di Carlo Russo. Non ci dice perché, dopo avere scoperto (secondo le ipotesi dei carabineri del Noe ma anche dei pm romani), che Russo spendeva il nome di babbo Tiziano con l’imprenditore Alfredo Romeo in diversi incontri per ottenere la promessa di soldi da Romeo stesso anche per il babbo, non lo hanno preso pubblicamente a male parole.
Perché il babbo ha citato in giudizio noi del Fatto
, che abbiamo pubblicato le notizie, e non Russo? Né spiega perché il massimo che sia uscito dalla bocca dell’avvocato di Tiziano Renzi, Federico Bagattini, contro Russo sia la sanguinosa frase: “Tiziano è stato vittima di un abuso di cognome”, un’espressione ben più dolce di quelle riservate da babbo Renzi ai cronisti. Le omissioni su Consip, su Marroni, su Vannoni e su Russo lasciano il lettore a bocca asciutta ma permettono al leader Pd di non dover spiegare altre cose imbarazzanti. Per esempio perché Marroni, da testimone obbligato a dire la verità, ha confermato le accuse a Lotti mentre Vannoni – da indagato che può mentire – ha cambiato versione, confermando quella di Lotti? Né Renzi spiega nel libro se ci sia una relazione tra la diversa scelta dei due e il loro destino.
Renzi avrebbe potuto spiegare se Vannoni sarebbe rimasto al suo posto anche se avesse confermato la sua versione. E se davvero Marroni sia stato sfiduciato perché ha confermato la sua testimonianza accusatoria. Sarà per il prossimo libro.
Tutti gli omissis del libro di Matteo
“Avanti” - Fonzie non chiedeva mai scusa, Renzie non nomina il caso che coinvolge il padre e gli amici
di Marco Lillo
La versione di Renzi non prevede la parola Consip. Come Fonzie, l’eroe degli Happy Days di Matteo, non riusciva a dire scusa, così il leader del Pd non ce la fa a citare nel suo libro la società che tanti problemi ha creato non solo a lui ma agli italiani. Bisogna capirlo. Se Renzi nel libro avesse citato Consip poi avrebbe dovuto inserire anche la parola odiata dal suo idolo di infanzia. Come fai a scrivere Consip senza chiedere scusa per aver favorito la nomina di un amico di papà Tiziano al vertice? Come fai a non vergognarti di una società capace di una performance così imbarazzante sulla gara più grande d’Europa?
Meglio non citare Consip che dover spiegare perché in tre anni e mezzo di corso renziano la centrale acquisti non sia riuscita ad assegnare la gara più importante di cui si è mai occupata, la FM4 per la manutenzione e la pulizia di tutti gli uffici pubblici italiani.
Secondo la testimonianza di Luigi Marroni quella gara interessava tanto al compare del Babbo e Tiziano Renzi lo raccomandò a lui. Il compare si chiama Carlo Russo e il suo nome ovviamente nel libro non c’è.
La sindrome Renzie è in realtà più grave della sindrome Fonzie. Il mitico bullo americano in fondo non riusciva a pronunciare solo la parola “scusa”, il suo emulo toscano ha difficoltà con più nomi.
Renzi non ha mai scritto il nome Consip, ma in 240 pagine roboanti di storytelling
mancano anche i nomi di altri due protagonisti dello scandalo che tiene banco da mesi: Luigi Marroni e Filippo Vannoni, i manager renziani che con le loro dichiarazioni hanno inguaiato Luca Lotti e il padre Tiziano sono fantasmi.
Il libro Avanti
pubblicato da Feltrinelli riesce nel miracolo di non citare né l’ex amministratore delegato di Consip né il presidente della Publiacqua fiorentina.
Renzi salta a pié pari le loro deposizioni, al centro dell’indagine per rivelazione di segreto e favoreggiamento per la quale è stato ieri interrogato Luca Lotti. Peccato davvero. Così Matteo perde la grande occasione di spiegare agli italiani perché il manager Marroni, nominato da lui e amico del babbo, avrebbe dovuto accusare falsamente il padre di avergli raccomandato un “facilitatore”, compare di Tiziano, cioè il solito Carlo Russo.
Peccato davvero. Perché così Matteo Renzi perde l’occasione di rispondere a quelle domande che i distratti intervistatori tv incontrati finora mai gli hanno posto.
Per esempio Renzi non spiega il comportamento tenuto da lui e dal padre nei confronti di Carlo Russo. Non ci dice perché, dopo avere scoperto (secondo le ipotesi dei carabineri del Noe ma anche dei pm romani), che Russo spendeva il nome di babbo Tiziano con l’imprenditore Alfredo Romeo in diversi incontri per ottenere la promessa di soldi da Romeo stesso anche per il babbo, non lo hanno preso pubblicamente a male parole.
Perché il babbo ha citato in giudizio noi del Fatto
, che abbiamo pubblicato le notizie, e non Russo? Né spiega perché il massimo che sia uscito dalla bocca dell’avvocato di Tiziano Renzi, Federico Bagattini, contro Russo sia la sanguinosa frase: “Tiziano è stato vittima di un abuso di cognome”, un’espressione ben più dolce di quelle riservate da babbo Renzi ai cronisti. Le omissioni su Consip, su Marroni, su Vannoni e su Russo lasciano il lettore a bocca asciutta ma permettono al leader Pd di non dover spiegare altre cose imbarazzanti. Per esempio perché Marroni, da testimone obbligato a dire la verità, ha confermato le accuse a Lotti mentre Vannoni – da indagato che può mentire – ha cambiato versione, confermando quella di Lotti? Né Renzi spiega nel libro se ci sia una relazione tra la diversa scelta dei due e il loro destino.
Renzi avrebbe potuto spiegare se Vannoni sarebbe rimasto al suo posto anche se avesse confermato la sua versione. E se davvero Marroni sia stato sfiduciato perché ha confermato la sua testimonianza accusatoria. Sarà per il prossimo libro.
Il Fatto 15.7.17
“Curioso che Pisapia non si candidi, è lui a volere una nuova forza”
“Il tema di un’eventuale alleanza va risolto dal Partito democratico, non da chi ne è uscito”
di Luca De Carolis
“I leader non si creano a tavolino, ma si formano nella lotta politica, sempre. E questo ovviamente vale anche per la sinistra italiana”. Il filologo e saggista Luciano Canfora assiste con curiosità al difficile processo di formazione della nuova “cosa rossa”. Partendo da una premessa: “In politica nulla è dato per sempre, il consenso va costruito oppure conservato. Sanders in America e Corbyn in Gran Bretagna ci dimostrano che ha ancora senso parlare di sinistra. Speriamo che anche qui qualcuno riesca a dare al Paese quel che merita”.
Per ora come si procede a sinistra, professore?
C’è la tendenza di ogni formazione a tenere in piedi la propria sigla. E questo rallenta la formazione di una nuova identità.
Ognuno difende il proprio orticello.
È un problema anche psicologico, e lo capisco. Però…
Un nodo centrale è se tenersi lontani dal Pd, o lavorare comunque per un’alleanza. Lei che ne pensa?
La domanda è mal posta. Gli esponenti di Mdp sono usciti dal Pd, forse un po’ tardivamente ma per ragioni motivate, per fare cose diverse. Insomma, sono nati per differentiam. E il loro unico dovere è quello di dare rappresentanza. In questo quadro, è il Pd che deve decidere come comportarsi con loro.
E loro, quelli ormai fuori dal partito, che proposta devono costruire?
Non c’è bisogno del programma da 400 pagine dei Democratici, ma bastano pochi proponimenti, chiari. È sufficiente dire che la buona scuola e la demolizione dell’articolo 18, come la svolta salviniana di Matteo Renzi sull’immigrazione, con quel “aiutiamoli a casa loro”, giustificano una correzione di rotta.
Beh, Renzi in fondo sul tema dice quello che dicono tutti, dai Cinque Stelle alla destra.
Renzi lo ha detto subito dopo le Comunali perse, per recuperare voti. Ma su questo argomento anche Beppe Grillo ha gettato la maschera, mostrando che i Cinque Stelle sono una forza ambigua. D’altronde dicono di non essere nè di destra nè di sinistra, proprio come Renzi.
Come Renzi?
Esattamente. Nella prefazione per un’ edizione di Destra e sinistra di Norberto Bobbio (uscita nel febbraio 2014, ndr), l’ex presidente del Consiglio scrisse che non c’è più distinzione tra destra e sinistra, ma tra lento e veloce (tra “stragnazione” e “movimento”, scrisse esattamente, ndr).
E Giuliano Pisapia è lento o veloce? Ha appena detto che non pensa neppure lontanamente di candidarsi alle Politiche.
Beh, è curioso constatare come un uomo che ha così insistito per un nuovo soggetto politico, poi dica che non vuole rappresentarlo in Parlamento. A meno che non sia stanco. Dopodiché, è stato un buon sindaco di Milano.
Intervistato dal Fatto, Massimo D’Alema ha preso tempo, rimandando la scelta a eventuali primarie. E anche Pier Luigi Bersani è vago sul punto.
D’Alema, uomo molto intelligente, aveva già detto nel 2013 che la sua esperienza parlamentare era da ritenersi conclusa. Mi auguro che mantenga la parola. Bersani invece è una persona alla mano, con un largo consenso soprattutto in Emilia Romagna. La sua elezione avrebbe un significato.
Rimane la domanda: perché i tre uomini di punta della sinistra sono così restii a dire che si candideranno?
Il primo motivo è di forma: non si conosce ancora la legge elettorale, tema che da qui a settembre dovrà riaprirsi. Poi c’è la sostanza, ossia il fatto che molti rimproverano loro di essere usciti troppo tardi dal Pd. “Avete approvato tutto fino a ieri” è l’obiezione, devo dire un po’ volgare. D’altronde il livello del dibattito politico è sceso, e la colpa è innanzitutto di Renzi. Ma anche dell’informazione, che gli dà tutto questo spazio.
È comprensibile, no?
Renzi non è più il presidente del Consiglio, è solo il segretario di un partito. Eppure si rivolge all’Europa come se lo fosse ancora, o come se fosse sicuro di tornare a Palazzo Chigi. E l’informazione lo accetta.
La discesa dell’ex premier è inarrestabile?
Mi stupisco della domanda, vista la batosta che ha preso nel referendum. Il declino è evidente, anche se ha il diritto di provare a risollevarsi.
Lei è molto severo, ma Renzi ha fatto anche cose di sinistra. Per esempio, la legge sulle unioni civili.
Guardi, nel prossimo governo potrebbe tranquillamente fare il ministro per le Pari opportunità…
“Curioso che Pisapia non si candidi, è lui a volere una nuova forza”
“Il tema di un’eventuale alleanza va risolto dal Partito democratico, non da chi ne è uscito”
di Luca De Carolis
“I leader non si creano a tavolino, ma si formano nella lotta politica, sempre. E questo ovviamente vale anche per la sinistra italiana”. Il filologo e saggista Luciano Canfora assiste con curiosità al difficile processo di formazione della nuova “cosa rossa”. Partendo da una premessa: “In politica nulla è dato per sempre, il consenso va costruito oppure conservato. Sanders in America e Corbyn in Gran Bretagna ci dimostrano che ha ancora senso parlare di sinistra. Speriamo che anche qui qualcuno riesca a dare al Paese quel che merita”.
Per ora come si procede a sinistra, professore?
C’è la tendenza di ogni formazione a tenere in piedi la propria sigla. E questo rallenta la formazione di una nuova identità.
Ognuno difende il proprio orticello.
È un problema anche psicologico, e lo capisco. Però…
Un nodo centrale è se tenersi lontani dal Pd, o lavorare comunque per un’alleanza. Lei che ne pensa?
La domanda è mal posta. Gli esponenti di Mdp sono usciti dal Pd, forse un po’ tardivamente ma per ragioni motivate, per fare cose diverse. Insomma, sono nati per differentiam. E il loro unico dovere è quello di dare rappresentanza. In questo quadro, è il Pd che deve decidere come comportarsi con loro.
E loro, quelli ormai fuori dal partito, che proposta devono costruire?
Non c’è bisogno del programma da 400 pagine dei Democratici, ma bastano pochi proponimenti, chiari. È sufficiente dire che la buona scuola e la demolizione dell’articolo 18, come la svolta salviniana di Matteo Renzi sull’immigrazione, con quel “aiutiamoli a casa loro”, giustificano una correzione di rotta.
Beh, Renzi in fondo sul tema dice quello che dicono tutti, dai Cinque Stelle alla destra.
Renzi lo ha detto subito dopo le Comunali perse, per recuperare voti. Ma su questo argomento anche Beppe Grillo ha gettato la maschera, mostrando che i Cinque Stelle sono una forza ambigua. D’altronde dicono di non essere nè di destra nè di sinistra, proprio come Renzi.
Come Renzi?
Esattamente. Nella prefazione per un’ edizione di Destra e sinistra di Norberto Bobbio (uscita nel febbraio 2014, ndr), l’ex presidente del Consiglio scrisse che non c’è più distinzione tra destra e sinistra, ma tra lento e veloce (tra “stragnazione” e “movimento”, scrisse esattamente, ndr).
E Giuliano Pisapia è lento o veloce? Ha appena detto che non pensa neppure lontanamente di candidarsi alle Politiche.
Beh, è curioso constatare come un uomo che ha così insistito per un nuovo soggetto politico, poi dica che non vuole rappresentarlo in Parlamento. A meno che non sia stanco. Dopodiché, è stato un buon sindaco di Milano.
Intervistato dal Fatto, Massimo D’Alema ha preso tempo, rimandando la scelta a eventuali primarie. E anche Pier Luigi Bersani è vago sul punto.
D’Alema, uomo molto intelligente, aveva già detto nel 2013 che la sua esperienza parlamentare era da ritenersi conclusa. Mi auguro che mantenga la parola. Bersani invece è una persona alla mano, con un largo consenso soprattutto in Emilia Romagna. La sua elezione avrebbe un significato.
Rimane la domanda: perché i tre uomini di punta della sinistra sono così restii a dire che si candideranno?
Il primo motivo è di forma: non si conosce ancora la legge elettorale, tema che da qui a settembre dovrà riaprirsi. Poi c’è la sostanza, ossia il fatto che molti rimproverano loro di essere usciti troppo tardi dal Pd. “Avete approvato tutto fino a ieri” è l’obiezione, devo dire un po’ volgare. D’altronde il livello del dibattito politico è sceso, e la colpa è innanzitutto di Renzi. Ma anche dell’informazione, che gli dà tutto questo spazio.
È comprensibile, no?
Renzi non è più il presidente del Consiglio, è solo il segretario di un partito. Eppure si rivolge all’Europa come se lo fosse ancora, o come se fosse sicuro di tornare a Palazzo Chigi. E l’informazione lo accetta.
La discesa dell’ex premier è inarrestabile?
Mi stupisco della domanda, vista la batosta che ha preso nel referendum. Il declino è evidente, anche se ha il diritto di provare a risollevarsi.
Lei è molto severo, ma Renzi ha fatto anche cose di sinistra. Per esempio, la legge sulle unioni civili.
Guardi, nel prossimo governo potrebbe tranquillamente fare il ministro per le Pari opportunità…
Il Fatto 15.7.17
L’effetto Renzi sui sondaggi continua: il Pd crolla al 24%
Per l’Ipr Marketing i dem sono in caduta, ma Mdp ne approfitta solo un po’. Stabile M5S, mentre hanno ottimi numeri Lega e Fratelli d’Italia
L’effetto Renzi sui sondaggi continua: il Pd crolla al 24%
di Luca De Carolis
Il Pd che sprofonda al 24 per cento, con Matteo Renzi che continua a perdere consenso. Il M5S che tiene, sospeso tra il 28 e il 29, ma che non è più alle vette di inizio anno. E l’arcipelago rosso che in tutto vale attorno al 9 per cento, ma che può arrivare almeno a qualcosa in più. L’ultimo sondaggio di Ipr Marketing, realizzato tra lunedì e martedì, racconta di un elettorato “sempre più polverizzato”, come lo definisce il direttore dell’istituto, Antonio Noto.
Ma soprattutto racconta che il Pd continua a perdere (potenziali) elettori. Ed è proprio Noto a mettere in fila cifre: “Nelle settimane precedenti le primarie dello scorso aprile, il partito oscillava tra il 27 e il 28 per cento. Ma dopo l’elezione di Renzi a segretario e l’esplodere dello scontro interno ha cominciato a scendere, stabilizzandosi tra il 25 e il 26. Ora però è sceso sotto il 25, la quota più o meno del Pd alle Politiche del 2013, con Bersani segretario. E di fatto, è anche la soglia sotto la quale la situazione del partito si può definire critica”.
Tradotto, c’è un’emorragia che sembra colpa soprattutto di Renzi. E Noto conferma: “Chi lascia lo fa soprattutto in dissenso verso il segretario. A mio avviso, il Pd renziano può contare su uno zoccolo duro del 22 per cento. E quella cifra si avvicina pericolosamente”. Tanto può il calo degli ultimi tempi, che però non drena consenso verso altri. Già, perché secondo Noto “il 90 per cento degli elettori che abbandonano i democratici dichiara di non voler più votare nessun partito”. E quindi va a ingrossare il già affollato settore dell’astensione. Insomma, non c’è una fuga verso gli scissionisti di Mdp-Articolo 1 che, sempre a detta di Noto, “sono ormai stabilmente al 6 per cento, da settimane. E questo contando anche Giuliano Pisapia tra i suoi leader”. Piuttosto stabile anche Sinistra Italiana, “tra il 2 e il 3”.
Ma quanto può pesare una coalizione rossa? “Il 10, forse anche il 12 per cento, ossia grosso modo le percentuali di Rifondazione comunista nel suo momento migliore” sostiene il direttore di Ipr. Certo, poi ci sono anche gli altri. A partire dai Cinque Stelle, che il sondaggio dà tra il 28 e il 29. “Sono sostanzialmente stabili, ma tra febbraio e marzo avevano superato il 30 per cento, toccando anche il 32” spiega Noto. Insomma, il Movimento non scoppia di salute. “Colpa anche di tante, recenti polemiche” sostiene il sondaggista. Sicuramente però sta peggio Forza Italia, all’11,5 per cento. Distante dal 14 della Lega Nord, “tonica” secondo Noto. Come Fratelli d’Italia, al 5 per cento (“e non da oggi”). Mentre gli alfaniani di Ap se ne stanno al 3 per cento. Numeri che, se confrontati con gli altri, descrivono una verità ormai chiara: “Nessuno ad oggi, con questa legge elettorale, ha i numeri per formare un governo, neppure in coalizione”.
L’effetto Renzi sui sondaggi continua: il Pd crolla al 24%
Per l’Ipr Marketing i dem sono in caduta, ma Mdp ne approfitta solo un po’. Stabile M5S, mentre hanno ottimi numeri Lega e Fratelli d’Italia
L’effetto Renzi sui sondaggi continua: il Pd crolla al 24%
di Luca De Carolis
Il Pd che sprofonda al 24 per cento, con Matteo Renzi che continua a perdere consenso. Il M5S che tiene, sospeso tra il 28 e il 29, ma che non è più alle vette di inizio anno. E l’arcipelago rosso che in tutto vale attorno al 9 per cento, ma che può arrivare almeno a qualcosa in più. L’ultimo sondaggio di Ipr Marketing, realizzato tra lunedì e martedì, racconta di un elettorato “sempre più polverizzato”, come lo definisce il direttore dell’istituto, Antonio Noto.
Ma soprattutto racconta che il Pd continua a perdere (potenziali) elettori. Ed è proprio Noto a mettere in fila cifre: “Nelle settimane precedenti le primarie dello scorso aprile, il partito oscillava tra il 27 e il 28 per cento. Ma dopo l’elezione di Renzi a segretario e l’esplodere dello scontro interno ha cominciato a scendere, stabilizzandosi tra il 25 e il 26. Ora però è sceso sotto il 25, la quota più o meno del Pd alle Politiche del 2013, con Bersani segretario. E di fatto, è anche la soglia sotto la quale la situazione del partito si può definire critica”.
Tradotto, c’è un’emorragia che sembra colpa soprattutto di Renzi. E Noto conferma: “Chi lascia lo fa soprattutto in dissenso verso il segretario. A mio avviso, il Pd renziano può contare su uno zoccolo duro del 22 per cento. E quella cifra si avvicina pericolosamente”. Tanto può il calo degli ultimi tempi, che però non drena consenso verso altri. Già, perché secondo Noto “il 90 per cento degli elettori che abbandonano i democratici dichiara di non voler più votare nessun partito”. E quindi va a ingrossare il già affollato settore dell’astensione. Insomma, non c’è una fuga verso gli scissionisti di Mdp-Articolo 1 che, sempre a detta di Noto, “sono ormai stabilmente al 6 per cento, da settimane. E questo contando anche Giuliano Pisapia tra i suoi leader”. Piuttosto stabile anche Sinistra Italiana, “tra il 2 e il 3”.
Ma quanto può pesare una coalizione rossa? “Il 10, forse anche il 12 per cento, ossia grosso modo le percentuali di Rifondazione comunista nel suo momento migliore” sostiene il direttore di Ipr. Certo, poi ci sono anche gli altri. A partire dai Cinque Stelle, che il sondaggio dà tra il 28 e il 29. “Sono sostanzialmente stabili, ma tra febbraio e marzo avevano superato il 30 per cento, toccando anche il 32” spiega Noto. Insomma, il Movimento non scoppia di salute. “Colpa anche di tante, recenti polemiche” sostiene il sondaggista. Sicuramente però sta peggio Forza Italia, all’11,5 per cento. Distante dal 14 della Lega Nord, “tonica” secondo Noto. Come Fratelli d’Italia, al 5 per cento (“e non da oggi”). Mentre gli alfaniani di Ap se ne stanno al 3 per cento. Numeri che, se confrontati con gli altri, descrivono una verità ormai chiara: “Nessuno ad oggi, con questa legge elettorale, ha i numeri per formare un governo, neppure in coalizione”.
La Stampa 15.7.17
Re David, la prima donna alla Fiom
“Stop al massacro sociale”
Plebiscito per la nuova leader delle tute blu indicata da Landini
di Paolo Baroni
Che stress», si lascia scappare al termine dei due giorni che per la Fiom hanno segnato non solo il cambio di segretario ma una vera e propria rivoluzione. Per la prima volta in 115 anni di storia alla testa delle tute blu Cgil arriva infatti donna, Francesca Re David, a cui l’assemblea generale Fiom ha tributato un consenso molto ampio con oltre il 90% di sì. A proporla è stato il segretario uscente Maurizio Landini, che a sua volta ha lasciato l’incarico con un anno di anticipo rispetto alla scadenza per entrare nella segreteria nazionale della Cgil e mettere la parola fine ad anni di scontri e incomprensioni con la casa madre. «Sono state giornate intense e fitte di emozione e di significato sindacale e per me è molto difficile separare le due cose, perché questo è un tratto del nostro modo di fare sindacato», ha spiegato appena eletta. Secondo Re David questo per il sindacato di corso Trieste è un «passaggio storico»: «perché la Fiom cambia segretario generale», e perché «dopo anni di attriti riprende la dialettica con la Cgil». Non cambia però la linea politica: il nuovo segretario conferma piena continuità con la gestione Landini.
«So quale è il mio mandato, è preciso: continuità e rinnovamento – spiega -. Confermiamo l’idea di sindacato confederale, non chiuso nei luoghi di lavoro ma aperto a tutti. E puntiamo al rinnovamento, aprendo ai territori e cercando di sviluppare al massimo la contrattazione di secondo livello». Non solo, ma la Fiom mira anche «a rovesciare le leggi di questo governo in quanto a partire dall’autunno vedremo un aumento della disoccupazione perché scadono gli ammortizzatori sociali. Al governo chiediamo di bloccare il rischio di massacro sociale e mettere in campo una vera politica industriale perché non è possibile dare soldi a pioggia senza alcun vincolo. Poi occorrerà iniziare a ragionare anche sul reddito di cittadinanza».
Romana, 57 anni, sposata col giornalista e regista Fabio Venditti, due figlie di 37 e 21 anni, Chiara e Margherita ed una laurea in Storia alla Sapienza, Francesca Re David inizia giovanissima la militanza politica iscrivendosi alla sezione Pci di Ponte Milvio. Nell’87 inizia a collaborare con la Cgil dove entra tre anni dopo, nel 1997 passa alla Fiom chiamata dall’allora segretario generale Claudio Sabattini e nel 1998 entra in segreteria nazionale come responsabile dei settori informatica e tlc. Con Gianni Rinaldini e poi con Landini è responsabile dell’organizzazione, sino a fine 2013 quando viene eletta segretario generale di Roma e del Lazio. La descrivono come una tosta, lei di fronte al nuovo incarico un poco si schermisce: «Non me l’aspettavo. Non l’ho mai chiesto e non era nei miei piani di vita, dopodiché è una cosa molto importante, emozionante e bellissima».
Re David, la prima donna alla Fiom
“Stop al massacro sociale”
Plebiscito per la nuova leader delle tute blu indicata da Landini
di Paolo Baroni
Che stress», si lascia scappare al termine dei due giorni che per la Fiom hanno segnato non solo il cambio di segretario ma una vera e propria rivoluzione. Per la prima volta in 115 anni di storia alla testa delle tute blu Cgil arriva infatti donna, Francesca Re David, a cui l’assemblea generale Fiom ha tributato un consenso molto ampio con oltre il 90% di sì. A proporla è stato il segretario uscente Maurizio Landini, che a sua volta ha lasciato l’incarico con un anno di anticipo rispetto alla scadenza per entrare nella segreteria nazionale della Cgil e mettere la parola fine ad anni di scontri e incomprensioni con la casa madre. «Sono state giornate intense e fitte di emozione e di significato sindacale e per me è molto difficile separare le due cose, perché questo è un tratto del nostro modo di fare sindacato», ha spiegato appena eletta. Secondo Re David questo per il sindacato di corso Trieste è un «passaggio storico»: «perché la Fiom cambia segretario generale», e perché «dopo anni di attriti riprende la dialettica con la Cgil». Non cambia però la linea politica: il nuovo segretario conferma piena continuità con la gestione Landini.
«So quale è il mio mandato, è preciso: continuità e rinnovamento – spiega -. Confermiamo l’idea di sindacato confederale, non chiuso nei luoghi di lavoro ma aperto a tutti. E puntiamo al rinnovamento, aprendo ai territori e cercando di sviluppare al massimo la contrattazione di secondo livello». Non solo, ma la Fiom mira anche «a rovesciare le leggi di questo governo in quanto a partire dall’autunno vedremo un aumento della disoccupazione perché scadono gli ammortizzatori sociali. Al governo chiediamo di bloccare il rischio di massacro sociale e mettere in campo una vera politica industriale perché non è possibile dare soldi a pioggia senza alcun vincolo. Poi occorrerà iniziare a ragionare anche sul reddito di cittadinanza».
Romana, 57 anni, sposata col giornalista e regista Fabio Venditti, due figlie di 37 e 21 anni, Chiara e Margherita ed una laurea in Storia alla Sapienza, Francesca Re David inizia giovanissima la militanza politica iscrivendosi alla sezione Pci di Ponte Milvio. Nell’87 inizia a collaborare con la Cgil dove entra tre anni dopo, nel 1997 passa alla Fiom chiamata dall’allora segretario generale Claudio Sabattini e nel 1998 entra in segreteria nazionale come responsabile dei settori informatica e tlc. Con Gianni Rinaldini e poi con Landini è responsabile dell’organizzazione, sino a fine 2013 quando viene eletta segretario generale di Roma e del Lazio. La descrivono come una tosta, lei di fronte al nuovo incarico un poco si schermisce: «Non me l’aspettavo. Non l’ho mai chiesto e non era nei miei piani di vita, dopodiché è una cosa molto importante, emozionante e bellissima».
Corriere 15.7.17
Landini nella segreteria del sindacato: ma non è opportunismo
«La Cgil sia autonoma dai partiti Io in politica? Mi viene da ridere»
di Enrico Marro
ROMA Dopo 16 anni un leader Fiom entra nella segreteria della Cgil. Che significa?
«Che c’è l’impegno della Cgil a lavorare per una gestione unitaria che valorizzi il pluralismo», risponde Maurizio Landini.
Lei è tra i candidati alla successione di Susanna Camusso nel 2018?
«Il problema ora non è discutere chi sarà il prossimo segretario della Cgil, ma quale iniziativa mettiamo in campo a settembre su pensioni, fisco e manovra, e come proseguiamo la battaglia per cancellare il Jobs act».
Il governo Gentiloni è meglio di quello Renzi?
«Sul piano del tono, dei rapporti, delle attenzioni sì, nel senso che sta offrendo momenti di confronto. Ma se lo guardo sul piano delle scelte no. La vicenda dei voucher dimostra che nulla è cambiato».
Cosa ha sbagliato Renzi?
«Ha usato il premio maggioritario per fare leggi che non avevano il consenso della maggioranza nel Paese, senza neppure confrontarsi con forze sociali che rappresentano milioni e milioni di persone. Inoltre, il Jobs act, al di là della propaganda, non ha ridotto la precarietà per i giovani, anzi. Infine, Renzi non ha capito la lezione del referendum: questo Paese non ha bisogno di divisioni ma di unità per risolvere i problemi».
Mdp e Pisapia possono essere il nuovo riferimento per la Cgil?
«La Cgil deve essere autonoma e indipendente dalle forze politiche. Deve avere le sue proposte e confrontarsi alla pari su queste, non sostenere questo o quel partito. Poi, se ci sono persone che considerano necessario recuperare la rappresentanza politica del mondo del lavoro, da sindacalista e cittadino sono contento. Il punto, però, non è tanto quello di ricostruire la sinistra, che riguarda tutta l’Europa, ma di ricostruire una unità sociale del lavoro capace di condizionare la politica».
Pisapia ha detto che non si candiderà. Che ne pensa?
«Che bisognerebbe uscire dalla logica del leaderismo, che allontana i cittadini dalla politica e ripartire dai contenuti. Di Pisapia sono amico, è una bravissima persona, anche se alcune sue scelte come quella sul referendum non le ho condivise. Penso che tutti coloro che vogliono mettere in discussione le scelte del governo contro il lavoro fanno bene a mettersi insieme».
Se chiedessero a lei di candidarsi?
Ride. «No, scusi ma viene da ridere. Dal 2010 me lo chiedono. La risposta? Se ho accettato di entrare nella segreteria Cgil non è per opportunismo o in una logica di transizione».
Ha detto: «Il sindacato deve cambiare radicalmente altrimenti rischia l’esistenza».
«Sì. Le forze politiche, da Grillo al Pd alla destra, che parlano di disintermediazione e attaccano i contratti nazionali, aprendo uno scenario più americano che europeo, vogliono mettere in discussione il sindacato. Quando dico di cambiare mi riferisco a come allarghiamo la nostra rappresentanza oltre il lavoro dipendente. Serve una nuova unità del lavoro a partire dai diritti, mentre le innovazioni ci chiedono di ridefinire il perimetro di categorie e contratti».
Landini nella segreteria del sindacato: ma non è opportunismo
«La Cgil sia autonoma dai partiti Io in politica? Mi viene da ridere»
di Enrico Marro
ROMA Dopo 16 anni un leader Fiom entra nella segreteria della Cgil. Che significa?
«Che c’è l’impegno della Cgil a lavorare per una gestione unitaria che valorizzi il pluralismo», risponde Maurizio Landini.
Lei è tra i candidati alla successione di Susanna Camusso nel 2018?
«Il problema ora non è discutere chi sarà il prossimo segretario della Cgil, ma quale iniziativa mettiamo in campo a settembre su pensioni, fisco e manovra, e come proseguiamo la battaglia per cancellare il Jobs act».
Il governo Gentiloni è meglio di quello Renzi?
«Sul piano del tono, dei rapporti, delle attenzioni sì, nel senso che sta offrendo momenti di confronto. Ma se lo guardo sul piano delle scelte no. La vicenda dei voucher dimostra che nulla è cambiato».
Cosa ha sbagliato Renzi?
«Ha usato il premio maggioritario per fare leggi che non avevano il consenso della maggioranza nel Paese, senza neppure confrontarsi con forze sociali che rappresentano milioni e milioni di persone. Inoltre, il Jobs act, al di là della propaganda, non ha ridotto la precarietà per i giovani, anzi. Infine, Renzi non ha capito la lezione del referendum: questo Paese non ha bisogno di divisioni ma di unità per risolvere i problemi».
Mdp e Pisapia possono essere il nuovo riferimento per la Cgil?
«La Cgil deve essere autonoma e indipendente dalle forze politiche. Deve avere le sue proposte e confrontarsi alla pari su queste, non sostenere questo o quel partito. Poi, se ci sono persone che considerano necessario recuperare la rappresentanza politica del mondo del lavoro, da sindacalista e cittadino sono contento. Il punto, però, non è tanto quello di ricostruire la sinistra, che riguarda tutta l’Europa, ma di ricostruire una unità sociale del lavoro capace di condizionare la politica».
Pisapia ha detto che non si candiderà. Che ne pensa?
«Che bisognerebbe uscire dalla logica del leaderismo, che allontana i cittadini dalla politica e ripartire dai contenuti. Di Pisapia sono amico, è una bravissima persona, anche se alcune sue scelte come quella sul referendum non le ho condivise. Penso che tutti coloro che vogliono mettere in discussione le scelte del governo contro il lavoro fanno bene a mettersi insieme».
Se chiedessero a lei di candidarsi?
Ride. «No, scusi ma viene da ridere. Dal 2010 me lo chiedono. La risposta? Se ho accettato di entrare nella segreteria Cgil non è per opportunismo o in una logica di transizione».
Ha detto: «Il sindacato deve cambiare radicalmente altrimenti rischia l’esistenza».
«Sì. Le forze politiche, da Grillo al Pd alla destra, che parlano di disintermediazione e attaccano i contratti nazionali, aprendo uno scenario più americano che europeo, vogliono mettere in discussione il sindacato. Quando dico di cambiare mi riferisco a come allarghiamo la nostra rappresentanza oltre il lavoro dipendente. Serve una nuova unità del lavoro a partire dai diritti, mentre le innovazioni ci chiedono di ridefinire il perimetro di categorie e contratti».