sabato 26 ottobre 2013

il Fatto 26.10.13
Padri ricostituenti
Povera Unità, alleata dei nemici della Carta


Il Fatto , fin dal primo numero, difende la Costituzione da chiunque voglia manometterla. Così anche l’Unità, almeno finché il Pd non ha deciso di manometterla a braccetto col Pdl. Da allora l’Unità sostiene chi vuole manometterla. Ma non sopporta che il Fatto continui a difenderla, peraltro in buona compagnia (450mila firmatari dell’appello per il No, 50mila persone in piazza del Popolo, Zagrebelsky, Rodotà, Carlassare, Libertà e giustizia ecc). Dunque ieri s’è inventata la balla di “uno strano feeling tra il Fatto e i falchi Pdl” che l’altro giorno non han votato la controriforma per ricattare il governo. Cari “colleghi”, inventatevene un’altra: la controriforma è opera del governo Pd-Pdl-Sc che voi sostenete, falchi del Pdl compresi. Perché non provate a raccogliere firme tra i vostri eventuali lettori per meglio supportarla? Poi ci dite com’è andata. Per ora, siamo 450mila a zero.

Corriere 26.10.13
Civati: troppe tessere, risultati falsati


«Dovrebbero darsi tutti una calmata. Vedo che il Pd fa tessere al ritmo di mille al giorno, ma questo non ha senso e falsa il risultato dei congressi». Così Giuseppe Civati, candidato alle primarie dei Democratici, rispondendo a Napoli riguardo alle polemiche sul tesseramento: «Ricordo a tutti — ha ironizzato Civati — che le tessere si fanno di persona. Personalmente, come dice Montalbano. E invece io vedo fare pacchetti di tessere come fossero schede telefoniche». Secondo il leader in pectore «questo meccanismo per cui volano centinaia, migliaia di tessere è fuori dalle regole del Partito democratico. Ho consigliato ai miei di non fare così e se qualcuno che sostiene la mia mozione si comporta in questo modo, io lo prendo a calci nel sedere. Spero che anche gli altri abbiano lo stesso coraggio».

il Fatto 26.10.13
Pd, è il supermarket delle tessere: ricorsi e veleni sui congressi
Impennata di iscritti in vista delle assemblee locali
Pioggia di denunce. Da Roma mandano gli osservatori
di Luca De Carolis


I tesserati nuovi di zecca sono tanti. E i sospetti persino di più, in ogni parte d’Italia. Così dal partito centrale hanno inviato gli osservatori, come se fossero l’Onu alle prese con zone di guerra. E invece si parla del Pd, e dei suoi congressi per rinnovare i vari segretari locali: da quelli dei circoli a quelli cittadini e provinciali. Una partita di cui si parla pochissimo, schiacciata com’è dalla corsa verso le primarie dell’8 dicembre per la segreteria nazionale, con il favorito Renzi inseguito dagli outsider Cuperlo, Civati e Pittella. Ma sul Pd che verrà peseranno, eccome, i segretari locali. E così le mille correnti si sono date battaglia per racimolare iscritti e vincere nelle assemblee locali: in gran parte previste per questo fine settimana, con termine ultimo entro il 6 novembre. Risultato: impennata di iscritti ovunque, con annesso diluvio di proteste, veleni e ricorsi. Perché il tesseramento spesso ha fatto rima con truppe cammellate. Epicentro del fenomeno, la Sicilia. Il Pd nazionale ha mandato a Catania come osservatore il bersaniano Nico Stumpo. Nella provincia etnea hanno dovuto sospendere i congressi in tre paesi (Ognina Picanello, Santa Maria di Licodia e Camporotondo etneo): molti si erano presentati nei circoli con persone che hanno pagato la tessera (dai 15 ai 20 euro, a seconda delle federazioni) al posto loro. Una 14enne si è ritrovata iscritta a sua insaputa (l’età minima per aderire è 16 anni). Ma è caos in tutta l’isola, con ricorsi a pioggia verso Roma.
A PALERMO in alcuni circoli gli iscritti sono aumentati di quattro o cinque volte rispetto al 2012. Impennata di tessere anche a Messina, dove il partito è talmente dilaniato che ha come reggente il segretario regionale Lupo. “Qui è una guerra tra bande” urlavano pochi giorni fa i renziani messinesi. Ma tutti accusano tutti, nel Pd siciliano. Come in Campania. A Caserta il congresso provinciale, previsto per domani, è stato rinviato a novembre. C’è chi parla di un possibile commissariamento del partito come antidoto allo scontro tra renziani e cuperliani. Ad Avellino invece sono tre candidati su quattro a invocare uno slittamento del-l’assemblea. “Questa è una guerra delle tessere, vogliamo giocare ad armi pari” hanno spiegato ieri in conferenza stampa. Ce l’hanno con il favorito, il presidente uscente De Blasio (renziano): “Dovrebbe essere il primo a volere chiarezza, e invece ci sono iscritti ad Avellino che risiedono in provincia o addirittura nel Napoletano”. A Lecce hanno cambiato le regole in corsa: il segretario provinciale sarà eletto dalla maggioranza dei delegati e non dai tesserati. Un ritorno alla regola nazionale (segretario eletto dai delegati in assemblea), a cui la Puglia faceva eccezione: prima delle polemiche. A sorvegliare sui congressi salentini è il deputato Roberto Morassut, veltroniano. Proprio Morassut, in un’intervista al Corriere dellaSera-Roma, aveva parlato di un Pd “dove sono rimasti solo gli apparati, che si combattono tramite il tesseramento”. Assomiglia allo scenario di Teramo, in Abruzzo, dove da Roma sono piovute quasi 9mila tessere. Strano, visto che i tesserati nel 2012 erano circa 3200, e la regola vuole che il partito centrale mandi il 30 per cento di tessere in più rispetto a quelle sottoscritte nell’anno precedente. In provincia gli iscritti si sono dilatati (da 92 a 302 ad Alba Adriatica, da 32 a 201 a Tortoreto). Bizzarrie democratiche.

il Fatto 26.10.13
Podestà
Enna la bulgara, Crisafulli (ri)vince con il 99 per cento
Il ras democratico conferma il suo dominio
di Giuseppe Lo Bianco


Palermo Aveva detto: “A Enna vinco col proporzionale, col maggioritario e anche per sorteggio”, e dall’urna è uscito ancora una volta un plebiscito. “Impresentabile” a Montecitorio e Palazzo Madama, Vladimiro “Mirello” Crisafulli conferma la legge del 90 per cento, mantenendo salda la sua ipoteca sul Pd siciliano attraversato dalle polemiche sul tesseramento falso e preoccupato per l’Opa lanciata sul partito, come ha denunciato la deputata catanese Concetta Raia. Ben 462 iscritti su 469 a Enna bassa, e 423 tesserati su 432 a Enna alta hanno consacrato con il 98,5 per cento l’ex senatore ennese (sostenuto da Gianni Cuperlo) candidato unico alla segretaria provinciale del Pd nella città più alta d’Italia, che continua a regalargli percentuali bulgare di consenso. “In Sicilia c’è il congresso del Pcus”, aveva commentato il proconsole di Renzi nell’isola, Davide Faraone, ma a nulla sono serviti i tentativi per sbarrargli la strada da parte di due esponenti dell’area Letta, Angelo Argento e Giuseppe Bruno, il cui ricorso contro la candidatura di Crisafulli è stato bocciato dalla commissione nazionale di garanzia che ha ritenuto che la precedente pronuncia di esclusione del 18 febbraio scorso “non sia applicabile alla attuale fase congressuale del Pd”, come ha detto il segretario Giampietro Sestini.
L’UOMO che sussurrava (ed in qualche caso urlava) al boss Raffaele Bevilacqua nell’incontro immortalato dalle telecamere della polizia a Pergusa torna dunque in pista verso il vertice provinciale del partito con la spinta del 90 per cento degli elettori del Pd che non hanno mai abbandonato il leader incontrato ogni lunedi mattina, in una sorta di pellegrinaggio, nel bar di Enna bassa. L’elezione ormai quasi certa di Crisafulli non appare sfiorata neanche dalle dichiarazioni al vetriolo di Argento, che ha rilanciato le ombre sul tesseramento gonfiato: “Noi non abbiamo votato – ha detto – abbiamo scelto di non legittimare con il nostro voto una procedura farsa dove le tessere si negano agli avversari”. Ma il voto nei due congressi, Enna bassa e alta, non ha fatto altro che replicare le percentuali bulgare delle primarie per le politiche del gennaio scorso, quando Mirello Crisafulli totalizzò 6348 preferenze, pari all’86,94 per cento, staccando di migliaia di voti gli altri candidati, l’avvocato Maria Greco, segretaria della sezione di Agira, ferma a 2689 voti, pari al 36,83 per cento, e il vice sindaco di Villarosa, Katia Rapè, che raccolse 588 preferenze. Oggi è difficile pensare ad una rimonta del renziano Carmelo Nigrelli, che, dopo le sconfitte nei due appuntamenti di Enna si gioca le chance residue nella sua città, Piazza Armerina, dove le rissosità del suo partito gli hanno impedito la rielezione a sindaco lo scorso giugno.

il Fatto 26.10.13
Torino, miracolo Dem sotto la Mole: il doppio degli iscritti rispetto al 2012
di Andrea Giambartolomei


Torino Dalle 12mila tessere dello scorso anno alle 26mila del 2013. In provincia di Torino gli iscritti al Partito democratico sono quasi raddoppiati. O forse no. Forse c’è dietro qualche maneggio in vista del-l’elezione del nuovo segretario provinciale e del congresso, o forse è tutto un errore. Oggi e domani si vota in molti circoli e l’aria è da battaglia. Il sospetto semina discordia e malumore tra i democratici sabaudi già scossi dalla notizia di giovedì: l’avviso di garanzia nell’ambito dell’indagine sulla gestione dei Murazzi a Sergio Chiamparino, considerato il possibile candidato alla Regione nel 2015, e ad Alessandro Altamura, segretario provinciale uscente. Ieri mattina in città è arrivato Giovanni Lunardon, vicesegretario ligure, con il compito di indagare quanto stia accadendo sotto la Mole. A pranzo ha incontrato Altamura e il segretario regionale Morgando, poi nel pomeriggio la “commissione congressuale provinciale” che monitora le procedure, quella regionale e infine i quattro candidati alla segreteria. A fine giornata però è come se non fosse successo nulla: nessun episodio segnalato o verificato dalla commissione provinciale. “È stato quasi certamente un problema di invii delle tessere - spiega Lunardon -. Le 26mila sono date dalla somma delle 12.347 degli iscritti del 2012, a cui si aggiungono le 4.337 bianche dei circoli, cioè il 30 per cento, la quota fisiologica di tessere bianche date per i nuovi iscritti, poi ci sono le mille richieste dal coordinamento provinciale per sopperire a eventuali mancanze. Ne avanzano 9.003: sono dei doppioni inviati per sbaglio a 29 circoli su tutta la provincia”, riassume.
L’ATTENZIONE resta alta: “La commissione vigilerà attentamente sui 29 circoli. Per chi vuole sgarrare sarà comunque difficile perché per registrarsi e votare bisognerà iscriversi di persona nelle sedi”. Sebbene non siano stati verificati episodi, molti nel Pd torinese sanno che ci sono persone in grado di muovere pacchetti di tessere tra amici, parenti, colleghi, conoscenti e via dicendo. Dietro ci sono soprattutto due blocchi: da una parte un blocco “ex socialista” guidato da Salvatore Gallo, ex craxiano (il figlio Stefano è entrato nella giunta Fassino); dal-l’altro un’area vicina alla Cgil. Altri invitano a fare attenzione al circolo di Mirafiori, dov’è molto attivo il consigliere regionale Andrea Stara. L’area di Gallo ha trovato in Fabrizio Morri il candidato su cui puntare: è un ex senatore, ma è anche l’ex portavoce di Fassino e ora è renziano. Alcuni non escludono che a ottenere vantaggi da queste tessere siano anche altri due candidati, Aldo Corgiat (sindaco di Settimo Torinese) e Altamura stesso, che si ricandida. È meno probabile che i nuovi tesserati supportino il più giovane Matteo Franceschini Beghini, cuperliano. “Da quello che si dice nell’ambiente sembra che buona parte dei nuovi tesserati sosterrà Morri. Sono certo che uno con la sua storia, onesto e trasparente, interverrà pubblicamente per fermare tutto ciò”, dice. Morri replica: “Non è stato denunciato alcun fatto reale e nessuno potrà votare con pacchetti di tessere. Alcuni candidati hanno sollevato un polverone con la complicità dei giornalisti”.

il Fatto 26.10.13
Leopolda 2013: Arrivano Epifani e Gori
Tutti in fila per Renzi
Vuole prendersi il Pd e avverte: “Sistema elettorale bipolarista o niente”
di Wanda Marra

inviata a Firenze

“Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci”. Firmato Mahatma Gandhi, scritto su uno dei tanti pannelli appesi al muro della Leopolda. L’evento degli eventi di Matteo Renzi 2013 si presenta così. E lui, il candidato super favorito alla segreteria del Pd, l’ex Rottamato-re, pronto a mettersi alla guida del Nazareno, per aprirlo si fa aspettare. E sceglie di farlo in diretta tv, a Otto e mezzo. Camicia bianca, cravatta nera, jeans verdi, parla a macchinetta per 40 minuti. Berlusconi? “Basta con questa telenovela. Basta parlare di lui”.
L’ULTIMO rinvio a giudizio, la decadenza, le minacce al governo? “Basta seguire le sue giravolte. Cambia idea ogni tre giorni. In un Paese civile un condannato in terzo grado si dovrebbe dimettere. Ma comunque non ha i numeri: questi a casa non ci vanno”. Il governo? “Non sono qui per mettere una bandierina, per sostituirlo con un altro. Lo appoggiamo se fa”. Molte cose in queste settimane Renzi le ha già dette. I puntini su le i li ha messi. È determinato, ma tiene bassi i toni. Almeno per adesso, poi domani in chiusura della kermesse si vedrà. Niente polemica diretta con Napolitano, come fu a Bari. Niente polemica diretta neanche con Letta. “L’ho invitato, ma lui mi ha detto che preferiva venire a Firenze per l’Anci”. Anche se avverte che dalle sue posizioni non recede. La legge elettorale? “Ce ne vuole una che favorisca il bipolarismo, se no la politica diventa inutile, e questo è inaccettabile”. Con buona pace del Colle, il segretario in pectore dei Democratici è su una linea diametralmente opposta rispetto all’accordo - proporzionalista - che si è raggiunto in Senato. Nel nome della fine delle larghe intese. I leader mondiali intercettati dalla Nsa? “Non sono un leader, non sono stato intercettato”. Però, “questa è una risposta superficiale” (se lo dice da solo) ma quel che si evince è che “l’Europa non conta niente”. La Gruber prova a metterlo in difficoltà, gli fa vedere un sondaggio di Datamedia. È in calo tra i delusi del centrodestra, mentre sale tra i grillini: “Non sono io che li convinco, è Grillo che li delude”. E poi, il 67 per cento degli elettori del Pd non intende andare a votare alle primarie. Non sarà che il popolo dei gazebo ne ha abbastanza? Lui infatti si tiene basso: “Mi aspetto 2 milioni di partecipanti, non 3”. Una battuta sul “compagno Quagliariello”. E sigla. La Leopolda può cominciare.
La vecchia stazione industriale, diventata il simbolo della Rottamazione, quest’anno ha tutti i crismi dell’ufficialità. Nel pomeriggio, mentre gli schermi rimandano le immagini degli anni precedenti, la platea s’affolla. Eccoli qui, nel 2010, il giovane Matteo con il maglione viola e Pippo Civati, allora insieme, oggi rivali, a lanciare la disfida ai big del partito. Allora si chiamava “Prossima fermata Italia” e Bersani riunì a Roma i circoli in contemporanea. Il 2011 fu l’anno dell’exploit, con Baricco, Zingales, e le note assordanti di Jovanotti: “Il più grande spettacolo dopo il big bang siamo noi”. E Pier Luigi da Napoli raccomandava “i giovani non devono scalciare”, per sentirsi rispondere “non sono un asino”. L’anno scorso fu la volta del-l’assalto all’arma bianca a un partito che lo respinse con tutti gli anticorpi. E adesso, ottobre 2013, a fare la fila per entrare ci sono non solo tutti i deputati renziani, ma pezzi grossi ex dalemiani, come Claudio Burlando, Marianna Madia, che era nata come veltroniana e poi anche lei passata al Lìder Maximo, Paola Concia, che l’anno scorso pativa al comitato bersaniano per le primarie. E poi, David Sassoli (Area Dem), Vinicio Peluffo. Oltre a Michele Emiliano. Oggi arriva anche il segretario, Guglielmo Epifani. Domani Dario Franceschini. I tempi sono proprio cambiati. Poi ci sono i grandi ritorni di vecchi compagni di strada. Da Roberto Reggi, che fu escluso dalle liste per aver richiamato l’attenzione sugli “scagnozzi di Bersani” pronti a manomettere i risultati delle primarie. E Giorgio Gori, che dopo la sconfitta alle primarie di Bergamo era sparito dai radar. Come tutti i bracci destri (o sinistri) di Renzi, che in questi anni i suoi collaboratori forti li ha fatti fuori più o meno tutti. Coordinano un tavolo per uno. Alla Leopolda ce ne sono 100, tematici: si parla di riforme e giustizia, legge di stabilità e femminicidio. A presentare l’evento è Maria Elena Boschi, giacca rosa shocking e scarpe leopardate. La gente fa la fila, mentre aspetta il padrone di casa si nutre a prosciutto crudo e pasta al pomodoro; 1500 ieri sera, 4000 le preregistrazioni, 900 gli iscritti a parlare. Quest’anno sul palco né le panchine del 2010 (simbolo di una generazione in attesa), né i dinosauri (i rottamandi del Pd), ma una Vespa e delle sedie. “Spinta ideale dell’Italia e dell’Europa del dopoguerra” spiega la brochure. E dietro al palco la scritta più che esplicita: “Diamo un nome al futuro”.

il Fatto 26.10.13
Anche la Cgil adesso scommette sul sindaco
di S. C.


LA FORZA di Matteo Renzi si nota anche da segnali come questo: la Cgil, fino a un anno fa acerrima nemica del sindaco, si dispone “con interesse” al convegno della Leopolda che è iniziato ieri. Lo scrive il portavoce di Susanna Camusso, Massimo Gibelli, sul suo blog pubblicato dall’Huffington Post. L’articolo di un portavoce non costituisce una linea politica. Ma Gibelli firma il blog con l’appellativo di “comunicazione Cgil” e le sue parole costituiscono una novità. “Per quello che ho letto in queste ultime settimane – scrive Gibelli – mi pare che nelle indicazioni del sindaco di Firenze vi sia maggiore attenzione al lavoro. Un interesse e un’intenzione assolutamente positive” ma che vanno verificati. Soprattutto visti gli approdi politici dei “consulenti economici e giuslavoristi” che hanno lavorato in passato con Renzi e “che hanno poi coerentemente aderito ad altre forze politiche”. Il riferimento a Pietro Ichino è del tutto voluto. In ogni caso, conclude, se le proposte che emergeranno alla Leopolda andranno nel “verso giusto”, cioè un lavoro dignitoso, “la Cgil avrà trovato un’altro interlocutore”.

Repubblica 26.10.13
Lo spettacolo prevale sulla politica, la persuasione sul ragionamento. E la spinta ideale si cerca negli anni del boom
Tra i cento tavoli di Matteolandia dove ciò che conta è solo “vincere”
di Filippo Ceccarelli


FIRENZE A MATTEOLANDIA sono tutti felici. Superato il concetto di palco, emarginata la nomenklatura, abolita la vecchia e spesso tumultuosa platea, attorno ai cento e più tavoli apparecchiati vige un allegrocaos conviviale.
CHI mangia, chi passeggia, chi telefona, chi tiene le relazioni, chi si connette con il resto del mondo mentre Renzi, raddoppiato nella sua presenza corporea e in pixel, con gesticolante buonumore risponde in diretta alle domande di Lilli Gruber, che però sta a Roma.
A Matteolandia se la prendono comoda. Che fretta c’è? La vecchia stazione granducale èin realtà il parco tematico del rinnovamento della politica, altrimenti detto renzismo, e chi c’è venuto non può che rallegrarsene.
Va da sé che il Pd non c’entra nulla, e infatti nelle due sale non c’è il minimo segno che possa ricordarne l’esistenza, a parte alcune anime di ex bersaniani in pena e desiderosi di accoglienza. Il fenomeno della Leopolda è qualcosa che va ben oltre lescenografie tecno-vintage — il Vespone, la lavagna tipo scuola, le sedioline da bar dell’era preplastica — disseminate con apparente noncuranza. Nel pieghevole di benvenuto, con semiotica pedagogia gli indefessi comunicatori di Proforma spiegano che si tratta di un “mix di stili e oggetti/ fuori dal tempo ma legati ai ‘50 e ‘60/ spinta ideale dell’Europa e dell’Italia” eccetera. Così come la trovata delle cento parole e dei cento tavoli, un colpo d’occhio che evoca un matrimonio e un bingo, prevede che ce ne siano (anche) deputati al marketing, o agli stabilimenti balneari, o al femminicidio, o al packaging for news.
No. Quando si dice parco tematico del renzismo s’intende che l’evento è stato messo in piedi tenendo conto del primato delle forme sui contenuti, della scena sui retroscena, dello spettacolo sulla politica, quindi delle emozioni sui ragionamenti, della seduzione sulla persuasione, delle battute sulle analisi, della vittoria, in ultimissima analisi, su tutto il resto.
A una certa ora, chiuso il format Guber, Renzi è riapparso ormai senza cravatta con l’onorevole Boschi e con il regista scrittore Brizzi, tutti e tre allineati in visione su specie di trespoli, davanti a un computer che rilanciava il simbolo della Apple. Ma lui parlava molto più degli altri, e anzi si può dire che ha assunto il vero ruolo del comando di questo tempo, quello di impresario regista conduttore venditore e intrattenitore unico della serata, ricevendo domande sia dagli astanti che sollecitandole dai fans dei social. Il dispositivo dialogante gli è servito a presentare vari personaggi, altri ne ha evocati, altri ancora trascurati, con nessuno è stato aspro.
In compenso ha ripetuto l’elogio del marketing Coca cola (o Nutella) che invita i consumatori a condividere il prodotto con questo o con quello chiamandolo per nome — “Non c’è più bel suono da ascoltare che quello del proprio nome” diceva del resto anche Berlusconi, che di queste cose se ne intende. E comunque, per dire come i segni del consumo influenzano la vita pubblica, sul bancone del bar della Leopolda c’era impresso l’avviso: “Condividi un caffè”, e anche, con la stesso tono prescrittivo: “Fai sapere ai tuoi amici che sei a #Leopolda.
Da quelle parti c’era lo spazio bimbi, con i gonfiabili, ma senza bimbi. Si sono visti anche due o tre cani, al guinzaglio. Interessante la selezione dei video. Il big bang jovanottiano accompagnava un bellissimo, ma straniante filmato in cui tutto — da Hitler alla natura, dai bombardamenti alle manifestazioni — girava. Ce n’era poi un altro dal codice Extreme, salti, tuffi, voli, valanghe, pattinatori selvaggi, sciatori pazzeschi, skateboard micidiali e la musica di Takatà-Takatà. Per i romantici brani pomicioni e sequenze di Terrence Mallick, regista di culto. Epoi lui, Renzi, finalmente, che saluta, ride, corre addirittura, in mezzo alla folla, con percussioni di sottofondo. Un politico? No, veramente, piuttosto un idolo pop.
Sulle pareti e ai microfoni, intanto, la retorica di Matteolandia risuonava con la sua energia più accettabile, ma anche innocua. “Diamo un nome al futuro”, quasi un rito battesimale. E poi velocità, speranza, eccellenza, sogno, “storie belle da raccontare” come teorizzato dalla Boschi.
Ma le parole in questi casi sfuggono, vivono di vita propria, e mentre lo spettacolo proseguiva costruttivamente dopo la cena, veniva il dubbio, ma ci si sentiva anche un po’ cinici a valutarlo nelle sue finalità. Perché tutto qui sembra effettivamente cool, ma per questo anche piuttosto astuto; e pure smart, però fragile rispetto a come sono messe le cose a pochi metri, fuori dai cancelli della Leopolda.

Repubblica 26.10.13
Al fianco di Renzi. L’imprenditore alla kermesse
Brunello Cucinelli ottimista “Il rinascimento è germogliato”
Oggi il re italiano del cachemire parlerà alla Leopolda.
di S. P.


FIRENZE — Lo scorso Natale ha «regalato» a tutti i suoi 783 dipendenti un premio di 6.385 euro ciascuno. Oggi il re italiano del cachemire Brunello Cucinelli parlerà alla Leopolda.
Al fianco di Renzi da quanto tempo?
«Lo conosco da almeno otto anni, siedevamo insieme nel consiglio d’amministrazione di Pitti quando lui era presidente della Provincia di Firenze. Lo stimo, è un ragazzo per bene e credo che possa rappresentare un modo diverso di fare politica. Ma questa è la mia prima volta al microfono della Leopolda».
Anche a lei viene chiesto di dare un nome al futuro. Quale?
«Mi piacerebbe cercare di convincere qualcuno, i ragazzi in modo particolare, che siamo in un momento di rinascita civile, morale, politica, economica e umana. Il mondo è affascinato dal nostro modo di vivere, dalle nostre unicità e dai manufatti italiani, non possiamo non immaginare di avere un futuro speciale. Abbiamo basi industriali solidequanto la Germania”.
Cosa serve allora?
«Voglio dire ai giovani che tornino a credere nei grandi ideali, la bella politica, la famiglia, la spiritualità di cui è esempio quel genio di Papa Francesco. Il seme del rinascimento è ormai germogliato ».
Renzi fa parte del rinascimento della politica?
«Non credo che da solo Renzi possa incarnare il cambiamento ma fa parte insieme a Letta, Civati, Alfano, Tosi e altri di una nuova generazione della politica che mi affascina. Così come sono affascinato da un partito progressista contemporaneo».
(s.p.)

il Fatto 26.10.13
Renzi. Ostacoli in vista
Spine e fango tra indagini e accuse
di Davide Vecchi


Mi sono ridotto a parlarti del consuntivo di bilancio, per non più di un minuto, mentre ti lavavi i denti. Un tempo inferiore a quello che impieghi a scrivere un post su facebook”. Era il giugno 2012 quando Claudio Fantoni, allora fedelissimo assessore della giunta di Matteo Renzi, decise di dimettersi: parlare con il sindaco dei problemi della tenuta del bilancio comunale si era rivelato impossibile. E gli scrisse una lettera, pubblicata ieri dal quotidiano Libero, spiegando perché si vedeva costretto a lasciare l’incarico. “Ci porti alla rovina”.

IL NUOVO uomo della provvidenza, che si appresta a scalare prima il Pd e poi il governo, ha qualche questione in sospeso che potrebbe rallentare la sua ascesa definitiva al potere e regalare ai bersaniani alcuni facili assist. La lettera dell’ex assessore, che al rottamatore rimprovera fra l’altro di preoccuparsi solo di tagliere nastri fregandosene dei problemi reali di Firenze, si limita a riportare il giudizio sul Renzi primo cittadino espresso da uno dei suoi fedeli uomini, ma ben altri giudizi rischiano di arrivare prima del congresso democratico. La Corte dei Conti, per dire, sta terminando di verificare i conti della Provincia fiorentina quando era presieduta da Renzi e gli ha contestato in primo grado, un danno erariale da 2 milioni. Nel dettaglio, come rivelato nel settembre 2012 dal Fatto Quotidiano, la procura contabile ha contestato alla giunta Renzi un danno erariale di 2.155.000 euro. Aragoste, vini pregiati, soggiorni all’estero, biglietti aerei, cene, pasticcini e fiori: rimborsi spese concessi dal 2005 al 2009 per 20 milioni di euro complessivi e puntualmente autorizzati dall’allora capo di gabinetto Giovanni Palumbo. Una visita negli Stati Uniti nei giorni in cui Obama fu eletto presidente, per dire, è costata 70mila euro.
Sotto inchiesta sono finiti anche i 4,5 milioni che la Provincia renziana ha negli anni elargito alla Florence Multimedia, società che svolge attività di comunicazione e informazione per la Provincia e creata ad hoc per questo da Renzi. Le fatture alla società sono state depositate con un esposto in Procura lo scorso giugno. Cinque anni di libri contabili ora al vaglio degli inquirenti che hanno aperto un fascicolo. Un altro esposto presentato da alcuni cittadini, invece, riguarda la gestione dei parcheggi cittadini, un altro invece i rimborsi spese del Renzi sindaco. Va detto che negli ultimi mesi a Firenze sembra si sia scatenata la caccia alla magagna renziana. Spina nel fianco del sindaco è l’ex dipendente Alessandro Maiorano a cui si sono uniti molti altri fiorentini.
VA DETTO anche che al momento nessun profilo di reato è stato contestato. Finora l’unica inchiesta che ha rischiato di travolgere il Rottamatore è quella che lo scorso giugno ha spinto alcuni giornali a titolare “Bunga bunga a Palazzo Vecchio”. Un funzionario del Comune era stato sorpreso dalla donna delle pulizie con una prostituta nel suo ufficio e le indagini avevano accertato che attorno al-l’uomo girava un sistema di prostituzione che coinvolgeva politici e imprenditori locali e non. In quei giorni si dimise un altro assessore della giunta, anche lui fedelissimo di Renzi, Massimo Mattei; l’ape regina fiorentina era nota come Adrianona ed era amica di Mattei che le aveva dato anche in uso gratuitamente un appartamento a “Il Borro”, un consorzio di cooperativa sociale destinato alla cura degli anziani. Ma si scoprì che Mattei si era dimesso per problemi di salute reali e che l’abitazione era stata concessa in buona fede. L’estraneità alla vicenda dell’assessore dimissionario ha spinto Renzi a gridare subito al complotto e garantire: “A Firenze non c’è nessun bunga bunga”. Intanto, però, sono finite indagate una dozzina di persone e su altre 14, secondo quanto si apprende, sono ancora in corso degli accertamenti. Il “capo puttaniere”, un orologiaio soprannominato “Franchino”, è tornato a bottega. E c’è chi garantisce possa custodire alcuni segreti renziani.

il Fatto 26.10.13
Renzi, calippo democratico e stile da Frate Indovino
di Fulvio Abbate


Ogni giorno che il semidio dell’agenda politica manda in terra, Matteo Renzi ne dice una. La sua. Cioè, la pronuncia nel suo stile. Che è poi, a voler essere sinceri, assai simile a quello di un succedaneo del calendario di “Frate Indovino”, o anche, pensandoci ancora meglio, del diario scolastico tempestato di adesivi commerciali. Scegli tu se “Comix” o piuttosto “Violetta”. Le cose dette da Renzi hanno comunque la pretesa, anzi, il brevetto politico dell’effetto immediato, proprio come la colla artiglio o l'adesivo per dentiere da capo scout. L’altro giorno, volendo produrre un esempio plasticamente riuscito, Renzi, sempre nello stile del calendario del rimpianto Mariangelo da Cerqueto, pubblicista e compilatore di sentenze e ricette, ha parlato della “serietà del fare”. Così, per un istante almeno, tutti noi abbiamo avuto modo di visualizzare la sua faccia proprio lì, ben aperta accanto al barattolo del sale, lo strofinaccio e il mobiletto di fòrmica con le girelle, la nutella e il pinguì: sulle piastrelle di un’ideale cucina d’Italia.
Hai capito benissimo, la faccia di Renzi è simmetrica a un calendario popolare. Il sindaco Matteo si trovava, infatti, alla riunione dell’Anci, tra colleghi, presente il presidente della Repubblica Napolitano, quando ha improvvisamente tirato fuori il santino-scapolare del conterraneo Bartali, da sempre simbolo di moderazione crociata, anche grazie al modo sobrio con cui sconfisse un’ipotetica rivoluzione comunista dopo l’attentato a Togliatti, vincendo il Tour de France del 1948.
ESATTO, Renzi-Frate Indovino, inforcando la memoria del “giusto fra le nazioni” Gino, ha così detto: “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare, diceva Bar-tali, che poi, però, saltava sulla bici e salvava gli ebrei”. Dove quel “è tutto sbagliato, è tutto da rifare”, aveva la pretesa di un inno al “tiriamoci su le maniche”.
Dicono che una simile apoditticità abbia molta presa in termini di consensi elettorali, se non altro dal punto di vista della “comunicazione”, e dunque poco importa che in tanti – ragazzi e ragazze – sebbene trovino la faccia da calippo democratico di Matteo assai convincente come quella di un Fabio Volo, non abbiano modo d’avere altrettanto presenti gli attori-concetti dell’apologo-sentenza pronunciato da Renzi. Togliatti? Non pervenuto. 18 aprile 1948? Cosa? Giusti tra le nazioni? Boh?
Su tutto svetta però, sempre televisivamente parlando, la “spigliatezza” del candidato in giubbino alla leadership del centrosinistra, e sembra quasi che in questa desertificazione della complessità, nell’affermazione di un pensiero-sticker potrà finalmente giungere la pace dei sensi della sinistra, non per nulla l’immagine parallela del calendario di Frate Indovino resta lì, fissa sulla parete dei sondaggi incoraggianti. Sono caduti muri su muri, è accaduto l’inimmaginabile, abbiamo assistito al-l’inosabile della faccia di bronzo di Berlusconi, su tutti questi cocci campeggia adesso l’adesivo umano Renzi. Dopo la citazione di Bartali, verrà perfino il tempo di Sbirulino.

l’Unità 26.10.13
Landini: «È ora di tornare a eleggere i delegati Fiat»
Il leader Fiom: è premessa per rilanciare l’iniziativa unitaria, se Fiat ci esclude torneremo in Tribunale
di Giulia Pilla


ROMA La Fiom riunisce a Torino uomini e donne che lavorano in Fiat e nei suoi addentellati e torna all’offensiva. La prima critica è per il governo che non ha ritenuto di chiamare al tavolo convocato sull’automotive la prima riunione si è tenuta giovedì i rappresentanti dei lavoratori neanche le auto si producessero da sole. «È stato un errore e anche’offesa» lamenta il leader dei metalmeccanici Cgil, Maurizio Landini. «Il governo argomenta dovrebbe avere in testa che chi fa le auto sono persone in carne ed ossa, che lavorano e senza di loro non si produce nulla. Escludere le organizzazioni sindacali da questo confronto ha spiegato Landini lo trovo non solo un errore, ma anche offensivo. In più, siccome ho sentito che fanno riferimento al modello inglese, vorrei che i ministri italiani valutassero un punto e cioè che in Inghilterra, quest'anno, hanno prodotto un milione e mezzo di vetture, mentre in Italia meno di 390mila».
Sempre rivolta al governo è la valutazione sulla legge di Stabilità, con la richiesta che della riduzione del cuneo si avvantaggino le imprese che investono in Italia e mantengano qui produzione e occupazione. «Oggi il problema centrale è il lavoro, bisogna difendere quello che c'è e crearne di nuovo» ha ribadito Landini, sottolineando: «Nessuno nega che c'è un problema di tassazione pesante sul lavoro, quindi non siamo contrari ad una riduzione delle tasse sul lavoro e sulle pensioni, ma non basta. Se un lavoratore guadagna ben 10 euro lordi in più al mese e poi perde il posto di lavoro, non ha senso». Secondo Landini la strada giusta è quella di tassare «le rendite finanziarie e la ricchezza».
Ma è la Fiat ad essere al centro della due giorni torinese ed è sull’auto che si concentra l’attenzione. Innanzitutto con la richiesta che si tornino ad eleggere i delegati nelle fabbriche del Lingotto: per almeno due motivi. Il primo «per ripristinare le regole democratiche». Il secondo punta al rilancio dell’iniziativa unitaria con gli altri sindacati. «Si faccia decidere ai lavoratori quali sono i sindacati più rappresentativi. Non dico questo perché abbiamo dei sondaggi, ma per ripristinare le regole della democrazia e per ricostruire una linea d'azione unitaria». Sarebbe lo strumento per risolvere una volta per tutte è l’auspicio il problema dell'esclusione dei delegati Fiom, dai tavoli con Fiat, pur essendo rientrati negli stabilimenti del Lingotto dopo la sentenza della Consulta.
La Fiom ha chiesto al Lingotto un incontro con tutti i i sindacati per potere discutere le scelte di politica industriale e di investimento. Ci si aspetta una risposta, possibilmente positiva. Se invece la casa automobilistica dovesse continuare a non convocare ai tavoli i metalmeccanici della cgil, Landini si dice pronto a imboccare di nuova la via dei Tribunali. «Non escludiamo nulla ha ribadito ricordando che c'è una sentenza della Corte costituzionale che dice che se un sindacato che è rappresentativo viene escluso dalle trattative c'è un comportamento antisindacale. Non è la Fiom che ha scelto di andare in tribunale, noi ci stiamo difendendo».
L’assemblea dei lavoratori del gruppo Fitta e delle strutture territoriali prosegue oggi, sempre nell’aula magna dell'Università di Torino. Si concluderà oggi con l’approvazione di un documento finale.

Repubblica 26.10.13
I barbari contro la terra
di Alessandra Longo


Benvenuti nell’ultima fase del capitalismo, «il capitalismo finanziario globale». Una fase che certifica l’attuale «assetto post-democratico » in cui sono le elites a comandare «in nome della governabilità». Della «rivoluzione capitalistica restauratrice» si discute in queste ore in un convegno romano della Fondazione Cercare Ancora, creatura di Fausto Bertinotti. Ambizioso il programma dedicato al rapporto tra il capitalismo finanziario globale e la democrazia in Europa. Tra i relatori James K. Galbraith, economista come suo padre, ed Etienne Balibar, filosofo francese, autore di una durissima denuncia sulla «gestione neoliberale della crisi». Un’anticipazione: dall’imperio della troika potranno “salvarci” solo «i barbari capaci di essere senza barbarie».

«Le associazioni dei migranti sostengono invece con forza che l’operazione Mare Nostrum, che impiega anche strumenti bellici come i droni serva in realtà a nascondere respingimenti con la forza mascherati dei fuggitivi nei medesimi luoghi d’origine dai quali fuggono» (fonte RaiRadio3, oggi)
l’Unità 26.10.13
Mare solo Nostrum
C’è l’Italia ma non l’Europa
di Massimo Solani


Scriveva Aldo Moro che «nessuno è chiamato a scegliere tra l’essere in Europa e essere nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo». Ma mentre a Bruxelles i Paesi dell’Unione discutono di una linea comune per far fronte all’emergenza immigrazione, nel canale di Sicilia l’Italia è praticamente da sola e ad una settimana dal via dell’operazione «Mare Nostrum» l’impegno delle nostre forze armate inizia a dare i suoi frutti visibili.
Che si pesano coi numeri ma si misurano soltanto negli occhi di chi è scampato alle onde nere dopo ore di traversata su un legno malfermo e adesso sorride agli uomini della nave San Marco che li aiutano a salire a bordo. Di chi, nel buio della notte del Mediterraneo, ha visto avvicinarsi le luci dei mezzi di soccorso, si è aggrappato ai salvagente lanciati dagli elicotteri e su questa nave ha trovato salvezza e conforto. La conta della notte fra giovedì e venerdì è impressionante: 800 circa i migranti salvati in mare, fra loro oltre 100 bambini. Eritrei e siriani, per lo più, molte donne, tantissimi i nuclei familiari. Scappati dalla guerra e dal regime, molti stremati ma fortunatamente in buone condizioni, tanti altri ben vestiti e con cellulari, gente che non muore di fame ma che da questa parte del mare cerca pace e sicurezza. Alcune centinaia di loro le motovedette della Guardia Costiera li hanno portati fino a Lampedusa, altri quattrocento circa hanno trovato riparo nella pancia d’acciaio della San Marco, la nave che ospita il comando dell’operazione Mare Nostrum affidato all’ammiraglio Guido Rando. Novanta erano stati recuperati dal mercatile maltese Zapphire, 99 dal pattugliatore Cigala Fulgosi, 219 (tra cui 37 bambini) dalla corvetta Chimera. I barconi su cui viaggiavano sono stati rintracciati in mezzo al mare nero come la pece intrecciando i sistemi di localizzazione dei telefoni satellitari e le segnalazioni arrivate da altre imbarcazioni, e la macchina dei soccorsi è scattata immediatamente secondo i piani messi a punto in questa settimana, con gli elicotteri in volo e l’intervento dei mezzi più vicini. E se le condizioni del mare in questi giorni avevano concesso una tregua, adesso l’emergenza è di nuovo altissima.
I primi ad accogliere i migranti sulla nave sono stati gli uomini della Brigata San Marco, i fucilieri di Marina che si occupano dei mezzi da sbarco da utilizzare per i soccorsi in mare e, fra le altre cose, di perquisire le persone portate a bordo ed evitare qualsiasi rischio di sicurezza per la nave. Dopo i primi soccorsi poi (la San Marco all’occorrenza è dotata anche di una sala operatoria, un ambulatorio, un gabinetto odontoiatrico, una sala ginecologica e sala parto e un gabinetto radiologico) nella sala garage della nave è iniziata la lunga processione davanti alla postazione allestita nei giorni scorsi, come su ogni altro mezzo impiegato per la missione Mare Nostrum, dagli uomini della task force della polizia provenienti dagli uffici immigrazione e dalla Scientifica di diverse questura d’Italia. A loro, infatti, spettano le operazione di identificazioni dei migranti, di prelievo delle impronte digitali e di verifica attraverso i database della polizia di eventuali precedenti, altri ingressi irregolari in Italia o provvedimenti di espulsione già eseguiti. Un modo, fra l’altro, per provare ad individuare eventuali scafisti.
Accanto agli uomini della task force della polizia di stato anche i mediatori culturali della Onlus romana Cies. Eyob è uno di loro, ed è salito a bordo della San Marco martedì scorso. Ha 56 anni, è eritreo, vive a Napoli ed è arrivato in Italia nell’anno del Giubileo. «Non avevo mai visto il mare da qui, lontano dalle coste, dove si vede solo l’orizzonte e il blu», racconta. «È incredibile pensare a quanta sia la disperazione che spinge queste persone a scappare da casa propria e affrontare questo viaggio rischiando la morte». A lui spetta il compito di riconoscere dialetti, fare domande e provare distinguere chi è davvero eritreo da chi invece si spaccia soltanto magari alla ricerca disperata della possibilità di chiedere asilo. «Non è facile ci dice ed è una operazione molto delicata. Una grande responsabilità». Ora, riuniti i gruppi familiari, prestate le cure a chi ne aveva bisogno e terminate le operazioni di identificazione, la San Marco invertirà la propria rotta e tornerà verso la terra ferma dove i migranti saranno poi sbarcati e indirizzati nelle varie strutture che potranno ospitarli. Lontano, almeno in teoria, da Lampedusa dove dopo gli sbarchi di ieri il centro di accoglienza è di nuovo pericolosamente affollato. «Dopo che le navi avranno intercettato i barconi si chiedeva a Bruxelles il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini quale sarà il destino delle persone? Questo non ci è stato spiegato».
Nella serata di ieri poi, dopo una giornata lunghissima e convulsa, una nuova segnalazione ha attivato tutte le procedure di emergenza. Nei consueti briefing mattutini dei giorni scorsi dove i vertici dell’operazione decidono lo schieramento delle navi nelle aree di competenza previste da Mare Nostrum, i report dell’intelligence avevano avvertito che non appena il meteo avrebbe concesso una tregua i viaggi dalla Siria o dal Nord Africa sarebbero ripartiti e ci sarebbe stato da scrutare il mare alla ricerca di imbarcazioni. Le navi italiane lo fanno da anni con quel dispositivo nazionale di individuazione e soccorso che ha già salvato la vita a migliaia di migranti. Adesso, però, la crisi siriana ha reso tutto più difficile e l’Italia ha deciso di aumentare i propri sforzi per evitare altre tragedie. Un impegno gravoso (e costoso) che non può essere lasciato tutto sulle nostre spalle. Per questo mentre nel canale di Sicilia si scruta il mare con i radar o a occhio nudo dagli aerei o dai ponti delle navi («Resta il modo migliore spiegano i marinai perché molte imbarcazioni sfuggono ai controlli elettronici») è da Bruxelles che si attendono notizie. Perché «nessuno è chiamato a scegliere tra l’essere in Europa e essere nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo». Anche se da qui, in mezzo alle onde a metà strada fra Lampedusa e l’Africa, l’Europa sembra lontanissima.

l’Unità 26.10.13
A proposito dei rom ecco cosa si legge in rete
di Marco Rovelli

IN RETE SI PESCA RAZZISMO A PIENE MANI. É FACILE. DEI ROM SI DICE DA SEMPRE CHE SONO RAPITORI DI BAMBINI. Come da sempre si diceva che fossero cannibali, così come si diceva che gli ebrei sacrificassero i bambini cristiani durante la loro «Pasqua di sangue». Ai «si dice», purtroppo, credono, molti giornalisti, sia manovali delle cronache locali che coloro che i media li gestiscono. Due giorni fa, trovo su facebook questo commento di una «giornalista» di cronaca locale apuana: «Eddai, ma dire che i rom usano i bambini per farli rubare è razzismo?! È osservazione della realtà». Una che scrive e informa una comunità trova del tutto naturale e legittimo dire «i rom usano i bambini per farli rubare». La logica, signora mia, la logica: «qualche rom» non è la stessa cosa che dire «i rom», semplice logica aristotelica. Ma la «giornalista», che pure lavora con le parole, non se ne avvede. Perció, ecco la cattiva generalizzazione: «rubare è parte integrante della cultura rom». (Figurarsi se mette in relazione due variabili semplici semplici, ovvero degrado e pratiche illegali, dove le seconde crescono laddove cresce la prima, e questo vale per rom e non rom). Ma c’é un altro passaggio. Una volta asserito che «i rom fanno rubare i bambini» trova legittimo pensare che possano rapirli. È un sospetto legittimo, dice, non è razzismo. Vi è qualche forma di logica in questo? No, con ogni evidenza. Anche se fosse vero che I ROM (e non qualche rom) facessero rubare i bambini, non si vede perché dovrebbero rapirli (visto che ne hanno a sufficienza dei loro...). Eppure lo afferma. Una giornalista dovrebbe basarsi sui fatti: ed è facile verificare che non si è mai dato un caso verificato di rapimento dei bambini. Ma la giornalista non verifica. Si basa sulla sue impressioni, e sul suo sprezzo della logica. Così va il nostro mondo, così le parole cattive si amplificano, fanno eco, germinano altre parole cattive, e creano un mondo sempre peggiore.

il Fatto 26.10.13
L’allegra dogana vaticana. Flussi di cassa in libertà
Paolo Cipriani, ex direttore dello Ior, e il suo vice, Massimo Tulli, raccontano ai magistrati entrate e uscite milionarie della banca
di Marco Lillo e Valeria Pacelli


Alla faccia della trasparenza e del nuovo corso voluto da Papa Francesco, c’è ancora un buco enorme nei controlli antiriciclaggio sui flussi in contante tra Vaticano e Italia.
Lo ha ammesso davanti ai pm di Roma in un interrogatorio finora inedito Paolo Cipriani, ex direttore dello Ior, dimessosi il 1 luglio scorso, insieme al suo vice, Massimo Tulli. Qualche settimana fa i due ex manager IOR indagati per violazione delle norme formali antiriciclaggio sono stati interrogati in Procura.
DOPO AVER ricevuto l’avviso di chiusura dell’indagine, il 9 ottobre scorso Cipriani ha provato a giustificare con i pm le sue azioni. La questione al centro del-l’interrogatorio è la solita: le operazioni sospette dello Ior per il trasferimento di 23 milioni di euro nel 2010 da una banca italiana a un’altra. Cipriani ha cercato di derubricare a meri “giroconti” quelli che invece la Procura considera dei comuni “bonifici”, soggetti quindi all’onere di comunicazione dei reali intestatari dei fondi movimentati. Poi però l’interrogatorio ha preso una piega inattesa e molto interessante quando i pm hanno cominciato a porre domande a Cipriani sulle modalità con le quali laici e monsignori, italiani e cittadini del Vaticano entrano nelle Mura Leonine e ne escono con borse piene di contante. I pm Nello Rossi, Stefano Fava e Stefano Pesci sono particolarmente interessati al sistema delle cosiddette dichiarazioni transfrontaliere. I cittadini di un paese extracomunitario, come il Vaticano, che introducono in Italia un importo di contante superiore ai 10 mila euro sono tenuti a presentare una dichiarazione alle Dogane per finalità di contrasto al riciclaggio. La mancata comunicazione prevede sanzioni che vanno da un minimo di 300 euro a un massimo del 50 per cento della somma non dichiarata, se l’importo è superiore ai 10 mila euro. La normativa è invigore dal 2008, con inasprimenti del 2012. Per esempio, quando Monsignor Scarano è entrato in Italia nel 2009 con i suoi 560 mila euro in contanti prelevati allo IOR, avrebbe dovuto presentare la dichiarazione transfrontaliera in entrata in Italia. E, visto che non lo ha fatto, avrebbe dovuto pagare una multa di centinaia di migliaia di euro. Anche il Vaticano prevede l’obbligo di dichiarare le uscite superiori ai 10 mila euro in contante. Prima dell’istituzione dell’AIF, l’Autorità di Informazione Finanziaria antiririclaggio voluta da Benedetto XVI, le dichiarazioni chieste dallo IOR restavano alla banca vaticana. Dopo l’aprile del 2011, quando l’AIF è entrata in funzione, sono invece presentate per legge direttamente all’Autorità. Quello che i pm romani hanno scoperto è che monsignor Scarano e i tanti laici e prelati che escono con le borse piene di contanti dal Vaticano tuttora presentano le loro dichiarazioni solo alle autorità del loro Stato Vaticano ma si guardano bene dall’ottemperare al-l’obbligo parallelo previsto al-l’ingresso in Italia dal nostro paese.
L’ex direttore della banca vaticana ha spiegato ai pm il funzionamento del meccanismo di segnalazione prima e dopo l’istituzione dell’Aif, l’Autorità di Informazione.
Cipriani ha spiegato ai pm “finché c’ero io, si potevano ritirare fino a 9.999 euro oltre questo c’è una dichiarazione doganale che va fatta e alla fine di ogni giornata tutte queste dichiarazioni vengono consegnate all’Aif”. I pm allora chiedono: “l’Aif quando riceve queste dichiarazioni doganali di ritiri di somme superiori ai 9.999 euro, che cosa fa? ”. Cipriani risponde: “questo non lo so io (..) io presumo che loro abbiano un archivio e comunichino agli altri Stati, le cose. (...) noi consegnavamo a lui il documento in cui ritirava e aveva la dichiarazione”. Poi aggiunge: “però voglio dire, lo doveva fermare la dogana italiana o la gendarmeria vaticana, questo non è che io andavo a chiedere “ti ha fermato la gendarmeria, ha firmato”. I pm chiosano: ‘ho capito, lei dice “a me non mi interessava’”.
IL RISULTATO di questo disinteresse è il completo disallineamento tra il numero delle dichiarazioni in uscita in Vaticano con le dichiarazioni in entrata in Italia. Nella sua ultima relazione relativa all’attività svolta nel 2012 l’AIF del Vaticano ha comunicato che le dichiarazioni presentate nel 2012 sono state ben 1782 in uscita mentre nel 2011 erano state addirittura 1894. Al Fatto risulta che alle Dogane italiane sono state presentate pochissime dichiarazioni o addirittura neanche una. Abbiamo provato a chiedere il numero esatto alle Dogane ripetutamente ma l’Agenzia si è rifiutata di fornire dati in merito. Anche perché i poteri di accertamento sull’evasione dell’obbligo di dichiarazione spettano anche alle Dogane. In fondo basterebbe chiedere all’AIF l’elenco delle dichiarazioni in uscita per scoprire altrettanti potenziali riciclatori. Sarebbe possibile chiedere allo IOR anche quelle precedenti al 2011. Spiega Cipriani ai pm: “io davo la dichiarazione al cliente per dimostrare che aveva preso in Vaticano quei soldi. Una copia rimaneva a noi, in istituto. Poi dovevo comunicarlo allo Stato Vaticano non allo Stato Italiano”. E chissà che un giorno lo Stato italiano non si svegli e le chieda lui.

il Fatto 26.10.13
Le lobby di Dio e dei suoi discepoli
di Carlotta Zavattiero


Legionari di Cristo, Focolari, Opus Dei, CL, Sant’Egidio, Cammino neocatecumenale, Rinnovamento dello Spirito Santo: le sette lobby del Vaticano raccontate nel nuovo libro di Carlotta Zavattiero. Pubblichiamo uno stralcio relativo alla Comunità di Sant’Egidio e alla “monarchia assoluta” del fondatore ed ex ministro, Andrea Riccardi.
Nel 2003 l’immagine buonista della Comunità di Sant’Egidio è stata intaccata dalla testimonianza di G. F., insegnante di liceo a Roma, che ha raccontato quanto ha visto e vissuto in venticinque anni di affiliazione interna, durata fino al Natale del 2000. Nel 1987, al-l’età di trentuno anni, G.F. ha sposato una ragazza della Comunità. Poi il matrimonio è andato in crisi ed è sfociato in una separazione. L’uomo ha quindi presentato presso il Tribunale diocesano di Roma la richiesta di riconoscimento di nullità, allegando un memoriale per documentare che le pressioni erano la norma a Sant’Egidio. La sua ex moglie era totalmente assorbita dalla Comunità: “Entrambi i genitori furono contrariati al vedere che la figlia era spesso fuori, non tornava a pranzo e a cena e non passava neppure il Natale in famiglia. Ci furono molte discussioni finché lei, sostenuta dalla Comunità, andò via di casa, ospite prima di un’amica della Comunità e poi di un’altra. Non diceva ai suoi genitori dove abitava e raramente si faceva sentire per telefono. La madre la implorava, ma lei si diceva orgogliosa di aver lasciato la sua famiglia per dedicarsi anima e corpo al servizio della Comunità”.
NON SI TRATTA di un caso isolato, ma – secondo G. F. – di “una delle tante storie dei membri della Comunità di Sant’Egidio. Tutti pendono dalle labbra del fondatore. Ogni suo discorso viene registrato e spedito alle varie comunità sparse per l’Italia e nel mondo. Da lì si traggono gli argomenti chiave delle omelie poi pronunciate dai sacerdoti aderenti alla Comunità durante le liturgie di quartiere o dai responsabili locali nelle preghiere serali”. Durante le riunioni dei gruppi i discorsi del fondatore diventano “la parola” alla luce della quale i partecipanti confessano davanti agli altri quanto vi è di oscuro e sbagliato nella propria vita personale. Simili interventi in pubblico assumono il valore e il significato di una confessione sacramentale: “Una preghiera pubblica durante la messa domenicale suggella il pentimento e il desiderio di riscatto”. Nel memoriale depositato in tribunale il professore romano spiega nel dettaglio cosa significa applicare nella vita quotidiana le virtù raccomandate dal fondatore: umiltà, obbedienza, disponibilità, fedeltà, generosità. L’umiltà presuppone che ci si senta sempre “figli della Comunità, bambini bisognosi delle cure di una madre, mai adulti indipendenti né orgogliosi, poiché ogni azione e parola che viene fatta o detta è per il bene di ciascuno e di tutti”.
Si richiede “obbedienza alla Comunità e a chi la rappresenta ai massimi livelli, perché è obbedienza al Vangelo, a Dio e a chi parla in suo nome e lo annuncia, cioè i capi e i fratelli maggiori”. Ciascuno deve essere pronto in ogni momento “a rispondere alle esigenze della Comunità, senza quell’esitazione che è sintomo di sfiducia”. Occorre dimostrare fedeltà nel servizio, negli appuntamenti liturgici e assembleari, e generosità nel donare tempo, mezzi, denaro e nell’accogliere gli altri nella propria vita, nonché nelle case. Il professore denuncia l’ingerenza della Comunità nella sua vita sentimentale: “Una volta confidai al mio padre spirituale che mi ero innamorato di una ragazza di diciotto anni. Mi disse che non era adatta a me perché troppo giovane, mentre sarebbe stato meglio che mi fidanzassi con un’altra, di ventitré anni, che aveva rivelato alla sua madre spirituale un interesse nei miei confronti. A me non piaceva e lasciai cadere la proposta, ma dovetti rinunciare anche alla ragazza di cui ero innamorato. Conobbi poi colei che sarebbe divenuta mia moglie: frequentavamo lo stesso gruppo e svolgevamo lo stesso servizio. Fu lei a invitarmi a cena e a farmi capire che le interessavo. Seppi poi che aveva parlato di me alla nostra comune madre spirituale, Valeria Martano, dalla quale era stata incoraggiata a prendere l’iniziativa. Per un breve periodo, quindi, provai a stare assieme a lei, ma presto la lasciai perché non mi piaceva. Questo rifiuto scatenò contro di me la reazione della nostra madre spirituale, che mi rimproverò di aver illuso quella sorella e di averla lasciata senza chiedere preventivamente il suo consenso. E anche in Comunità la cosa ebbe strascichi: fui rimproverato in assemblea e criticato in tutto ciò che facevo come assistente degli anziani. I miei amici mi evitavano. […] Qualche tempo dopo mi fidanzai con la ragazza che era stata prescelta per me”.
LE LOBBY DEL VATICANO di Carlotta Zavattiero Chiarelettere pag. 207

Corriere 26.10.13
Un paese piange per Nicolò ucciso dalla sua mamma
Quei segnali non riconosciuti
di Claudio Mencacci

(presidente della Società italiana di Psichiatria)

Il tragico episodio di Lecco è un’ulteriore dimostrazione della fragilità umana e della necessità di monitorare alcune situazioni famigliari apparentemente normali. Le motivazioni che spingono una mamma a uccidere il proprio figlio sono molteplici. Non si tratta mai di un raptus, ma di una sofferenza che si instaura nel tempo. Non è violenza improvvisa: quanto avvenuto a opera di una mamma che aveva un’altra bimba di 9 mesi (che forse avrebbe fatto la stessa fine) è da ricondurre a una depressione/psicosi post partum i cui sintomi non sono stati colti nella loro gravità. In questo caso potrebbe trattarsi di una particolare declinazione della depressione post partum che ha portato all’uccisione del primogenito, considerato il preferito, come un «gesto d’amore» patologico per preservarlo dalla sofferenza dell’arrivo della sorellina. Sono circa il 16% le donne che nel perinatale, a causa delle variazioni ormonali e delle molteplici nuove incombenze, soffrono di depressione, un problema sottostimato e sotto diagnosticato perché in questo particolare ciclo vitale ci si aspetta che la donna sia felice, quindi da un lato i sintomi non vengono manifestati nel timore di deludere, dall’altro non vi si presta attenzione. Dopo il parto la donna viene visitata solo in quarantesima giornata e tutta l’attenzione è riservata al neonato. La depressione post partum può essere curata. È giunta l’ora di parlarne, di superare timori e vergogne, di chiedere aiuto. Oggi esiste un network di centri di eccellenza in rete e un sito www.depressionepostpartum.it dove informarsi. Le donne non devono più sentirsi sole.

Corriere 26.10.13
Università, riammessi 2 mila studenti
Valido per quest’anno il bonus maturità tolto durante i test d’ingresso
di Valentina Santarpia


ROMA — Potranno iscriversi subito all’università gli studenti bocciati al test che all’ultimo momento si sono visti «strappare» il bonus maturità, introdotto dall’ex ministro all’Istruzione Giuseppe Fioroni e cancellato, senza che fosse mai prima applicato, dall’attuale titolare del dicastero, Maria Chiara Carrozza: è questa la soluzione trovata dalla commissione Cultura alla Camera che lavora da dieci giorni agli emendamenti del decreto scuola.
I circa duemila ragazzi che avrebbero potuto superare il test di ammissione alle facoltà a numero chiuso (medicina soprattutto, ma anche architettura e veterinaria) se avessero potuto contare sul punteggio aggiuntivo della maturità, ora rientreranno in carreggiata: potranno essere iscritti in sovrannumero ai corsi universitari, anche se l’anno accademico è già iniziato. Un compromesso, quello trovato faticosamente da Pd e Pdl con l’avallo del governo, che dovrebbe avere il via libera la prossima settimana, quando il provvedimento approderà in Aula. Sempre che non abbia conseguenze impreviste il colpo di scena di ieri sera: il presidente della VII commissione, il pidiellino Giancarlo Galan, ha annunciato le sue dimissioni da relatore del provvedimento, per protesta contro le coperture finanziarie del decreto, che prevedono l’aumento delle tasse su alcolici e birra. Una scelta che non lo spingerà a far cadere tutti gli emendamenti già approvati, specifica però lo stesso Galan in un post su Facebook, «per rispetto del lavoro della commissione e soprattutto per rispetto ai ragazzi che aspettavano la reintroduzione di un diritto che gli avevano negato per errore, il bonus maturità».
Se tutto filerà liscio, comunque, il lavoro di riammissione dei candidati non sarà semplicissimo: «Bisognerà riaprire le graduatorie e assegnare a tutti i ragazzi il voto di maturità — spiega la deputata pd Simona Flavia Malpezzi — che invece non era stato considerato perché il bonus era stato cancellato dal decreto nei giorni del test. Ma così chi si è visto cambiare le regole in corsa avrà giustizia». Una volta riformulate le graduatorie, i ragazzi che con il punteggio del test più il bonus maturità risulteranno ammessi, potranno scegliere il corso a cui iscriversi in sovrannumero: la scelta dovrà avvenire proprio come è successo per i loro colleghi, ovvero potranno accedere a una delle tre facoltà indicate in ordine di preferenza nella domanda in base al punteggio ottenuto (i più bravi hanno la prima scelta, gli altri si accontentano della seconda o della terza) e in base ai posti disponibili in ogni ateneo. Sarà rispettata la proporzionalità dei posti disponibili anche per gli studenti in sovrannumero, per evitare che affollino le facoltà più blasonate. Secondo le stime della commissione, si tratterà di non più di 2 mila ragazzi, che potranno scegliere se iscriversi subito, oppure aspettare l’anno prossimo: è il caso di chi ha ripiegato su altre facoltà, come biologia, e che potrebbe decidere di sostenere gli esami per farseli poi convalidare a medicina l’anno successivo, ma senza affrontare nuovamente il test di ammissione.
«Resta salva la posizione di quanti si sono già iscritti», chiarisce la deputata Elena Centemero (Pdl): l’idea che ha guidato il lavoro della commissione è stata di non ledere i diritti già acquisiti degli studenti. Ma c’è un altro aspetto che l’emendamento al decreto scuola contempla: e cioè la possibilità, anche per gli studenti che hanno dovuto accontentarsi della seconda scelta, di cambiare ateneo, se lo preferiscono, iscrivendosi in sovrannumero nella facoltà preferita. Un esempio: lo studente A ha espresso la sua preferenza, nella domanda di ammissione al test, per la facoltà di Roma, in second’ordine per Torino e infine per Milano. Nella graduatoria è risultato in posizione intermedia, per cui i posti disponibili a Roma sono stati conquistati dai ragazzi con punteggio più alto e lui ha scelto Torino. Con la riassegnazione del bonus maturità si trova nella condizione di vedersi accreditato un nuovo punteggio che gli permette invece di scegliere proprio la prima opzione, cioè Roma. Se vorrà, potrà trasferirsi, anche subito, ad anno accademico iniziato, nella facoltà della capitale, sempre in sovrannumero.

«Matteo Renzi è un giovane leader dinamico e visionario che potrà fare molto bene all’Italia»
l’Unità 26.10.13
Kerry Kennedy

«Bush è il principale responsabile, Obama ha ereditato una situazione difficile»
«È uno shock, in gioco i grandi valori dell’America»
«Questa vicenda deve suonare come una sveglia per tutti i leader del mondo»
«Sentiranno quello che provano i cittadini quando si viola la privacy in nome della sicurezza»
«Mio zio Jfk cercò di arginare lo strapotere degli apparati di sicurezza e della Cia»
«Colpita dalla tragedia di Lampedusa. L’Europa non lasci sola l’Italia»
intervista di Andrea Carugati


ROMA In Italia per inaugurare due mostre che parlano della sua famiglia e dei diritti umani, i «Fredoom Fighters» al Maxxi di Roma e le «Ladies for Human Rights» al Must di Lecce, Kerry Kennedy, settima figlia di Bob, nata nel 1960, ci incontra in un bar della Galleria Colonna nel giorno in cui gli Stati Uniti sono sul banco degli imputati per le intercettazioni della Nsa ai danni di decine di leader mondiali. «Uno shock, uno scandalo terribilmente dannoso per l’America, in particolare per i valori di libertà, pace e giustizia che sono alla base del nostro Paese», spiega Kerry. «Ma non è una sorpresa, già alcuni mesi fa si era saputo di alcune intercettazioni ai danni di altri leader, ad esempio del Brasile. Questa vicenda deve suonare come una sveglia per tutti i leader del mondo, ora sentiranno sulla loro pelle quello che tutti i cittadini provano quando i governi violano la loro privacy nel nome della sicurezza. Spero che questo grave momento porti a un rigoroso dibattito nelle opinioni pubbliche, e anche dentro i governi, sul necessario equilibrio che va trovato tra le necessità di sicurezza e di riservatezza. C’è anche il tema dell’invasione della privacy da parte delle grandi multinazionali, e del loro rapporto con la politica».
E tuttavia questa volta c’è di mezzo una amministrazione come quella di Obama, che ha suscitato in tutto il mondo grandi speranze di giustizia. Si sente delusa?
«È in gioco il tema dei grandi valori dell’America. Spero che questo imbarazzo aiuti il mio popolo a continuare a combattere per i nostri valori fondamentali di libertà, che ci aiuti a risvegliarci. Del resto, questa pratica delle intercettazioni non riguarda solo gli Usa».
Lei da decenni è una combattente per i diritti umani. A Lampedusa poche settimane fa c’è stata una terribile tragedia dell’immigrazione. Cosa dovrebbero fare l’Italia e l’Europa per evitare tutto questo? «L’Italia è un cancello per gli emigranti che arrivano dall’Africa e dal Medio Oriente. Ma non può essere lasciata sola, perché è un problema dell’intera Europa. Per decenni voi siete stati un paese di emigranti, per questo mi aspetterei un atteggiamento di comprensione per questo fenomeno. E tuttavia è vero che l’Italia nella sua storia non ha l’esperienza e la preparazione per essere un approdo di ampi flussi migratori. Io credo che l’Italia dovrebbe pensare a cosa vorrebbe essere tra 100 anni, a quali valori ancorarsi. I valori che hanno ispirato il vostro Paese suggeriscono di organizzare un sistema di accoglienza adeguato e compatibile, che non significa poter accogliere tutti quelli che busseranno ai vostri confini: neppure il governo più generoso potrebbe farlo. La cosa fondamentale è che le persone siano trattate con dignità, senza accanimento giudiziario, evitando le tragedie del mare e i terribili campi di accoglienza».
Dopo 50 anni qual è l’eredità politica più preziosa di suo padre e di suo zio?
«È la frase che Jfk pronunciò durante il suo discorso di insediamento: cosa puoi fare per il tuo Paese? L’eredità è questa sfida per servire e migliorare la comunità. Ho pochissimi e preziosi ricordi di quegli anni, ad esempio quando mio zio Jack caricava una dozzina di noi bambini sul suo golf cart. Era molto divertente. Non so come, ma avevamo l’impressione che lui e papà stessero facendo qualcosa di importante. La loro amministrazione era animata da una grande tensione. Mio zio cercò di arginare lo strapotere degli apparati della sicurezza, dalla Cia al Pentagono, come nel caso della Baia dei Porci. Fu lui a tagliare del 20% il budget della Cia e a fermare alcune trame ai danni di alcuni leader di altri paesi. Probabilmente era una piccola cosa, ma dava il segno di una autonomia del potere politico nel “conflitto”ormai costante con gli apparati di sicurezza».
Ci sono delle somiglianze con la situazione di oggi e lo scandalo Datagate? «Credo che le maggiori responsabilità di questa vicenda ricadano sull’amministrazione Bush più che su Obama. Bush, al contrario di mio zio, ha incentivato l’industria bellica e gli apparati della sicurezza, ha fatto di questo una bandiera. Il presidente Obama ha ereditato una situazione difficile. Per uscire dovrebbe seguire la strada che avevano tentato di percorrere mio zio e mio padre. La via per il cambiamento è lunga, ma si possono dare i segnali giusti». Qual è il ricordo più forte che ha di suo padre Bob?
«Da bambini con i miei fratelli giocavano alla Seconda guerra mondiale. Io ero una delle più piccole e mi toccava sempre la parte del tedesco. Una volta mio fratello Michael mi colpì da un albero con una “bomba” fatta con un frutto di magnolia, e io corsi in lacrime da mio padre. Lui chiese ad entrambi di raccontare la loro versione della storia, poi ci disse di abbracciarci. Con noi si è comportato come con il popolo americano: ci ha insegnato che la pace si deve costruire ascoltando le ragioni dell’altro con uno spirito di fratellanza. Questo messaggio di giustizia e servizio a chi non ha voce è ancora vivo e noi Kennedy cerchiamo di portarlo avanti in vari modi: quasi nessuno di noi fa politica, non siamo una dinasty».
Che immagine ha della politica italiana?
«L’Italia ha grandi risorse di leadership per uscire dall’era di Berlusconi che ha gettato nel mondo un’ombra sul Paese. Conosco e apprezzo personalità come Piero Fassino, Walter Veltroni e Matteo Renzi, giovane leader dinamico e visionario che potrà fare molto bene all’Italia. Il governo attuale sta cercando un difficile equilibrio tra la stabilità finanziaria e la sofferenza dei ceti più deboli».

l’Unità 26.10.13
Washington avverte: «Alleati coinvolti, rischiamo tutti»
Nei 30mila file di Snowden la collaborazione tra servizi anche a insaputa dei rispettivi governi
La cooperazione riguarderebbe non solo spionaggio militare ma anche azioni di rendition
di Umberto De Giovannangeli


È solo l’inizio. L’inizio di una valanga di rivelazioni che potrebbero dar conto del peso enorme, per molti versi insostenibile, del Nsagate. Le intercettazioni illegali subite da 35 leader mondiali sono solo l’antipasto di un piatto forte che nei prossimi giorni è destinato a squassare i tavoli di governi di mezzo mondo. Storie di spionaggio politico, militare, industriale. E, a quello che comincia a filtrare, anche storie di operazioni di rendition nelle quali sarebbero coinvolti i servizi di diversi Paesi alleati degli Usa. L’allarme è generale. Ed è scattato anche a casa nostra. Perché tra i destinatari dell’allerta ci sarebbero anche i nostri servizi.
L’avvisaglia è arrivata dagli Usa. Gli Stati Uniti starebbero allertando i servizi di intelligence stranieri sul fatto che i documenti ottenuti da Edward Snowden potrebbero portare alla luce i segreti della loro collaborazione con i servizi americani. Lo rivela il Washington Post, secondo il quale le decine di migliaia di file resi noti dall'ex impiegato della Nsa (Snowden), contengono materiale sensibile sui programmi di intelligence che riguardano Paesi ostili, come Iran, Russia e Cina. Secondo il quotidiano, l’operazione di informativa agli altri Paesi viene condotta dall’ufficio del direttore nazionale dell’intelligence. Uno dei casi riguarderebbe un programma condotto da uno dei Paesi della Nato contro la Russia che fornisce informazioni sensibili all’Air force e alla Marina statunitensi. «Se i russi ne vengono a conoscenza, non sarà difficile per loro bloccare questo programma», ha commentato un anonimo ufficiale americano.
Il quotidiano americano scrive inoltre che i documenti sottratti da Snowden attraverso il Joint World wide Communications System Intelligence o Jwics sarebbero 30.000. Il materiale in questione rivela anche le dotazioni militari di altri Paesi, inclusi missili, navi e aerei, ma non tutti i documenti sono stati messi a disposizione dei giornalisti. Thomas Drake, un ex dirigente della Nsa che ha incontrato Snowden a Mosca questo mese, ha fatto sapere che l’ex analista non aveva intenzione di compromettere le operazioni di sicurezza nazionale. «C'è una possibilità dello zero per cento che russi o cinesi abbiano ricevuto qualche documento», ha detto Snowden al Times. Drake ha anche specificato che la talpa non ha consegnato nulla a Wikileaks.
La possibile divulgazione di queste informazioni preoccupa comunque l’amministrazione americana, forse anche più delle notizie sull’ascolto delle comunicazioni dei leader stranieri. Non solo vi è il rischio che saltino le operazioni in corso, ma anche che si rompa il rapporto di fiducia con gli altri servizi.
ALLARME ROSSO
«Dipendiamo in gran parte dai rapporti di condivisione d’intelligence con partner stranieri, soprattutto governi oppure organizzazioni interne ai governi afferma un alto funzionario Usa -. Se ci dicono qualcosa, noi manteniamo il segreto. Ci aspettiamo lo stesso da loro. (Se questa fiducia viene minata) come minimo questi Paesi ci penseranno due volte prima di condividere qualcosa con noi». A rendere politicamente ancora più esplosiva la materia, c’è il fatto che, secondo quanto trapela da fonti Usa, alcune delle operazioni di spionaggio sarebbero avvenute all’insaputa dei ministri competenti dei Paesi coinvolti. È lo stesso WP a rimarcare che il processo di informazione dei funzionari sul rischio di rivelazioni è delicato perché a volte i governi sono a conoscenza della collaborazione, a volte no.
Le rivelazioni degli ultimi mesi sul programma Prism di sorveglianza e in-
tercettazione globali ammette la consigliera per la Sicurezza interna e l'anti-terrorismo della Casa Bianca Lisa Monaco «hanno creato significativi problemi all'amministrazione americana nei rapporti con alcuni dei nostri più stretti alleati». La stessa Monaco però difende la raccolta di dati sensibili da parte della National Security Agency: «Anche se raccogliamo gli stessi tipi di informazioni rispetto alle altre Nazioni ha rivendicato Monaco i nostri servizi d’intelligence sono soggetti a maggiori restrizioni e supervisione che in qualunque altro Paese nella storia». Nondimeno il presidente Barack Obama «ci ha ordinato di rivedere le nostre capacità di sorveglianza», ha riferito la consigliera, «anche nelle relazioni con i nostri partner stranieri». «Non siamo in ascolto di ogni telefono e non leggiamo ogni email. Siamo ben lontani da tutto ciò», insiste Monaco.
La dinamica in corso in queste ore ricalca quella dei tempi di Wikileaks, con la Casa Bianca impegnata a preparare i propri alleati al caos che sarebbe seguito. In questo caso i tempi potrebbero essere più stretti.

Corriere 26.10.13
«Delusione Barack. Credevo che lottasse per i diritti dell’uomo»
di Paolo Lepri


BERLINO — «Sono delusa per il fatto che il presidente democratico degli Stati Uniti Barack Obama, che si è sempre schierato dalla parte dei diritti dell’uomo e dei cittadini, non abbia portato con più forza questa posizione nella politica». Due giorni dopo la notizia dei controlli sul telefono portatile della cancelliera, e mentre al vertice di Bruxelles Francia e Germania si fanno promotrici di una forte iniziativa per ristabilire le regole di collaborazione con Washington, la ministra della Giustizia tedesca, Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, non nasconde il suo disappunto per il modo con cui gli Stati Uniti, con i loro programmi di sorveglianza informatica, ignorano la necessità di rispettare la libertà e la privacy delle persone. Si augura inoltre che l’Ue faccia sentire la sua voce per combattere una battaglia che ha sempre ritenuto di enorme importanza e definisce «assolutamente coerente» che il Parlamento europeo voglia sospendere l’accordo Swift firmato con gli Stati Uniti sulla condivisione dei dati bancari e finanziari nella lotta al terrorismo. Alla guida del dicastero già con Helmut Kohl (dal 1992 al 1996) e poi, fino alla nascita del prossimo esecutivo, nel secondo governo di Angela Merkel, Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, 62 anni, liberale, è una giurista che non ha atteso l’ultima puntata dello scandalo sullo spionaggio americano per esprimere tutte le sue perplessità sulle discutibili scelte degli alleati. Al Corriere conferma un’opinione che ha espresso in passato anche a quei suoi colleghi di governo convinti che le polemiche provocate dalle rivelazioni sulle attività statunitensi fossero ormai da archiviare: «Il caso della National Security Agency non è finito».
Le informazioni secondo cui sarebbe stato ascoltato il cellulare della cancelliera hanno cambiato la posizione del governo tedesco sulle attività americane di controllo delle informazioni?
«La cancelliera ha già detto al consiglio europeo di Bruxelles che spiarsi tra amici è inaccettabile. Noi siamo alleati, ma un’alleanza può essere costruita solo sulla fiducia».
Quali saranno le vostre prossime iniziative?
«Il ministero della Giustizia preme perché siano utilizzati tutti i mezzi possibili che sono a disposizione per ristabilire nuovamente la riservatezza delle comunicazioni».
E’ possibile che l’Europa prenda una posizione comune su questo tema? Ritiene che la questione dei controlli americani possa essere posta nell’ambito dei negoziati sull’accordo di libero scambio tra Ue e Usa?
«Tutti gli strumenti a disposizione, incluso l’accordo Swift e quello sul trasferimento dei dati personali dei passeggeri, devono essere usati per chiarire agli Stati Uniti l’importanza della difesa dei dati personali in Germania e in Europa».
Qual è stata la sua reazione personale dopo le ultime rivelazioni?
«Il nuovo sospetto va al di là di ogni dimensione. Il caso della National Security Agency non è finito. Le mie domande al ministro della Giustizia statunitense non si risolvono con l’imminente cambio di governo in Germania, e devono finalmente essere prese in seria considerazione. E assolutamente coerente che il Parlamento europeo voglia sospendere l’accordo Swift. Il consiglio europeo e la Commissione sono chiamati a prendere una decisione rapida».
Ha mai pensato che il telefono portatile del ministro della Giustizia potesse essere stato messo sotto controllo?
«In questo ministero non c’è mai stata nessuna indicazione che un apparecchio usato dal ministro potesse essere ascoltato».

Corriere 26.10.13
I governi nell’era dei «Big Data»: democrazia ostaggio della tecnologia?
Internet, la politica, le aziende: perché il «patto» con i cittadini si è rotto
di Serena Danna


Dal suo ufficio di Harvard, Peter Galison non trattiene il sarcasmo: «Quanto velocemente la storia cambia idea! Appena qualche mese fa, la tecnologia era l’eroina dei nostri tempi, celebrata durante le primavere arabe come promessa di democrazia; adesso Big Data si è trasformato in Bad Data (dati cattivi, ndr ) e la sorveglianza, invece della libertà, domina la discussione». La velocità della rivoluzione digitale rende la sua cronaca naturalmente fallace, difettosa, ma il docente di Storia della scienza, autore del documentario Secrecy , prova a mettere un punto: «Dalla tecno-utopia siamo già passati alla tecno-distopia». Opposte visioni, frutto della stessa enorme difficoltà a interpretare quella che tanti — ultimo Bruce Schneiner sull’Atlantic — definiscono la «guerra per il controllo del cyberspazio»: da un lato le istituzioni classiche del potere — governi e corporazioni — a caccia dei nostri dati personali, dall’altro dissidenti, hacker e movimenti che proteggono la privacy anche fuori dai confini della legge. Campo di battaglia e spesso vittime inconsapevoli dello scontro: i cittadini. «La questione è — continua Galison — come liberare il dibattito dalla gabbia della tecnologia e renderlo “cosa pubblica”».
Lo scandalo della National Security Agency, che ha rivelato l’attività di spionaggio di massa del governo americano, impone un’accelerazione del passaggio. Per Evgeny Morozov, studioso dei new media, l’origine del problema sta nella convergenza di interessi di governi e aziende: «I fini commerciali delle corporation e quelli politici degli amministratori coincidono — spiega al telefono da Boston —. Entrambi, con fini diversi, vogliono l’accesso ai dati personali degli utenti: cosa leggono, guardano, mangiano, studiano, pensano». La grande alleanza tra la Silicon Valley e il governo americano — dove i primi mettono a disposizione del secondo la tecnologia del data-mining (estrazione e processo di dati) — ha portato la capacità di sorveglianza di Washington, per usare le parole dell’attivista Richard Stallman, a un livello «incompatibile con i diritti umani». Parte del problema e grande paradosso della vicenda è che — intercettazioni a parte — sono gli stessi cittadini a lasciare continuamente le proprie impronte digitali in giro per il web, sulla base di quello che Schneiner definisce il «modello feudale» di Internet: gli utenti che rilasciano informazioni personali ai colossi informatici in cambio di servizi sicuri e gratuiti. Le conseguenze, inaspettate per i più, cominciano ad apparire evidenti: «Più informazioni riveliamo su noi stessi — continua Morozov — più densa e invisibile diventa la rete spinata che ci attanaglia». Una visione che si ritrova addirittura nelle parole del presidente di un’azienda, Google, leader nel mercato dei dati degli utenti. Eric Schmidt, nel libro La nuova era digitale , scritto con Jared Cohen, ha ammesso, infatti, che esiste «uno spaventoso potenziale per l’abuso di potere».
Non è la sorveglianza in sé a essere una minaccia per la democrazia, ma i suoi limiti e confini. Ne è convinto Alec Ross, consigliere speciale per l’innovazione di Hillary Clinton nel primo governo Obama, raggiunto via mail dal Corriere : «Se è praticata per monitorare dissidenti politici innocenti lo è, ma se è usata per identificare e fermare i terroristi, al contrario, è auspicabile. La questione cruciale è come vengono usati i sistemi di sorveglianza e controllo dei cittadini e come si conciliano con i diritti dei cittadini». Non possono essere le aziende a regolare la tutela della privacy ma gli Stati. In un’intervista alla Lettura , Helen Nissenbaum, a capo dell’Istituto di Information Law della New York University, ha spiegato che fino a oggi è stato il business a dominare l’approccio normativo: «Il modello corrente è quello della notifica-consenso — si legge —. Si è pensato che la soluzione fosse chiedere alle aziende di rendere evidenti le opzioni sulla navigazione online dei cittadini lasciando a loro la scelta». Secondo la filosofa un’azione sbagliata, perché con la sovrabbondanza di informazioni che va sotto il nome di Big Data, è impossibile avere una padronanza totale del processo, e perché lascia, appunto, la gestione nelle mani delle aziende.
Ancora prima delle leggi, che vanno adeguate alla nuova era (le norme americane che regolano la sorveglianza dell’intelligence appartengono al mondo pre-internet), bisogna cambiare la natura del processo: rendere trasparenti — nei limiti della sicurezza e del libero commercio — i termini del patto tra cittadini e istituzioni, mettere sul tavolo i vantaggi e i rischi del mercato dei dati personali. Il rapporto tra privacy e trasparenza è materia politica per eccellenza. Puntualizza Morozov, «L’automatismo e la segretezza dei processi di informazione sono un ostacolo alla democrazia». Ricorda che già negli anni Ottanta, Spiros Simitis, antesignano delle teorie sulla privacy, affermava che nessun progresso può dirsi tale fino a quando non si concilia con il diritto individuale di decidere quali dati personali possono essere diffusi e quando. A distanza di tre decenni, la questione è ancora aperta e i cacciatori di dati si muovono nell’anarchia.
Oltre la gravità degli abusi di potere, le cronache sull’attività di spionaggio della National Security Agency hanno rivelato degenerazioni e aneddoti ai limiti del ridicolo, ad esempio, che i dipendenti dell’agenzia utilizzavano i database per spiare i propri partner. Il sospetto è che, a differenza delle aziende che hanno uno scopo ben preciso: vendere, i governi non abbiano neanche chiaro del tutto cosa farci con tutte quelle informazioni private. «Gli analisti del governo americano — spiega Viktor Mayer-Schönberger, autore di Big Data — pensano di poter prevedere i comportamenti umani, sperando così di intercettare problemi, catastrofi e disagi prima che si compiano. Ma questo è da escludere». Nonostante tutto, il sistema pre-crimine immaginato da Steven Spielberg in Minority Report è ancora un’invenzione narrativa.

Repubblica 26.10.13
Datagate: i colpevoli sono due
di Stefano Rodotà


CHI aveva decretato la fine dell’età dei diritti, oggi dovrebbe riflettere sul fatto che la prima, vera crisi tra Stati Uniti e Unione europea si è aperta proprio intorno alle violazioni di un diritto fondamentale — quello alla privacy.
Ed è una crisi che mostra con chiarezza che cosa significhi in concreto la globalizzazione, quali siano i limiti della sovranità nazionale, di quale portata siano ormai le sfide rivolte alla democrazia attraverso diverse negazioni di diritti.
L’Europa reagisce, ma non è innocente. Non si può dire che questa sia una sorpresa, una vicenda imprevedibile, se non per la dimensione del fenomeno. Fin dai giorni successivi all’11 settembre, era chiaro che la strada imboccata dall’amministrazione americana andava verso l’estensione delle raccolte di informazioni personali, la cancellazione delle garanzie per i cittadini di paesi diversi dagli Stati Uniti, l’accesso alle banche dati private. Vi è stata una colpevole sottovalutazione di queste dinamiche e sono rimaste inascoltate le sollecitazioni di chi riteneva indispensabile un cambio di passo nelle relazioni tra Unione europea e Stati Uniti, per impedire che sul mondo si abbattesse il “digital tsunami” poi organizzato dalla National Security Agency e provvidenzialmente rivelato da Edward Snowden.
Angela Merkel ha reagito alla notizia di un controllo sulle sue telefonate. Ma negli anni Novanta si seppe di un sistema mondiale di intercettazione delle comunicazioni chiamato Echelon (gestito da Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda), che riguardò anche Romano Prodi, allora Presidente del consiglio. Le reazioni furono deboli e il Parlamento europeo svolse una indagine assolutamente inadeguata. L’atteggiamento dell’Unione europea, quando ha negoziato con l’amministrazione americana in queste materie, è sempre stato debole, addirittura subalterno, e le pressioni delle lobbies americane continuano a farsi sentire in relazione al nuovo regolamento europeo proprio sulla protezione dei dati personali. Ora Barroso fa dichiarazioni molto dure, che tuttavia hanno senso solo se accompagnate da un profondo cambiamento di linea.
Tutto questo non diminuisce le responsabilità degli Stati Uniti, gravissime, perché è ormai chiaro che la gigantesca caccia alle informazioni non aveva come fine la sola lotta al terrorismo. Altrimenti non si sarebbero intercettate le comunicazioni di capi di Stato o di governo. Fin dai tempi di Echelon era chiaro che i dati raccolti servivano per conoscere strategie politiche ed economiche, per dare alle imprese americane un di più di informazioni per renderle più competitive rispetto a quelle europee.
Vale la pena di ricordare le parole dette all’ultima assemblea dell’Onu dalla Presidente del Brasile, Dilma Rousseff, anch’essa intercettata: «Senza tutela del diritto alla privacy non v’è libertà di opinione e di espressione, e quindi non v’è una vera democrazia». E questa dichiarazione è stata seguita dalla cancellazione del suo viaggio ufficiale negli Stati Uniti. Siamo dunque di fronte ad una vera questione di democrazia planetaria, che nessuno Stato può pensare di affrontare da solo, sulla spinta di risentimenti nazionali o personali. Angela Merkel usa parole dure, Enrico Letta invoca verità, François Hollande protesta. Ma loro sono governanti della regione del mondo dove la tutela dei dati personali ha trovato la tutela più intensa, considerata come diritto fondamentale dall’articolo 8 della Carta dei diritti dell’Unione europea. Essi hanno l’obbligo e l’occasione per aprire una fase in cui la tutela dei diritti fondamentali sia adeguata alle nuove sfide tecnologhe, che si traducono in una offerta crescente di strumenti utilizzabili proprio per violare quei diritti.
Di fronte al Datagate non bastano fiere dichiarazioni di buone intenzioni, e quindi non ci si può appagare delle parole di chi, dagli Stati Uniti, promette misure in grado di “bilanciare le esigenze di sicurezza con quelle della privacy”. Non si tratta di scegliere la via delle ritorsioni, ma bisogna dire chiaramente che, proprio per le dimensioni della vicenda, questa non può essere gestita come un affare interno statunitense. Alcuni punti fermi, comunque, vanno stabiliti subito. Accelerare le nuove normative europee sulla privacy con un rifiuto netto delle pressioni americane. Rendere effettiva la linea indicata dalla risoluzione del Parlamento europeo che ha chiesto di sospendere l’accordo che prevede la trasmissione agli Stati Uniti di dati bancari di cittadini europei per la lotta al terrorismo, già per sé inadeguato per la debolezza con la quale l’Unione concluse quell’accordo. Mettere in evidenza l’impossibilità di proseguire la negoziazione del trattato commerciale in un contesto in cui la fiducia reciproca si è incrinata, sì che non è pretesa eccessiva chiedere agli americani azioni effettivamente risarcitorie e non cedere al ricatto di chi sottolinea i vantaggi di quel trattato, ponendo così le premesse per un perverso scambio tra benefici economici e sacrificio di diritti. E poiché l’intero continente latinoamericano ha adottato il modello europeo in questa materia, è davvero impossibile pensare all’avvio di iniziative coordinate, come esige una situazione in cui la tecnologia non conosce frontiere e, quindi, conferisce agli Stati più forti l’opportunità di divenire potenze globali? A questa globalizzazione delle pure politiche di potenza, incarnate anche dai grandi padroni privati della Rete, bisogna cominciare ad opporre una politica dei diritti altrettanto globale. Questa strategia più larga può incontrare l’opinione pubblica americana, dove già le associazioni per i diritti civili avevano avviato azioni giudiziarie e ora vi sono esplicite e diffuse manifestazioni di dissenso. Lì è vivo il “paradosso Snowden”, con l’evidente contraddizione legata alla volontà di perseguire proprio la persona che ha svelato le pratiche oggi ufficialmente ritenute illegittime. E non cediamo al riduzionismo, dicendo che si è sempre spiato e che, tanto, le tecnologie hanno già sancito la morte della privacy. Si è ormai aperta una partita che riguarda proprio i caratteri della democrazia al tempo della Rete, e questo terreno non può essere abbandonato.
Bisogna, allora, contestare la perentorietà dell’argomento che, in nome della lotta al terrorismo, vuole legittimare raccolte d’informazioni senza confini: da parte di molti, e in Italia lo ha fatto un esperto come Armando Spataro, si è dimostrata la pericolosità e l’inefficienza di raccolte d’informazione che non abbiano un fine ben determinato. Bisogna ricordare che la morte della privacy, troppe volte certificata, è una costruzione sociale che serve alle agenzie per la sicurezza di affermare il loro diritto di violare la sfera privata, visto che ad essa non corrisponde più alcun diritto. E serve ai signori della Rete, come Google o Facebook, per considerare le informazioni sugli utenti come loro proprietà assoluta, utilizzandole per qualsiasi finalità economica, come stanno già cercando di fare. Bisogna seguire la tecnologia e mettere a punto regole nuove per la tutela della privacy, com’è accaduto in passato, e con una nuova determinazione, dettata proprio dalla gravità degli ultimi fatti. Ma bisogna pure chiedersi se gli Stati, che oggi virtuosamente protestano contro gli Stati Uniti, hanno le carte in regola per quanto riguarda la tutela dei dati dei loro cittadini.
Se la posta in gioco è la democrazia, né cedimenti, né convenienze sono ammissibili.

Repubblica 26.10.13
“Putin sta soffocando la Russia serve una rivolta ispirata a Mandela”
Khodorkovsky: “Così vivo in prigione da dieci anni”
di Mikhail Khodorkovsky

SEGHEZIA (Russia) SONO dieci anni esatti oggi che mi trovo in prigione, in campi di detenzione e gulag della nuova Russia. Molte cose sono cambiate. Il mio figlio maggiore adesso ha una figlia che non è neppure più bambina: è la mia prima nipote e non l’ho mai vista. I miei figli più piccoli, che ho lasciato quando avevano quattro anni, sono più alti di me e sulla soglia dell’età adulta. Mia figlia sta per laurearsi. Mia moglie, che in tutti questi anni mi ha dato il suo sostegno, ormai è sola a casa. I miei genitori sono diventati molto anziani e la loro salute lascia molto a desiderare.
Anche il mondo intero è cambiato, e un bel po’. Io posso leggere soltanto i giornali, e ho accesso a lettori ebook e tablet. I miei famigliari mi dicono che non riconoscerei nemmeno più Mosca. Sullo sfondo di tutti questi cambiamenti, il mio mondo invece è pressoché fermo. C’è poca differenza tra i campi di baracche lungo la frontiera cinese dove ho trascorso la prima parte della mia condanna e quelle lungo la frontiera finlandese dovemi trovo adesso.
Il 25 ottobre 2003 veniva arrestato in Siberia Mikhail Khodorkovsky, allora uno degli uomini più ricchi di Russia, a capo della compagnia petrolifera Yukos, e oppositore di Vladimir Putin. Condannato per evasione fiscale e appropriazione indebita, è considerato un perseguitato politico. Ora è detenuto nella Colonia penale no. 7 in Karelia. Pubblichiamo il suo intervento sul New York Times, uscito nel decimo anno della sua prigionia.
ANCHE le persone sono quasi le stesse: ciascuno ha i suoi pensieri e il proprio triste destino. Ma io non sono mai diventato parte di questo sistema chiuso, e ho continuato a vivere attraverso gli avvenimenti che si svolgono in Russia e nel mondo. Mi raggiungono grazie ai giornali e a un numero incalcolabile di lettere e di storie raccontate da chi arriva «da fuori».
Ho assistito a come il mio paese si è arricchito grazie all’aumento dei prezzi del petrolio e del gas. I salari sono aumentati in modo significativo. Ma pure i prezzi dei prodotti e delle case si è impennato. Le ragioni sono ben note: monopolio di Stato, corruzione, amministrazione inefficiente. Molte persone di talento stanno abbandonando ilpaese: in appena dieci anni se ne sono andati all’estero più di due milioni di russi. Tre milioni di imprenditori sono stati perseguiti penalmente, e alcuni di loro — come Sergei L. Magnitsky e Vasily G. Aleksanyan — sono morti in conseguenza del fatto di trovarsi reclusi. Questa è la ragione per la quale in Russia c’è così poca innovazione.
Anche la posizione della Russia nel mondo è cambiata in egual misura. Il nostro paese, essendosi arricchito, ha iniziato a giocare un ruolo più attivo nell’arena globale. Purtroppo, il prestigio che si accompagna a tale successo è stato intaccato da episodi come la carcerazione delle Pussy Riot, il recente inopportuno arresto degli ecologisti di Greenpeace e il veto alle adozioni di bimbi russi da parte di cittadini americani. All’origine di ciascuno di questi avvenimenti c’è una medesima motivazione: un potere centrale irremovibile e fuori controllo, che sta perdendo la capacità di adattarsi a un mondo in continuo cambiamento. Oggi il sistema che guida il paese si chiama «Vladimir V. Putin». Nel paese il numero dei fautori di un cambiamento democratico di potere, che vada al di là del regime di Putin, è in calo, mentre lentamente ma inesorabilmente aumentano gli stati d’animo più radicali.
Quando un regime entra inconsapevolmente in una fase di decadimento irreversibile, ed è estremamente riluttante a lasciare allasua opposizione lo spazio per una reale competizione politica, l’unica speranza di cambiamento è riposta nel successo di un movimento di protesta pacifico, che abbia una base molto ampia. Un movimento del genere in Russia esiste e si ripropone l’obiettivo di costringere la parte razionale dell’élite al governo a negoziare sulla direzione da intraprendere e sulla velocità delle indispensabili riforme da implementare. Purtroppo, non può esserci una protesta pacifica senza vittime. Oggi di vittime ce ne sono tante: molti attivisti politici e simpatizzanti sono in prigione o stanno per andarvi.
Che cosa dovrebbe fare l’opposizione per raggiungere i propriobiettivi? Il movimento deve ispirarsi a Nelson Mandela che in Sudafrica è stato in grado di superare le ingiustizie subite a livello personale e i pregiudizi di classe e di razza per guidare il suo paese lungo la difficile strada che lo ha portato dalla guerra civile alla pace sociale. Il genio di Mandela sta nel fatto che quando è uscito di prigione invecedi sbattere la porta in faccia ai suoi carcerieri l’ha lasciata aperta, così che potessero uscire anche loro insieme a lui. Soltanto arrivare a un consenso nazionale offrirà alla Russia un’opportunità di sopravvivenza. Ma questo consenso deve essere raggiunto col presupposto del rispetto dei diritti di tutti, di ogni individuo e di ogni minoranza facente parte di quella società.
La Russia ha molto da offrire al mondo. Non siamo Asia e nemmeno Eurasia, ma una parte inscindibile dell’Europa. L’Europa tuttavia è alle prese con una crisi a più punte. Il suo tasso di progresso scientifico e tecnico non è tale da garantire sostegno economico adeguato al più che anticipato aumento della spesa per il welfare state. La società europea ha sopravvalutato leproprie capacità di integrare popolazioni diverse. Oggi la crisi europea è una sfida, ma è altresì un impulso forte per il cambiamento. Grazie a un’affinità culturale e storica, grazie alla vicinanza territoriale, la Russia è in grado di far parte di questa soluzione, e può mettere a disposizione la sua esperienza nella gestione di un territorio sterminato, un’economia differenziata e vari influssi culturali. La Russia e l’Europa devono trovare nuovi modi per lavorare insieme, molto più vicine di quanto si sia mai verificato.
Per il popolo russo, questa diventerebbe un’occasione concreta per colmare il divario che si è andato scavando tra un numero esiguo di russi che hanno una certa conoscenza dell’Europa moderna e vivono il suo stile di vita e il resto della popolazione del paese. Cambiare o essere annientati: questa da migliaia di anni è la scelta storica di ogni civiltà umana.
© 2013, International New York Times Traduzione di Anna Bissanti

La Stampa 26.10.13
Jet privati, vestiti e gioielli
Un terzo del lusso mondiale consumato dal 2% di cinesi
di I. M. S.

qui

Corriere 26.10.13
Napoli si riscopre cinese con un audace eros antico
di Marco Del Corona


La Cina oggi è tutto tranne che armoniosa. Lo sanno i cinesi, che ci vivono, e lo sanno i sinologi, che la studiano. Ma dietro i contrasti di una società che avanza a velocità azzardate, sta l’armonia che fu. La settimana di eventi che Napoli si offre, la 3ª edizione di «MilleunaCina», prende atto nel titolo, appunto, di questo doppio destino: L’uomo e il cielo: dall’armonia del Tao alla disarmonia della contemporaneità . Dice il direttore dell’Istituto Confucio, Annamaria Palermo, che ha concepito il cartellone dal 4 al 10 novembre (con un’anticipazione affidata a Bernardo Bertolucci e all’Ultimo imperatore in 3 D): «Vogliamo far scoprire alla nostra città il Paese attraverso i suoi aspetti pop ma mostrando anche le radici». Alle spalle, l’università Orientale, «prima accademia d’Occidente a insegnare il mandarino».
Tra il Pan (il Palazzo delle arti) e Villa Pignatelli, ecco allora atelier aperti al pubblico (sulla cerimonia del tè, aquiloni, calligrafia), proiezioni di film, presentazioni di libri, reading . Maddalena Crippa leggerà con Andrea Renzi e Mariano Rigillo la prima traduzione (firmata da Giovanni Vitiello) delle Avventure di un ragazzo brutto , «un testo del 1623, divertente e audace nel narrare amori gay e travestimenti ». E c’è in programma qualcosa di ancora più audace, considerato che gli Istituti Confucio sono un’emanazione diretta di Pechino e che sono spesso considerati strumenti della propaganda della Repubblica Popolare: una serata di prosa e poesia con pagine, tra gli altri, di Mo Yan, Nobel 2012, e anche di Gao Xingjian, Nobel nel 2000, anni dopo aver ottenuto la cittadinanza francese. Mo Yan è l’orgoglio di una Pechino che invece spregia o ignora Gao, il rinnegato. Invece Napoli ne ascolterà passi dai romanzi proposti insieme, nello stesso cartellone.

Corriere 26.10.13
«Io e le saudite guidiamo da sole: l’auto vuol dire istruzione e libertà»
Minacciate dal governo, rinviano la protesta. «Ma la battaglia continua»
di Eman Al Nafjan


All’ultimo il grande appuntamento di oggi è stato rimandato dalle attiviste saudite che da mesi preparavano una nuova azione dimostrativa contro il divieto di guida: dovevano scendere per strada in centinaia al volante di un’auto. Nella notte di ieri invece hanno ceduto alle minacce di azioni legali espresse dal governo e dichiarato che il previsto «drive-in» era rimandato «per prudenza e per rispetto» delle autorità. Negli scorsi giorni il governo aveva annunciato che era a rischio carcere anche chi sostiene la campagna per la guida, che resta comunque «aperta», hanno spiegato le organizzatrici, perché si basa su molti buoni motivi come spiega in questa pagina Eman Al Nafjan, blogger di Riad.
Se dovessimo riassumere in una sola parola la condizione della donna saudita, quella parola sarebbe paternalismo. Qualunque sia la sua età, per lo Stato resterà sempre minorenne. In Arabia il sistema patriarcale è portato alle estreme conseguenze. Il problema principale non sta tanto nel maschilismo della società, comune a tanti altri Paesi. Il vero problema è che il governo si rifà al modello patriarcale anche nei rapporti con i cittadini. Ogni donna è affidata a un «tutore legale» scelto tra i parenti più stretti, che può darla in sposa ancora bambina a un uomo più vecchio di decenni. Può impedirle di studiare, lavorare e prendere marito. Il tutore deve autorizzare ogni suo spostamento oltre i confini del Paese. Dal momento che l’istruzione di base è gratuita e chiunque frequenti le università pubbliche ha diritto a un sussidio statale, quasi sempre il tutore sceglie di mandare a scuola la sua affidataria. Nel caso in cui preferisca tenerla prigioniera in casa, tuttavia, la legge non offre alla giovane praticamente vie di fuga.
La legge che di fatto vieta alle donne di guidare è uno dei principali fattori che contribuisce a perpetuare il patriarcato di Stato. Il Paese è ancora privo di un servizio di trasporto pubblico. Al di fuori della Mecca nessun cittadino può muoversi in autobus o in metropolitana. Per compiere qualsiasi tragitto, dunque, le saudite devono non solo comprarsi un’auto, ma convincere un parente maschio ad accompagnarle o assumere un autista di qualche Paese asiatico. Non è solo un ostacolo nella vita quotidiana, ma un forte deterrente che spinge molte donne ad abbandonare qualsiasi percorso di studio o lavoro e persino a trascurare la propria salute.
Quando vengono interpellate sul divieto di guida, le autorità rispondono che non è previsto da alcun principio giuridico o islamico: rispecchia solo una consuetudine sociale. Perfino il Re lo ha riconosciuto. E dichiarazioni analoghe sono state pronunciate anche dal ministro della Giustizia, dal Presidente della Polizia religiosa e dal capo della Polizia stradale. Eppure, ogni volta che una donna si mette al volante non è la società a fermarla, ma la polizia. In molti casi, la guidatrice viene accompagnata al commissariato più vicino a consegnata al suo tutore. Entrambi devono poi dichiarare ufficialmente che l’episodio non si ripeterà più.
Dal 1990 a oggi vi sono stati vari tentativi di abolire il divieto di guida per le donne. Basti ricordare le proposte rivolte al Consiglio della Shura da Mohammad Al Zulfa nel 2006, e quella di Abdullah Al Alami del 2012. In entrambi i casi non è stato possibile neppure discuterle in aula. Diverse petizioni e richieste sono poi state sottoposte alla Corte Reale, ma non hanno quasi mai ricevuto risposta. E le campagne di protesta contro il divieto hanno suscitato ancora una volta la dura reazione del governo, non della società. Nel 1990, 47 donne sfilarono per le vie principali della capitale al volante della propria auto, ma il governo le fece sospendere dal lavoro vietando gli spostamenti. Nel giugno 2011, Manal Al Sharif ha pubblicato un video su YouTube in cui esortava tutte le donne a sfidare il divieto mettendosi al volante: è stata punita con più di una settimana di carcere.
L’ultima campagna è nota come «October 26th Women Driving Campaign». A rendere speciale questo evento è il fatto che è stato promosso dal primo vero movimento civile dell’Arabia: un movimento senza volto, la cui petizione è stata scritta da più di 30 persone, molte delle quali neppure si conoscono. Il testo ha subìto modifiche anche nei due giorni successivi alla pubblicazione, prima della versione definitiva approvata il terzo giorno. I suoi firmatari nono sono considerati semplici attivisti, ma veri e propri leader in grado di prendere iniziative e agire in nome del movimento. Sono stati creati un canale apposito su YouTube e un profilo su Instagram dove i sostenitori possono caricare video e foto di donne alla guida o comunicare in modo creativo. Con questi strumenti, il movimento intende non solo a indurre il governo a prendere una posizione chiara riguardo al divieto, ma anche dimostrare che la autorità non possono più accampare la scusa della «società».
(Traduzione di Enrico Del Sero)

Repubblica 26.10.13
Il fotografo del lager
L’uomo che documentò il Male
Il polacco Wilhelm Brasse, internato ad Auschwitz, aveva il compito di ritrarre tutti i prigionieri
Le immagini sono rimaste perché disobbedì all’ordine di bruciarle
Un libro racconta la sua vicenda
di Michele Smargiassi


Come il Crematorium, anche lo studio fotografico di Auschwitz era organizzato per smaltire con rapidità ed efficienza un numero elevatissimo di corpi diuntermensch. Lo sgabello per la posa, un cubo di legno, veniva fatto girare su se stesso da un pedale azionato dal fotografo che così, senza allontanarsi dalla fotocamera, in pochi secondi impressionava le tre “viste” d’ordinanza: fronte, profilo e trequarti. Ma ilkapò Maltz ne approfittava per un suo divertimento extra: quando l’internato accennava faticosamente ad alzarsi, con un colpo al pedale lo proiettava a terra violentemente, tra le risate degli aguzzini annoiati.
Non rideva Wilhelm Brasse, il fotografo di Auschwitz. Confusamente, forse, intuiva che quello scherzo crudele, in fondo insignificante rispetto al resto, svelava la natura del compito a cui era stato assegnato: il prelievo forzoso dell’identità, tappa della degradazione che era premessa all’eliminazione. La camera oscura come anticamera della camera a gas. Brasse era un internato: polacco, non ebreo, anzi ariano, ma renitente all’arruolamento nella Wehrmacht, gli si era aperto davanti il cancello fatale, ma per lui la scritta che vi campeggiava sopra, “il lavoro rende liberi”, per una volta diceva la verità. Il suo mestiere lo salvò. In cambio lui, rischiando la vita, salvò dalla distruzione e preservò per i nostri occhi allucinati i documenti del “maleassoluto”, oltre cinquantamila ritratti di sterminandi, e visioni di altri orrori.
La vita di Wilhelm Brasse, Il fotografo di Auschwitz, è ora narrata da Luca Crippa e Maurizio Onnis (Piemme, 336 pagine, 14,90 euro) nella formula del romanzo-verità che sembra incontrare il ricorrente favore degli storici della Shoah alle prese con fonti visive tanto forti quanto ambigue (vedi Il Bambinodi Dan Porat, ricostruzione romanzata dello sterminio del ghetto di Varsavia condotta partendo dai famigerati album- souvenir del massacratore Stroop).
In verità, Brasse non fu l’unico fotografo dei Campi: come lui lavorarono ad esempio Georges Angéli a Buchenwald, Francisco Boix a Mauthausen. La segnaletica dello sterminio, che includeva la catalogazione fotografica minuziosa delle vittime, dipendeva da una direttiva generalizzata.Ma è grazie a Brasse che sappiamo come tutto ciò avvenisse in pratica. Basato sui racconti che l’anziano piegato superstite rese a un documentario televisivo polacco nel 2005, The Portraitist, e in un libro-intervista britannico, come tutte le docu-fiction anche Il fotografo di Auschwitz accetta il rischio di mettere il lettore nell’incertezza fra testimonianze dirette e ipotesi narrative, sentimenti del protagonista e completamenti degli autori. Che spiegano: «Era l’unico modo per entrare nei silenzi di Brasse, e renderli eloquenti».
Internato nel 1941 col numero 3444, Brasse è un privilegiato, e ne è consapevole. Il lavoro ufficiale gli garantisce la vita, mentre quello ufficioso (ritrattiper gli ufficiali) gli procura qualche agio di contrabbando, cibo, sigarette. Per cinque anni si vede sfilare davanti i volti e i corpi dei morituri. Sa cosa succede fuori dalla baracca-studio del blocco 26 da cui evita più che può di uscire. Se non lo sapesse, glielo direbbero i volti che il suo obiettivo cattura: ebrei emaciati, prigionieri russi, zingari pesti, ragazzine quasi bambine. Ravvivati dalla narrazione, gli episodi della memoria di Brasse prendono vita. Neppure gli autori però osano prestare al loro protagonista romanzato la coscienza che le sue fotografie, e quindi il suo stesso lavoro, non sono i documenti burocratici di uno sterminio, ma ne sono uno strumento letale.Quelle foto servono per attestare, scrive Clément Chéroux, studioso della fotografia nei lager, «la conformità del detenuto agli standard fisici e sociali» del reietto, dai quali dipende la sua eliminabilità. Dunque, anche lo scatto della fotocamera di Brasse uccide. E lui stesso è un perpetratore di olocausto. Perché quei corpi, ricorda, «una volta fotografati, diventavano immediatamenteinutili». Evitare certi pensieri è la condizione della sopravvivenza psichica nella distopia concentrazionaria. Qualche ritocco, di nascosto, e Brasse ingentilisce i tratti di un condannato: piccolo regalo clandestino di dignità «perché gli esploratori del futuro si rendessero conto di avere di fronte uomini e non bestie». Ma ogni difesa crolla quando gli viene chiesto di documentare i “pazienti” del dottor Mengele (ecco quattro ragazzine scheletriche, nude, derubate anche dal pudore per i corpicini che non hanno più nulla da mostrare), e poi gli esiti sanguinolenti dei suoi esperimenti, spesso praticati davanti all’obiettivo per non perdere l’atroce attimo fuggente. Qui forse matura la sorda, istintiva decisione di ribellarsi in qualche modo: alla vigilia della caduta degli dèi con la svastica, Brasse inizia a collaborare con la resistenza polacca del campo, e all’ultimo, nel fuggi-fuggi letale, con l’Armata rossa alle porte, decide a rischio della vita di disobbedire all’ordine di bruciare tutto l’archivio. Abbandona decine di migliaia di immagini nella baracca dove i russi le troveranno. Confusamente, Brasse ha intuito che quelle foto immonde, se non potranno mai riscattarsi dalla loro colpa, possono almeno essere costrette a rendere la loro infame testimonianza alla storia. Quanto a lui, se la vedrà per tutta la sua lunga vita (è morto un anno fa) con la sua coscienza di sopravvissuto.
Oggi molte di quelle immagini (non quelle più intollerabili, tuttora segrete) sono visibili allo Yad Vashem e al museo di Auschwitz. I volti delle ragazzine, nel libro, ci guardano ancora vivi. L’anagrafe degli aguzzini ci trasmette i loro nomi. Czeslawa ha il labbro spaccato da un ceffone della kapò. Rozalia ha un pettinino nei capelli biondi. Krystyna, quattordicenne, guarda qualcosa fuori dalla cornice, e sembra sorridere.
IL LIBRO Il fotografo di Auschwitz di Luca Crippa e Maurizio Onnis Piemme euro 14,90

l’Unità 26.10.13
Hedda la dannata
Ibsen secondo Ostermeier al Romaeuropa festival
di Rossella Battisti


Con stile spigliato e grintoso lo spettacolo punta sul personaggio-chiave della femmina folle che fa saltare tutte le convenzioni

DOVREMMO IMPARARE DAI TEDESCHI A VALORIZZARE I GIOVANI ARTISTI QUANDO SE NE INTRAVEDE IL TALENTO. Prendi uno come Thomas Ostermeier, oggi regista 45enne celebrato internazionalmente mentre va a spasso con successo con la più prestigiosa compagine di attori della Germania, quelli della Schaubühne di Berlino. Beh, a 31 anni ne era già direttore, con un tempo utile per maturare (i primi lavori «istituzionali» non furono apprezzatissimi) e tirar fuori quello stile spigliato, grintoso, carnale che è adesso la cifra migliore dei suoi allestimenti. Capace di convincere anche a distanza di anni, come per l’Hedda Gabler del 2005, riportata in scena all’Argentina nell’ambito di Romaeuropa Festival (replica fino a domenica).
Terzo Ibsen dopo Casa di bambola del 2002 e Un nemico del popolo andato in scena quest’anno alla Biennale di Venezia Hedda Gabler viene affrontata da Ostermeier dopo aver trattato molti contemporanei, soprattutto la generazione dei new angry writers inglesi e non è un caso che nello stesso periodo stesse maneggiando un’autrice lacerata come Sarah Kane (Dannati, allestimento pure risalente al 2005). Anche Hedda, a suo modo, è una dannata, un’irrequieta irrisolta, rifugiatasi in un matrimonio di convenienza che da subito la annoia. Costretta a vedersi sfilare nel salotto di casa fantasmi che la tormentano, a cominciare da Julie (Lore Stefanek), la zia-chioccia del marito, emblema di una vita tutta casa e pantofole. E per finire all’ex amante segreto e sopra le righe, Lovborg, che pur nella sua sbilenca postura esistenziale è riuscito a scrivere un testo geniale, in grado di sbalzare dalla promessa poltrona universitaria il mediocre marito di Hedda.
Nell’asfittico cerchio in cui si dibatte la giovane donna entrano in sopraggiunta Thea, nuova musa di Lovborg, e Brack , aspirante punta di un triangolo sessuale che la stessa Hedda incita a comporre. Un groviglio minato di emozioni e risentimenti, che infatti esploderanno facendo morti e feriti.
Della trama ibseniana che già nel 1890 mostrava sorprendenti connotati contemporanei, Ostermeier recupera tutti gli umori urticanti, senza preoccuparsi di operazioni filologiche, ma andando dritto al punto, al personaggio-chiave, alla femmina folle che fa saltare l’ingranaggio ammuffito delle convenzioni. Una Betty Blue bellissima e fatale che Katharina Schüttler calza con stizzito magnetismo (e pensando che è la stessa interprete di otto anni fa, immaginiamo quale impatto abbia avuto, giovanissima, sulla platea). Attorno a lei, sole nero di passioni oscure, ruotano gli altri protagonisti, fisicamente e materialmente, grazie alla piattaforma girevole che lo scenografo Jan Pappelbaum ha ideato senza lesinare mezzi. È uno spaccato lussuoso di interni e di esterni, sfavillante di vetrate che si aprono e facciate dove si riflettono le ombre della mente o i bagliori della città oltre il giardino. Una casa di bambola squadernata agli occhi degli spettatori, con uno specchio dall’alto che non lascia neppure un angolo al buio come l’occhio di un grande fratello onnipresente e claustrofobico. Ma è anche un labirinto di pulsioni inespresse, dove sugli assi perpendicolari Hedda, falena impazzita, finirà per crocifiggersi solitaria con un colpo di pistola.
In questo dialogo serrato fra scena e azione c’è il segreto della felicità dell’allestimento, a cui mette mano aggiornando il testo con opportuni scartamenti temporali Marius von Mayenburg, ovvero una sinergia di atti creativi in cui ognuno mette del suo. Non si può leggere la regia senza l’intervento dello scenografo, non c’è Ostermeier, insomma, senza Pappelbaum, mentre trasformano insieme la donna annoiata di Ibsen nel salotto borghese in anima selvaggia messa in un recinto hi-tec.
Ostermeier scolpisce i suoi attori, ritaglia su misura (anzi diremmo per la loro taglia fisica) i personaggi, li fa interagire per gesti, palpeggiamenti, scatti nervosi: allampanato e bamboccione il Tesman di Lars Eidinger, elettrico e schizzato Kay B. Schulze come Lovborg, insidioso e tentacolare il Brack di Jorg Hartmann e sull’orlo perenne di una crisi di pianto o di nervi la Thea di Annedore Bauer. Su tutti spadroneggia la Hedda spudorata e vulnerabile, manipolatoria e manipolata di Katharina Schüttler. E tutti vengono racchiusi nell’acquario delle vanità di Pappelbaum. Una gabbia perfetta. Uno spettacolo da ricordare.

l’Unità 26.10.13
La Tv in analisi. Il lettino e la fiction
Gli psicoanalisti della Spi recensiscono la serie televisiva «In Treatment»
di Pietro Roberto Goisis
Psichiatra Psicoanalista Spi


Pregi, qualità e difetti dello sceneggiato con Sergio Castellitto che, dopo Sky, sta per essere trasmesso in chiaro su La7
La cosa migliore è la rappresentazione del rapporto tra il terapeuta e l’adolescente

«VOGLIO SAPERE, VOGLIO VEDERE DAVVERO QUELLO CHE SUCCEDE DENTRO QUELLA STANZA!», «Ma cosa vi dite quando vi incontrate? Di cosa parlate per 45 minuti?». Al di là di un fisiologico bisogno voyeuristico, questo desiderio accomuna molte persone e molti psicoanalisti. È legittimo. Chi vuole andare in terapia ha bisogno di avere un’idea di cosa accade. Tra noi psicoanalisti, per confrontarci con sincerità, è necessario sapere cosa diciamo.
In Treatment, senza mai dimenticarci che è in primo luogo uno sceneggiato che parla della vita di un terapeuta e dei suoi pazienti e, solo di conseguenza, parla di psicoterapia, tra le tante funzioni ha assolto anche a questo compito. Onorario compreso.
La serie trasmessa su Sky nasce in realtà in Israele nel 2005, Be Tipul, dove ha ottenuto un grande successo di pubblico e critica (e di interesse per la psicoanalisi con un significativo aumento delle richieste di trattamento presso i colleghi israeliani). Il format venne poi ripreso anche dall’edizione Hbo che è uscita nel 2008. Nello stesso anno uscì la seconda serie israeliana, nuovamente replicata negli Usa nel 2009, dove nel 2010 è stata trasmessa la terza e, per ora, ultima serie. La prima serie è stata poi replicata finora in altri tredici Paesi del mondo. In Italia nel 2013.
Ne è stato artefice e ideatore Hagai Levi, israeliano, figlio di una famiglia italiana, regista, scrittore e produttore, con esperienze di psicoterapia fin da bambino. Al suo fianco ha lavorato fin dall’inizio Nir Bergman, regista e sceneggiatore israeliano, in analisi in quel momento. Il loro progetto si è infine avvalso della collaborazione come consulente di Roni Baht, israeliano, psicologo clinico e psicoanalista a orientamento relazionale.
Ci sono state varie occasioni nelle quali i tre protagonisti si sono confrontati con il pubblico e con gli specialisti. È stato ad esempio sottolineato lo stretto apparentamento che esiste tra il lavoro «maieutico» dello sceneggiatore e quello del terapista. Secondo Levi, sotto certi aspetti, il lavoro dello psicanalista e quello dello sceneggiatore sono molto simili, perché quest’ultimo cerca di comprendere le motivazioni del suo personaggio esattamente come il terapista tenta di scavare nel profondo dei suoi pazienti. L’unica differenza è che lo sceneggiatore compie un lavoro di costruzione sui personaggi, mentre lo psicanalista deve invece decostruire il comportamento del paziente. Senza dimenticare che nel prodotto finito sono innumerevoli e varie le figure coinvolte. Ad esempio penso che il montaggio svolga in questa serie televisiva un lavoro fondamentale, più che in ogni altra serie. È proprio il montaggio, infatti, che dà un taglio cinematografico alle scene e che ha permesso di ricreare il linguaggio non verbale dei personaggi, come l’incontro di sguardi e il gioco dei movimenti che si scambiano durante le sedute. Per la serie originale è stato scelto un luogo chiuso lo studio del terapista che però fosse attiguo alla sua abitazione, in modo da dare l’idea di una possibile contaminazione tra vita personale e professionale. Al tempo stesso si tratta di un luogo che non è mai completamente ermetico, ma si apre in ogni puntata verso l’esterno.
Nel format della versione italiana è mostrato uno psicoterapeuta di mezza età, Giovanni, noto e rispettato nel suo ambiente professionale, al lavoro con alcuni suoi pazienti. Il lunedì con Sara, una giovane e affascinante anestesista in difficoltà nelle relazioni sentimentali; il martedì con Dario, un carabiniere in congedo provvisorio dopo aver svolto una missione segreta dagli esiti drammatici; il mercoledì con Alice, una adolescente, giovane promessa della danza, alle prese con una sindrome post-traumatica; il giovedì con Pietro e Lea, una coppia in crisi da molti punti di vista. Il venerdì, infine, con un vero e proprio colpo di scena, ci troviamo a conoscere il lato debole dello psicoterapeuta, mentre va a parlare con una collega, Anna, per quella che è difficile definire come supervisione o terapia personale. Il tutto si ripete per sette settimane (nove nell’originale).
Come psicoanalisti della Spi (Società Psicoanalitica Italiana) abbiamo seguito l’evolversi delle puntate con due serie di commenti: una collaborazione settimanale con sky.it e un dossier specifico su spiweb.it.
Giovanni secondo il mio stile e il mio modo di essere uno psicoanalista commette degli «errori». Anzi, potremmo dire, i filmati delle puntate potrebbero benissimo essere usate per delle lezioni del genere «scoviamo l’errore...». In realtà, chi di noi non commette mai errori? D’altra parte Giovanni è anche un analista molto attento, ascolta con pazienza, cerca di sviluppare e stimolare la capacità di pensare dei suoi pazienti, partecipa ai loro racconti, si mette in gioco, coltiva il dubbio e la riflessione. Sembra davvero ben rappresentare, con le parole di Luciana Nissim, «due persone che parlano in una stanza».
A volte, poi, parla più con i gesti che con le parole. Non tutti, e non sempre, sono capaci di gesti e di comunicazioni di questo tipo e al momento giusto. Certamente è anche un semplice essere umano, ora in difficoltà, in un momento di crisi. A tratti è pure difficile aiutarlo come ci mostra bene il suo rapporto conflittuale con Anna, la sua supervisore/terapeuta. Aspetto che consente di capire maggiormente la complessità di una terapia e di una professione.
Un pregio particolare della serie, a mio avviso, è stato quello di mostrare un terapeuta al lavoro con un adolescente. Fin dalla prima visione di Be Tipul nel 2005 ebbi la sensazione che il personaggio dell’adolescente (Ayala) fosse il più riuscito. L’incontro con Sophie nella versione Hbo, esaltata dalla straordinaria interpretazione di Mia Wasikowska (ora una delle migliori e apprezzate attrici emergenti) fece il resto. La mia sensazione è quella di una relazione caratterizzata da una attenzione reale, partecipe e curiosa, desiderosa di osservare l’evolversi degli eventi prima di intervenire. D’altra parte lo stesso attore, in una bella intervista, ha espresso la sua sensazione e valutazione personale rispetto al fatto che l’episodio di Alice sia la cifra essenziale e centrale di tutto il progetto.
Penso proprio che la rappresentazione e la finzione scenica sembrano confermare che il lavoro con gli adolescenti ha davvero contribuito allo sviluppo del paradigma relazionale nella pratica analitica. È stata davvero la ricerca di un tentativo di accedere alla cura di situazioni cliniche inesplorate, tra le quali erano spesso annoverate quelli degli adolescenti.

Repubblica 26.10.13
Le nuove frontiere del disagio civile
Un saggio a quattro voci aggiorna lo storico conflitto tra individuo e società
di Roberto Esposito


Fin da quando comparve, nel 1929, la fortuna del celebre saggio di Freud Il disagio della civiltànon è stata omogenea. La tesi di una inevitabile opposizione tra le aspirazioni alla felicità dell’individuo e le costrizioni che la civiltà gli impone è suonata ad alcuni rigida e ad altri generica. Eppure, a quasi un secolo di distanza, l’impronta che esso ha lasciato resta profonda. Almeno in relazione a due questioni decisive. Vale a dire all’intreccio tra dimensione psicologica e sfera sociale e al rapporto tra invarianti biologiche e mutamento storico. Precisamente intorno ad esse dialogano in maniera serrata il filosofo Massimo De Carolis, i due psicoanalisti Francesco Napolitano e Massimo Recalcati e la saggista Francesca Borrelli, cui si deve anche la nitida introduzione al volume edito da Einaudi col titolo Nuovi disagi nella civiltà. Un dialogo a quattro voci.
In particolare sulla relazione complessa tra biologia e storia si erano già confrontati, nel 1971, Noam Chomsky e Michel Foucault, con esiti tutt’altro che risolutivi. Mentre il primo insisteva sul carattere innato della facoltà del linguaggio, il secondo respingeva la stessa idea di natura umana, considerandola una costruzione di tipo storico-sociale. Un’obiezione non troppo diversa da quella rivolta a Freud da Marcuse inEros e civiltà.Da allora la situazione è nettamente cambiata — basti pensare alle novità dirompenti dovute allo sviluppo dell’ingegneria genetica — , ma le questioni aperte da Freud appaiono tutt’altro che esaurite. Ciò che i quattro autori condividono è da un lato l’esigenza di superare la tradizionale dicotomia tra scienze della natura e scienze umane; dall’altro il netto rifiuto di un riduzionismo cognitivista, che riduca l’attività del pensiero e della volontà a puri processi neurochimici presenti nel cervello. Se così fosse, l’apparato psichico degli individui verrebbe trattato come un sistema governato da rigidi nessi di causa ed effetto. A venire esclusa, in questo caso, sarebbe quella distinzione tra il senso delle parole e delle azioni e la loro produzione materiale, rivendicata nel Novecento da filosofi come Frege e Husserl, Heidegger e Wittgenstein.
Ma se questo è il presupposto comune degli autori, diversi sono gli argomenti e le conclusioni che ne traggono. Proprio qui, anzi — in tale conflitto delle interpretazioni — risiede il maggior interesse del libro. In quale falda originaria affonda il disagio di cui parla Freud? Nonostante le infinite mutazioni di contesto, l’umanità è in fondo sempre la stessa o è andata incontro a una serie di trasformazioni antropologiche che ne hanno radicalmente cambiato i connotati? Quale rapporto passa tra il “da sempre” e il “solo adesso” — come si esprime Francesca Borrelli, rammentando, con Musil, che «non si può fare il broncio al proprio tempo senza riportarne danno»? De Carolis è colui che si spinge più avanti nella ricerca degli incroci tra invarianti biologiche e condizione contemporanea. Basti pensare al modo in cui oggi vengono sempre di più messe al lavoro attitudini congenite della specie umana come la facoltà creativa del linguaggio e la duttilità nei confronti dell’ambiente. Ciò non esclude, sul piano delle patologie, metamorfosi rilevanti come quella che trasforma l’antico complesso di colpa per ciò che si fa nel nuovo senso di vergogna per ciò che si è.
Quanto, poi, a Napolitano e Recalcati, a differenziarne le posizioni è il diverso punto di riferimento all’interno della scuola psicoanalitica — Freud per il primo e Lacan per il secondo. Per Napolitano anche i più sensibili mutamenti — come quello relativo al nesso tra tempo e denaro — vanno ricondotti al filo di continuità che percorre l’intera modernità. Per Recalcati — cui dobbiamo un profondo rinnovamento degli studi psicoanalitici in Italia — la replica di certi fenomeni non cancella le soglie di discontinuità che modificano in radice la fisionomia del nostro tempo. Ciò che caratterizza l’età ipermoderna è la progressiva scomparsa del desiderio, travolto dalla ricerca di un godimento talmente illimitato da divenire autodistruttivo. Che il paradigma centrale del capitalismo finanziario sia il consumo, come sostiene Recalcati, o il debito come ritiene De Carolis, non è poi il punto decisivo — dal momento che si può interpretare l’uno come il rovescio dell’altro. Ciò che più conta è ripristinare quella funzione simbolica schiacciata tra eccesso di immaginario e una pulsione di morte che sembra spezzare ogni legame sociale. Senza di che i disagi della civiltà diverranno la cifra costitutiva del nostro tempo.
IL LIBRO Nuovi disagi nella civiltà di F. Borrelli, M. De Carolis, F. Napolitano e M. Recalcati (Einaudi, pagg. 202, 19 euro)

il Fatto 26.10.13
Nuove vite
L’immaginazione (e i leader) che mancano alla politica
di Maurizio Viroli


Vivere o ricominciare una nuova vita è una delle aspirazioni più tenaci e diffuse degli esseri umani. Fin dalla nostra infanzia, ci spiega Remo Bodei nel suo ultimo libro Immaginare altre vite (Feltrinelli), “le fiabe, i racconti di viaggio e di avventura, le poesie, i romanzi, i libri di storia, i testi filosofici, il teatro, il cinema, la televisione, Internet (o, a livello popolare e in periodi diversi, le canzoni, il feuilleton, i fumetti, i fotoromanzi e i videogiochi) ci stanano dalla chiusura in noi stessi e ci mostrano le infinite possibilità dell’esistenza”. A permetterci di vedere vite diverse e nuove è l’immaginazione. Facoltàpericolosa, ammonivaCroce, che porta la persona a fantasticare oziosamente, paralizza e snerva la volontà, e incoraggia la mente a vagare in progetti che sappiamo essere irrealizzabili. Robert Luis Stevenson ci dice invece che “la vera vita dell’uomo, per la quale egli accetta di vivere, ha luogo tutto sommato, nel campo dell’immaginazione”. Il nostro tempo è caratterizzato da un’espansione della possibilità di immaginare altre vite sconosciuta nei secoli passati. I nuovi mezzi di comunicazione mettono a disposizione centinaia o migliaia di storie e vite nelle quali possiamo identificarci. È noto a tutti che bambini e adulti trascorrono ore davanti alla televisione o a navigare la Rete assorbendo un numero sterminato di trame, di modelli, di racconti, di personaggi che lentamente, ma inesorabilmente, modellano la loro personalità. Ed è altrettanto noto che protrarre l’uso del-l’immaginazione indebolisce il senso della realtà, fino al punto di diventare come Don Chisciotte che credeva che il mondo fosse quello descritto dai romanzi sulla cavalleria e si comportava di conseguenza, rimediando cocenti delusioni e disastrose sconfitte. O, peggio ancora, di perpetrare autentici crimini credendo di ripetere soltanto un gioco praticato sullo schermo di un computer. Con l’espansione dell’immaginazione viene dunque “abbassato il livello di vigilanza della coscienza critica sul mondo? ”. L’incontro con altre vite possibili mette in pericolo “la consistenza della propria identità”, si chiede Bodei. E giustamente risponde che, ferma la superiorità della realtà sull’immaginazione, quest’ultima può avere un effetto benefico perché ci lascia intravedere altre vite e ci incoraggia a iniziarne una nuova, quando quella che viviamo quotidianamente è diventata grigia, malinconica, triste.
E NELLA VITA politica? L’immaginazione è sempre stata nei secoli la madre delle grandi esperienze di emancipazione. Se milioni di uomini e di donne non avessero immaginato una vita radicalmente diversa, libera dallo sfruttamento, dall’oppressione, dalla discriminazione, dalla continua e feroce umiliazione della dignità personale, non ci sarebbero stati né i movimenti di emancipazione nazionale, né il movimento socialista, né i movimenti per i diritti civili, né i movimenti per l’emancipazione delle donne. In Italia, in particolare, non avremmo avuto né il Risorgimento né la Resistenza antifascista, due esperienze sostenute in misura rilevante dall’aspirazione di molti uomini e donne a una vita nuova.
Sarebbe stato meglio, potrebbe rispondere lo scettico che giudica i movimenti di emancipazione niente altro che pericolosi fonti di anarchia e violenza, o inutili e fastidiosi turbamenti della sobria politica degli esperti. È vero esattamente l’opposto: quando l’immaginazione non può esprimersi nello sforzo collettivo di cambiare la realtà secondo ideali, rifluisce nella cieca volontà di distruggere se stessi e gli altri per esprimere un’ultima e inutile protesta contro la realtà. Non è del-l’immaginazione che dobbiamo aver paura, ma dell’immaginazione non più temperata dalla saggezza e dalla forza degli ideali.
Ma l’immaginazione è ormai assente da molti decenni dal nostro scenario, e, credo, dallo scenario europeo. La nostra vita politica oscilla malinconicamente fra le pretese dei delinquenti e dei corrotti, sostenute dai loro cortigiani, di poter imporre la loro volontà e violare impunemente le leggi, e la rassegnata collaborazione delle persone oneste con i delinquenti in nome della stabilità, del rispetto di vincoli imposti dalla realtà internazionale, o dalla necessità della ripresa economica, tutte esigenze che di immaginazione politica ne richiedono poca. Ma senza immaginazione politica, e soprattutto senza leader che abbiano la grandezza d’animo capace di suscitarla, non c’è mai stata rinascita civile e politica.
IMMAGINARE ALTRE VITE di Remo Bodei Feltrinelli, pag 272

La Stampa TuttoLibri 26.10.13
Che menzogna l’Africa dei selvaggi
I viaggi di Frobenius all’inizio dell’800
di Domenico Quirico

qui

La Stampa TuttoLibri 26.10.13
Serena Vitale: «Majakovskij? Nessun complotto»
di Mirella Serri

qui

l’Unità 26.10.13
La manutenzione della bellezza
Strinati, vent’anni spesi nella cura dei beni culturali della città eterna
intervista di Jolanda Bufalini


Le battaglie e le sconfitte dell’ex sovrintendente romano: dall’apertura della Galleria Borghese al (criticato) restauro del Colosseo affidato a un privato
«Il ministero è come il circolo Pickwick, ci si dà un gran da fare ma si perde di vista lo scopo»

ROMA LA CONVERSAZIONE CON CLAUDIO STRINATI È SPIAZZANTE. Ha servito nei ranghi del ministero dei Beni culturali fino a pochi giorni fa, quando è andato in pensione. Come soprintendente statale a Roma, ai beni storico artistici e ai beni museali, ha ottenuto successi importanti. Due per tutti: la riapertura della Galleria Borghese, il trasloco del circolo ufficiali da palazzo Barberini. Lui stesso dice di sé: «In tanti anni di lavoro con diversi ministri è chiaro che si cerchino anche soluzioni di compromesso». Però, su tutela e valorizzazione, viene prima di tutto fuori l’amante della storia dell’arte e una visione utopica. Emergono idee spiazzanti, nutrite di una grandissima erudizione. E le impuntature con il potere politico pagate care. Professore, cosa successe con la mostra «Il potere e la grazia», nel 2009?
«Era una mostra importantissima per Berlusconi e per il cardinale Bertone. Una mostra che non direi brutta ma, insomma... decorativa. Io non volevo concedere un fondo che serviva per un altro progetto della Soprintendenza. Nacque l’attrito. A palazzo Venezia ho ospitato, prima di questa, tante mostre private, però ho sempre cercato di privilegiare lo Stato. Chiesi sostegno al segretario generale senza rendermi conto che lui era iperfavorevole a quella iniziativa».
Chi era il segretario generale?
«Roberto Cecchi, che è un amico e mi consigliò di non assumere quell’atteggiamento. Io non gli diedi retta e lui non si oppose alla mia rimozione. Non gliene voglio per questo, in qualche modo mi sono auto danneggiato. In quel momento il potere di Berlusconi era fortissimo e, io, ero in carica da vent’anni. Era tempo, ma la cosa fu fatta in modo punitivo, in questo, mi sembra di aver subito un torto».
Recentemente ha sostenuto che il Mibac assomiglia al circolo Pickwich di Charles Dickens. Perché?
«Al ministero, come nel circolo Pickwick, talvolta, ci si dà un gran da fare ma si perde di vista lo scopo. Si è creata una direzione generale per la valorizzazione per poi scoprire che non funziona, che non c’è una strategia».
È contrario ai manager?
«Il manager opera in una banca o in una azienda ma un ministero è un ministero, è più facile orientare l’azione delle figure istituzionali in senso manageriale (con tutti gli strumenti e le collaborazioni necessarie), che sostituire storici dell’arte, archeologi, architetti, bibliotecari, archivisti con una figura astratta di manager. Tanto è vero che non si è creata nessuna gestione. Oppure bisognerebbe dire che i beni culturali non sono tanto importanti. Ma tutti dicono il contrario».
Poiché non si può vendere il Colosseo ...
«Lo sfruttamento manageriale del Colosseo è stato un errore culturale. Il Colosseo non è un museo ma un monumento nel contesto urbano, un organismo vivente nella città».
Ma la biglietteria ...
«Una biglietteria strepitosa ma sono convinto che i beni culturali di Roma possano prosperare in altro modo. Ci sono tanti tipi di beni culturali, il Colosseo è un monumento, la storia ce lo ha consegnato aperto, non con le sbarre. Sarebbe un segno di civiltà altissimo se sindaco e governo lo rendessero totalmente disponibile, aperto e fruibile. Naturalmente vigilato nel modo più sofisticato ed efficace».
Niente file chilometriche, meno centurioni e ambulanti. Però c’è il contratto con Diego Della Valle... «Infatti, temo che sia un discorso utopico. Però l’immagine del Colosseo da cui Della Valle trae, per un periodo di tempo, il suo lecito guadagno, è legata al restauro».
Perché considera Raffaello Sanzio il primo soprintendente di Roma?
«Raffaello aveva un grande potere, avrebbe potuto chiedere al Papa qualsiasi cosa. Decise di mettere al servizio dello Stato pontificio le sue qualità artistiche e di conoscitore delle antichità. Ottenne un potere prefettizio, che andrebbe bene pure oggi, accrescendo l’autorità dei beni culturali».
Le soprintendenze, soprattutto a Roma, hanno storicamente avuto molti conflitti con altri poteri. L’ex assessore Borgna ha ricordato recentemente l’episodio del divieto allo spettacolo di luci di Greenaway a piazza del Popolo.
«Ci sono poteri di veto basati su presupposti culturali che la storia ha rivisto. È meglio un potere prefettizio su una base culturale più ampia che un potere di veto su presupposti miopi. A Roma, come prevede la legge di Roma capitale, molti problemi potrebbero essere risolti con l’esercizio di un potere unitario di comune e Stato. Certo, accade che chi ha potere lo utilizzi per fare un dispetto ma gli errori degli uomini non devono essere confusi con la forza dell’istituzione. La Chiesa cattolica si regge da millenni su questa distinzione. Si dovrebbe osare, in un contesto realmente democratico. L’Amministrazione dello Stato, invece, ha sofferto di un indebolimento della democrazia interna e la crisi della democrazia ha prodotto un eccesso di personalismo».
Come si riuscì ad aprire la Galleria Borghese?
«Walter Veltroni, ministro e vicepremier, diede una spinta fortissima. Telefonava ogni momento per sapere a che punto eravamo e se era stato fatto questo o quello. Ma ci mise nelle migliori condizioni per lavorare, superando ostacoli economici e di impostazione. C’era stato un adagiarsi su soluzioni parziali, invece il ministro sosteneva che il primo museo del mondo, doveva essere anche il più funzionante del mondo. Ci fu un impegno scientifico non indifferente, per il restauro e per l’adeguamento. La villa del 600 era quanto di più lontano dalle regole attuali sulla sicurezza. Ne è risultato un vero modello di come si possa tutelare un monumento antico e valorizzarlo».
E come riuscì a far traslocare gli ufficiali da palazzo Barberini?
«Con una soluzione gattopardesca che ha consentito di mantenere buoni rapporti con il ministero della Difesa. È la massima rovesciata di “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Infatti nel complesso di palazzo Barberini, nel giardino, c’è una palazzina del XIX secolo, il villino Savorgnan di Brazzà, che ora ospita il circolo. I militari sono usciti ma non sono usciti dal palazzo». Come possono convivere, a Roma, città antica e città contemporanea?
«La città antica è ovunque, non può non essere vivente. E può essere vissuta, fare parte del quotidiano. È più difficile tutelare un monumento di un museo ma non è impossibile. La prima tutela è la crescita culturale del paese, attraverso la scuola e
l’università. Nella città antica si possono fare le stesse cose che si fanno nella città moderna, ma ci vogliono soluzioni avveniristiche, per esempio nella circolazione. E questo significherebbe lavoro qualificato, di ingegneri, archeologi, storici. Dovrebbero esistere addetti alla città antica in tutte le possibili funzioni, invece un lavoro di questo tipo non è nemmeno concepito. Ma i Beni culturali sono una risorsa solo se ci si lavora».
C’è un sapore utopico in quello che dice.
«Tesi fantasiose che hanno un qualche fondamento nell’esperienza».
Con l’iniziativa del sindaco Marino è tornata al centro la questione dei Fori
«Villa Rivaldi, che guarda sui Fori, è un edificio meraviglioso in uno stato di abbandono che fa vergogna. C’è persino il rischio che vi venga istallato il cantiere della Metro C. Sarebbe il luogo ideale di un museo della città, che c’è in tutte le capitali europee mentre a Roma manca. Un altro edificio in abbandono è l’Angelo Mai».
Anni fa fu sgomberato il centro sociale per restituire l'edificio alla cittadinanza, che aveva raccolto le firme per portarci la scuola.
«L’Angelo Mai è una meraviglia architettonica e urbanistica ora totalmente abbandonata. All’esterno ci sono cartelli di inizio e fine lavori disattesi. Lasciare in abbandono un complesso di quel pregio è molto grave, anche dal punto di vista dell’eticità».

Corriere 26.10.13
Lo 007 che salvò l’arte dai nazisti
Rodolfo Siviero recuperò tremila opere italiane già rubate
di Sergio Rizzo


«Rodolfo Siviero riposa nella Cappella della Santissima Annunziata accanto a Benvenuto Cellini, Jacopo Sansovino e Pontorno, dietro una lapide senza iscrizione. Dopo la sua morte, il governo ha concesso la pensione di anzianità che mai aveva accordato». Nell’epitaffio conclusivo del saggio scritto da Francesca Bottari, che Castelvecchi ha mandato ieri in libreria, è condensata la storia di uno dei personaggi verso cui la cultura italiana ha un debito tanto incalcolabile quanto singolare. Perché se sono tornate in Italia 3 mila opere d’arte trafugate dai nazisti, ma anche da mercanti senza scrupoli dopo la guerra, lo si deve a lui. Recita il titolo del libro: Rodolfo Siviero. Avventure e recuperi del più grande agente segreto dell’arte . E non è un eufemismo.
Siviero è infatti un agente del Servizio informazioni militari fascista. È appassionato d’arte e quando comincia la grande razzia nazista la sua vita cambia. Da allora, per più di quarant’anni, dedicherà la sua esistenza — prima come agente segreto dello Stato fascista, poi come uomo della Resistenza, quindi come funzionario della Repubblica — a inseguire e riportare in patria i nostri tesori rubati. Come il Discobolo Lancellotti, preziosissima copia romana della celebre statua greca di Mirone, rientrata in Italia nel novembre 1948 da Monaco di Baviera.
È la prima preda tedesca, gentilmente concessa dal governo italiano al Führer nel 1938, l’anno che con le leggi razziali segna la definitiva e incondizionata sottomissione del fascismo alla Germania nazista. Una consegna pretesa da Hitler in persona, dopo il suo viaggio a Firenze del 1937. Il Consiglio superiore delle Scienze e delle Arti si oppone, ma di fronte al sì di Mussolini non c’è nulla da fare. Nemmeno il ministro dell’Educazione, Giuseppe Bottai, riesce a impedirlo e vani sono anche i suoi tentativi di frenare in seguito, una volta rotta la diga, l’emorragia di opere d’arte verso il Terzo Reich. È Hermann Göring a pianificare l’assalto in grande stile alle opere d’arte italiane, e l’allarme che Bottai lancia nel marzo con una circolare in cui avverte che «è pervenuta voce a questo ministero che dai musei e dalle pinacoteche capolavori emigrerebbero in Germania», cade letteralmente nel vuoto. Anche perché di lì a poco, dopo l’8 settembre 1943, l’emigrazione si trasformerà in saccheggio.
Siviero è già nella Resistenza, e con l’aiuto di infiltrati antifascisti nei servizi segreti organizza insieme ai partigiani e agli Alleati l’azione di contrasto alle depredazioni naziste, affidate al Kunstschutz : formalmente un organismo creato dagli occupanti per la salvaguardia delle opere d’arte italiane; nella realtà, una struttura dedita alla spoliazione scientifica. Il segnale dell’attacco è dei più terribili: l’incendio dell’archivio storico di Napoli il 30 settembre 1943, 22 giorni dopo la firma dell’armistizio. Poi i tedeschi fanno saltare il Museo della Torre di Minturno, distruggendo una delle raccolte archeologiche più importanti d’Italia.
I memoriali di Siviero e i documenti inediti che Francesca Bottari ha consultato ci rivelano particolari sconcertanti della rappresaglia, mentre si cerca di mettere al riparo quante più opere possibili al Vaticano e nei nascondigli di fortuna. Nascondigli che vengono spesso scoperti, e si assiste alle carovane di camion cariche di casse che dopo il saccheggio partono in direzione del Brennero. Il 4 ottobre 1943 viene letteralmente svuotata per ordine di Göring l’abbazia di Montecassino. Alcune casse con le opere più preziose prendono la via della residenza estiva del feldmaresciallo, che «diventa la sede di una immensa raccolta di opere d’arte trafugate nei Paesi sottomessi, ai tempi la più ricca del mondo», scrive Francesca Bottari.
La descrizione degli oltraggi che subiscono le opere d’arte trafugate dai nazisti è raccapricciante. Nell’agosto del 1944 i soldati tedeschi incaricati di trasportare in Germania 262 dipinti prelevati dagli Uffizi di Firenze appena liberata, organizzano un festino in strada, a Marano sul Panaro, «danzando intorno alla Venere del Tiziano sottratta da una cassa ed esposta al calore e alla luce violenta delle fiaccole». Quando la situazione precipita, una parte del bottino finisce nella miniera di sale di Altaussee, in Austria. Dove Siviero lo ritrova, nel 1947. Racconta il libro: «Da quella cava di sale, coperti di fango, alterati, mutilati e marciti pian piano escono dalle casse rotte kuroi e ninfe, dèi e vasi, come morti che tornano in vita. Ecco la sua amata Danae, con la Lavinia di Tiziano, entrambe coperte di muffe; l’Apollo di Pompei che Hitler teneva in casa… Escono la Madonna di Bruges di Michelangelo, l’enorme altare con l’Adorazione del mistico agnello di Jan Van Eyck, gli altri capolavori di Capodimonte. E poi gli ori del Museo archeologico di Napoli, la testa dell’Ermes di Lisippo, che Siviero dice sbriciolata in 62 frammenti, un cervo di Ercolano senza zampe…».
L’inseguimento di Siviero ai tesori italiani scomparsi non si fermerà più, fra difficoltà materiali e contrasti con la burocrazia. E il suo campo d’azione si allargherà anche oltre il recinto dei saccheggi bellici. Nel 1968 riesce a recuperare, con un’azione spettacolare culminata in un conflitto a fuoco, l’Efebo di Selinunte, un bronzo preziosissimo «rubato dalla mafia nel 1962 al municipio di Castelvetrano dove veniva usato come portacappello del sindaco».
Poco prima della sua morte, l’ex 007 compila la lista, completa di indicazioni utili al recupero, delle opere ancora ricercate: circa 2.500. È il suo ultimo regalo.

Corriere 26.10.13
Renoir La gioia di vivere
La grazia e la felicità delle donne i colori impalpabili dei paesaggi
Omaggio a un poeta della luce
di Francesca Montorfano


Era stata la Biennale veneziana del 1910 con la prima grande monografica a lui dedicata a segnare la consacrazione italiana di Renoir, ormai quasi settantenne. Solo pochi anni dopo, nel 1919, quel pittore che aveva guardato alla realtà con occhi nuovi, che aveva dipinto alcune delle immagini più fresche e radiose della storia dell’arte, paesaggi e figure palpitanti di luce e poesia, sarebbe morto, osannato dai critici, conteso dai collezionisti di tutto il mondo.
Eppure all’Italia Renoir si era sempre sentito vicino, unito da un indissolubile legame, fin da quando, ancora giovanissimo, decoratore di porcellane e studente all’École des Beaux-Arts, aveva iniziato a frequentare il Louvre, ad accostarsi ai grandi maestri veneziani, Giorgione e Tiziano, Tintoretto e Veronese, in una comprensione intima che sarebbe durata per tutta la vita, che avrebbe caratterizzato profondamente la sua produzione.
Renoir non partecipò mai al «Prix de Rome», che premiava i vincitori con un soggiorno in Italia né fu in grado (come furono invece Manet o Degas) di permettersi un viaggio di formazione a sue spese. Solo nel 1881, a quarant’anni e ormai artista affermato, riuscì a regalarsi quella lunga vacanza a Venezia e Firenze, a Roma, Napoli e Capri che gli avrebbe consentito di ammirare gli amati pittori nel paese in cui erano nati e di portare avanti le intuizioni del passato, nella ricerca di nuovi temi e nuovi linguaggi espressivi, in un’ideale fusione tra arte e vita, tra grandezza e spontaneità.
Ecco allora tutta l’importanza di un evento come quello torinese che per la prima volta riunisce in Italia una sessantina di opere dell’artista: dipinti, disegni e una scultura, capolavori celebri o raramente esposti prima, nella bella mostra curata da Sylvie Patry, conservatore al Musée d’Orsay e da Riccardo Passoni, vice direttore della GAM di Torino.
«Renoir è stato il pittore per eccellenza della gioia di vivere, della felicità, di scene di vita parigina rese con grazia lieve e delicate trasparenze, ma anche molto di più. Un artista sempre pronto alla sfida, a rivoluzionare le regole della rappresentazione. E proprio una scelta di opere come questa, proveniente dal musei d’Orsay e dell’Orangerie, che ne custodiscono la collezione più completa, può far superare filtri e luoghi comuni e mettere in luce la versatilità e la modernità della sua arte», ha sottolineato Sylvie Patry.
«Renoir ha contribuito sicuramente a creare il mito della parigina, con la sua aria maliziosa, l’eleganza raffinata e civettuola, ma è andato oltre. Ha rinnovato l’immagine stessa della donna scegliendo modelle non professioniste, restituendoci ritratti ricchi di fascino e naturalezza di fanciulle di ogni estrazione sociale, borghesi, contadine, operaie. “È una delle nostre donne, anzi una delle nostre amanti, dipinta con grande verità e felice individuazione dell’aspetto moderno” dirà Zola di una delle sue più seducenti figure femminili».
In più di cinquant’anni di attività l’artista ha prodotto oltre cinquemila dipinti e un numero elevatissimo di disegni e acquerelli. Eppure è un Renoir completo, quello che emerge da questa selezione rigorosa, articolata in nove sezioni a ripercorrerne l’intera vicenda creativa.
Sin dagli esordi giovanili quando insieme a Monet, Bazille e Manet dà vita all’Impressionismo e a quella pittura en plein-air capace di rendere tutta la magia della natura con tocchi impalpabili, quasi evanescenti, di luce e colore, alla svolta segnata dall’esperienza italiana, al ritorno al disegno, ai contorni più definiti, fino alle grandi opere dell’ultimo periodo.
Sono splendide vedute che coprono un lungo arco di tempo, dalla fase orientaleggiante con i paesaggi ispirati al suo viaggio ad Algeri a quelli dipinti a Les Collettes, in Costa Azzurra, dove Renoir, ormai stanco e malato si ritira negli ultimi anni di vita, composizioni floreali e teneri ritratti infantili, «Il figlio Pierre», «La bambina con gatto» o quella «Maternità» dove riecheggia tutta la suggestione dei primitivi toscani.
A toccare i vertici della sua arte saranno poi alcune delle sue più celebri istantanee di vita contemporanea, di momenti festosi e spensierati, «Ragazze al piano» e «L’altalena», «Danza in campagna» e «Danza in città», che qui è possibile ammirare finalmente accostate nella loro diversità di atmosfera e colore.
Ma è sempre la figura umana il fulcro dell’interesse di Renoir. Quei nudi dalle forme piene, spesso esagerate, modellati da un sapiente gioco di luci e di ombre, che culmineranno nell’opera ultima, quelle «Bagnanti» del 1918-19, suo testamento spirituale ed eredità evidente nel De Chirico di qualche anno dopo, dove le linee sfumano in una rinnovata libertà di tratto, in una fusione gioiosa tra la donna e la natura.

Corriere 26.10.13
Le sue bagnanti immerse nel mito rifuggono lo scandalo di Manet
Il nudo classico contrapposto anche all’astrazione di Cézanne e Picasso
di Francesca Bonazzoli


Il quadro che chiude la mostra, «Les baigneuses», è arrivato nelle collezioni dello Stato francese nel 1923 grazie alla donazione dei tre figli di Renoir. È considerato l’opera-testamento dell’artista, una delle ultime dipinte, terminata nell’anno della morte, il 1919, con i pennelli legati alle mani completamente deformate dall’artrosi.
Il tema classico per eccellenza del nudo femminile suggellava una ricerca avviata già da diversi anni nella direzione di soggetti meno legati agli eventi quotidiani ed effimeri della vita contemporanea (amati dagli Impressionisti che dipingevano, per esempio, i pomeriggi alle corse dei cavalli o a teatro), e più interessata a temi senza tempo. Classici, appunto. Dalla seconda metà degli anni Ottanta, quello delle bagnanti diviene quindi il leitmotiv dell’opera di Renoir che torna così a uno dei suoi soggetti preferiti: la figura femminile.
In particolare, dopo il 1905 dedica ai nudi en plein air tele di grande formato dove le forme muliebri si trasformano da delicate in abbondanti, con un’opulenza delle carni che ricorda quella di Rubens e Tiziano, pittori verso cui Renoir nutriva una sconfinata ammirazione, e con cui le bagnanti sono in evidente dialogo. Anche il paesaggio mediterraneo si riallaccia alla tradizione classica dell’Italia e della Grecia: una visione idilliaca da età dell’oro, con Eden rigogliosi e verdi in cui le fanciulle si muovono libere e serene come le ninfe e le dee della mitologia. In questo quadro le modelle hanno posato nel grande giardino di ulivi delle Collettes, dimora posseduta a Cagnes-sur-Mer, nel sud della Francia, dove Renoir si era trasferito per calmare con il clima più mite i lancinanti dolori dell’artrosi.
Curiosamente, negli stessi anni anche il coetaneo Cézanne dedicava l’ultimo periodo della sua attività al tema delle bagnanti, ma dove questi vedeva spigoli e angoli, Renoir sintetizzava il corpo femminile attraverso curve e sfere. La ricerca di Cézanne era un esercizio cerebrale verso l’astrazione della sintesi; quella di Renoir un approccio sensoriale verso masse dense che tendevano a riconquistare il volume attraverso la luce, secondo un procedimento ormai opposto a quello impressionista. Non è un caso che alle bagnanti di Cézanne, sempre più astratte dal dato naturalistico, facciano riferimento a «Les demoiselles d’Avignon» di Picasso (dipinte in concomitanza con le «Grandi Bagnanti» di Cézanne) dai corpi sezionati in solidi geometrici, mentre per Renoir i modelli guardano al passato, alla sensualità classica di Ingres e giù fino ai Carracci, Domenichino, Giorgione.
Ecco perché i nudi di Renoir non sono mai lascivi e non hanno mai suscitato scandali, mentre quelli di «Le déjeuner sur l’herbe» e dell’«Olympia» di Manet furono pesantemente censurati per la loro impudicizia. Basta confrontare il nudo disteso in primo piano de «Les baigneuses» e quello dell’«Olympia»: per entrambi i modelli di riferimento vanno dal marmo dell’Arianna dormiente del II secolo a.C. alla Venere di Tiziano, ma mentre Renoir rimane nell’ambito della tradizione dell’Eden mitologico, Manet colloca i suoi nudi nella contemporaneità, precisamente sulle rive della Senna, ad Argenteuil, dove un pic nic si trasforma in un audace scambio di coppie con il fratello del pittore e l’amico scultore Leenhoff Ferdinand, futuro cognato, in conversazione con la donna spogliata, un ibrido fra la modella Victorine Meurent e sua moglie Camille. Per non parlare dell’Olympia, una prostituta da pochi franchi che Zola definì «figlia del nostro tempo, che incontrate sui marciapiedi».
Manet aveva stravolto il tema classico della Venere (e della cortigiana di lusso) in uno «stile moderno», di totale rottura col passato, creandone una rivisitazione aggressiva e sgradevole. Le bagnanti di Renoir, invece, rimanevano prudentemente nell’ambito del linguaggio colto accademico. «Qui non c’è niente altro che la volontà di attirare l’attenzione a tutti i costi», scriveva la critica benpensante a proposito dell’Olympia di Manet; ma quello che spesso viene anche oggi stigmatizzata come una ricerca a tutti i costi dello scandalo da parte dell’artista risulta invece essere, a posteriori, un passaggio necessario verso un nuovo linguaggio. Le bagnanti di Renoir, invece, rimanevano nell’ambito del linguaggio colto accademico.

Corriere 26.10.13
Quella pittura come istinto
La «lezione» che capirono Morandi, Boccioni, De Chirico
di Rachele Ferrario


A Roberto Longhi era stato chiaro fin da subito: la sala personale di Renoir con 36 dipinti e un pastello alla Biennale di Venezia nell’aprile del 1910 sarebbe stata una rivelazione. Per i pittori e per alcuni critici. Soprattutto per i pittori: nella fase giovanile lo ameranno d’impulso, e lo abbandoneranno per Cézanne. Renoir, maestro mite e innamorato della sua arte, non fa teoria come gli altri impressionisti, cambia la pittura con l’istinto delle dita e grande senso della bellezza. Così apre nuovi orizzonti ai giovani artisti del primo Novecento, che vogliono essere contemporanei.
La presenza di Renoir, accanto a Courbet e Klimt, anche loro a Venezia con una sala personale, colpisce Morandi, Carrà, Tosi, presente in una sezione della Biennale; Soffici, che nello stesso 1910 organizza al Lyceum di Firenze una mostra sugli Impressionisti, e De Chirico che alla fine degli anni Venti s’ispira al maestro francese come nel nudo «L’Arianna abbandonata» della collezione della Gam di Torino. Gli artisti sono tanto più ricchi quanto più vasta è la loro memoria visiva e la loro curiosità. E la lista di autori che hanno guardato a Renoir potrebbe essere molto più ampia.
Savinio ama il suo «naturalismo borghese», De Pisis i suoi tocchi di luce, Donghi ne riprende l’impostazione nelle figure degli anni Venti. C’è il Bucci de «La Bigia giovane», Funi quando dipinge Venere e Diana tra il ’29 e il ’30, Baccio Maria Bacci nel «Ritratto di Matteo Marangoni» del ’19 o Paresce che cita la chiesa e il paesaggio di Renoir a Cagnes-sur-Mer.
Renoir incarna il segreto che muove la ricerca dei giovani nella poetica e nello stile pittorico. In lui (uomo semplice che vuole «fare buona pittura» con colori che paiono pietre preziose e pennellate di puro movimento) dipingere la vita quotidiana è speculazione filosofica, interpretazione psicologica, sintesi di un racconto che procede per frammenti e anticipa un’attitudine che sarà del XX secolo.
La ricerca della luce (che proprio a Venezia quando ci va per la prima volta, nel 1881, diventa ossessione) e la sua iconografia seducono i pittori. Morandi tra i primi. Nel 1910 dopo un viaggio a Firenze in giro fino a sera a cercar affreschi di Giotto, Paolo Uccello e Masaccio, giunge a Venezia per vedere la biennale. Davanti ai Renoir, racconta Francesco Arcangeli, Morandi scopre se stesso, trova conferma dei temi della sua pittura: il paesaggio e la natura morta. Quelle opere gli s’imprimono nella memoria e i fogli del catalogo, ingialliti e consumati, con le riproduzioni di quei dipinti lo accompagneranno per molto tempo; anche quando l’artista opterà per la ricerca indicata da Cézanne, il padre della pittura moderna, cui guardano intere generazioni di pittori a Parigi e in Italia. Carlo Carrà s’infiamma per Renoir, arriva a definirlo più attuale di Cézanne e in alcuni disegni di nudi di donna si rifà alla linea sinuosa del maestro francese, anche se poi cambierà idea come scrive Riccardo Passoni nel saggio in catalogo.
A Venezia nel 1910 a visitare la Biennale c’è Boccioni agitato e orgoglioso di esporre nella mostra a Ca’ Pesaro nella sala con le finestre che danno sul Canal Grande. Per Marinetti è una sfida, per Boccioni un’occasione per imparare e riflettere. A Venezia apprende che «non si può reagire contro la fugacità dell’Impressionismo se non superandolo». Non gli sfugge il dramma nascosto nelle pennellate del maestro quasi settantenne. Tuona contro «le mediocrità internazionali venute a farsi vendere e a farsi réclame ai danni di Renoir (la sala che ha avuto a Venezia era fatta apposta per non farlo capire)». Il suo rapporto con il pittore francese e con tutto l’impressionismo è, però, ambiguo. Il 1910 è l’anno in cui Boccioni dipinge «La rissa in galleria»: il «lirismo e il movimento», l’impressione psichica di Renoir non sono in fondo così distanti dalla ricerca pittorica che il futurista ha condotto fino a quel momento.
Alla fine della vita, ormai ammalato, Renoir si sente più preparato a restituire la luce di Venezia. Qualche anno prima, pur di dipingere il riverbero del cielo e dei palazzi nell’acqua sarebbe andato in capo al mondo. Ma ora sa che bisogna «conoscere bene il proprio mestiere» per non cadere nel tranello della bellezza. È singolare che sia proprio De Chirico alla fine degli anni Venti a dipingere in «stile Renoir», con una pittura solo in apparenza più «facile» ma che è frutto di un ripensamento sulla necessità di tornare all’antico mestiere del pittore.

Corriere 26.10.13
Il figlio Jean e il cinema «edipico»
di Roberta Scorranese


Quando, nel 1924, Jean Renoir firmò il suo primo film (Une vie sans joie), stava semplicemente riprendendo le fila di un lungo racconto iniziato dal padre, Pierre-Auguste. Con altri mezzi: con la macchina da presa, per tutta la vita il regista ha ricostruito quelle stesse scene luminose, sensuali, spesso trasfigurate nella carnalità più cupa. E un giorno confessò: «Ho trascorso la mia esistenza a cercare di capire l’influsso che mio padre ha avuto su  di me». Ma questo legame artistico così profondo ha una radice singolare: Pierre-Auguste eseguì numerosi ritratti dei figli (oltre a Jean, c’erano Pierre, attore, e Coco) sin da piccoli. Li si vede in piedi, con lo sguardo dolce e serio; seduti a tavola; poi più cresciuti, con il grembiule e i capelli lunghi. Sì, fin da bambini i piccoli Renoir vissero in una continua rappresentazione, in un quadro sempre diverso. In movimento. In un film? D’altra parte, lo stesso Pierre-Auguste diceva: «Mi piacciono quei quadri che mi fanno venir voglia di entrarci dentro». Come in una pellicola. Ecco allora questo straordinario codice genetico fatto di luce, immagini fluide e rappresentazioni che ha unito saldamente «il clan Renoir», come veniva chiamato. Il padre pittore che si lascia sedurre dal cinema (si è fatto riprendere da Sacha Guitry nel suo Ceux de chez nous quando era già malato e costretto su una sedia) e il figlio regista che mette in scena piccoli quadri su pellicola (Une partie de campagne venne definito da Goffredo Fofi «un incompiuto gioiello impressionista»). Jean ha diretto il fratello Pierre in numerosi film e ha richiesto la collaborazione del nipote Claude jr (direttore della fotografia), in una sorta di lessico familiare a più voci, origine di alcuni dei film più belli mai realizzati nel 900. Ma una cosa non ha mai voluto farla: un film su suo padre, sul grande Pierre-Auguste. «Molti produttori me l’hanno chiesto — ha raccontato Jean — ma ho sempre rifiutato. E non ho mai voluto vedere la pellicola che Guitry ha realizzato su di lui». Che tenerezza in questa paura quasi edipica.

Repubblica 26.10.13
Verso Monet
Dal ‘600 all’Impressionismo, la Natura prende la scena
Al Palazzo della Gran Guardia di Verona un centinaio di opere di artisti come Canaletto, Friedrich, Turner, Renoir e Cézanne
di Lea Mattarella


VERONA È nel Seicento che la natura trova la sua voce. La storia del paesaggio nella pittura occidentale parte da lì. Prima c’era già stato qualche appuntamento con cieli, vegetazioni e atmosfere, ma da quel momento il canto della natura è intonato dagli artisti lungo una linea ben riconoscibile, senza che vi sia più un momento di disattenzione nei confronti di un tema che, via via, assume sempre maggiore dignità fino a diventare il cardine del gusto europeo (e non solo). Il racconto di questo riscatto lo si legge lucidamente e in maniera emozionante, attraverso un centinaio di dipinti straordinari, tra le sale del Palazzo della Gran Guardia dove, fino al 9 febbraio, è aperta la mostra Verso Monet. Storia del paesaggio dal Seicento al Novecento, curata da Marco Goldin (catalogo Linea d’Ombra). Dopo la tappa veronese l’esposizione si trasferirà a Vicenza nella Basilica Palladiana.
«Questa è la mia storia del paesaggio — afferma Goldin — inizia nel XVII secolo e termina con la deflagrante sezione dedicata a Monet perché è lui che radicalizza la visione e porta alle estreme conseguenze lo sguardo sul motivo naturale inaugurato nell’Olanda del Seicento.
Con Monet si ha il trionfo della luce, dell’atmosfera. Nella Cattedrale di Rouen, per esempio, persino l’elemento architettonico diventa natura, come se si sciogliesse in un’esplosione luministica». Siamo nel 1894 e in quegli anni l’occhio impressionista di Monet lavorava per serie, su più tele contemporaneamente. Inquadrava lo stesso soggetto a diverse ore del giorno e in differenti condizioni atmosferiche. Il tema era un pretesto per far vibrare il mondo di riflessi. Lo si vede nelCampo di papaveri, nelleNinfee,in quel paesaggio veneziano che va confrontato con quanto succedeva soltanto due secoli prima nel campo della veduta per capire quanto cammino sia stato fatto.
Ma tornando all’età in cui tutto è cominciato bisogna ricordare come prima di Claude Lorrain, Nicolas Poussin, Annibale Carracci, Domenichino, Salvator Rosa, ilpaesaggio fosse soprattutto uno sfondo, la quinta di una scena. Veniva considerato un genere minore. Poi lentamente, senza fratture, la natura diventa protagonista. Ha però ancora bisogno di essere idealizzata con l’inserimento di storie sacre o mitologiche. Sebbene di dimensioni ridotte rispetto al passato per far sì che la tela sia occupata in gran parte dalla vegetazione, le figure vengono quasi chiamate a “giustificare” il resto. Il paesaggio accoglie San Giovanni Battista, il seppellimento di Focione o San Filippo che battezza l’eunuco.
La vera e propria svolta avviene in terra olandese. «Qui scienza, empirismo, filosofia, arte e poesia si uniscono per rivoluzionare il senso della visione — spiega Goldin — da queste parti il paese viene modificato dall’uomo, si creano canali, si polderizzano zone sempre più ampie. E così anche i pittori non vedono più il paesaggio come qualcosa di lontano. Lo ritraggono com’è, con realismo, cercando la verità di cieli nuvolosi, di campi coltivati, inquadrando addirittura la traccia sul selciato di un carro appena passato». Sono belli i che compongono questa sezione, rivelatori di tutta l’immediatezza con cui van Ruisdael e compagni si impossessavano del punto di vista. Ed è un incanto la suaVeduta di Alkmar, dove la luce arriva dopo aver attraversato le nuvole che dominano quasi completamente il dipinto. Giunge proprio dall’Olanda in Italia Gaspar van Wittel, a seguito di un ingegnere idraulico incaricato di un nuovo progetto di navigazione del Tevere. Dipinge una Piazza del Popolo a Roma con grande attenzione ai dettagli. Poi va a Venezia ed eccolo partecipare alla nascita della grande stagione della veduta. In laguna si utilizza la camera ottica, si cerca il panorama e nello stesso tempo il particolare. Canaletto e Bellottosono la più bela dimostrazione della totale fiducia nella visione che in questo periodo domina gli artisti. In Francesco Guardi, tuttavia, c’è già la ricerca di qualcosa che vibra, che lo porta ad abbandonare la veduta lenticolare perché non ha più certezza nelle regole dell’occhio e dell’intelletto che domina gli altri due.
Ci si avvicina così all’Ottocento, al “secolo della natura”. La parete che sfodera un grande quadro di Caspar David Friedrich — il pittore romantico per eccellenza — circondato da due visioni luministiche di William Turner, è mozzafiato. Nel paesaggio irrompe l’infinito, la natura da luogo popolato da dèi umanizzati, si trasforma nella culla della spiritualità. Questo paesaggio non si abita, non si conquista, si contempla. Il pittore tedesco affermava che era necessario «tendere al sublime, al magnifico se vuoi giungere al bello» e che meta dell’arte fossero il divino e l’infinito. E qui c’è tutto questo.
Anche Turner, con questo notturno vulcano in eruzione, con ilPaesaggio con fiume e montagne in lontananza in cui ogni cosa è dissolta nella luce ci trasporta in un mondo in cui il paesaggio tocca le corde dell’emotività e non quelle delle ragione. La natura non può più essere conosciuta e conquistata, ma deve essere ammirata con devozione, quasi con sgomento tanta è la sua potenza. Intorno a questi due giganti ecco artisti americani, ungheresi, rumeni, scandinavi. «La natura conquista completamente la scena. E lo fa in tutto il mondo», dichiara Goldin. Attraverso la pennellata virile e solida di Gustave Courbet, le spiagge di Eugène Boudin, così importanti per Monet, l’armonia tra uomo e paesaggio di Camille Corot e di Jean-François Millet si arriva alla stagione dell’impressionismo. Ma anche alla sua crisi, al suo superamento. Su una parete ecco Sisley, Renoir, Pissarro. Di fronte, un gruppo di capolavori di Cézanne che voleva “rifare Poussin sulla natura” per ridare “solidità all’Impressionismo”. Le sue pennellate che costruiscono uno spazio completamente nuovo annunciano il secolo che verrà.
In alto, da sinistra, Casa del pescatore a Varengeville (1882); La facciata della Cattedrale di Rouen e la Torre d’Albane (mattina) (1894); San Giorgio Maggiore al tramonto (1908)

Repubblica 26.10.13
Monet
I capolavori del maestro francese del plein air
E il paesaggio divenne pura luce
di Fabrizio D’Amico


E infine giunse Monet, a ridare al paesaggio, genere antico, un soffio nuovo di verità. Dalle querce della foresta di Fontainebleau, trapunta dal riverbero del sole che tramonta — nel dipinto del Kunstmuseum di Winterthur, del 1865 — al fusto magro e solitario, nel quadro del Colombus Museum del 1918, del salice piangente di Giverny (la casa e il gran giardino d’acqua che la circonda, ove ormai soltanto dipingeva), passano più di cinquant’anni. Il secolo è cambiato: e con esso la luce che bagna i due dipinti, che a Verona aprono e chiudono l’ultima sezione della mostra di Marco Goldin. Era, là, intenta a svelare gli angoli più riposti della radura, parca ma certissima di sé (forse ancora non immemore della luce purissima di Corot, e presaga di quella che splenderà di qui a poco nelle Femmes au jardin, gran quadro di figura dipinto en plein air).Ora quella luce scende sulle cose come internandovisi, e avvolta da un ottuso silenzio. Il segno che marginava, ancora nel ’65, il contorno delle cose — pur senza più cercarne e ridirne la possanza e l’orgoglio, come era avvenuto poco prima in Courbet — se ne è andato: e il verde che deborda dovunque è ridotto a un grumo indistinto di materia, che sembra strusciare sulla tela, macerandola. La gioia di un’età che sboccia lascia il passo al tempo più lento, alla malinconia con cui Monet guarda la sua ultima natura.
Son passate due guerre, diversamente devastanti per l’Europa: il 1870 (e con essa la più cocente sconfitta, per la Francia, dell’età moderna), e la prima guerra mondiale. La Spiaggia a Trouville (giusto del 1870, l’anno in cui scoppiava la guerra franco-prussiana) racconta d’un “prima” che non durerà: Monet, convinto antimilitarista, sta allora per imbarcarsi per Londra, donde rientrerà a Parigi — passando attraverso l’Olanda — solo a guerra terminata. Negli anni che seguono, è lui il caposcuola della pittura impressionista: sempre inseguito da Sisley, tenuto per fratello da Renoir, stimato persino da Degas e da Cézanne — pur così diversi da lui. Qui, Neve ad Argenteuil (proveniente da Boston) dimostra per tanti versi le ragioni di quella primazia: tutto scritto com’è in superficie, ove continuamente lo riconducono gli infiniti colpi del bianco della neve raffigurata sulla tela. Il quadro è del 1874, cioè dell’anno stesso della prima mostra del gruppo, tenuta presso il fotografo Nadar; ma la complicità degli animi, come l’omogeneità degli intenti formali, dura poco, da allora in avanti: e quando van Gogh, a metà del decennio seguente, si stabilisce a Parigi, cercando quella fonte di umana solidarietà cui vuole abbeverarsi, trova gli impressionisti in lite fra loro, e già incommensurabilmente lontani l’uno dall’altro.
Goldin segue Monet passo passo — e con scelte felicissime, indotte dalla sua profonda conoscenza della “nuova pittura” di Francia — nel suo lungo viaggio attorno al paesaggio. Dagli esordi alla fine, occorsa nel 1926, quando il pittore aveva ottantasei anni, sono ventiquattro i suoi dipinti qui raccolti. Scelti fra i più noti (La casa del pescatore a Varengeville o Campo papaveri presso Giverny, che fu nel 1885 una delle prime risposte di Monet al giovane che ne insidiava il ruolo, George Seurat), rispettivamente provenienti da Rotterdam e da Boston; o fra i meno noti, come iPruni a Vétheuil del museo di Budapest o le splendide Ninfee del 1908 di Cardiff, ormai quasi soltanto un soffio di pallido, trasparente colore sulla tela. Una mostra dentro la mostra, davvero, questa vasta sosta dedicata oggi a chi sul paesaggio ha scritto alcune delle pagine più belle dell’età moderna.