martedì 3 luglio 2018

Corriere 3.7.18
San Girolamo contro Roma
L’assedio dei goti visto come castigo per i costumi corrotti del paganesimo
Matthew Kneale (Bollati Boringhieri) rievoca i sette saccheggi subiti dalla città nella sua lunga storia. Su quello compiuto da Alarico nel 410 d. C. le versionisono discordi: per alcuni fu una vera catastrofe, per altri provocò danni limitati
di Paolo Mieli


Roma, agli inizi del V secolo, era una città che contava forse più di un milione di abitanti (qualcuno li ha stimati addirittura un milione e mezzo), malsana e soffocante. Morbillo, orecchioni, tubercolosi e vaiolo erano ormai da tempo malattie endemiche. Ma la piaga più grande era la malaria. Dai documenti risulta che l’Urbe era vittima all’incirca di un’epidemia malarica ogni sei anni, in genere all’indomani dei temporali estivi e a partire dalle zone vicine al Tevere, dove prosperavano le zanzare e vivevano gli abitanti più poveri. Da ottocento anni non aveva più subito un’invasione e si riteneva che — soprattutto dopo un percorso di integrazione dei barbari — non ce ne sarebbero state mai più. Invece…
Nella notte del 24 agosto 410, torme di visigoti maleodoranti e pieni di pidocchi attraversarono la Porta Salaria e si riversarono nella città che veniva già dall’aver subito un lungo assedio: il cibo era stato razionato e gli 800 mila abitanti (forse anche di più) avevano cominciato a morire letteralmente di fame. Il sacco che ne seguì durò tre giorni. Secondo uno storico cristiano, Socrate di Costantinopoli (Socrate Scolastico, che scrisse trent’anni dopo l’accaduto) furono uccisi molti senatori e la maggior parte dei monumenti cittadini venne data alle fiamme. Procopio (che invece scrisse cento anni dopo il sacco) sostenne che i visigoti «annientarono» la maggioranza dei romani. San Girolamo che ne parlò dalla Terra Santa, soltanto due anni dopo gli eventi, diede una versione apocalittica di quel che era successo già prima che i visigoti entrassero in città: secondo lui, allorché gli uomini di Alarico fecero il loro ingresso a Roma buona parte degli abitanti era già morta di fame. «Una fame arrabbiata», raccontò Girolamo, «ha spinto i cittadini a cibi nefandi; si sono sbranati l’un l’altro, membro a membro: le mamme non hanno risparmiato i propri figli ancora lattanti».
Ma un’altra fonte, Paolo Orosio — che scrisse otto anni dopo l’invasione, probabilmente mentre si trovava in Spagna — offrì una versione assai diversa di quel che era capitato nei giorni delle scorribande romane dei visigoti: Alarico, sostenne Orosio, aveva dato «ordine alle truppe, principalmente, di lasciar illesi e tranquilli quanti si fossero rifugiati in luoghi sacri, specialmente nelle basiliche dei santi apostoli Pietro e Paolo, e, secondariamente, di astenersi quanto possibile, nella caccia alla preda, dal sangue». Uno storico della Chiesa, Sozomeno, che poco dopo Orosio si occupò di ciò che era avvenuto a Roma nel 410, indugiò su episodi di visigoti «di buon cuore» che fecero del bene alla città. A questo punto si pone una domanda: com’è possibile che queste fonti, tutte cristiane, siano a tal punto in contrasto tra loro? È lo stesso quesito che si pone Matthew Kneale in un libro assai stimolante, Storia di Roma in sette saccheggi, edito da Bollati Boringhieri. I saccheggi sono: 1) quello dei galli di Brenno del 387 a.C. descritto da Tito Livio; 2) quello di cui qui stiamo parlando del 410; 3) quello del 546 del re ostrogoto Totila; 4) quello dei normanni di Roberto il Guiscardo del 1084; 5) il sacco dei lanzichenecchi al soldo dell’imperatore Carlo V d’Asburgo del 1527; 6) l’assedio dei francesi di Luigi Napoleone del 1849 e 7) l’occupazione nazista del 1943-44.
Per tutti esistono, nella rappresentazione che se n’è data in seguito, clamorose contraddizioni e discrepanze come quelle di cui si è detto all’inizio. A proposito delle quali, fa notare Kneale, «gli autori che riferiscono di un saccheggio brutale, compreso Girolamo — il quale senza dubbio provava ancora rancore verso i ricchi che lo avevano scacciato dalla città — vedevano il disastro come la punizione divina dei romani per il lusso in cui si erano crogiolati e per il loro paganesimo». Agli occhi di Girolamo «il sacco doveva essere stato terribile, perché questo era ciò che i romani meritavano». All’epoca — anche se ormai da un secolo l’impero era governato dai cristiani, con una breve interruzione durante il regno del pagano Giuliano — il paganesimo era ancora molto presente nella vita romana. Con «gran disgusto del fervente vescovo di Milano Ambrogio, folle di romani, cristiani compresi, continuavano a prender parte con gioia alle antiche celebrazioni pagane della città». Le più popolari erano i Lupercalia, durante i quali «gruppi di giovani uomini rincorrevano le ragazze per la città colpendole con una frusta in onore della lupa di Roma, una pratica che si credeva le rendesse fertili».
I romani, riferisce Kneale, da secoli «consideravano il sesso in maniera positiva, come un piacere accordato dagli dei di cui si doveva godere». Si pensava anche che «traendone piacere si facessero figli più sani». Non ci si preoccupava troppo «nemmeno del tipo di rapporto, se avesse luogo tra un maschio e una femmina o tra maschi (soltanto i rapporti tra donne destavano qualche disagio)». Nessuno si poneva problemi in merito alle «categorizzazioni sessuali». Se un uomo una volta andava a letto con una donna o con un uomo, «non ci si aspettava che poi continuasse a fare lo stesso». Poteva «cercare il piacere ovunque lo vedesse». Se esistevano dei tabù, essi erano legati a questioni di classe. Qualora un ricco andasse a letto con la moglie di un altro aristocratico, «si trattava di adulterio». Ma lo stesso uomo era libero di «avere un rapporto con una persona di rango inferiore». Anzi, liberissimo. Nessuno si poneva problemi circa i rapporti sessuali con gli schiavi, considerati una proprietà. Casomai si ironizzava sulla «tirchieria» di coloro che, anziché comprare schiavi al mercato, ne generavano con le donne, schiave, «in loro possesso». Allo stesso modo, «nessuno era troppo turbato dall’idea di uomini che abusassero sessualmente dei bambini, a patto che non fossero figli di aristocratici».
A tutto ciò si oppose il cristianesimo di San Paolo, che «considerava un abominio qualsiasi pratica sessuale al di fuori di quella più semplice e funzionale» del matrimonio; e «il sesso in generale — per non parlare del goderne — era comunque visto con molto sospetto». I primi devoti «idealizzavano la verginità, la castità e i matrimoni platonici». Il monaco Girolamo fu un grande fustigatore di questi costumi: era disgustato «dal fatto che i ricchi cristiani di Roma aderissero alla loro fede a parole, adoperandosi nel contempo ai propri interessi dinastici». In che senso? Se «davano una figlia vergine a Gesù», ne tenevano un’altra nel mondo terreno, e «in caso di necessità non si facevano scrupoli a riprendersi la vergine donata a Cristo per metterla sul mercato a che trovasse un buon partito».
Le «tensioni maggiori, almeno all’interno dell’aristocrazia romana, spesso non vedevano contrapposti pagani e cristiani, ma pagani e cristiani da una parte e un gruppetto di cristiani molto devoti dall’altra». Ed è a sostegno di questi ultimi che Girolamo lanciava il suo anatema, sostenendo che il sacco era stato una sorta di punizione divina nei confronti di una Roma dissoluta e ancora pagana. Fu per le sue denunce che, alla morte del vescovo Damaso, suo protettore, Girolamo fu cacciato dalla città. E Girolamo «si vendicò» esaltando, per così dire, il sacco di Alarico come se si trattasse di una punizione divina per la persistenza del paganesimo a Roma.
Al contrario, sempre secondo Kneale, «chi raccontava di un saccheggio rispettoso aveva in mente un quadro politico più ampio». Questi autori «intendevano respingere le accuse pagane, secondo le quali il sacco aveva avuto luogo perché i romani avevano chiuso i templi degli antichi dei e ne avevano fuso le statue». Il secondo gruppo «voleva dimostrare che Pietro e Paolo avevano protetto bene la città e che, grazie alla loro influenza, Dio aveva addolcito i cuori dei visigoti». Ma chi aveva ragione? E cosa accadde davvero? Kneale si affida all’archeologia e censisce gli edifici che, a quel che risulta dagli scavi, furono realmente danneggiati. La lista, scrive, «non è molto lunga». Secondo l’autore, Orosio e coloro che riferiscono di un saccheggio «amichevole» paiono «avvicinarsi di più alla verità». È probabilmente tutt’altro che falso che Alarico avesse ordinato ai suoi di «comportarsi bene». Del resto, se avesse distrutto Roma, «la città avrebbe perso ogni valore come merce di scambio e lui stesso avrebbe avuto poche possibilità di stringere un accordo con l’Impero d’Occidente». Se ne può trarre la conclusione che «in generale, nel 410 d.C. Roma ebbe fortuna». In confronto al destino di altre città della stessa epoca (date alle fiamme, videro i propri abitanti ridotti in schiavitù), Roma in quel 410 «se la cavò molto bene».
Ciò nonostante i racconti di Orosio e Sozomeno sui «visigoti dal cuore tenero» sono, secondo Kneale, «lontani dalla verità». Agostino d’Ippona, il quale dall’Africa settentrionale reagì al saccheggio con una serie di sermoni dai quali prese forma la sua celebre opera La città di Dio, ricorda che nella sua congregazione erano presenti molti profughi romani e questi «se il sacco fosse stato una cosa da poco, è improbabile che avrebbero mai lasciato la città». Secondo Agostino, a meritare di finire sul banco degli imputati era la «base morale» del potere romano. Se i cristiani desideravano una città eterna, dovevano rivolgersi alla Città Celeste di Gerusalemme che «li attendeva in cielo». Nessuna città terrena, Roma inclusa, «sarebbe durata per sempre». Tra l’altro Agostino — spingendosi a riferire le atrocità subite da Roma nei giorni del sacco — parla delle vergini romane violentate precisando che «Dio non le aveva giudicate male né abbandonate» ed esprimendo la singolare supposizione che «potessero essere state loro, troppo orgogliose della propria verginità, ad attirare su di sé la violenza subita». Uno dei pochi scrittori che quell’anno si trovavano effettivamente a Roma fu il monaco britannico Pelagio, le cui idee avrebbero dato vita ad una forma di eresia cristiana che Agostino d’Ippona s’impegnò poi a sradicare. In una lettera così descrisse l’accaduto: «Ognuno era mescolato agli altri e scosso dalla paura; ogni famiglia aveva la propria afflizione e un terrore avvolgente afferrò tutti; schiavo e nobile erano una cosa sola; il medesimo spettro di morte si aggirava solennemente in mezzo a tutti noi».
Dopo tre giorni, con grande sollievo dei romani, i visigoti lasciarono la città e marciarono verso sud. Alarico sperava di arrivare in Sicilia e proseguire di seguito in Africa, ma non riuscì ad attraversare lo stretto di Messina. Due mesi dopo morì a Cosenza, probabilmente a causa della malaria contratta a Roma. «La città si era vendicata», scrive Kneale. Ma circa 136 anni dopo, nel 546, gli ostrogoti di Totila si presentarono nuovamente alle porte della città, la cinsero d’assedio, entrarono grazie a un tradimento e stavolta (pur per un breve periodo e a due riprese, la seconda nel 549) ne fecero la loro capitale. Nel 551 l’imperatore Giustiniano inviò in Italia un esercito comandato dall’eunuco Narsete, che all’inizio del 552 affrontò Totila in Umbria, lo sconfisse e lo uccise.
Dopodiché Roma, che ormai era pressoché spopolata «fu aiutata dalle disgrazie altrui». Le invasioni longobarde «provocarono un tale caos che la gente si riversò a fiotti entro le mura cittadine in cerca di salvezza». Alla fine del VI secolo contava quasi 50 mila abitanti. A causa degli argini marcescenti del Tevere, era devastata dalle alluvioni due o tre volte per secolo. Una delle più gravi ebbe luogo nel 589 e fu fantasiosamente descritta (due secoli dopo) da Paolo Diacono: il fiume «si gonfiò fino al punto che le sue acque scorrevano sopra le mura della città allagandone moltissimi rioni… Allora, nuotando nell’alveo del fiume insieme con moltissimi serpenti, un drago di terrificante grandezza attraversò la città e scese al mare». Templi e monumenti pagani furono abbandonati all’incuria e ai furti. A dire il vero, nota lo storico, «non vennero quasi costruite nuove chiese per lo meno non di dimensioni considerevoli, perché i Papi faticavano già a mantenere quelle esistenti». Date le sue dimensioni, San Pietro «in particolare rappresentava un problema e necessitava di riparazioni costanti». Sicché, nell’impossibilità di costruire nuovi edifici, i Papi si risolsero a riutilizzare quelli antichi. La cosa migliore fu che all’inizio del VII secolo il Pantheon, «il più bel tempio pagano di Roma», fu trasformato nella Basilica di Santa Maria ai Martiri, «scampando così alla lenta rovina cui andarono incontro altri grandi templi». Poi, dopo che Gerusalemme nel 636 cadde nelle mani dei musulmani, Roma divenne la meta principale dei pellegrinaggi cristiani. E risorse dai traumi, dalle sue rovine. In attesa, come detto all’inizio, di nuove incursioni e nuovi saccheggi.
il manifesto 3.7.18
Partita la campagna palestinese contro il piano Trump
Cisgiordania occupata. Centinaia di palestinesi hanno manifestato ieri a Ramallah contro il cosiddetto "Accordo del secolo", l'iniziativa americana per un accordo di pace in Medio Oriente tutta sbilanciata a favore di Israele
di Michele Giorgio

RAMALLAH  Si sono ritrovati in circa duecento ieri in piazza Manara, a Ramallah, per la prima ‎manifestazione di protesta organizzata dal partito Fatah, con il sostegno ‎dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), contro l'”Accordo del secolo”. Si tratta ‎del piano “di pace” per il Medio oriente che l’Amministrazione Usa dovrebbe ‎annunciare nelle prossime settimane. I manifestanti hanno dato fuoco a cartelli con ‎il volto del presidente americano e scandito slogan contro “lo schiaffo del secolo” ‎che, stando alle indiscrezioni, offre una soluzione al conflitto fondata sulle ‎condizioni poste da Israele: Gerusalemme tutta allo Stato ebraico, Valle del ‎Giordano sotto il controllo israeliano, indipendenza finta con i palestinesi che ‎dovranno accontentarsi di quel 40% di Cisgiordania (più o meno il 10% della ‎Palestina storica) che già amministrano civilmente da oltre venti anni e rinunciare ‎al controllo delle frontiere, delle loro risorse idriche e a uno spazio aereo ‎nazionale. ‎
 La mobilitazione giunge dopo la recente visita nella regione da parte degli ‎inviati statunitensi Jared Kushner e Jason Greenblatt, venuti in Medio Oriente, ‎dicono i palestinesi, per definire con israeliani e arabi gli ultimi particolari del ‎piano Usa. Kushner e Greenblatt non hanno avuto incontri con l’Anp ma a ‎Washington va bene perché l’iniziativa americana non contempla un ruolo da ‎protagonista per i palestinesi, destinati ad accettare quello che decideranno per ‎loro i leader arabi assieme al premier israeliano Netanyahu. «Crediamo che sia ‎iniziato il conto alla rovescia per l’annuncio pubblico del piano Trump‎», ci ha ‎spiegato un attivista della campagna avviata ufficialmente dal “Comitato di Forze ‎Nazionaliste e Islamiche” e in realtà organizzata dal partito Fatah, spina dorsale ‎dell’Anp. La modesta partecipazione, rispetto alle aspettative, alla prima delle ‎manifestazioni contro l’iniziativa Usa dimostra che Fatah e l’Anp sono arrivati a ‎questo appuntamento con le ruote sgonfie. D’altronde la campagna parte qualche ‎giorno dopo le manifestazioni contro la presidenza dell’Anp per la politica ‎punitiva avviata da Abu Mazen nei confronti di Gaza nel tentativo velleitario di ‎colpire i rivali islamisti di Hamas e che sta soltanto aggravando la condizione della ‎popolazione.‎
 Intorno alle possibilità del piano Usa intanto regna un profondo scetticismo. Gli ‎stessi israeliani, che pure sono i beneficiari dell’iniziativa di Trump, pensano che ‎l’Amministrazione Usa stia facendo un buco nell’acqua. Un sondaggio rivela che il ‎‎74% degli israeliani ebrei ritiene che il piano sia destinato al fallimento. Ancora ‎più significativo è che l’83% pensa che l’esercito debba sparare direttamente a chi ‎da Gaza lancia i palloni e aquiloni “incendiari”. Proprio ieri l’ong Defense for ‎Children International (Dci) ha denunciato che 25 minori palestinesi sono stati ‎uccisi dall’inizio dell’anno dai soldati israeliani. Ventuno a Gaza, 18 dei quali ‎durante le manifestazioni della Marcia del Ritorno. Ieri due palestinesi sono stati ‎uccisi durante in tentativo di infiltrazione in Israele.‎
La Stampa 3.7.18
È ispanico il populismo di sinistra
di Juan Luis Cebrián


«Ti mettono nel petto una fascia tricolore, ti siedi sulla Sedia dell’Aquila e si parte! E’ come salire sulle montagne russe, vai in picchiata e fai una smorfia che diventa la tua maschera. La faccia che si fa quando stai all’ingiù è quella che ti resta per sempre». Lo scrittore Carlos Fuentes descriveva così, 15 anni fa, quello che ha significato il mandato di presidente della Repubblica del suo Paese da oltre un secolo a questa parte. Sembra certo che il capo dello Stato uscente, Enrique Peña Nieto, continuerà a provare questa paura anche dopo aver passato il testimone al suo successore, eletto domenica scorsa.
è da vedere ora se Andrés Manuel Lopez Obrador riuscirà finalmente a far diventare il Messico un Paese prevedibile, e non perennemente sottomesso alle aritmie provocate dalle attrazioni del luna park.
La vittoria di Lopez Obrador si inserisce nella corrente, ormai quasi globale, della perdita di prestigio dei partiti politici tradizionali. La corruzione, l’autoreferenzialità e la lontananza dagli elettori, dalle loro speranze e i loro problemi, hanno propiziato l’ascesa dei populismi, che spesso sfociano in forme di autoritarismo apparentemente benevolo, ma con derive quasi dittatoriali. In ogni caso, le elezioni messicane hanno caratteristiche specifiche, che le rendono un fenomeno unico. Siamo davanti alla svolta politica più importante del Paese dalla fondazione del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri), che ha segnato la vita del Messico, in un modo o nell’altro, per più di novant’anni. Il trionfatore, Amlo (dalle iniziali del suo nome), ha cominciato la sua vita politica nel Pri e più tardi nel Prd, una scissione di sinistra, e in molti vedono, quindi, la sua elezione come un’eredità non dilapidata dello spirito rivoluzionario che ha dato origine a quel sistema che oggi viene dato per morto. Ha avuto un passato da governatore, ha guidato il «Distretto federale» di Città del Messico tra il 2000 e il 2006, e sebbene la sua gestione sia stata controversa, anche i suoi detrattori gli riconoscono di esser stato un buon governatore. Insomma, Amlo è tutt’altro che un volto nuovo, ma un politico di lungo corso, che ha resistito alle sconfitte elettorali, grazie a una solida scuola nei partiti.
Nonostante la demagogia di molte dichiarazioni e di alcuni aspetti della sua personalità, Lopez Obrador non si riconosce nella categoria di populista. E’ invece un chiaro leader di sinistra e il suo radicalismo ha messo in allarme imprenditori e dirigenti. Deve il suo successo all’appoggio, insperato fino a qualche anno fa, delle classi medie, stanche della corruzione dei suoi governanti, della violenza dei narcos e delle enormi diseguaglianze. Il suo non è un discorso nuovo, quella che è cambiata è la speranza degli elettori che le promesse di un politico possano finalmente diventare realtà. Anche Peña Nieto è arrivato alla presidenza annunciando un piano di riforme che avevano prodotto un effetto simile. Ma lascerà l’incarico circondato da scandali di corruzione, in un Paese con un livello di violenza sconosciuto finora.
Il potente mondo degli imprenditori messicani ha portato avanti una campagna frenetica contro il presidente neo eletto, temendo che il suo programma potesse mettere in pericolo l’economia del Paese, una pressione che è stata allentata solo a ridosso delle elezioni. Il candidato si è molto prodigato nel mandare messaggi di moderazione, in contrasto con le minacce demagogiche del candidato della destra Roberto Anaya. Il fango gettato dai settori conservatori contro Amlo è arrivato al punto tale che in alcuni dibattiti privati e pubblici si è ipotizzato un attentato che mettesse fine alla sua vita. Gli studiosi di politica messicana devono tenere in conto che, durante gli ultimi novant’anni, in questo Paese il dibattito intellettuale non è stato un fattore decisivo per ottenere il potere.
Le elezioni di domenica costituiscono uno spartiacque nella storia. E’ improbabile che il Pri continui a essere il centro nevralgico del sistema e non si può escludere che scompaia del tutto, fagocitato dal nuovo scenario. La lotta contro il narcotraffico, che ha causato più di cento morti soltanto durante la campagna elettorale, non sarà semplice. I suoi tentacoli si sono impadroniti di posti chiave all’interno delle forze dell’ordine e del potere municipale. L’elaborazione di un piano fiscale che modernizzi le istituzioni economiche e rafforzi lo Stato troverà l’ostilità attiva degli imprenditori, abituati spesso ad arricchirsi grazie alle complicità di chi ostenta il potere. In ultima analisi: sei anni non sono un periodo sufficiente per ottenere una vittoria chiara nella lotta contro le diseguaglianze, ma un cambio di sistema politico può aprire una finestra di speranze.
Colpisce poi, che nel momento in cui l’America Latina vira a destra (Cile, Perù, Colombia, Argentina e Brasile) il Messico vada in direzione opposta. Gran parte della campagna di Lopez Obrador l’ha fatta in realtà Donald Trump, con le sue politiche d’odio verso i messicani e le sue bravate sul muro che hanno esacerbato il, già di per sé ingombrante, sentimento patriottico e nazionalista del Paese. Il Messico ha una frontiera di più di tremila chilometri con la prima potenza mondiale, più di cinque milioni di messicani, senza documenti, si trovano negli Stati Uniti illegalmente e 35 milioni sono i cittadini americani di origine azteca. Al di là della controversia sul muro, i rapporti di Trump con il Paese vicino hanno seguito una sceneggiatura firmata dal genero del presidente, Jared Kushner e il cancelliere messicano Luis Videgaray, amici di lunga data. Per questo il Dipartimento di Stato e i responsabili delle politiche di immigrazione americana hanno più motivi di preoccupazione rispetto a due giorni fa. Mancano ancora cinque mesi alla salita di Amlo sulle montagne russe, solo allora potremo vedere che faccia farà.
il manifesto 3.7.18
Que viva Mexico! Svolta a sinistra nel nome di Obrador
Americhe. Vince con il 54% «Amlo» e il suo movimento anticorruzione e per la giustizia sociale, nato come costola del Prd
di Fabrizio Lorusso


LEON (MESSICO) Il Messico cambia direzione dopo una giornata elettorale storica, celebrata per le strade. I partiti conservatori al potere negli ultimi decenni hanno subito una pesante sconfitta alle presidenziali di domenica scorsa. Per la prima volta il centrosinistra governerà, guidato da Andrés Manuel López Obrador, noto come «Amlo».
«La terza è quella buona», ripeteva Obrador in campagna elettorale, e dopo aver perso nel 2006 e 2012 ora ha vinto col maggior numero di voti della storia. I problemi non sono mancati durante il voto: in alcuni Stati gruppi armati hanno rubato o distrutto le schede e ci sono stati cinque omicidi legati alla violenza politico-criminale. Durante la campagna elettorale e subito prima sono stati ben 140 i politici o i candidati assassinati.
OBRADOR-AMLO era in testa di 20 punti nei sondaggi sugli oppositori – Ricardo Anaya del conservatore Partido Acción Nacional (Pan), José Antonio Meade del centrista Revolucionario Institucional (Pri) e l’indipendente Jaime Rodríguez – ma i conteggi preliminari hanno superato le aspettative e il presidente dell’Istituto elettorale ha comunicato che, con un’affluenza del 64%, Obrador ha il 54% delle preferenze, Anaya il 22%, Meade il 15 e Rodríguez il 5%.
La vittoria del suo Movimiento Regeneración Nacional (Morena) si conferma nella capitale, con Claudia Sheinbaum come prima governatrice donna della città, e nei governi di Chiapas, Morelos, Tabasco, Veracruz. Il Pan prende lo Yucatan e Guanajuato, ed è in bilico con il Morena a Puebla. Il Pri perde ovunque. Nel Jalisco vince il Movimiento Ciudadano, partitino di centrosinistra alleato col Pan.
GLI SCONFITTI e lo stesso presidente in carica, Enrique Peña Nieto, hanno subito riconosciuto il risultato, augurando «per il bene di tutto il Messico» che il prossimo presidente abbia successo e garantendo un’opposizione «responsabile e democratica». Amlo, coi suoi 64 anni spesi quasi tutti in politica, è un dirigente navigato.
DOPO GLI INIZI NEL PRI e gli incarichi ricoperti nel suo Stato natale, il Tabasco, s’è proiettato sulla scena nazionale come un leader della sinistra, raccolta intorno al Partido Revolución Democrática (Prd), e come sindaco di Città del Messico, incarico che ha ricoperto dal 2000 al 2005.
Dopo la sconfitte alle presidenziali del 2006 e 2012 con il Prd e la svolta destrorsa del partito, oggi alleato del Pan di Anaya, Obrador ha fondato il suo movimento contro le politiche neoliberali di Peña, costruendo una formazione progressista che, tuttavia, resta gerarchica e centrata sul leader. Amlo ha anche moderato il suo discorso politico e cercato collaboratori vicini al mondo dell’imprenditoria per non spaventare le classi medie e l’establishment finanziario internazionale, dato che per anni i suoi oppositori hanno usato lo spauracchio del Venezuela e di Chávez contro di lui.
IL MORENA ha anche stretto una discutibile coalizione (Juntos Haremos Historia, «Insieme faremo storia»), col Partido Encuentro Social (Pes), tradizionalista e legato alle chiese evangeliche. L’alleanza ha ottenuto un’ampia maggioranza in Parlamento, ma l’ala sinistra potrebbe subire i ricatti del Pes su temi come l’aborto e le libertà civili.
«Obrador ha trionfato, malgrado alcune incognite sul governo che verrà, perché la sua diagnosi è giusta: il Messico è stato depredato dall’élite e da corporazioni corrotte e ora il pendolo va a sinistra, dopo anni di concentrazione della ricchezza, dev’esserci ridistribuzione», commenta la politologa Denise Dresser.
Da vincitore ha esordito: «Inizia la quarta trasformazione del Messico, la rivoluzione delle coscienze ha vinto, questo trionfo appartiene a tutte e tutti», dinanzi a decine di migliaia di sostenitori che hanno riempito l’immenso Zócalo, la piazza centrale di Città del Messico, al grido di «Non sei solo», «Ce l’abbiamo fatta» e «Fuori Peña».
Nel suo comizio ha parlato della necessità di una riconciliazione nazionale nell’interesse generale, strizzando l’occhio a imprenditori e investitori privati, cui ha promesso «rispetto» e il mantenimento dell’autonomia della Banca centrale. Ha annunciato una revisione dei contratti derivati dalla liberalizzazione del settore energetico e l’abolizione della riforma educativa, simile alla «Buona scuola» renziana. Il suo martellante discorso contro la corruzione e la «mafia del potere», cioè i circoli ristretti dell’élite imprenditoriale e politica messicana, è stato vincente perché ha catalizzato l’indignazione generale per i numerosi scandali e sprechi di questi anni.
«PER IL BENE DI TUTTI, prima i poveri», ha ribadito Obrador, dichiarando come priorità la giustizia sociale, il lavoro e la lotta contro le disuguaglianze. Recuperare l’intervento statale con politiche keynesiane e redistributive, riformiste rispetto al neoliberismo finora imperante, nel rispetto delle diversità e dell’opposizione politica, sono altri punti programmatici fondamentali del Morena. In serata sono arrivate le congratulazioni, tra gli altri, di leader come il canadese Trudeau, il russo Putin, il boliviano Morales, lo spagnolo Sánchez e persino di Trump, il quale ha twittato che è ansioso di lavorare con lui perché «c’è molto da fare nell’interesse di Usa e Messico».
«Fino all’insediamento del primo dicembre lavorerò coi membri del nuovo governo, non perderemo tempo: raddoppieremo subito le pensioni per gli anziani, garantendo l’universalità, e tutti i disabili poveri avranno un sussidio», ha intanto annunciato Amlo. «Garantiremo il diritto allo studio e al lavoro dei giovani e lanceremo progetti di sviluppo da Sud a Nord per far restare i messicani nella loro terra», ha proseguito.
IN CORTEO sventolavano bandiere arcobaleno del movimento Lgbtq e si sentivano cori di giubilo. Ma la gente ha anche intonato la conta da 1 a 43 e la rivendicazione di giustizia per i 43 desaparecidos di Ayotzinapa e gli altri 36mila, come a sottolineare che i movimenti continueranno a portare avanti le loro domande. «Il voto a Amlo non è un assegno in bianco», ribadiscono gli attivisti in piazza. Popoli indigeni, comunità Lgbtq e diritti umani sono stati i grandi assenti della campagna dei quattro candidati, ma si faranno sentire dal basso indipendentemente da chi governi.
il manifesto 3.7.18
Linke: «Sul caos le destre preparano nuove alleanze»
Crisi dei rifugiati. Ritrovata unità nel partito di sinistra dopo le divisioni del congresso di Lipsia a giugno
I co-presidenti della Linke, Katja Kipping e Bernd Riexinger
di Aaron Elderman


BERLINO «È del tutto evidente come Horst Seehofer abbia giocato d’azzardo. E adesso vuole lasciare il suo posto presentandosi come un martire». Nel pieno della crisi politica che sta squassando non solo il governo federale guidato dalla cancelliera Angela Merkel, ma la stessa storica alleanza tra i protestanti della Cdu e i cattolici bavaresi della Csu, la Linke prende la parola con una sola voce.
Non era scontato, dopo il Congresso federale di Lipsia agli inizi di giugno, quando si erano scontrate pubblicamente due diverse linee della sinistra tedesca sul tema delle migrazioni, e più in generale sulle decisive questioni della composizione sociale di riferimento, sul ruolo dell’Europa e degli Stati nazionali, e sull’atteggiamento nei confronti del populismo di destra.
Il Congresso ha riconfermato come co-presidenti del partito, Katja Kipping e Bernd Riexinger, con un’ampia maggioranza, e con l’approvazione di tesi che hanno riaffermato con forza la linea delle «frontiere aperte» e della «libertà di circolazione per tutte e tutti». In particolare la Linke ha rilanciato la battaglia contro le «deportazioni», ovvero l’espulsione verso Paesi dichiarati «sicuri» di quei richiedenti asilo il cui diritto non sia stato riconosciuto, e contro la «divisione delle famiglie», ovvero per il ricongiungimento anche di quei nuclei familiari cui era stata attribuita la sola protezione umanitaria.
È così che gli stessi Kipping e Riexinger hanno potuto presentarsi ieri davanti alle telecamere per offrire una lettura univoca della tempesta che sta investendo le istituzioni tedesco-federali. I cristiano-sociali stanno cercando di «prendere in ostaggio la Germania e l’Europa intera per una lotta di potere all’interno dei loro partiti». Al ministro federale dell’Interno «non interessa individuare soluzioni pratiche nella politica migratoria. La posta in gioco è più alta: vuole aprire porte e portoni al populismo di destra e rovesciare la cancelliera federale. Seehofer e Markus Söder (attuale presidente Csu del Land Baviera ndr) fanno gli scagnozzi dell’AfD».
In questo senso, secondo i rappresentanti di Linke, i leader della Csu si stanno rivelando gli artefici di una profonda svolta politica che spinge verso destra non solo l’Union tedesca, ma interi settori del partito popolare europeo.
Nelle ultime settimane era già emerso l’asse privilegiato tra l’esecutivo regionale bavarese e il governo austriaco, retto da un’alleanza tra i popolari di Sebastian Kurz e i populisti di destra dell’Fpoe: «L’obiettivo, come si è visto nel recente vertice di Bruxelles, è spingere l’acceleratore delle politiche di tutta l’Unione sulla linea tracciata da nazionalisti di destra come Viktor Orbán, Marine Le Pen e Matteo Salvini. Una lotta di potere giocata sulla pelle di profughi e migranti». Ma in questo modo si sancisce la fine dell’Union come partito popolare, prima imitando e poi preparandosi ad alleanze fin qui tabù nel sistema politico tedesco, con formazioni dal rapporto quanto meno ambiguo, e in alcuni casi esplicito, con gruppi neonazisti.
Secondo Katja Kipping «il modo di agire di Seehofer è tipico della destra autoritaria del nostro tempo. Fanno finta di battersi per ripristinare l’ordine, in una situazione di crisi che essi stessi hanno prodotto. E alla fine producono solo caos, in cui possano affermarsi le loro ipotesi autoritarie». Attualmente – conclude – stiamo vivendo l’esaurimento del conservatorismo per come l’abbiamo conosciuto, di fronte al fallimento delle risposte che le “grandi coalizioni”, in Germania come su scala europea, hanno dato alla crisi economica e sociale degli ultimi dieci anni.
«Una risposta avanzata da sinistra è oggi più urgente che mai», ma essa stessa, a maggior ragione, non può darsi sullo stesso terreno saturato dalle destre, siano esse neoliberali o populiste: di fronte alle migrazioni, ad esempio, non c’è ritorno al rinserrarsi nei confini nazionali che tenga, bensì la necessità di una nuova politica europea di solidarietà e condivisione, che metta al primo posto, insieme, i diritti civili e sociali di tutte e tutti.
Corriere 3.7.18
Proposte In «Mutualismo» (Alegre) Salvatore Cannavò suggerisce di ispirarsi alla capacità inventiva del movimento operaio ottocentesco
Ricominciare dalla solidarietà, una ricetta per la sinistra
di Giampiero Rossi


Da qualche parte bisognerà pur cominciare a ricostruire la sinistra italiana, che raccoglie voti nei quartieri della buona borghesia, ma che non ha più cittadinanza nelle periferie urbane e sociali. Rifondare è il verbo più ricorrente all’interno di questo mondo politico sconfitto e marginalizzato. Ma a partire da che cosa? Su quali fondamenta costruire un nuovo ruolo sociale e quindi politico per gli eredi di una tradizione legata alla parola «popolo»?
Forse tornando alle origini pre-politiche, proprio «là dove tutto è cominciato», con le forme concrete di associazionismo organizzato e solidale. È questa, almeno, l’idea che sta al centro del libro di Salvatore Cannavò Mutualismo. Ritorno al futuro per la sinistra (Alegre).
La prima convinzione da cui muove l’analisi è che l’attuale crisi della sinistra abbia origine dal momento in cui, dopo la caduta del Muro di Berlino, «ha accettato di gestire un compromesso sociale al ribasso». È la lunga parabola dell’identità che Cannavò riassume con la formula «non più e non ancora»: non più partiti (e sindacati) del proletariato con aspirazioni rivoluzionarie, ma non ancora vere formazioni socialdemocratiche, per esempio sul modello scandinavo.
Il passaggio successivo, dopo una minuziosa analisi storico-politologica a partire dalle cooperative ipotizzate da Karl Marx, è la proposta del ritorno a un mutualismo che l’autore considera «una risorsa ancora inesplorata, anche sul piano politico generale, come strumento per ricominciare a tessere una tela che è stata strappata da troppe parti e da troppi protagonisti».
Ma «oltre ad esercitare forme di solidarietà, il mutualismo ha senso soltanto se assume anche forma di resistenza, se rappresenta centri capaci di organizzare lotte e rivendicazioni». Cioè deve assumere una connotazione conflittuale. E su questo aspetto il libro insiste non poco: «Il mutualismo conflittuale è dunque politico nel senso che mentre esiste rivendica già il nuovo. Esprime una solidarietà “contro” lo stato di cose presente, ma esige anche una solidarietà “per”, fatta di risposte immediate a bisogni immediati. Il mutualismo è politico perché valorizza di nuovo “l’agire in comune”, la cooperazione non solo produttiva, ma morale, intellettuale, solidale su cui si è fondato il movimento operaio nella storia. L’attuale fase di smarrimento richiede la stessa capacità di inventiva e innovazione di cui diedero prova gli operai e gli intellettuali della seconda metà dell’Ottocento».
La conclusione di Salvatore Cannavò è netta: «Se una sinistra vuole avere un futuro dovrebbe avere il coraggio di riscoprire le sue origini».
Il Fatto 3.7.18
Maturità, non solo tesine: leggete
di Giovanni Pacchiano


Arrivano come sciami di cavallette, per gli orali della maturità, le cosiddette “tesine”. Obbligatorie. Possibilmente multidisciplinari. Il che comporta sforzi di acrobazia non indifferenti per mettere insieme un motivo letterario e uno scientifico evitando tematiche scontate. Ma non importa: nell’era del nominalismo, sta a cuore solo che ci si riempia la bocca con il vocabolo: tesine, cioè quasi tesi, piccole tesi. Come fossero il rituale di ingresso all’università. E peccato che, davanti alla commissione, la discussione della tesina debba mantenersi fra i 10 minuti e il quarto d’ora al massimo. Dieci minuti, che volete che siano? Il tempo di un caffè.
E peccato che in genere gli studenti, anche se coscienziosi, portino una copia della tesina solo il giorno della prima prova. Ma non sempre accade così: a volte la presentano al momento degli orali. Da chiedersi, poi, se e in che momento i commissari le predette tesine le leggano. Nell’intervallo fra scritti e orali? Devono correggere collegialmente gli scritti, diamine! O un tot al giorno, a seconda delle sequenze dei candidati, durante gli orali, nei caldi pomeriggi estivi, al posto della pennichella? O non sarà che tutt’al più le sfoglino? Le leggiucchino qua e là? Non escludo che i più solerti se le leggano con scrupolo sottraendo tempo a un doveroso riposo, ma ho molti dubbi che la percentuale degli zelanti sia alta. E peccato, infine (o fortuna, a seconda dei punti di vista), che, dato l’obbligo delle tesine, sulle bacheche on line si scateni ogni anno il mercato delle stesse.
Ovvio, se si agita il mercato vuole dire che la domanda c’è. Studenti universitari, laureati e professori, o semplicemente cultori di una materia, esperti e pseudo-esperti, offrono tesine a gogò. I prezzi: da 20 euro a 300 euro, a seconda della complessità del lavoro. Pagamento anticipato. E garanzia che il venditore non ceda la tesina anche a un altro studente della stessa classe, o magari della stessa scuola (si sa, le voci circolano). Perciò, la calda raccomandazione rivolta ai maturandi è che nella richiesta specifichino la classe e la scuola di provenienza. Per evitare un disagio ben peggiore di quello di due signore che arrivino a un party o avvenimento mondano o che altro con lo stesso identico vestito. Che obbrobrio, signora mia! Ma non basta: a volte le tesine, come i lasciti, si passano da parente a parente, o dall’amico che ha fatto la maturità l’anno prima all’amico che ora è di turno. Un’inchiesta del 2013 ipotizzava che il 40% degli studenti si servisse di tesine preconfezionate. Bella cifra.
Occorrerà tuttavia dire che, anche per i migliori, per quelli fra gli alunni che fanno da sé, magari con un aiutino o un aiutone da internet, dove, si sa, gli articoli sono sempre mostruosamente precisi e attendibili (magari!), il tempo dedicato alle tesine rischia di essere sprecato. C’è di meglio da fare a scuola per la formazione culturale e umana dello studente? Certo che c’è di meglio. E che sarà mai? Una cosa molto semplice: leggere, leggere, leggere. Il 18,5% dei maturandi di quest’anno ha scelto come tema il brano tratto dal Giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani. Scrittore immenso, a suo tempo stolidamente giudicato dalle neo-avanguardie come la Liala del 1963. Ho esultato vedendo comparire il suo nome a un esame di maturità. Nondimeno, mi chiedo quanto senso abbia scegliere un brano narrativo decontestualizzato dal suo insieme. Certo, il discorso sulle leggi razziali ben si prestava a uno svolgimento. Ma nel Giardino dei Finzi-Contini c’è molto altro: la malinconia di chi, passata la soglia dei quarant’anni, si volta indietro guardando al passato. Lo strazio per un amore non corrisposto. Le ombre dei morti. Una figura femminile affascinante e sfuggente, forse la più bella della letteratura italiana del secondo Novecento.
Quanti di questo 18,5% avevano già letto il romanzo? Non lo si saprà mai. Si sa, invece, che la lettura è la Cenerentola della scuola. Si sa che alla scuola media inferiore da anni è stato soppresso l’obbligo della lettura di un testo narrativo all’anno. E, in contrasto col parere espresso sul Fatto quotidiano del 15 giugno scorso dalla scrittrice Robin Stevens, che “gli adulti dovrebbero consigliare libri divertenti” ai ragazzi, i più gettonati risultavano puntualmente Arrivederci ragazzi, di Louis Malle, e L’amico ritrovato, di Fred Uhlman, magnifici romanzi drammatici che coinvolgevano i giovani studenti. Chi non legge alle medie finirà col non leggere anche al liceo, se non i testi canonici, sempre quelli, I promessi sposi (un capolavoro ma indigeribile prima dell’età adulta) e i soliti Verga e Svevo. Il mio augurio è che i docenti trasmettano ai ragazzi la loro passione, se ce l’hanno, per i libri, e che ne parlino in classe: altro che tesine.
La Stampa 3.7.18
Siria, 270.000 profughi ai confini con Israele
Dopo l’offensiva di Assad centinaia di tendopoli in pochi giorni. La Giordania e lo Stato ebraico non aprono le frontiere
di Giordano Stabile


Una città di tende, baracche, pezzi di lamiera appoggiati uno sopra l’altro è sorta all’improvviso, nel giro di pochi giorni ed è cresciuta a dismisura, 10, 30, 70 mila abitanti. Migliaia di famiglie che premono al posto di frontiera di Nassib, il più importante fra Siria e Giordania, preso d’assalto dalle truppe di Bashar al-Assad. È l’ultima crisi umanitaria siriana, dopo quelle nelle province di Homs, Aleppo, che negli anni scorsi hanno creato milioni di profughi. Ora è la volta della provincia di Daraa, nel Sud-Ovest del Paese, un triangolo strategico a cento chilometri da Damasco e incuneato fra il confine giordano e le Alture del Golan. Dopo la conquista della Ghouta orientale, era il principale obiettivo del raiss. L’offensiva, cominciata 10 giorni fa, è andata spedita, con decine di villaggi e cittadine riconquistati. Oltre metà dell’area è ora nelle mani del regime ma 270 mila persone sono rimaste senza casa, in fuga.
La Giordania ha accolto soltanto una dozzina di bambini, con gravi ferite, che saranno curati e poi rimandati in Siria. L’esercito israeliano ha fornito tende, cibo, medicinali e ha evacuato alcuni feriti, civili. Ma sia la Giordania che Israele hanno detto chiaramente che «non accoglieranno profughi».
Crisi e rischio jihadisti
Il governo di Amman, contestato per le misure di austerità imposte dalla crisi e dal Fondo monetario, già non sa come fronteggiare le esigenze di 670 mila rifugiati siriani, che affollano immensi campi profughi, come quello di Zaatari, quasi centomila persone in due chilometri quadrati. Il regno hashemita, come Israele, teme però anche infiltrazioni di jihadisti. La provincia di Daraa era controllata dall’Esercito siriano libero ma anche dal gruppo islamista Hayat al-Tahrir al-Sham.
Le difese ribelli sono state travolte dai raid dell’aviazione siriana e russa e dalle avanguardie corazzate della Quarta divisione meccanizzata e dell’unità d’élite Qawat al-Nimr, le Tigri. Assad vuole chiudere la partita in poche settimane. Dopo la provincia di Daraa toccherà a quella di Quneitra, adiacente al Golan, dove Israele ha già inviato rinforzi, compresi reparti corazzati. Ma la rapidità dell’avanzata ha sorpreso anche le organizzazioni umanitarie. «Ci aspettavamo al massimo 200 mila sfollati - ha ammesso Mohammed Hawari, portavoce dell’Agenzia Onu per i rifugiati in Giordania -, siamo già arrivati a 270 mila». Le Nazioni Unite hanno confermato che 70 mila sono al valico di Nasib, con «scarso accesso ad acqua e cibo», mentre le truppe governative sono arrivate ad appena tre chilometri. «Gli abitanti di Daraa sono in trappola, nel costante timore di essere colpiti - ha precisato Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International -: il confine giordano è l’unica strada verso la salvezza». Ma Amman, fino a ieri sera, sembrava irremovibile.
Corriere 3.7.18
La staffetta
di Massimo Gramellini


Può darsi che la splendida vittoria delle staffettiste italiane nere ai Giochi del Mediterraneo sia «la risposta all’Italia razzista di Pontida», come dicono Saviano e il Pd. Ma mi chiedo se il dirlo non renda quell’Italia ancora più sorda al richiamo di chi irride i suoi timori invece di sforzarsi di comprenderli. Quando provi disagio per l’immigrazione incontrollata, magari perché abiti in un quartiere dove ti finisce addosso di continuo, vederti sventolare in faccia a mo’ di sfida un fulgido esempio di integrazione non elimina il tuo fastidio, ma alimenta il tuo vittimismo. Come si può fare cambiare idea a qualcuno a cui non si riconosce il diritto di averne maturata una diversa sulla propria pelle? Chi convive con lo spavento o la preoccupazione andrebbe rassicurato, utilizzando storie di successo come quella delle staffettiste per mandare segnali di speranza, non di incomunicabilità.
In quest’epoca di contrapposizioni superficiali e feroci, verrò preso per pazzo. Ma all’Italia isterica del Palio, in cui ciascuno corre per sentirsi migliore degli altri, preferisco quella armonica della staffetta. Dove si corre insieme, sovranisti e mondialisti, e insieme si può vincere: ciascuno sulle proprie gambe, ma smettendola di pestarsi i piedi.
La Stampa 3.7.18
Oltre un milione i naturalizzati
Così ci rendono tutti più ricchi
di Linda Laura Sabbadini


Sono un milione e 100mila i nuovi italiani, coloro che, in possesso di un’altra cittadinanza, sono diventati italiani nel corso degli anni di permanenza nel nostro Paese. Lo dice l’Istat. Sono veramente multicolori, un mix incredibile di provenienze. Sono rappresentati tutti i continenti. Ma ai primi posti si collocano Albania, Marocco e Romania. Sono diventati italiani soprattutto coloro che fanno parte di comunità di vecchio insediamento e che hanno maturato i requisiti previsti per legge. Nel 2011 il numero totale dei nuovi italiani misurato dal Censimento della popolazione era di circa 600mila. Quasi raddoppiati. E non c’è da meravigliarsi, basta guardare i flussi anno per anno. Nel 2005 furono concesse solo 29mila acquisizioni in un anno, nel 2010 siamo passati a 66mila, nel 2015 a 178mila e nel 2016 a 201mila. Un continuo crescendo. La struttura per sesso è sbilanciata verso le donne (58,7%) e ciò soprattutto perché in passato il peso delle acquisizione di cittadinanza per matrimonio era più elevato, riguardava più di un terzo delle acquisizioni concesse, a fronte di un 9% di adesso. Ed erano soprattutto le donne a sposarsi con un uomo italiano. Le donne sono maggioranza tra i nuovi italiani nelle comunità provenienti da Polonia, Romania, Ucraina, Russia, Croazia, Moldavia, Colombia e Perù. Gli uomini invece sono maggioranza delle comunità di origine indiana, pakistana, egiziana, marocchina o tunisina. La struttura per età dei nuovi italiani è più giovane di quella degli italiani dalla nascita e anche di molto. Questo divario tenderà ad accentuarsi in futuro, perché la composizione dei flussi recenti vede crescere la componente dei giovani fino a 19 anni, che nell’ultimo anno rappresentano il 40% delle acquisizioni concesse. La maggioranza dei naturalizzati vive nel Nord del Paese e solo il 14% risiede nel Sud. Il loro tasso di occupazione non è particolarmente alto, il 53,3%, pesa qui il basso tasso di occupazione femminile. Questi nuovi italiani sono italiani a tutti gli effetti, contribuiscono all’economia del nostro Paese, la fanno crescere, dobbiamo farli sentire parte di una grande cultura nazionale, condividere i nostri poeti e pittori, i nostri filosofi e i nostri dialetti. Già vestono la nostra maglia azzurra, come le bellissime nostre atlete, cantano il nostro inno.E noi potremo arricchirci a nostra volta.
Il Fatto 3.7.18
I silenzi della sinistra: “Ma il testo ridà diritti dopo 10 anni di buio”
Bordate di giornali e Confindustria, la Cgil aspetta le misure. Gli esperti “rossi” che aiutano il ministro difendono la norma
Cdf


Un testo frutto del lavoro di un gruppo di “comunisti”, un “giglio rosso” che “sussurra a Luigi Di Maio” (copyright Il Giornale), finanche “copiato pedissequamente” dalla Carta dei diritti della Cgil e dalla “la linea di Maurizio Landini”, come ha scritto sprezzante l’ex deputato Pdl ed ex dirigente della Cgil in Emilia Romagna, Giuliano Cazzola. Il “decreto dignità” non gode, come si suol dire, di buona stampa; Confindustria e le associazioni datoriali sono in rivolta, il Pd lo contesta, ma curiosamente finora neanche a sinistra qualcuno ha trovato il tempo per spendere due parole per un provvedimento che alla sinistra guarda.
Per orala Cgil tace. Da corso d’Italia non vogliono pronunciarsi in attesa di un testo definitivo; lo faranno forse oggi con le norme licenziate dal Consiglio dei ministri. Circola un po’ di malumore per non essere stati ancora coinvolti, ma anche un generale apprezzamento per un testo che recepisce alcune istanze del sindacato, anche se “si poteva fare di più” e preoccupa il possibile ritorno dei voucher durante l’esame parlamentare. “È un buon punto di partenza”, ammette un dirigente di peso della Cgil, “ma poi serve rilanciare”. Ieri Susanna Camusso ha definito “utile” la discussione aperta sui rider dal decreto.
Già nel 2016 la “Carta dei diritti” chiedeva il ripristino delle causali per i contratti a termine. Il testo studiato negli uffici del ministero del Lavoro va oltre, rende più costoso il ricorso al tempo determinato, riduce i rinnovi possibili e la durata massima, da 36 a 24 mesi, estendendo i limiti anche alla somministrazione, il lavoro affittato dalle agenzie interinali. Nasce dalle idee di un gruppo di esperti guidati dal professor Pasquale Tridico, tra cui Marco Barbieri, dirigente di Leu, già assessore in Puglia con Nichi Vendola e oggi ordinario di diritto del Lavoro all’Università di Foggia e Piergiovanni Alleva, 71 anni, giuslavorista e consigliere in Emilia Romagna con la lista “L’altra Europa con Tsipras”. Sono questi ultimi nomi, estranei al Movimento, ad aver fatto gridare al pericolo “rosso”, ma anche, forse, a spiegare l’imbarazzo da sinistra per un provvedimento che ha il marchio pentastellato.
“Le cose buone è bene che siano fatte, a prescindere da chi le fa”, spiega Barbieri (che specifica di non aver fatto da consulente formale). “Conta l’obiettivo. I 5Stelle hanno anche un’anima progressista con un’attenzione importante ai temi sociali – spiega Alleva – Di Maio mi è sembrato sincero nel voler ridare ai lavoratori condizioni di dignità”.
Per entrambi la svolta del testo parte dal ripristino delle causali, che fa infuriare Confindustria & Co.: “Le imprese italiane hanno convissuto con le causali da quando le ha introdotte il governo Fanfani nel ‘62 – spiega Barbieri -. È stata un’invenzione del Pd, col ministro Poletti, eliminare un’esperienza che ha funzionato bene per più di mezzo secolo facendo esplodere i contratti a termine. Sembra che Di Maio abbia proposto i Soviet ma non è così. Se l’esigenza è temporanea, allora le imprese assumano a termine, altrimenti no. La direttiva Ue del ‘99 dice che il lavoro a tempo indeterminato deve essere la ‘forma comune del rapporto di lavoro’”. Per Alleva la portata del provvedimento è evidente. “Tutti sanno qual è la posta in ballo. Il problema dietro le proteste di Confindustria e soci è che i contratti a termine con esigenze vere sono circa il 15%. Il resto è per risparmiare sui costi e tenere sotto ricatto il lavoratore. È una questione di potere sociale. Le pare possibile che oggi il 90% dei contratti è a termine?”. C’è però il rischio che aumentino i contenziosi… “Li chiamano così, ma sono diritti. Le imprese con lavoro di qualità non hanno bisogno di tenere sotto schiaffo i lavoratori. Non va alimentato un capitalismo straccione”. Per entrambi, il jobs act è stato un disastro, “il più grande colpo al lavoro della storia repubblicana” (Barbieri).
Entrambi gli esperti temono il ritorno dei vecchi voucher. Ed è vero che il testo è stato ammorbidito rispetto alle intenzioni iniziali, la causale ritorna per i contratti sopra i 12 mesi o il primo rinnovo, invece che per tutti i contratti. “Avrei voluto fosse più netto – ammette Alleva – ma condivido i piccoli passi. Se ora assumi un lavoratore a tempo è perché hai una ragione per farlo. Siamo tornati alla ragione. È la prima cosa vera di sinistra da dieci anni”. Anche Barbieri condivide: “Se i 5Stelle hanno preso tutti quei voti un motivo ci sarà…”
Corriere 3.7.18
Siena, il centrodestra si prende il Palio Salvini: non vedo nessuno di sinistra...
Finestre separate con gli «alleati». Il leader: nuove sedi ma la base della Lega resta Milano
di Marco Gasperetti


SIENAAffacciato alla trifora centrale della Sala del Concistoro, dopo tre ore e mezzo di sudore, saluti alla folla di Piazza del Campo, selfie tra gli invitati a Palazzo Pubblico, baci e abbracci, Matteo Salvini più che Alberto da Giussano sembra un po’ quel Guidoriccio da Fogliano (senza cavallo) che trionfa poco metri più in là in un affresco di Simone Martini. Si sente così senese, il vicepremier, ministro dell’Interno e leader della Lega, che non ha neppure più bisogno della felpa con il nome della città usata nel tour elettorale. «Stupendo, straordinario, magnifico. Tornerò il 16 per il Palio dell’Assunta», dice dopo aver assistito al corteggio storico, alla carica dei carabinieri (finita un po’ male perché un militare è caduto dal destriero ed è finito all’ospedale), allo spettacolo degli sbandieratori, ai rulli dei tamburi, e infine all’elettrizzante corsa e alla vittoria del Drago. È così emozionato, il Matteo che la Toscana non si aspettava, che si mette pure a sorridere alle ipotesi che il nuovo partito, che sogna e progetta potrebbe trasferirsi da Milano a Roma. «Sciocchezze, il quartier generale della Lega resta a Milano ma apriremo sedi ovunque e saranno tutte reali e non ci saranno piattaforme informatiche», dice mentre stupefatto guarda alcuni contradaioli in piazza che s’azzuffano. Ordine pubblico da ministero dell’Interno? «Macché, io nella storia, la più bella e meravigliosa, non ci metto neppure un dito», risponde.
E alla domanda per chi ha tifato risponde pronto e con un sorriso: «Ma per chi ha vinto». Anche se in realtà dice di non aver un’unica contrada nel suo cuore o comunque non la vuole rivelare ed è comunque sempre dalla parte dei perdenti. «Stanotte, prima di dormire ed è la prima volta che per me accade in questa città magica andrò a passeggiare in incognito per le sue strade. È bellissima, unica. Come Il Palio, che non è leghista, perché se Dio vuole sopravvive a tutto e a tutti». Poi una stoccata agli avversari: «Non ho visto nessuno della sinistra e mi dispiace. Gli assenti hanno sempre torto».
In realtà un paio di esponenti Pd locali ci sono. C’è il presidente del consiglio regionale, Eugenio Giani, Pd («L’è come il prezzemolo, lo trovi ad ogni evento», dice un consigliere comunale leghista) e Stefano Scaramelli, anche lui dem. Ma la loro è un’apparizione fugace, timida e assai remissiva. Nelle stanze che contano il centrodestra c’è, eccome. Nella Sala della Pace dove si trova l’Allegoria del buono e del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti, qualcuno, ha sistemato due file di sedie, una dalla parte dell’affresco del buon governo, l’altra sotto quello del cattivo. Da che parte si siederà l’uomo che ha assediato e conquistato Siena? Ma Matteo non abbocca e se ne sta in piedi. Oltre a Salvini è arrivata Giorgia Meloni insieme al fido (e sempre più in carriera) deputato Giovanni Donzelli. Si saluta con Salvini, anche se le finestre d’affaccio sono diverse e le ultime esternazioni della leader di FdI sembrano aver un po’ offuscato l’amicizia politica tra i due. «Non abbiamo parlato del fiasco al summit europeo sui migranti — dice Meloni — ma con Matteo andiamo ancora d’accordo. Noi al governo? Vedremo, ma non sono io che l’ho chiesto e lo chiederò».
Tra i primi ad arrivare, il senatore Maurizio Gasparri. Visita la sale, ma più che agli affreschi, sembra essere interessato alla partita tra Brasile-Messico che cerca di guardare faticosamente con un’iPad. Di FI c’è anche la vice presidente del Senato Mara Carfagna, affacciata a un’altra finestra. Prima volta anche per il ministro dell’Agricoltura Marco Centinaio. Che non nasconde il suo amore per la contrada del Bruco («Che mannaggia, oggi non corre»), ma quello che conta è aver conquistato un altro Palio con il cavallo giusto. Quello politico.
La Stampa 3.7.18
Salvini si tiene lontano dal decreto filo-Cgil
“Lasciamoglielo fare”
di Alessandro Barbera


A Piazza del Campo, fra turisti, attori e appassionati del genere, ieri sera c’erano due ospiti che nessuno si sarebbe aspettato di vedere: Matteo Salvini e Gianmarco Centinaio. Il Palio di Siena invece del Consiglio dei ministri. Possibile? «Aveva preso l’impegno a festeggiare la vittoria storica della Lega in città», spiegano i collaboratori del leader leghista. Ci sono però gesti che, per quanto spiegati, lasciano poco spazio alle interpretazioni. L’assenza del vicepremier alla riunione dedicata ad una delicatissima riforma del mercato del lavoro è una chiara presa di distanze da un provvedimento che al Carroccio non è mai piaciuto. Quella del «decreto dignità» non è stata una gestazione semplice sin dall’inizio: bloccato dal ministero del Tesoro per mancanza di coperture, modificato per le proteste del mondo delle imprese, ha dovuto fare i conti con l’ostilità della Lega, di Forza Italia e di Fratelli d’Italia. «Se il testo è quello circolato siamo di fronte ad una enorme presa in giro, un impianto marxista che confonde la lotta al precariato con lotta al lavoro e alle imprese», diceva ieri pomeriggio Giorgia Meloni. Nonostante le modifiche, il testo sancisce la svolta a sinistra del leader pentastellato: riduzione dei limiti per i contratti a termine, reintroduzione delle causali nei contratti di lavoro a tempo determinato, aumento del costo per i licenziamenti, multe per le imprese che delocalizzano fino al quinto anno dal ricevimento di aiuti pubblici.
Incurante degli ultimi dati Istat che segnalano un aumento dell’occupazione come non accadeva da dieci anni, Di Maio marca il territorio a sinistra al grido di «licenziamo il Jobs Act». Per il superministro quei numeri «sono solo il trionfo della precarietà» e dunque confermano il bisogno di irrigidire l’impianto normativo a difesa del «buon lavoro». L’articolo uno del decreto, quello che rivede le norme sui contratti a termine, coincide parola per parola con l’articolo 50 della Carta dei diritti universali del lavoro, il manifesto con cui nel 2016 la Cgil rispose al verbo renziano. La norma sulle delocalizzazioni, pur ammorbidita rispetto alle prime bozze, riprende una proposta della Fiom di Maurizio Landini. Ieri il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti ha insistito fino a tarda sera con Di Maio per ammorbidire il testo discusso nel preconsiglio tecnico. Le pressioni su Palazzo Chigi per cambiare questo o quel dettaglio sono state enormi: «Il mondo delle imprese non vedeva un decreto così dai tempi del governo Prodi-Bertinotti», si sfoga un lobbista che chiede di non essere citato. Nel timore di uno shock sul mercato del lavoro, Di Maio ha evitato l’abolizione dei contratti di staff leasing, accettato il ritocco di quelli di somministrazione, rinunciato a modifiche normative che avrebbero avuto conseguenze pesanti sulle entrate fiscali, come quelle che avrebbero penalizzato il gioco d’azzardo. Per riequilibrare un testo molto schiacciato sulle ragioni del lavoro e dei sindacati, la Lega ha tentato di reintrodurre la disciplina dei voucher, aboliti dal governo Gentiloni sotto la pressione di un referendum voluto dai sindacati. Resta la norma che abolisce la trattenuta Iva per chi lavora con la pubblica amministrazione, ma sarà limitata alle partite Iva. È la conferma di un governo di ispirazione destra-sinistra, un grande compromesso storico in cui ciascuno dei due grandi azionisti della maggioranza cerca di dare risposte ai rispettivi elettorati. Dice un ministro leghista: «Abbiamo lasciato uno spazio politico ai Cinque Stelle in una fase in cui soffrono il protagonismo di Salvini». Le distanze fra i due partner della maggioranza sono evidenti, e si ripresenteranno durante la conversione del decreto in Parlamento. I leghisti infatti pensano già a come modificarlo: sarà così per la reintroduzione dei voucher e le norme sul lavoro. In fondo si tratta della ragion d’essere del governo giallo-verde: mai alleati, bensì semplici contraenti di un accordo di governo.
Il Fatto 3.7.18
Di Maio si prende la scena: “Licenziamo il Jobs Act”
Ok al testo. Stretta più forte sui contratti a termine. La parte fiscale (cara alla Lega) si sgonfia: mancavano le coperture
Di Maio si prende la scena: “Licenziamo il Jobs Act”
di Carlo Di Foggi


Alla fine il “decreto dignità” vede la luce. In tarda serata il Consiglio dei ministri ha approvato il provvedimento, il primo concreto in un mese di esecutivo, voluto dal vicepremier e ministro del Lavoro Luigi Di Maio, che per giorni è rimasto impallinato tra gli uffici del dicastero guidati dal pentastellato e quelli del ministero dell’Economia di Giovanni Tria. Problemi di coperture – che fino all’ultimo restano vaghe – ma anche alcuni disaccordi con l’alleato leghista. Poco prima della riunione, Di Maio opta per superare le bozze che circolavano forzando la mano su uno dei temi cardine del racconto pentastellato: sferrare un primo colpo al jobs act. Alla fine il risultato è un compromesso che sorride più al leader dei 5Stelle che a Matteo Salvini, assente perché impegnato al Palio di Siena. Al traguardo il provvedimento applica una stratta più forte sul lavoro precario – “Da oggi licenziamo il josb act” fanno sapere entusiasti da Palazzo Chigi – mentre la parte fiscale si sgonfia quasi del tutto riducendosi ad alcuni ritocchi.
Di fatto, col decreto il M5S prova reagire alla scena mediatica rubata dall’alleato, un provvedimento che guarda spiccatamente a sinistra e prova a ricucire i malumori interni sul tema migranti.
Il testo finale si arricchisce di una modifica al jobs act, portando l’indennizzo massimo per i licenziamenti senza giusta causa da 24 a 36 mensilità (l’articolo 18 non viene ripristinato). Confermata la stretta al ricorso ai contratti temporanei che smonta il “decreto Poletti” del 2014 che ne ha liberalizzato l’uso (facendone esplodere il numero): non potranno essere prorogati per più di 4 volte e durare più di due anni e, dopo i primi 12 mesi o il primo rinnovo, avranno bisogno della “causale”, cioè della giustificazione che l’impresa deve fornire per ricorrere a un contratto a termine, abolita dal governo Renzi. I limiti verrano estesi anche ai rapporti “in somministrazione”, il lavoro affittato dalle agenzie interinali che però non sarà conteggiato nel limite del 20% imposto alle aziende per contingentare i contratti a termine. Salta invece l’abolizione del tempo indeterminato somministrato (se ne riparlerà in Parlamento). Per scoraggiare il ricorso al precariato, il testo aumenta di 0,5 punti il costo contributivo per ogni rinnovo, a partire dal secondo.
Stretta meno forte, invece, per le delocalizzazioni. Le aziende che hanno ricevuto un sostegno pubblico, in qualsiasi forma (contributo, finanziamento agevolato, garanzia, aiuti fiscali, ecc.) che delocalizzano le attività all’estero prima che siano trascorsi cinque anni subiranno sanzioni da 2 a 4 volte il beneficio ricevuto, che andrà restituito con interessi maggiorati del 5%. Se gli aiuti prevedono una valutazione dell’impatto occupazionale, i benefici vengono revocati in tutto o in parte a chi taglia nei successivi cinque anni i posti di lavoro.
È confermato anche lo stop alla pubblicità al gioco di azzardo, in qualsiasi forma (tv, stampa, etc.) ma rispetto alle prime versioni vengono escluse le lotterie “a estrazione differita”, cioè la lotteria Italia (sarebbe stato un autogol per lo Stato). Chi non rispetta il divieto avrà una sanzione del 5% del valore della sponsorizzazione o comunque di “importo minimo di 50 mila euro” (che sale a 100 mila per gli spot durante gli spettacoli dedicati ai minori). Gli incassi andranno al fondo per il contrasto al gioco patologico. Una svolta notevole e una mazzata per il settore. Nel complesso la pubblicità del gioco muove un giro di circa 200 milioni, il 70% verso il mondo dello sport (80 milioni vanno alle tv). Per evitare contenziosi lo stop non si applica ai contratti in essere.
A uscireammaccato dal “giro delle sette chiese” dei ministeri (copyright Di Maio) è il pacchetto fisco, voluto da entrambi gli alleati ma caro soprattutto alla Lega. Lo stop di rilievo a spesometro, redditometro e split payment avrebbe aperto un buco da oltre cinque miliardi. Tria, di sponda con la ragioneria dello Stato ha bloccato le ipotesi più ardite. Per questo il redditometro non viene abolito (ma solo revisionato) così come lo spesometro, per cui è solo prevista la proroga a febbraio 2019 di quello relativo al terzo trimestre 2018. Lo split payment, il meccanismo con cui lo Stato trattiene l’Iva a monte dai fornitori (sottraendo liquidità) viene invece abolito solo per i professionisti (in totale vale circa 60 milioni), resta invece per le imprese.
Il Fatto 3.7.18
“La macchina è tutto: la sinistra non ha mai cambiato motore”

di Wanda Marra
Mauro Calise è docente di Scienza Politica all’università Federico II di Napoli

“Facciamo una premessa. L’Italia è stata negli ultimi 25 anni il più importante laboratorio di elaborazione partitica in Occidente. Sono nati tre partiti diversi, tutti vincenti. Prima quello di Berlusconi, poi i Cinque Stelle, poi la Lega di Salvini”. Mauro Calise, docente di Scienza politica all’Università di Napoli Federico II, ha studiato negli ultimi anni soprattutto la democrazia leaderistica, spesso osservandola a partire dall’esperienza del centrosinistra. Oggi riconosce quasi tutti i meriti agli altri.
Che cosa hanno in comune?
Sono degli “eserciti di nuovo modello” e fondono tre variabili: comunicazione, personalizzazione e organizzazione, innovandole profondamente tutte e tre. Berlusconi aveva una sua leadership personale, ma, al tempo stesso, grande capacità comunicativa e efficientissima struttura organizzativa. Mediolanum e Publitalia erano l’ossatura del nuovo partito. I Cinque Stelle hanno una straordinaria comunicazione con Grillo che per 5 anni è leader assoluto e utilizzano la rete per un controllo verticistico di tutta la struttura: la selezione del ceto politico, gli strumenti di partecipazione, tutto avviene attraverso il server. È il centralismo cybercratico. La Lega ha una struttura organizzativa territoriale solida, ma era al 4%. Poi è arrivato un leader forte e un nuovo uso dei social media, che si è innestato su un’impalcatura centralizzata, con un ceto parlamentare collaudato e amministratori locali di qualità. Mettendo il turbo di Facebook.
E il Pd?
Il Pd sta in un altro secolo, ibernato. Per 20 anni, non ha fatto niente di tutto questo. Non ha cambiato l’organizzazione, ha tentato di innovare un po’ la leadership, prima con Veltroni, poi con Renzi, che però sono stati fagocitati dalle vecchie oligarchie. Sulla comunicazione, rispetto a quello che hanno fatto Berlusconi, Salvini e Grillo, nemmeno un balbettio.
Sta dicendo che il fallimento di Renzi non dipende da lui, ma dall’oligarchia del Pd?
Ha ereditato un partito disastrato, non ha toccato nulla dell’organizzazione e dunque ha finito di sfasciarlo. Non lo ha innovato, lo ha solo conquistato. E questa è una colpa: il partito è prima di tutto organizzazione, non solo leadership. Se non metti mano al motore, è tutto finito.
Lei in passato ha difeso Renzi. Senza contare che la sua comunicazione per molto tempo è apparsa vincente. Ora come la vede?
In una prima fase lui ha innovato leadership e comunicazione. Ma ha pensato di poter fare a meno dell’organizzazione. C’è un’incultura del partito a sinistra. Hanno vissuto di rendita, fino a quando non si è esaurita.
Non crede ci sia l’assenza di un progetto politico chiaro? Che manchino le parole d’ordine, la base elettorale?
No. Nel senso che il progetto politico è importante, ne possiamo discutere. Ma non credo che sia fallimentare. È indebolito, questo è fuori discussione. Per esempio, va bene riaprire i circoli, ma non serve a niente se non li metti in rete, se non li fai vivere su Facebook, se non ti inventi una infrastruttura telematica che metta insieme sociale e virtuale. Com’è possibile che non ci sia un database dei due milioni di votanti alle primarie? I vari notabili erano troppo occupati a farsi le scarpe l’uno con l’altro. Casaleggio ha iniziato a lavorare sulla Rete 30 anni fa. Possibile che tutti questi soloni del Pd continuino a discutere sul progetto politico un po’ più a destra, un po’ più a sinistra, nel momento in cui i Cinque Stelle hanno detto “noi siamo post ideologici”?
Sta dicendo che la destra e la sinistra non esistono più?
Certo che esistono. Ma l’organizzazione è macchina. Devi mettere insieme una grande infrastruttura che metta in Rete, con la erre maiuscola, circoli, sindacati, associazioni. Vecchie assemblee e vecchie primarie, da sole, non servono a niente. I temi sono importanti se riesci a farli conoscere. Devono nascere da un’organizzazione o da un leader. Oggi nel Pd non c’è nessuna delle due cose.
La politica resta solo leaderistica?
È la realtà in tutto l’Occidente. Con Macron o Trump o Salvini o Grillo e Di Maio. Il periodo migliore per il Pd è stato quando sembrava che Renzi potesse diventare un grande leader. Poi si è scoperto che era un po’ meno grande, quando ha pensato di fare a meno di sporcarsi le mani con l’organizzazione. E così i vecchi notabili e l’oligarchia se lo sono fatto fritto, friggendosi però anche loro.
Il Fronte di Calenda?
Un rassemblement di benpensanti senza un leader. Con un’infrastruttura solida ne riparliamo. Vi ricordate Montezemolo? Passera? Monti? Tutti partiti in embrione che non sono andati da nessuna parte per mancanza di organizzazione. Per me, discutere su “dentro” il Pd o “oltre il Pd” sono parole al vento. Serve un motore nuovo.
Inutile che le chieda di Zingaretti, a questo punto.
Se nel suo progetto associativo, ci mette dentro il turbo della Rete può saldare passato e futuro. Altrimenti si fa un partito del 12%.
Renzi si deve togliere di mezzo?
È l’ultimo dei problemi. Ma se la strada è continuare da solo, si farà un partitino del 5 o 6% per sistemare un po’ di ceto politico e non aiuterà né il Paese né la sinistra.
Che congresso servirebbe?
Un congresso di rifondazione organizzativa. E per farlo, devono iniziare a studiare. Altrimenti si va verso l’estinzione.
Repubblica 3.7.18
Il commento
I prossimi trent’anni con Salvini
di Natalia Aspesi


Trent’anni! Una condanna tipo “fine pena mai”! Un anno sembrava già una punizione insopportabile, per lo meno per chi, nato quando c’era Lui, si ritrova a pochi passi dalla riduzione in cenere, con un nuovo Lui ancor più luciferino. Dispiace, tanti decenni di non abbastanza e poi ci si ritrova al punto di partenza.
Anche Facebook spaventa, non solo per l’entusiasmo anti- immigrati ( per ora Lui non ha promesso altro, però a tanti pare che basti), ma per la quantità di giovanotti bonaccioni e magari non di destra, né di sinistra per ora ( altri trent’anni?) fantasmizzata, con nuove barbine e baffi e capelli di un millimetro: il che fa moda e macho e piace molto alle ragazze. Facendone però tanti Lui il che pare una assurda clonazione, che potrebbe creare inconsapevoli o incalliti follower.
Si spera in un vasto mercato della di Lui maglietta azzurra con ritratto e solita frase pacchia-na, definitivamente al posto di quella verde (contenta Forza Italia?). Si vorrebbe sapere, tanto per regolarsi, se la pacchia è finita solo per quelli che affogano nel Mediterraneo, solitamente marroni quindi immediatamente distinguibili, o anche per i gialli, che però stan qui da sempre, i gialloverdi che anche loro sono una folla ormai inserita per lavorare in tante case, o anche per i bianchi: non si sente più parlare degli albanesi e dei romeni per anni indicati come pericolosi, ma intanto arriva dalle loro piccole patrie vessate dall’amico Putin, gente molto più bianca di noi ma clandestina, da quando, era il 1912, si sono interrotti i permessi di soggiorno.
Ma se torniamo al color marrone: i simpatici viados brasiliani ce li teniamo lo stesso perché utili al maschio italiano vessato dalle sue donne rosate che rifiutano persino un pizzicotto, non parliamo la coltellata? E le bande di gangster nigeriani che infestano i piccoli centri attorno a Milano ( vedi il bel giallo di Colaprico La strategia del gambero) che sono il più nero possibile e vengono dall’Africa? Ogni tanto vanno in galera ma non si è mai sentito dire, pur vivendo loro in gran pacchia, che bisognava rimandarli a casa.
Da Pontida altre parole guerresche, « sconfiggere l’Europa delle banche e delle multinazionali!» quante volte lo si è sentito dire, ma è difficile caro Lui, purtroppo le banche e le multinazionali hanno sempre sconfitto noi. Perché sono le banche e le multinazionali, di cui anche l’Europa dei Popoli per non essere solo minaccia o promessa avrà certamente bisogno. Se poi davvero Lui incontrerà le belle, ridenti ragazze italiane colorate che han vinto ieri la staffetta, «perché non sono come i clandestini » . Giusto, ma da che parte saranno arrivate loro o i loro genitori?
Il Fatto 3.7.18
Libia, altri 114 morti in mare. L’Ue: “Non li riportiamo lì”
Terzo naufragio in pochi giorni. L’Oim: nel 2018 oltre mille vittime. La Commissione: le navi europee non rimandino migranti a Tripoli
di Alessandro Mantovani


“Un altro triste giorno in mare: oggi 276 rifugiati e migranti sono stati fatti sbarcare Tripoli, inclusi 16 sopravvissuti di un’imbarcazione che portava 130 persone, delle quali 114 sono ancora disperse in mare” ha fatto sapere la sezione libica dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). È il terzo naufragio in una settimana: un centinaio, 63 e ora 114 dispersi, cioè quasi certamente annegati.
Secondo l’Oim, l’agenzia Onu per le migrazioni, i morti in mare sono oltre mille nel 2018, di cui 635 nella cosiddetta rotta centrale tra la Libia e l’Italia. È un dato, per il momento, inferiore a quelli degli anni scorsi (dai 3.283 del 2014, ai 3.785 del 2015 per poi schizzare a 5.413 nel 2016 e ridiscendere a 3.116 nel 2017) ma bisogna tener conto che le navi delle Ong, alle quali Italia e Malta negano i porti anche per il rifornimento, hanno ormai abbandonato l’immensa zona Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso).
Le difficoltà della Guardia costiera libica sono evidenti. L’impegno italiano si è tradotto ieri nel decreto che avvia la cessione di 10 tra motovedette e gommoni delle nostre Capitanerie e due imbarcazioni della Guardia di Finanza. Il decreto stanzia un milione e 150 mila euro per gli interventi sulle imbarcazioni in Libia e un milione 370 mila euro per la formazione del personale della Guardia Costiera e della Marina Libica. E il comitato tecnico intergovernativo Italia-Libia ieri a Tripoli ha discusso anche di rimpatri assistiti e monitoraggio delle frontiere sud.
La linea italiana di “lasciar fare ai libici” nelle loro acque territoriali e nella loro zona Sar, è stata accolta dal Consiglio europeo. Tuttavia ieri la portavoce della Commissione europea per le migrazioni, Natasha Bertaud, ha escluso “rimpatri dell’Ue verso la Libia o navi europee che rimandano i migranti in Libia. Questo – ha detto – è contro i nostri valori, il diritto internazionale e quello europeo. Siamo ben al corrente della situazione inumana per molti migranti in Libia”, ha ricordato, con gli stessi argomenti utilizzati con successo dalle Ong per difendersi in sede giudiziaria in Italia. Si ha notizia di un mercantile, di proprietà di una società che ha sede alle Isole Marshall e non nell’Ue, che domenica ha consegnato i migranti sfuggiti a un naufragio alla Marina di Tripoli. Bertaud ha confermato “quando c’è il Centro di coordinamento e di salvataggio libico che coordina, tutte le imbarcazioni devono rispettare gli ordini dei libici”. Più in generale, secondo Bertaud, “negli ultimi tre anni, nonostante un affollamento di navi, il Mediterraneo è più mortale che mai per i migranti, questo perché il modello dei trafficanti è cambiato, si è adattato a questo numero crescente di navi. Per questo vogliamo cambiare il nostro approccio e lavoriamo con i libici. Ma continueremo a fare il nostro lavoro: ci sono sempre tre operazioni europee attive nel Mediterraneo”.
Corriere 3.7.18
L’emergenza un anno per gli aiuti
Altri 114 migranti morti in Libia Ostacoli al piano
di Fiorenza Sarzanini


Nuovo naufragio al largo della Libia secondo quanto annunciato dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati: 114 dispersi in mare. L’Italia darà 12 motovedette ai libici ma ci vorrà un anno per rispondere a tutte le altre richieste del governo di Tripoli (che reputa comunque il pacchetto insufficiente).
Roma Motovedette, gommoni, vetture, autobus, apparecchiature, ambulanze: ci vorrà almeno un anno per rispondere alle richieste del governo libico. La procedura è avviata, ma i tempi non potranno essere brevi. E dunque bisogna individuare una strategia che possa consentire di gestire la situazione rallentando il ritmo delle partenze. I centri di detenzione gestiti dalle autorità locali sono allo stremo, centinaia di migliaia di stranieri vivono in condizioni disumane. Almeno altri 50 mila sono invece pronti a salpare. Ed è a questo che l’Europa, ma soprattutto l’Italia, dovrà fare fronte. Nella consapevolezza che le organizzazioni criminali potrebbero decidere di alzare la posta facendo arrivare i loro barconi sino alle acque italiane, oppure imbarcando persone su mezzi di fortuna che rischiano di affondare appena poche miglia dopo essere salpati, proprio come accaduto negli ultimi giorni e ancora ieri. La scelta di consegnare entro ottobre le prime dodici motovedette — come stabilito ieri dal governo che ha pronto il decreto — e di occuparsi della manutenzione di quelle che erano state donate negli anni scorsi, mira a mostrare volontà di collaborazione. Ma certo appare difficile che possa bastare a soddisfare le istanze di Tripoli, tenendo conto che nell’incontro con il ministro dell’Interno Matteo Salvini della scorsa settimana è stato rimesso sul piatto del negoziato il progetto per la costruzione dell’autostrada previsto dall’accordo di amicizia e cooperazione siglato da Silvio Berlusconi con il colonnello Gheddafi nel 2008.
I soldi Ue
La delegazione giunta ieri in Libia, guidata dai vertici della direzione centrale per l’Immigrazione, può contare su 46 milioni di euro, di cui 30 messi a disposizione dall’Ue. L’incontro è servito a definire tempi e modi dell’operazione e alla fine è stato stabilito che la consegna completa di apparecchiature e mezzi non avverrà prima di un anno. Bisogna infatti indire le gare di appalto, individuare le ditte partecipanti che devono avere una tecnologia particolare e poi attendere che imbarcazioni e vetture vengano equipaggiate in maniera da poter essere utilizzate per i pattugliamenti terrestri e soprattutto per i controlli in mare. Ma anche costruire il centro di coordinamento della Guardia costiera libica nel luogo che è stato esaminato proprio ieri. Secondo i tecnici tutto questo potrà essere completato nel giro di dodici mesi, sempre che non ci siano ulteriori intoppi. Si tratta in ogni caso di un «pacchetto» che i libici non ritengono sufficiente, anche perché erano già stati avviati progetti di sostegno con i capi tribù che adesso appaiono determinati a chiedere il rispetto delle intese in cambio della garanzia di controllare il proprio territorio.
Ong e cargo
Il fatto che le organizzazioni criminali abbiano sempre gestito gli sbarchi anche come elemento di pressione nei confronti del nostro Paese e dell’Ue non è un mistero e il bilancio delle vittime in mare nelle ultime due settimane sembra dimostrarlo. Un bollettino che rischia di aggravarsi nei prossimi giorni. Dopo la decisione di Malta e Italia di chiudere i porti all’ingresso delle navi delle Ong cariche di migranti, ma anche a quelle che devono rifornirsi di viveri e carburante, rischia di crearsi un nuovo problema. Sembra infatti difficile poter continuare a contare sulla cooperazione dei mercantili che finora sono sempre stati disponibili a soccorrere i barconi in difficoltà. In caso di emergenza venivano sollecitati dal centro di coordinamento di Roma e poi potevano effettuare il trasbordo dei migranti sulle navi delle Ong, sulle motovedette italiane oppure portare gli stranieri nel porto più vicino. Una procedura che adesso non è più possibile seguire e il rischio altissimo è che si perdano giorni di navigazione per il trasporto delle merci. Esattamente quanto accaduto al «Maersk Alexander», rimasto in mare per quasi cinque giorni con 113 migranti a bordo con una perdita per la Compagnia di oltre 800 mila euro perché il carico è rimasto fermo, ma con l’affitto del mercantile che è stato ugualmente versato. E adesso sembra davvero improbabile che altri mercantili o pescherecci vogliano trovarsi nella stessa situazione. Anche se questo vuol dire evitare di soccorrere chi rischia di affogare.
La Stampa TutoSalute 3.7.18
Vive meglio chi ascolta l’inconscio
“I consigli per gestire la doppia vita del cervello”
Ecco la lezione dello psicologo americano John Bargh
di Marco Pivato


Tutti abbiamo una canzone, un luogo o un ricordo che ci fa emozionare ela scintilla avviene istantaneamente, prima di spiegarne il motivo. E poi c’è lui che preferisce le bionde e lei che si sceglie sempre i ragazzi che la fanno stare male. Perché siamo quello che siamo e facciamo quello che facciamo?
Già Sigmund Freud, teorizzando l’inconscio quale burattinaio delle nostre scelte, aveva fornito una proposta. Ma partiva da un dogma indimostrabile. L’esistenza dell’inconscio, oggi, può essere invece discussa scientificamente: non tanto per affermarlo o negarlo, perché le neuroscienze già ci insegnano che, effettivamente, siamo governati da moti inconsapevoli, ma per gestirlo, comprendere le nostre scelte e migliorare la salute. Le istruzioni sono quelle contenute in «A tua insaputa. La mente inconscia che guida le nostre azioni» (Bollati Boringhieri), un’opera di John Bargh, psicologo sociale alla Yale University.
Nonostante le tecniche di «neuroimaging» provino che il cervello «lavora» e ci indirizza senza che noi ce ne rendiamo conto, è difficile accettare di non essere i padroni in casa propria. Ma Bargh elenca molti esempi a dimostrazione di quanto l’inconscio sia produttivo. Come quando guidiamo l’auto: non siamo consapevoli di i tutti i compiti in contemporanea di una procedura così complessa, tra cui calcolare la forza sull’acceleratore, bilanciare la frizione, sterzare, esaminare la strada e, nello stesso tempo, chiacchierare. La parte cosciente si limita, per l’appunto, a conversare o ad ascoltare la radio, mentre il resto lo fa l’inconscio. A volte, però, questa doppia vita del cervello crea un cortocircuito, come quando due inquilini non si trovano d’accordo su come amministrare una casa.
Un mondo fittizio
L’inconscio, per esempio, tende a presentare il conto di un vissuto traumatico mentre la parte cosciente lo rifiuta. Da ciò nascono le nevrosi, gli atti mancati, i lapsus. O, nei casi più gravi, l’individuo costruisce per sé un mondo fittizio, dove si rifugia lontano dal trauma ma anche dalla realtà. Qui interviene il primo consiglio del professore: «Per migliorare il dialogo tra conscio e inconscio non forzatevi di essere sempre razionali, concedetevi di essere istintivi: la coerenza a tutti i costi reprime la “pancia”, che poi è l’inconscio». Il capitano di una nave non tira dritto in barba a venti e correnti, ma corregge le manovre, quando gli elementi sono contrari, altrimenti va alla deriva. «L’autocontrollo non si ottiene con la forza di volontà - spiega Bargh, uscendo dalla metafora della nave -. Le persone sane e sicure di sé agiscono spontaneamente».
Gli americani poi, si sa, sono poco filosofi. Quindi Bargh indica come mettere in pratica tutto quanto sopra. Se vogliamo attuare dei compiti virtuosi ma problematici (seguire una dieta, fare esercizio fisico o studiare con regolarità), pianifichiamo quando, dove e come attuarli. Diamoci sempre lo stesso orario e medesime regole. Solo questa parte è «razionale», perché «quello che è all’inizio un imperativo, se praticato regolarmente, diventa automatico: creare una routine di spazio e tempo promuove la ripetizione di un compito, sfruttando stimoli naturali dell’ambiente sul nostro comportamento». È il miglior modo per non distrarsi ed evitare le tentazioni, cose che, invece, la ragione è brava a innescare.
Esperienze e destino
Sfruttare le automaticità dell’inconscio, quindi, paga. La fatica consiste nell’inserire, con regolarità, i compiti che vogliamo imparare sui suoi inconsapevoli binari. Sapere di possedere queste automaticità, poi, serve anche a conoscerci meglio. Le sfruttano le nostre emozioni, paure e aspettative. Per esempio un’esperienza negativa, dato che viene rivissuta a causa del suo carattere di trauma, instaura una routine che ci rende cronicamente timorosi verso lo stesso stimolo. Vale per tutte le esperienze, positive e negative, che si fissano nella mente e il cui effetto si automatizza: tendiamo a riproporre situazioni penose, cacciandoci nello stesso guaio e quindi pensiamo di essere sfortunati. In altre occasioni invece tutto sembra andare liscio naturalmente. Ma il destino non esiste. Siamo quello che siamo perché vi siamo educati inconsapevolmente. Tanto vale allenarci a conoscerlo e controllarlo.
La Stampa TutoSalute 3.7.18
Vive meglio chi ascolta l’inconscio
“I consigli per gestire la doppia vita del cervello”
Ecco la lezione dello psicologo americano John Bargh
di Marco Pivato


Tutti abbiamo una canzone, un luogo o un ricordo che ci fa emozionare ela scintilla avviene istantaneamente, prima di spiegarne il motivo. E poi c’è lui che preferisce le bionde e lei che si sceglie sempre i ragazzi che la fanno stare male. Perché siamo quello che siamo e facciamo quello che facciamo?
Già Sigmund Freud, teorizzando l’inconscio quale burattinaio delle nostre scelte, aveva fornito una proposta. Ma partiva da un dogma indimostrabile. L’esistenza dell’inconscio, oggi, può essere invece discussa scientificamente: non tanto per affermarlo o negarlo, perché le neuroscienze già ci insegnano che, effettivamente, siamo governati da moti inconsapevoli, ma per gestirlo, comprendere le nostre scelte e migliorare la salute. Le istruzioni sono quelle contenute in «A tua insaputa. La mente inconscia che guida le nostre azioni» (Bollati Boringhieri), un’opera di John Bargh, psicologo sociale alla Yale University.
Nonostante le tecniche di «neuroimaging» provino che il cervello «lavora» e ci indirizza senza che noi ce ne rendiamo conto, è difficile accettare di non essere i padroni in casa propria. Ma Bargh elenca molti esempi a dimostrazione di quanto l’inconscio sia produttivo. Come quando guidiamo l’auto: non siamo consapevoli di i tutti i compiti in contemporanea di una procedura così complessa, tra cui calcolare la forza sull’acceleratore, bilanciare la frizione, sterzare, esaminare la strada e, nello stesso tempo, chiacchierare. La parte cosciente si limita, per l’appunto, a conversare o ad ascoltare la radio, mentre il resto lo fa l’inconscio. A volte, però, questa doppia vita del cervello crea un cortocircuito, come quando due inquilini non si trovano d’accordo su come amministrare una casa.
Un mondo fittizio
L’inconscio, per esempio, tende a presentare il conto di un vissuto traumatico mentre la parte cosciente lo rifiuta. Da ciò nascono le nevrosi, gli atti mancati, i lapsus. O, nei casi più gravi, l’individuo costruisce per sé un mondo fittizio, dove si rifugia lontano dal trauma ma anche dalla realtà. Qui interviene il primo consiglio del professore: «Per migliorare il dialogo tra conscio e inconscio non forzatevi di essere sempre razionali, concedetevi di essere istintivi: la coerenza a tutti i costi reprime la “pancia”, che poi è l’inconscio». Il capitano di una nave non tira dritto in barba a venti e correnti, ma corregge le manovre, quando gli elementi sono contrari, altrimenti va alla deriva. «L’autocontrollo non si ottiene con la forza di volontà - spiega Bargh, uscendo dalla metafora della nave -. Le persone sane e sicure di sé agiscono spontaneamente».
Gli americani poi, si sa, sono poco filosofi. Quindi Bargh indica come mettere in pratica tutto quanto sopra. Se vogliamo attuare dei compiti virtuosi ma problematici (seguire una dieta, fare esercizio fisico o studiare con regolarità), pianifichiamo quando, dove e come attuarli. Diamoci sempre lo stesso orario e medesime regole. Solo questa parte è «razionale», perché «quello che è all’inizio un imperativo, se praticato regolarmente, diventa automatico: creare una routine di spazio e tempo promuove la ripetizione di un compito, sfruttando stimoli naturali dell’ambiente sul nostro comportamento». È il miglior modo per non distrarsi ed evitare le tentazioni, cose che, invece, la ragione è brava a innescare.
Esperienze e destino
Sfruttare le automaticità dell’inconscio, quindi, paga. La fatica consiste nell’inserire, con regolarità, i compiti che vogliamo imparare sui suoi inconsapevoli binari. Sapere di possedere queste automaticità, poi, serve anche a conoscerci meglio. Le sfruttano le nostre emozioni, paure e aspettative. Per esempio un’esperienza negativa, dato che viene rivissuta a causa del suo carattere di trauma, instaura una routine che ci rende cronicamente timorosi verso lo stesso stimolo. Vale per tutte le esperienze, positive e negative, che si fissano nella mente e il cui effetto si automatizza: tendiamo a riproporre situazioni penose, cacciandoci nello stesso guaio e quindi pensiamo di essere sfortunati. In altre occasioni invece tutto sembra andare liscio naturalmente. Ma il destino non esiste. Siamo quello che siamo perché vi siamo educati inconsapevolmente. Tanto vale allenarci a conoscerlo e controllarlo.

Corriere 3.7.18
L’emergenza un anno per gli aiuti
Altri 114 migranti morti in Libia Ostacoli al piano
di Fiorenza Sarzanini


Nuovo naufragio al largo della Libia secondo quanto annunciato dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati: 114 dispersi in mare. L’Italia darà 12 motovedette ai libici ma ci vorrà un anno per rispondere a tutte le altre richieste del governo di Tripoli (che reputa comunque il pacchetto insufficiente).
Roma Motovedette, gommoni, vetture, autobus, apparecchiature, ambulanze: ci vorrà almeno un anno per rispondere alle richieste del governo libico. La procedura è avviata, ma i tempi non potranno essere brevi. E dunque bisogna individuare una strategia che possa consentire di gestire la situazione rallentando il ritmo delle partenze. I centri di detenzione gestiti dalle autorità locali sono allo stremo, centinaia di migliaia di stranieri vivono in condizioni disumane. Almeno altri 50 mila sono invece pronti a salpare. Ed è a questo che l’Europa, ma soprattutto l’Italia, dovrà fare fronte. Nella consapevolezza che le organizzazioni criminali potrebbero decidere di alzare la posta facendo arrivare i loro barconi sino alle acque italiane, oppure imbarcando persone su mezzi di fortuna che rischiano di affondare appena poche miglia dopo essere salpati, proprio come accaduto negli ultimi giorni e ancora ieri. La scelta di consegnare entro ottobre le prime dodici motovedette — come stabilito ieri dal governo che ha pronto il decreto — e di occuparsi della manutenzione di quelle che erano state donate negli anni scorsi, mira a mostrare volontà di collaborazione. Ma certo appare difficile che possa bastare a soddisfare le istanze di Tripoli, tenendo conto che nell’incontro con il ministro dell’Interno Matteo Salvini della scorsa settimana è stato rimesso sul piatto del negoziato il progetto per la costruzione dell’autostrada previsto dall’accordo di amicizia e cooperazione siglato da Silvio Berlusconi con il colonnello Gheddafi nel 2008.
I soldi Ue
La delegazione giunta ieri in Libia, guidata dai vertici della direzione centrale per l’Immigrazione, può contare su 46 milioni di euro, di cui 30 messi a disposizione dall’Ue. L’incontro è servito a definire tempi e modi dell’operazione e alla fine è stato stabilito che la consegna completa di apparecchiature e mezzi non avverrà prima di un anno. Bisogna infatti indire le gare di appalto, individuare le ditte partecipanti che devono avere una tecnologia particolare e poi attendere che imbarcazioni e vetture vengano equipaggiate in maniera da poter essere utilizzate per i pattugliamenti terrestri e soprattutto per i controlli in mare. Ma anche costruire il centro di coordinamento della Guardia costiera libica nel luogo che è stato esaminato proprio ieri. Secondo i tecnici tutto questo potrà essere completato nel giro di dodici mesi, sempre che non ci siano ulteriori intoppi. Si tratta in ogni caso di un «pacchetto» che i libici non ritengono sufficiente, anche perché erano già stati avviati progetti di sostegno con i capi tribù che adesso appaiono determinati a chiedere il rispetto delle intese in cambio della garanzia di controllare il proprio territorio.
Ong e cargo
Il fatto che le organizzazioni criminali abbiano sempre gestito gli sbarchi anche come elemento di pressione nei confronti del nostro Paese e dell’Ue non è un mistero e il bilancio delle vittime in mare nelle ultime due settimane sembra dimostrarlo. Un bollettino che rischia di aggravarsi nei prossimi giorni. Dopo la decisione di Malta e Italia di chiudere i porti all’ingresso delle navi delle Ong cariche di migranti, ma anche a quelle che devono rifornirsi di viveri e carburante, rischia di crearsi un nuovo problema. Sembra infatti difficile poter continuare a contare sulla cooperazione dei mercantili che finora sono sempre stati disponibili a soccorrere i barconi in difficoltà. In caso di emergenza venivano sollecitati dal centro di coordinamento di Roma e poi potevano effettuare il trasbordo dei migranti sulle navi delle Ong, sulle motovedette italiane oppure portare gli stranieri nel porto più vicino. Una procedura che adesso non è più possibile seguire e il rischio altissimo è che si perdano giorni di navigazione per il trasporto delle merci. Esattamente quanto accaduto al «Maersk Alexander», rimasto in mare per quasi cinque giorni con 113 migranti a bordo con una perdita per la Compagnia di oltre 800 mila euro perché il carico è rimasto fermo, ma con l’affitto del mercantile che è stato ugualmente versato. E adesso sembra davvero improbabile che altri mercantili o pescherecci vogliano trovarsi nella stessa situazione. Anche se questo vuol dire evitare di soccorrere chi rischia di affogare.

Il Fatto 3.7.18
Libia, altri 114 morti in mare. L’Ue: “Non li riportiamo lì”
Terzo naufragio in pochi giorni. L’Oim: nel 2018 oltre mille vittime. La Commissione: le navi europee non rimandino migranti a Tripoli
di Alessandro Mantovani


“Un altro triste giorno in mare: oggi 276 rifugiati e migranti sono stati fatti sbarcare Tripoli, inclusi 16 sopravvissuti di un’imbarcazione che portava 130 persone, delle quali 114 sono ancora disperse in mare” ha fatto sapere la sezione libica dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). È il terzo naufragio in una settimana: un centinaio, 63 e ora 114 dispersi, cioè quasi certamente annegati.
Secondo l’Oim, l’agenzia Onu per le migrazioni, i morti in mare sono oltre mille nel 2018, di cui 635 nella cosiddetta rotta centrale tra la Libia e l’Italia. È un dato, per il momento, inferiore a quelli degli anni scorsi (dai 3.283 del 2014, ai 3.785 del 2015 per poi schizzare a 5.413 nel 2016 e ridiscendere a 3.116 nel 2017) ma bisogna tener conto che le navi delle Ong, alle quali Italia e Malta negano i porti anche per il rifornimento, hanno ormai abbandonato l’immensa zona Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso).
Le difficoltà della Guardia costiera libica sono evidenti. L’impegno italiano si è tradotto ieri nel decreto che avvia la cessione di 10 tra motovedette e gommoni delle nostre Capitanerie e due imbarcazioni della Guardia di Finanza. Il decreto stanzia un milione e 150 mila euro per gli interventi sulle imbarcazioni in Libia e un milione 370 mila euro per la formazione del personale della Guardia Costiera e della Marina Libica. E il comitato tecnico intergovernativo Italia-Libia ieri a Tripoli ha discusso anche di rimpatri assistiti e monitoraggio delle frontiere sud.
La linea italiana di “lasciar fare ai libici” nelle loro acque territoriali e nella loro zona Sar, è stata accolta dal Consiglio europeo. Tuttavia ieri la portavoce della Commissione europea per le migrazioni, Natasha Bertaud, ha escluso “rimpatri dell’Ue verso la Libia o navi europee che rimandano i migranti in Libia. Questo – ha detto – è contro i nostri valori, il diritto internazionale e quello europeo. Siamo ben al corrente della situazione inumana per molti migranti in Libia”, ha ricordato, con gli stessi argomenti utilizzati con successo dalle Ong per difendersi in sede giudiziaria in Italia. Si ha notizia di un mercantile, di proprietà di una società che ha sede alle Isole Marshall e non nell’Ue, che domenica ha consegnato i migranti sfuggiti a un naufragio alla Marina di Tripoli. Bertaud ha confermato “quando c’è il Centro di coordinamento e di salvataggio libico che coordina, tutte le imbarcazioni devono rispettare gli ordini dei libici”. Più in generale, secondo Bertaud, “negli ultimi tre anni, nonostante un affollamento di navi, il Mediterraneo è più mortale che mai per i migranti, questo perché il modello dei trafficanti è cambiato, si è adattato a questo numero crescente di navi. Per questo vogliamo cambiare il nostro approccio e lavoriamo con i libici. Ma continueremo a fare il nostro lavoro: ci sono sempre tre operazioni europee attive nel Mediterraneo”.

Repubblica 3.7.18
Il commento
I prossimi trent’anni con Salvini
di Natalia Aspesi


Trent’anni! Una condanna tipo “fine pena mai”! Un anno sembrava già una punizione insopportabile, per lo meno per chi, nato quando c’era Lui, si ritrova a pochi passi dalla riduzione in cenere, con un nuovo Lui ancor più luciferino. Dispiace, tanti decenni di non abbastanza e poi ci si ritrova al punto di partenza.
Anche Facebook spaventa, non solo per l’entusiasmo anti- immigrati ( per ora Lui non ha promesso altro, però a tanti pare che basti), ma per la quantità di giovanotti bonaccioni e magari non di destra, né di sinistra per ora ( altri trent’anni?) fantasmizzata, con nuove barbine e baffi e capelli di un millimetro: il che fa moda e macho e piace molto alle ragazze. Facendone però tanti Lui il che pare una assurda clonazione, che potrebbe creare inconsapevoli o incalliti follower.
Si spera in un vasto mercato della di Lui maglietta azzurra con ritratto e solita frase pacchia-na, definitivamente al posto di quella verde (contenta Forza Italia?). Si vorrebbe sapere, tanto per regolarsi, se la pacchia è finita solo per quelli che affogano nel Mediterraneo, solitamente marroni quindi immediatamente distinguibili, o anche per i gialli, che però stan qui da sempre, i gialloverdi che anche loro sono una folla ormai inserita per lavorare in tante case, o anche per i bianchi: non si sente più parlare degli albanesi e dei romeni per anni indicati come pericolosi, ma intanto arriva dalle loro piccole patrie vessate dall’amico Putin, gente molto più bianca di noi ma clandestina, da quando, era il 1912, si sono interrotti i permessi di soggiorno.
Ma se torniamo al color marrone: i simpatici viados brasiliani ce li teniamo lo stesso perché utili al maschio italiano vessato dalle sue donne rosate che rifiutano persino un pizzicotto, non parliamo la coltellata? E le bande di gangster nigeriani che infestano i piccoli centri attorno a Milano ( vedi il bel giallo di Colaprico La strategia del gambero) che sono il più nero possibile e vengono dall’Africa? Ogni tanto vanno in galera ma non si è mai sentito dire, pur vivendo loro in gran pacchia, che bisognava rimandarli a casa.
Da Pontida altre parole guerresche, « sconfiggere l’Europa delle banche e delle multinazionali!» quante volte lo si è sentito dire, ma è difficile caro Lui, purtroppo le banche e le multinazionali hanno sempre sconfitto noi. Perché sono le banche e le multinazionali, di cui anche l’Europa dei Popoli per non essere solo minaccia o promessa avrà certamente bisogno. Se poi davvero Lui incontrerà le belle, ridenti ragazze italiane colorate che han vinto ieri la staffetta, «perché non sono come i clandestini » . Giusto, ma da che parte saranno arrivate loro o i loro genitori?

Il Fatto 3.7.18
“La macchina è tutto: la sinistra non ha mai cambiato motore”

di Wanda Marra
Mauro Calise è docente di Scienza Politica all’università Federico II di Napoli

“Facciamo una premessa. L’Italia è stata negli ultimi 25 anni il più importante laboratorio di elaborazione partitica in Occidente. Sono nati tre partiti diversi, tutti vincenti. Prima quello di Berlusconi, poi i Cinque Stelle, poi la Lega di Salvini”. Mauro Calise, docente di Scienza politica all’Università di Napoli Federico II, ha studiato negli ultimi anni soprattutto la democrazia leaderistica, spesso osservandola a partire dall’esperienza del centrosinistra. Oggi riconosce quasi tutti i meriti agli altri.
Che cosa hanno in comune?
Sono degli “eserciti di nuovo modello” e fondono tre variabili: comunicazione, personalizzazione e organizzazione, innovandole profondamente tutte e tre. Berlusconi aveva una sua leadership personale, ma, al tempo stesso, grande capacità comunicativa e efficientissima struttura organizzativa. Mediolanum e Publitalia erano l’ossatura del nuovo partito. I Cinque Stelle hanno una straordinaria comunicazione con Grillo che per 5 anni è leader assoluto e utilizzano la rete per un controllo verticistico di tutta la struttura: la selezione del ceto politico, gli strumenti di partecipazione, tutto avviene attraverso il server. È il centralismo cybercratico. La Lega ha una struttura organizzativa territoriale solida, ma era al 4%. Poi è arrivato un leader forte e un nuovo uso dei social media, che si è innestato su un’impalcatura centralizzata, con un ceto parlamentare collaudato e amministratori locali di qualità. Mettendo il turbo di Facebook.
E il Pd?
Il Pd sta in un altro secolo, ibernato. Per 20 anni, non ha fatto niente di tutto questo. Non ha cambiato l’organizzazione, ha tentato di innovare un po’ la leadership, prima con Veltroni, poi con Renzi, che però sono stati fagocitati dalle vecchie oligarchie. Sulla comunicazione, rispetto a quello che hanno fatto Berlusconi, Salvini e Grillo, nemmeno un balbettio.
Sta dicendo che il fallimento di Renzi non dipende da lui, ma dall’oligarchia del Pd?
Ha ereditato un partito disastrato, non ha toccato nulla dell’organizzazione e dunque ha finito di sfasciarlo. Non lo ha innovato, lo ha solo conquistato. E questa è una colpa: il partito è prima di tutto organizzazione, non solo leadership. Se non metti mano al motore, è tutto finito.
Lei in passato ha difeso Renzi. Senza contare che la sua comunicazione per molto tempo è apparsa vincente. Ora come la vede?
In una prima fase lui ha innovato leadership e comunicazione. Ma ha pensato di poter fare a meno dell’organizzazione. C’è un’incultura del partito a sinistra. Hanno vissuto di rendita, fino a quando non si è esaurita.
Non crede ci sia l’assenza di un progetto politico chiaro? Che manchino le parole d’ordine, la base elettorale?
No. Nel senso che il progetto politico è importante, ne possiamo discutere. Ma non credo che sia fallimentare. È indebolito, questo è fuori discussione. Per esempio, va bene riaprire i circoli, ma non serve a niente se non li metti in rete, se non li fai vivere su Facebook, se non ti inventi una infrastruttura telematica che metta insieme sociale e virtuale. Com’è possibile che non ci sia un database dei due milioni di votanti alle primarie? I vari notabili erano troppo occupati a farsi le scarpe l’uno con l’altro. Casaleggio ha iniziato a lavorare sulla Rete 30 anni fa. Possibile che tutti questi soloni del Pd continuino a discutere sul progetto politico un po’ più a destra, un po’ più a sinistra, nel momento in cui i Cinque Stelle hanno detto “noi siamo post ideologici”?
Sta dicendo che la destra e la sinistra non esistono più?
Certo che esistono. Ma l’organizzazione è macchina. Devi mettere insieme una grande infrastruttura che metta in Rete, con la erre maiuscola, circoli, sindacati, associazioni. Vecchie assemblee e vecchie primarie, da sole, non servono a niente. I temi sono importanti se riesci a farli conoscere. Devono nascere da un’organizzazione o da un leader. Oggi nel Pd non c’è nessuna delle due cose.
La politica resta solo leaderistica?
È la realtà in tutto l’Occidente. Con Macron o Trump o Salvini o Grillo e Di Maio. Il periodo migliore per il Pd è stato quando sembrava che Renzi potesse diventare un grande leader. Poi si è scoperto che era un po’ meno grande, quando ha pensato di fare a meno di sporcarsi le mani con l’organizzazione. E così i vecchi notabili e l’oligarchia se lo sono fatto fritto, friggendosi però anche loro.
Il Fronte di Calenda?
Un rassemblement di benpensanti senza un leader. Con un’infrastruttura solida ne riparliamo. Vi ricordate Montezemolo? Passera? Monti? Tutti partiti in embrione che non sono andati da nessuna parte per mancanza di organizzazione. Per me, discutere su “dentro” il Pd o “oltre il Pd” sono parole al vento. Serve un motore nuovo.
Inutile che le chieda di Zingaretti, a questo punto.
Se nel suo progetto associativo, ci mette dentro il turbo della Rete può saldare passato e futuro. Altrimenti si fa un partito del 12%.
Renzi si deve togliere di mezzo?
È l’ultimo dei problemi. Ma se la strada è continuare da solo, si farà un partitino del 5 o 6% per sistemare un po’ di ceto politico e non aiuterà né il Paese né la sinistra.
Che congresso servirebbe?
Un congresso di rifondazione organizzativa. E per farlo, devono iniziare a studiare. Altrimenti si va verso l’estinzione.

Il Fatto 3.7.18
Di Maio si prende la scena: “Licenziamo il Jobs Act”
Ok al testo. Stretta più forte sui contratti a termine. La parte fiscale (cara alla Lega) si sgonfia: mancavano le coperture
Di Maio si prende la scena: “Licenziamo il Jobs Act”
di Carlo Di Foggi


Alla fine il “decreto dignità” vede la luce. In tarda serata il Consiglio dei ministri ha approvato il provvedimento, il primo concreto in un mese di esecutivo, voluto dal vicepremier e ministro del Lavoro Luigi Di Maio, che per giorni è rimasto impallinato tra gli uffici del dicastero guidati dal pentastellato e quelli del ministero dell’Economia di Giovanni Tria. Problemi di coperture – che fino all’ultimo restano vaghe – ma anche alcuni disaccordi con l’alleato leghista. Poco prima della riunione, Di Maio opta per superare le bozze che circolavano forzando la mano su uno dei temi cardine del racconto pentastellato: sferrare un primo colpo al jobs act. Alla fine il risultato è un compromesso che sorride più al leader dei 5Stelle che a Matteo Salvini, assente perché impegnato al Palio di Siena. Al traguardo il provvedimento applica una stratta più forte sul lavoro precario – “Da oggi licenziamo il josb act” fanno sapere entusiasti da Palazzo Chigi – mentre la parte fiscale si sgonfia quasi del tutto riducendosi ad alcuni ritocchi.
Di fatto, col decreto il M5S prova reagire alla scena mediatica rubata dall’alleato, un provvedimento che guarda spiccatamente a sinistra e prova a ricucire i malumori interni sul tema migranti.
Il testo finale si arricchisce di una modifica al jobs act, portando l’indennizzo massimo per i licenziamenti senza giusta causa da 24 a 36 mensilità (l’articolo 18 non viene ripristinato). Confermata la stretta al ricorso ai contratti temporanei che smonta il “decreto Poletti” del 2014 che ne ha liberalizzato l’uso (facendone esplodere il numero): non potranno essere prorogati per più di 4 volte e durare più di due anni e, dopo i primi 12 mesi o il primo rinnovo, avranno bisogno della “causale”, cioè della giustificazione che l’impresa deve fornire per ricorrere a un contratto a termine, abolita dal governo Renzi. I limiti verrano estesi anche ai rapporti “in somministrazione”, il lavoro affittato dalle agenzie interinali che però non sarà conteggiato nel limite del 20% imposto alle aziende per contingentare i contratti a termine. Salta invece l’abolizione del tempo indeterminato somministrato (se ne riparlerà in Parlamento). Per scoraggiare il ricorso al precariato, il testo aumenta di 0,5 punti il costo contributivo per ogni rinnovo, a partire dal secondo.
Stretta meno forte, invece, per le delocalizzazioni. Le aziende che hanno ricevuto un sostegno pubblico, in qualsiasi forma (contributo, finanziamento agevolato, garanzia, aiuti fiscali, ecc.) che delocalizzano le attività all’estero prima che siano trascorsi cinque anni subiranno sanzioni da 2 a 4 volte il beneficio ricevuto, che andrà restituito con interessi maggiorati del 5%. Se gli aiuti prevedono una valutazione dell’impatto occupazionale, i benefici vengono revocati in tutto o in parte a chi taglia nei successivi cinque anni i posti di lavoro.
È confermato anche lo stop alla pubblicità al gioco di azzardo, in qualsiasi forma (tv, stampa, etc.) ma rispetto alle prime versioni vengono escluse le lotterie “a estrazione differita”, cioè la lotteria Italia (sarebbe stato un autogol per lo Stato). Chi non rispetta il divieto avrà una sanzione del 5% del valore della sponsorizzazione o comunque di “importo minimo di 50 mila euro” (che sale a 100 mila per gli spot durante gli spettacoli dedicati ai minori). Gli incassi andranno al fondo per il contrasto al gioco patologico. Una svolta notevole e una mazzata per il settore. Nel complesso la pubblicità del gioco muove un giro di circa 200 milioni, il 70% verso il mondo dello sport (80 milioni vanno alle tv). Per evitare contenziosi lo stop non si applica ai contratti in essere.
A uscireammaccato dal “giro delle sette chiese” dei ministeri (copyright Di Maio) è il pacchetto fisco, voluto da entrambi gli alleati ma caro soprattutto alla Lega. Lo stop di rilievo a spesometro, redditometro e split payment avrebbe aperto un buco da oltre cinque miliardi. Tria, di sponda con la ragioneria dello Stato ha bloccato le ipotesi più ardite. Per questo il redditometro non viene abolito (ma solo revisionato) così come lo spesometro, per cui è solo prevista la proroga a febbraio 2019 di quello relativo al terzo trimestre 2018. Lo split payment, il meccanismo con cui lo Stato trattiene l’Iva a monte dai fornitori (sottraendo liquidità) viene invece abolito solo per i professionisti (in totale vale circa 60 milioni), resta invece per le imprese.

La Stampa 3.7.18
Salvini si tiene lontano dal decreto filo-Cgil
“Lasciamoglielo fare”
di Alessandro Barbera


A Piazza del Campo, fra turisti, attori e appassionati del genere, ieri sera c’erano due ospiti che nessuno si sarebbe aspettato di vedere: Matteo Salvini e Gianmarco Centinaio. Il Palio di Siena invece del Consiglio dei ministri. Possibile? «Aveva preso l’impegno a festeggiare la vittoria storica della Lega in città», spiegano i collaboratori del leader leghista. Ci sono però gesti che, per quanto spiegati, lasciano poco spazio alle interpretazioni. L’assenza del vicepremier alla riunione dedicata ad una delicatissima riforma del mercato del lavoro è una chiara presa di distanze da un provvedimento che al Carroccio non è mai piaciuto. Quella del «decreto dignità» non è stata una gestazione semplice sin dall’inizio: bloccato dal ministero del Tesoro per mancanza di coperture, modificato per le proteste del mondo delle imprese, ha dovuto fare i conti con l’ostilità della Lega, di Forza Italia e di Fratelli d’Italia. «Se il testo è quello circolato siamo di fronte ad una enorme presa in giro, un impianto marxista che confonde la lotta al precariato con lotta al lavoro e alle imprese», diceva ieri pomeriggio Giorgia Meloni. Nonostante le modifiche, il testo sancisce la svolta a sinistra del leader pentastellato: riduzione dei limiti per i contratti a termine, reintroduzione delle causali nei contratti di lavoro a tempo determinato, aumento del costo per i licenziamenti, multe per le imprese che delocalizzano fino al quinto anno dal ricevimento di aiuti pubblici.
Incurante degli ultimi dati Istat che segnalano un aumento dell’occupazione come non accadeva da dieci anni, Di Maio marca il territorio a sinistra al grido di «licenziamo il Jobs Act». Per il superministro quei numeri «sono solo il trionfo della precarietà» e dunque confermano il bisogno di irrigidire l’impianto normativo a difesa del «buon lavoro». L’articolo uno del decreto, quello che rivede le norme sui contratti a termine, coincide parola per parola con l’articolo 50 della Carta dei diritti universali del lavoro, il manifesto con cui nel 2016 la Cgil rispose al verbo renziano. La norma sulle delocalizzazioni, pur ammorbidita rispetto alle prime bozze, riprende una proposta della Fiom di Maurizio Landini. Ieri il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti ha insistito fino a tarda sera con Di Maio per ammorbidire il testo discusso nel preconsiglio tecnico. Le pressioni su Palazzo Chigi per cambiare questo o quel dettaglio sono state enormi: «Il mondo delle imprese non vedeva un decreto così dai tempi del governo Prodi-Bertinotti», si sfoga un lobbista che chiede di non essere citato. Nel timore di uno shock sul mercato del lavoro, Di Maio ha evitato l’abolizione dei contratti di staff leasing, accettato il ritocco di quelli di somministrazione, rinunciato a modifiche normative che avrebbero avuto conseguenze pesanti sulle entrate fiscali, come quelle che avrebbero penalizzato il gioco d’azzardo. Per riequilibrare un testo molto schiacciato sulle ragioni del lavoro e dei sindacati, la Lega ha tentato di reintrodurre la disciplina dei voucher, aboliti dal governo Gentiloni sotto la pressione di un referendum voluto dai sindacati. Resta la norma che abolisce la trattenuta Iva per chi lavora con la pubblica amministrazione, ma sarà limitata alle partite Iva. È la conferma di un governo di ispirazione destra-sinistra, un grande compromesso storico in cui ciascuno dei due grandi azionisti della maggioranza cerca di dare risposte ai rispettivi elettorati. Dice un ministro leghista: «Abbiamo lasciato uno spazio politico ai Cinque Stelle in una fase in cui soffrono il protagonismo di Salvini». Le distanze fra i due partner della maggioranza sono evidenti, e si ripresenteranno durante la conversione del decreto in Parlamento. I leghisti infatti pensano già a come modificarlo: sarà così per la reintroduzione dei voucher e le norme sul lavoro. In fondo si tratta della ragion d’essere del governo giallo-verde: mai alleati, bensì semplici contraenti di un accordo di governo.

Corriere 3.7.18
Siena, il centrodestra si prende il Palio Salvini: non vedo nessuno di sinistra...
Finestre separate con gli «alleati». Il leader: nuove sedi ma la base della Lega resta Milano
di Marco Gasperetti


SIENAAffacciato alla trifora centrale della Sala del Concistoro, dopo tre ore e mezzo di sudore, saluti alla folla di Piazza del Campo, selfie tra gli invitati a Palazzo Pubblico, baci e abbracci, Matteo Salvini più che Alberto da Giussano sembra un po’ quel Guidoriccio da Fogliano (senza cavallo) che trionfa poco metri più in là in un affresco di Simone Martini. Si sente così senese, il vicepremier, ministro dell’Interno e leader della Lega, che non ha neppure più bisogno della felpa con il nome della città usata nel tour elettorale. «Stupendo, straordinario, magnifico. Tornerò il 16 per il Palio dell’Assunta», dice dopo aver assistito al corteggio storico, alla carica dei carabinieri (finita un po’ male perché un militare è caduto dal destriero ed è finito all’ospedale), allo spettacolo degli sbandieratori, ai rulli dei tamburi, e infine all’elettrizzante corsa e alla vittoria del Drago. È così emozionato, il Matteo che la Toscana non si aspettava, che si mette pure a sorridere alle ipotesi che il nuovo partito, che sogna e progetta potrebbe trasferirsi da Milano a Roma. «Sciocchezze, il quartier generale della Lega resta a Milano ma apriremo sedi ovunque e saranno tutte reali e non ci saranno piattaforme informatiche», dice mentre stupefatto guarda alcuni contradaioli in piazza che s’azzuffano. Ordine pubblico da ministero dell’Interno? «Macché, io nella storia, la più bella e meravigliosa, non ci metto neppure un dito», risponde.
E alla domanda per chi ha tifato risponde pronto e con un sorriso: «Ma per chi ha vinto». Anche se in realtà dice di non aver un’unica contrada nel suo cuore o comunque non la vuole rivelare ed è comunque sempre dalla parte dei perdenti. «Stanotte, prima di dormire ed è la prima volta che per me accade in questa città magica andrò a passeggiare in incognito per le sue strade. È bellissima, unica. Come Il Palio, che non è leghista, perché se Dio vuole sopravvive a tutto e a tutti». Poi una stoccata agli avversari: «Non ho visto nessuno della sinistra e mi dispiace. Gli assenti hanno sempre torto».
In realtà un paio di esponenti Pd locali ci sono. C’è il presidente del consiglio regionale, Eugenio Giani, Pd («L’è come il prezzemolo, lo trovi ad ogni evento», dice un consigliere comunale leghista) e Stefano Scaramelli, anche lui dem. Ma la loro è un’apparizione fugace, timida e assai remissiva. Nelle stanze che contano il centrodestra c’è, eccome. Nella Sala della Pace dove si trova l’Allegoria del buono e del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti, qualcuno, ha sistemato due file di sedie, una dalla parte dell’affresco del buon governo, l’altra sotto quello del cattivo. Da che parte si siederà l’uomo che ha assediato e conquistato Siena? Ma Matteo non abbocca e se ne sta in piedi. Oltre a Salvini è arrivata Giorgia Meloni insieme al fido (e sempre più in carriera) deputato Giovanni Donzelli. Si saluta con Salvini, anche se le finestre d’affaccio sono diverse e le ultime esternazioni della leader di FdI sembrano aver un po’ offuscato l’amicizia politica tra i due. «Non abbiamo parlato del fiasco al summit europeo sui migranti — dice Meloni — ma con Matteo andiamo ancora d’accordo. Noi al governo? Vedremo, ma non sono io che l’ho chiesto e lo chiederò».
Tra i primi ad arrivare, il senatore Maurizio Gasparri. Visita la sale, ma più che agli affreschi, sembra essere interessato alla partita tra Brasile-Messico che cerca di guardare faticosamente con un’iPad. Di FI c’è anche la vice presidente del Senato Mara Carfagna, affacciata a un’altra finestra. Prima volta anche per il ministro dell’Agricoltura Marco Centinaio. Che non nasconde il suo amore per la contrada del Bruco («Che mannaggia, oggi non corre»), ma quello che conta è aver conquistato un altro Palio con il cavallo giusto. Quello politico.

Il Fatto 3.7.18
I silenzi della sinistra: “Ma il testo ridà diritti dopo 10 anni di buio”
Bordate di giornali e Confindustria, la Cgil aspetta le misure. Gli esperti “rossi” che aiutano il ministro difendono la norma
Cdf


Un testo frutto del lavoro di un gruppo di “comunisti”, un “giglio rosso” che “sussurra a Luigi Di Maio” (copyright Il Giornale), finanche “copiato pedissequamente” dalla Carta dei diritti della Cgil e dalla “la linea di Maurizio Landini”, come ha scritto sprezzante l’ex deputato Pdl ed ex dirigente della Cgil in Emilia Romagna, Giuliano Cazzola. Il “decreto dignità” non gode, come si suol dire, di buona stampa; Confindustria e le associazioni datoriali sono in rivolta, il Pd lo contesta, ma curiosamente finora neanche a sinistra qualcuno ha trovato il tempo per spendere due parole per un provvedimento che alla sinistra guarda.
Per orala Cgil tace. Da corso d’Italia non vogliono pronunciarsi in attesa di un testo definitivo; lo faranno forse oggi con le norme licenziate dal Consiglio dei ministri. Circola un po’ di malumore per non essere stati ancora coinvolti, ma anche un generale apprezzamento per un testo che recepisce alcune istanze del sindacato, anche se “si poteva fare di più” e preoccupa il possibile ritorno dei voucher durante l’esame parlamentare. “È un buon punto di partenza”, ammette un dirigente di peso della Cgil, “ma poi serve rilanciare”. Ieri Susanna Camusso ha definito “utile” la discussione aperta sui rider dal decreto.
Già nel 2016 la “Carta dei diritti” chiedeva il ripristino delle causali per i contratti a termine. Il testo studiato negli uffici del ministero del Lavoro va oltre, rende più costoso il ricorso al tempo determinato, riduce i rinnovi possibili e la durata massima, da 36 a 24 mesi, estendendo i limiti anche alla somministrazione, il lavoro affittato dalle agenzie interinali. Nasce dalle idee di un gruppo di esperti guidati dal professor Pasquale Tridico, tra cui Marco Barbieri, dirigente di Leu, già assessore in Puglia con Nichi Vendola e oggi ordinario di diritto del Lavoro all’Università di Foggia e Piergiovanni Alleva, 71 anni, giuslavorista e consigliere in Emilia Romagna con la lista “L’altra Europa con Tsipras”. Sono questi ultimi nomi, estranei al Movimento, ad aver fatto gridare al pericolo “rosso”, ma anche, forse, a spiegare l’imbarazzo da sinistra per un provvedimento che ha il marchio pentastellato.
“Le cose buone è bene che siano fatte, a prescindere da chi le fa”, spiega Barbieri (che specifica di non aver fatto da consulente formale). “Conta l’obiettivo. I 5Stelle hanno anche un’anima progressista con un’attenzione importante ai temi sociali – spiega Alleva – Di Maio mi è sembrato sincero nel voler ridare ai lavoratori condizioni di dignità”.
Per entrambi la svolta del testo parte dal ripristino delle causali, che fa infuriare Confindustria & Co.: “Le imprese italiane hanno convissuto con le causali da quando le ha introdotte il governo Fanfani nel ‘62 – spiega Barbieri -. È stata un’invenzione del Pd, col ministro Poletti, eliminare un’esperienza che ha funzionato bene per più di mezzo secolo facendo esplodere i contratti a termine. Sembra che Di Maio abbia proposto i Soviet ma non è così. Se l’esigenza è temporanea, allora le imprese assumano a termine, altrimenti no. La direttiva Ue del ‘99 dice che il lavoro a tempo indeterminato deve essere la ‘forma comune del rapporto di lavoro’”. Per Alleva la portata del provvedimento è evidente. “Tutti sanno qual è la posta in ballo. Il problema dietro le proteste di Confindustria e soci è che i contratti a termine con esigenze vere sono circa il 15%. Il resto è per risparmiare sui costi e tenere sotto ricatto il lavoratore. È una questione di potere sociale. Le pare possibile che oggi il 90% dei contratti è a termine?”. C’è però il rischio che aumentino i contenziosi… “Li chiamano così, ma sono diritti. Le imprese con lavoro di qualità non hanno bisogno di tenere sotto schiaffo i lavoratori. Non va alimentato un capitalismo straccione”. Per entrambi, il jobs act è stato un disastro, “il più grande colpo al lavoro della storia repubblicana” (Barbieri).
Entrambi gli esperti temono il ritorno dei vecchi voucher. Ed è vero che il testo è stato ammorbidito rispetto alle intenzioni iniziali, la causale ritorna per i contratti sopra i 12 mesi o il primo rinnovo, invece che per tutti i contratti. “Avrei voluto fosse più netto – ammette Alleva – ma condivido i piccoli passi. Se ora assumi un lavoratore a tempo è perché hai una ragione per farlo. Siamo tornati alla ragione. È la prima cosa vera di sinistra da dieci anni”. Anche Barbieri condivide: “Se i 5Stelle hanno preso tutti quei voti un motivo ci sarà…”

La Stampa 3.7.18
Oltre un milione i naturalizzati
Così ci rendono tutti più ricchi
di Linda Laura Sabbadini


Sono un milione e 100mila i nuovi italiani, coloro che, in possesso di un’altra cittadinanza, sono diventati italiani nel corso degli anni di permanenza nel nostro Paese. Lo dice l’Istat. Sono veramente multicolori, un mix incredibile di provenienze. Sono rappresentati tutti i continenti. Ma ai primi posti si collocano Albania, Marocco e Romania. Sono diventati italiani soprattutto coloro che fanno parte di comunità di vecchio insediamento e che hanno maturato i requisiti previsti per legge. Nel 2011 il numero totale dei nuovi italiani misurato dal Censimento della popolazione era di circa 600mila. Quasi raddoppiati. E non c’è da meravigliarsi, basta guardare i flussi anno per anno. Nel 2005 furono concesse solo 29mila acquisizioni in un anno, nel 2010 siamo passati a 66mila, nel 2015 a 178mila e nel 2016 a 201mila. Un continuo crescendo. La struttura per sesso è sbilanciata verso le donne (58,7%) e ciò soprattutto perché in passato il peso delle acquisizione di cittadinanza per matrimonio era più elevato, riguardava più di un terzo delle acquisizioni concesse, a fronte di un 9% di adesso. Ed erano soprattutto le donne a sposarsi con un uomo italiano. Le donne sono maggioranza tra i nuovi italiani nelle comunità provenienti da Polonia, Romania, Ucraina, Russia, Croazia, Moldavia, Colombia e Perù. Gli uomini invece sono maggioranza delle comunità di origine indiana, pakistana, egiziana, marocchina o tunisina. La struttura per età dei nuovi italiani è più giovane di quella degli italiani dalla nascita e anche di molto. Questo divario tenderà ad accentuarsi in futuro, perché la composizione dei flussi recenti vede crescere la componente dei giovani fino a 19 anni, che nell’ultimo anno rappresentano il 40% delle acquisizioni concesse. La maggioranza dei naturalizzati vive nel Nord del Paese e solo il 14% risiede nel Sud. Il loro tasso di occupazione non è particolarmente alto, il 53,3%, pesa qui il basso tasso di occupazione femminile. Questi nuovi italiani sono italiani a tutti gli effetti, contribuiscono all’economia del nostro Paese, la fanno crescere, dobbiamo farli sentire parte di una grande cultura nazionale, condividere i nostri poeti e pittori, i nostri filosofi e i nostri dialetti. Già vestono la nostra maglia azzurra, come le bellissime nostre atlete, cantano il nostro inno.E noi potremo arricchirci a nostra volta.

Corriere 3.7.18
La staffetta
di Massimo Gramellini


Può darsi che la splendida vittoria delle staffettiste italiane nere ai Giochi del Mediterraneo sia «la risposta all’Italia razzista di Pontida», come dicono Saviano e il Pd. Ma mi chiedo se il dirlo non renda quell’Italia ancora più sorda al richiamo di chi irride i suoi timori invece di sforzarsi di comprenderli. Quando provi disagio per l’immigrazione incontrollata, magari perché abiti in un quartiere dove ti finisce addosso di continuo, vederti sventolare in faccia a mo’ di sfida un fulgido esempio di integrazione non elimina il tuo fastidio, ma alimenta il tuo vittimismo. Come si può fare cambiare idea a qualcuno a cui non si riconosce il diritto di averne maturata una diversa sulla propria pelle? Chi convive con lo spavento o la preoccupazione andrebbe rassicurato, utilizzando storie di successo come quella delle staffettiste per mandare segnali di speranza, non di incomunicabilità.
In quest’epoca di contrapposizioni superficiali e feroci, verrò preso per pazzo. Ma all’Italia isterica del Palio, in cui ciascuno corre per sentirsi migliore degli altri, preferisco quella armonica della staffetta. Dove si corre insieme, sovranisti e mondialisti, e insieme si può vincere: ciascuno sulle proprie gambe, ma smettendola di pestarsi i piedi.


La Stampa 3.7.18
Siria, 270.000 profughi ai confini con Israele
Dopo l’offensiva di Assad centinaia di tendopoli in pochi giorni. La Giordania e lo Stato ebraico non aprono le frontiere
di Giordano Stabile


Una città di tende, baracche, pezzi di lamiera appoggiati uno sopra l’altro è sorta all’improvviso, nel giro di pochi giorni ed è cresciuta a dismisura, 10, 30, 70 mila abitanti. Migliaia di famiglie che premono al posto di frontiera di Nassib, il più importante fra Siria e Giordania, preso d’assalto dalle truppe di Bashar al-Assad. È l’ultima crisi umanitaria siriana, dopo quelle nelle province di Homs, Aleppo, che negli anni scorsi hanno creato milioni di profughi. Ora è la volta della provincia di Daraa, nel Sud-Ovest del Paese, un triangolo strategico a cento chilometri da Damasco e incuneato fra il confine giordano e le Alture del Golan. Dopo la conquista della Ghouta orientale, era il principale obiettivo del raiss. L’offensiva, cominciata 10 giorni fa, è andata spedita, con decine di villaggi e cittadine riconquistati. Oltre metà dell’area è ora nelle mani del regime ma 270 mila persone sono rimaste senza casa, in fuga.
La Giordania ha accolto soltanto una dozzina di bambini, con gravi ferite, che saranno curati e poi rimandati in Siria. L’esercito israeliano ha fornito tende, cibo, medicinali e ha evacuato alcuni feriti, civili. Ma sia la Giordania che Israele hanno detto chiaramente che «non accoglieranno profughi».
Crisi e rischio jihadisti
Il governo di Amman, contestato per le misure di austerità imposte dalla crisi e dal Fondo monetario, già non sa come fronteggiare le esigenze di 670 mila rifugiati siriani, che affollano immensi campi profughi, come quello di Zaatari, quasi centomila persone in due chilometri quadrati. Il regno hashemita, come Israele, teme però anche infiltrazioni di jihadisti. La provincia di Daraa era controllata dall’Esercito siriano libero ma anche dal gruppo islamista Hayat al-Tahrir al-Sham.
Le difese ribelli sono state travolte dai raid dell’aviazione siriana e russa e dalle avanguardie corazzate della Quarta divisione meccanizzata e dell’unità d’élite Qawat al-Nimr, le Tigri. Assad vuole chiudere la partita in poche settimane. Dopo la provincia di Daraa toccherà a quella di Quneitra, adiacente al Golan, dove Israele ha già inviato rinforzi, compresi reparti corazzati. Ma la rapidità dell’avanzata ha sorpreso anche le organizzazioni umanitarie. «Ci aspettavamo al massimo 200 mila sfollati - ha ammesso Mohammed Hawari, portavoce dell’Agenzia Onu per i rifugiati in Giordania -, siamo già arrivati a 270 mila». Le Nazioni Unite hanno confermato che 70 mila sono al valico di Nasib, con «scarso accesso ad acqua e cibo», mentre le truppe governative sono arrivate ad appena tre chilometri. «Gli abitanti di Daraa sono in trappola, nel costante timore di essere colpiti - ha precisato Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International -: il confine giordano è l’unica strada verso la salvezza». Ma Amman, fino a ieri sera, sembrava irremovibile.

Il Fatto 3.7.18
Maturità, non solo tesine: leggete
di Giovanni Pacchiano


Arrivano come sciami di cavallette, per gli orali della maturità, le cosiddette “tesine”. Obbligatorie. Possibilmente multidisciplinari. Il che comporta sforzi di acrobazia non indifferenti per mettere insieme un motivo letterario e uno scientifico evitando tematiche scontate. Ma non importa: nell’era del nominalismo, sta a cuore solo che ci si riempia la bocca con il vocabolo: tesine, cioè quasi tesi, piccole tesi. Come fossero il rituale di ingresso all’università. E peccato che, davanti alla commissione, la discussione della tesina debba mantenersi fra i 10 minuti e il quarto d’ora al massimo. Dieci minuti, che volete che siano? Il tempo di un caffè.
E peccato che in genere gli studenti, anche se coscienziosi, portino una copia della tesina solo il giorno della prima prova. Ma non sempre accade così: a volte la presentano al momento degli orali. Da chiedersi, poi, se e in che momento i commissari le predette tesine le leggano. Nell’intervallo fra scritti e orali? Devono correggere collegialmente gli scritti, diamine! O un tot al giorno, a seconda delle sequenze dei candidati, durante gli orali, nei caldi pomeriggi estivi, al posto della pennichella? O non sarà che tutt’al più le sfoglino? Le leggiucchino qua e là? Non escludo che i più solerti se le leggano con scrupolo sottraendo tempo a un doveroso riposo, ma ho molti dubbi che la percentuale degli zelanti sia alta. E peccato, infine (o fortuna, a seconda dei punti di vista), che, dato l’obbligo delle tesine, sulle bacheche on line si scateni ogni anno il mercato delle stesse.
Ovvio, se si agita il mercato vuole dire che la domanda c’è. Studenti universitari, laureati e professori, o semplicemente cultori di una materia, esperti e pseudo-esperti, offrono tesine a gogò. I prezzi: da 20 euro a 300 euro, a seconda della complessità del lavoro. Pagamento anticipato. E garanzia che il venditore non ceda la tesina anche a un altro studente della stessa classe, o magari della stessa scuola (si sa, le voci circolano). Perciò, la calda raccomandazione rivolta ai maturandi è che nella richiesta specifichino la classe e la scuola di provenienza. Per evitare un disagio ben peggiore di quello di due signore che arrivino a un party o avvenimento mondano o che altro con lo stesso identico vestito. Che obbrobrio, signora mia! Ma non basta: a volte le tesine, come i lasciti, si passano da parente a parente, o dall’amico che ha fatto la maturità l’anno prima all’amico che ora è di turno. Un’inchiesta del 2013 ipotizzava che il 40% degli studenti si servisse di tesine preconfezionate. Bella cifra.
Occorrerà tuttavia dire che, anche per i migliori, per quelli fra gli alunni che fanno da sé, magari con un aiutino o un aiutone da internet, dove, si sa, gli articoli sono sempre mostruosamente precisi e attendibili (magari!), il tempo dedicato alle tesine rischia di essere sprecato. C’è di meglio da fare a scuola per la formazione culturale e umana dello studente? Certo che c’è di meglio. E che sarà mai? Una cosa molto semplice: leggere, leggere, leggere. Il 18,5% dei maturandi di quest’anno ha scelto come tema il brano tratto dal Giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani. Scrittore immenso, a suo tempo stolidamente giudicato dalle neo-avanguardie come la Liala del 1963. Ho esultato vedendo comparire il suo nome a un esame di maturità. Nondimeno, mi chiedo quanto senso abbia scegliere un brano narrativo decontestualizzato dal suo insieme. Certo, il discorso sulle leggi razziali ben si prestava a uno svolgimento. Ma nel Giardino dei Finzi-Contini c’è molto altro: la malinconia di chi, passata la soglia dei quarant’anni, si volta indietro guardando al passato. Lo strazio per un amore non corrisposto. Le ombre dei morti. Una figura femminile affascinante e sfuggente, forse la più bella della letteratura italiana del secondo Novecento.
Quanti di questo 18,5% avevano già letto il romanzo? Non lo si saprà mai. Si sa, invece, che la lettura è la Cenerentola della scuola. Si sa che alla scuola media inferiore da anni è stato soppresso l’obbligo della lettura di un testo narrativo all’anno. E, in contrasto col parere espresso sul Fatto quotidiano del 15 giugno scorso dalla scrittrice Robin Stevens, che “gli adulti dovrebbero consigliare libri divertenti” ai ragazzi, i più gettonati risultavano puntualmente Arrivederci ragazzi, di Louis Malle, e L’amico ritrovato, di Fred Uhlman, magnifici romanzi drammatici che coinvolgevano i giovani studenti. Chi non legge alle medie finirà col non leggere anche al liceo, se non i testi canonici, sempre quelli, I promessi sposi (un capolavoro ma indigeribile prima dell’età adulta) e i soliti Verga e Svevo. Il mio augurio è che i docenti trasmettano ai ragazzi la loro passione, se ce l’hanno, per i libri, e che ne parlino in classe: altro che tesine.

Corriere 3.7.18
Proposte In «Mutualismo» (Alegre) Salvatore Cannavò suggerisce di ispirarsi alla capacità inventiva del movimento operaio ottocentesco
Ricominciare dalla solidarietà, una ricetta per la sinistra
di Giampiero Rossi


Da qualche parte bisognerà pur cominciare a ricostruire la sinistra italiana, che raccoglie voti nei quartieri della buona borghesia, ma che non ha più cittadinanza nelle periferie urbane e sociali. Rifondare è il verbo più ricorrente all’interno di questo mondo politico sconfitto e marginalizzato. Ma a partire da che cosa? Su quali fondamenta costruire un nuovo ruolo sociale e quindi politico per gli eredi di una tradizione legata alla parola «popolo»?
Forse tornando alle origini pre-politiche, proprio «là dove tutto è cominciato», con le forme concrete di associazionismo organizzato e solidale. È questa, almeno, l’idea che sta al centro del libro di Salvatore Cannavò Mutualismo. Ritorno al futuro per la sinistra (Alegre).
La prima convinzione da cui muove l’analisi è che l’attuale crisi della sinistra abbia origine dal momento in cui, dopo la caduta del Muro di Berlino, «ha accettato di gestire un compromesso sociale al ribasso». È la lunga parabola dell’identità che Cannavò riassume con la formula «non più e non ancora»: non più partiti (e sindacati) del proletariato con aspirazioni rivoluzionarie, ma non ancora vere formazioni socialdemocratiche, per esempio sul modello scandinavo.
Il passaggio successivo, dopo una minuziosa analisi storico-politologica a partire dalle cooperative ipotizzate da Karl Marx, è la proposta del ritorno a un mutualismo che l’autore considera «una risorsa ancora inesplorata, anche sul piano politico generale, come strumento per ricominciare a tessere una tela che è stata strappata da troppe parti e da troppi protagonisti».
Ma «oltre ad esercitare forme di solidarietà, il mutualismo ha senso soltanto se assume anche forma di resistenza, se rappresenta centri capaci di organizzare lotte e rivendicazioni». Cioè deve assumere una connotazione conflittuale. E su questo aspetto il libro insiste non poco: «Il mutualismo conflittuale è dunque politico nel senso che mentre esiste rivendica già il nuovo. Esprime una solidarietà “contro” lo stato di cose presente, ma esige anche una solidarietà “per”, fatta di risposte immediate a bisogni immediati. Il mutualismo è politico perché valorizza di nuovo “l’agire in comune”, la cooperazione non solo produttiva, ma morale, intellettuale, solidale su cui si è fondato il movimento operaio nella storia. L’attuale fase di smarrimento richiede la stessa capacità di inventiva e innovazione di cui diedero prova gli operai e gli intellettuali della seconda metà dell’Ottocento».
La conclusione di Salvatore Cannavò è netta: «Se una sinistra vuole avere un futuro dovrebbe avere il coraggio di riscoprire le sue origini».

il manifesto 3.7.18
Linke: «Sul caos le destre preparano nuove alleanze»
Crisi dei rifugiati. Ritrovata unità nel partito di sinistra dopo le divisioni del congresso di Lipsia a giugno
I co-presidenti della Linke, Katja Kipping e Bernd Riexinger
di Aaron Elderman


BERLINO «È del tutto evidente come Horst Seehofer abbia giocato d’azzardo. E adesso vuole lasciare il suo posto presentandosi come un martire». Nel pieno della crisi politica che sta squassando non solo il governo federale guidato dalla cancelliera Angela Merkel, ma la stessa storica alleanza tra i protestanti della Cdu e i cattolici bavaresi della Csu, la Linke prende la parola con una sola voce.
Non era scontato, dopo il Congresso federale di Lipsia agli inizi di giugno, quando si erano scontrate pubblicamente due diverse linee della sinistra tedesca sul tema delle migrazioni, e più in generale sulle decisive questioni della composizione sociale di riferimento, sul ruolo dell’Europa e degli Stati nazionali, e sull’atteggiamento nei confronti del populismo di destra.
Il Congresso ha riconfermato come co-presidenti del partito, Katja Kipping e Bernd Riexinger, con un’ampia maggioranza, e con l’approvazione di tesi che hanno riaffermato con forza la linea delle «frontiere aperte» e della «libertà di circolazione per tutte e tutti». In particolare la Linke ha rilanciato la battaglia contro le «deportazioni», ovvero l’espulsione verso Paesi dichiarati «sicuri» di quei richiedenti asilo il cui diritto non sia stato riconosciuto, e contro la «divisione delle famiglie», ovvero per il ricongiungimento anche di quei nuclei familiari cui era stata attribuita la sola protezione umanitaria.
È così che gli stessi Kipping e Riexinger hanno potuto presentarsi ieri davanti alle telecamere per offrire una lettura univoca della tempesta che sta investendo le istituzioni tedesco-federali. I cristiano-sociali stanno cercando di «prendere in ostaggio la Germania e l’Europa intera per una lotta di potere all’interno dei loro partiti». Al ministro federale dell’Interno «non interessa individuare soluzioni pratiche nella politica migratoria. La posta in gioco è più alta: vuole aprire porte e portoni al populismo di destra e rovesciare la cancelliera federale. Seehofer e Markus Söder (attuale presidente Csu del Land Baviera ndr) fanno gli scagnozzi dell’AfD».
In questo senso, secondo i rappresentanti di Linke, i leader della Csu si stanno rivelando gli artefici di una profonda svolta politica che spinge verso destra non solo l’Union tedesca, ma interi settori del partito popolare europeo.
Nelle ultime settimane era già emerso l’asse privilegiato tra l’esecutivo regionale bavarese e il governo austriaco, retto da un’alleanza tra i popolari di Sebastian Kurz e i populisti di destra dell’Fpoe: «L’obiettivo, come si è visto nel recente vertice di Bruxelles, è spingere l’acceleratore delle politiche di tutta l’Unione sulla linea tracciata da nazionalisti di destra come Viktor Orbán, Marine Le Pen e Matteo Salvini. Una lotta di potere giocata sulla pelle di profughi e migranti». Ma in questo modo si sancisce la fine dell’Union come partito popolare, prima imitando e poi preparandosi ad alleanze fin qui tabù nel sistema politico tedesco, con formazioni dal rapporto quanto meno ambiguo, e in alcuni casi esplicito, con gruppi neonazisti.
Secondo Katja Kipping «il modo di agire di Seehofer è tipico della destra autoritaria del nostro tempo. Fanno finta di battersi per ripristinare l’ordine, in una situazione di crisi che essi stessi hanno prodotto. E alla fine producono solo caos, in cui possano affermarsi le loro ipotesi autoritarie». Attualmente – conclude – stiamo vivendo l’esaurimento del conservatorismo per come l’abbiamo conosciuto, di fronte al fallimento delle risposte che le “grandi coalizioni”, in Germania come su scala europea, hanno dato alla crisi economica e sociale degli ultimi dieci anni.
«Una risposta avanzata da sinistra è oggi più urgente che mai», ma essa stessa, a maggior ragione, non può darsi sullo stesso terreno saturato dalle destre, siano esse neoliberali o populiste: di fronte alle migrazioni, ad esempio, non c’è ritorno al rinserrarsi nei confini nazionali che tenga, bensì la necessità di una nuova politica europea di solidarietà e condivisione, che metta al primo posto, insieme, i diritti civili e sociali di tutte e tutti.

il manifesto 3.7.18
Que viva Mexico! Svolta a sinistra nel nome di Obrador
Americhe. Vince con il 54% «Amlo» e il suo movimento anticorruzione e per la giustizia sociale, nato come costola del Prd
di Fabrizio Lorusso


LEON (MESSICO) Il Messico cambia direzione dopo una giornata elettorale storica, celebrata per le strade. I partiti conservatori al potere negli ultimi decenni hanno subito una pesante sconfitta alle presidenziali di domenica scorsa. Per la prima volta il centrosinistra governerà, guidato da Andrés Manuel López Obrador, noto come «Amlo».
«La terza è quella buona», ripeteva Obrador in campagna elettorale, e dopo aver perso nel 2006 e 2012 ora ha vinto col maggior numero di voti della storia. I problemi non sono mancati durante il voto: in alcuni Stati gruppi armati hanno rubato o distrutto le schede e ci sono stati cinque omicidi legati alla violenza politico-criminale. Durante la campagna elettorale e subito prima sono stati ben 140 i politici o i candidati assassinati.
OBRADOR-AMLO era in testa di 20 punti nei sondaggi sugli oppositori – Ricardo Anaya del conservatore Partido Acción Nacional (Pan), José Antonio Meade del centrista Revolucionario Institucional (Pri) e l’indipendente Jaime Rodríguez – ma i conteggi preliminari hanno superato le aspettative e il presidente dell’Istituto elettorale ha comunicato che, con un’affluenza del 64%, Obrador ha il 54% delle preferenze, Anaya il 22%, Meade il 15 e Rodríguez il 5%.
La vittoria del suo Movimiento Regeneración Nacional (Morena) si conferma nella capitale, con Claudia Sheinbaum come prima governatrice donna della città, e nei governi di Chiapas, Morelos, Tabasco, Veracruz. Il Pan prende lo Yucatan e Guanajuato, ed è in bilico con il Morena a Puebla. Il Pri perde ovunque. Nel Jalisco vince il Movimiento Ciudadano, partitino di centrosinistra alleato col Pan.
GLI SCONFITTI e lo stesso presidente in carica, Enrique Peña Nieto, hanno subito riconosciuto il risultato, augurando «per il bene di tutto il Messico» che il prossimo presidente abbia successo e garantendo un’opposizione «responsabile e democratica». Amlo, coi suoi 64 anni spesi quasi tutti in politica, è un dirigente navigato.
DOPO GLI INIZI NEL PRI e gli incarichi ricoperti nel suo Stato natale, il Tabasco, s’è proiettato sulla scena nazionale come un leader della sinistra, raccolta intorno al Partido Revolución Democrática (Prd), e come sindaco di Città del Messico, incarico che ha ricoperto dal 2000 al 2005.
Dopo la sconfitte alle presidenziali del 2006 e 2012 con il Prd e la svolta destrorsa del partito, oggi alleato del Pan di Anaya, Obrador ha fondato il suo movimento contro le politiche neoliberali di Peña, costruendo una formazione progressista che, tuttavia, resta gerarchica e centrata sul leader. Amlo ha anche moderato il suo discorso politico e cercato collaboratori vicini al mondo dell’imprenditoria per non spaventare le classi medie e l’establishment finanziario internazionale, dato che per anni i suoi oppositori hanno usato lo spauracchio del Venezuela e di Chávez contro di lui.
IL MORENA ha anche stretto una discutibile coalizione (Juntos Haremos Historia, «Insieme faremo storia»), col Partido Encuentro Social (Pes), tradizionalista e legato alle chiese evangeliche. L’alleanza ha ottenuto un’ampia maggioranza in Parlamento, ma l’ala sinistra potrebbe subire i ricatti del Pes su temi come l’aborto e le libertà civili.
«Obrador ha trionfato, malgrado alcune incognite sul governo che verrà, perché la sua diagnosi è giusta: il Messico è stato depredato dall’élite e da corporazioni corrotte e ora il pendolo va a sinistra, dopo anni di concentrazione della ricchezza, dev’esserci ridistribuzione», commenta la politologa Denise Dresser.
Da vincitore ha esordito: «Inizia la quarta trasformazione del Messico, la rivoluzione delle coscienze ha vinto, questo trionfo appartiene a tutte e tutti», dinanzi a decine di migliaia di sostenitori che hanno riempito l’immenso Zócalo, la piazza centrale di Città del Messico, al grido di «Non sei solo», «Ce l’abbiamo fatta» e «Fuori Peña».
Nel suo comizio ha parlato della necessità di una riconciliazione nazionale nell’interesse generale, strizzando l’occhio a imprenditori e investitori privati, cui ha promesso «rispetto» e il mantenimento dell’autonomia della Banca centrale. Ha annunciato una revisione dei contratti derivati dalla liberalizzazione del settore energetico e l’abolizione della riforma educativa, simile alla «Buona scuola» renziana. Il suo martellante discorso contro la corruzione e la «mafia del potere», cioè i circoli ristretti dell’élite imprenditoriale e politica messicana, è stato vincente perché ha catalizzato l’indignazione generale per i numerosi scandali e sprechi di questi anni.
«PER IL BENE DI TUTTI, prima i poveri», ha ribadito Obrador, dichiarando come priorità la giustizia sociale, il lavoro e la lotta contro le disuguaglianze. Recuperare l’intervento statale con politiche keynesiane e redistributive, riformiste rispetto al neoliberismo finora imperante, nel rispetto delle diversità e dell’opposizione politica, sono altri punti programmatici fondamentali del Morena. In serata sono arrivate le congratulazioni, tra gli altri, di leader come il canadese Trudeau, il russo Putin, il boliviano Morales, lo spagnolo Sánchez e persino di Trump, il quale ha twittato che è ansioso di lavorare con lui perché «c’è molto da fare nell’interesse di Usa e Messico».
«Fino all’insediamento del primo dicembre lavorerò coi membri del nuovo governo, non perderemo tempo: raddoppieremo subito le pensioni per gli anziani, garantendo l’universalità, e tutti i disabili poveri avranno un sussidio», ha intanto annunciato Amlo. «Garantiremo il diritto allo studio e al lavoro dei giovani e lanceremo progetti di sviluppo da Sud a Nord per far restare i messicani nella loro terra», ha proseguito.
IN CORTEO sventolavano bandiere arcobaleno del movimento Lgbtq e si sentivano cori di giubilo. Ma la gente ha anche intonato la conta da 1 a 43 e la rivendicazione di giustizia per i 43 desaparecidos di Ayotzinapa e gli altri 36mila, come a sottolineare che i movimenti continueranno a portare avanti le loro domande. «Il voto a Amlo non è un assegno in bianco», ribadiscono gli attivisti in piazza. Popoli indigeni, comunità Lgbtq e diritti umani sono stati i grandi assenti della campagna dei quattro candidati, ma si faranno sentire dal basso indipendentemente da chi governi.

La Stampa 3.7.18
È ispanico il populismo di sinistra
di Juan Luis Cebrián


«Ti mettono nel petto una fascia tricolore, ti siedi sulla Sedia dell’Aquila e si parte! E’ come salire sulle montagne russe, vai in picchiata e fai una smorfia che diventa la tua maschera. La faccia che si fa quando stai all’ingiù è quella che ti resta per sempre». Lo scrittore Carlos Fuentes descriveva così, 15 anni fa, quello che ha significato il mandato di presidente della Repubblica del suo Paese da oltre un secolo a questa parte. Sembra certo che il capo dello Stato uscente, Enrique Peña Nieto, continuerà a provare questa paura anche dopo aver passato il testimone al suo successore, eletto domenica scorsa.
è da vedere ora se Andrés Manuel Lopez Obrador riuscirà finalmente a far diventare il Messico un Paese prevedibile, e non perennemente sottomesso alle aritmie provocate dalle attrazioni del luna park.
La vittoria di Lopez Obrador si inserisce nella corrente, ormai quasi globale, della perdita di prestigio dei partiti politici tradizionali. La corruzione, l’autoreferenzialità e la lontananza dagli elettori, dalle loro speranze e i loro problemi, hanno propiziato l’ascesa dei populismi, che spesso sfociano in forme di autoritarismo apparentemente benevolo, ma con derive quasi dittatoriali. In ogni caso, le elezioni messicane hanno caratteristiche specifiche, che le rendono un fenomeno unico. Siamo davanti alla svolta politica più importante del Paese dalla fondazione del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri), che ha segnato la vita del Messico, in un modo o nell’altro, per più di novant’anni. Il trionfatore, Amlo (dalle iniziali del suo nome), ha cominciato la sua vita politica nel Pri e più tardi nel Prd, una scissione di sinistra, e in molti vedono, quindi, la sua elezione come un’eredità non dilapidata dello spirito rivoluzionario che ha dato origine a quel sistema che oggi viene dato per morto. Ha avuto un passato da governatore, ha guidato il «Distretto federale» di Città del Messico tra il 2000 e il 2006, e sebbene la sua gestione sia stata controversa, anche i suoi detrattori gli riconoscono di esser stato un buon governatore. Insomma, Amlo è tutt’altro che un volto nuovo, ma un politico di lungo corso, che ha resistito alle sconfitte elettorali, grazie a una solida scuola nei partiti.
Nonostante la demagogia di molte dichiarazioni e di alcuni aspetti della sua personalità, Lopez Obrador non si riconosce nella categoria di populista. E’ invece un chiaro leader di sinistra e il suo radicalismo ha messo in allarme imprenditori e dirigenti. Deve il suo successo all’appoggio, insperato fino a qualche anno fa, delle classi medie, stanche della corruzione dei suoi governanti, della violenza dei narcos e delle enormi diseguaglianze. Il suo non è un discorso nuovo, quella che è cambiata è la speranza degli elettori che le promesse di un politico possano finalmente diventare realtà. Anche Peña Nieto è arrivato alla presidenza annunciando un piano di riforme che avevano prodotto un effetto simile. Ma lascerà l’incarico circondato da scandali di corruzione, in un Paese con un livello di violenza sconosciuto finora.
Il potente mondo degli imprenditori messicani ha portato avanti una campagna frenetica contro il presidente neo eletto, temendo che il suo programma potesse mettere in pericolo l’economia del Paese, una pressione che è stata allentata solo a ridosso delle elezioni. Il candidato si è molto prodigato nel mandare messaggi di moderazione, in contrasto con le minacce demagogiche del candidato della destra Roberto Anaya. Il fango gettato dai settori conservatori contro Amlo è arrivato al punto tale che in alcuni dibattiti privati e pubblici si è ipotizzato un attentato che mettesse fine alla sua vita. Gli studiosi di politica messicana devono tenere in conto che, durante gli ultimi novant’anni, in questo Paese il dibattito intellettuale non è stato un fattore decisivo per ottenere il potere.
Le elezioni di domenica costituiscono uno spartiacque nella storia. E’ improbabile che il Pri continui a essere il centro nevralgico del sistema e non si può escludere che scompaia del tutto, fagocitato dal nuovo scenario. La lotta contro il narcotraffico, che ha causato più di cento morti soltanto durante la campagna elettorale, non sarà semplice. I suoi tentacoli si sono impadroniti di posti chiave all’interno delle forze dell’ordine e del potere municipale. L’elaborazione di un piano fiscale che modernizzi le istituzioni economiche e rafforzi lo Stato troverà l’ostilità attiva degli imprenditori, abituati spesso ad arricchirsi grazie alle complicità di chi ostenta il potere. In ultima analisi: sei anni non sono un periodo sufficiente per ottenere una vittoria chiara nella lotta contro le diseguaglianze, ma un cambio di sistema politico può aprire una finestra di speranze.
Colpisce poi, che nel momento in cui l’America Latina vira a destra (Cile, Perù, Colombia, Argentina e Brasile) il Messico vada in direzione opposta. Gran parte della campagna di Lopez Obrador l’ha fatta in realtà Donald Trump, con le sue politiche d’odio verso i messicani e le sue bravate sul muro che hanno esacerbato il, già di per sé ingombrante, sentimento patriottico e nazionalista del Paese. Il Messico ha una frontiera di più di tremila chilometri con la prima potenza mondiale, più di cinque milioni di messicani, senza documenti, si trovano negli Stati Uniti illegalmente e 35 milioni sono i cittadini americani di origine azteca. Al di là della controversia sul muro, i rapporti di Trump con il Paese vicino hanno seguito una sceneggiatura firmata dal genero del presidente, Jared Kushner e il cancelliere messicano Luis Videgaray, amici di lunga data. Per questo il Dipartimento di Stato e i responsabili delle politiche di immigrazione americana hanno più motivi di preoccupazione rispetto a due giorni fa. Mancano ancora cinque mesi alla salita di Amlo sulle montagne russe, solo allora potremo vedere che faccia farà.

il manifesto 3.7.18
Partita la campagna palestinese contro il piano Trump
Cisgiordania occupata. Centinaia di palestinesi hanno manifestato ieri a Ramallah contro il cosiddetto "Accordo del secolo", l'iniziativa americana per un accordo di pace in Medio Oriente tutta sbilanciata a favore di Israele
di Michele Giorgio

RAMALLAH  Si sono ritrovati in circa duecento ieri in piazza Manara, a Ramallah, per la prima ‎manifestazione di protesta organizzata dal partito Fatah, con il sostegno ‎dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), contro l'”Accordo del secolo”. Si tratta ‎del piano “di pace” per il Medio oriente che l’Amministrazione Usa dovrebbe ‎annunciare nelle prossime settimane. I manifestanti hanno dato fuoco a cartelli con ‎il volto del presidente americano e scandito slogan contro “lo schiaffo del secolo” ‎che, stando alle indiscrezioni, offre una soluzione al conflitto fondata sulle ‎condizioni poste da Israele: Gerusalemme tutta allo Stato ebraico, Valle del ‎Giordano sotto il controllo israeliano, indipendenza finta con i palestinesi che ‎dovranno accontentarsi di quel 40% di Cisgiordania (più o meno il 10% della ‎Palestina storica) che già amministrano civilmente da oltre venti anni e rinunciare ‎al controllo delle frontiere, delle loro risorse idriche e a uno spazio aereo ‎nazionale. ‎
 La mobilitazione giunge dopo la recente visita nella regione da parte degli ‎inviati statunitensi Jared Kushner e Jason Greenblatt, venuti in Medio Oriente, ‎dicono i palestinesi, per definire con israeliani e arabi gli ultimi particolari del ‎piano Usa. Kushner e Greenblatt non hanno avuto incontri con l’Anp ma a ‎Washington va bene perché l’iniziativa americana non contempla un ruolo da ‎protagonista per i palestinesi, destinati ad accettare quello che decideranno per ‎loro i leader arabi assieme al premier israeliano Netanyahu. «Crediamo che sia ‎iniziato il conto alla rovescia per l’annuncio pubblico del piano Trump‎», ci ha ‎spiegato un attivista della campagna avviata ufficialmente dal “Comitato di Forze ‎Nazionaliste e Islamiche” e in realtà organizzata dal partito Fatah, spina dorsale ‎dell’Anp. La modesta partecipazione, rispetto alle aspettative, alla prima delle ‎manifestazioni contro l’iniziativa Usa dimostra che Fatah e l’Anp sono arrivati a ‎questo appuntamento con le ruote sgonfie. D’altronde la campagna parte qualche ‎giorno dopo le manifestazioni contro la presidenza dell’Anp per la politica ‎punitiva avviata da Abu Mazen nei confronti di Gaza nel tentativo velleitario di ‎colpire i rivali islamisti di Hamas e che sta soltanto aggravando la condizione della ‎popolazione.‎
 Intorno alle possibilità del piano Usa intanto regna un profondo scetticismo. Gli ‎stessi israeliani, che pure sono i beneficiari dell’iniziativa di Trump, pensano che ‎l’Amministrazione Usa stia facendo un buco nell’acqua. Un sondaggio rivela che il ‎‎74% degli israeliani ebrei ritiene che il piano sia destinato al fallimento. Ancora ‎più significativo è che l’83% pensa che l’esercito debba sparare direttamente a chi ‎da Gaza lancia i palloni e aquiloni “incendiari”. Proprio ieri l’ong Defense for ‎Children International (Dci) ha denunciato che 25 minori palestinesi sono stati ‎uccisi dall’inizio dell’anno dai soldati israeliani. Ventuno a Gaza, 18 dei quali ‎durante le manifestazioni della Marcia del Ritorno. Ieri due palestinesi sono stati ‎uccisi durante in tentativo di infiltrazione in Israele.‎

Corriere 3.7.18
San Girolamo contro Roma
L’assedio dei goti visto come castigo per i costumi corrotti del paganesimo
Matthew Kneale (Bollati Boringhieri) rievoca i sette saccheggi subiti dalla città nella sua lunga storia. Su quello compiuto da Alarico nel 410 d. C. le versionisono discordi: per alcuni fu una vera catastrofe, per altri provocò danni limitati
di Paolo Mieli


Roma, agli inizi del V secolo, era una città che contava forse più di un milione di abitanti (qualcuno li ha stimati addirittura un milione e mezzo), malsana e soffocante. Morbillo, orecchioni, tubercolosi e vaiolo erano ormai da tempo malattie endemiche. Ma la piaga più grande era la malaria. Dai documenti risulta che l’Urbe era vittima all’incirca di un’epidemia malarica ogni sei anni, in genere all’indomani dei temporali estivi e a partire dalle zone vicine al Tevere, dove prosperavano le zanzare e vivevano gli abitanti più poveri. Da ottocento anni non aveva più subito un’invasione e si riteneva che — soprattutto dopo un percorso di integrazione dei barbari — non ce ne sarebbero state mai più. Invece…
Nella notte del 24 agosto 410, torme di visigoti maleodoranti e pieni di pidocchi attraversarono la Porta Salaria e si riversarono nella città che veniva già dall’aver subito un lungo assedio: il cibo era stato razionato e gli 800 mila abitanti (forse anche di più) avevano cominciato a morire letteralmente di fame. Il sacco che ne seguì durò tre giorni. Secondo uno storico cristiano, Socrate di Costantinopoli (Socrate Scolastico, che scrisse trent’anni dopo l’accaduto) furono uccisi molti senatori e la maggior parte dei monumenti cittadini venne data alle fiamme. Procopio (che invece scrisse cento anni dopo il sacco) sostenne che i visigoti «annientarono» la maggioranza dei romani. San Girolamo che ne parlò dalla Terra Santa, soltanto due anni dopo gli eventi, diede una versione apocalittica di quel che era successo già prima che i visigoti entrassero in città: secondo lui, allorché gli uomini di Alarico fecero il loro ingresso a Roma buona parte degli abitanti era già morta di fame. «Una fame arrabbiata», raccontò Girolamo, «ha spinto i cittadini a cibi nefandi; si sono sbranati l’un l’altro, membro a membro: le mamme non hanno risparmiato i propri figli ancora lattanti».
Ma un’altra fonte, Paolo Orosio — che scrisse otto anni dopo l’invasione, probabilmente mentre si trovava in Spagna — offrì una versione assai diversa di quel che era capitato nei giorni delle scorribande romane dei visigoti: Alarico, sostenne Orosio, aveva dato «ordine alle truppe, principalmente, di lasciar illesi e tranquilli quanti si fossero rifugiati in luoghi sacri, specialmente nelle basiliche dei santi apostoli Pietro e Paolo, e, secondariamente, di astenersi quanto possibile, nella caccia alla preda, dal sangue». Uno storico della Chiesa, Sozomeno, che poco dopo Orosio si occupò di ciò che era avvenuto a Roma nel 410, indugiò su episodi di visigoti «di buon cuore» che fecero del bene alla città. A questo punto si pone una domanda: com’è possibile che queste fonti, tutte cristiane, siano a tal punto in contrasto tra loro? È lo stesso quesito che si pone Matthew Kneale in un libro assai stimolante, Storia di Roma in sette saccheggi, edito da Bollati Boringhieri. I saccheggi sono: 1) quello dei galli di Brenno del 387 a.C. descritto da Tito Livio; 2) quello di cui qui stiamo parlando del 410; 3) quello del 546 del re ostrogoto Totila; 4) quello dei normanni di Roberto il Guiscardo del 1084; 5) il sacco dei lanzichenecchi al soldo dell’imperatore Carlo V d’Asburgo del 1527; 6) l’assedio dei francesi di Luigi Napoleone del 1849 e 7) l’occupazione nazista del 1943-44.
Per tutti esistono, nella rappresentazione che se n’è data in seguito, clamorose contraddizioni e discrepanze come quelle di cui si è detto all’inizio. A proposito delle quali, fa notare Kneale, «gli autori che riferiscono di un saccheggio brutale, compreso Girolamo — il quale senza dubbio provava ancora rancore verso i ricchi che lo avevano scacciato dalla città — vedevano il disastro come la punizione divina dei romani per il lusso in cui si erano crogiolati e per il loro paganesimo». Agli occhi di Girolamo «il sacco doveva essere stato terribile, perché questo era ciò che i romani meritavano». All’epoca — anche se ormai da un secolo l’impero era governato dai cristiani, con una breve interruzione durante il regno del pagano Giuliano — il paganesimo era ancora molto presente nella vita romana. Con «gran disgusto del fervente vescovo di Milano Ambrogio, folle di romani, cristiani compresi, continuavano a prender parte con gioia alle antiche celebrazioni pagane della città». Le più popolari erano i Lupercalia, durante i quali «gruppi di giovani uomini rincorrevano le ragazze per la città colpendole con una frusta in onore della lupa di Roma, una pratica che si credeva le rendesse fertili».
I romani, riferisce Kneale, da secoli «consideravano il sesso in maniera positiva, come un piacere accordato dagli dei di cui si doveva godere». Si pensava anche che «traendone piacere si facessero figli più sani». Non ci si preoccupava troppo «nemmeno del tipo di rapporto, se avesse luogo tra un maschio e una femmina o tra maschi (soltanto i rapporti tra donne destavano qualche disagio)». Nessuno si poneva problemi in merito alle «categorizzazioni sessuali». Se un uomo una volta andava a letto con una donna o con un uomo, «non ci si aspettava che poi continuasse a fare lo stesso». Poteva «cercare il piacere ovunque lo vedesse». Se esistevano dei tabù, essi erano legati a questioni di classe. Qualora un ricco andasse a letto con la moglie di un altro aristocratico, «si trattava di adulterio». Ma lo stesso uomo era libero di «avere un rapporto con una persona di rango inferiore». Anzi, liberissimo. Nessuno si poneva problemi circa i rapporti sessuali con gli schiavi, considerati una proprietà. Casomai si ironizzava sulla «tirchieria» di coloro che, anziché comprare schiavi al mercato, ne generavano con le donne, schiave, «in loro possesso». Allo stesso modo, «nessuno era troppo turbato dall’idea di uomini che abusassero sessualmente dei bambini, a patto che non fossero figli di aristocratici».
A tutto ciò si oppose il cristianesimo di San Paolo, che «considerava un abominio qualsiasi pratica sessuale al di fuori di quella più semplice e funzionale» del matrimonio; e «il sesso in generale — per non parlare del goderne — era comunque visto con molto sospetto». I primi devoti «idealizzavano la verginità, la castità e i matrimoni platonici». Il monaco Girolamo fu un grande fustigatore di questi costumi: era disgustato «dal fatto che i ricchi cristiani di Roma aderissero alla loro fede a parole, adoperandosi nel contempo ai propri interessi dinastici». In che senso? Se «davano una figlia vergine a Gesù», ne tenevano un’altra nel mondo terreno, e «in caso di necessità non si facevano scrupoli a riprendersi la vergine donata a Cristo per metterla sul mercato a che trovasse un buon partito».
Le «tensioni maggiori, almeno all’interno dell’aristocrazia romana, spesso non vedevano contrapposti pagani e cristiani, ma pagani e cristiani da una parte e un gruppetto di cristiani molto devoti dall’altra». Ed è a sostegno di questi ultimi che Girolamo lanciava il suo anatema, sostenendo che il sacco era stato una sorta di punizione divina nei confronti di una Roma dissoluta e ancora pagana. Fu per le sue denunce che, alla morte del vescovo Damaso, suo protettore, Girolamo fu cacciato dalla città. E Girolamo «si vendicò» esaltando, per così dire, il sacco di Alarico come se si trattasse di una punizione divina per la persistenza del paganesimo a Roma.
Al contrario, sempre secondo Kneale, «chi raccontava di un saccheggio rispettoso aveva in mente un quadro politico più ampio». Questi autori «intendevano respingere le accuse pagane, secondo le quali il sacco aveva avuto luogo perché i romani avevano chiuso i templi degli antichi dei e ne avevano fuso le statue». Il secondo gruppo «voleva dimostrare che Pietro e Paolo avevano protetto bene la città e che, grazie alla loro influenza, Dio aveva addolcito i cuori dei visigoti». Ma chi aveva ragione? E cosa accadde davvero? Kneale si affida all’archeologia e censisce gli edifici che, a quel che risulta dagli scavi, furono realmente danneggiati. La lista, scrive, «non è molto lunga». Secondo l’autore, Orosio e coloro che riferiscono di un saccheggio «amichevole» paiono «avvicinarsi di più alla verità». È probabilmente tutt’altro che falso che Alarico avesse ordinato ai suoi di «comportarsi bene». Del resto, se avesse distrutto Roma, «la città avrebbe perso ogni valore come merce di scambio e lui stesso avrebbe avuto poche possibilità di stringere un accordo con l’Impero d’Occidente». Se ne può trarre la conclusione che «in generale, nel 410 d.C. Roma ebbe fortuna». In confronto al destino di altre città della stessa epoca (date alle fiamme, videro i propri abitanti ridotti in schiavitù), Roma in quel 410 «se la cavò molto bene».
Ciò nonostante i racconti di Orosio e Sozomeno sui «visigoti dal cuore tenero» sono, secondo Kneale, «lontani dalla verità». Agostino d’Ippona, il quale dall’Africa settentrionale reagì al saccheggio con una serie di sermoni dai quali prese forma la sua celebre opera La città di Dio, ricorda che nella sua congregazione erano presenti molti profughi romani e questi «se il sacco fosse stato una cosa da poco, è improbabile che avrebbero mai lasciato la città». Secondo Agostino, a meritare di finire sul banco degli imputati era la «base morale» del potere romano. Se i cristiani desideravano una città eterna, dovevano rivolgersi alla Città Celeste di Gerusalemme che «li attendeva in cielo». Nessuna città terrena, Roma inclusa, «sarebbe durata per sempre». Tra l’altro Agostino — spingendosi a riferire le atrocità subite da Roma nei giorni del sacco — parla delle vergini romane violentate precisando che «Dio non le aveva giudicate male né abbandonate» ed esprimendo la singolare supposizione che «potessero essere state loro, troppo orgogliose della propria verginità, ad attirare su di sé la violenza subita». Uno dei pochi scrittori che quell’anno si trovavano effettivamente a Roma fu il monaco britannico Pelagio, le cui idee avrebbero dato vita ad una forma di eresia cristiana che Agostino d’Ippona s’impegnò poi a sradicare. In una lettera così descrisse l’accaduto: «Ognuno era mescolato agli altri e scosso dalla paura; ogni famiglia aveva la propria afflizione e un terrore avvolgente afferrò tutti; schiavo e nobile erano una cosa sola; il medesimo spettro di morte si aggirava solennemente in mezzo a tutti noi».
Dopo tre giorni, con grande sollievo dei romani, i visigoti lasciarono la città e marciarono verso sud. Alarico sperava di arrivare in Sicilia e proseguire di seguito in Africa, ma non riuscì ad attraversare lo stretto di Messina. Due mesi dopo morì a Cosenza, probabilmente a causa della malaria contratta a Roma. «La città si era vendicata», scrive Kneale. Ma circa 136 anni dopo, nel 546, gli ostrogoti di Totila si presentarono nuovamente alle porte della città, la cinsero d’assedio, entrarono grazie a un tradimento e stavolta (pur per un breve periodo e a due riprese, la seconda nel 549) ne fecero la loro capitale. Nel 551 l’imperatore Giustiniano inviò in Italia un esercito comandato dall’eunuco Narsete, che all’inizio del 552 affrontò Totila in Umbria, lo sconfisse e lo uccise.
Dopodiché Roma, che ormai era pressoché spopolata «fu aiutata dalle disgrazie altrui». Le invasioni longobarde «provocarono un tale caos che la gente si riversò a fiotti entro le mura cittadine in cerca di salvezza». Alla fine del VI secolo contava quasi 50 mila abitanti. A causa degli argini marcescenti del Tevere, era devastata dalle alluvioni due o tre volte per secolo. Una delle più gravi ebbe luogo nel 589 e fu fantasiosamente descritta (due secoli dopo) da Paolo Diacono: il fiume «si gonfiò fino al punto che le sue acque scorrevano sopra le mura della città allagandone moltissimi rioni… Allora, nuotando nell’alveo del fiume insieme con moltissimi serpenti, un drago di terrificante grandezza attraversò la città e scese al mare». Templi e monumenti pagani furono abbandonati all’incuria e ai furti. A dire il vero, nota lo storico, «non vennero quasi costruite nuove chiese per lo meno non di dimensioni considerevoli, perché i Papi faticavano già a mantenere quelle esistenti». Date le sue dimensioni, San Pietro «in particolare rappresentava un problema e necessitava di riparazioni costanti». Sicché, nell’impossibilità di costruire nuovi edifici, i Papi si risolsero a riutilizzare quelli antichi. La cosa migliore fu che all’inizio del VII secolo il Pantheon, «il più bel tempio pagano di Roma», fu trasformato nella Basilica di Santa Maria ai Martiri, «scampando così alla lenta rovina cui andarono incontro altri grandi templi». Poi, dopo che Gerusalemme nel 636 cadde nelle mani dei musulmani, Roma divenne la meta principale dei pellegrinaggi cristiani. E risorse dai traumi, dalle sue rovine. In attesa, come detto all’inizio, di nuove incursioni e nuovi saccheggi.