l’Unità 13.10.07
Ora ci si mette Confindustria
Welfare, dopo il referendum il governo vara la legge. Astenuti Prc e Pdci
Gli industriali contro le modifiche. Damiano: li avevamo consultati
I ministri Mussi e Pecoraro Scanio hanno espresso un «sì critico».
l’Unità 13.10.07
Manifestazione del 20, una spina nel fianco della Cosa rossa
Mussi: è certamente un problema... Ma Giordano e Palermi insistono: «I motivi per farla restano»
di Maria Zegarelli
SPINE Dopo il referendum sul Welfare e dopo il Consiglio dei ministri di ieri, la manifestazione del 20 ottobre si mostra per quello che è: una spina nel fianco della Cosa Rossa. Chi la sostiene argomenta: «non è contro» il governo ma è «pro-programma» dell’Unione. Chi la evita, come Sinistra democratica, guarda all’opportunità politica. Il «cantiere unitario» messo su e lanciato dal presidente della Camera Fausto Bertinotti, di fatto sembra registrare una fase di stallo. Le distanze, conclamate in Cdm ieri, con Rc e Pdci che si sono astenuti sul Protocollo Welfare, e Sd e Verdi, che hanno invece approvato con riserva, si confermano anche in vista della manifestazione. Se il segretario di Rifondazione Comunista, Franco Giordano, dice di non capire proprio per quale motivo «la sinistra al governo dovrebbe rinunciare al terreno della partecipazione democratica», e rivendica tutti i motivi della bontà dell’essere in piazza, Sinistra democratica ha scelto di non aderire. Nel movimento che fa capo al ministro Fabio Mussi, c’è chi osserva come sia chiaro a tutti, «che chi ha convocato la manifestazione del 20 adesso ha un problema...». Nessun problema, insiste Giordano. «È una manifestazione - ragiona - che ha come tema centrale quello della precarietà e come obiettivo quello di voler sostenere il governo in un salto di qualità nell’attuazione del programma e nella credibilità della politica». Il ministro Paolo Ferrero bacchetta il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani che ha definito «inopportuna» la manifestazione: «Epifani sbaglia. L’appuntamento del 20 è un’occasione per mettere il tema del lavoro al centro del dibattito politico». Manuela Palermi, del Pdci, è sostanzialmente sulla stessa linea: «Altro che depotenziata. Ci sono tutti i motivi per esserci e sono sicura che sarà una grande e bella manifestazione. Il referendum è stata una grande prova di democrazia, ma la precarietà resta un problema da affrontare. Il voto dei lavoratori va letto con grande attenzione perché ci sono i “sì” ma anche tanti “no”. In piazza ci saranno anche coloro che si sono espressi a favore dell’accordo sul Welfare perché sanno che i “no” sono dettati da preoccupazioni reali».
Cesare Salvi, Sd, capogruppo al Senato, avrebbe personalmente aderito «ma per responsabilità per il ruolo che rivesto in Sd rispetto le decisioni prese l’altra sera». Tuttavia, non approva chi critica la partecipazione, sarebbe «maccartista» mettere alla gogna «chi esprime liberamente la propria opinione». Famiano Crucianelli, altro big targato Sd è meno diplomatico: se guarda al futuro della Cosa rossa vede nero: «La nostra missione - osserva dalle pagine di Europa - resta quella di costruire un nuovo soggetto. La distanza fra l’obiettivo e la situazione attuale non sfugge a nessuno». E se il ministro Verde Alfonso Pecoraro Scanio, è sulla linea «manifestazione = spinta all’attuazione del programma», i due «disobbedienti» Franco Turigliatto e Salvatore Cannavò di Sinistra critica, definiscono il voto in Cdm «un atteggiamento in linea con l’inattività della sinistra cosiddetta radicale nel corso del referendum, su cui non c’è stata nemmeno l’indicazione del No». Il 20 ottobre «può forse servire a supportare il progetto di un nuovo soggetto politico ma non è una manifestazione utile a respingere il Protocollo».
Repubblica 13.10.07
Sinistra radicale in difficoltà in vista del 20 ottobre. Sd: la reazione industriale conferma che il nostro sì è giusto
La Cosa Rossa torna a dividersi Prc: "Epifani boicotta il corteo"
di Umberto Rosso
Rifondazione è sicura: il corteo sarà un successo, e san Giovanni sarà gremita
Bertinotti è preoccupato: siamo in ritardo anche se l'impegno c'è
ROMA - «Ecco qua, è la prova provata che avevamo ragione noi». Quando a fine giornata piove il niet di Montezemolo, il capo dei senatori di Sd Cesare Salvi, che ha trascorso l´intero pomeriggio a istruire emendamenti comuni della Cosa rossa alla manovra, indica ai suoi compagni qual è la "linea giusta" della sinistra. La reazione del presidente della Confindustria dimostra che «le modifiche apportate al protocollo sono vere e sostanziose», e dunque Mussi e Pecoraro hanno fatto bene a votare sì in Cdm. Meno, si capisce, Ferrero e Bianchi ad astenersi. «Comportandosi da persone serie e non accusando i sindacati di essere imbroglioni, i risultati si portano a casa». Giorni di passione si annunciano, per la casa comune in rosso, che dopo la spaccatura a Palazzo Chigi sta per tornare a dividersi nella manifestazione del 20 ottobre (ieri presentata dagli organizzatori, i giornali Liberazione, Manifesto e Carta).
Franco Giordano e i suoi tirano dritto, «nessun problema e la tabella di marcia unitaria non cambia di una virgola». Stati generali entro Natale, via al processo costituente, lista unica già alle amministrative di primavera. Il ministro Pecoraro però frena, «non corriamo, la lista unica la vedo per le politiche, intanto pensiamo alle prossime tappe sul welfare: massima apertura sul programma dell´Unione ma nessuna rottura con il governo». Ma intanto il corteo di sabato prossimo - convocato in origine come prova di forza nei confronti di Prodi - ha improvvisamente cambiato di segno: si è trasformato nel test di sopravvivenza della Cosa rossa. Dalla piazza Rifondazione cerca la rivincita, e nuova forza rispetto alle scelte che fin qui hanno finito per premiare gli altri due soci della squadra, appunto la Sinistra Democratica e i Verdi, e che alla manifestazione non aderiscono. «Sarà un corteo grandioso, da 150 mila persone, ma non mi stupirei ne arrivassero anche il doppio - prevede Giovanni Russo Spena, presidente senatori prc - e sono convinto che ci saranno tanti militanti e dirigenti della Sinistra democratica. Mi risulta anche la presenza di molti dei loro parlamentari». Gira l´elenco dei deputati e senatori pronti a sfilare, snobbando la preoccupazione principale di Mussi e Salvi. Questa qui: un corteo filo-Fiom che, più che il governo, finisce per prendere di mira Epifani e la Cgil. «Inammissibile e incomprensibile - avvertono perciò i leader dell´ex correntone ds - tanto più dopo la schiacciante vittoria dei sì». A complicare i rapporti anche una delicata questione sollevata proprio da Rifondazione: sarebbe scattato un pressing martellante anti-20 ottobre, un´operazione-dissuasione nei confronti dei parlamentari della sinistra. E che porterebbe proprio la firma della Cgil. «Stanno arrivando telefonate a tappeto - riferisce Russo Spena - da parte dei vertici del sindacato, e in qualche caso dello stesso segretario. La richiesta è una sola: disertate il corteo, perché sarebbe contro la Cgil». Altra benzina sul fuoco, con Rifondazione già infuriata per le reazioni attribuite ai vertici della Cisl a vittoria acquisita, «gli abbiamo fatto il mazzo ai signori della sinistra radicale...». Sono le ferite lasciate dal referendum. Una scia di incomprensioni e di polemiche, esplose con la denuncia di brogli dell´eurodeputato pdci Marco Rizzo, che hanno coinvolto alla fine pure Rifondazione nonostante la sconfessione di Giordano e l´intervento dello stesso Bertinotti.
Il presidente della Camera, che resta lo sponsor numero uno della riunificazione a sinistra, tuttavia è preoccupato e non si nasconde le difficoltà dell´operazione in questa fase, «siamo in ritardo, anche se l´impegno è forte». Alla fine del prossimo mese, al congresso di Praga della Sinistra europea, come annunciato, lascerà la presidenza della sua creatura (al tedesco Bysi) con un messaggio che vale per tutti, anche per i suoi compagni italiani (anticipato in uno scritto che uscirà su "Alternative per il socialismo"): riprendiamo il filo diretto con i lavoratori, ormai prigionieri di meccanismi di produzione involutivi, oppure la sinistra si perde. E´ l´unica strada per rimettere in pista la Cosa rossa.
Repubblica 13.10.07
Kafka. Le visioni di uno scrittore-enigma
Intervista con Pietro Citati
Torna dopo vent´anni e con molte aggiunte il libro che Pietro Citati dedicò all´autore da lui definito "il più insondabile della letteratura universale"
"Aveva timore del corpo e orrore dell´eros, che rappresenta sempre come losco, degradato e ripugnante"
Rileggendo il Kafka di Pietro Citati che esce in questi giorni da Adelphi (pagg. 378, euro 13), ho ritrovato intatta l´emozione fantasmatica provata venti anni fa al momento della sua prima apparizione da Rizzoli. E´ proprio in questo libro, che ancora oggi si impone come uno dei suoi tours de force interpretativi più complessi e illuminanti, che Citati metteva definitivamente a punto, dopo il Goethe e il Tolstoj, un´arte del ritratto sotto il segno dell´empatia che da quel momento in avanti avrebbe costituito la sua inconfondibile cifra.
Il libro che Citati ha dedicato a Kafka si sottrae alle definizioni. E´ un ritratto di Kafka, e soltanto di Kafka, che si staglia su uno sfondo nero, senza cornice, senza paesaggio, senza figure di contorno, e che lo rappresenta completamente assorto nello sforzo di trascrivere sulla pagina le sue visioni. E queste visioni Citati le studia, le confronta fra di loro e le commenta come usano i teologi con i testi religiosi. Nei venti anni trascorsi dalla prima pubblicazione del libro, Citati non ha smesso di leggere Kafka, come d´altronde provano le aggiunte che figurano nell´attuale edizione.
Possiamo chiederle che effetto le fa riprendere in mano il suo libro?
«Me ne ero quasi dimenticato, come mi accade sempre con ciò che ho scritto. Credo che sia un modo di purificare la mente e far sì che altre sensazioni possano impregnarla. A differenza della maggior parte dei libri che si occupano di Kafka, il mio non obbedisce a una tesi, non ha alcun intento dimostrativo. E´ uno studio estremamente analitico, fatto con infinita attenzione ai particolari, ed è dai particolari che il quadro generale prende la sua forma. Tuttavia la mia impressione attuale è di grande disorientamento e sono giunto alla conclusione che Kafka sia uno scrittore insondabile. Per quanto li si mediti, gli Aforismi di Zürau sono, per esempio, incomprensibili. Kafka è l´unico scrittore-enigma mai esistito nella letteratura universale».
Eppure, vent´anni fa, quando scriveva che «un ultimo paradosso vuole che i libri di Kafka siano tra i meno difficili della letteratura», lei sembrava credere anche alla possibilità di una lettura di segno contrario...
«E´ vero. Tenterò di risponderle come se credessi ancora totalmente al libro che ho scritto, cercando di spiegare quest´enigma come se fosse solo luce, una luce di natura essenzialmente biologica. In tutta la sua opera, a partire da America fino a Indagini su un cane, Kafka non ha parlato d´altro che di Dio, non ha fatto che rinnovare delle ipotesi su Dio, sia pure senza mai proferirne il nome. Egli lo menziona una volta sola in una lettera a Brod a proposito degli Aforismi di Zürau. Queste ipotesi, tuttavia, appaiono completamente diverse tra di loro. Basti dire che in pochi mesi, nel 1914 Kafka scrive contemporaneamente quello che doveva essere l´ultimo capitolo di America, cioè "il teatro di Oklahoma", La colonia penale e Il processo. Ebbene, queste tre narrazioni suppongono tre ipotesi opposte. Nel "teatro di Oklahoma" assistiamo alla discesa della Grazia, nella Colonia penale Dio è morto, nel Processo Dio è onnipresente e imbeve di sé tutta la realtà. Kafka è l´uomo dell´ipotesi, non della certezza, e tenta ogni volta una costruzione teologica nuova. Debbo confessare che mi è difficile capire questa compresenza di ipotesi, comprendere come esse possano, nella loro diversità, costruire un edificio».
In questo intreccio infinitamente complesso di istanze teologiche diverse in che misura è possibile parlare di una compresenza di tradizione ebraica, di pensiero cristianesimo e di gnosi?
«Incominciamo con l´escludere lo gnosticismo, di cui Kafka non sapeva nulla, anche se in qualche modo si può dire che la sua sia una religione gnostica. Quando Kafka incomincia a scrivere le cose che lo interessano più da vicino, Il verdetto e America, egli sapeva pochissimo dell´ebraismo e quel poco lo aveva appreso frequentando un caffè dove si esibiva una compagnia di attori chassidici. Il suo incontro con la Bibbia avviene molto più tardi, verso la fine della sua vita. Quanto alla tradizione mistica ebraica possiamo quasi dire che egli l´abbia fatta sua per intuizione, per invenzione: era un tale genio che non aveva bisogno di una conoscenza diretta. Si può invece supporre una sua conoscenza più diretta del cristianesimo.
A differenza di quello di Dio Kafka menziona il nome di Cristo: e in lui la componente cristiana è, a mio parere, molto importante, soprattutto per l´idea del "capro espiatorio".
«Nella Metamorfosi, Gregor Samsa è non soltanto la vittima ma colui che offre se stesso come capro espiatorio per salvare, se non l´umanità, almeno la famiglia. E´ vero che il suo sacrificio non serve a niente perché gli uomini restano duri, egoisti e incomprensivi, ma il sacrificio c´è e Kafka lo assume in prima persona. Negli appunti del diario, prima della stesura del Castello, egli parla di se stesso come "capro espiatorio" non per salvare gli uomini ma portarli a conoscenza del male che esisteva in lui. Il tema del sacrificio è fortissimo in Kafka, la sua stessa scrittura è un sacrificio».
Lei parla della «strana, misteriosa, forse pericolosa, forse redentrice consolazione» che la letteratura rappresentava per Kafka. Se scrivere era la sola cosa che contava per lui, questo non dipendeva anche dal fatto che essa costituiva di fatto l´unica strada possibile per un uomo paralizzato dalla paura di vivere?
«Lo scrittore più amato da Kafka era Flaubert, perché era "un uomo-penna" per cui non esisteva la vita ma solo la letteratura. La beatitudine per Kafka era di essere in una sala e leggere dal principio alla fine, nel silenzio religioso del pubblico, L´educazione sentimentale. Anche Kafka è un "uomo-letteratura", ma la differenza profonda con Flaubert è che attraverso la letteratura egli voleva giungere a scoprire il mistero religioso dell´esistenza. Non a caso egli pensa di smettere di scrivere nel momento in cui decide di seguire la strada indicata da Dio e partire per la Palestina».
Le donne amate da Kafka, a cui lei dedica dei ritratti molto belli, sembrano pure invenzioni letterarie, figure disincarnate che gli consentono di eludere quanto più possibile il contatto fisico.
«Kafka aveva certamente timore del corpo, orrore per qualsiasi fisicità e, soprattutto, per la propria. Era un vegetariano, provava disgusto per la carne e ricordava la sofferenza provata da bambino quando suo padre lo portava in piscina costringendolo a denudarsi. Aveva ugualmente orrore dell´eros. Nei suoi romanzi e, in particolar modo nel Castello egli ce lo rappresenta sempre losco, degradato, ripugnante.
Quali sono le donne di Kafka? Noi ne conosciamo solo tre.
«La prima è Felice Bauer che lo scrittore incontra nel settembre del 1912 a casa di Max Brod, mentre si accinge a scrivere sia La metamorfosi che America. La descrizione che ne fa è agghiacciante - denti d´oro, viso ossuto, espressione vacua -, eppure egli si innamora immediatamente di questa donna di cui fa una descrizione così ripugnante. Capisce che è l´unica persona che può portarlo nella terra di Canaan dove abitano gli uomini e le donne reali. E dà così inizio a un meraviglioso epistolario, scritto di notte, con uno slancio infinito, con una immaginazione incontenibile, molto più grande di quella messa in opera nei suoi romanzi. Da un lato egli pensa che questo matrimonio che insegue sarà la sua rovina, dall´altro ritiene che sia l´unica strada per salvarsi. Evita accuratamente di vederla - lui abita a Praga e lei a Berlino - e le spiega che può avere con lei un rapporto solo a distanza. Stanno insieme solo qualche giorno, hanno un rapporto fisico, ma lui l´abbandona quando scopre di soffrire di tubercolosi e di essere condannato. In effetti, morirà sei anni dopo. E Max Brod racconta che l´unica volta in cui ha visto Kafka piangere è in seguito a questa rottura.
Poi, dopo Felice, e suo esatto contrario, viene Milena. Anche lei abita in un´altra città, anche con lei intesse un lungo epistolario, anche con lei il tempo dell´incontro si riduce a qualche giorno, ma il loro è un amore reale. Milena è per lui l´incarnazione dell´Eros, un eros senza sesso, un eros materno ed è, al tempo stesso, la Vergine, la Morte, la Medusa. Kafka la abbandona perché pensa che ciò che la attrae in lui sia soprattutto la sua angoscia e perché non tollera che, pur amandolo, continui ad amare anche il marito. In un incontro successivo alla loro rottura Kafka le affiderà i suoi Diari.
«L´ultima donna, l´unica con cui egli abbia vissuto per circa un anno - che è anche l´ultimo della sua vita -, è Dora, un´ebrea orientale. Essa incarna agli occhi di Kafka quello che a all´epoca egli considerava, in opposizione all´ebraismo occidentale, il vero ebraismo, l´ebraismo chassidico, non assimilato. Dora è la serva umile e santa che deve portarlo in Palestina e che gli consente di vivere per qualche tempo una vita quieta, senza contrasti, simile a quella dei mesi trascorsi con la sorella Ottla a Zürau. Dopo un breve periodo di intensa felicità a Berlino subentra, però, il peggiorare della malattia, la febbre, la sofferenza, il sanatorio, le cure terribili. Pensiamo alle ultime parole di Kafka all´amico Klopstock: "se lei non mi uccide, è un assassino"».
La Stampa 13.10.07
Se la memoria si regola per legge
Il rafforzarsi della democrazia permette a Zapatero una condanna decisa del franchismo
di Giovanni De Luna
qui
Aprile on line 12.10.07
L'unità a sinistra non si fa in 24 ore
di Fulvia Bandoli
Il Consiglio dei ministri approva il protocollo welfare con l'astensione di Bianchi e Ferrero e l'assenso di Mussi e Pecoraro Scanio "condizionato" dal mantenimento, da parte del governo, dell'impegno ad apportare alcune modifiche. Far passare questa come una profonda spaccatura a sinistra è una forzatura: non ci si saluta al sorgere di una differenza di valutazione. Si scavalca l'ostacolo e si riprende il cammino
I sindacati ottengono un risultato significativo di partecipazione alla consultazione, i lavoratori e le lavoratrici danno prova di grande senso di responsabilità approvando un protocollo che pur risolvendo alcuni problemi ha ancora diverse ombre. Chi ha cercato di attaccare o indebolire il mondo del lavoro ha avuto una risposta chiara. Quel mondo è in campo, da esso non si può prescindere. E questa prova di democrazia è anche una risposta all'antipolitica dilagante. Dalla consultazione però esce anche un crescente malessere che riguarda i bassi salari (i più bassi d'Europa), il carico fiscale insopportabile sui redditi da lavoro, il precariato. Su questi punti un governo di centrosinistra deve continuare, nei prossimi mesi, ad intervenire con specifiche misure e non fermarsi al Protocollo. Il ruolo e i diritti del lavoro sono un elemento sostanziale per la coesione di un paese e la sinistra che vogliamo costruire non è equidistante tra i lavoratori e la Confindustria. Noi stiamo dalla parte del mondo del lavoro.
I ministri e le forze politiche della sinistra che chiedevano il miglioramento del Protocollo prima della consultazione hanno continuato a chiederlo anche dopo, ed hanno fatto bene.
Francamente incomprensibile risulta la posizione di coloro che dicono che il Protocollo non si può toccare. Se miglioramenti sono possibili perché il parlamento non dovrebbe farli?
Nel Consiglio dei ministri di oggi il governo si è impegnato su alcune modifiche: far saltare il tetto ai lavori usuranti, rinnovare una sola volta i contratti a termine, estendere gli ammortizzatori sociali anche alle ristrutturazioni dovute a crisi ambientali.
Sono impegni positivi e su questa base Mussi e Pecoraro Scanio hanno dato un voto favorevole (condizionandolo naturalmente al fatto che quegli impegni si traducano in realtà in parlamento), mentre Ferrero e Bianchi hanno espresso una astensione dicendo che i cambiamenti sono ancora insufficienti. Far passare questa come una profonda spaccatura a sinistra mi pare una forzatura. La sinistra ha lavorato unitariamente, ha chiesto cambiamenti, ha ascoltato con attenzione il messaggio che viene dal voto. La prova democratica fornita dai lavoratori e i cambiamenti del Protocollo annunciati dal governo sono due buoni segnali. Tutto qui. Il voto nel consiglio dei ministri è cosa francamente secondaria rispetto a tutto questo.
La strada per unire e rinnovare la sinistra è tracciata anche se non è priva di difficoltà.
Un‘altra scadenza che abbiamo di fronte è la manifestazione del 20 Ottobre, una manifestazione sulla quale, come Sinistra Democratica, abbiamo detto sommessamente la nostra all'epoca della convocazione, due mesi fa. Decisa in modo verticistico e assai autoreferenziale, con una piattaforma "prendere o lasciare" non ci pareva un buon modo di iniziare una pratica politica unitaria e condivisa.
Senza drammi riconfermiamo oggi quel giudizio e torniamo a proporre di riconvertire quella scadenza in una grande assemblea dove si discuta il profilo della sinistra unita e federata che vogliamo costruire e gli obiettivi e i programmi che intendiamo portare avanti.
Se la nostra proposta non verrà accolta non sarà la fine di nulla. Le forze politiche, i movimenti, le persone di sinistra hanno davanti una sfida inedita. Il Partito Democratico crea un vuoto e si colloca nel centro democratico dello schieramento politico.
Dare all'Italia una sinistra plurale, nuova, unita è un obiettivo affascinante oltre che necessario. L'esito di questa sfida non si gioca in un solo giorno e in una sola scadenza. Non ci si saluta al sorgere di una differenza di valutazione. Si scavalca l'ostacolo e si riprende il cammino, insieme.
“Il diavolo in corpo”
Sestopotere.com 12.10.07
"Se trent’anni vi sembran pochi”, a Parma Marco Bellocchio
(Sesto Potere) - Parma - 12 ottobre 2007 - Parte con la presenza del regista Marco Bellocchio “Se trent’anni vi sembrano pochi. 1978-2008, la legge Basaglia ieri e oggi”, progetto voluto da Provincia di Parma, Fondazione Cariparma, Comune di Colorno, Dipartimento di salute mentale dell’Ausl, Solares Fondazione delle arti e Centro Studi per la stagione dei movimenti in occasione del trentennale della Legge 180, meglio conosciuta come legge Basaglia. Primo atto del progetto è la rassegna di film e incontri “Sguardi diversi sulla psichiatria”, quattro appuntamenti al Cinema Edison nel mese di ottobre. Si parte appunto oggi con l’incontro con Marco Bellocchio e la proiezione del film “Il diavolo in corpo” (Italia, 1986, 110’), con Marushka Detmers, Federico Pitzalis, Anita Laurenzi, Riccardo De Torrebruna e Claudio Botosso: passioni, ossessioni, inquietudini, sogni, in un film “forte” firmato da un regista sempre “scomodo”.
L’appuntamento è oggi, venerdì 12 ottobre, alle 21,15 al Cinema Edison. L’ingresso è gratuito.
Liberazione 13.10.07
La Cgil cambia anima: vuole diventare Cisl
Ma per farlo deve eliminare la Fiom
di Rina Gagliardi
I commenti dei dirigenti contro i "nemici" metalmeccanici, l'attacco di Epifani alla sinistra e al 20 ottobre, la gestione dei risultati del referrendum:
tutto (e in particolare il Pd) spinge verso un sindacato istituzionale, che rinuncia al conflitto e si candida a gestire le compatibilità con l'impresa
In queste ore, i dirigenti confederali trasudano soddisfazione da tutti i pori - ricordano un po' gli allenatori che commentano in termini trionfalistici la agognata conquista di uno scudetto o di una coppa. Neppure Guglielmo Epifani si sottrae a un tale clima calcistico: e va esprimendo in varie sedi il suo entusiasmo, proprio come se i "problemi della squadra" - pardon, del sindacato e della Cgil - fossero stati tutti superati in un colpo solo, nel match referendario, nella partita vincente. Ma se il medesimo Epifani, Angeletti e Bonanni hanno "vinto", chi è colui o chi sono coloro che hanno "perso"? Chi erano, insomma, gli avversari di turno che hanno alla fine dovuto subire il cappotto? La risposta è, ahimè, chiarissima: gli operai metalmeccanici e il sindacato che in gran parte li rappresenta, la Fiom.
Sembra incredibile doverlo scrivere, e anche doverlo pensare: ma per il maggior sindacato italiano, l'organizzazione che nel bene e nel male tutela il mondo del lavoro ed esercita un insopprimibile ruolo democratico, la Fiom è ormai derubricata alla dimensione di un "problema". Di un ingombro, fastidio, ostacolo. Di un sindacato nel migliore dei casi da ridimensionare, mettere in riga, tacitare, perché ancora troppo forte e rappresentativo: in effetti, il sindacato metalmeccanico nel referendum non ha potuto né esprimere il suo No nelle assemblee (in omaggio alle regole bulgare del centralismo democratico, straordinario residuato bellico in pieno vigore nelle confederazioni) né partecipare davvero al controllo del voto. Ciononostante ha "vinto" al Nord, al Sud e in tutte le grandi aziende. Ma è proprio questo che immalinconisce: che non i media, non i politici di professione, non le destre, ma il segretario della Cgil non veda, dietro e dentro il suo sindacato metalmeccanico insofferente, il segno corposo di un disagio di massa nient'affatto risolto. Non veda le persone, in carne ed ossa, i lavoratori che non ce la fanno più ad arrivare, con i salari di oggi, alla fine del mese e che stanno perdendo, prima ancora del salario, la pienezza della loro dignità.
Non li vede al punto tale che il primo incontro che ha ritenuto necessario fare, all'indomani del referendum, è stato quello con Montezemolo - sia pure, come ha precisato, nella sua veste di "presidente di Confindustria" e non di capo supremo della Fiat (l'ipocrisia e il formalismo a volte sfiorano e superano il ridicolo). Solo una domanda, intanto, al leader della Cgil: si può davvero concepire una confederazione all'altezza della sfida aperta oggi contro il mondo del lavoro, senza i metalmeccanici, e con una guerra fratricida contro la Fiom?
Ma c'era anche un altro "antagonista", nel voto referendario. Epifani l'ha spiegato bene in un'intervista pubblicata ieri su La Stampa : questo avversario nascosto era ed è la sinistra. La sinistra alternativa e radicale, ma forse anche, molto più semplicemente, la sinistra che non si rassegna a buttare alle ortiche le sue ragioni basiche di esistenza. Dice Epifani che ora la manifestazione del 20 ottobre non ha più senso - anzi, non l'ha mai avuto, anzi era "sbagliata", "identitaria", priva di obiettivi riconoscibili. Anche qui, c'è di che restar trasecolati. Cos'è, una scomunica, un diktat, una boutade ? Un'indicazione imperativa (sempre secondo le regole bulgare di cui sopra) ai tantissimi quadri della Fiom che hanno già annunciato la loro adesione? Come se ogni iniziativa sociale e politica, per essere dichiarata ammissibile, utile o legittima, dovesse ricevere il bollino blu di Corso Italia. Ma soprattutto come se adesso ogni rivendicazione, ogni istanza, ogni protesta fosse fuori corso, obsoleta e vivessimo nel migliore dei mondi - dei governi e degli accordi - possibili.
Non c'è che dire: in Cgil la sindrome del governo amico è tornata ad essere la legge dominante. Al punto che proprio Epifani aveva lanciato l'allarme iperpolitico dalle colonne di Repubblica - "se non vincono i Sì, cade il governo"- e ora scopre che il voto ha premiato non Prodi, non Padoa Schioppa, ma un sindacato "autonomo, unitario e non radicale". Al punto tale che se qualche centinaia di migliaia di persone sceglierà di scendere in piazza per esprimere le ragioni della sinistra, per rendere visibile il proprio disagio, per rivendicare una svolta nella politica di governo, il segretario del maggior sindacato italiano si preoccupa - e attacca, e scomunica. E arriva a dire - lo ripetiamo perché ci ha particolarmente colpito - che il corteo del 20 è "identitario". Ma come? Lo sa Epifani che, a stare alle adesioni preannunciate, a Roma si raccoglierà un arcipelago variegatissimo che va dai metalmeccanici al movimento femminista, dai giovani dei movimenti ai militanti politici della sinistra, dall'intellettualità non omologata a un mucchio di gente tout court delusa e incollerita? Cioè una somma, e un intreccio di identità quasi tra di loro incomparabili?
«Troppe incursioni nella politica», lamenta il leader della Cgil. Ha ragione: la principale di queste incursioni si chiama Partito Democratico che, a quel che finora si capisce, propone un'idea di società nella quale non c'è spazio per un sindacato capace di fare il proprio mestiere, organizzare il conflitto maturo, tutelare i diritti del lavoro anche contro e oltre le così dette "compatibilità dell'economia". E chiede, nella sostanza, un sindacato tutto e solo istituzionale, appiattito sulla logica concertativa, presente nella società solo come un patronato, o una struttura di compensazione, o un gruppo, da tutelare, di "soci" - l'idea cislina, da sempre. Dopo molti dubbi e molte "riserve", non sarà che il vertice della Cgil sta subendo il fascino di ipotesi come queste, che portano dritto al sindacato unico? Se così fosse, sarebbe più chiaro perché tanto livore contro la Fiom. E tanta paura per una manifestazione che si annuncia grande e pacifica.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
venerdì 12 ottobre 2007
Repubblica 12.10.07
L'intervista. Bertinotti sul referendum "Il Welfare può migliorare"
"La sinistra risponda al malessere degli operai"
di Luigi Contu
"La sinistra ascolti gli operai"
Bertinotti: bene il referendum, ma il Welfare può migliorare
Il maggioritario coatto ha fallito, il sistema tedesco assicurerebbe la governabilità
«Il referendum che si è svolto tra i lavoratori italiani è un fatto eccezionale, un evento che in un momento di grande difficoltà del paese può rappresentare una opportunità per il governo, per il sindacato e per le forze della maggioranza. Ma a due condizioni: che la vittoria dei "sì" non sia strumentalizzata per impedire al Parlamento di migliorare l´accordo sul welfare e che venga colto in tutta la sua drammaticità il segnale di malessere che arriva dalle grandi fabbriche».
Il presidente della Camera Fausto Bertinotti, una vita tra sindacato e politica, lancia un allarme alla sinistra italiana: «Il mondo del lavoro manuale, gli operai, si sentono esclusi e snobbati dalla società e da chi oggi ha il compito di governare con il rischio che vengano attratti dall´antipolitica. E la sinistra, se non affronta questo disagio rischia l´estinzione, in Italia e in Europa».
Presidente, il risultato referendario è chiaro. I lavoratori approvano a larghissima maggioranza l´accordo siglato nello scorso luglio dal governo con i sindacati e gli imprenditori. A questo punto sembrano ridotti i margini per quelle modifiche del protocollo chieste dalla sinistra radicale, compreso il suo partito.
«Sarebbe un errore gravissimo strumentalizzare per fini di parte questo risultato. Ma prima di addentrarmi nella interpretazione del voto voglio dire che in questi giorni abbiamo assistito ad una grande prova, un salutare bagno di democrazia, una consultazione fondata su un patto di reciproca fiducia. E nessuno, nemmeno chi ha agitato irresponsabilmente lo spettro dei brogli può mettere in dubbio un simile risultato. Ritengo che questa partecipazione stia a testimoniare come nel paese ci sia una larga parte di cittadini che vuole esprimere la sua opinione, che crede nella rappresentanza. Una sorta di antidoto a quella ondata di antipolitica che sta scuotendo la nostra società. Ma né il sindacato né il governo possono ora adagiarsi sugli allori: perché dalle urne escono segnali che dovrebbero far riflettere e preoccupare tutti».
Qual è la sua riflessione? Che cosa la preoccupa?
«In primo luogo si deve sfatare il mito che hanno votato per il "sì" i lavoratori moderati e per il "no" coloro che alle elezioni sono schierati con la sinistra radicale. La realtà è più complessa e il voto è stato trasversale alle appartenenze politiche. Non vorrei che una simile lettura impedisse di sentire il campanello d´allarme che è arrivato dal dissenso espresso in molte grandi fabbriche».
Ci dia la sua lettura del voto.
«Credo che la vittoria del "no" in luoghi così significativi come la Fiat di Mirafiori, la Fincantieri di Trieste o l´Ansaldo di Genova non esprima soltanto il dissenso sul testo dell´intesa e il disagio di chi non riesce con il salario a garantire una vita dignitosa alla propria famiglia. Leggo in questo voto lo smarrimento di chi vede svilito il proprio ruolo nella società. Purtroppo, il lavoro manuale è quasi dimenticato. La cultura operaia è stata vilipesa, direi cancellata dall´agenda politica».
Sono affermazioni forti per chi come lei ha militato nel sindacato e nella sinistra.
«Ne sono consapevole, e per questo sono angosciato. Ma da questa riflessione si deve ripartire. Questa gente è lì, sulla porta, e ci dice che vuole avere un ruolo attivo, che non accetta di essere ridotta ad una parentesi nella storia del Paese. Pochi giorni fa ho incontrato un gruppo di cavatori di marmo. Mi hanno chiesto di cambiare la riforma delle pensioni, di fare il possibile perché lavori così usuranti come il loro siano più tutelati. Prima che me ne andassi, però hanno aggiunto: "Fausto, fate di tutto, ma non fate cadere il governo". Ecco, se la politica della sinistra pensa di poter fare a meno di questa riserva, di questa gente che un tempo si chiamava la classe generale e che è in grado ancora oggi di accettare sacrifici in nome di un disegno politico, va a fondo definitivamente».
E cosa dovrebbero fare governo e maggioranza per sventare questo rischio?
«Non basterebbe il miglior contratto immaginabile per risolvere i problemi di chi guadagna 1100 euro al mese e deve tirare la carretta. La risposta sta in una grande operazione politica che va dagli aumenti contrattuali ad una diversa politica fiscale e che consenta una grande azione di ridistribuzione del reddito. Ma vi pare normale che un giovane operaio si vergogni della sua condizione e sia costretto a simulare la sua condizione sociale quando va in discoteca con gli amici? Attenzione, il vento dell´antipolitica può dilagare ovunque se non arrivano soluzione adeguate. Siamo ai limiti della rottura sociale e se la sinistra non se ne fa carico, soccombe. Alle prossime elezioni politiche il disagio può scegliere partiti di protesta, ma anche la strada del non voto o del populismo».
Presidente, torniamo al protocollo approvato dal referendum. Lei crede che debba essere modificato nonostante la vittoria del "no"?
«Non si può utilizzare il voto per giustificare la richiesta di modifiche. Così come trovo capzioso l´argomento di chi sostiene che l´esito del referendum impone di lasciare inalterato l´accordo di luglio. Ma non capire e non ascoltare la richiesta che viene da questi segmenti vitali della società sarebbe un errore imperdonabile da parte di chi ha la responsabilità di legiferare. Capisco il governo che essendo uno dei soggetti che hanno siglato l´intesa non ritiene di dover indicare le modifiche da introdurre. Ma ricordo a tutti, anche per il ruolo che svolgo, che il Parlamento è sovrano. Non spetta a me dare valutazioni di merito ma vedo le condizioni per alcuni interventi ragionevoli e responsabili».
Nella maggioranza però c´è chi, come Dini, si dice indisponibile a votare modifiche. E il voto dell´ex premier e dei suoi, in Senato, può essere determinante per la sopravvivenza del governo...
«Io credo che dopo una consultazione così massiccia sarebbe grave se qualcuno si assumesse la responsabilità di non accettare ragionevoli istanze che vengono dalle grandi realtà operaie. In questo momento così difficile per la vita del paese la politica, con un po´ di modestia, dovrebbe essere capace di mettersi in una logica di ascolto».
Presidente, siamo a pochi giorni dalle primarie del partito democratico. Cosa può cambiare nel paese con la nascita di questa nuova formazione, e quale saranno gli effetti sul governo Prodi?
«Certamente la nascita del Pd rappresenta una novità importante nel panorama politico italiano. E la decisione di procedere sulla via delle primarie per la scelta del leader può essere significativa in questo momento di disaffezione dalla politica. Non so dire però gli effetti che saranno prodotti sul governo, perché vedo questo nuovo partito ancora in una fase molto contraddittoria. Il Pd mi sembra un ossimoro. Ha deciso di nascere ma non è ancora chiaro il progetto. Vedo troppa indeterminatezza e una pericolosa tendenza in alcuni suoi leader a lisciare il pelo e ad assecondare tendenze anche negative che pervadono la società. E tutto questo potrebbe portare il partito democratico in rotta di collisione con altre forze della maggioranza».
Il governo cala nei sondaggi, il Pd rischia di destabilizzare la maggioranza. Ci sta dicendo che è entrata in crisi la formula stessa di centrosinistra che vi ha portato al governo insieme ai cattolici e ai riformisti?
«Il centrosinistra è nella storia e nelle corde di questo paese fin dai tempi di Moro e Nenni. Ma le corde da sole non bastano a fare la musica. L´esperienza del primo centrosinistra ebbe una grande impronta riformatrice esauritasi all´inizio degli anni ´70. Il secondo stadio è coinciso con l´accordo tra l´Ulivo e le altre forze della sinistra sfociato poi nell´Unione e nella seconda vittoria di Prodi. Penso che quando si esaurirà questa esperienza, mi auguro alla fine della legislatura, si debba aprire una terza fase per riprogrammare un´alleanza consapevole. E credo che ciò sia possibile soprattutto se riuscissimo ad approvare un pacchetto di riforme per uscire da questo bipolarismo coatto».
Per la verità il clima sulle riforme non sembra favorevole. Dal Pd è arrivato lo stop al sistema tedesco, l´unico che sembrava in grado di superare gli steccati tra maggioranza e opposizione
«Anche questa, a mio avviso, è una contraddizione del Pd. Il sistema tedesco, insieme al superamento del bicameralismo perfetto, libererebbe il paese dai lacci che lo tengono avvolto. Il maggioritario ha dimostrato con maggioranze diverse di generare coalizioni troppo eterogenee. Se ne prenda atto e si abbandoni il disegno di tagliare le ali che in Italia porterebbe dritti alla grande coalizione, con conseguenze a mio avviso negative per tutto il Paese».
E se il Parlamento non riuscisse in questa missione?
«Sarebbe un errore. E dovremo ancora una volta fare il fuoco con la legna che abbiamo. Temo una coazione a ripetere dalla quale difficilmente verrebbe qualcosa di positivo per i nostri cittadini, chiunque dovesse vincere».
l’Unità 12.10.07
Domani con «Liberazione» un librettino contro il sindaco-candidato segretario Pd. La prefazione-reprimenda del direttore
Sansonetti e Veltroni, la guerra degli Ego
di Fabio Luppino
Uscirà domani con «Liberazione» un libretto su Veltroni, «Walter ego», suggestioni a palle incantenate contro il sindaco-candidato segretario Pd, prova di profondo disamore dell’organo comunista, in cui l’ego (e i rancori) di Piero (Sansonetti, direttore di «Liberazione») finisce per sovrastare l’ego di Walter.
Ecco stralci dalla prefazione scritta da Sansonetti. «Io, un po’, ho sempre sospettato di quelli che avendo vissuto l’adolescenza in pieno ‘68, e amando la politica, preferivano Luigi Longo a Cohn Bendit. Non che abbia niente contro Longo, figuriamoci, grande figura: ma mi pare che per uno che “sente” la politica, avere la fortuna di vivere a 15 o 20 anni un avvenimento straordinario come il ‘68, e non farsi travolgere, sia una specie di delitto. Mi sembra gente senz’anima che non chiede alla politica qualcosa di importante, cioè la rivolta, il cambiamento, il progetto, l’impegno: gli chiede solo amministrazione, carriera. A me sembra gente che non crede alla politica». La colpa storica di Veltroni è, ovviamente, di non aver fatto il ‘68 a tredici anni. Ma con lui, per la verità, c’è l’80% degli italiani poveri, oscuri, meschini, piegati a lavorare che, in quegli anni, non erano nella condizione di «stare nel movimento» e maturare aerei pensieri di rivolta.
Ancora. A pagina nove di «Walter ego» Sansonetti si dilunga in una dotta disquisizione sulla lunghezza dei bastoni delle bandiere. Nel ‘74 Veltroni li voleva a norma e Piero, universitario, li preferiva corti e tozzi, perché corti erano da combattimento e servivano per fronteggiare una manifestazione del Fronte della gioventù, fascista. Veltroni lo disse a Raparelli, responsabile dell’organizzazione del Pci che requisì i bastoni corti. Ma Sansonetti confessa che altri già erano stati messi all’università e la fece franca. «Walter aveva ragione - scrive Sansonetti - perché le bandiere devono sempre avere manici sottili e di plastica, e noi avevamo torto. E però - lo capite bene - noi avevamo ragione da vendere e Walter non si comportò affatto bene».(!) Ma ecco dove Piero ego dà il meglio. «Walter ha un problema, e io sono convinto che questo problema, questo limite della sua personalità, gli impedisca di fare il grande salto, di diventare un leader vero, autentico, come lo sono stati Berlinguer, De Gasperi, Moro, Togliatti, Nenni, e anche Craxi. Walter adopera la parola “vision”, e oltretutto non la ritiene per niente importante. (...) Non gli interessa affatto la storia, la lotta delle classi, l’organizzazione degli interessi, lo Stato, la comunità, la riforma. Per questo Walter è l’unico essere vivente che può oscillare nel dubbio se allearsi con Nunzio D’Erme o con Cordero di Montezemolo. Per lui è un dubbio vero, reale, e sogna di scioglierlo trovando un modo per evitare la scelta e “fagocitare” entrambi. Questo modo non c’è, e lui non può capacitarsene, si dispera, Poi, naturalmente, sceglie Montezemolo». Montezemolo tutta la vita. Infine «l’Unità», ciò che brucia di più. «Facemmo una lotta vera contro Veltroni, a viso aperto, per la prima volta nella storia dell’«Unità», e naturalmente perdemmo, fummo travolti. Io però, nell’assemblea del gradimento, parlai contro e annunciai il no. Allora all’«Unità» godevo di un certo consenso, per sei o sette anni di seguito ero stato caporedattore e vicedirettore, e il giornale aveva avuto successi importanti. Credevo di essere uno che conta. Veltroni prese più del 70 per cento dei voti, noi del vecchio gruppo dirigente uscimmo pesantemente sconfitti». Veltroni nominò Sansonetti condirettore, in seguito lo mandò a fare il corrispondente negli Stati Uniti. La domanda allora è: il libretto di «Liberazione» è un fatto politico? O un fatto personale?
l’Unità 12.10.07
Oggi in piazza la rabbia della scuola
Manifestazioni in 130 città contro la Finanziaria e gli esami di riparazione di Fioroni
MANIFESTAZIONI e cortei in 130 città italiane. Torna la protesta studentesca. Obiettivo è portare il ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Fioroni a mantenere gli impegni presi con il movimento studentesco a partire dall’assicurare l’accesso a tutti i gradi dell’istruzione, per il diritto allo studio e per la partecipazione nei luoghi della formazione. «Saremo in piazza - spiegano le associazioni studentesche promotrici della protesta (Rete degli studenti, Unione degli studenti e Studenti di sinistra) in una nota congiunta - per chiedere al governo di mantenere le promesse fatte al movimento degli studenti medi e universitari. Non saremo in piazza con vaghe parole d ordine, ma con richieste ben precise, per rendere scuola e università priorità praticate e non solo enunciate. Chiediamo più risorse in finanziaria per scuola e università, per la didattica e l’edilizia; una legge nazionale sul diritto allo studio e la copertura delle borse di studio; il superamento della legge 264/99 sul numero chiuso all’università garantendo l’accesso e la legalità; democrazia e diritti per gli studenti nei luoghi della formazione, ma anche per chi affronta stage formativi presso le aziende» Gli studenti chiedono anche al ministro Fioroni «una risposta chiara» sul decreto riguardante l’assolvimento dei debiti formativi. «Vogliamo - affermano a questo proposito - che i corsi di recupero vengano fatti a scuola senza interferenze di privati, con tempi del recupero sostenibili: debiti e crediti non possono essere un calcolo algebrico!» Tra le richieste anche una riforma dello Statuto dei diritti degli studenti medi e la promulgazione dello Statuto degli Studenti e delle Studentesse Universitarie. «Non portiamo in piazza fannulloni, ma studenti che chiedono qualità e uguaglianza delle opportunità. Esprimiamo rivendicazioni concrete e sostenibili» affermano le tre associazioni aggiungendo che non presteranno il fianco a strumentalizzazioni. «Chiediamo a Fioroni - dichiarano Elisabetta Ferrari, portavoce nazionale di Studenti di Sinistra e Andrea Pacella, responsabile nazionale Scuola della Sinistra giovanile - di modificare il provvedimento sull’assolvimento dei debiti insieme agli studenti, per ridare centralità al giudizio dei Consigli di Classe e impostare tempi e modi di recupero più vicini alle esigenze degli studenti».
«Ai ragazzi dico che quella varata non è una riforma, ma un intervento per portare nella scuola italiana principi di serietà, nell’interesse esclusivo dei nostri giovani» replica il ministro Fioroni. «Quando nella società - osserva - si ha un debito lo si paga, e la vita non fa sconti. Se la scuola non riesce a dare certezza di competenza genera nuovi poveri di saperi. E quando la vita chiederà loro conto di quelle lacune, se non sono figli di papà, e la maggioranza non lo è, che si può permettere di pagare poi il debito, avremo nuovi poveri della vita». La scuola italiana - conclude il ministro - non può essere quella scuola bloccata dove chi entra figlio di operaio esce figlio di operaio; lo studente se merita può diventare anche componente della classe dirigente del Paese».
Ma contro Fioroni arrivano anche le critiche della Flc-Cgil. Sotto accusa sono gli interventi a favore di una piena equiparazione anche dal punto di vista finanziario in nome della sussidiarietà tra scuola statale e paritaria. «Torna a volare alto l’aquilone democristiano» afferma in una nota il sindacato sottolineando come tale azione corrisponde alle richieste della Cei. «Quando questo puzzle sarà terminato ci accorgeremo, come d’incanto - conclude la Flc - che l’inciso costituzionale del “senza oneri per lo Stato” sarà solo un vago ricordo».
l’Unità 12.10.07
Calvino, il Sentiero della Resistenza senza tabù
di Gian Carlo Ferretti
ANNIVERSARI Sessant’anni ormai dall’uscita de Il sentiero dei nidi di ragno, il romanzo che raccontò il biennio 1943-’45 in chiave di «racconto di formazione». E senza nessuna reticenza su quegli anni
Il sentiero dei nidi di ragno ha sessant’anni. Un anniversario letterariamente significativo, perché ripropone un Calvino ormai lontano dalle motivazioni della sua fortuna recente e attuale, legata piuttosto alle sue ultime stagioni e a un clima storico sempre più dominante. È infatti il Calvino degli anni settanta-ottanta a prevalere ancor oggi, soprattutto nell’immagine che certe élites intellettuali sono venuti delineando attraverso Le città invisibili, Il castello dei destini incrociati, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Palomar e le postume Lezioni americane. Un Calvino che si può sommariamente ricondurre sotto il segno dei processi combinatori e del testo-cristallo, della leggerezza sapientemente costruita e di una congetturalità esercitata instancabilmente su un mondo inconoscibile, anche se a molte di quelle pagine è sottesa una ben diversa complessità.
Nel 1947 dunque il dattiloscritto del Sentiero, dopo una bocciatura al premio Mondadori e un ex aequo al premio Riccione, esce presso Einaudi con un «finito di stampare» del 10 ottobre, ottenendo buoni risultati di critica (Pavese, Cajumi e altri) e di vendite (6.000 copie). È l’opera prima di un ventiquattrenne ex partigiano militante del Pci, collaboratore del Politecnico , de l’ Unità di Torino e di altre testate, che nello stesso anno si laurea con una tesi su Conrad, scrittore da lui molto amato. Calvino inizia il suo rapporto einaudiano nel 1946 come venditore di libri a rate, per entrare l’anno dopo in casa editrice come addetto all’ufficio stampa e pubblicità, nella prospettiva di una pluridecennale carriera di consulente autorevole e di autore prestigioso.
Il Sentiero (come altri racconti più o meno coevi) richiama anzitutto una linea di poetica da Calvino dichiarata: la nuova epica nazionale. All’indomani della Liberazione Calvino parla spesso di una letteratura quasi necessaria, espressione dell’esperienza reale appena vissuta: una letteratura capace di rielaborare quei materiali anonimi, popolari, che sono le testimonianze orali del soldati, dei partigiani e della gente comune, le tante piccole iliadi e odissee dell’ultima guerra. Facciamo come Omero «primo scrittore antimilitarista», scrive tra serietà e autoironia, o come Stevenson che «ascolta le storie degli altri uomini, e le ripensa, e le rinarra traendo fuori quanto in ognuna di esse c’è di bellezza e di insegnamento universale».
Ma nel richiamare questa linea di poetica che coincide con uno dei motivi più vitali della contraddittoria nebulosa neorealista, Il sentiero reca in sé una originalità e una libertà che finiscono per proiettarlo in una prospettiva del tutto nuova. Si delinea infatti nel romanzo una versione antiretorica e perfino irriverente, di quella Resistenza alla quale le sue pagine intimamente si ispirano. Questa versione è del resto un aspetto della tensione favolistica e avventurosa che già attraversa Il sentiero, e che richiama un’altra fondamentale linea di poetica dichiarata, sempre più presente nella futura produzione calviniana: dall’edizione delle Fiabe italiane alla Trilogia dei Nostri antenati, a tante altre pagine di felice inventiva, tra arguzia e pensosità, divertimento fantastico e lettura antischematica della realtà.
Il ragazzo partigiano protagonista del «Sentiero Pin» (un trasparente riferimento a Pinocchio: qualcosa di più che un semplice omaggio) non è più un bambino ma non è ancora un uomo, oppure è (incompiutamente) le due cose insieme. Pin ha un atteggiamento ambiguo di forte e irrazionale attrazione-repulsione, sia verso l’incomprensibile mondo dei compagni adulti con la loro «furia d’uccidere» e di «accoppiarsi», sia verso il misterioso mondo della natura con i suoi ragni rossi e funghi gialli, piccoli rospi e grandi formicai. La sua confusa ricerca di gioco e di avventura nella vita dell’uno o dell’altro mondo, viene continuamente frustrata.Pin sembra trovare un compagno ideale in Lupo Rosso, partigiano già leggendario a sedici anni (ragazzo precocemente adulto), che combattendo fa dell’avventura una pratica di vita, che gioca sul serio alla guerra. Ma il suo disinteresse per il mondo naturale, finisce per farlo apparire a Pin estraneo e distante. Pin troverà un modello e un maestro per il suo futuro nel partigiano Cugino: l’omone forte e aperto, il «Grande Amico» protettivo, comprensivo e comprensibile. Un adulto che uccide ma è «buono senza rimorsi», che si interessa alle donne ma ce l’ha con loro per sue dolorose ragioni, e che fa apprezzare da lontano a Pin la bellezza delle lucciole, apparse a lui da vicino come «bestie schifose». Cugino in sostanza è l’espressione non insensata e non distruttiva, ma saggia e sofferta, di un mondo adulto capace anche di un rapporto equilibrato con la natura. Pin trova perciò nella sua lezione una prospettiva di superamento dell’ illusoria confusione tra vita e avventura, realtà e favola, come esperienze peraltro che bisogna comunque attraversare per la conquista di una razionalità, maturità e interezza veramente umana. In questo senso Il sentiero diventa anche un capitolo importante del discorso che Calvino conduce fin dai primissimi scritti giornalistici, sui dimidiamenti dell’uomo e sulla difficile conquista di un’armonia tra storia e natura.
Ma c’è di più. Dall’interno di una vicenda di partigiani e di tedeschi, di azioni militari, discussioni politiche e amori irregolari, Calvino fa emergere un motivo che è davvero una notevole e spregiudicata novità per uno scrittore engagé del primo dopoguerra come lui, distinguendo fin d’ora il suo discorso dai pregiudizi, incomprensioni, ostracismi di tanta intellettualità comunista degli anni successivi: la scoperta di una zona oscura della coscienza umana, che sottintende un interesse per Freud e la psicoanalisi già affiorato in quegli stessi primissimi scritti. Si capisce bene allora perché Calvino (contro i consigli di alcuni amici) non abbia espunto dal Sentiero il capitolo IX, che poteva apparire un corpo estraneo nello sviluppo romanzesco: un capitolo dedicato infatti alle «riflessioni teoriche» del commissario partigiano Kim, studente in medicina con interessi psichiatrici, sull’intreccio di motivazioni razionali e irrazionali da cui scaturisce ogni scelta politica e pratica.
Kim pensa che «tutto deve esser logico, tutto si deve capire, nella storia come nella testa degli uomini: ma tra l’una e l’altra resta un salto, una zona buia dove le ragioni collettive si fanno ragioni individuali, con mostruose deviazioni e impensati agganciamenti». E allora «basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si trova dall’altra parte (…), dalla brigata nera, a sparare con lo stesso furore, con lo stesso odio». Ma non è «la stessa cosa (…) perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. (…) C’è che tutti noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra». È questo che conta, al di là di ogni possibile revisionismo ante litteram, si può commentare oggi. Anche se poi ogni partigiano combatte per le ragioni più diverse e peregrine, private e collettive insieme, spesso magari inconfessabili. Pin per esempio «non sa che combatte per non essere più fratello di una prostituta. E quei quattro cognati “terroni” combattono per non essere più dei “terroni”, poveri emigrati, guardati come estranei. E quel carabiniere combatte per non sentirsi più carabiniere, sbirro alle costole dei suoi simili. Poi Cugino, il gigantesco, buono e spietato Cugino… dicono che vuole vendicarsi d’una donna che l’ha tradito… Tutti abbiamo una ferita segreta per riscattare la quale combattiamo. (…)Forse anche Ferriera: la rabbia a non poter fare andare il mondo come vuol lui».
Repubblica 12.10.07
Mini-jet spia sulle banlieues a Parigi è scontro per i droni
di Giampiero Martinotti
I modellini senza pilota capaci di riprendere tutto, di filmare volti e gesti
La rivolta dei deputati socialisti "Quei quartieri non sono zone di guerra"
PARIGI - Si chiama Elsa, ma dietro il suo dolce nome si nasconde un progetto di natura ben poco romantica: la polizia francese potrà utilizzare i droni per sorvegliare le banlieues pericolose, le manifestazioni di piazza, i disordini di varia natura. Gli aerei spia senza pilota stanno per essere trasformati in minuscoli modellini, capaci di riprendere tutto, di filmare volti e gesti.
Gli strumenti creati dai militari e utilizzati su tutti i teatri di guerra stanno per essere trasformati in "normali" strumenti di polizia, superando così anche la sbrigliata fantasia di un George Orwell. E suscitando le immediate proteste di alcuni parlamentari dell´opposizione, che vedono in quello strumento l´ennesimo tentativo per «stigmatizzare» le banlieues e i loro abitanti.
Elsa è la sigla che designa un «apparecchio leggero per la sorveglianza aerea», simile a un aeromodello: è in gommapiuma per non provocare gravi danni in caso di caduta, è largo un metro e lungo sessanta centimetri, pesa meno di un chilo e mezzo.
Silenzioso e quasi invisibile, ha un´autonomia di quaranta minuti e un raggio di azione di duemila metri. In Francia volerà a 150 metri di altezza, ma può arrivare fino a 500 metri. A bordo, naturalmente, una telecamera. Una piccola azienda di Nantes produrrà il primo prototipo, che sarà consegnato alla polizia entro fine anno. Se i test daranno buoni risultati, i droni saranno dati in dotazione alle forze dell´ordine. Ogni apparecchio costerà diecimila euro.
Il mini-drone è stato presentato al salone Millipol, dedicato ai prodotti per le forze dell´ordine. Secondo i poliziotti, non ci sono rischi per le libertà: «Non siamo sulla linea di una sorveglianza di lunga durata, di tipo militare. E´ uno strumento supplementare per gli interventi di polizia». Secondo questa visione rassicurante, Elsa verrebbe usato per sorvegliare edifici dove si potrebbero trovare terroristi, in caso di una presa di ostaggi, durante le manifestazioni o in caso di violenze urbane.
Le polemiche, tuttavia, non mancano. Oltretutto, nei mesi scorsi la polizia ha effettuato alcuni test con piccoli aerei da turismo per sorvegliare alcune zone della Seine-Saint-Denis, il dipartimento da cui partì la rivolta del 2005. Il deputato socialista Daniel Goldberg, eletto proprio in quel dipartimento, ha subito contestato Elsa: «I nostri quartieri non sono comparabili ai casi estremi di una presa di ostaggi o dei paesi in guerra civile. Senza un inquadramento legale stretto, l´utilizzazione di droni rischia di passare, prima o poi, da un uso eccezionale in caso di crisi a un uso preventivo permanente, rafforzando così la stigmatizzazione vissuta dagli abitanti delle banlieues». Un punto di vista che non è condiviso da Michèle Alliot-Marie, ministro dell´Interno, che proprio inaugurando il salone ha cercato di mostrarsi rassicurante: «Di fronte alle attese legittime e pressanti dei cittadini, potremmo essere tentati di pagare un soprappiù di sicurezza con un sacrificio in termini di libertà. Che sia chiaro che questa non sarà mai la scelta della Francia e non sarà mai la mia».
Repubblica 12.10.07
Stefano Rodotà, ex garante della privacy
"Il controllo totale calpesta i diritti"
di Pietro Del Re
Va bene usare il drone di fronte a un episodio specifico. È diverso usarlo per seguire ogni manifestazione
ROMA - Professor Stefano Rodotà, come ex garante della privacy condivide i timori per il drone francese?
«Sì, perché è uno strumento che ci avvicina alla società della sorveglianza e del controllo totale. L´argomento della sicurezza sta trasformando i nostri paesi in nazioni di sospetti. E così si finisce con l´incidere su diritti fondamentali che sono quello di circolazione e quello di manifestazione».
Che cosa risponde a chi sostiene che il drone «è soltanto uno strumento d´aiuto agli interventi della polizia»?
«Che ormai si abbandona ogni logica di interventi selettivi e si va verso forme di controllo generalizzato».
Anche nel caso di manifestazioni violente?
«Va bene usare il drone di fronte a un episodio specifico, in una situazione di emergenza o di pericolo. È diverso usarlo per seguire ogni raduno. Dobbiamo valutare queste forme nuove di sorveglianza non solo per gli effetti immediati ma anche per quello che si può verificare in prospettiva. Perché una volta accettata questa forma di controllo sarà difficile, un domani, metterla in discussione».
Ma non crede che un sistema di monitoraggio accurato possa aiutare le forze dell´ordine?
«Non possiamo accettare l´abbandono di ogni indagine, accertamento o prevenzione mirata a favore di questo tipo di controllo. Una cosa è sorvegliare i comportamenti illegali, un´altra identificare tutti i partecipanti a un corteo. Il fatto che questo aereo senza pilota possa "schedare" chiunque è un cambiamento che deve preoccuparci».
Oltre ad erodere alcuni diritti fondamentali quali altri rischi nasconde il drone?
«Quello di assecondare la delega alle tecnologie per la soluzione di qualsiasi problema di ordine pubblico. Il drone è un po´ come i gas lacrimogeni: ci sono situazioni nelle quali anche questo tipo di strumenti può essere utilizzato. Ma per poterne legittimare l´uso la situazione deve essere davvero grave».
Repubblica 12.10.07
Daniel Cohn-Bendit, eurodeputato dei Verdi
"Tra un po' vedremo i Tornado sulle città"
I governi di destra che si susseguono in Francia hanno sempre sbagliato sulla sicurezza
PARIGI - Daniel Cohn-Bendit scuote la testa. Non sa nemmeno lui se ridere o piangere: «È ridicolo, ridicolo», ripete senza sosta.
Non ha ancora visto "Le Monde", che ha dato grande risalto alla decisione di sperimentare l´uso di piccoli droni per garantire l´ordine pubblico. Il leader del Maggio, oggi eurodeputato nel gruppo dei Verdi, non nasconde una certa esasperazione per l´ossessione della sicurezza che guadagna terreno in tutte le società occidentali.
Allora, signor Cohn-Bendit, cosa ne pensa dei droni nelle banlieues?
«Domani penseranno a utilizzare i satelliti o i Tornado, gli aerei di sorveglianza che usano in Iraq e in Afghanistan. In questi anni hanno militarizzato sempre più la polizia e sono riusciti ad avere sempre meno risultati concreti per la gente e i giovani delle banlieues. Da un lato, c´è un aumento esponenziale della militarizzazione della polizia; dall´altro, diminuiscono in maniera altrettanto esponenziale i risultati concreti per migliorare la situazione nelle periferie».
Ma nelle borgate «difficili», come le chiamano pudicamente i francesi, esiste comunque un vero problema di sicurezza, non le pare?
«Certo che esiste, non sono certo io a negarlo. Ma lo si potrà risolvere solo quando si risolveranno i problemi sociali che ci stanno dietro. I governi di destra che si susseguono uno dopo l´altro, perché non dobbiamo dimenticare che il presidente della Repubblica Sarkozy succede al ministro dell´Interno Sarkozy, si sono sempre sbagliati sulla sicurezza. I droni mi fanno ridere, ma se la cosa non fosse così ridicola direi che tutto ciò è piuttosto triste».
I politici, però, hanno l´opinione pubblica dalla loro parte. I sondaggi dicono che quando, per esempio, si propongono più telecamere nelle città, i cittadini sono d´accordo: come la mettiamo?
«I sondaggi sono quel che sono. Provi a chiedere alla gente se vuole il sole o la pioggia, le risponderà che vuole il sole. Gli chiede se vuole la sicurezza e la risposta sarà certamente un bel sì. Il problema è che i droni non porteranno la sicurezza. Punto e basta».
(g. mar.)
Repubblica 12.10.07
Lunedì inizia il congresso del Partito: ecco come funziona il potere di Hu Jintao e cosa prepara per il futuro
Cina. Il leader invisibile
di Federico Rampini
Nel 1988 non esitò a proclamare la legge marziale contro i monaci buddisti nel Tibet
I predecessori, da Mao a Jiang Zemin, esibivano invece un volto pubblico
Quando lunedì duemila delegati si riuniranno a Pechino per il 17esimo congresso del Pc cinese, la riconferma del loro segretario generale sarà già scritta nella sceneggiatura del grande evento. Ma chi è il 64enne Hu Jintao, che per altri cinque anni resterà capo del partito e presidente della Repubblica? Questo ingegnere idraulico, prescelto da Deng Xiaoping come futuro leader del paese più di 15 anni fa, ha passato una vita a scalare i gradini della carriera politica nel partito di massa più potente del mondo. In questi giorni manovrerà le leve della gigantesca organizzazione per preparare l´investitura di un "delfino". Eppure i delegati del congresso, come il restante miliardo e trecento milioni di cinesi, di Hu Jintao non sanno quasi nulla. Il leader del popolo più numeroso del pianeta, alla guida di una superpotenza che sfida gli Stati Uniti, è avvolto nel mistero. A differenza di tutti i capi di Stato della terra la sua vita privata, il suo carattere e i suoi gusti, sono sconosciuti. Il "vero" Hu Jintao è uno dei segreti meglio protetti dalla macchina di potere che obbedisce ai suoi comandi.
Non è sempre stato così, nella storia del comunismo cinese. I tre illustri predecessori hanno rivelato di più su se stessi, magari per costruirsi dei volti pubblici utili al culto della personalità. Mao durante la guerra partigiana si fece intervistare per mesi dal giornalista americano Edgar Snow che ne lanciò la leggenda; scrisse poesie; fece circolare otto milioni di copie del Libretto Rosso con i suoi pensieri. Deng Xiaoping esibiva le sue origini dello Sichuan con il forte accento provinciale. Jiang Zemin in visita in America sfoggiò un talento da karaoke-bar cantando brani di Frank Sinatra. Di Hu Jintao si dice invece che la sua riproduzione al Museo delle cere di Hong Kong lascia trasparire più emozioni. L´originale in carne e ossa sembra la maschera imperscrutabile di un moderno imperatore di terracotta. L´arte di non rivelarsi la coltiva fin dalla giovinezza.
Gli è stata preziosa, prima per sopravvivere, poi per organizzare la sua ascesa. Figlio di un commerciante di tè della provincia del Jiangsu, ha dovuto rendere le proprie origini "invisibili" perché quel padre piccolo borghese non gli costasse la persecuzione durante la Rivoluzione culturale. All´università Tsinghua, la più prestigiosa di Pechino, si laureò ingegnere mentre esplodeva il radicalismo delle Guardie rosse. Da un giorno all´altro opposte fazioni vincevano o perdevano battaglie violente; si cadeva in disgrazia facilmente. I colleghi di università ricordano la sua abilità: andare d´accordo con tutti, non scoprire il fianco. Il profilo conformista è stata la sua armatura per scampare alle tempeste. La sua biografa ufficiale, la storica Ma Ling, lo descrive come uno che "controlla quello che dice fin dall´adolescenza". Pur avendo scritto di lui un ritratto agiografico, Ma Ling non è stata gradita dalla macchina di potere. Anche di quel passato Hu Jintao ha cancellato le tracce non appena ne ha avuto il potere. Qualche giornalista straniero anni fa riuscì a rintracciare la zia novantenne di Hu, che lo educò dopo la morte del padre. La vecchietta intervistata disse ogni bene del nipote, scolaro modello. Ma a scanso di rischi da allora la zia è irraggiungibile, la sua casa è protetta dalla polizia. Sono sparite foto d´infanzia e ricordi. Anche se in Cina i rotocalchi si guarderebbero bene dal pubblicare gossip sul leader, le precauzioni non sono mai troppe.
Perfino oggi che è all´apice del potere è raro che Hu esprima un´opinione personale. Una volta al mese convoca la "cupola" del regime: quel giorno 22 limousine nere dai vetri affumicati entrano di primo mattino a Zhongnanhai, il quartier generale della nomenklatura a fianco della Città Proibita. Da quando Hu è salito al vertice del partito nel 2002 le riunioni del Politburo sono diventate brevi, operative, per poi ascoltare relazioni di esperti dell´Accademia delle Scienze o del Consiglio di Stato su temi concreti: l´economia, l´energia, la ricerca scientifica. Quando Hu trae le conclusioni riassume quel che è stato detto, senza prendere posizione. Il momento delle scelte, quando arriva, deve essere preparato e mediato in un circolo ancora più ristretto, al riparo da ogni curiosità. In tv non parla mai a braccio. Le sue conferenze stampa non prevedono domande, salvo quelle approvate preventivamente. Perfino nei vertici internazionali come il G-8 che hanno qualche parentesi di confidenzialità, Hu nei dialoghi con gli altri leader non improvvisa. L´unica volta che si è aperto uno squarcio sulla sua vita privata è stato per via della figlia. Il matrimonio della ragazza con il miliardario Daniel Mao, giovane fondatore di una società online, non poteva passare inosservato. Ma subito dopo le nozze anche la coppia di sposini è scomparsa dai riflettori. Sulle manovre politiche che avvengono nel quadrilatero di Zhongnanhai si stende una cortina ancora più impenetrabile. Per aver anticipato di poche settimane un avvicendamento che era nell´aria – quando Hu prese a Jiang Zemin l´ultimo incarico che gli era rimasto, il controllo sulle forze armate – un collaboratore cinese del New York Times si è fatto tre anni in carcere. Violazione di segreti di Stato.
Nonostante questo riserbo ossessivo la storia di Hu contiene indizi sufficienti per capire la natura del blocco di potere che si coagula attorno a lui. Nella sua carriera spiccano tre incarichi nelle provincie dell´impero. 14 anni come capo del partito nel Gansu, ai bordi del deserto del Gobi, e poi lo stesso ruolo nel Guizhou a metà degli anni Ottanta, lo hanno confrontato con regioni povere. Da allora Hu non dimentica che un problema cinese è lo sviluppo ineguale, con una larga parte del paese ancora immersa nell´arretratezza. Il terzo posto di comando periferico fu il Tibet. Era il 1987, a Pechino soffiava un vento di liberalizzazione che preparava la "primavera studentesca". I tibetani si illusero di poter rivendicare l´autonomia e il ritorno del Dalai Lama. Le manifestazioni si moltiplicavano, con i monaci buddisti come protagonisti. Hu non esitò a proclamare la legge marziale nel Tibet nel 1988: il suo polso di ferro fu un segnale premonitore, la prova generale della repressione armata che il suo protettore Deng usò l´anno dopo a Piazza Tienanmen. Il primato del partito, la necessità di conservare il controllo sulla società civile, è un principio guida della sua azione. Al tempo stesso la sua qualifica di ingegnere è il marchio distintivo di una classe dirigente pragmatica, che crede nella scienza e nella tecnica, non vuole ripiombare in stagioni di ideologismo come la Rivoluzione culturale. Il suo fedele premier, Wen Jiabao, è ingegnere-geologo. Molti membri di questa "quarta generazione" del comunismo cinese hanno fatto studi tecnici, si sono cimentati con l´agronomia o la gestione di industrie di Stato. Il metodo per la selezione di questa élite resta la cooptazione: sono i capi di oggi che promuovono i successori, obbedienza e fedeltà sono più apprezzate dell´originalità. La democrazia dal basso, evocata nei progetti di riforme politiche, resta un´illusione. Il decentramento e l´autonomia regionale coprono l´esistenza di feudi locali, riottosi perché più corrotti e inefficienti del governo centrale.
Un congresso di queste dimensioni non è solo coreografia. Secondo Li Cheng, sinologo allo Hamilton College di New York, "l´invecchiamento della classe dirigente rende necessario l´avvio di un ricambio generazionale molto ampio". Li stima che il 60% del comitato centrale verrà sostituito in tempi rapidi. Stesso destino per il più ristretto Politburo, dove l´età media supera i 66 anni e 16 membri sono pensionabili. Infine c´è il vertice dei vertici, dove siedono i nove capi supremi, il comitato esecutivo. Lì un decesso e tre membri sulla settantina creano quattro seggi vacanti. In quella cerchia si gioca la partita decisiva per preparare il dopo-Hu nel 2012. L´attuale segretario generale ha due delfini favoriti, i cinquantenni Li Keqiang e Li Yuanchao. Provengono dal vecchio feudo di Hu, la Gioventù comunista dove ha costruito la sua base di potere personale e un bacino di reclutamento di fedelissimi. Ma Hu deve fare i conti con una fazione avversa legata al suo predecessore Jiang Zemin. Ora che il vecchio Jiang è in pensione il suo erede è il vicepresidente Zeng Qinghong. È il capo del clan di Shanghai, detto anche il partito dei "principini". Questa corrente ha messo radici nella nuova imprenditoria capitalista, un mondo degli affari dove brillano figli e nipoti di gerarchi comunisti (i "principini"). Il loro candidato per sostituire Hu Jintao fra cinque anni è Xi Jinping, 54enne segretario del partito di Shanghai.
Questa descrizione dei due schieramenti non compare mai sui giornali cinesi. Tuttavia circola nei ceti medi urbani, tra manager e professionisti, nelle generazioni istruite che viaggiano all´estero e usano Internet. Il partito unico non è un monolito: non lo era neppure ai tempi di Mao quando le fazioni regolavano i conti con il sangue e i campi di rieducazione. Oggi il confronto è più soft. Per indebolire il clan di Shanghai Hu Jintao ha usato i dossier dei servizi, le intercettazioni telefoniche, gli estratti conto bancari. Ha pescato selettivamente alcuni uomini della corrente opposta coinvolti nella corruzione, li ha fatti denunciare dalle loro giovani amanti. La partita non è chiusa, gli avversari conservano posizioni di comando. Forse lo stesso Hu considera pericoloso stravincere. I "principini" hanno in mano pezzi portanti dell´apparato industriale e finanziario. Una caccia alle streghe contro di loro avrebbe effetti destabilizzanti. E l´unica religione a cui Hu dedica un culto maniacale è la stabilità. "Società armoniosa" è lo slogan d´impronta confuciana che lui ha adottato. Vuol dire cose diverse. Un capitalismo un po´ meno selvaggio, con un´inflessione socialdemocratica che redistribuisca qualcosa agli operai poveri, ai contadini. Un paternalismo autoritario che assegna al partito il diritto di governare senza alternative. Un rifiuto dei conflitti aperti, che vanno prevenuti attraverso il controllo dell´informazione. Allo stesso tempo Hu continua a promettere la costruzione di uno Stato di diritto, la battaglia contro la distruzione dell´ambiente. Il bilancio dei suoi primi cinque anni al potere è in bilico fra trionfi e pericoli. Dal 2002 la Cina ha raddoppiato il reddito pro capite dei suoi cittadini, ha triplicato le esportazioni, ha accumulato le riserve valutarie più ricche del pianeta. Ha anche conquistato il grave primato mondiale delle emissioni di CO2, e le rivolte sociali censite dalla polizia sono in aumento costante. Le orecchie dei duemila delegati da lunedì si eserciteranno a discernere fra tanti messaggi contraddittori. Nell´aria si avverte un nervosismo, legato all´altro grande evento imminente: le Olimpiadi di Pechino 2008, che suscitano nel resto del mondo uno scrutinio più severo sugli abusi del regime. La grande macchina di potere ha bisogno di certezze, va rassicurata sulle vere priorità. Una di queste, Hu non lascerà dubbi, è la sua autoconservazione.
Repubblica 12.10.07
La Chiesa non paga l'imposta sui fabbricati appellandosi a una legge del '92 ma la Cassazione la giudica illegittima e l'Ue ha messo l´Italia sotto processo
Gli alberghi dei santi alla crociata dell'Ici
di Curzio Maltese
Secondo l´Anci in questo modo i Comuni non incassano ogni anno 400 milioni
Negozi, cinema, locali: dal 2000 l´espansione degli enti religiosi è impressionante
Il colpo di spugna del governo Berlusconi e l´ipocrisia del decreto Bersani
Una terrazza da sogno sul cuore della Roma barocca, sormontata dal campanile di Santa Brigida, con vista sull´ambasciata francese e perfino sull´attico di Cesare Previti. È soltanto uno dei vanti dell´albergo delle Brigidine in piazza Farnese, «magnifico palazzo del ‘400» si legge nel depliant dell´hotel, classificato con cinque stelle nei siti turistici, caldamente consigliato nei blog dei visitatori, soprattutto dagli americani, per il buon rapporto qualità-prezzo e l´accoglienza delle suore. «Parlano tutte l´inglese e possono procurare lasciapassare gratis per le udienze del Papa» scrive un´entusiasta ospite da Singapore sul portale Trip Advisor («leggi le opinioni e confronta i prezzi»). L´unico problema, avvertono, è trovare posto. Sorto intorno alla chiesa di Santa Brigida, quasi sempre vuota, l´albergo è invece sempre pieno. Prenotarsi però non è difficile. Basta inviare una e-mail a www.istitutireligiosi.org, il portale che raccoglie un migliaio di case albergo cattoliche in Italia, con il progetto di pubblicarle tutte nei prossimi mesi e «raggiungere accordi con i grandi tour operator stranieri per il lancio sul mercato internazionale». Oppure si può cliccare direttamente su brigidine.org, il sito ufficiale dell´ordine religioso fondato da Santa Brigida di Svezia, straordinaria figura di mistica e madre di otto figli, fra i quali un´altra santa, Caterina. Una notizia che in realtà dall´home page delle brigidine non si ottiene. La biografia della fondatrice occupa solo poche righe. In compenso si trovano minuziosi dettagli sulla catena di alberghi («case religiose») gestiti dalle brigidine in 19 paesi, una specie di Relais & Chateux di gran fascino, per esempio il magnifico chiostro dell´Avana Vecchia, inaugurato da Fidel Castro in persona. Il prezzo di una camera a piazza Farnese è di 120 euro per la singola, 190 per la doppia, compresa colazione, maggiorato del tre per cento se si paga con carta di credito.
La Casa di Santa Brigida, quattromila metri nella zona più cara di Roma, più lo sterminato terrazzo, ha un valore di mercato di circa 60 milioni di euro ma è iscritto al catasto romano nella categoria "convitti". E non paga una lira di Ici.
Ogni anno i comuni italiani perdono secondo gli studi dell´Anci («basati su dati catastali lontani dal valore di mercato reale») oltre 400 milioni di euro a causa di un´esenzione fiscale illegittima e contraria alle norme europee sulla concorrenza. A questa stima vanno aggiunti gli immobili considerati unilateralmente esenti da sempre e mai dichiarati ai comuni, per giungere ad un mancato gettito complessivo valutato vicino al miliardo di euro annuali. Sarebbe più esatto dire che la perdita è per i cittadini italiani, perché poi i comuni i soldi mancanti li prendono dalle solite tasche. L´Avvenire, organo della Cei, ha scritto che bisogna smetterla di parlare di privilegio poiché esiste una legge di esenzione fin dal 1992. «Un regime che non aveva mai dato problemi fino al 2004» conclude. È vero. Ma ha dimenticato di aggiungere che il "problema" insorto è la correzione della Corte di Cassazione. Un problema non da poco in uno stato di diritto. Al quale si è aggiunto quest´anno un altro problemino, anticipato da "Repubblica", l´inchiesta della commissione europea sull´intero settore dei favori fiscali alla chiesa cattolica italiana, nell´ipotesi di "aiuti di Stato" mascherati. Con gran scandalo di alcune lobby parlamentari che hanno invocato la mano del papa contro Bruxelles.
Piccola storia della controversia. La legge del ´92 sulle esenzioni dall´Ici è stata giudicata illegittima dalla Cassazione, che nel 2004 l´ha così corretta: sono esenti dall´Ici soltanto gli immobili che «non svolgono anche attività commerciale». La sentenza, come la precedente esenzione, si applicava a tutti i soggetti interessati. Oltre alle proprietà ecclesiastiche, non solo cattoliche, anche alle Onlus, ai sindacati, ai partiti, alle associazioni sportive e così via.
Ma l´unica reazione furibonda è arrivata dalla Cei: «Una sentenza folle». Perché? Forse perché è l´unico fra i soggetti interessati a possedere un impero commerciale: alberghi, ristoranti, cinema, teatri, librerie, negozi. «Il fenomeno ha avuto un´impennata prima del Giubileo» spiegano i tecnici dell´Anci «ma negli ultimi dieci anni l´espansione commerciale degli enti religiosi è impressionante». Una parte della montagna di soldi pubblici (3500 miliardi di lire) stanziati per il Giubileo del 2000, più quote consistenti dell´otto per mille, sono finite in questi anni in ristrutturazioni immobiliari che hanno trasformato conventi, collegi e ostelli in moderne catene alberghiere. Un po´ ovunque, come a piazza Farnese, le chiese si svuotano ma gli hotel religiosi si riempiono. Le ragioni non mancano: sono belli, ben gestiti, concorrenziali nei prezzi e possono far leva su una capillare rete di propaganda. La chiesa cattolica è oggi uno dei più potenti broker nel turismo mondiale, primo settore per crescita dell´economia. Si calcola che gestisca quaranta milioni di presenze all´anno per l´Italia e verso luoghi di culto (Lourdes, Fatima, Czestochowa, Medjugorije...). In cima alla piramide organizzativa si trova la ORP (Opera Romana Pellegrinaggi), alle dipendenza del Vicariato di Roma e quindi della Santa Sede. L´attività è in larga misura esentasse, Ici a parte.
Si capisce che la Cei di Ruini si sia mossa contro la «folle sentenza», «fonte di danni incalcolabili». Fino a ottenere dal governo Berlusconi il colpo di spugna per decreto. Un decreto che rovesciava la Cassazione e ripristinava l´esenzione totale dall´Ici per le proprietà ecclesiastiche, «a prescindere» (alla Totò) da ogni eventuale uso commerciale. E´ l´autunno 2005 e Berlusconi anticipa nei fatti alla Cei l´abolizione dell´Ici che sei mesi più tardi, all´ultimo minuto di campagna elettorale, avrebbe soltanto promesso a tutti gli altri italiani. «Fu un´esplosione di gioia - si legge nel sito della Cei - "cin, cin", brindisi, congratulazioni, gratitudine per tutti coloro che si erano adoperati per l´approvazione di tali norme».
Passate le elezioni, alla nuova maggioranza si è riproposto il nodo dell´illegittimità della norma, sollecitata dai rilievi della Commissione Europea. E il governo Prodi l´ha risolto nel più ipocrita dei modi. Con un cavillo inserito nei decreti Bersani, vengono esentati dall´Ici gli immobili che abbiano uso «non esclusivamente commerciale». In pratica, secondo l´Anci, significa che «il 90-95 per cento delle proprietà ecclesiastiche continua a non pagare». In termini giuridici il «non esclusivamente commerciale» rappresenta un non senso, una barzelletta sul genere di quella famosa della donna incinta «ma appena un poco». Nel secolare diritto civile e tributario italiano il «non esclusivamente» non era mai apparso, un´attività è commerciale o non commerciale. Il resto è storia recente. Parte la richiesta di chiarimenti da Bruxelles il governo da un lato risponde che la «norma è chiarissima» e dall´altro istituisce una commissione per studiarne le ambiguità, voluta quasi soltanto dal ministro per l´Economia Tommaso Padoa Schioppa, europeista convinto. La relazione sarà consegnata fra pochi giorni, ma circola qualche riservata anticipazione. Il presidente Francesco Tesauro, dall´alto della sua competenza giuridica, difficilmente potrà avvalorare l´assurdità del «non esclusivamente» e quindi sarà inevitabile cambiare la norma.
«Qui nessuno, per intenderci, pretende l´Ici dal bar o dal cinema dell´oratorio» commenta il presidente dell´Anci, il sindaco di Firenze Lorenzo Domenici. «Ma dagli esercizi commerciali aperti al pubblico, in concorrenza con altri, da quelli sì. Abbiamo dato piena autonomia ai singoli comuni per trovare accordi con le curie locali e compilare elenchi attendibili». Ma una leale collaborazione nel separare il grano dal loglio, i templi dai mercati, insomma il culto dal commercio, da parte delle curie non c´è mai stata.
Nel marzo scorso, per far fronte all´espansione del settore, la Cei ha organizzato a Roma un mega convegno intitolato «Case per ferie, segno e luogo di speranza». Gli atti e gli interventi dei relatori, scaricabili dal sito ufficiale della Cei, compongono di fatto un eccellente corso di formazione professionale per operatori turistici, tenuto da esperti del ramo e commercialisti non solo molto preparati ma anche dotati di una capacità divulgativa singolare per la categoria. Una visita al sito è largamente consigliabile a qualsiasi laico titolare di un alberghi, pensioni, bar, ristoranti. Nelle molte e lunghe relazioni, fitte di norme civilistico-fiscali, compare anche l´aspetto spirituale, alla voce swiftiana «Qualche modesto suggerimento per difendervi nel prossimo futuro da accertamenti Ici (anche retroattivi)». Si ricorda allora che «A) l´ospite deve riconoscere la piena condivisione degli ideali e delle regole di condotta della religione cristiana; B) l´ospite deve impegnarsi a rispettare gli orari di entrata e di uscita; C) la casa per ferie metta a disposizione degli ospiti la propria struttura e personale religioso per un´assistenza religiosa oltre l´annessa cappella» e così via. A parte che a piazza Farnese ci hanno dato subito le chiavi per entrare e uscire quando volevamo, è la Cei stessa a ridurre la vocazione spirituale e dunque «non commerciale» degli alberghi religiosi a un espediente da commercialisti furbi per evitare gli odiati accertamenti. Eppure sono passati duemila anni da quando Gesù rispose ai farisei, il clero dell´epoca, «date a Cesare quel che è di Cesare».
Per finire, una precisazione penosa ma necessaria. Da settimane l´informazione cattolica pubblica le tabelle degli stipendi dei preti, bassi come quelli degli operai, per «sbugiardare un´inchiesta fondata sulla menzogna». Ora, i salari dei preti non sono mai stati né saranno oggetto di questa inchiesta. Si può anzi essere d´accordo con gli organi della Cei nel sostenere che i sacerdoti sono una categoria sottopagata rispetto all´impegno profuso nella società. Per non dire delle suore, alle quali la Cei non versa un euro. Le sorelle brigidine di piazza Farnese, per esempio, si alzano all´alba e lavorano dodici ore al giorno, offrendo agli ospiti una cortesia e una dedizione che non s´imparano alla scuola alberghiera, eppure non avranno mai né uno stipendio né la pensione, a differenza dei preti. Ed è un´altra fonte d´imbarazzo laico dover contribuire con le tasse a un sistema tanto discriminatorio. La questione non sono i 350 milioni per gli stipendi prelevati con l´otto per mille, inventato per questo. Ma gli altri quattro miliardi che vanno altrove, in parte certo alle missioni di carità, in parte più cospicua dentro una macchina di potere che influenza e condiziona l´economia, la politica, la vita democratica e a volte l´esercizio dei diritti costituzionali, fra i quali la libertà di stampa.
Repubblica 12.10.07
Sono circa centomila le piccole costrette a combattere nei conflitti dimenticati del Terzo Mondo La denuncia nel bilancio di "Save the children" su milioni di ragazzi a rischio
Le bambine perdute che vanno alla guerra
"Essere costretta a sparare alla gente era la cosa peggiore, è ora nei miei incubi"
di Cristina Nadotti
In un paese in guerra, quando si è donne si è vittime due volte. Si soffre per il conflitto e si è più esposte alle violenze. Poi si finisce in una statistica in cui si parla sempre al maschile: i numeri dicono che 77 milioni di bambini nel mondo non vanno a scuola, ma molte più della metà sono femmine. Il mondo si commuove per i bambini soldato e nelle foto, il mitra enorme tra le braccia, si vedono maschietti di neanche dieci anni. Ma arruolate a forza negli eserciti irregolari, che rubano l´infanzia a oltre 250mila bambini nel mondo, ci sono 100mila bambine, probabilmente molte di più, perché poche sono quelle che sopravvivono alle sparatorie, alle violenze, ai parti ripetuti e all´Aids, fino a raccontare quel che hanno passato.
Ce l´ha fatta Esther, una ragazzina di 12 anni della Costa D´Avorio, rapita da un gruppo armato che, ha raccontato, le ha fatto fare «cose che nessuno dovrebbe permettere si facciano a dei bambini». Le ragazzine sono stuprate ripetutamente e si occupano delle vettovaglie delle bande, ma sono impiegate anche in azioni di guerra: «Essere costretta a sparare alla gente era la cosa peggiore, continuo a rivivere quei momenti nei miei incubi», ha detto Esther. Ce l´ha fatta Amani, che viveva nella zona meridionale del lago Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, e fu portata via dalle milizie a 13 anni. «Vivevamo come mogli dei soldati, ma quando c´era bisogno di cibo ci mandavano a prenderlo e dovevamo trovarlo a ogni costo». Anche portandolo via dai villaggi, uccidendo e razziando come vedevano fare dalle bande.
Esther e Amina hanno raccontato le loro storie agli operatori di Save the Children, che le hanno pubblicate nel rapporto "Bambine senza parola". I nuovi dati e documenti raccolti dall´organizzazione internazionale chiariscono una volta di più quanto sia maggiore l´impatto dei conflitti sulla vita delle bambine e delle donne. Non si nascondono neanche le responsabilità di chi dovrebbe dare aiuto: le donne denunciano che nel cammino verso i campi dei rifugiati, o nei campi stessi, funzionari governativi, guardie, soldati e compagni di sventura abusano di loro. «Donne e ragazze non sono al riparo dallo sfruttamento sessuale neppure quando si trovano a stretto contatto con gli operatori umanitari», documenta Save the Children in un dossier sulla Liberia, nel quale si racconta come membri delle forze di pace, operatori umanitari e impiegati in cambio di prestazioni sessuali davano a ragazze tra gli 8 e i 18 anni cibo e denaro.
Il dossier preparato dalla ong è stato pubblicato per rilanciare la campagna "Riscriviamo il futuro", iniziativa partita lo scorso anno per raccogliere fondi (si può contribuire anche con un sms al 48548) e sensibilizzare i paesi donatori sull´importanza di diffondere l´istruzione nei paesi in guerra. Save the Children lancia una petizione destinata al ministro degli Esteri, D´Alema, perché siano incrementati gli aiuti per l´istruzione nei paesi in conflitto e perché in sede internazionale l´istruzione diventi prioritaria nelle politiche e negli interventi in contesti di emergenza. Si chiede anche che alle donne possano pensare di più le donne: la presenza femminile nelle forze di pace e nelle strutture di sostegno è ancora troppo esigua, eppure sono loro che spesso garantiscono la migliore riuscita dei programmi.
Repubblica 12.10.07
Dopo il referendum sul welfare
Che cosa resta del mito operaio
di Luciano Gallino
Tutte le cose da cui siamo circondati e che usiamo, in una giornata qualunque, sono uscite da una fabbrica. Da lì vengono, si sa, l´auto, il frigorifero e il televisore. Ma da una fabbrica sono usciti pure la tazzina del caffè e il tavolo su cui posa, i vetri della finestra e le piastrelle del bagno, il Dvd che ascoltiamo e la carta su cui è stampato questo articolo, la serratura della porta e la cabina dell´ascensore. Le cose uscite da una fabbrica rendono (quasi sempre) più comoda la vita. Usando un computer portatile, alla luce d´una lampada alogena, nel tepore diffuso da una caldaia a gas, tutt´e tre usciti da una fabbrica, è anche più agevole scrivere che le fabbriche sono ormai in via di estinzione.
La fabbrica è di regola un lungo capannone grigio senza finestre, dove entrano materie prime e pezzi separati i quali, lavorati e assemblati, ne escono poi trasformati in cose pronte per l´uso. La trasformazione è effettuata da macchine, costruite a loro volta in un´altra fabbrica, e dal lavoro umano. Rispetto a trent´anni fa, entro la stessa fabbrica sono oggi più numerose le macchine che compiono da sole varie fasi della trasformazione, spesso integrate fra loro in sistemi flessibili di produzione, oppure metamorfizzate in robot. Per contro è sceso di molto il numero dei lavoratori occupati. Ma se i lavoratori non continuassero a controllare le macchine e a provvedere con la loro attività a riempire i larghi spazi del processo produttivo che restano aperti tra una macchina e la successiva, anche nelle produzioni più automatizzate o robotizzate, dalla fabbrica non uscirebbe niente.
In fabbrica c´è sempre qualcuno che comanda, e altri che sono comandati. Qualcuno provvede a organizzare il lavoro, dividendolo in operazioni semplici e brevi. Vanno compiute in pochi minuti, a volte uno solo, per poi ricominciare. Gli altri eseguono. Dal punto di vista della divisione del lavoro, la fabbrica di oggi resta molto simile a quella di una generazione fa, se non di due. Magari non la chiamano più "organizzazione scientifica del lavoro". Però si tratta pur sempre di lavoro frammentato in mansioni parcellari e ripetitive, che si imparano alla svelta e non richiedono all´individuo che le svolge una qualifica professionale elevata. Alla quale comunque non consentirà mai di arrivare, quel lavoro diviso, nemmeno dopo una vita.
Da altri settori dell´economia, che vanno dall´agrindustria alla ristorazione rapida, dalla grande distribuzione ai call center, gli esperti guardano oggi all´organizzazione del lavoro della fabbrica per comprendere come si fa a estrarre da una persona la massima quantità di lavoro utile in una data unità di tempo. Il loro scopo ideale è quello di trasformare ogni genere di attività umana in una copia del lavoro di fabbrica. Sembra ci stiano riuscendo.
Grazie all´automazione e a altre innovazioni del prodotto e del processo produttivo, in fabbrica molte lavorazioni particolarmente pesanti e nocive ora sono svolte dalle macchine. C´è anche meno rumore. Tuttavia le mansioni che restano affidate a esseri umani sono altrettanto stressanti di quanto lo erano un tempo. In numerosi casi la fatica fisica e nervosa è anzi aumentata. Perché le fabbriche producono oggi "giusto in tempo", che significa alimentare un flusso ininterrotto di materiali e di operazioni lungo tutto il processo. Ed è sempre l´operatore umano che deve badare a che il flusso non si interrompa mai, che le eventuali disfunzioni vengano subito superate, e gli effetti di queste sui tempi come sulla qualità del prodotto prontamente eliminati. Ciò comporta ritmi di lavoro sempre più rapidi per tutti gli addetti alla produzione; drastica riduzione delle pause durante l´orario di lavoro; una tensione continua per evitare che qualcosa vada storto. Forse lo fa in modo diverso da un tempo, ma di sicuro continua a stancare, il lavoro in fabbrica. Così come gli incidenti che avvengono in essa, masse e arnesi grevi di metallo contro corpi umani, continuano a ferire seriamente ogni giorno migliaia di uomini e donne, e a uccidere, industria delle costruzioni a parte, 1200 volte l´anno.
Invece come luogo di incontro, di solidarietà, di rapporti sindacali, di interessi comuni, di amicizia, la fabbrica è cambiata. Tutte le forme di relazioni sociali sono diventate più rade e più fragili. Le attività di gruppo che hanno sempre formato una parte intrinseca della socialità del lavoro risultano difficili. Si stenta perfino, talvolta, a mettere insieme una squadra sportiva. La causa non sono le persone, che avrebbero cambiato atteggiamento o abitudini. Sono piuttosto i contratti di lavoro di breve durata, e l´affidamento a imprese esterne, diverse dall´impresa che controlla la fabbrica, di segmenti sempre più ampi del processo produttivo interno. Ciò impedisce alle persone di imparare a conoscersi, vivendo e lavorando fianco a fianco per periodi abbastanza lunghi. Al presente può succedere che su cento lavoratori in attività entro una fabbrica, in un dato giorno, appena un terzo o un quarto siano dipendenti fissi dell´impresa cui la fabbrica stessa fa capo. Gli altri sono lavoratori che oggi ci sono ma domani, o tra una settimana o un mese, non ci saranno più, o verranno sostituiti da qualche faccia nuova. Per alcuni sarà scaduto il contratto, quale che fosse, da apprendista, interinale, o collaboratore. Ad altri, dipendenti da imprese terze, subentreranno in fabbrica i dipendenti di imprese diverse. La fabbrica, da luogo canonico di permanenze e stabilità, si va trasformando in un luogo di frettoloso passaggio.
In Italia come altrove, le fabbriche non sono mai state altrettanto numerose, e non hanno mai prodotto una così massiccia quantità di merci. Per convincersene basta guardare dal finestrino, dell´auto o del treno. Strade e ferrovie che si dipartono dalle grandi città, e da tante minori, appaiono costellate per decine di chilometri da file di fabbriche. Di solito uno non arriva a vederci dentro, a quegli scatoloni grigi, ma di sicuro all´interno c´è qualcuno che lavora. In certi posti lavorano poche decine di persone, in altri centinaia o migliaia. In totale, pur contando solamente i lavoratori dipendenti dell´industria in senso stretto, gli abitanti giornalieri e notturni delle fabbriche italiane sono tuttora quasi quattro milioni e mezzo.
Mentre sembra che i lavoratori di fabbrica nessuno riesca a vederli, sono invece ben visibili a tutti le colonne di tir su autostrade e tangenziali, i treni merci lunghi un chilometro che rombano a due metri da noi mentre sulla banchina aspettiamo l´eurocity, le decine di migliaia di container che riempiono i porti e le piattaforme intermodali. È vero che parecchie di quelle merci provengono dall´estero. Ma non meno voluminose sono le nostre merci che viaggiano su tir, treni e navi dirette verso destinazioni straniere. Dopo essere uscite da una fabbrica. Dalla quale esce anche una domanda ininterrotta di servizi. Ricerca, informatica, reti di comunicazione, logistica, manutenzione, consulenze varie, amministrazione, formazione e altro: una bella quota, insomma, di quel che vien denominato terziario. Chiudete o delocalizzate la fabbrica, e la relativa quota di terziario scende a zero. È uno dei debiti poco noti che economia e società hanno verso la fabbrica e quelli che ci lavorano.
Corriere della Sera 12.10.07
Il saggio di Giuseppe Ruggieri
Un incontro senza condizioni
di Alberto Melloni
La teologia — il logos di Dio — non è materia facile. Tanto più in Italia dove l'implicito patto fra clericali e anticlericali l'ha espulsa dalle università e l'ha chiusa nei seminari. E non è decisa dalla scelta dell'oggetto, perché un'insalata di parole sull'anima, resta insalata. La teologia è decisa nella sua qualità dalla capacità di parlare nello stesso momento alla fede vissuta e alla razionalità. Per questo La verità crocifissa che Giuseppe Ruggieri manda ora in libreria (Carocci, pagine 234, e
19,50) è un libro di teologia di grandissima importanza, anche per i non specialisti. Non mancano le tecnicalità che lo distinguono dal presappochismo. Non mancano le opzioni di fondo come quella di leggere la Bibbia con gli esegeti e non contro o senza. Ma ciò che al lettore resta è la sensazione di aver trovato una chiave di lettura, disputabile e disputata, sul dato costitutivo e originario del cristianesimo.
Tutti ormai conoscono la posizione che l'allora professor Ratzinger (che con Ruggieri partecipò alla fondazione della rivista
Communio) espresse nelle sue lezioni del 1969: il simbolo dei concili di Nicea e Costantinopoli, il Credo
che ancora oggi si dice nella messa, rappresenta per lui il punto d'approdo che iscrive in modo irrevocabile il diritto della cultura greca nell'espressione della fede cristiana e dunque la razionalità che per lui coincide quasi col Logos
del vangelo di Giovanni. La tesi di Ruggieri, apparentemente, è spostata di pochissimo; ma con conseguenze capitali. Perché per Ruggieri tutto si gioca nel modo in cui il nuovo testamento racconta la relazione concreta di Gesù coi peccatori e l'enunciato del concilio di Calcedonia sulla relazione fra le nature divina ed umana «unite e non confuse» dall'unità della persona. Questo principio «relazionale» — che sale dalla «decisione» di Gesù di sottomettersi all'umano — è dal punto di vista dell'autore la verità per il pensare cristiano davanti all'alterità, anche e soprattutto nell'oggi.
Un oggi nel quale sembra che la relazione che Dio stabilisce tramite la croce con ogni concreto peccatore — perché non c'è altro tipo d'uomo, davanti a lui — sia diventata muta o irrilevante: e da questo discende quel vezzo tipico delle discussioni bioetiche nelle quali il relativismo clericale sfila a sciorinare principi che «non c'entrano con la fede », vantandosi di enunciare «precetti di diritto naturale » che per questo dovrebbero essere da tutti accettati o a tutti imposti. Ma se ciò fosse il pensiero cristiano in un mondo renitente ai valori — brutalizzo la questione che Ruggieri lima con finezza — la fede a che cosa serve? A lucidare l'argenteria della morale aristotelica? A salare col pessimismo le insipide zuppe della politica?
Per Ruggieri è chiaro che su questo punto non si gioca una tesi teologica, ma la vita cristiana. Giacché proprio il trastullo del «naturale» finisce per evirare la forza della storicità evangelica e per ridurre il giudizio sul presente a opinionismo. Mentre la fede, se vuole e sa partire dalla croce, se vuole e sa leggere il comando eucaristico rivolto alla sinassi dei peccatori, si manifesta come capacità di sostenere l'umano in ciò che esso è: prima e al di là d'una teoria dei valori, prima e al di là di una teoria dell'esistenza, prima e al di là d'una antropologia teologica sul senso.
L a verità cristiana è confessione dell'esperienza di Dio, che «sostiene» ciò che gli è irrimediabilmente lontano — l'esperienza dell'uomo, delle società, della storia e via dicendo — in attesa che si compia la promessa della commensalità messianica. È così che si riesce a cogliere in modo non astratto, ma nel concreto della grazia, ciò che forma il deposito della fede sul modo in cui Dio si è «messo sotto» per sostenere in Gesù la storia umana. Secondo Ruggieri questa sottomissione che sostiene (in greco l'hypomonè), è «la modalità concreta della speranza. Chi spera nel futuro del carico che porta, non lo getta via e non lo abbandona, ma ci resta sotto. Hypomonè è l'atteggiamento del cristiano che spera, per tutti gli uomini e le donne che gli è dato di incontrare e per tutte le cose che gli è dato di sperimentare, la pace, la gloria e la bellezza della creazione trasfigurata, che accetta quindi, facendosene carico, di portare la loro diversità rispetto al regno, in un'agonia affettuosa che tiene compagnia al Cristo, come diceva Pascal, fino alla fine del mondo».
Liberazione 12.10.07
Ergastolo al prete del "genocidio"
La Chiesa si scusa e predica l'oblio
di Angela Nocioni
Avvicinava gli spinotti dell'elettricità ai genitali del torturato e sorrideva: «Ehi, attento alla macchina». Poi si aggiustava il colletto bianco, asciugava le mani sul sottanone e si sfiorava gli occhiali sul naso.
Il sorriso è svanito, ma il tic nervoso è rimasto. Ha passato il pomeriggio in aula ad accarezzarsi la montatura degli occhiali padre Christian von Wernich, il sacerdote cattolico condannato martedì all'ergastolo dal tribunale numero Uno di La Plata per l'assassinio di sette persone, 31 casi di tortura e 42 sequestri illegali «durante il genocidio compiuto dai militari argentini dal 1976 al 1983». Era il cappellano della polizia Bonaerense, il processo ha dimostrato che il suo ruolo era estorcere informazioni ai sequestrati.
La parola "genocidio" scritta in una sentenza ha un valore in Argentina, dove i macellai del regime, solo appena appartati dalla scena pubblica, manovrano affari e nomine dalle loro tenute di campagna.
Mai un rappresentante della gerarchia cattolica era stato finora condannato come diretto responsabile dei crimini commessi durante la dittatura. Pio Laghi giocava a tennis con Videla, preti rubavano confessioni a sequestrati e quattrini ai familiari, ma quella di La Plata è la prima condanna in trenta anni per un esponente della Chiesa.
Nemmeno una parola è stata pronunciata né dal Vaticano né dai vescovi argentini, nulla è stato fatto per correggere la linea della difesa, ferma sull'assoluta negazione dei fatti.Von Wernich ha visitato almeno quattro campi clandestini di reclusione nella zona di La Plata conosciuti come Circuito Camps negli anni della dittatura (verità innegabile confermata
in aula da numerosi tesimoni), ma l'ha fatto per esercitare la «sua funzione pastorale». Questo hanno ripetuto i suoi avvocati senza che nessuno, né da Roma né da Buenos Aires, li abbia consigliati ad aggiustare il tiro.
Monsignor Martin de Elizalde, diretto superiore del sacerdote condannato, a sentenza pronunciata ha diffuso il seguente comunicato: «Esprimo a nome della comunità ecclesiastica la convinzione che il vangelo di Gesù Cristo impone a noi che vogliamo essere suoi discepoli una condotta che mostri il rispetto per i nostri fratelli… ci dispiace che nella nostra patria ci sia stata tanta divisione e tanto odio che come chiesa non abbiamo saputo prevenire e sanare. Che un sacerdote, per azione o omissione, fosse tanto lontano dalle esigenze della sua missione ci porta a chiedere perdono con pentimento sincero… Speriamo che la nostra società trovi il sentiero della tanto desiderata riconciliazione che richiede verità, giustizia, pentimento e perdono».
Riconciliazione è la parola usata da trent'anni contro chi chiede verità e giustizia. La stessa parola scelta dagli avvocati della difesa a La Plata e da tutti coloro che giustificano i crimini commessi dal regime invocando la teoria dei due demoni, versione australe della nostra teoria degli opposti estremismi. La stessa parola scritta dal presidente dell'episcopato argentino, il cardinale Jorge Bergoglio, per chiedere di «allontanarsi tanto dall'impunità come dall'odio e dal rancore» e ripetuta dai vescovi che insistono: «se qualche membro della chiesa avallò con complicità reati di repressionesi lo fece sotto sua personale responsabilità». Negare il ruolo della chiesa cattolica in sostegno alla dittatura. La stessa posizione da trent'anni.
«Figlio mio, la vita degli uomini la decidono Dio e la tua collaborazione» sussurrava Von Wernich durante gli interrogatori. Ai detenuti spiegava: «Non dovete odiare quando vi torturano». A chi chiedeva di una neonata nella prigione clandestina rispondeva: «I figli devono pagare la colpa dei genitori». Il cappellano ha ascoltato le deposizioni in aula.
Solo un commento: «testimonianze impregnate di malizia». Julio Emmed, agente di polizia, racconta di sette detenuti uccisi dopo la promessa dell'esilio sicuro. Tra i setti c'era una una ragazza incinta. Ha partorito in cella. Sua figlia è stata battezzata da Von Wernich. Lui ascolta, ogni tanto abbassa la testa e scribacchia a matita su un foglio. Si dice vittima di una cospirazione contro di lui costruita con accuse false e paragona i testimoni al demonio. Ripete che lui nei centri di prigionia di Banfield, Pozo de Quilmes, Cot1 de Martínez e Arana ci andava a rincuorare i sequestrati. Vittime e testimoni descrivono la sua partecipazione alle sessioni di tortura.
« Con la sottana macchiata di sangue giustificava i torturatori e li incitava a continuare»ha detto in aula Alejo Ramos Padilla, che rappresenta la famiglia del giornalista Jacobo Timmerman, fondatore di Primera Plana sequestrato inisieme ad altri cronisti e tenuto prigioniero fino al 1980 ed autore del libro "Preso sin nombre, celda sin número", una delle testimonianze più dettagliate dei metodi di tortura nei campi argentini. Il processo di La Plata è stato assediato da un'atmosfera di grande tensione.E' il secondo giudizio celebrato in Argentina dopo l'annullamento delle leggi di Punto final e Obedencia debita che garantivano l'impunità ai collaboratori del regime. Il primo, che ha condannato l'anno scorso all'ergastolo Miguel Etchecolatz, capo della polizia di Buenos Aires, ha avuto come testimone chiave Jorge Julio López che ha riconosciuto Etchecolatz dalla voce.
López è sparito dopo il processo. Le sue chiavi sono state trovate giorni dopo nel giardino di casa. Non se ne ha notizia da un anno. I tre giudici che hanno condannato con verdetto unanime padre Christian von Wernich sono gli stessi del processo a Etchecolatz. Il presidente del tribunale è Carlos Rozanski. Ci vuole coraggio in Argentina a firmare una sentenza come quella che da ieri porta il suo nome.
L'intervista. Bertinotti sul referendum "Il Welfare può migliorare"
"La sinistra risponda al malessere degli operai"
di Luigi Contu
"La sinistra ascolti gli operai"
Bertinotti: bene il referendum, ma il Welfare può migliorare
Il maggioritario coatto ha fallito, il sistema tedesco assicurerebbe la governabilità
«Il referendum che si è svolto tra i lavoratori italiani è un fatto eccezionale, un evento che in un momento di grande difficoltà del paese può rappresentare una opportunità per il governo, per il sindacato e per le forze della maggioranza. Ma a due condizioni: che la vittoria dei "sì" non sia strumentalizzata per impedire al Parlamento di migliorare l´accordo sul welfare e che venga colto in tutta la sua drammaticità il segnale di malessere che arriva dalle grandi fabbriche».
Il presidente della Camera Fausto Bertinotti, una vita tra sindacato e politica, lancia un allarme alla sinistra italiana: «Il mondo del lavoro manuale, gli operai, si sentono esclusi e snobbati dalla società e da chi oggi ha il compito di governare con il rischio che vengano attratti dall´antipolitica. E la sinistra, se non affronta questo disagio rischia l´estinzione, in Italia e in Europa».
Presidente, il risultato referendario è chiaro. I lavoratori approvano a larghissima maggioranza l´accordo siglato nello scorso luglio dal governo con i sindacati e gli imprenditori. A questo punto sembrano ridotti i margini per quelle modifiche del protocollo chieste dalla sinistra radicale, compreso il suo partito.
«Sarebbe un errore gravissimo strumentalizzare per fini di parte questo risultato. Ma prima di addentrarmi nella interpretazione del voto voglio dire che in questi giorni abbiamo assistito ad una grande prova, un salutare bagno di democrazia, una consultazione fondata su un patto di reciproca fiducia. E nessuno, nemmeno chi ha agitato irresponsabilmente lo spettro dei brogli può mettere in dubbio un simile risultato. Ritengo che questa partecipazione stia a testimoniare come nel paese ci sia una larga parte di cittadini che vuole esprimere la sua opinione, che crede nella rappresentanza. Una sorta di antidoto a quella ondata di antipolitica che sta scuotendo la nostra società. Ma né il sindacato né il governo possono ora adagiarsi sugli allori: perché dalle urne escono segnali che dovrebbero far riflettere e preoccupare tutti».
Qual è la sua riflessione? Che cosa la preoccupa?
«In primo luogo si deve sfatare il mito che hanno votato per il "sì" i lavoratori moderati e per il "no" coloro che alle elezioni sono schierati con la sinistra radicale. La realtà è più complessa e il voto è stato trasversale alle appartenenze politiche. Non vorrei che una simile lettura impedisse di sentire il campanello d´allarme che è arrivato dal dissenso espresso in molte grandi fabbriche».
Ci dia la sua lettura del voto.
«Credo che la vittoria del "no" in luoghi così significativi come la Fiat di Mirafiori, la Fincantieri di Trieste o l´Ansaldo di Genova non esprima soltanto il dissenso sul testo dell´intesa e il disagio di chi non riesce con il salario a garantire una vita dignitosa alla propria famiglia. Leggo in questo voto lo smarrimento di chi vede svilito il proprio ruolo nella società. Purtroppo, il lavoro manuale è quasi dimenticato. La cultura operaia è stata vilipesa, direi cancellata dall´agenda politica».
Sono affermazioni forti per chi come lei ha militato nel sindacato e nella sinistra.
«Ne sono consapevole, e per questo sono angosciato. Ma da questa riflessione si deve ripartire. Questa gente è lì, sulla porta, e ci dice che vuole avere un ruolo attivo, che non accetta di essere ridotta ad una parentesi nella storia del Paese. Pochi giorni fa ho incontrato un gruppo di cavatori di marmo. Mi hanno chiesto di cambiare la riforma delle pensioni, di fare il possibile perché lavori così usuranti come il loro siano più tutelati. Prima che me ne andassi, però hanno aggiunto: "Fausto, fate di tutto, ma non fate cadere il governo". Ecco, se la politica della sinistra pensa di poter fare a meno di questa riserva, di questa gente che un tempo si chiamava la classe generale e che è in grado ancora oggi di accettare sacrifici in nome di un disegno politico, va a fondo definitivamente».
E cosa dovrebbero fare governo e maggioranza per sventare questo rischio?
«Non basterebbe il miglior contratto immaginabile per risolvere i problemi di chi guadagna 1100 euro al mese e deve tirare la carretta. La risposta sta in una grande operazione politica che va dagli aumenti contrattuali ad una diversa politica fiscale e che consenta una grande azione di ridistribuzione del reddito. Ma vi pare normale che un giovane operaio si vergogni della sua condizione e sia costretto a simulare la sua condizione sociale quando va in discoteca con gli amici? Attenzione, il vento dell´antipolitica può dilagare ovunque se non arrivano soluzione adeguate. Siamo ai limiti della rottura sociale e se la sinistra non se ne fa carico, soccombe. Alle prossime elezioni politiche il disagio può scegliere partiti di protesta, ma anche la strada del non voto o del populismo».
Presidente, torniamo al protocollo approvato dal referendum. Lei crede che debba essere modificato nonostante la vittoria del "no"?
«Non si può utilizzare il voto per giustificare la richiesta di modifiche. Così come trovo capzioso l´argomento di chi sostiene che l´esito del referendum impone di lasciare inalterato l´accordo di luglio. Ma non capire e non ascoltare la richiesta che viene da questi segmenti vitali della società sarebbe un errore imperdonabile da parte di chi ha la responsabilità di legiferare. Capisco il governo che essendo uno dei soggetti che hanno siglato l´intesa non ritiene di dover indicare le modifiche da introdurre. Ma ricordo a tutti, anche per il ruolo che svolgo, che il Parlamento è sovrano. Non spetta a me dare valutazioni di merito ma vedo le condizioni per alcuni interventi ragionevoli e responsabili».
Nella maggioranza però c´è chi, come Dini, si dice indisponibile a votare modifiche. E il voto dell´ex premier e dei suoi, in Senato, può essere determinante per la sopravvivenza del governo...
«Io credo che dopo una consultazione così massiccia sarebbe grave se qualcuno si assumesse la responsabilità di non accettare ragionevoli istanze che vengono dalle grandi realtà operaie. In questo momento così difficile per la vita del paese la politica, con un po´ di modestia, dovrebbe essere capace di mettersi in una logica di ascolto».
Presidente, siamo a pochi giorni dalle primarie del partito democratico. Cosa può cambiare nel paese con la nascita di questa nuova formazione, e quale saranno gli effetti sul governo Prodi?
«Certamente la nascita del Pd rappresenta una novità importante nel panorama politico italiano. E la decisione di procedere sulla via delle primarie per la scelta del leader può essere significativa in questo momento di disaffezione dalla politica. Non so dire però gli effetti che saranno prodotti sul governo, perché vedo questo nuovo partito ancora in una fase molto contraddittoria. Il Pd mi sembra un ossimoro. Ha deciso di nascere ma non è ancora chiaro il progetto. Vedo troppa indeterminatezza e una pericolosa tendenza in alcuni suoi leader a lisciare il pelo e ad assecondare tendenze anche negative che pervadono la società. E tutto questo potrebbe portare il partito democratico in rotta di collisione con altre forze della maggioranza».
Il governo cala nei sondaggi, il Pd rischia di destabilizzare la maggioranza. Ci sta dicendo che è entrata in crisi la formula stessa di centrosinistra che vi ha portato al governo insieme ai cattolici e ai riformisti?
«Il centrosinistra è nella storia e nelle corde di questo paese fin dai tempi di Moro e Nenni. Ma le corde da sole non bastano a fare la musica. L´esperienza del primo centrosinistra ebbe una grande impronta riformatrice esauritasi all´inizio degli anni ´70. Il secondo stadio è coinciso con l´accordo tra l´Ulivo e le altre forze della sinistra sfociato poi nell´Unione e nella seconda vittoria di Prodi. Penso che quando si esaurirà questa esperienza, mi auguro alla fine della legislatura, si debba aprire una terza fase per riprogrammare un´alleanza consapevole. E credo che ciò sia possibile soprattutto se riuscissimo ad approvare un pacchetto di riforme per uscire da questo bipolarismo coatto».
Per la verità il clima sulle riforme non sembra favorevole. Dal Pd è arrivato lo stop al sistema tedesco, l´unico che sembrava in grado di superare gli steccati tra maggioranza e opposizione
«Anche questa, a mio avviso, è una contraddizione del Pd. Il sistema tedesco, insieme al superamento del bicameralismo perfetto, libererebbe il paese dai lacci che lo tengono avvolto. Il maggioritario ha dimostrato con maggioranze diverse di generare coalizioni troppo eterogenee. Se ne prenda atto e si abbandoni il disegno di tagliare le ali che in Italia porterebbe dritti alla grande coalizione, con conseguenze a mio avviso negative per tutto il Paese».
E se il Parlamento non riuscisse in questa missione?
«Sarebbe un errore. E dovremo ancora una volta fare il fuoco con la legna che abbiamo. Temo una coazione a ripetere dalla quale difficilmente verrebbe qualcosa di positivo per i nostri cittadini, chiunque dovesse vincere».
l’Unità 12.10.07
Domani con «Liberazione» un librettino contro il sindaco-candidato segretario Pd. La prefazione-reprimenda del direttore
Sansonetti e Veltroni, la guerra degli Ego
di Fabio Luppino
Uscirà domani con «Liberazione» un libretto su Veltroni, «Walter ego», suggestioni a palle incantenate contro il sindaco-candidato segretario Pd, prova di profondo disamore dell’organo comunista, in cui l’ego (e i rancori) di Piero (Sansonetti, direttore di «Liberazione») finisce per sovrastare l’ego di Walter.
Ecco stralci dalla prefazione scritta da Sansonetti. «Io, un po’, ho sempre sospettato di quelli che avendo vissuto l’adolescenza in pieno ‘68, e amando la politica, preferivano Luigi Longo a Cohn Bendit. Non che abbia niente contro Longo, figuriamoci, grande figura: ma mi pare che per uno che “sente” la politica, avere la fortuna di vivere a 15 o 20 anni un avvenimento straordinario come il ‘68, e non farsi travolgere, sia una specie di delitto. Mi sembra gente senz’anima che non chiede alla politica qualcosa di importante, cioè la rivolta, il cambiamento, il progetto, l’impegno: gli chiede solo amministrazione, carriera. A me sembra gente che non crede alla politica». La colpa storica di Veltroni è, ovviamente, di non aver fatto il ‘68 a tredici anni. Ma con lui, per la verità, c’è l’80% degli italiani poveri, oscuri, meschini, piegati a lavorare che, in quegli anni, non erano nella condizione di «stare nel movimento» e maturare aerei pensieri di rivolta.
Ancora. A pagina nove di «Walter ego» Sansonetti si dilunga in una dotta disquisizione sulla lunghezza dei bastoni delle bandiere. Nel ‘74 Veltroni li voleva a norma e Piero, universitario, li preferiva corti e tozzi, perché corti erano da combattimento e servivano per fronteggiare una manifestazione del Fronte della gioventù, fascista. Veltroni lo disse a Raparelli, responsabile dell’organizzazione del Pci che requisì i bastoni corti. Ma Sansonetti confessa che altri già erano stati messi all’università e la fece franca. «Walter aveva ragione - scrive Sansonetti - perché le bandiere devono sempre avere manici sottili e di plastica, e noi avevamo torto. E però - lo capite bene - noi avevamo ragione da vendere e Walter non si comportò affatto bene».(!) Ma ecco dove Piero ego dà il meglio. «Walter ha un problema, e io sono convinto che questo problema, questo limite della sua personalità, gli impedisca di fare il grande salto, di diventare un leader vero, autentico, come lo sono stati Berlinguer, De Gasperi, Moro, Togliatti, Nenni, e anche Craxi. Walter adopera la parola “vision”, e oltretutto non la ritiene per niente importante. (...) Non gli interessa affatto la storia, la lotta delle classi, l’organizzazione degli interessi, lo Stato, la comunità, la riforma. Per questo Walter è l’unico essere vivente che può oscillare nel dubbio se allearsi con Nunzio D’Erme o con Cordero di Montezemolo. Per lui è un dubbio vero, reale, e sogna di scioglierlo trovando un modo per evitare la scelta e “fagocitare” entrambi. Questo modo non c’è, e lui non può capacitarsene, si dispera, Poi, naturalmente, sceglie Montezemolo». Montezemolo tutta la vita. Infine «l’Unità», ciò che brucia di più. «Facemmo una lotta vera contro Veltroni, a viso aperto, per la prima volta nella storia dell’«Unità», e naturalmente perdemmo, fummo travolti. Io però, nell’assemblea del gradimento, parlai contro e annunciai il no. Allora all’«Unità» godevo di un certo consenso, per sei o sette anni di seguito ero stato caporedattore e vicedirettore, e il giornale aveva avuto successi importanti. Credevo di essere uno che conta. Veltroni prese più del 70 per cento dei voti, noi del vecchio gruppo dirigente uscimmo pesantemente sconfitti». Veltroni nominò Sansonetti condirettore, in seguito lo mandò a fare il corrispondente negli Stati Uniti. La domanda allora è: il libretto di «Liberazione» è un fatto politico? O un fatto personale?
l’Unità 12.10.07
Oggi in piazza la rabbia della scuola
Manifestazioni in 130 città contro la Finanziaria e gli esami di riparazione di Fioroni
MANIFESTAZIONI e cortei in 130 città italiane. Torna la protesta studentesca. Obiettivo è portare il ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Fioroni a mantenere gli impegni presi con il movimento studentesco a partire dall’assicurare l’accesso a tutti i gradi dell’istruzione, per il diritto allo studio e per la partecipazione nei luoghi della formazione. «Saremo in piazza - spiegano le associazioni studentesche promotrici della protesta (Rete degli studenti, Unione degli studenti e Studenti di sinistra) in una nota congiunta - per chiedere al governo di mantenere le promesse fatte al movimento degli studenti medi e universitari. Non saremo in piazza con vaghe parole d ordine, ma con richieste ben precise, per rendere scuola e università priorità praticate e non solo enunciate. Chiediamo più risorse in finanziaria per scuola e università, per la didattica e l’edilizia; una legge nazionale sul diritto allo studio e la copertura delle borse di studio; il superamento della legge 264/99 sul numero chiuso all’università garantendo l’accesso e la legalità; democrazia e diritti per gli studenti nei luoghi della formazione, ma anche per chi affronta stage formativi presso le aziende» Gli studenti chiedono anche al ministro Fioroni «una risposta chiara» sul decreto riguardante l’assolvimento dei debiti formativi. «Vogliamo - affermano a questo proposito - che i corsi di recupero vengano fatti a scuola senza interferenze di privati, con tempi del recupero sostenibili: debiti e crediti non possono essere un calcolo algebrico!» Tra le richieste anche una riforma dello Statuto dei diritti degli studenti medi e la promulgazione dello Statuto degli Studenti e delle Studentesse Universitarie. «Non portiamo in piazza fannulloni, ma studenti che chiedono qualità e uguaglianza delle opportunità. Esprimiamo rivendicazioni concrete e sostenibili» affermano le tre associazioni aggiungendo che non presteranno il fianco a strumentalizzazioni. «Chiediamo a Fioroni - dichiarano Elisabetta Ferrari, portavoce nazionale di Studenti di Sinistra e Andrea Pacella, responsabile nazionale Scuola della Sinistra giovanile - di modificare il provvedimento sull’assolvimento dei debiti insieme agli studenti, per ridare centralità al giudizio dei Consigli di Classe e impostare tempi e modi di recupero più vicini alle esigenze degli studenti».
«Ai ragazzi dico che quella varata non è una riforma, ma un intervento per portare nella scuola italiana principi di serietà, nell’interesse esclusivo dei nostri giovani» replica il ministro Fioroni. «Quando nella società - osserva - si ha un debito lo si paga, e la vita non fa sconti. Se la scuola non riesce a dare certezza di competenza genera nuovi poveri di saperi. E quando la vita chiederà loro conto di quelle lacune, se non sono figli di papà, e la maggioranza non lo è, che si può permettere di pagare poi il debito, avremo nuovi poveri della vita». La scuola italiana - conclude il ministro - non può essere quella scuola bloccata dove chi entra figlio di operaio esce figlio di operaio; lo studente se merita può diventare anche componente della classe dirigente del Paese».
Ma contro Fioroni arrivano anche le critiche della Flc-Cgil. Sotto accusa sono gli interventi a favore di una piena equiparazione anche dal punto di vista finanziario in nome della sussidiarietà tra scuola statale e paritaria. «Torna a volare alto l’aquilone democristiano» afferma in una nota il sindacato sottolineando come tale azione corrisponde alle richieste della Cei. «Quando questo puzzle sarà terminato ci accorgeremo, come d’incanto - conclude la Flc - che l’inciso costituzionale del “senza oneri per lo Stato” sarà solo un vago ricordo».
l’Unità 12.10.07
Calvino, il Sentiero della Resistenza senza tabù
di Gian Carlo Ferretti
ANNIVERSARI Sessant’anni ormai dall’uscita de Il sentiero dei nidi di ragno, il romanzo che raccontò il biennio 1943-’45 in chiave di «racconto di formazione». E senza nessuna reticenza su quegli anni
Il sentiero dei nidi di ragno ha sessant’anni. Un anniversario letterariamente significativo, perché ripropone un Calvino ormai lontano dalle motivazioni della sua fortuna recente e attuale, legata piuttosto alle sue ultime stagioni e a un clima storico sempre più dominante. È infatti il Calvino degli anni settanta-ottanta a prevalere ancor oggi, soprattutto nell’immagine che certe élites intellettuali sono venuti delineando attraverso Le città invisibili, Il castello dei destini incrociati, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Palomar e le postume Lezioni americane. Un Calvino che si può sommariamente ricondurre sotto il segno dei processi combinatori e del testo-cristallo, della leggerezza sapientemente costruita e di una congetturalità esercitata instancabilmente su un mondo inconoscibile, anche se a molte di quelle pagine è sottesa una ben diversa complessità.
Nel 1947 dunque il dattiloscritto del Sentiero, dopo una bocciatura al premio Mondadori e un ex aequo al premio Riccione, esce presso Einaudi con un «finito di stampare» del 10 ottobre, ottenendo buoni risultati di critica (Pavese, Cajumi e altri) e di vendite (6.000 copie). È l’opera prima di un ventiquattrenne ex partigiano militante del Pci, collaboratore del Politecnico , de l’ Unità di Torino e di altre testate, che nello stesso anno si laurea con una tesi su Conrad, scrittore da lui molto amato. Calvino inizia il suo rapporto einaudiano nel 1946 come venditore di libri a rate, per entrare l’anno dopo in casa editrice come addetto all’ufficio stampa e pubblicità, nella prospettiva di una pluridecennale carriera di consulente autorevole e di autore prestigioso.
Il Sentiero (come altri racconti più o meno coevi) richiama anzitutto una linea di poetica da Calvino dichiarata: la nuova epica nazionale. All’indomani della Liberazione Calvino parla spesso di una letteratura quasi necessaria, espressione dell’esperienza reale appena vissuta: una letteratura capace di rielaborare quei materiali anonimi, popolari, che sono le testimonianze orali del soldati, dei partigiani e della gente comune, le tante piccole iliadi e odissee dell’ultima guerra. Facciamo come Omero «primo scrittore antimilitarista», scrive tra serietà e autoironia, o come Stevenson che «ascolta le storie degli altri uomini, e le ripensa, e le rinarra traendo fuori quanto in ognuna di esse c’è di bellezza e di insegnamento universale».
Ma nel richiamare questa linea di poetica che coincide con uno dei motivi più vitali della contraddittoria nebulosa neorealista, Il sentiero reca in sé una originalità e una libertà che finiscono per proiettarlo in una prospettiva del tutto nuova. Si delinea infatti nel romanzo una versione antiretorica e perfino irriverente, di quella Resistenza alla quale le sue pagine intimamente si ispirano. Questa versione è del resto un aspetto della tensione favolistica e avventurosa che già attraversa Il sentiero, e che richiama un’altra fondamentale linea di poetica dichiarata, sempre più presente nella futura produzione calviniana: dall’edizione delle Fiabe italiane alla Trilogia dei Nostri antenati, a tante altre pagine di felice inventiva, tra arguzia e pensosità, divertimento fantastico e lettura antischematica della realtà.
Il ragazzo partigiano protagonista del «Sentiero Pin» (un trasparente riferimento a Pinocchio: qualcosa di più che un semplice omaggio) non è più un bambino ma non è ancora un uomo, oppure è (incompiutamente) le due cose insieme. Pin ha un atteggiamento ambiguo di forte e irrazionale attrazione-repulsione, sia verso l’incomprensibile mondo dei compagni adulti con la loro «furia d’uccidere» e di «accoppiarsi», sia verso il misterioso mondo della natura con i suoi ragni rossi e funghi gialli, piccoli rospi e grandi formicai. La sua confusa ricerca di gioco e di avventura nella vita dell’uno o dell’altro mondo, viene continuamente frustrata.Pin sembra trovare un compagno ideale in Lupo Rosso, partigiano già leggendario a sedici anni (ragazzo precocemente adulto), che combattendo fa dell’avventura una pratica di vita, che gioca sul serio alla guerra. Ma il suo disinteresse per il mondo naturale, finisce per farlo apparire a Pin estraneo e distante. Pin troverà un modello e un maestro per il suo futuro nel partigiano Cugino: l’omone forte e aperto, il «Grande Amico» protettivo, comprensivo e comprensibile. Un adulto che uccide ma è «buono senza rimorsi», che si interessa alle donne ma ce l’ha con loro per sue dolorose ragioni, e che fa apprezzare da lontano a Pin la bellezza delle lucciole, apparse a lui da vicino come «bestie schifose». Cugino in sostanza è l’espressione non insensata e non distruttiva, ma saggia e sofferta, di un mondo adulto capace anche di un rapporto equilibrato con la natura. Pin trova perciò nella sua lezione una prospettiva di superamento dell’ illusoria confusione tra vita e avventura, realtà e favola, come esperienze peraltro che bisogna comunque attraversare per la conquista di una razionalità, maturità e interezza veramente umana. In questo senso Il sentiero diventa anche un capitolo importante del discorso che Calvino conduce fin dai primissimi scritti giornalistici, sui dimidiamenti dell’uomo e sulla difficile conquista di un’armonia tra storia e natura.
Ma c’è di più. Dall’interno di una vicenda di partigiani e di tedeschi, di azioni militari, discussioni politiche e amori irregolari, Calvino fa emergere un motivo che è davvero una notevole e spregiudicata novità per uno scrittore engagé del primo dopoguerra come lui, distinguendo fin d’ora il suo discorso dai pregiudizi, incomprensioni, ostracismi di tanta intellettualità comunista degli anni successivi: la scoperta di una zona oscura della coscienza umana, che sottintende un interesse per Freud e la psicoanalisi già affiorato in quegli stessi primissimi scritti. Si capisce bene allora perché Calvino (contro i consigli di alcuni amici) non abbia espunto dal Sentiero il capitolo IX, che poteva apparire un corpo estraneo nello sviluppo romanzesco: un capitolo dedicato infatti alle «riflessioni teoriche» del commissario partigiano Kim, studente in medicina con interessi psichiatrici, sull’intreccio di motivazioni razionali e irrazionali da cui scaturisce ogni scelta politica e pratica.
Kim pensa che «tutto deve esser logico, tutto si deve capire, nella storia come nella testa degli uomini: ma tra l’una e l’altra resta un salto, una zona buia dove le ragioni collettive si fanno ragioni individuali, con mostruose deviazioni e impensati agganciamenti». E allora «basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si trova dall’altra parte (…), dalla brigata nera, a sparare con lo stesso furore, con lo stesso odio». Ma non è «la stessa cosa (…) perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. (…) C’è che tutti noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra». È questo che conta, al di là di ogni possibile revisionismo ante litteram, si può commentare oggi. Anche se poi ogni partigiano combatte per le ragioni più diverse e peregrine, private e collettive insieme, spesso magari inconfessabili. Pin per esempio «non sa che combatte per non essere più fratello di una prostituta. E quei quattro cognati “terroni” combattono per non essere più dei “terroni”, poveri emigrati, guardati come estranei. E quel carabiniere combatte per non sentirsi più carabiniere, sbirro alle costole dei suoi simili. Poi Cugino, il gigantesco, buono e spietato Cugino… dicono che vuole vendicarsi d’una donna che l’ha tradito… Tutti abbiamo una ferita segreta per riscattare la quale combattiamo. (…)Forse anche Ferriera: la rabbia a non poter fare andare il mondo come vuol lui».
Repubblica 12.10.07
Mini-jet spia sulle banlieues a Parigi è scontro per i droni
di Giampiero Martinotti
I modellini senza pilota capaci di riprendere tutto, di filmare volti e gesti
La rivolta dei deputati socialisti "Quei quartieri non sono zone di guerra"
PARIGI - Si chiama Elsa, ma dietro il suo dolce nome si nasconde un progetto di natura ben poco romantica: la polizia francese potrà utilizzare i droni per sorvegliare le banlieues pericolose, le manifestazioni di piazza, i disordini di varia natura. Gli aerei spia senza pilota stanno per essere trasformati in minuscoli modellini, capaci di riprendere tutto, di filmare volti e gesti.
Gli strumenti creati dai militari e utilizzati su tutti i teatri di guerra stanno per essere trasformati in "normali" strumenti di polizia, superando così anche la sbrigliata fantasia di un George Orwell. E suscitando le immediate proteste di alcuni parlamentari dell´opposizione, che vedono in quello strumento l´ennesimo tentativo per «stigmatizzare» le banlieues e i loro abitanti.
Elsa è la sigla che designa un «apparecchio leggero per la sorveglianza aerea», simile a un aeromodello: è in gommapiuma per non provocare gravi danni in caso di caduta, è largo un metro e lungo sessanta centimetri, pesa meno di un chilo e mezzo.
Silenzioso e quasi invisibile, ha un´autonomia di quaranta minuti e un raggio di azione di duemila metri. In Francia volerà a 150 metri di altezza, ma può arrivare fino a 500 metri. A bordo, naturalmente, una telecamera. Una piccola azienda di Nantes produrrà il primo prototipo, che sarà consegnato alla polizia entro fine anno. Se i test daranno buoni risultati, i droni saranno dati in dotazione alle forze dell´ordine. Ogni apparecchio costerà diecimila euro.
Il mini-drone è stato presentato al salone Millipol, dedicato ai prodotti per le forze dell´ordine. Secondo i poliziotti, non ci sono rischi per le libertà: «Non siamo sulla linea di una sorveglianza di lunga durata, di tipo militare. E´ uno strumento supplementare per gli interventi di polizia». Secondo questa visione rassicurante, Elsa verrebbe usato per sorvegliare edifici dove si potrebbero trovare terroristi, in caso di una presa di ostaggi, durante le manifestazioni o in caso di violenze urbane.
Le polemiche, tuttavia, non mancano. Oltretutto, nei mesi scorsi la polizia ha effettuato alcuni test con piccoli aerei da turismo per sorvegliare alcune zone della Seine-Saint-Denis, il dipartimento da cui partì la rivolta del 2005. Il deputato socialista Daniel Goldberg, eletto proprio in quel dipartimento, ha subito contestato Elsa: «I nostri quartieri non sono comparabili ai casi estremi di una presa di ostaggi o dei paesi in guerra civile. Senza un inquadramento legale stretto, l´utilizzazione di droni rischia di passare, prima o poi, da un uso eccezionale in caso di crisi a un uso preventivo permanente, rafforzando così la stigmatizzazione vissuta dagli abitanti delle banlieues». Un punto di vista che non è condiviso da Michèle Alliot-Marie, ministro dell´Interno, che proprio inaugurando il salone ha cercato di mostrarsi rassicurante: «Di fronte alle attese legittime e pressanti dei cittadini, potremmo essere tentati di pagare un soprappiù di sicurezza con un sacrificio in termini di libertà. Che sia chiaro che questa non sarà mai la scelta della Francia e non sarà mai la mia».
Repubblica 12.10.07
Stefano Rodotà, ex garante della privacy
"Il controllo totale calpesta i diritti"
di Pietro Del Re
Va bene usare il drone di fronte a un episodio specifico. È diverso usarlo per seguire ogni manifestazione
ROMA - Professor Stefano Rodotà, come ex garante della privacy condivide i timori per il drone francese?
«Sì, perché è uno strumento che ci avvicina alla società della sorveglianza e del controllo totale. L´argomento della sicurezza sta trasformando i nostri paesi in nazioni di sospetti. E così si finisce con l´incidere su diritti fondamentali che sono quello di circolazione e quello di manifestazione».
Che cosa risponde a chi sostiene che il drone «è soltanto uno strumento d´aiuto agli interventi della polizia»?
«Che ormai si abbandona ogni logica di interventi selettivi e si va verso forme di controllo generalizzato».
Anche nel caso di manifestazioni violente?
«Va bene usare il drone di fronte a un episodio specifico, in una situazione di emergenza o di pericolo. È diverso usarlo per seguire ogni raduno. Dobbiamo valutare queste forme nuove di sorveglianza non solo per gli effetti immediati ma anche per quello che si può verificare in prospettiva. Perché una volta accettata questa forma di controllo sarà difficile, un domani, metterla in discussione».
Ma non crede che un sistema di monitoraggio accurato possa aiutare le forze dell´ordine?
«Non possiamo accettare l´abbandono di ogni indagine, accertamento o prevenzione mirata a favore di questo tipo di controllo. Una cosa è sorvegliare i comportamenti illegali, un´altra identificare tutti i partecipanti a un corteo. Il fatto che questo aereo senza pilota possa "schedare" chiunque è un cambiamento che deve preoccuparci».
Oltre ad erodere alcuni diritti fondamentali quali altri rischi nasconde il drone?
«Quello di assecondare la delega alle tecnologie per la soluzione di qualsiasi problema di ordine pubblico. Il drone è un po´ come i gas lacrimogeni: ci sono situazioni nelle quali anche questo tipo di strumenti può essere utilizzato. Ma per poterne legittimare l´uso la situazione deve essere davvero grave».
Repubblica 12.10.07
Daniel Cohn-Bendit, eurodeputato dei Verdi
"Tra un po' vedremo i Tornado sulle città"
I governi di destra che si susseguono in Francia hanno sempre sbagliato sulla sicurezza
PARIGI - Daniel Cohn-Bendit scuote la testa. Non sa nemmeno lui se ridere o piangere: «È ridicolo, ridicolo», ripete senza sosta.
Non ha ancora visto "Le Monde", che ha dato grande risalto alla decisione di sperimentare l´uso di piccoli droni per garantire l´ordine pubblico. Il leader del Maggio, oggi eurodeputato nel gruppo dei Verdi, non nasconde una certa esasperazione per l´ossessione della sicurezza che guadagna terreno in tutte le società occidentali.
Allora, signor Cohn-Bendit, cosa ne pensa dei droni nelle banlieues?
«Domani penseranno a utilizzare i satelliti o i Tornado, gli aerei di sorveglianza che usano in Iraq e in Afghanistan. In questi anni hanno militarizzato sempre più la polizia e sono riusciti ad avere sempre meno risultati concreti per la gente e i giovani delle banlieues. Da un lato, c´è un aumento esponenziale della militarizzazione della polizia; dall´altro, diminuiscono in maniera altrettanto esponenziale i risultati concreti per migliorare la situazione nelle periferie».
Ma nelle borgate «difficili», come le chiamano pudicamente i francesi, esiste comunque un vero problema di sicurezza, non le pare?
«Certo che esiste, non sono certo io a negarlo. Ma lo si potrà risolvere solo quando si risolveranno i problemi sociali che ci stanno dietro. I governi di destra che si susseguono uno dopo l´altro, perché non dobbiamo dimenticare che il presidente della Repubblica Sarkozy succede al ministro dell´Interno Sarkozy, si sono sempre sbagliati sulla sicurezza. I droni mi fanno ridere, ma se la cosa non fosse così ridicola direi che tutto ciò è piuttosto triste».
I politici, però, hanno l´opinione pubblica dalla loro parte. I sondaggi dicono che quando, per esempio, si propongono più telecamere nelle città, i cittadini sono d´accordo: come la mettiamo?
«I sondaggi sono quel che sono. Provi a chiedere alla gente se vuole il sole o la pioggia, le risponderà che vuole il sole. Gli chiede se vuole la sicurezza e la risposta sarà certamente un bel sì. Il problema è che i droni non porteranno la sicurezza. Punto e basta».
(g. mar.)
Repubblica 12.10.07
Lunedì inizia il congresso del Partito: ecco come funziona il potere di Hu Jintao e cosa prepara per il futuro
Cina. Il leader invisibile
di Federico Rampini
Nel 1988 non esitò a proclamare la legge marziale contro i monaci buddisti nel Tibet
I predecessori, da Mao a Jiang Zemin, esibivano invece un volto pubblico
Quando lunedì duemila delegati si riuniranno a Pechino per il 17esimo congresso del Pc cinese, la riconferma del loro segretario generale sarà già scritta nella sceneggiatura del grande evento. Ma chi è il 64enne Hu Jintao, che per altri cinque anni resterà capo del partito e presidente della Repubblica? Questo ingegnere idraulico, prescelto da Deng Xiaoping come futuro leader del paese più di 15 anni fa, ha passato una vita a scalare i gradini della carriera politica nel partito di massa più potente del mondo. In questi giorni manovrerà le leve della gigantesca organizzazione per preparare l´investitura di un "delfino". Eppure i delegati del congresso, come il restante miliardo e trecento milioni di cinesi, di Hu Jintao non sanno quasi nulla. Il leader del popolo più numeroso del pianeta, alla guida di una superpotenza che sfida gli Stati Uniti, è avvolto nel mistero. A differenza di tutti i capi di Stato della terra la sua vita privata, il suo carattere e i suoi gusti, sono sconosciuti. Il "vero" Hu Jintao è uno dei segreti meglio protetti dalla macchina di potere che obbedisce ai suoi comandi.
Non è sempre stato così, nella storia del comunismo cinese. I tre illustri predecessori hanno rivelato di più su se stessi, magari per costruirsi dei volti pubblici utili al culto della personalità. Mao durante la guerra partigiana si fece intervistare per mesi dal giornalista americano Edgar Snow che ne lanciò la leggenda; scrisse poesie; fece circolare otto milioni di copie del Libretto Rosso con i suoi pensieri. Deng Xiaoping esibiva le sue origini dello Sichuan con il forte accento provinciale. Jiang Zemin in visita in America sfoggiò un talento da karaoke-bar cantando brani di Frank Sinatra. Di Hu Jintao si dice invece che la sua riproduzione al Museo delle cere di Hong Kong lascia trasparire più emozioni. L´originale in carne e ossa sembra la maschera imperscrutabile di un moderno imperatore di terracotta. L´arte di non rivelarsi la coltiva fin dalla giovinezza.
Gli è stata preziosa, prima per sopravvivere, poi per organizzare la sua ascesa. Figlio di un commerciante di tè della provincia del Jiangsu, ha dovuto rendere le proprie origini "invisibili" perché quel padre piccolo borghese non gli costasse la persecuzione durante la Rivoluzione culturale. All´università Tsinghua, la più prestigiosa di Pechino, si laureò ingegnere mentre esplodeva il radicalismo delle Guardie rosse. Da un giorno all´altro opposte fazioni vincevano o perdevano battaglie violente; si cadeva in disgrazia facilmente. I colleghi di università ricordano la sua abilità: andare d´accordo con tutti, non scoprire il fianco. Il profilo conformista è stata la sua armatura per scampare alle tempeste. La sua biografa ufficiale, la storica Ma Ling, lo descrive come uno che "controlla quello che dice fin dall´adolescenza". Pur avendo scritto di lui un ritratto agiografico, Ma Ling non è stata gradita dalla macchina di potere. Anche di quel passato Hu Jintao ha cancellato le tracce non appena ne ha avuto il potere. Qualche giornalista straniero anni fa riuscì a rintracciare la zia novantenne di Hu, che lo educò dopo la morte del padre. La vecchietta intervistata disse ogni bene del nipote, scolaro modello. Ma a scanso di rischi da allora la zia è irraggiungibile, la sua casa è protetta dalla polizia. Sono sparite foto d´infanzia e ricordi. Anche se in Cina i rotocalchi si guarderebbero bene dal pubblicare gossip sul leader, le precauzioni non sono mai troppe.
Perfino oggi che è all´apice del potere è raro che Hu esprima un´opinione personale. Una volta al mese convoca la "cupola" del regime: quel giorno 22 limousine nere dai vetri affumicati entrano di primo mattino a Zhongnanhai, il quartier generale della nomenklatura a fianco della Città Proibita. Da quando Hu è salito al vertice del partito nel 2002 le riunioni del Politburo sono diventate brevi, operative, per poi ascoltare relazioni di esperti dell´Accademia delle Scienze o del Consiglio di Stato su temi concreti: l´economia, l´energia, la ricerca scientifica. Quando Hu trae le conclusioni riassume quel che è stato detto, senza prendere posizione. Il momento delle scelte, quando arriva, deve essere preparato e mediato in un circolo ancora più ristretto, al riparo da ogni curiosità. In tv non parla mai a braccio. Le sue conferenze stampa non prevedono domande, salvo quelle approvate preventivamente. Perfino nei vertici internazionali come il G-8 che hanno qualche parentesi di confidenzialità, Hu nei dialoghi con gli altri leader non improvvisa. L´unica volta che si è aperto uno squarcio sulla sua vita privata è stato per via della figlia. Il matrimonio della ragazza con il miliardario Daniel Mao, giovane fondatore di una società online, non poteva passare inosservato. Ma subito dopo le nozze anche la coppia di sposini è scomparsa dai riflettori. Sulle manovre politiche che avvengono nel quadrilatero di Zhongnanhai si stende una cortina ancora più impenetrabile. Per aver anticipato di poche settimane un avvicendamento che era nell´aria – quando Hu prese a Jiang Zemin l´ultimo incarico che gli era rimasto, il controllo sulle forze armate – un collaboratore cinese del New York Times si è fatto tre anni in carcere. Violazione di segreti di Stato.
Nonostante questo riserbo ossessivo la storia di Hu contiene indizi sufficienti per capire la natura del blocco di potere che si coagula attorno a lui. Nella sua carriera spiccano tre incarichi nelle provincie dell´impero. 14 anni come capo del partito nel Gansu, ai bordi del deserto del Gobi, e poi lo stesso ruolo nel Guizhou a metà degli anni Ottanta, lo hanno confrontato con regioni povere. Da allora Hu non dimentica che un problema cinese è lo sviluppo ineguale, con una larga parte del paese ancora immersa nell´arretratezza. Il terzo posto di comando periferico fu il Tibet. Era il 1987, a Pechino soffiava un vento di liberalizzazione che preparava la "primavera studentesca". I tibetani si illusero di poter rivendicare l´autonomia e il ritorno del Dalai Lama. Le manifestazioni si moltiplicavano, con i monaci buddisti come protagonisti. Hu non esitò a proclamare la legge marziale nel Tibet nel 1988: il suo polso di ferro fu un segnale premonitore, la prova generale della repressione armata che il suo protettore Deng usò l´anno dopo a Piazza Tienanmen. Il primato del partito, la necessità di conservare il controllo sulla società civile, è un principio guida della sua azione. Al tempo stesso la sua qualifica di ingegnere è il marchio distintivo di una classe dirigente pragmatica, che crede nella scienza e nella tecnica, non vuole ripiombare in stagioni di ideologismo come la Rivoluzione culturale. Il suo fedele premier, Wen Jiabao, è ingegnere-geologo. Molti membri di questa "quarta generazione" del comunismo cinese hanno fatto studi tecnici, si sono cimentati con l´agronomia o la gestione di industrie di Stato. Il metodo per la selezione di questa élite resta la cooptazione: sono i capi di oggi che promuovono i successori, obbedienza e fedeltà sono più apprezzate dell´originalità. La democrazia dal basso, evocata nei progetti di riforme politiche, resta un´illusione. Il decentramento e l´autonomia regionale coprono l´esistenza di feudi locali, riottosi perché più corrotti e inefficienti del governo centrale.
Un congresso di queste dimensioni non è solo coreografia. Secondo Li Cheng, sinologo allo Hamilton College di New York, "l´invecchiamento della classe dirigente rende necessario l´avvio di un ricambio generazionale molto ampio". Li stima che il 60% del comitato centrale verrà sostituito in tempi rapidi. Stesso destino per il più ristretto Politburo, dove l´età media supera i 66 anni e 16 membri sono pensionabili. Infine c´è il vertice dei vertici, dove siedono i nove capi supremi, il comitato esecutivo. Lì un decesso e tre membri sulla settantina creano quattro seggi vacanti. In quella cerchia si gioca la partita decisiva per preparare il dopo-Hu nel 2012. L´attuale segretario generale ha due delfini favoriti, i cinquantenni Li Keqiang e Li Yuanchao. Provengono dal vecchio feudo di Hu, la Gioventù comunista dove ha costruito la sua base di potere personale e un bacino di reclutamento di fedelissimi. Ma Hu deve fare i conti con una fazione avversa legata al suo predecessore Jiang Zemin. Ora che il vecchio Jiang è in pensione il suo erede è il vicepresidente Zeng Qinghong. È il capo del clan di Shanghai, detto anche il partito dei "principini". Questa corrente ha messo radici nella nuova imprenditoria capitalista, un mondo degli affari dove brillano figli e nipoti di gerarchi comunisti (i "principini"). Il loro candidato per sostituire Hu Jintao fra cinque anni è Xi Jinping, 54enne segretario del partito di Shanghai.
Questa descrizione dei due schieramenti non compare mai sui giornali cinesi. Tuttavia circola nei ceti medi urbani, tra manager e professionisti, nelle generazioni istruite che viaggiano all´estero e usano Internet. Il partito unico non è un monolito: non lo era neppure ai tempi di Mao quando le fazioni regolavano i conti con il sangue e i campi di rieducazione. Oggi il confronto è più soft. Per indebolire il clan di Shanghai Hu Jintao ha usato i dossier dei servizi, le intercettazioni telefoniche, gli estratti conto bancari. Ha pescato selettivamente alcuni uomini della corrente opposta coinvolti nella corruzione, li ha fatti denunciare dalle loro giovani amanti. La partita non è chiusa, gli avversari conservano posizioni di comando. Forse lo stesso Hu considera pericoloso stravincere. I "principini" hanno in mano pezzi portanti dell´apparato industriale e finanziario. Una caccia alle streghe contro di loro avrebbe effetti destabilizzanti. E l´unica religione a cui Hu dedica un culto maniacale è la stabilità. "Società armoniosa" è lo slogan d´impronta confuciana che lui ha adottato. Vuol dire cose diverse. Un capitalismo un po´ meno selvaggio, con un´inflessione socialdemocratica che redistribuisca qualcosa agli operai poveri, ai contadini. Un paternalismo autoritario che assegna al partito il diritto di governare senza alternative. Un rifiuto dei conflitti aperti, che vanno prevenuti attraverso il controllo dell´informazione. Allo stesso tempo Hu continua a promettere la costruzione di uno Stato di diritto, la battaglia contro la distruzione dell´ambiente. Il bilancio dei suoi primi cinque anni al potere è in bilico fra trionfi e pericoli. Dal 2002 la Cina ha raddoppiato il reddito pro capite dei suoi cittadini, ha triplicato le esportazioni, ha accumulato le riserve valutarie più ricche del pianeta. Ha anche conquistato il grave primato mondiale delle emissioni di CO2, e le rivolte sociali censite dalla polizia sono in aumento costante. Le orecchie dei duemila delegati da lunedì si eserciteranno a discernere fra tanti messaggi contraddittori. Nell´aria si avverte un nervosismo, legato all´altro grande evento imminente: le Olimpiadi di Pechino 2008, che suscitano nel resto del mondo uno scrutinio più severo sugli abusi del regime. La grande macchina di potere ha bisogno di certezze, va rassicurata sulle vere priorità. Una di queste, Hu non lascerà dubbi, è la sua autoconservazione.
Repubblica 12.10.07
La Chiesa non paga l'imposta sui fabbricati appellandosi a una legge del '92 ma la Cassazione la giudica illegittima e l'Ue ha messo l´Italia sotto processo
Gli alberghi dei santi alla crociata dell'Ici
di Curzio Maltese
Secondo l´Anci in questo modo i Comuni non incassano ogni anno 400 milioni
Negozi, cinema, locali: dal 2000 l´espansione degli enti religiosi è impressionante
Il colpo di spugna del governo Berlusconi e l´ipocrisia del decreto Bersani
Una terrazza da sogno sul cuore della Roma barocca, sormontata dal campanile di Santa Brigida, con vista sull´ambasciata francese e perfino sull´attico di Cesare Previti. È soltanto uno dei vanti dell´albergo delle Brigidine in piazza Farnese, «magnifico palazzo del ‘400» si legge nel depliant dell´hotel, classificato con cinque stelle nei siti turistici, caldamente consigliato nei blog dei visitatori, soprattutto dagli americani, per il buon rapporto qualità-prezzo e l´accoglienza delle suore. «Parlano tutte l´inglese e possono procurare lasciapassare gratis per le udienze del Papa» scrive un´entusiasta ospite da Singapore sul portale Trip Advisor («leggi le opinioni e confronta i prezzi»). L´unico problema, avvertono, è trovare posto. Sorto intorno alla chiesa di Santa Brigida, quasi sempre vuota, l´albergo è invece sempre pieno. Prenotarsi però non è difficile. Basta inviare una e-mail a www.istitutireligiosi.org, il portale che raccoglie un migliaio di case albergo cattoliche in Italia, con il progetto di pubblicarle tutte nei prossimi mesi e «raggiungere accordi con i grandi tour operator stranieri per il lancio sul mercato internazionale». Oppure si può cliccare direttamente su brigidine.org, il sito ufficiale dell´ordine religioso fondato da Santa Brigida di Svezia, straordinaria figura di mistica e madre di otto figli, fra i quali un´altra santa, Caterina. Una notizia che in realtà dall´home page delle brigidine non si ottiene. La biografia della fondatrice occupa solo poche righe. In compenso si trovano minuziosi dettagli sulla catena di alberghi («case religiose») gestiti dalle brigidine in 19 paesi, una specie di Relais & Chateux di gran fascino, per esempio il magnifico chiostro dell´Avana Vecchia, inaugurato da Fidel Castro in persona. Il prezzo di una camera a piazza Farnese è di 120 euro per la singola, 190 per la doppia, compresa colazione, maggiorato del tre per cento se si paga con carta di credito.
La Casa di Santa Brigida, quattromila metri nella zona più cara di Roma, più lo sterminato terrazzo, ha un valore di mercato di circa 60 milioni di euro ma è iscritto al catasto romano nella categoria "convitti". E non paga una lira di Ici.
Ogni anno i comuni italiani perdono secondo gli studi dell´Anci («basati su dati catastali lontani dal valore di mercato reale») oltre 400 milioni di euro a causa di un´esenzione fiscale illegittima e contraria alle norme europee sulla concorrenza. A questa stima vanno aggiunti gli immobili considerati unilateralmente esenti da sempre e mai dichiarati ai comuni, per giungere ad un mancato gettito complessivo valutato vicino al miliardo di euro annuali. Sarebbe più esatto dire che la perdita è per i cittadini italiani, perché poi i comuni i soldi mancanti li prendono dalle solite tasche. L´Avvenire, organo della Cei, ha scritto che bisogna smetterla di parlare di privilegio poiché esiste una legge di esenzione fin dal 1992. «Un regime che non aveva mai dato problemi fino al 2004» conclude. È vero. Ma ha dimenticato di aggiungere che il "problema" insorto è la correzione della Corte di Cassazione. Un problema non da poco in uno stato di diritto. Al quale si è aggiunto quest´anno un altro problemino, anticipato da "Repubblica", l´inchiesta della commissione europea sull´intero settore dei favori fiscali alla chiesa cattolica italiana, nell´ipotesi di "aiuti di Stato" mascherati. Con gran scandalo di alcune lobby parlamentari che hanno invocato la mano del papa contro Bruxelles.
Piccola storia della controversia. La legge del ´92 sulle esenzioni dall´Ici è stata giudicata illegittima dalla Cassazione, che nel 2004 l´ha così corretta: sono esenti dall´Ici soltanto gli immobili che «non svolgono anche attività commerciale». La sentenza, come la precedente esenzione, si applicava a tutti i soggetti interessati. Oltre alle proprietà ecclesiastiche, non solo cattoliche, anche alle Onlus, ai sindacati, ai partiti, alle associazioni sportive e così via.
Ma l´unica reazione furibonda è arrivata dalla Cei: «Una sentenza folle». Perché? Forse perché è l´unico fra i soggetti interessati a possedere un impero commerciale: alberghi, ristoranti, cinema, teatri, librerie, negozi. «Il fenomeno ha avuto un´impennata prima del Giubileo» spiegano i tecnici dell´Anci «ma negli ultimi dieci anni l´espansione commerciale degli enti religiosi è impressionante». Una parte della montagna di soldi pubblici (3500 miliardi di lire) stanziati per il Giubileo del 2000, più quote consistenti dell´otto per mille, sono finite in questi anni in ristrutturazioni immobiliari che hanno trasformato conventi, collegi e ostelli in moderne catene alberghiere. Un po´ ovunque, come a piazza Farnese, le chiese si svuotano ma gli hotel religiosi si riempiono. Le ragioni non mancano: sono belli, ben gestiti, concorrenziali nei prezzi e possono far leva su una capillare rete di propaganda. La chiesa cattolica è oggi uno dei più potenti broker nel turismo mondiale, primo settore per crescita dell´economia. Si calcola che gestisca quaranta milioni di presenze all´anno per l´Italia e verso luoghi di culto (Lourdes, Fatima, Czestochowa, Medjugorije...). In cima alla piramide organizzativa si trova la ORP (Opera Romana Pellegrinaggi), alle dipendenza del Vicariato di Roma e quindi della Santa Sede. L´attività è in larga misura esentasse, Ici a parte.
Si capisce che la Cei di Ruini si sia mossa contro la «folle sentenza», «fonte di danni incalcolabili». Fino a ottenere dal governo Berlusconi il colpo di spugna per decreto. Un decreto che rovesciava la Cassazione e ripristinava l´esenzione totale dall´Ici per le proprietà ecclesiastiche, «a prescindere» (alla Totò) da ogni eventuale uso commerciale. E´ l´autunno 2005 e Berlusconi anticipa nei fatti alla Cei l´abolizione dell´Ici che sei mesi più tardi, all´ultimo minuto di campagna elettorale, avrebbe soltanto promesso a tutti gli altri italiani. «Fu un´esplosione di gioia - si legge nel sito della Cei - "cin, cin", brindisi, congratulazioni, gratitudine per tutti coloro che si erano adoperati per l´approvazione di tali norme».
Passate le elezioni, alla nuova maggioranza si è riproposto il nodo dell´illegittimità della norma, sollecitata dai rilievi della Commissione Europea. E il governo Prodi l´ha risolto nel più ipocrita dei modi. Con un cavillo inserito nei decreti Bersani, vengono esentati dall´Ici gli immobili che abbiano uso «non esclusivamente commerciale». In pratica, secondo l´Anci, significa che «il 90-95 per cento delle proprietà ecclesiastiche continua a non pagare». In termini giuridici il «non esclusivamente commerciale» rappresenta un non senso, una barzelletta sul genere di quella famosa della donna incinta «ma appena un poco». Nel secolare diritto civile e tributario italiano il «non esclusivamente» non era mai apparso, un´attività è commerciale o non commerciale. Il resto è storia recente. Parte la richiesta di chiarimenti da Bruxelles il governo da un lato risponde che la «norma è chiarissima» e dall´altro istituisce una commissione per studiarne le ambiguità, voluta quasi soltanto dal ministro per l´Economia Tommaso Padoa Schioppa, europeista convinto. La relazione sarà consegnata fra pochi giorni, ma circola qualche riservata anticipazione. Il presidente Francesco Tesauro, dall´alto della sua competenza giuridica, difficilmente potrà avvalorare l´assurdità del «non esclusivamente» e quindi sarà inevitabile cambiare la norma.
«Qui nessuno, per intenderci, pretende l´Ici dal bar o dal cinema dell´oratorio» commenta il presidente dell´Anci, il sindaco di Firenze Lorenzo Domenici. «Ma dagli esercizi commerciali aperti al pubblico, in concorrenza con altri, da quelli sì. Abbiamo dato piena autonomia ai singoli comuni per trovare accordi con le curie locali e compilare elenchi attendibili». Ma una leale collaborazione nel separare il grano dal loglio, i templi dai mercati, insomma il culto dal commercio, da parte delle curie non c´è mai stata.
Nel marzo scorso, per far fronte all´espansione del settore, la Cei ha organizzato a Roma un mega convegno intitolato «Case per ferie, segno e luogo di speranza». Gli atti e gli interventi dei relatori, scaricabili dal sito ufficiale della Cei, compongono di fatto un eccellente corso di formazione professionale per operatori turistici, tenuto da esperti del ramo e commercialisti non solo molto preparati ma anche dotati di una capacità divulgativa singolare per la categoria. Una visita al sito è largamente consigliabile a qualsiasi laico titolare di un alberghi, pensioni, bar, ristoranti. Nelle molte e lunghe relazioni, fitte di norme civilistico-fiscali, compare anche l´aspetto spirituale, alla voce swiftiana «Qualche modesto suggerimento per difendervi nel prossimo futuro da accertamenti Ici (anche retroattivi)». Si ricorda allora che «A) l´ospite deve riconoscere la piena condivisione degli ideali e delle regole di condotta della religione cristiana; B) l´ospite deve impegnarsi a rispettare gli orari di entrata e di uscita; C) la casa per ferie metta a disposizione degli ospiti la propria struttura e personale religioso per un´assistenza religiosa oltre l´annessa cappella» e così via. A parte che a piazza Farnese ci hanno dato subito le chiavi per entrare e uscire quando volevamo, è la Cei stessa a ridurre la vocazione spirituale e dunque «non commerciale» degli alberghi religiosi a un espediente da commercialisti furbi per evitare gli odiati accertamenti. Eppure sono passati duemila anni da quando Gesù rispose ai farisei, il clero dell´epoca, «date a Cesare quel che è di Cesare».
Per finire, una precisazione penosa ma necessaria. Da settimane l´informazione cattolica pubblica le tabelle degli stipendi dei preti, bassi come quelli degli operai, per «sbugiardare un´inchiesta fondata sulla menzogna». Ora, i salari dei preti non sono mai stati né saranno oggetto di questa inchiesta. Si può anzi essere d´accordo con gli organi della Cei nel sostenere che i sacerdoti sono una categoria sottopagata rispetto all´impegno profuso nella società. Per non dire delle suore, alle quali la Cei non versa un euro. Le sorelle brigidine di piazza Farnese, per esempio, si alzano all´alba e lavorano dodici ore al giorno, offrendo agli ospiti una cortesia e una dedizione che non s´imparano alla scuola alberghiera, eppure non avranno mai né uno stipendio né la pensione, a differenza dei preti. Ed è un´altra fonte d´imbarazzo laico dover contribuire con le tasse a un sistema tanto discriminatorio. La questione non sono i 350 milioni per gli stipendi prelevati con l´otto per mille, inventato per questo. Ma gli altri quattro miliardi che vanno altrove, in parte certo alle missioni di carità, in parte più cospicua dentro una macchina di potere che influenza e condiziona l´economia, la politica, la vita democratica e a volte l´esercizio dei diritti costituzionali, fra i quali la libertà di stampa.
Repubblica 12.10.07
Sono circa centomila le piccole costrette a combattere nei conflitti dimenticati del Terzo Mondo La denuncia nel bilancio di "Save the children" su milioni di ragazzi a rischio
Le bambine perdute che vanno alla guerra
"Essere costretta a sparare alla gente era la cosa peggiore, è ora nei miei incubi"
di Cristina Nadotti
In un paese in guerra, quando si è donne si è vittime due volte. Si soffre per il conflitto e si è più esposte alle violenze. Poi si finisce in una statistica in cui si parla sempre al maschile: i numeri dicono che 77 milioni di bambini nel mondo non vanno a scuola, ma molte più della metà sono femmine. Il mondo si commuove per i bambini soldato e nelle foto, il mitra enorme tra le braccia, si vedono maschietti di neanche dieci anni. Ma arruolate a forza negli eserciti irregolari, che rubano l´infanzia a oltre 250mila bambini nel mondo, ci sono 100mila bambine, probabilmente molte di più, perché poche sono quelle che sopravvivono alle sparatorie, alle violenze, ai parti ripetuti e all´Aids, fino a raccontare quel che hanno passato.
Ce l´ha fatta Esther, una ragazzina di 12 anni della Costa D´Avorio, rapita da un gruppo armato che, ha raccontato, le ha fatto fare «cose che nessuno dovrebbe permettere si facciano a dei bambini». Le ragazzine sono stuprate ripetutamente e si occupano delle vettovaglie delle bande, ma sono impiegate anche in azioni di guerra: «Essere costretta a sparare alla gente era la cosa peggiore, continuo a rivivere quei momenti nei miei incubi», ha detto Esther. Ce l´ha fatta Amani, che viveva nella zona meridionale del lago Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, e fu portata via dalle milizie a 13 anni. «Vivevamo come mogli dei soldati, ma quando c´era bisogno di cibo ci mandavano a prenderlo e dovevamo trovarlo a ogni costo». Anche portandolo via dai villaggi, uccidendo e razziando come vedevano fare dalle bande.
Esther e Amina hanno raccontato le loro storie agli operatori di Save the Children, che le hanno pubblicate nel rapporto "Bambine senza parola". I nuovi dati e documenti raccolti dall´organizzazione internazionale chiariscono una volta di più quanto sia maggiore l´impatto dei conflitti sulla vita delle bambine e delle donne. Non si nascondono neanche le responsabilità di chi dovrebbe dare aiuto: le donne denunciano che nel cammino verso i campi dei rifugiati, o nei campi stessi, funzionari governativi, guardie, soldati e compagni di sventura abusano di loro. «Donne e ragazze non sono al riparo dallo sfruttamento sessuale neppure quando si trovano a stretto contatto con gli operatori umanitari», documenta Save the Children in un dossier sulla Liberia, nel quale si racconta come membri delle forze di pace, operatori umanitari e impiegati in cambio di prestazioni sessuali davano a ragazze tra gli 8 e i 18 anni cibo e denaro.
Il dossier preparato dalla ong è stato pubblicato per rilanciare la campagna "Riscriviamo il futuro", iniziativa partita lo scorso anno per raccogliere fondi (si può contribuire anche con un sms al 48548) e sensibilizzare i paesi donatori sull´importanza di diffondere l´istruzione nei paesi in guerra. Save the Children lancia una petizione destinata al ministro degli Esteri, D´Alema, perché siano incrementati gli aiuti per l´istruzione nei paesi in conflitto e perché in sede internazionale l´istruzione diventi prioritaria nelle politiche e negli interventi in contesti di emergenza. Si chiede anche che alle donne possano pensare di più le donne: la presenza femminile nelle forze di pace e nelle strutture di sostegno è ancora troppo esigua, eppure sono loro che spesso garantiscono la migliore riuscita dei programmi.
Repubblica 12.10.07
Dopo il referendum sul welfare
Che cosa resta del mito operaio
di Luciano Gallino
Tutte le cose da cui siamo circondati e che usiamo, in una giornata qualunque, sono uscite da una fabbrica. Da lì vengono, si sa, l´auto, il frigorifero e il televisore. Ma da una fabbrica sono usciti pure la tazzina del caffè e il tavolo su cui posa, i vetri della finestra e le piastrelle del bagno, il Dvd che ascoltiamo e la carta su cui è stampato questo articolo, la serratura della porta e la cabina dell´ascensore. Le cose uscite da una fabbrica rendono (quasi sempre) più comoda la vita. Usando un computer portatile, alla luce d´una lampada alogena, nel tepore diffuso da una caldaia a gas, tutt´e tre usciti da una fabbrica, è anche più agevole scrivere che le fabbriche sono ormai in via di estinzione.
La fabbrica è di regola un lungo capannone grigio senza finestre, dove entrano materie prime e pezzi separati i quali, lavorati e assemblati, ne escono poi trasformati in cose pronte per l´uso. La trasformazione è effettuata da macchine, costruite a loro volta in un´altra fabbrica, e dal lavoro umano. Rispetto a trent´anni fa, entro la stessa fabbrica sono oggi più numerose le macchine che compiono da sole varie fasi della trasformazione, spesso integrate fra loro in sistemi flessibili di produzione, oppure metamorfizzate in robot. Per contro è sceso di molto il numero dei lavoratori occupati. Ma se i lavoratori non continuassero a controllare le macchine e a provvedere con la loro attività a riempire i larghi spazi del processo produttivo che restano aperti tra una macchina e la successiva, anche nelle produzioni più automatizzate o robotizzate, dalla fabbrica non uscirebbe niente.
In fabbrica c´è sempre qualcuno che comanda, e altri che sono comandati. Qualcuno provvede a organizzare il lavoro, dividendolo in operazioni semplici e brevi. Vanno compiute in pochi minuti, a volte uno solo, per poi ricominciare. Gli altri eseguono. Dal punto di vista della divisione del lavoro, la fabbrica di oggi resta molto simile a quella di una generazione fa, se non di due. Magari non la chiamano più "organizzazione scientifica del lavoro". Però si tratta pur sempre di lavoro frammentato in mansioni parcellari e ripetitive, che si imparano alla svelta e non richiedono all´individuo che le svolge una qualifica professionale elevata. Alla quale comunque non consentirà mai di arrivare, quel lavoro diviso, nemmeno dopo una vita.
Da altri settori dell´economia, che vanno dall´agrindustria alla ristorazione rapida, dalla grande distribuzione ai call center, gli esperti guardano oggi all´organizzazione del lavoro della fabbrica per comprendere come si fa a estrarre da una persona la massima quantità di lavoro utile in una data unità di tempo. Il loro scopo ideale è quello di trasformare ogni genere di attività umana in una copia del lavoro di fabbrica. Sembra ci stiano riuscendo.
Grazie all´automazione e a altre innovazioni del prodotto e del processo produttivo, in fabbrica molte lavorazioni particolarmente pesanti e nocive ora sono svolte dalle macchine. C´è anche meno rumore. Tuttavia le mansioni che restano affidate a esseri umani sono altrettanto stressanti di quanto lo erano un tempo. In numerosi casi la fatica fisica e nervosa è anzi aumentata. Perché le fabbriche producono oggi "giusto in tempo", che significa alimentare un flusso ininterrotto di materiali e di operazioni lungo tutto il processo. Ed è sempre l´operatore umano che deve badare a che il flusso non si interrompa mai, che le eventuali disfunzioni vengano subito superate, e gli effetti di queste sui tempi come sulla qualità del prodotto prontamente eliminati. Ciò comporta ritmi di lavoro sempre più rapidi per tutti gli addetti alla produzione; drastica riduzione delle pause durante l´orario di lavoro; una tensione continua per evitare che qualcosa vada storto. Forse lo fa in modo diverso da un tempo, ma di sicuro continua a stancare, il lavoro in fabbrica. Così come gli incidenti che avvengono in essa, masse e arnesi grevi di metallo contro corpi umani, continuano a ferire seriamente ogni giorno migliaia di uomini e donne, e a uccidere, industria delle costruzioni a parte, 1200 volte l´anno.
Invece come luogo di incontro, di solidarietà, di rapporti sindacali, di interessi comuni, di amicizia, la fabbrica è cambiata. Tutte le forme di relazioni sociali sono diventate più rade e più fragili. Le attività di gruppo che hanno sempre formato una parte intrinseca della socialità del lavoro risultano difficili. Si stenta perfino, talvolta, a mettere insieme una squadra sportiva. La causa non sono le persone, che avrebbero cambiato atteggiamento o abitudini. Sono piuttosto i contratti di lavoro di breve durata, e l´affidamento a imprese esterne, diverse dall´impresa che controlla la fabbrica, di segmenti sempre più ampi del processo produttivo interno. Ciò impedisce alle persone di imparare a conoscersi, vivendo e lavorando fianco a fianco per periodi abbastanza lunghi. Al presente può succedere che su cento lavoratori in attività entro una fabbrica, in un dato giorno, appena un terzo o un quarto siano dipendenti fissi dell´impresa cui la fabbrica stessa fa capo. Gli altri sono lavoratori che oggi ci sono ma domani, o tra una settimana o un mese, non ci saranno più, o verranno sostituiti da qualche faccia nuova. Per alcuni sarà scaduto il contratto, quale che fosse, da apprendista, interinale, o collaboratore. Ad altri, dipendenti da imprese terze, subentreranno in fabbrica i dipendenti di imprese diverse. La fabbrica, da luogo canonico di permanenze e stabilità, si va trasformando in un luogo di frettoloso passaggio.
In Italia come altrove, le fabbriche non sono mai state altrettanto numerose, e non hanno mai prodotto una così massiccia quantità di merci. Per convincersene basta guardare dal finestrino, dell´auto o del treno. Strade e ferrovie che si dipartono dalle grandi città, e da tante minori, appaiono costellate per decine di chilometri da file di fabbriche. Di solito uno non arriva a vederci dentro, a quegli scatoloni grigi, ma di sicuro all´interno c´è qualcuno che lavora. In certi posti lavorano poche decine di persone, in altri centinaia o migliaia. In totale, pur contando solamente i lavoratori dipendenti dell´industria in senso stretto, gli abitanti giornalieri e notturni delle fabbriche italiane sono tuttora quasi quattro milioni e mezzo.
Mentre sembra che i lavoratori di fabbrica nessuno riesca a vederli, sono invece ben visibili a tutti le colonne di tir su autostrade e tangenziali, i treni merci lunghi un chilometro che rombano a due metri da noi mentre sulla banchina aspettiamo l´eurocity, le decine di migliaia di container che riempiono i porti e le piattaforme intermodali. È vero che parecchie di quelle merci provengono dall´estero. Ma non meno voluminose sono le nostre merci che viaggiano su tir, treni e navi dirette verso destinazioni straniere. Dopo essere uscite da una fabbrica. Dalla quale esce anche una domanda ininterrotta di servizi. Ricerca, informatica, reti di comunicazione, logistica, manutenzione, consulenze varie, amministrazione, formazione e altro: una bella quota, insomma, di quel che vien denominato terziario. Chiudete o delocalizzate la fabbrica, e la relativa quota di terziario scende a zero. È uno dei debiti poco noti che economia e società hanno verso la fabbrica e quelli che ci lavorano.
Corriere della Sera 12.10.07
Il saggio di Giuseppe Ruggieri
Un incontro senza condizioni
di Alberto Melloni
La teologia — il logos di Dio — non è materia facile. Tanto più in Italia dove l'implicito patto fra clericali e anticlericali l'ha espulsa dalle università e l'ha chiusa nei seminari. E non è decisa dalla scelta dell'oggetto, perché un'insalata di parole sull'anima, resta insalata. La teologia è decisa nella sua qualità dalla capacità di parlare nello stesso momento alla fede vissuta e alla razionalità. Per questo La verità crocifissa che Giuseppe Ruggieri manda ora in libreria (Carocci, pagine 234, e
19,50) è un libro di teologia di grandissima importanza, anche per i non specialisti. Non mancano le tecnicalità che lo distinguono dal presappochismo. Non mancano le opzioni di fondo come quella di leggere la Bibbia con gli esegeti e non contro o senza. Ma ciò che al lettore resta è la sensazione di aver trovato una chiave di lettura, disputabile e disputata, sul dato costitutivo e originario del cristianesimo.
Tutti ormai conoscono la posizione che l'allora professor Ratzinger (che con Ruggieri partecipò alla fondazione della rivista
Communio) espresse nelle sue lezioni del 1969: il simbolo dei concili di Nicea e Costantinopoli, il Credo
che ancora oggi si dice nella messa, rappresenta per lui il punto d'approdo che iscrive in modo irrevocabile il diritto della cultura greca nell'espressione della fede cristiana e dunque la razionalità che per lui coincide quasi col Logos
del vangelo di Giovanni. La tesi di Ruggieri, apparentemente, è spostata di pochissimo; ma con conseguenze capitali. Perché per Ruggieri tutto si gioca nel modo in cui il nuovo testamento racconta la relazione concreta di Gesù coi peccatori e l'enunciato del concilio di Calcedonia sulla relazione fra le nature divina ed umana «unite e non confuse» dall'unità della persona. Questo principio «relazionale» — che sale dalla «decisione» di Gesù di sottomettersi all'umano — è dal punto di vista dell'autore la verità per il pensare cristiano davanti all'alterità, anche e soprattutto nell'oggi.
Un oggi nel quale sembra che la relazione che Dio stabilisce tramite la croce con ogni concreto peccatore — perché non c'è altro tipo d'uomo, davanti a lui — sia diventata muta o irrilevante: e da questo discende quel vezzo tipico delle discussioni bioetiche nelle quali il relativismo clericale sfila a sciorinare principi che «non c'entrano con la fede », vantandosi di enunciare «precetti di diritto naturale » che per questo dovrebbero essere da tutti accettati o a tutti imposti. Ma se ciò fosse il pensiero cristiano in un mondo renitente ai valori — brutalizzo la questione che Ruggieri lima con finezza — la fede a che cosa serve? A lucidare l'argenteria della morale aristotelica? A salare col pessimismo le insipide zuppe della politica?
Per Ruggieri è chiaro che su questo punto non si gioca una tesi teologica, ma la vita cristiana. Giacché proprio il trastullo del «naturale» finisce per evirare la forza della storicità evangelica e per ridurre il giudizio sul presente a opinionismo. Mentre la fede, se vuole e sa partire dalla croce, se vuole e sa leggere il comando eucaristico rivolto alla sinassi dei peccatori, si manifesta come capacità di sostenere l'umano in ciò che esso è: prima e al di là d'una teoria dei valori, prima e al di là di una teoria dell'esistenza, prima e al di là d'una antropologia teologica sul senso.
L a verità cristiana è confessione dell'esperienza di Dio, che «sostiene» ciò che gli è irrimediabilmente lontano — l'esperienza dell'uomo, delle società, della storia e via dicendo — in attesa che si compia la promessa della commensalità messianica. È così che si riesce a cogliere in modo non astratto, ma nel concreto della grazia, ciò che forma il deposito della fede sul modo in cui Dio si è «messo sotto» per sostenere in Gesù la storia umana. Secondo Ruggieri questa sottomissione che sostiene (in greco l'hypomonè), è «la modalità concreta della speranza. Chi spera nel futuro del carico che porta, non lo getta via e non lo abbandona, ma ci resta sotto. Hypomonè è l'atteggiamento del cristiano che spera, per tutti gli uomini e le donne che gli è dato di incontrare e per tutte le cose che gli è dato di sperimentare, la pace, la gloria e la bellezza della creazione trasfigurata, che accetta quindi, facendosene carico, di portare la loro diversità rispetto al regno, in un'agonia affettuosa che tiene compagnia al Cristo, come diceva Pascal, fino alla fine del mondo».
Liberazione 12.10.07
Ergastolo al prete del "genocidio"
La Chiesa si scusa e predica l'oblio
di Angela Nocioni
Avvicinava gli spinotti dell'elettricità ai genitali del torturato e sorrideva: «Ehi, attento alla macchina». Poi si aggiustava il colletto bianco, asciugava le mani sul sottanone e si sfiorava gli occhiali sul naso.
Il sorriso è svanito, ma il tic nervoso è rimasto. Ha passato il pomeriggio in aula ad accarezzarsi la montatura degli occhiali padre Christian von Wernich, il sacerdote cattolico condannato martedì all'ergastolo dal tribunale numero Uno di La Plata per l'assassinio di sette persone, 31 casi di tortura e 42 sequestri illegali «durante il genocidio compiuto dai militari argentini dal 1976 al 1983». Era il cappellano della polizia Bonaerense, il processo ha dimostrato che il suo ruolo era estorcere informazioni ai sequestrati.
La parola "genocidio" scritta in una sentenza ha un valore in Argentina, dove i macellai del regime, solo appena appartati dalla scena pubblica, manovrano affari e nomine dalle loro tenute di campagna.
Mai un rappresentante della gerarchia cattolica era stato finora condannato come diretto responsabile dei crimini commessi durante la dittatura. Pio Laghi giocava a tennis con Videla, preti rubavano confessioni a sequestrati e quattrini ai familiari, ma quella di La Plata è la prima condanna in trenta anni per un esponente della Chiesa.
Nemmeno una parola è stata pronunciata né dal Vaticano né dai vescovi argentini, nulla è stato fatto per correggere la linea della difesa, ferma sull'assoluta negazione dei fatti.Von Wernich ha visitato almeno quattro campi clandestini di reclusione nella zona di La Plata conosciuti come Circuito Camps negli anni della dittatura (verità innegabile confermata
in aula da numerosi tesimoni), ma l'ha fatto per esercitare la «sua funzione pastorale». Questo hanno ripetuto i suoi avvocati senza che nessuno, né da Roma né da Buenos Aires, li abbia consigliati ad aggiustare il tiro.
Monsignor Martin de Elizalde, diretto superiore del sacerdote condannato, a sentenza pronunciata ha diffuso il seguente comunicato: «Esprimo a nome della comunità ecclesiastica la convinzione che il vangelo di Gesù Cristo impone a noi che vogliamo essere suoi discepoli una condotta che mostri il rispetto per i nostri fratelli… ci dispiace che nella nostra patria ci sia stata tanta divisione e tanto odio che come chiesa non abbiamo saputo prevenire e sanare. Che un sacerdote, per azione o omissione, fosse tanto lontano dalle esigenze della sua missione ci porta a chiedere perdono con pentimento sincero… Speriamo che la nostra società trovi il sentiero della tanto desiderata riconciliazione che richiede verità, giustizia, pentimento e perdono».
Riconciliazione è la parola usata da trent'anni contro chi chiede verità e giustizia. La stessa parola scelta dagli avvocati della difesa a La Plata e da tutti coloro che giustificano i crimini commessi dal regime invocando la teoria dei due demoni, versione australe della nostra teoria degli opposti estremismi. La stessa parola scritta dal presidente dell'episcopato argentino, il cardinale Jorge Bergoglio, per chiedere di «allontanarsi tanto dall'impunità come dall'odio e dal rancore» e ripetuta dai vescovi che insistono: «se qualche membro della chiesa avallò con complicità reati di repressionesi lo fece sotto sua personale responsabilità». Negare il ruolo della chiesa cattolica in sostegno alla dittatura. La stessa posizione da trent'anni.
«Figlio mio, la vita degli uomini la decidono Dio e la tua collaborazione» sussurrava Von Wernich durante gli interrogatori. Ai detenuti spiegava: «Non dovete odiare quando vi torturano». A chi chiedeva di una neonata nella prigione clandestina rispondeva: «I figli devono pagare la colpa dei genitori». Il cappellano ha ascoltato le deposizioni in aula.
Solo un commento: «testimonianze impregnate di malizia». Julio Emmed, agente di polizia, racconta di sette detenuti uccisi dopo la promessa dell'esilio sicuro. Tra i setti c'era una una ragazza incinta. Ha partorito in cella. Sua figlia è stata battezzata da Von Wernich. Lui ascolta, ogni tanto abbassa la testa e scribacchia a matita su un foglio. Si dice vittima di una cospirazione contro di lui costruita con accuse false e paragona i testimoni al demonio. Ripete che lui nei centri di prigionia di Banfield, Pozo de Quilmes, Cot1 de Martínez e Arana ci andava a rincuorare i sequestrati. Vittime e testimoni descrivono la sua partecipazione alle sessioni di tortura.
« Con la sottana macchiata di sangue giustificava i torturatori e li incitava a continuare»ha detto in aula Alejo Ramos Padilla, che rappresenta la famiglia del giornalista Jacobo Timmerman, fondatore di Primera Plana sequestrato inisieme ad altri cronisti e tenuto prigioniero fino al 1980 ed autore del libro "Preso sin nombre, celda sin número", una delle testimonianze più dettagliate dei metodi di tortura nei campi argentini. Il processo di La Plata è stato assediato da un'atmosfera di grande tensione.E' il secondo giudizio celebrato in Argentina dopo l'annullamento delle leggi di Punto final e Obedencia debita che garantivano l'impunità ai collaboratori del regime. Il primo, che ha condannato l'anno scorso all'ergastolo Miguel Etchecolatz, capo della polizia di Buenos Aires, ha avuto come testimone chiave Jorge Julio López che ha riconosciuto Etchecolatz dalla voce.
López è sparito dopo il processo. Le sue chiavi sono state trovate giorni dopo nel giardino di casa. Non se ne ha notizia da un anno. I tre giudici che hanno condannato con verdetto unanime padre Christian von Wernich sono gli stessi del processo a Etchecolatz. Il presidente del tribunale è Carlos Rozanski. Ci vuole coraggio in Argentina a firmare una sentenza come quella che da ieri porta il suo nome.