sabato 5 aprile 2014

Repubblica 5.4.14
Il premier con la famiglia da Bergoglio
Renzi in Vaticano, il Papa scherza coi figli


ROMA. Matteo Renzi incontra per la prima volta Papa Francesco. Il premier arriva in Vaticano nel pomeriggio alla guida di una Lancia Delta blu. Al suo fianco la moglie Agnese e seduti dietro i tre figli della coppia, Francesco, Emanuele ed Ester. L’auto entra dall’ingresso del Perugino, il più vicino alla casa Santa Marta, residenza di Jorge Mario Bergoglio. Un colloquio semplice, informale e familiare, fuori dal protocollo. Tanto che il Pontefice riceve la famiglia Renzi senza nessun assistente al suo fianco. L’incontro della famiglia del premier, che nelle intenzioni dei protagonisti sarebbe dovuto restare riservato, dura venti minuti ed è all’insegna della cordialità. Durante l’incontro il Papa ha anche scherzato con i tre figli del premier, chiesto dei loro studi e ha parlato con Matteo e Agnese della loro vita familiare e religiosa. Tra i pochi argomenti di attualità toccati dal Papa e dal presidente del Consiglio italiano quello dell’immigrazione, tema che con l’arrivo della primavera inevitabilmente tornerà ad essere pressante. Renzi ha lasciato il Vaticano intorno alle 18,30, questa volta a bordo di un pulmino, ed è rientrato con la famiglia a Pontassieve. Prima dell’incontro Francesco aveva fornito un piccolo ”assist” a Renzi: in un dialogo con alcuni ragazzi fiamminghi trasmesso dalla tv belga Vrt ha tessuto le lodi dei «giovani politici» che «parlano una nuova musica». Se ha fatto poi un esempio negativo parlando dell’Italia: («la disoccupazione giovanile dai 25 anni in giù è quasi del 50 per cento... «), ha poi risposto a chi lo ha definito un Papa comunista. Ma ieri Bergoglio si è sentito bollare in modo inedito: Beppe Grillo in un comizio lo ha infatti definito «il primo grillino della storia».

Repubblica 5.4.14
Il premier e Bergoglio
Preti amici e pochi cardinali la fede low profile di Matteo
di Paolo Rodari

CITTÀ DEL VATICANO. UNA religiosità sentita, ma vissuta strettamente nel privato, volutamente tenuta ai margini dalla vita pubblica, quella dell’amministratore di città che quando decide di competere per la leadership del proprio partito di riferimento basa la campagna elettorale non solo sullo «ius soli», ma anche sui diritti civili, il riconoscimento delle coppie di fatto. Temi scomodi per le gerarchie ecclesiastiche che, non a caso, quando sono interrogate su di lui dicono: «È sfuggente, non sappiamo come prenderlo».
Matteo Renzi non ha in Vaticano le entrature che grazie a Gianni Letta e Federico Toniato avevano rispettivamente Silvio Berlusconi e Mario Monti. Eppure la sua vita religiosa è autentica, custodita nel silenzio di Pontassieve, nella chiesa di San Giovanni Gualberto, quella dell’amico don Luciano Santini. E anche in casa, nei gesti intimi di tutti i giorni, il segno della croce prima di mangiare, le preghiere della sera. «Che dici ho fatto bene?», chiese alla moglie Agnese una sera del 2009, scendendo dal palco su cui aveva appena annunciato la sua candidatura a sindaco di Firenze. «Sì, abbiamo pregato tanto», rispose lei. Preghiere sussurrate non solo fra le mura domestiche, ma anche in Sardegna, durante un ciclo di esercizi spirituali guidati dal gesuita padre Enrico Deidda. Tra Cagliari e Villa Simius, Matteo e la moglie Agnese siedono periodicamente assieme alla scuola di sant’Ignazio di Loyola, il santo fondatore dell’Ordine dei gesuiti. Giorni di ritiro assoluto, per discernere il proprio posto nel mondo alla luce delle indicazioni di Dio, nella consapevolezza però dell’autonomia della coscienza.
Meno gerarchie, più fede vissuta. Tanto che non è un caso che fra le sigle dell’associazionismo cattolico più legate a Renzi ci sia l’Agesci, l’associazione low profile di guide e scout cattolici italiani. Seppure, negli anni giovanili, ci fu una breve “sbandata” per un gruppo seguace di una fede più decisa e incidente, ovvero Gs, la costola studentesca di Comunione e Liberazione guidata da don Paolo Bargigia, oggi missionario in Perù. Si devono a questa frequentazione le citazioni del premier di Chesterton, Dostojevskij e del poeta francese Charles Peguy. E frequentazioni cielline ha avuto il suo grande amico Marco Carrai, attualmente presidente della società che gestisce l’aeroporto di Firenze, manager con contatti eterogenei. È di Carrai un libro sulle «falsità» di Dan Brown, bugie e falsi storici, scritto con Franco Cardini, Maurizio Seracini e John Paul Wauck, curatore di “Un cammino attraverso il mondo di San Josemaria Escriva”, fondatore dell’Opus Dei.
Cl e l’Opus Dei, un movimento ecclesiale e una prelatura a cui Renzi non ha mai aderito. Seppure contatti ve ne siano stati non pochi. Non molto tempo fa gli chiesero dei suoi rapporti con la Compagnia delle Opere. Rispose: «Trovo stravagante l’atteggiamento della sinistra verso la Compagnia. L’unico politico che ha chiuso il Meeting di Rimini si chiama Pierluigi Bersani. Se Bersani può parlare con la Cdo, non vedo perché non ci possa parlare qualcun altro».
Certo, con qualche esponente della gerarchia i rapporti sono più ravvicinati. Ex scout è Renato Boccardo, attuale arcivescovo di Spoleto, per anni guida spirituale dell’Agesci, segretario del Governatorato vaticano e organizzatore dei viaggi di papa Wojtyla. Fra i due i rapporti sono buoni. Così anche con l’arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori, seppure la scorsa estate qualcosa non andò per il meglio. Renzi rispose in modo piccato a un’omelia di Betori dedicata al degrado morale del capoluogo toscano. Disse che l’intervento di Betori era di matrice ruiniana, «un linguaggio della scuola della vecchia Conferenza episcopale italiana » . Anche se poi, lo scorso gennaio, in occasione di un incontro pubblico, i due si sono abbracciati e hanno dichiarato «reciproca stima e rispetto dei ruoli ».
Papa Francesco, ricevendo ieri in udienza privata Renzi e la sua famiglia, sembra abbia voluto assecondare questo tratto non politico del credere del premier. Che non a caso è entrato in Vaticano da una porta laterale, quella del Perugino, dove hanno accesso i fattorini di Santa Marta, i domestici, cuochi e donne di servizio. I consueti canali diplomatici sono stati tagliati fuori nell’organizzazione dell’udienza. Renzi si è fatto vivo direttamente con la casa pontificia, la «famiglia» del Papa. Il tutto, insomma, all’insegna di un profilo tenuto volutamente basso, una linea in un certo senso «subìta» dalle gerarchie vaticane, con papa Francesco però consenziente.

l’Unità 5.4.14
Bergoglio: macché comunista, amare i poveri è Vangelo
Francesco in un incontro con studenti belgi: «Questo è il cuore dell’annunico di Gesù»
di Giuseppe Vittori

Il dubbio che si trattasse di una malattia diplomatica, di un escamotage studiato a tavolino da Berlusconi e dai suoi legali per allontanare, a mezzo certificato medico, l’udienza del 10 aprile quando i giudici del Tribunale di sorveglianza di Milano dovranno decidere tra affidamento ai servizi sociali o arresti domiciliari, è venuto a più d’uno. Ma a smentire l’ipotesi un po’maligna ha provveduto il fido e sdegnato Giovanni Toti uscendo dall’Ospedale San Raffaele in cui hanno fatto a gara lui, la figlia Marina e il figlio Piersilvio a chi arrivava per primo al capezzale del degente peraltro presidiato dalla giovane fidanzata Francesca Pascale.
L’ex Cavaliere è ricoverato dall’altro giorno per un’infiammazione del ginocchio sinistro e uno stato di artrosi «compatibile con l’età del paziente» hanno fatto notare i sanitari che stanno procedendo con tutte le indagini del caso, Tac compresa. «Escludo nel modo più assoluto l’ipotesi» ha detto Toti che, piuttosto, ha mostrato tutto il suo rammarico per un leader allettato e, quindi, sottratto anche se per pochi giorni alla campagna elettorale.
«Se il ginocchio gli fa male troveremo un altro modo per far sentire la sua voce» ha rassicurato il consigliere politico. E Berlusconi non l’ha deluso collegandosi telefonicamente con i vertici siciliani di Forza Italia riuniti per nominare i nuovi coordinatori regionale. «Visto che sono giovane in questi ultimi mesi ho abusato del mio fisico e lavorando dalle 7 del mattino fino alle tre di notte non mi sorprende che questo sia il risultato ». La voce un po’ impastata «per i farmaci e gli antidolorifici», certamente dimesso anche se, riferisce chi lo ha incontrato, «tranquillo e sereno» Berlusconi ha voluto parlare ai suoi anche se poi è stato reso noto che è stata annullata la prevista partecipazione ad una manifestazione elettorale che si terrà lunedì a Torino. Non è dato sapere ancora la diagnosi e se oggi ci sarà il rientro a casa. Figuriamoci, quindi, se il leader forzista può mettersi in giro per l’Italia a far comizi.
SONDAGGI IN CALO
Eppure i suoi se lo augurano, e di cuore. Pare che, sondaggi alla mano, ne va della sopravvivenza stessa del partito, almeno nei piani alti della politica. Il 16,9 per cento di cui viene accreditata Forza Italia, il calo costante dei consensi paragonabile solo al periodo sul finire del 2012 in cui lui aveva lanciato Alfano e aveva fatto un passo indietro per essere costretto, poi, a farne un paio avanti per recuperare, l’immobilità (fisica per ora) ma anche l’ormai imminente decisione dei giudici, destano preoccupazione nella compagine di partito e segnalano inesorabilmente il declino di un uomo che ha segnato gli ultimi anni della vita politica italiana. È vero che con Berlusconi non si sa mai cosa può accedere ma è anche vero che mettendo insieme i segni dell’età e la situazione del partito l’ex Cavaliere non naviga in acque tranquille. Tanto più che è scattato il si salvi chi può anche tra i più fedeli con un continuo cambio di atteggiamento che non fa più capire chi è falco e chi è colomba. Tenace e impavido resiste Brunetta che invita a non illudersi perché «Berlusconi è sempre più in campo, forte e legittimato da 167 milioni di voti presi dal 1994 ad oggi...Per questo è temuto, per questo devono trovare un modo alternativo, ma antidemocratico per eliminarlo dalla scena politica».
Torna così l’attacco ad una sentenza ingiusta, politica, che nessuno di chi avrebbe potuto ha voluto sanare. A cominciare dal presidente della Repubblica che non ha concesso la grazia o, almeno, quell’agibilità politica che anche l’altra sera pare Berlusconi sia andato al Quirinale a sollecitare ricevendo una risposta prevedibile che è nella posizione più volte espressa e confermata dal Capo dello Stato. Una richiesta che parte dall’assunto sbagliato che non tutti cittadini sono uguali davanti alla legge. E lo sarebbe ancora meno chi può consentirsi di pensare che ci possa essere uno scambio tra questioni di interesse personale e l’appoggio alle riforme costituzionali, pure confermato sia al Capo dello Stato che al premier Renzi a mezzo Verdini.
Dal suo letto d’ospedale, comunque, l’ex Cavaliere ha continuato a seguire il suo zoppicante partito perché ci sono da decidere le candidature per le prossime consultazioni europee. Gli unici punti fermi sono i capolista: Raffaele Fitto al Sud, Antonio Tajani al Centro e Giovanni Toti nel Nord ovest. Le altre sono tutte caselle da riempire.

Repubblica 5.4.14
Papa Francesco il comunismo e Dio
di Adriano Sofri

LE PAROLE di un Papa vogliono almeno una doppia lettura: per quello che dicono, e per il luogo da cui sono dette. Un luogo comune, o il balcone di San Pietro. L’abito fa (e disfa) il monaco. «In fondo, non ha detto che: Buonasera». Per esempio, sulla vita famigliare, «le tre parole chiave del Santo Padre sono: Permesso, grazie, scusi». L’altro giorno, a giovani intervistatori belgi, credenti e no, ha detto che qualcuno pensa che «il Papa sia comunista, ma no, questo è il Vangelo». L’amore per i poveri è il cuore del Vangelo. Ha guadagnato i titoli d’apertura: eppure è un pensiero molto semplice — banale, dirà qualche malcontento.
PIÙ o meno come inaugurare il pontificato dicendo Buonasera. Un po’ di tempo fa aveva detto: «Non ho mai condiviso l’ideologia marxista, perché non è vera, ma ho conosciuto tante brave persone che professavano il
marxismo».
Buongiorno. Era ora di svegliarsi. Il mondo è stato pieno di persone bravissime che hanno professato — e a volte professano ancora — il marxismo, e non di rado l’hanno pagata cara, oltre che ad opera dei loro nemici, per mano dei loro confratelli di fede. Nella provincia d’Italia si è continuata la crociata contro i comunisti mentre al Quirinale ne sedeva, signorilmente, uno. (Gli unici comunisti buoni sono quelli morti, o almanco molto vecchi). È la coda lunghissima dell’ipocrisia a dare all’affabilità del Papa questa risonanza e a riscattarla dall’ovvietà o, peggio, al sospetto di una popolarità a buon prezzo. Ora, una volta riconosciuta la buona volontà e il calore umano delle frasi del Papa su marxisti e comunisti brave persone, conviene riconoscere anche che il punto è un altro, molto più impegnativo per lui e la sua Chiesa: la rivendicazione del Vangelo.
Il Papa dichiara un’intenzione di prendere sul serio il Vangelo. Prendere sul serio il Vangelo — “sul serio”, non “alla lettera” — è molto difficile per un cristiano: impossibile, secondo Freud, secondo il Grande Inquisitore, e secondo secoli di dotti gesuiti. Ancora più difficile, si direbbe, per un Papa. Un Papa può condannare o approvare il santo o il pazzo di Dio che si voglia mettere sulla strada della fedeltà al Vangelo: Francesco d’Assisi, per esempio. Oppure, non so, il vecchio Tolstoj — lui non aveva il Papa a scomunicarlo, ma il Santo Sinodo ortodosso. Ma che il Papa si metta di persona su quella strada, ecco un proposito temerario. La Chiesa è cresciuta ed è sopravvissuta fino a oggi — fenomeno, per chi non evochi lo Spirito e la Provvidenza, comunque formidabile — perché è riuscita a proclamarsi fedele ed erede di Gesù e del suo Vangelo persuadendo se stessa e il resto del mondo dell’impossibilità di realizzarne l’insegnamento.
Disinnescare la carica rivoluzionaria del Vangelo e governarne il compromesso col mondo senza arrendersi del tutto al mondo è stata l’impresa tentata dalla Chiesa, cristiana e soprattutto cattolica. Ora, il Papa pretende di provarci lui a prendere sul serio il Vangelo, benché lo faccia con quella affabilità domesticissima, telefonando attorno, e prendendosi il nome di Francesco. Francesco d’Assisi teneva molto a che il suo Papa lo autorizzasse, ma probabilmente si sarebbe allarmato se l’avesse visto denudarsi della veste pontificale come si era denudato lui dei panni paterni. Neanche un secolo dopo il monaco Pietro da Morrone arrivò bensì al papato da una sua grotta e indosso un saio, col nome di Celestino V, ma durò quattro mesi prima di rinunciare e finire prigioniero del suo successore. Gli avversari di papa Bergoglio diffidano anche di una sua propensione al misticismo che, congiunta col pauperismo, lo allontanerebbe dalla dottrina — e dal razionalismo di Ratzinger — per inclinarlo al populismo. Troppi ismi, comunque. In realtà papa Francesco, ammiratore di mistiche e mistici, sembra avere predilezioni opposte, e si può immaginare che gli appartamenti vaticani somiglino alla solinga grotta di Pietro da Morrone più che il Bed and Breakfast di Santa Marta.
Quanto al pauperismo, che ha una ricca e preziosa storia nel cristianesimo — e in quell’apostolato socialista per il quale Gesù era “il primo socialista” — nel caso nostro si misurerà prima di tutto sulle unghie tagliate ai finanzieri vaticani. Scacciare un po’ di mercanti dal tempio, non è ancora un prendere sul serio il Vangelo: una premessa, diciamo.
Per il resto, sentir evocare polemicamente il pauperismo fa rizzare i capelli, con la povertà che c’è in giro e il fanatismo della ricchezza da cui veniamo. L’unica accezione deplorevole del pauperismo è l’oculato amore per i poveri che tiene a conservare la povertà. («Per fare una buona dama patronessa / fate la maglia in color cacca d’oca / ciò che permette, la domenica, alla messa / di riconoscere ciascuna i propri poveri» — Jacques Brel). Ma una simile critica è un gran lusso, in tempi di ricchismo. C’è un amore sviscerato per la ricchezza, e un rancore irresistibile per i ricchi. Non è facile capire dove si collocherà Francesco fra il Grande Inquisitore e il Prigioniero silenzioso della meravigliosa Leggenda di Dostoevskij: se riuscirà a stare dalla parte del prigioniero, sarà rivendicando, con la libertà di ciascuno, l’indulgenza, la misericordia. Forse solo attraverso la misericordia diventa possibile prendere sul serio il Vangelo. Misericordioso si considerava il Grande Inquisitore, e ogni suo successore, per la disposizione sacrificale a prendere su sé il peso insostenibile della libertà delle persone e in cambio saziarne la fame. Questo Papa propone un Vangelo in cui Gesù è l’avvocato difensore. Eugenio Scalfari l’aveva sollecitato fino all’abolizione del peccato e dell’inferno. Se non l’inferno di là, in terra Francesco l’ha abolito, l’ergastolo, quello che la laica repubblica italiana si tiene caro in barba ai principi della sua Costituzione. «Per quanto l’uomo possa cadere in basso, non potrà` mai cadere al di sotto della misericordia di Dio». Anche questo forse è ovvio per un cristiano, ma resta notevole quel: Mai. (La formula giudiziaria decreta: “Fine pena: Mai”). Gli ortodossi chiedono: «Ma da che cosa si deve salvare l’uomo se si predica o si lascia intendere che l’inferno non esiste o, se esiste, e` vuoto?» Dal proprio inferno.

l’Unità 5.4.14
La trappola del populismo buono
di Claudio Sardo

Populismo è una parola consumata dall’uso e deformata nel significato. Tuttavia conserva suggestioni radicali. Il suo humus è la crisi «della democrazia rappresentativa e della sovranità moderna», come ha scritto ieri su l’Unità Michele Ciliberto. Ad essa risponde travolgendo ogni mediazione.
I partiti, i corpi intermedi, la società di mezzo, persino il «valore» del compromesso politico. Resta la relazione diretta, anzi la comunicazione diretta, tra leader e popolo. Offuscati il senso proprio e i rimandi storici, populismo è oggi soprattutto una narrazione, un linguaggio. Eppure la lingua è pensiero, politica. Se il carisma del capo non aiuta a costruire una nuova trama di potere democratico e di cooperazione sociale, inevitabilmente finisce per servire se stesso, oppure le oligarchie, le tecnocrazie, i poteri già consolidati.
Non pochi usano l’attributo «populista» anche per Matteo Renzi. Lo fanno pure alcuni presunti sostenitori. Il «populista buono», il «populista democratico», il «populista di sinistra». Farebbe bene Renzi a sfuggire a simili abbracci. Perché quella definizione - che muove dalla sua capacità di toccare i tasti dell’antipolitica e di competere sullo stesso terreno di Berlusconi e Grillo - contiene in sé l’esito più nefasto: la politica non si riconnetterà più con il popolo attraverso un nuovo paradigma rappresentativo, ma potrà soltanto aggrapparsi al marketing elettorale, agli annunci che sostituiscono i programmi, alle emozioni che risarciscono di un potere sempre più accentrato. Renzi si muove su un crinale sottile, difficile. Nella drammaticità di questa crisi può essere la risorsa estrema della politica democratica come può rappresentarne la resa definitiva. Ma chi esalta Renzi come il «populista democratico », in realtà, si è già arreso. E cinicamente spera che l’esercizio del potere gli elargisca qualche marginale dividendo. Non c’è più la speranza, né forse la voglia, di combattere per invertire davvero la rotta, di cambiare la dottrina dominante, di contrastare la svalutazione della politica, del lavoro, delle istituzioni democratiche. La politica non è più autonoma, non è più neppure un contropotere del mercato. Solo nel leader c’è un residuo di potere personale.
A sinistra c’è chi diffida di Renzi. Non sente propria la sua lingua. Teme che questa partita con Grillo e Berlusconi giocata fuori casa porti male. Guarda con preoccupazione il decisionismo del governo, soprattutto gli squilibri democratici indotti dalle riforme elettorali e costituzionali. Tanti però, anche a sinistra, seguono invece Renzi con speranza. Apprezzano in lui la forza che altri non hanno. E la capacità di creare aspettative di rinnovamento. Non ne possono più della palude nella quale siano finiti e vedono in Renzi una leva, un ponte, un motore di cambiamento. Per questo scommettono su di lui.
Di sicuro, la sinistra non può stare ferma a guardare. Non può giocare, come fa Grillo, allo sfascio dell’Italia, sperando di trarre un vantaggio elettorale dal collasso delle istituzioni e dall’aggravamento delle ferite sociali. Questa è la tecnica dei movimenti eversivi. Ma la sinistra non può neppure trattare Renzi come fa Berlusconi, mettendosi alla scia con cinismo e sperando che la cabala offra ad un tratto una nuova chance. La partita va giocata adesso. E non è scontata. Sul crinale di Renzi la posta in palio è molto più di un destino personale. Che Renzi riesca ad essere la risposta democratica al populismo, e non una resa, dipende anche dalle forze che si metteranno con lui in campo. Serve la critica, la passione di molti, la condivisione e anche la capacità di discernere i modi e i tempi della battaglia. L’Italicum va cambiato, molto più di quanto Renzi oggi non sia disposto ad accettare, ma la riforma elettorale va fatta in tempi brevi. Allo stesso modo il nuovo Senato deve vedere la luce, anche se l’intero capitolo delle garanzie costituzionali va riscritto. La riforma del lavoro deve distribuire opportunità, liberare risorse, ma la stabilità va premiata e la precarizzazione limitata. Anche gli 80 euro ai lavoratori dipendenti - la più popolare tra le misure finora annunciate dal governo - deve essere calibrata in modo da ridurre le possibili iniquità. Insomma, occorre incardinare il progetto in un campo vasto di attori e realizzarlo con spirito di ricostruzione nazionale. La vecchia concertazione non è più utile? Le vecchie liturgie del dialogo politico sono inservibili? Bene. Ma la lingua e il metodo nuovi non possono smarrire la finalità di una ricomposizione sociale, di un allargamento (non restringimento) degli spazi democratici. Va ricostruito il nesso tra potere, popolo, comunità intermedie, lavoro, cittadinanza.
La sinistra è necessaria all’impresa. È vero, tante contraddizioni restano aperte. Ma cedere al populismo non può diventare soltanto un dilemma personale del premier. Il populismo sarà battuto solo da una nuova relazione tra sinistra e popolo. E comunque è sempre la storia concreta ad offrire le opportunità e il terreno sui quali cimentarsi. Non è politica rifugiarsi in un salotto, buono o cattivo che sia.

La Stampa 5.4.14
Riforme, Boschi all’attacco di Rodotà
“I professori le bloccano da 30 anni”
Ed è subito rivolta nel Pd
qui
http://www.lastampa.it/2014/04/04/italia/politica/riforme-boschi-allattacco-di-rodot-i-professori-le-bloccano-da-anni-TNcIEQ3hXGF0CGRhHSnV1N/pagina.html

Repubblica 5.4.14
Il ministro: “Sono 30 anni che bloccano le riforme”
La Boschi: “Basta con i professori”
La Zampa e Fassina: “Rispetto”

ROMA. «Io temo che in questi trent’anni le continue prese di posizione dei professori abbiano bloccato un processo di riforma oggi non più rinviabile». Maria Elena Boschi attacca quelli che criticano i progetti renziani di riforme costituzionali. A partire da quella del bicameralismo che dovrebbe portare ad una nuova configurazione del Senato. Secondo il ministro delle Riforme, «ci possono essere posizioni diverse che sono legittime: in particolare trovo legittimo che Rodotà abbia profondamente cambiato idea, perché ricordo che nell’85 fu il secondo firmatario di una proposta di legge che voleva abolire il Senato. Ma dico che ci sono altrettanti costituzionalisti validi che invece sostengono il nostro progetto». Le parole del ministro non piacciono però ai democratici Stefano Fassina e Sandra Zampa. «Su riforme chi è al governo rispetti opinioni diverse anche quelle dei professoroni. No pensiero unico», scrive infatti su Twitter l’ex viceministro dell’Economia. La Zampa, aggiunge che «le parole della ministra Boschi mi producono sofferenza e disagio». «Non solo perché - spiega la deputata - la sua analisi non corrisponde alla realtà dei fatti». Non solo prosegue - perché ci sono professori come Ruffilli che hanno perso la vita per tentare di cambiare l’Italia, o hanno dato straordinari contributi al cambiamento mettendo la propria competenza e vita a disposizione del Paese, ma perché in un paese che deve lottare contro ignoranza e populismo, non possono produrre qualcosa di buono». Infine, conclude la Zampa, non si può colpire “una categoria” intera: «Si può argomentare in altri termini il proprio dissenso dalle loro obiezioni».

Repubblica 5.4.14
Lodati e offesi l’eterno destino degli intellettuali critici col Potere
di Filippo Ceccarelli

CHE lunghissimo strazio, ottuso e intermittente, questo dei professori o «professoroni » che siano: è sempre tutta colpa loro, come pure ogni volta sono invocati come gli unici salvatori, va così da più di trent’anni, quando presidente Renzi o la ministra Boschi erano all’asilo.
E quindi ci si poteva caricare l’orologio, massimamente ambiguo essendo oltretutto in politica il titolo, basti pensare che già Fanfani era, perfino nei bestseller di fantapolitica, «il Professore », appellativo che vent’anni dopo toccò a Prodi, sia pure da taluni accorciato in «Prof».
In realtà si parla, ma più ancora si straparla ben sapendo che in questo genere di polemiche, l’attacco al ceto dei sapienti, non di rado divenuti fastidiosi quanto i politici, da Mussolini in poi è un tratto costante e insopprimibile dello stile populista.
Ma in un tempo non troppo lontano i professori furono a lungo entità del tutto neutrali, o approssimative, nel senso che un democristiano che non fosse stato presidente, o ministro, o onorevole, era promosso automaticamente «professore», con la stessa grazia con cui a Roma i posteggiatori rivolgono agli automobilisti la qualifica « dotto’ », donde il professor Riondino, ad esempio, per le faccende dell’Emergenza, o il professor Vinciguerra, ramo scolastico.
Ovvio che nessuno dei due benemeriti insegnava, ma questo anche oggi è facoltativo. Il punto è che per loro natura i politici li sentono competitivi. Per cui, al netto del «culturame» schifato da Scelba, i primi intellettuali malvisti furono probabilmente quelli — Ruffolo, Amato, Cafagna, Manin Carabba — che attorno al ministro socialista Giolitti ruotava intorno alla Programmazione nei primi governi di centrosinistra. Professori «acchiappanuvole», non a caso, che insegnavano a credere nei «libri dei sogni».
Ma la realtà è che i leader comunque non accettano lezioni, piuttosto vogliono darle. A quel punto però — vedi Renzi che in tv suona la campanella scherzosamente annunciando «la fine della ricreazione» — il ruolo che si autoassegnano è semmai quello del maestro, s’intende elementare.
Ora, i processi di infantilizzazione del pubblico hanno fatto di recente passi da gigante. Se però occorre cercare il capostipite del dileggio anti-professorale, lo si trova già alla metà degli anni 80 in Craxi che tirò in ballo «moralisti e filosofi tanto a chilo», «intellettuali dei miei stivali » e una volta, riguardo a certi irrispettosi professori di Mon-doperaio, se ne uscì: «Mi hanno stufato, cambiamoli!».
Il paradosso, o se si vuole la buffa regolarità, è che quando la politica combina disastri, allora puntualmente riemergono i professori. Ecco dunque i governi tecnici del 1992-93, gli enti pubblici saccheggiati e delegati ai cattedratici o la «Rai dei professori ». I quali professori però, assaporato il dolce e nutriente frutto del potere, in genere si montano la testa, si agitano, si pavoneggiano, diventano rapidamente antipatici e finiscono per combinare, più o meno, gli stessi guai dei politici — e a quel punto niente Authority.
Sta di fatto che una generazione di osservatori politici è oggi in grado di conteggiare tre o quattro vampate di purificazione professorale, fuori e dentro i partiti, e altrettanti trionfanti ritorni della politica, o pretesi tali, comunque conservando nella memoria un alternarsi di storie al tempo stesso ora feroci, ora patetiche e anche comiche.
Il triste destino di Rodotà, chiamato dopo mille insistenze alla presidenza del Pds e poiscartato per la presidenza di Montecitorio per far posto a Napolitano e per giunta con i voti di Craxi. Oppure il lamento rivolto da Fisichella a Fini sul modo in cui gli spicci colonnelli di An avevano preso a trattarlo: «Gianfranco, mi hanno anche detto: “professore del cazzo!”». Per non dire del povero Miglio che non solo Bossi scartò dal governo, preferendogli il «texano» Speroni, ma volle in seguito alle sue proteste qualificare «una scoreggia nello spazio».
Ciò nondimeno, nel 1996 Berlusconi arruolò, oltre a Pera, i professori Rebuffa, Melograni e soprattutto Colletti, che era un uomo allegramente caustico e quindi alla Camera prese a parlare del Cavaliere come una specie di fratello scemo. Al che, giustamente dal suo punto di vista, quello se la prese: «Ma che vogliono questi Soloni?», perfezionando i propositi di Bettino: «La prossima volta me li prendo analfabeti».
Insomma, in Italia va così, secondo un circuito per cui a parrucconi e grilli parlanti seguono generalmente olgettine, cialtroni e Lavitola, dopo di che ricomincia il giro. Così pure Tremonti fece lo schizzinoso con i professori ma, oltre a esserlo anche lui, si trovò impelagato con Milanese; e se Alemanno giustificò il pranzone della pajata a Montecitorio con la motivazione che non doveva piacere agli intellettuali, beh, l’integralismo accademico di Monti e Fornero non è che abbia lasciato tutto questo bel ricordo.
A pensarci bene il professore, anzi il Rettore cominciò a perdersi quando smise di parlare ex cathedra armonizzandosi col palinsesto. Forse sono gli spettacoli i veri nemici dei professori e dei politici, forse è per questo che li reclamano e li avvicendano come un lunghissimo e prevedibile strazio.

Repubblica 5.4.14
“Deve ascoltare tutti i saggi e anche chi critica nel Pd Vanno discussi i poteri delle minoranze parlamentari”
Epifani, altolà a Renzi “Il rullo compressore sulle riforme non va”

ROMA. «La sfida per le riforme è lanciata, ma Matteo deve tenere conto delle critiche, non fare il rullo compressore». Guglielmo Epifani, l’ex segretario del Pd e leader della sinistra dem, dà l’altolà. E consiglia al premier di ascoltare proprio quei professori che lo criticano.
Epifani, i “distinguo” non sembrano intralci al cambiamento?
«Bisogna fare, però fare bene. Questa è una sfida molto complessa. Riguarda il superamento delle Province, che è stato già votato, la fine del bicameralismo con la trasformazione del Senato, la revisione del Titolo V e la legge elettorale. È la più grande sistemazione di poteri e di riforme istituzionali mai tentata in Italia, che consentirà di porre fine a quella transizione che dura da oltre 20 anni. Non si demonizzano perciò le critiche anche quando sono dure e non condivisibili ».
A chi si riferisce?
«Alle questioni poste da Gustavo Zagrebelsky e a quanto si sta discutendo in Senato anche nelle file del Pd».
Proprio i professori sono giudicati dal ministro Boschi artefici della melina di questi anni.
«Se si ha un disegno forte e convincente si deve sapere rispondere alle critiche nel merito. Va bene dire che c’è un nucleo di conservatorismo, però se il grosso delle responsabilità legislative è ricondotto a una sola Camera e si danno al governo corsie preferenziali, è evidente che si pone il problema anche del ruolo e dei poteri che si riconoscono alle minoranze parlamentari e va garantita loro una maggiore rappresentatività. Da questo punto di vista è stato un bene posporre l’iter dell’Italicum all’approvazione della riforma del Senato. Quando il governo ha ascoltato i suggerimenti della commissione di saggi voluta da Napolitano si sono trovate soluzioni. Andare o meno avanti dipende dalla determinazione politica, i professori non c’entrano».
Il Senato deve essere per forza composto da eletti?
«Se guardiamo all’esperienza europea e all’elaborazione della sinistra italiana non c’è bisogno che il Senato sia eletto direttamente dai cittadini. Abbiamo Camere alte di secondo livello, come in Germania. Ecco, la risposta alle critiche sta nel disegno complessivo delle riforme, che deve tenersi ».
Ci sarà una maggioranza al Senato o i senatori-tacchini, a cominciare da quelli del Pd, non voteranno la loro fine? «Nessuno si mette di traverso. Tutto il Pd è interessato affinché la sfida si vinca, se no si lascia un’autostrada ai populismi, alla incomprensibile politica di Grillo. Ma occorre un disegno generale anche per evitare i rischi di maggioranze diverse sui singoli provvedimenti, che Forza Italia non voti il superamento delle Province com’è accaduto, e che domani si possa verificare una cosa analoga.
Altrimenti si otterrà un vestito di Arlecchino istituzionale».
Anche lei è diventato renziano?
«Non è questo il punto, appartengo a un’area diversa del partito ma sempre mi sono battuto perché questa legislatura fosse costituente ».
La sinistra del Pd si opporrà al decreto lavoro?
«Penso che non sia la riforma necessaria, vedo risposte di stampo vecchio che vanno modificate».
Berlusconi a giorni sconterà la pena.
Teme il caos sulle riforme o ritiene che semplicemente il leader di Fi uscirà di scena?
«Tocca a Berlusconi fare quello che non ha fatto fino ad ora, dopo la condanna di agosto, cioè decidere una strategia per sé e per Fi, smetterla di inseguire scorciatoie, prendere atto della realtà».

La Stampa 5.4.14
L’incognita di essere ancora legati al Cavaliere
di Marcello Sorgi

Dopo i rispettivi incontri con Berlusconi al Quirinale e con Letta e Verdini a Palazzo Chigi, Napolitano e Renzi si sono ritrovati ieri mattina per fare il punto della situazione. Sulle scadenze più prossime, il Def e i provvedimenti economici che il governo deve portare all’attenzione dei severi controllori europei, la situazione è sotto controllo.
Bruxelles ha accettato l’impostazione renziana, secondo la quale il taglio delle tasse che consentirà di dare ottanta euro al mese in più a tutti quelli che guadagnano fino a mille e cinquecento euro sarà coperto quest’anno da un lieve peggioramento del rapporto tra deficit e pil (dal 2,6 al 2,8 per cento) e con i benefici del calo dello spread (ieri a quota 160) e degli interessi dei titoli di Stato. I conti veri occorrerà farli l’anno prossimo, quando la Ue pretenderà che le coperture nel bilancio diventino strutturali, cioè siano assicurate con tagli alla spesa.
Sul fronte riforme, invece, la prospettiva resta legata a Berlusconi. A Napolitano, che gli aveva parlato per quasi due ore mercoledì sera, Renzi è apparso fin troppo ottimista sulle effettive intenzioni del leader di Forza Italia, dopo le turbolenze che anche ieri sono venute dal centrodestra. Il consiglio del Presidente al premier è stato di affrontare il difficile percorso parlamentare al Senato con atteggiamento flessibile, cercando un’intesa che possa reggere anche nelle votazioni successive al primo passaggio in aula del nuovo testo costituzionale. Napolitano insomma è prudente, ma confida che questa sia la volta buona.
Lo scontro vero, ormai senza esclusione di colpi, è quello tra Renzi e Grillo. Ieri contro il leader del Movimento 5 stelle s’è mosso anche il vicesegretario del Pd, e stretto collaboratore del premier, Lorenzo Guerini, in pratica il reggente del Nazareno. Grillo ha risposto a stretto giro. La verità è che, come dimostrano ormai in modo inequivocabile i sondaggi, il muro contro muro quotidiano tra Palazzo Chigi e il maggior partito d’opposizione conviene a tutti e due. Ma se il 25 maggio l’ex-sindaco e l’ex-comico dovessero fare il pieno di voti a scapito di tutti gli altri, anche la stabilità del governo potrebbe risentirne.

Repubblica 5.4.14
Un rischio per la democrazia
di Alessandro Pace


MATTEO Renzi va ripetendo che le prossime elezioni politiche non si terranno prima del 2018, essendo questo il tempo necessario per approvare tutta una serie di riforme. Conseguentemente, secondo tale programma, l’Italia, per ancora quattro anni, avrebbe, oltre ad un Presidente del Consiglio non eletto, un Parlamento delegittimato dalla nota sentenza della Corte costituzionale. Ma delegittimato solo politicamente o anche giuridicamente?
A questo interrogativo tenterò di rispondere qui di seguito riprendendo e sviluppando quanto già scritto su queste pagine lo scorso 26 marzo. Di quell’articolo ribadisco la premessa. E cioè che tutte le sentenze dichiarative dell’incostituzionalità di una legge hanno efficacia retroattiva, con conseguente caducazione, a seguito di ricorso, dei provvedimenti posti in essere in applicazione prima della dichiarazione d’incostituzionalità. E quindi, se fosse stato applicato questo principio alla dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum, i parlamentari sarebbero dovuti andare tutti a casa e gli atti e i provvedimenti adottati sulla base delle leggi approvate nella XVII legislatura avrebbero potuto essere impugnati già per questo solo fatto. In poche parole: sarebbe stato il caos. Invece, cosa ha fatto la Corte? Richiamandosi al noto principio della “continuità delle istituzioni costituzionali”, la Corte ha sottolineato che l’incostituzionalità del Porcellum «non tocca in alcun modo gli atti posti in essere in conseguenza di quanto stabilito durante il vigore delle norme annullate, compresi gli esiti delle elezioni svoltesi e gli atti adottati dal Parlamento eletto». Quanto al futuro, la Corte, dopo aver indicato i principi cui le “nuove” leggi elettorali di Camera e Senato devono ispirarsi, ha richiamato ancora una volta, nelle battute conclusive della sentenza n. 1 del 2014, il principio della continuità dello Stato. E alla luce di esso ha affermato che «nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali».
Ma a quali “nuove consultazioni elettorali” la sentenza si riferisce? A quelle periodiche, previste dall’art. 60 della Costituzione, oppure a quelle conseguenti all’eventuale scioglimento anticipato delle Camere ai sensi dell’articolo 88 della Costituzione? Se al quesito si risponde nel primo senso (come direbbe Renzi) quella situazione di “sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa” a cui corrisponde una “sproporzionata compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea” — che è la situazione duramente stigmatizzata dalla Corte — paradossalmente si perpetuerebbe per altri quattro anni nonostante la declaratoria d’incostituzionalità. Ma quale mai sarebbe il senso pratico e giuridico della sentenza n. 1 del 2014, se oltre a non spiegare effetti sanzionatori per il passato, non imporrebbe alle Camere alcun obbligo per il futuro? È di tutta evidenza che un annullamento privo di effetti costituisce una insuperabile contraddizione. Né è sostenibile che in luogo della legittimazione elettorale, si farebbe luogo, ancora una volta, al principio della continuità delle istituzioni costituzionali. Infatti il richiamo a tale principio può bensì valere per brevi periodi, non già come succedaneo del voto popolare per i prossimi quattro anni: uno smacco per la democrazia.
La risposta da dare è quindi certamente nel secondo senso. Le “consultazioni elettorali” a cui allude la Corte sono quelle che si avrebbero a seguito dello scioglimento delle Camere, motivato per l’appunto sulla base dell’accertata illegittimità costituzionale del titolo di legittimazione del precedente Parlamento, e cioè il Porcellum. Di qui le conseguenze già accennate nel precedente articolo a proposito dei limiti modali, di contenuto e di tempo che incombono su un Parlamento delegittimato. Il quale, sotto il primo profilo, non avrebbe dovuto approvare una legge elettorale per la Camera del tutto irrazionale e prevaricatrice. Sotto il secondo, non dovrebbe approvare un disegno di legge di revisione costituzionale che, perseguendo evidenti finalità plebiscitarie, contestualmente snatura il Senato, modifica il procedimento legislativo e il titolo V ed elimina il Cnel, non rispettando così la doverosa omogeneità di contenuto: E inoltre incide sulla forma di Stato e di governo: un obiettivo che parlamentari politicamente e giuridicamente delegittimati non dovrebbero nemmeno immaginare di poter fare.
Infine, sotto il terzo punto — i limiti di tempo — un Parlamento delegittimato a causa del Porcellum, non dovrebbe, in linea di massima, durare più del tempo necessario per approvare una nuova legge elettorale e andare a nuove elezioni. Non solo perché questo è il senso da dare alla sentenza n. 1 del 2014 ma perché la permanenza in carica di un Parlamento delegittimato costituisce obiettivamente un rischio per la democrazia e la manna per l’antipolitica.

Repubblica 5.4.14
E il governo tagliò gli elefanti
di Stefano Benni



SCENA. Ore sei di mattina, un salone di palazzo Chi-gi. Su un gigantesco scranno sta Delrio vestito da Richelieu, sorseggiando un cappuccino. Risuona un fra-stuono di rotelle nel corri-doio, si spalanca la porta ed entra il premier Frenzy su uno skateboard, cade, rim-balza e si rialza.
Frenzy — Presto che è tardi non abbiamo tempo, al lavoro. Anzitutto, come mai è ancora tutto pieno di auto blu?
Delrio — Veramente le abbiamo rottamate quasi tutte — No, qua sotto c’è una Panda blu parcheggiata...
— Ma è la mia… — E allora? Dobbiamo dare l’esempio. L’ho fatta portare via dai vigili, adesso è già sotto la pressa — Ma maestà, io credevo che con auto blu si intendessero… — Zitto, zitto (gli beve il cappuccino) presto che è tardi. Allora si fa fuori sto Senato?
DELRIO— CIsarebbero delle controproposte. Dimezzarlo e tenere solo quelli con la barba. Oppure ventuno eletti da Napolitano. Oppure solo le figlie di Silvio. Oppure non chiamarlo più Senato ma Camera Bis, pagarli la metà e fargli fare anche le pulizie …oppure..
Frenzy — No, basta il Senato non lo voglio più… anzi pensandoci bene, tagliamo anche la Camera… cinquanta onorevoli bastano, così vendiamo Montecitorio, si fanno le riunioni in garage e si risparmia. Poi bisogna tagliare la Corte dei Conti, bastano due ragionieri. E la Corte costituzionale, via. Tanto la costituzione c’è già, basta leggerla. E tagliamo l’Istat, con quei dati economici che portano sfiga — Piano, maestà. Per l’economia ci vorrebbe una bella legge anticorruzione, ad esempio, sul riciclaggio, sui capitali delle banche — Calma, Delrio. Se si fan fuori le banche si fa fuori tutto. Tagliamo le spese delle filiali, via la catenella della biro, via le fotocopiatrici, via i ficus. — Va bene. Via anche le sedi gigantesche e le speculazioni finanziarie? — Oh bellino, ti ripeto, con le banche ci si deve andare piano. Poi mi raccomando, per l’evasione fiscale, un nuovo redditometro a pedali e scontrini più grandi.
— Per l’evasione fiscale ci vuole di più. Controllo conti esteri, revisione patteggiamenti, indagini sugli acquisti immobiliari, sequestri di beni..
—Piano piano... se vogliamo che gli investitori esteri tornino, non possiamo mettergli paura… bisogna che le indagini siano mirate, intanto tagliamo l’organico della finanza.
— E le indagini chi le fa?
— Dei volontari... anzi i boy scouts, di loro mi fido... quale evasore potrebbe mentire davanti agli occhioni di una Coccinella o di un Lupetto? … Poi tagli alle pensioni — È una riforma difficile ma bisogna affrontarla... ad esempio l’Inps….
— No riforma delle pensioni tipo pensione Souvenir a Rimini, tutte quelle a tre stelle passano a due stelle, via l’antipasto dal menù, incentivare il turismo russo, più tasse agli alberghi di lusso, via i bagnini dalle piscine anzi via i bagnini dalla spiagge e piste di sci più corte. Poi aboliamo la province — Ecco questo è importante — Ma proprio abolire no, diciamo che si fa un torneo, sono 109, si fa un eliminatoria tipo giochi senza frontiere e ne restano otto, poi si accorpano tipo Misernia, Milano — Isernia e Romanzaro, … e infine facciamo fuori le regioni — Grandioso!
— Ma non tutte, è vero c’è molta corruzione ma mica possiamo esagerare che poi chiedono l’indipendenza … poi via le comunità montane e in quanto ai parchi nazionali ne teniamo la metà, il resto tutte carciofaie e asparagiaie e via gli stambecchi e dentro le galline, s’abbassa il prezzo dei generi alimentari… — Maestà, mi sembra tutto un po’ confuso. E il piano di dissesto idrogeologico? Lo facciamo finalmente?
— Costa troppo. Tagliamo l’anticiclone della Azzorre che ha rotto le palle con tutte queste piogge.
— Non credo sia facile. E l’inquinamento delle coste?
— Tagliare l’olio solare, è quello che inquina, ci si scotta e zitti, come io da piccolo a Castiglioncello. Poi veniamo all’occupazione che è al trentatrè per cento. Per prima cosa, tagliamo le liste di disoccupazione: così si iscrivono meno disoccupati e la percentuale cala… zitto non interrompere... poi incentivi alla imprese… Chi assume un giovane, sconti fiscali chi ne assume due, sconto maggiore, chi ne assume dieci lo ricoveriamo perché vuol dire che è matto… poi tagli alle famiglie che ospitano giovani disoccupati… via il divano letto, via il frigo, via Facebook così il bamboccione esce di casa e si deve trovare lavoro... Poi ovviamente tagli alla scuola — Va beh questo sifa già da anni — Ancora tagli. Aboliamo le medie. Dalle elementari si va subito al liceo, così si vede chi ha voglia di studiare. Tagli ai professori. Via la storia dell’Arte, via ginnastica che la puoi fare per strada, via italiano che tanto lo parlano tutto il giorno, via geografia che con la globalizzazione non ha senso …. — E tagli alla cultura naturalmente — Come sempre. E stavolta anche agli enti lirici. Limite di tre elefanti per ogni Aida. Io amo i libri perciò quelli non me li toccate, tagliamo magari cento pagine da quelli lunghi. Tagliare gli istituti di cultura all’estero, facciamoci delle pizzerie... E infine basta con lo scandalo degli stipendi faraonici del calcio — Bene — La serie A si giocherà sette contro sette, sai quanto si risparmia di stipendi! I palloni si rattoppano. Poi tagli al reddito dei supermanager. Tasse su foulard e sui gemelli da polso e potranno giocare con una sola mazza da golf multiuso, tipo coltellino svizzero. E tasse sui regali alle amanti. Dai che è uno scherzo, ma Delrio non ridi mai? Sembri la nonna di De Niro.
— È il mio carattere, maestà. E riguardo i privilegi del Vaticano?
— Giusto... picchiamo duro stavolta! L’Imu non possiamo fargliela pagare che poi i cattolici ci attaccano. Però farei pagare al Vaticano la bolletta dell’acqua che ciuccia ai romani, magari maggioriamo l’importo così Marino fa due soldi e non rompe più. Poi tagli alla sanità, supposte più corte. Infine aboliamo l’Enit, l’Asprea, il Tar, la Juventus, la Cgil… — Frenzy, si calmi… — Chiedo scusa, è stato un refuso, volevo dire il Cnel e poi istituiamo il CREIMFLT. Centro Riciclaggio Enti Inutili Ma Forse Li Teniamo... Ah sì, poi cambia tutto in televisione. Grande idea: la Rai a Berlusconi, Mediaset rete pubblica. Così nessuno può dire che un privato ha dei privilegi o che non c’è concorrenza, E poi altri tagli, aspetta aspetta, che ne avevo uno scritto…( consulta un notes) — Aspetto… — Ah ecco qui: sei licenziato… — È uno scherzo?
— Non è uno scherzo …. devo dare l’esempio, Delrio… ma io non dimentico quello che hai fatto per me perciò ecco un regalo di buon servito — Grazie, cos’è?
— Un tesserino per il tram perché non c’hai più l’auto e un pacchetto di brigidini appena cominciato. Porta via la tua playstation quando esci — Ma così su due piedi…..
— Ne vuoi tre, sprecone? Vattene! Vado a tagliarmi i capelli. Presto che èt ardi (sparisce sul-lo skateboard).

l’Unità 5.4.14
Jobs Act: inizia la partita Prepensionamenti, è scontro
Parte al Senato il progetto sul lavoro, con sei capitoli di proposte
Camusso: stop a discriminazioni tra lavoratori pubblici e privati
di Andrea Bonzi


È una partita su più tavoli, quella che si gioca sulle riforme del lavoro. E il confronto con i sindacati si annuncia non facile. Due i fronti principali: la questione dei prepensionamenti della Pubblica amministrazione e il Jobs act - ovvero il Ddl delega messo a punto dal ministro Poletti -, il cui testo è approdato ieri al Senato ed è pronto a iniziare l’iter legislativo nelle commissioni competenti.
Sul primo tema è intervenuta Susanna Camusso, la segretaria generale della Cgil che ieri era a Firenze, al congresso nazionale della Filt. «Quella dei prepensionamenti nella Pubblica amministrazione può essere una nuova drammatica rottura nel mondo del lavoro perchè discrimina tra lavoratori pubblici e privati: noi chiediamo una soluzione che riguardi tutti», è l’avviso che ha voluto mandare al ministro Marianna Madia, che ha lanciato la proposta della «staffetta» generazionale dei dipendenti pubblici. «Tutti si chiedono, perchè il pubblico può tornare al passato e il privato no? - continua la leader del sindacato di Corso d’Italia - Serve una soluzione universale, non solo i lavoratori pubblici, e questa sarà la modalità con cui valutare l'insieme delle politiche che ci sono da parte del governo». Apre alla riforma il segretario Cisl, Raffaele Bonanni: «Se il governo aprirà un vero confronto sulla riforma della Pa e sul turn-over, siamo disponibili a collaborare ». La stessa ministra Madia, «sicura che i sindacati vorranno aiutarci in questa sfida», è intervenuta, precisando che la novità sarà quella di «utilizzare i risparmi conseguiti per favorire dove è necessario l'ingresso di giovani con concorso nella Pubblica amministrazione».
Una misura che sarebbe complementare a quella del Jobs act, attraverso la quale il governo fissa gli impegni sul lavoro da declinare nei prossimi sei mesi.
Il testo si divide in sei capitoli. Il primo riguarda la riforma degli ammortizzatori sociali e la ricerca di nuova occupazione. L’Aspi, l’assegno di disoccupazione, diventa universale, cioè estesa anche ai co.co.co e atipici (esclusa invece per amministratori e sindaci) e sostituisce le altre forme di sostegno al reddito. La lunghezza del sussidio è legata alla storia contributiva del lavoratore. Si prevede una sperimentazione di almeno due anni. Cambiamenti in vista anche per la cassa integrazione, che non verrà più data per cessazione dell’attività (perché sostituita dall’Aspi): sono previsti una partecipazione maggiore delle aziende e uno snellimento della burocrazia nell’erogazione.
Il secondo articolo riguarda la ricerca del posto di lavoro. Viene creata un’Agenzia nazionale per l’occupazione, partecipata dagli enti locali, e si annuncia la razionalizzazione degli incentivi all'assunzione esistenti, «per l'autoimpiego ed autoimprenditorialità». Se il terzo capitolo riguarda norme sulla semplificazione burocratica a carico di cittadini e imprese, il quarto è quello che rivede le forme contrattuali.
È lì che si parla di un testo organico di disciplina «che possa anche prevedere l'introduzione, eventualmente in via sperimentale», di nuovi contratti «volti a favorire l'inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti». Inoltre, c’è l’introduzione del «compenso orario minimo», applicabile a tutti i rapporti di lavoro subordinato.
Il quinto articolo aggiorna le misure che tutelano la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Si istituisce il tax credit quale incentivo al lavoro femminile, per le donne lavoratrici, anche autonome, con figli minori e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito. Uno degli obiettivi, poi, è quello di estendere a tutte le donne lavoratrici, anche se in modo graduale, le tutele di maternità. L’ultimo punto attiene all’iter legislativo del ddl.

l’Unità 5.4.14
Alfredo D’Attorre
«Un’area riformista per incalzare Renzi, non per frenare»
«Da noi lealtà e autonomia Una “mozione Cuperlo” non ha più senso ma Gianni resta una personalità che continuerà a svolgere un ruolo essenziale»
intervista di Osvaldo Sabato


Ci vogliono dei «correttivi» ma «muovendosi entro gli assi fondamentali della riforma ». In sintesi un «Senato non elettivo, che non dà la fiducia e non approva la legge di bilancio». La pensa così il deputato democratico Alfredo D’Attorre, che dice la sua anche sulla situazione interna al suo partito e a proposito del recente incontro di parlamentari che ha portato alla costituzione di un’area «riformista» dentro il Pd, precisa che «nasce con l’obiettivo di riaprire un confronto nel partito anche con chi al congresso ha votato per Renzi o Civati». «Punta a caratterizzarsi per la sua capacità di avanzare proposte di merito sui temi cruciali» aggiunge D’Attorre. Va in questa direzione l’iniziativa sull’Europa del prossimo 28 aprile a Roma. Quanto alle critiche e alle perplessità, emerse anche nel Pd sul Ddl costituzionale varato dal governo sulla riforma del Senato, vanno ascoltate «non per fermarsi, ma per procedere meglio». L’Italicum? ha «bisogno di modifiche sostanziali».
Il premier Renzi avverte che sulle riforme andrà avanti come un rullo compressore. È soddisfatto o preoccupato?
«Penso che bisogna dare un sostegno all’azione riformatrice del governo, ma Renzi e la Boschi dovrebbero capire che toni ultimativi rischiano di aumentare le resistenze anziché diminuirle. Quindi eviterei ultimatum o polemiche sgraziate contro professori o professoroni. Io non condivido le cose che dicono Rodotà e Zagrebelsky, ma francamente mi pare comico dire che siano stati loro a impedire le riforme negli ultimi trent’anni».
Come valuta la proposta di Chiti che prevede il Senato con 100 senatori eletti più 6 eletti all’estero?
«Ognuno può suggerire il suo modello ideale, ma nel momento in cui il segretario del Pd e il governo indicano con convinzione un indirizzo di fondo, credo che sia necessario muoversi all’interno di questo, provando a migliorarlo». 
Però nel frattempo Renzi non vuole perdere tempo e avverte che senza riforme è meglio il voto. Lo ritiene un ultimatum? 
«Non credo che sia una minaccia, piuttosto una constatazione. Le elezioni anticipate non sono una minaccia, semplicemente perché farle con il Consultellum e senza le riforme istituzionali sarebbe un danno enorme per l’Italia, per il Pd e per lo stesso Renzi, che difficilmente potrebbe riproporre la sua candidatura a premier ».
A proposito di Pd quanti ce ne sono?
«È uno solo. Ma il fatto che sia uno solo non vuol dire che si debba procedere con il pensiero unico o con l’appiattimento conformistico al leader. Si ha l’impressione che la minoranza del Pd sia un po’all’angolo.
«Non mi pare, c'è anzi un forte fermento e la volontà di incidere su questa nuova fase. Ed è questo il senso dell’iniziativa recente che abbiamo assunto per la costituzione di un'area riformista. Partiamo dall’analisi che il congresso è definitivamente alle nostre spalle, siamo in una fase completamente diversa apertasi con il governo Renzi. Vogliamo contribuire con le nostre idee all'azione riformatrice del governo, ma per quanto ci riguarda lealtà e autonomia sono due concetti che si declinano assieme. Noi pensiamo di aiutare il governo sia quando diciamo sì alle riforme costituzionali, sia quando diciamo che l'Italicum va profondamente modificato. Sia quando apprezziamo la scelta di Renzi sull’Irpef, sia quando sosteniamo che va cambiato il decreto Poletti sul lavoro».
Che ruolo potrebbe avere Gianni Cuperlo nella nuova area riformista?
«Il congresso è finito e non esiste più la mozione Cuperlo, ma questo non vuol dire che Gianni non giocherà un ruolo da protagonista. Resta una personalità di primissimo piano della sinistra, che continuerà a svolgere un ruolo essenziale nel tracciare il profilo politico e culturale di quest'area. Per sabato 12 aprile ha organizzato un’iniziativa, che immagino sarà molto bella e partecipata, a cui tanti di noi prenderanno parte, assieme a Civati ea tante altre sensibilità della sinistra, anche oltre il Pd. Per noi lui resta un importante riferimento e credo che mercoledì prossimo parteciperà e interverrà alla prosecuzione della nostra discussione. Sono sicuro che condivideremo lo sforzo di allargare l'orizzonte e superare gli steccati del Congresso, offrendo un luogo di elaborazione e di proposta politica anche a quanti hanno votato altre mozioni e oggi vogliono far incidere gli ideali della sinistra riformista nell'azione del governo e nella costruzione del nuovo Pd».

Corriere 5.4.14
Pd al 33%, Forza Italia e Grillo alla pari (21) Scelta civica e Tsipras sotto la soglia del 4
Forza Italia e 5 Stelle al 21% si giocano il secondo posto. Montiani oggi fuori
di Nando Pagnoncelli


Il quadro che si prospetta, secondo i sondaggi, in vista delle elezioni europee (25 maggio) conferma lo scenario tripolare. In testa il Pd con il 33,3%, seguito da M5S e Forza Italia appaiati poco sopra il 21%, da Ncd con Udc e Popolari per l’Italia (5,7%) e dalla Lega Nord (5,3%). Questi partiti (oltre a Svp) si suddividerebbero i 73 seggi assegnati all’Italia.
La campagna elettorale per le elezioni europee presenta diverse incognite riguardo agli elettori e alle loro motivazioni di voto. Da sempre le Europee rappresentano una tornata elettorale particolare, caratterizzata da una sorta di strabismo: i cittadini votano per eleggere il Parlamento europeo (di cui peraltro sanno poco o nulla) ma scelgono quale partito votare in una prospettiva quasi esclusivamente locale, per dare forti segnali di approvazione o di dissenso al proprio partito, al governo in carica, al premier o all’opposizione, in una sorta di referendum. Il voto del 25 maggio sembra assumere una valenza diversa rispetto al passato, tenuto conto degli atteggiamenti critici nei confronti della politica dell’Ue che dall’estate del 2011 hanno iniziato a diffondersi in Italia, talora con accenti molto duri, mettendo in discussione la nostra appartenenza e, sia pure minoritariamente, il mantenimento dell’euro. 
Rappresenta quindi anche un referendum pro o contro l’Ue, dunque un doppio referendum. Da ultimo, nello stesso giorno si voterà per l’elezione del sindaco e il rinnovo dei consigli comunali in oltre un Comune italiano su due. Non è un fatto inedito, ma quest’anno presenta alcuni aspetti che potranno influenzare l’esito delle elezioni europee e indurre comportamenti di voto selettivi e scelte disgiunte: per il Nuovo centrodestra di Alfano, ad esempio, le Europee rappresentano un vero banco di prova per misurare per la prima volta il proprio consenso elettorale e prefigurare le strategie future; sarà quindi in forte competizione con Forza Italia con cui però sarà presumibilmente alleato nella maggior parte dei Comuni al voto. In questo difficile contesto, il livello di interesse per le Europee come di consueto appare piuttosto limitato: gli italiani si dividono all’incirca a metà tra chi si dichiara molto (16%) o abbastanza (34%) interessato a questo appuntamento e chi, al contrario, lo è poco (32%) o per nulla (16%). L’interesse prevale nettamente tra gli elettori del Pd e del Ncd. Prevale, sia pure in misura meno netta, anche tra gli elettori del M5S, mentre tra gli elettori di Forza Italia sono decisamente più numerosi i disinteressati. Coloro che prevedono di andare sicuramente a votare rappresentano meno di un elettore su due (46%); a costoro si aggiunge il 17% che si dichiara possibilista, mentre il 6% è fortemente indeciso e il 31% esclude di recarsi alle urne. 
La prima incognita, dunque, è la partecipazione al voto: nel 2009 il partito del non voto (astensionisti più schede bianche e nulle) raggiunse la cifra record del 38% circa (i voti validi furono il 62%) con un incremento di quasi il 3% rispetto al 2004. Dal sondaggio odierno, che risulta una sorta di fotografia istantanea, non certo una previsione dell’esito finale, emerge che la cosiddetta «area grigia» costituita dall’astensione e dall’indecisione rappresenta quasi due elettori su cinque (39,1%). La graduatoria dei partiti conferma lo scenario tripolare emerso alle elezioni dello scorso anno e vede in testa il Pd con il 33,3% delle preferenze, seguito da M5S e Forza Italia che risultano appaiati poco sopra il 21%, da Ncd insieme a Udc e Popolari per l’Italia (5,7%) e dalla Lega Nord (5,3%). Tutti questi partiti (oltre a Svp) si suddividerebbero i 73 seggi assegnati all’Italia. Scelta civica per l’Europa, insieme a Centro democratico e Fare, è accreditata del 3,8%, quindi di poco sotto la soglia di sbarramento del 4%, come pure Fratelli d’Italia-An (3,5%). Un’altra Europa per Tsipras, la lista sostenuta da intellettuali ed esponenti della società civile e da alcuni partiti della sinistra, è più distante e si colloca al 3,1%. Tutti i restanti partiti risultano sotto l’1%. In un clima nel quale i sentimenti di anti politica che hanno caratterizzato il voto del 2013 non accennano a diminuire e la crisi peggiora le condizioni di vita di un numero sempre maggiore di cittadini, la capacità di mobilitazione degli elettori più apatici da parte dei partiti e dei loro leader sarà decisiva. E, a questo proposito, si osserva che nell’insieme risultano premiate le forze politiche che sostengono posizioni critiche o fortemente ostili nei confronti dell’Europa. Sono posizioni che incontrano il consenso prevalente (ma non esclusivo) dei ceti più popolari, delle persone meno istruite e di quelle più penalizzate dalla crisi economica. La campagna elettorale è solo all’inizio, ma alla luce di tutti questi elementi appare estremamente complessa.

Corriere 5.4.14
Il complesso a sinistra che spaventa i riformisti
di Giovanni Belardelli


Più o meno da che esiste, la sinistra italiana ha visto il prevalere delle sue correnti più estreme, che si chiamassero intransigenti, massimaliste o in altro modo ancora. Ciò è avvenuto per la forza di queste ultime, certo, ma anche per l’incapacità o il timore dei «riformisti» a scontrarsi davvero con i «rivoluzionari». Nell’Italia repubblicana questa incapacità doveva manifestarsi anche all’interno del maggior partito della sinistra, il Pci, che se da un lato ereditava l’insediamento sociale (cooperative, sindacati, camere del lavoro) e molte delle Politiche del vecchio riformismo socialista, dall’altro non riuscì mai a considerare la parola stessa riformismo altro che come un termine negativo.
La decisa risposta di Renzi (sul Corriere di lunedì scorso) all’appello di Rodotà, Zagrebelsky e altri intellettuali contro una presunta «svolta autoritaria», nonché il duro articolo che il direttore di Europa , Stefano Menichini, ha dedicato ai firmatari di quel testo, indicano che forse l’antico timore dei riformisti a individuare negli intransigenti il proprio avversario ha fatto il suo tempo. È abbastanza evidente, infatti, che le prese di posizione degli ayatollah della Carta (così li ha definiti il costituzionalista Francesco Clementi), come – prima ancora – quelle di «girotondi», «popolo viola», intellettuali «indignati», pronti a gridare al pericolo autoritario ad ogni ipotesi di riforma della Costituzione, rappresentano da qualche anno la nuova forma assunta da quel vecchio male della sinistra italiana cui si faceva riferimento. Un male consistente nell’incapacità delle correnti riformiste d’uscire dall’angolo in cui vengono costrette dalle correnti più radicali. Ma adesso – ecco la novità – il nuovo gruppo dirigente del Pd sembra consapevole della necessità di separare i propri destini da quelli di «una sinistra intellettuale e politica – ha scritto Menichini – ormai portatrice (…) d’intolleranza, alterigia e presunzione». 
Al di là del piglio decisionista e degli atteggiamenti forse un po’ troppo da smargiasso del presidente Renzi, la sua sfida riformista si lega alla sua provenienza culturale e politica, del tutto diversa rispetto a chi ha alle spalle la tradizione comunista. A Renzi risulta del tutto estraneo, infatti, quel mito dell’unità della sinistra che caratterizzava la vecchia tradizione socialista e poi quella comunista in virtù dell’imprinting marxista. Per il marxismo, essendo una la classe di riferimento (il proletariato), uno doveva essere il partito della sinistra. Tutte cose che Renzi avrà tutt’al più studiato in qualche esame universitario di storia. 
È probabile, in ogni caso, che lo scontro con le posizioni della sinistra intellettuale più radicale egli lo abbia espressamente cercato. Si pensi solo al fatto d’invitare l’arcinemico Berlusconi al Nazareno; un invito che una parte del suo stesso partito ha vissuto alla stregua di una provocazione. Ma, appunto, qui sta anche uno dei due grandi rischi di fronte ai quali si trova ora la battaglia riformista del presidente del Consiglio. Il guanto di sfida lanciato a una sinistra intellettuale intransigente, infatti, è anche un guanto di sfida lanciato a una parte, forse maggioritaria, del suo partito. Di un partito che, non a caso, resta fedele al ricordo e al mito di Enrico Berlinguer, un leader di grande carisma ma che certamente non fu per nulla riformista. Nonostante le nostalgiche rievocazioni a cui abbiamo assistito ancora di recente tendano a farlo dimenticare, Berlinguer spinse anzi gli iscritti e gli elettori del suo partito verso una «deriva identitaria e solipsistica» – come scrisse dieci anni fa Piero Fassino in un suo libro – basata sulla rivendicazione della «diversità» comunista. Il secondo rischio che minaccia la sfida riformista di Renzi è sotto gli occhi di tutti. Ha a che fare con la possibilità che le riforme da lui annunciate, a cominciare dal monocameralismo e dalla riforma del titolo V della Costituzione, non riescano ad andare in porto. E, com’è evidente, un riformismo senza riforme non è cosa possibile.

La Stampa 5.4.14
“Così non passa” L’asse per frenare la riforma del Senato
Due proposte di Forza Italia e una del Pd: senatori eletti
di Amedeo La Mattina


Al Senato ci sono tutte le condizioni per un corto circuito sulle riforme, in particolare sul superamento del Senato e del bicameralismo perfetto. Una preoccupazione che Matteo Renzi ieri ha espresso al capo dello Stato nell’incontro di ieri. Ma il premier è convinto di avere la forza di neutralizzare i senatori vietcong che stanno scavando le trincee per evitare di fare la fine dei tacchini. «Andiamo avanti come un rullo compressore», dice l’ex sindaco di Firenze. Eppure nel motore del rullo compressore stanno gettando manciate di sabbia sia decine di senatori del Pd che di Forza Italia (nonostante le presunte rassicurazioni venute dall’incontro di due giorni fa tra Renzi, Verdini e Gianni Letta). 
Rassicurazioni che il capogruppo dei forzisti al Senato, Paolo Romani, non si sente di confermare. Anzi usa in maniera preoccupante un’espressione che lo stesso Renzi utilizzò per rassicurare Enrico Letta (sappiamo come andò a finire). «Renzi deve stare sereno, ma molti aspetti della sua proposta destano perplessità nella stessa maggioranza. Vogliamo un Senato eletto dal popolo, che abbia competenze diverse dalla Camera, che non voti la fiducia ma nemmeno l’elezione del capo dello Stato. Non vogliano un’inutile assemblea dei sindaci che controllano quello che fanno loro stessi, cioè sindaci controllati e controllori. Sì, è difficile votare il testo del governo».
Qualche giorno fa era stato proprio Romani, che tra l’altro rappresenta la parte più moderata del suo partito, a evocare il Vietnam al Senato. Fi e Berlusconi si trovano in grande difficoltà: non sembrano avere il coltello dalla parte del manico. E poi dentro il gruppo berlusconiano ci sono proposte diverse. Lunedì il senatore Augusto Minzolini ne presenterà una (sembra che abbia 32 firme) che prevede un Senato elettivo di 200 componenti e una Camera di 400. Palazzo Madama dovrebbe occuparsi di Difesa, Giustizia, Esteri e Autonomie; Montecitorio di tutte le questioni economiche della spesa, finanza, infrastrutture, Sanità. È una proposta molto diversa da quella ufficiale. «Immagino due motori legislativi - spiega Minzolini - che lavorano contemporaneamente e velocemente. Renzi non è d’accordo? Mi sembra che non abbia capito cosa sta succedendo al Senato. Vive in un Truman show, si muove su un set tv. Mi piaceva quando faceva Fonzie. Ora che fa Mr. Bean non mi piace più». 
Minzolini dice che non voterà mai la proposta di Renzi, nemmeno se glielo ordinerà il suo gruppo parlamentare. «Cerca solo i titoli sui giornali», commentano alcuni senatori di Fi che concordano su un punto: al Senato sarà battaglia vera. E il problema per il premier viene anche da quei 25 senatori del Pd vicini al lettiano Francesco Russo e dai 22 che hanno sottoscritto la proposta dell’ex ministro Vannino Chiti che prevede, a differenza di quella del governo, l’elezione diretta di 106 senatori e di 315 deputati. Le due Camere potranno legiferare insieme solo su alcune materie tra cui le riforme costituzionali, elettorali, le leggi su ordinamenti Ue, tutela delle minoranze linguistiche. Il resto è competenza di Montecitorio, a cominciare dal voto di fiducia. Mentre tutto ciò che riguarda diritti civili e fondamentali del cittadino spetta al Senato.
Renzi ha definito ironicamente questa proposta «interessantissima ma senza alcuna possibilità di essere approvata». Civati gli ha consigliato di essere prudente, di non usare toni sprezzanti: «Io credo che il senatore Chiti sia una persona al di sopra di ogni sospetto. Possiamo parlare ancora e riflettere su un Senato eletto dai cittadini?». Il punto è proprio questo. Il premier e il ministro delle Riforme Boschi sono disponibili a modifiche e suggerimenti, ma nel rispetto di alcuni paletti. Uno di questi è proprio la non eleggibilità del Senato, la fine reale del bicameralismo. Tutti i suoi oppositori dentro e fuori il Pd non la pensano allo stesso modo e stanno scavando le trincee.

l’Unità 5.4.14
Province, eletti in rivolta: «Dobbiamo lavorare gratis?»
Dopo il Ddl Delrio, parlano presidenti, assessori e consiglieri che rimarranno in carica fino al 31 dicembre senza però percepire alcuna indennità
di Gigi Marcucci


Per fare l’assessore io mi sono messo in aspettativa e così hanno fatto molti altri. È chiaro che venendo a mancare lo stipendio da amministratori molti di noi dovranno tornare a fare il loro lavoro: non siamo in pensione. Si tratterà di capire come garantire comunque continuità alla nostra attività. Certo è strano che, per legge, uno che lavora non debba essere pagato ». C’è chi pensa di fare le valige, punto e basta; chi vuole rinviare la partenza, comunque prevista alla fine dell’anno; e chi, come Graziano Prantoni, assessore al Lavoro della Provincia di Bologna, cerca di coniugare necessità e senso di responsabilità nei mesi di vita che restano alle Province dopo la loro abolizione. Via gli amministratori, rimangono moltissime competenze. Su un costo complessivo di 2 miliardi, vengono tagliati 32 milioni: le indennità di presidenti, assessori, consiglieri. E nemmeno questo risparmio minimo, come tiene a precisare Antonio Saitta, presidente della Provincia di Torino e dell’Unione Province italiane (Upi) può essere dato per scontato. A metterlo in dubbio è un’audizione della Corte dei Conti in Parlamento. «Alcune competenze delle Province, ora indicate come causa di tutti i mali, dovranno tornare alle Regioni, dove il contratto dei dipendenti costa il 27% in più rispetto a quello dei dipendenti locali», commenta amaro Saitta. E se qualcuno pensa che occuparsi di strade o crisi aziendali sia inutile, ecco come lo smentisce Prantoni, che negli anni del suo mandato ha coordinato e seguito cinquecento trattative tra imprese e sindacati. «Un’attività in cui erano o sono in gioco 20-25 mila posti di lavoro, il destino di aziende come Alcisa, Moto Morini, Officine Rizzoli, Mandarina Duck. Nel 96% dei casi sono stati raggiunti degli accordi. Questo è il compito che ci hanno affidato le parti sociali, salvaguardare lavoro e tessuto produttivo. Non ce lo siamo inventati noi una mattina». A chi gli chiede se il suo lavoro continuerà come prima, Prantoni ricorda che l’impegno era pressoché quotidiano e che nei prossimi sei mesi non sarà possibile assicurare lo stesso tipo di presenza.
Durissima la posizione della sua presidente, Beatrice Draghetti, che parla di un «provvedimento non dignitoso e rabberciato». Lei rimarrà al suo posto fino all’ultimo. «Scelgo di accompagnare in porto questa nobile Istituzione, che è ed è stata la Provincia, che sembra fare ribrezzo a tutti, incolpata di ogni profilo di inutilità ed inefficienza - ha scritto - dalla quale tuttavia si pretenderà fino all'ultimo giorno l'erogazione dei servizi che derivano dalle sue competenze, cosa che avverrà - nelle condizioni date e come sempre – grazie anche e soprattutto ai dipendenti, di cui nessun decisore finora ha mostrato la responsabilità di occuparsi».
Servizi e competenze, sì, ma voto no. «Ci si dichiara soddisfatti perché non si vota più per le Province - dice Saitta - ma in questo modo si dà spazio alla tecnocrazia. Noi amministratori abbiamo una visibilità molto maggiore, se c’è una frana e mi telefona un giornalista io devo rispondere, anche se è domenica o sono in ferie. Questa è la differenza ».
Andrea Barducci, presidente della Provincia di Firenze, misura le parole, ma il suo giudizio è franco quanto quello dei colleghi. «Ci è stato chiesto dal legislatore un impegno per traghettare l’ente in una fase di transizione - spiega - A questo bisogna guardare con responsabilità politica e istituzionale, ma è chiaro che da oggi cambiano le regole di ingaggio. Siccome non prendo tangenti io dovrò sostenere me stesso e la mia famiglia».
Il passaggio delicato delle competenze alle nuove città metropolitane e alle Regioni andrà seguito con molta cura, aggiunge Barducci. Ad esempio la gestione dei fondi europei per la formazione professionale. «Noi ce ne siamo occupati fattivamente, bisognerà fare molto lavoro perché i nuovi organismi siano in grado di recepire tutte le nostre competenze». Con ironia, il presidente parla di «una bella rivoluzione» che finirà «per accentrare su poche persone molte responsabilità». E i presidenti delle città metropolitane non saranno cariche elettive, ma i sindaci dei Comuni capoluogo. «È prevista un’elezione diretta, ma ci vuole una legge dello Stato», spiega Saitta, «nel frattempo è probabile che quei sindaci pensino ai voti della comunità che li ha eletti, la città capoluogo, e meno alla provincia ».

Il Sole 5.4.14
Spending, per la sanità maxitaglio da 2-2,5 miliardi
Sforbiciata di un miliardo al Fondo nazionale già nel 2014
di Roberto Turno


ROMA Non bastavano i risparmi previsti da mister spending, Carlo Cottarelli: 300 milioni quest'anno, 800 milioni nel 2015 e 2,4 miliardi nel 2016. Ma senza contare la potatura delle spese per beni e servizi sanitari e non sanitari, che fin da quest'anno solo per la sanità potrebbero valere fino a 1 miliardo. E non bastavano neppure le indicazioni delle regioni, pronte ad aggiungere altri colpi d'accetta tra centrali d'acquisto e farmaci. I tecnici di via XX Settembre hanno in preparazione in queste ore un'altra sfoltitura alle spese di asl e ospedali: un taglio secco al Fondo sanitario nazionale di quest'anno che varrebbe almeno 1 miliardo, e poi forse ancora di più nel 2015. Tagli che si aggiungerebbero ai 25 miliardi già assestati di minori spese questi anni in maniera lineare al Ssn. Un totale di minori spese che solo per quest'anno potrebbe valere almeno intorno a 2-2,5 miliardi.
Aveva già messo non a caso le mani avanti nei giorni scorsi, Beatrice Lorenzin: «Non sono d'accordo con Cottarelli, non sono in linea per lo meno sul metodo. La sanità non può sopportare altri tagli, men che meno lineari». Qualcosa evidentemente il ministro sapeva che si stava muovendo tra Economia e Ragioneria. E, forte del pressing che nella stessa direzione stanno imprimendo i governatori, ha subito fatto muro: le misure le decidiamo con le regioni nel «Patto» per la salute. Di più, aspetto cruciale: qualsiasi risparmio deve restare in casa del Ssn. Per investire, programmare, far ripartire la macchina delle cure pubbliche schiacciata dal peso della sostenibilità del sistema a bocce ferme.
Invece il ministro – che ancora ieri da Bruxelles ha rilanciato la sua ricetta dicendosi sicura che il Def «non prevede tagli ma risparmi», quantificati ancora in 10 miliardi in tre anni – dovrà ricredersi e alzare nuove barricate prima del varo del Def. Quarantott'ore per cercare di ribaltare in extremis le soluzioni che – sebbene ancora non decise – si stanno profilando davanti alla necessità per il Governo di trovare le coperture per le maxi riforme messe in cantiere da Matteo Renzi. Il quale, naturalmente, dovrà dire la sua su eventuali nuovi tagli alla salute.
Il taglio da 1 miliardo allo studio dei tecnici del Mef, farebbe scendere il Fondo sanitario (non ancora ripartito tra le regioni, che dovranno applicare i costi standard) a 112,452 miliardi tutto compreso, quello per il 2015 a 116,563, se non meno. Con un effetto scivolamento che potrebbe valere anche per il 2017 (sulla carta 122 miliardi). Insomma, un'altra batosta. Che avrebbe l'ulteriore effetto di far crescere le tensioni e di rincrudire i rapporti politici, sindacali e sociali.
Insomma, un passo complicato. Anche perché tra le misure allo studio, ad esempio, c'è quella del taglio agli stipendi dei dirigenti (si veda pezzo accanto), che potrebbe toccare medici e dirigenti non medici. E perché per i governatori, oltre che per il ministro, c'è un vangelo da rispettare: qualsiasi risparmio va lasciato nel Servizio sanitario. Questa la parola d'ordine al tavolo del «Patto» per la salute che proprio ieri ha ripreso i lavori dopo una lunga fase di stallo nel trapasso da Enrico Letta a Renzi. O prendere o lasciare, è la minaccia: i risparmi restino nel Ssn, altrimenti il «Patto» salta, con tutte le conseguenze del caso. Soprattutto in un momento in cui la crisi sta mettendo in ginocchio le famiglie e l'abbandono o la rinuncia alle cure a pagamento, tra ticket o ricorso al privato per aggirare l'imbuto delle strutture pubbliche sempre più in affanno, riguarderebbero secondo tutte le ricerche fino a 9 milioni di italiani.
Anche di questo si ragionerà al tavolo del Def e della spending review. E certo non sarà un aspetto secondario quando martedì 8 – proprio nel giorno del varo del Def – si svolgeranno gli «Stati generali della sanità» convocati da Lorenzin, dove dovrebbe intervenire anche Renzi. Non è un caso che ieri il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, abbia accennato al fatto che un taglio da 1 miliardo varrebbe per le industrie del farmaco 150 milioni, mettendo a rischio a 2-3mila posti di lavoro. E che alla stessa cifra abbia fatto riferimento, contestandola, il presidente della commissione sanità del Senato, Emilia Grazia De Biasi (Pd). Per non dire della bocciatura di giovedì dell'Ocse a Cottarelli: la spesa sanitaria in Italia è inferiore di un terzo a quella dei Paesi dell'area euro e il divario dal 2000 s'è triplicato. Conclusione: qualsiasi taglio non finalizzato all'abbattimento di inefficienze colpirebbe l'accesso ai servizi e la qualità dell'assistenza soprattutto per chi meno ha.

Il Sole 5.4.14
Sulle nomine pubbliche parte il conto alla rovescia
Il governo presenterà tutte insieme le liste dei candidati
di Gianni Dragoni


ROMA Il governo prepara il ricambio dei vertici delle grandi società pubbliche. A otto giorni dalla scadenza del termine – domenica 13 aprile – per depositare le liste dei candidati al nuovo consiglio di amministrazione dell'Eni, e a seguire delle altre quotate, si delinea un ampio rinnovamento dei vertici in scadenza, compresi quelli di Enel, Finmeccanica, Terna e Poste.
È intenzione del governo presentare tutte insieme le liste dei candidati. Antipasto per una raffica di nomine che riguarda 600 poltrone. Il premier Matteo Renzi ha indicato il 12 aprile come la data in cui verranno ufficializzate le candidature della prima tornata.
La linea che sta emergendo è che tutti gli amministratori delegati in scadenza in queste cinque società dovrebbero essere sostituiti, salvo colpi di scena. L'istruttoria fatta dai circoli renziani ha rilevato punti deboli in quasi tutte queste società. L'Eni fa meno utili del 2005, l'anno in cui è arrivato al timone Paolo Scaroni, c'è stata la crisi ma il prezzo del petrolio oggi è assai più elevato. L'Enel ha un pesante indebitamento, effetto della campagna acquisizioni condotta da Fulvio Conti, preso in contropiede dalla crisi, in particolare in Spagna. Finmeccanica, reduce da travagli e numerose inchieste giudiziarie, negli ultimi 14 mesi con il nuovo a.d., Alessandro Pansa, si è orientata sui profili finanziari e sul controverso piano di cessione del settore trasporti più che sulle strategie industriali per rafforzarsi nell'aerospazio. L'a.d. di Terna da nove anni, Flavio Cattaneo, è quello che può esibire i migliori risultati economici e in Borsa, anche se il 70% dei profitti sono stati generati dalle attività regolamentate, nelle quali conta soprattutto la capacità di lobby.
L'unico tra gli uscenti per il quale si profila la conferma è Gianni De Gennaro, presidente di Finmeccanica dal 4 luglio 2013, nominato dal governo Letta con l'appoggio del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. È svanita l'ipotesi di un approdo in Finmeccanica di Franco Bernabè, il quale sarebbe uscito anche dal giro dei candidati alla presidenza Eni. Le quotazioni di Bernabè sono in netto calo con l'uscita dai tavoli sulle nomine di Marco Carrai, amico di Renzi.
Vengono considerati in uscita sia l'a.d. dell'Eni Scaroni sia quello dell'Enel Conti, in carica da nove anni, nominati dal governo Berlusconi. Per entrambe le società dell'energia autorevoli fonti governative parlano di una scelta interna del nuovo capoazienda. All'Eni il candidato più in vista al momento è Claudio Descalzi, direttore generale del settore esplorazione e produzione. Ha perso quota l'ipotesi di nominare presidente Leonardo Maugeri, ex direttore strategie dell'Eni con Bernabè e Vittorio Mincato. Finché non sarà definito il pacchetto completo la soluzione per l'Eni rimane incerta.
All'Enel Conti potrebbe riuscire a ottenere la presidenza. Il principale candidato a.d. è Francesco Starace, a.d. della controllata Enel Green Power, o in alternativa il direttore finanziario Luigi Ferraris. Un altro possibile candidato sostenuto dai buoni risultati è Andrea Brentan, a.d. della controllata spagnola Endesa. Nelle ultime ore è riemersa una candidatura esterna, quella di Giovanni Castellucci, a.d. di Atlantia (Benetton). Per Starace come seconda soluzione ci sarebbe Terna.
Anche per Finmeccanica si guarda soprattutto all'interno. Il principale candidato è Giuseppe Giordo, a.d. di Alenia, l'azienda che nel 2013 ha dato i migliori risultati di cassa al gruppo. L'attuale a.d., Pansa, potrebbe andare a Fintecna. Tra i candidati a Finmeccanica c'è anche Antonio Perfetti, al vertice di Mbda (missili), mentre dall'esterno si muove Domenico Arcuri, a.d. di Invitalia, manager con profilo finanziario e ottime relazioni, dalemiano con appoggi anche berlusconiani: e oggi Arcuri dovrebbe partecipare a Rimini a un "talk show" della «Gran Loggia» 2014 del «Grande Oriente d'Italia», la massoneria. Arcuri è in corsa anche per Poste o Terna. Per queste destinazioni si fa anche il nome di Luigi Gubitosi, direttore generale Rai: se lasciasse viale Mazzini, Renzi potrebbe mandare alla Rai un suo uomo, Antonio Campo Dall'Orto, ex a.d. di Mtv e La7 e Ti Media.
Un altro nome gettonato è Francesco Caio, ex a.d. di Avio ed ex commissario Agenda digitale. Caio è tra i possibili candidati a.d. di Finmeccanica o di Poste, da cui è in uscita Massimo Sarmi, il quale punta alla presidenza. Per le Poste c'è la candidatura dell'a.d. delle Generali, Mario Greco, vicino a Renzi e, secondo indiscrezioni, non più solido a Trieste per contrasti con i maggiori azionisti privati del Leone (Caltagirone, De Agostini, Del Vecchio). Un'alternativa sarebbe Monica Mondardini, a.d. del gruppo Cir e Espresso: ma se alle Poste dovesse andare Greco, Mondardini potrebbe approdare alle Generali, dove è già stata alla testa delle attività in Spagna. Per Mondardini sarebbe un incastro perfetto.

l’Unità 5.4.14
Antipedofilia, nelle scuole l’obbligo del certificato
Da lunedì per chiunque lavori in maniera «diretta e regolare» a contatto con minori va provata l’assenza di precedenti specifici
Caos nei tribunali
di Vincenzo Ricciarelli


Scatta lunedì l’obbligo del certificato «antipedofilia» per tutti coloro che per la propria attività lavorativa avranno a che fare con minori in maniera «diretta e regolare». Compresi, ovviamente, insegnanti e personale non docente impiegato nelle scuole. Per tutte queste categoria il datore di lavoro (il preside, nel caso si parli di scuole) dovrà richiedere il certificato del casellario giudiziario «al fine di verificare che non ci siano a carico del lavoratore condanne» per una serie di reati che riguardano i minori: prostituzione minorile, pornografia minorile, pornografia virtuale, turismo sessuale e adescamento dei minorenni. Dall’obbligo, secondo una precisazione fatta dal ministero della Giustizia giovedì in serata, sono escluse le associazioni di volontariato. La previsione è contenuta nel decreto legislativo varato in consiglio dei ministri lo scorso 4 marzo che, recependo una direttiva Ue, ha introdotto nuove disposizioni per l’impiego al lavoro di persone che, in ragione delle loro mansioni, devono avere contatti diretti e regolari con minori.
Tale nuova disposizione, che attua «fedelmente» le prescrizioni della direttiva Ue, prevede l’obbligo per il datore di lavoro, prima di assumere un dipendente che deve stare a contatto con minorenni, il certificato del casellario giudiziale, proprio per verificare l’esistenza di eventuali condanne per reati ai danni di minorenni. «L’obbligo di tale adempimento -ha precisato una nota di chiarimento dell'ufficio legislativo del ministero della Giustizia nei giorni scorsi - sorge soltanto ove il soggetto che intenda avvalersi dell'opera di terzi, soggetto che può anche essere individuato in un ente o in un’associazione che svolga attività di volontariato, seppure in forma organizzata e non occasionale e sporadica, si appresti alla stipula di un contratto di lavoro». L’obbligo invece, hanno spiegato i tecnici di via Arenula, «non sorge, ove si avvalga di forme di collaborazione che non si strutturino all’interno di un definito rapporto di lavoro». Dunque, precisa il ministero, «non è rispondente al contenuto precettivo di tali nuovi disposizioni l'affermazione per la quale l’obbligo di richiedere il certificato del casellario giudiziale gravi su enti e associazioni di volontariato pur quando intendano avvalersi dell'opera di volontari: costoro infatti esplicano un’attività che, all’evidenza, resta estranea ai confini del rapporto di lavoro».
Quanto al rilascio dei certificato giudiziali, questo avviane, sottolinea il ministero «entro qualche giorno dalla richiesta ». In ogni caso, per evitare che nella prima fase dell’applicazione delle nuove norme possano verificarsi «inconveniente organizzativi» il ministero della Giustizia chiarisce che, una volta fatta la richiesta di certificato al casellario giudiziale, «il datore di lavoro possa procedere all'impiego del lavoratore anche soltanto, ove siano organo della pubblica amministrazione o gestore di pubblico servizio, mediante l'acquisizione di una dichiarazione del lavoratore sostitutiva di certificazione» in cui si attesti l’assenza di condanne o di sanzioni interdittive riferite a reati ai danni di minori.
Un modo, questo, per correre ai ripari dopo gli allarmi sollevati nei giorni scorsi dalle associazioni di categoria. Secondo la formulazione originaria, infatti, il dirigente scolastico che da lunedì in avanti non avesse provveduto a richiedere i certificati del casellario giudiziario di tutti gli insegnanti e di tutti i bidelli della scuola, se colto in fallo da un eventuale controllo, avrebbe rischiato una sanzione amministrativa che oscilla tra i 10mila e i 15mila euro. Restano comunque mille dubbi sull’applicazione della norma: quanto costerà ai dirigenti scolastici richiedere tutte le certificazioni in questione? È previsto un finanziamento ad hoc o i dirigenti scolastici saranno costretti ad aumentare il «contributo volontario» richiesto alle famiglie? Molti anche i problemi organizzativi segnalati dagli uffici casellari delle Procure, che in questi giorni hanno dovuto rispondere a centinaia di telefonate di richieste di chiarimento. Anche, e soprattutto, sulle questioni relative alla privacy possibilmente coinvolte dalle nuove norme. In molti tribunali d’Italia, le segnalazioni più numerose sono arrivate dal Veneto e dalla Liguria, è stato necessario organizzare riunioni specifiche per curare l’espletamento delle pratiche: le soluzioni proposte in molte sedi giudiziarie, come a Savona, sono state essenzialmente due: chiedere ai propri collaboratori di fare domanda autonomamente e consegnarlo all’azienda o all’associazione di propria volontà, oppure ottenere la delega alla richiesta e al ritiro.

La Stampa 5.4.14
Silvio Garattini
Lo scienziato che dice no alla legalizzazione delle droghe
di Chiara Beria Di Argentine


«Per aver sempre lottato contro il fanatismo e la ciarlataneria e in favore dei diritti dei malati». Con questa supermotivazione il rettore Gianluca Vago, nel 90° anno dell’Università degli Studi di Milano, ha conferito allo scienziato Silvio Garattini la laurea honoris causa in chimica e tecnologia farmaceutiche.
Martedì 11 febbraio, nell’aula magna la cerimonia è solenne; alla fine gran sorrisi quando Garattini, 85 anni magnificamente portati (è nato a Bergamo nel novembre 1928) riceve da Vago in dono una dolce vita color bianco. Da anni è la sua divisa e, a pensarci bene, quel golf rispecchia il personaggio: sobrio, netto, chiaro. Fondatore-presidente dell’Irccs, Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri” (in oltre 50 anni di attività sotto la sua direzione ha prodotto oltre 250 volumi e 15 mila pubblicazioni scientifiche su chemioterapia, cancerologia, neuropsicofarmacologia etc etc; all’Irccs si sono specializzati 4 mila giovani laureati e tecnici) Garattini, dal caso Di Bella al più recente Stamina, ha sempre fatto sentire la sua voce rivendicando la validità del metodo scientifico al fine di proteggere i malati e le loro famiglie da pericolose illusioni, fanatismi vari se non da spregiudicati profittatori.
Un forte impegno che insieme a una vera messe di incarichi&onori (l’elenco occupa più pagine) gli ha fruttato non pochi nemici e polemiche. C’è chi l’ha definito una sorta di guru del farmaco accusandolo di difendere sempre gli interessi della potente industria farmaceutica. «Attacchi, critiche? L’importante è non arrendersi e avere costanza», sorride il professore. «La mia teoria è che quando si sostiene una cosa all’inizio hai tutti contro. Piano piano qualcuno si convince. Quando poi si dimenticano chi è stato a dirlo per primo allora hai ottenuto il successo».
Teoria che Garattini applica anche sul fronte del contrasto alla diffusione delle droghe. Estraneo alle sterili polemiche ideologiche che si alternano a un clima d’indifferenza se non di sostanziale resa Garattini non nasconde di essere contrario alla legalizzazione della cannabis anche per uso medico e bolla come «l’ennesimo pasticcio nel campo della salute» l’ultima decisione della Regione Abruzzo di consentirne l’uso per alcune malattie, dal glaucoma alla sclerosi multipla. «Non è questione di preconcetti», spiega.
«La morfina viene usata quotidianamente - e per fortuna - per tanti malati. Il punto è che, finora, non esistono studi rilevanti che provino come la cannabis abbia effetti benefici e comunque più importanti di quelli di molti antidolorifici che abbiamo già a disposizione. Non solo. L’altro dato su cui riflettere è che la cannabis una volta aveva un basso contenuto di tetraidrocannabinolo oggi invece in quella in circolazione la quantità di principio attivo può superare il 50%. E’ quindi un prodotto sempre più nocivo che ha marcati effetti sul sistema nervoso centrale come ormai hanno ben documentato ricerche condotte in vari Paesi. Mi sembra», attacca Garattini, «che l’enfasi con la quale si sostiene l’uso medico della cannabis nasconda una malizia: visto che la cannabis è così buona perché non legalizzarla? Mentre invece bisognerebbe avere una maggiore regolamentazione delle droghe legalizzate, alcol e tabacco!».
Silvio Garattini parla forte delle molte ricerche condotte dall’Irccs non solo sugli effetti dannosi delle sostanze tossiche ma anche sul mutamento dei consumi. Dati ottenuti persino misurando con tecniche originali («Ci hanno contattato per conoscere i nostri metodi anche dalla Casa Bianca!») i liquidi in vari punti del percorso delle fogne di città come Milano o Perugia. Tra i risultati un identikit più preciso del tossico di questi giorni di crisi che più che tirare la costosa cocaina (consumo diminuito del 40%) s’imbotte di anfetamine e della pericolosa ketamina; e sulla Rete - la nuova piazza - trova sostanze psicoattive mascherate da prodotti comuni. Pasticche e alcol. Lectio magistralis di Garattini: «Solo con la cultura, informando i giovani, andando nelle scuole eviteremo di avere una generazione di tossicodipendenti. Nessuno è senza responsabilità».

l’Unità 5.4.14
Lampedusa e non solo. L’emergenza sono i Cie
di Paolo Soldini


La notizia è proprio di ieri: nel Libano, che ha un po’ meno di 5 milioni di abitanti, il numero dei profughi dalla Siria ha superato il milione. Quando le scuole riapriranno bisognerà trovare aule e insegnanti per 400 mila bambini siriani: 100 mila in più di quelli libanesi. In tutto il mondo i rifugiati che sono fuggiti da guerre, repressioni e violenze sono 45 milioni, in gran parte ospitati in Paesi poveri che spesso non riescono a soddisfare neppure le esigenze delle proprie popolazioni.
Ecco delle cifre che bisognerebbe tenere sempre in mente quando, come ha fatto nei giorni scorsi il ministro dell’Interno, si parla dei migranti in arrivo o intenzionati a partire dalle coste dell’Africa per l’Italia: «Secondo le nostre informazioni – ha detto Alfano – ci sono tra 300 e 600 mila persone in attesa di transitare (sic) nel Mediterraneo». Trecento o seicentomila? Torniamo ai numeri certi. Nel nostro Paese l’anno scorso hanno presentato domanda di asilo 27 mila 800persone. Quelle le cui richieste verranno accolte si aggiungeranno ai circa 65 mila rifugiati che risultavano riconosciuti come tali all’inizio del 2013. L’ordine di grandezza della «invasione» è questo e per valutarlo correttamente bisogna confrontarlo e tener conto del fatto che, per limitare il calcolo all’Europa, in Germania i profughi riconosciuti sono 580 mila, in Turchia più di 400 mila (quasi tutti siriani), nel Regno Unito 290 mila, in Francia 160 mila, nei PaesiBassi80mila.NeiPaesi scandinavi gli esuli sono intorno al 5-6% della popolazione, in Gran Bretagna quasi il 5%, in Germania il 7%. In Italia sono lo 0,7%: uno ogni1500 abitanti.
Questi sono i fatti. Ma i fatti, si sa, diventano opinabili quando c’è da fare propaganda e la campagna elettorale per le elezioni europee è già cominciata. Nelle organizzazioni che si occupano del problema, come l’Agenzia dell’Onu peri rifugiati(Unhcr)oil Consiglio italiano peri rifugiati(Cir), c’è una percepibile preoccupazione sulla possibilità che la questione degli sbarchi diventi nei prossimi mesi un ring per demagoghi di varia estrazione. Tanto più che, pur senza attingere alle proporzioni evocate da Alfano, un certo aumento degli arrivi di migranti in cerca di sicurezza in Italia è ampiamente prevedibile. Non possiamo stare tranquilli - dice Carlotta Sami, che ha preso il posto di Laura Boldrini come portavoce italiano dell’Unhcr – visto che nei primi tre mesi di quest’anno il numero degli sbarchi è già salito a 10 mila 900 contro i poco più di mille dei primi tre mesi del 2013. Il motivo del boom è semplice: la stragrande maggioranza dei migranti è costituita da profughi politici, eritrei, somali, sud sahariani (particolarmente gambiani) e, soprattutto, siriani che sono spinti a fuggire dalla Libia e dall’Egitto in cui, dopo i fatti dei mesi scorsi, non si sentono più sicuri. Si tratta di viaggi disperati di intere famiglie, con numerosi bambini e sta aumentando in modo allarmante il fenomeno dei minori che arrivano da soli. Il problema grosso è che mentre per gli esuli riconosciuti il sistema di assistenza (il cosiddetto Sprar, gestito dal ministero dell’Interno e dai Comuni) funziona e sta migliorando dopo che il governo lo ha rifinanziato, il sistema di prima accoglienza per chi arriva non funziona affatto. Il centro di Lampedusa è chiuso, e non si capisce perché, egli altri sono tutti sovraffollati. In queste condizioni si corre dritti verso l'emergenza.
Ecco perché, invece di sollevare allarmi, sarebbe utile che al ministero dell’Interno si dedicassero a rimettere in sesto i centri d’accoglienza, a cominciare da Lampedusa. E tutto il governo, anzi tutta la politica italiana farebbe bene a varare una legge organica sull’asilo che l’Italia non ha, unica in Europa. La mancanza di norme chiare in materia fu tra i motivi della sciaguratissima politica dei respingimenti in mare ai tempi del governo Berlusconi. Politica che costò all’Italia pesanti condanne dell’Europa. E intanto al Viminale dovrebbero riconoscere che quando invece di sparare numeri a vanvera si agisce, le cose possono anche funzionare bene. All’Unhcr e al Cir apprezzano l’operato della nostra marina nell’operazione «Mare Nostrum», promossa dal governo Letta dopo il tragico naufragio del 3 ottobre a Lampedusa, che ha permesso di soccorrere 12 mila migranti. E respingono le pericolose polemiche di chi sostiene che proprio la sicurezza garantita dall’operazione favorirebbe le partenze dei profughi verso l’Italia e quindi sarebbe un male. Come dire che un naufragio ogni tanto, invece, sarebbe un bene.
Miserie. Ma si tratta di argomenti che potrebbero aver corso nei prossimi mesi e di fronte ai quali è necessaria la massima fermezza.

il Fatto 5.4.14
Il vizio eterno del compromesso storico
Ripubblicati in un libro gli articoli sul settimanale “Rinascita” che diedero il via alla stagione di collaborazione tra Pci e Dc
di Fabrizio d’Esposito



Provate a ricordare, andando a memoria e non su Google, ma in fondo è lo stesso, un discorso storico di D’Alema o Veltroni, persino di Fassino o Bersani nel cosiddetto ventennio breve della Seconda Repubblica. Provate anche con Napolitano, l’ultimo togliattiano salito al Quirinale. Fatica inutile. Non lo troverete. Al massimo degli slogan. Tipo I care oppure Un paese normale. Di veramente storico, negli ultimi quattro sciagurati lustri della sinistra italiana, c’è forse solo il grido di Nanni Moretti in piazza Navona: “Con questi dirigenti non vinceremo mai”. Ecco perché, nel trentennale della morte, galeotto il film veltroniano, è riscoppiata la berlinguermania. Magari ognuno si ritaglia l’Enrico che preferisce, una sorta di Berlinguer fai da te, facilitato dalla prospettiva ecumenica della pellicola, ma il risultato, in un verso o nell’altro, è sempre lo stesso: la nostalgia di un gigante. Come conferma l’attualità dei suoi discorsi o delle sue interviste. Il berlinguerismo oscilla tra due temi ancora al centro della politica. La questione morale e il compromesso storico. Spesso, come dimostra l’esperienza di Napolitano, ostile alla prima e incline al secondo, si tenta di mettere in contrapposizione le due fasi di Berlinguer. Il punto è dirimente, per la portata delle analisi che fece il Compagno Segretario dell’ultimo, vero Pci. Anche volendo, però, assumere a priori questa antiteticità consolidatasi nella vulgata, emerge comunque la statura del Politico, con la maiuscola. Per rendersene conto, e accantonando la questione morale, basta rileggere i tre articoli che Berlinguer scrisse su Rinascita, glorioso settimanale di Partito, sempre con la maiuscola, per definire “il nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano”. Ossia Pci e Dc. Era il 1973 e ci fu il golpe fascista di Pinochet in Cile contro il socialista Allende. Gli articoli di Berlinguer uscirono il 28 settembre, il 5 e il 12 ottobre, e oggi sono stati raccolti in un pamphlet da Castelvecchi, che sarà in libreria a metà aprile (89 pagine, 9 euro). Il compromesso storico rientrò in “una visione del possibile” in continuità con il realismo e la svolta di Togliatti del ‘44.
PER FABIO Vander, che firma l’introduzione, il colpo di Stato in Cile fu solo un pretesto. Una critica che poi ha un fondamento riscontrabile ancora oggi, di fronte ai patti pseudo-riformisti tra Renzi e Verdini. Il compromesso storico, nelle sue varie evoluzioni, è il limite del nostro Paese e ha toccato nuove vette con Re Giorgio, che da tre anni tiene prigioniera l’Italia in una logica di grandi intese (Monti, Enrico Letta, in parte Matteo Renzi) . La nostra grande anomalia: “Con questa storia si è andati avanti per oltre un secolo, da Cavour a Berlinguer (e Moro). Aporia della democratizzazione questo significa. Curare il vizio della democrazia (la mancanza di alternativa) con la riproposizione dello stesso vizio che si intende curare. Il compromesso storico questo è stato: curare la democrazia malata mantenendola malata. Il Cile, a rigore, c’entra poco”. Com’è noto, Berlinguer ritenne che l’alternativa di sinistra, in principal modo tra Pci e Psi, “non è condizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democrazia ove a questa unità si contrapponga un blocco di partiti che si situano dal centro fino all’estrema destra”.
SI PUÒ anche non essere d’accora con la prospettiva obbligata del compromesso storico, ma restano senza dubbio il fascino, la densità e l’imponenza dell’analisi. Una mentalità tipografica anziché televisiva. Berlinguer si richiama persino a Lenin: “Lenin stesso, che è stato certamente il capo rivoluzionario più audace nella scienza dell’offensiva, è stato anche il più audace nel saper cogliere tempestivamente i momenti del consolidamento e
della ritirata, e nell’utilizzare questi momenti per prendere tempo, per riorganizzare le forze e per riprendere l’avanzata”. È la via, originale, italiana al socialismo, da Togliatti a Berlinguer. Una via parlamentare e sociale che doveva passare anche per il compromesso storico. Con il rischio, però, che l’accordo con la Dc diventasse permanente. Obietta Berlinguer ai critici: “La verità è che nessuno dei nostri critici e obiettori ha saputo e sa indicare un’altra prospettiva valida”. Trent’anni dopo l’Italia è ancora lì. Solo che al posto di Berlinguer e Moro ci sono Renzi e Berlusconi.

Repubblica 5.4.14
“Costruire l’Europa con la Cultura. Solo così si sconfigge il populismo
Aurélie Filippetti, riconfermata dal nuovo premier francese Manuel Valls, lancia un piano insieme a 20 colleghi di altri Paesi: “Per salvare la nostra storia”
intervista di Anais Ginori


PARIGI. «SIAMO in un momento cruciale per l’Europa. I cittadini hanno smarrito la fierezza e persino il sentimento di appartenenza a questo grande progetto. Solo la cultura potrà ridare senso alla costruzione europea ». Aurélie Filippetti saluta in italiano, «piacere». Non ha dimenticato le sue origini umbre, a Gualdo Tadino, da cui partì suo nonno quasi un secolo fa per andare a lavorare nelle mine della Lorena. Il ministro della Cultura francese, confermata nel nuovo governo Valls, ha presieduto ieri un vertice europeo straordinario con venti colleghi di altri paesi, tra cui Dario Franceschini. «Vogliamo lavorare a stretto contatto con l’Italia in vista del presidenza del semestre dell’Ue» spiega Filippetti, mentre ieri Le Monde accostava Valls e Renzi, leader simili eppure diversi. «Sono entrambi giovani — glissa Filippetti — è un segnale positivo per l’Europa che ci sia un rinnovamento generazionale ».
La Francia vuole imporre la famosa “eccezione culturale” a tutto il continente?
«Non siamo come nel villaggio di Astérix. Questo atteggiamento è finito nell’epoca del digitale senza frontiere. Non bisogna più essere in difesa, ma passare all’attacco. A meno di due mesi dalle elezioni europee, questo vertice dei ministri della Cultura serve a valorizzare ma anche proteggere il nostro patrimonio di identità e creazione. E’ il momento di fare proposte ambiziose».
A Bruxelles prevalgono altre preoccupazioni, più economiche e finanziarie?
«L’anno scorso la Francia, insieme ad altri paesi, è riuscita a togliere i prodotti culturali dai negoziati per il nuovo trattato di libero scambio con gli Stati Uniti. E’ stato un momenla to di verità. Non vogliamo più che le istanze europee dimentichino la cultura, trattandola come una merce qualsiasi. E’ nata così l’idea di un coordinamento tra i ministri. Nelle riunioni preparatorie abbiamo esaminato ben 65 proposte concrete e alla fine faremo una sintesi che sarà presentata alla prossima Commissione europea, dopo le elezioni».
Un piano Marshall per salvare la Cultura?
«L’industria culturale attraversa una rivoluzione senza precedenti dovuta alle nuove tecnologie. La presunta ottimizzazione fiscale dei giganti del web rischia di essere solo un’evasione fiscale che mette a repentaglio il sistema di protezione e finanziamento degli autori. Bisogna fare passi avanti anche sull’Iva applicata ai prodotti culturali, compresi i media digitali».
Lei è stata anche scrittrice. Teme che il libro venga cancellato dagli ebook?
«Molti studi dimostrando che gli ebook si completano il libro tradizionale, senza sostituirlo. Vedo sempre più giovani frequentare le librerie, sono ottimista sull’avvenire del libro di carta».
Avete intenzione di approvare la tassa sui tablet per finanziare la cultura?
«Il nostro modello che non è arcaico, come dicono alcuni, ma deve essere adattato alle nuove tecnologie. E’ in gioco la sopravvivenza della nostra diversità culturale. L’idea di una tassa sui tablet è una delle tante ipotesi che esaminiamo, pur sapendo che il governo vuole evitare di aumentare la pressione fiscale».
L’ex ministro delle Finanze, Giulio Tremonti, ha detto una volta: “Con la cultura non si mangia”. Cosa risponde?
«E’ vero il contrario: la Cultura è un nutrimento fondamentale. E’ un cibo spirituale, morale. Anche io devo spiegarlo al dicastero delle Finanze. In Francia, l’industria culturale rappresenta già il 3,2% del nostro Pil, con un giro d’affari di 58 miliardi di euro, superiore a quello dell’industria automobilistica ».
Il rischio è che tutte le vostre buone intenzioni vengano spazzate via dal voto del 25 maggio e dall’arrivo in forza a Strasburgo del Front National e di Beppe Grillo?
«La cultura è il miglior antidoto ai populismi. E’ la prima risposta, con l’istruzione, al razzismo e alla xenofobia. Forse non è un mezzo efficace il giorno delle elezioni, ma è lo strumento migliore per risolvere le cause che alimentano il populismo. I cittadini europei continuano ad andare in massa nei musei, nei Festival, al cinema. Fa parte della nostra identità comune. La cultura è resistenza».

La Stampa 5.4.14
Otto milioni ai seggi
Antisemiti e xenofobi. L’Ungheria al voto con l’incubo Jobbik
Domani le elezioni. I populisti possono sfondare il 17%
di Andrea Sceresina

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La Stampa 5.4.14
Kafka, bandiere palestinesi e diritti gay
Gerusalemme: lezione al campus arabo
Le critiche nei confronti degli israeliani sono dure: “Mio fratello, in una scuola pubblica a Gerusalemme, ha dovuto memorizzare l’importanza della Dichiarazione Balfour che noi consideriamo l’origine di tutti i problemi”
di Maurizio Molinari

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La Stampa 5.4.14
Lungo le vie segrete del Sahara fra Al Qaeda, santoni e disperati
I tuareg trasportano la merce per migliaia di km pagando il pizzo ai jihadisti
di Domenico Quirico


Nelle valli calde del nord del Niger, verso il confine con Libia e Algeria, il sole è triste, triste come un grande abbaglio che cada dal cielo. Sulla sabbia che luccica gli occhi stanchi seguono le ombre del pick-up in cammino e quando li si rivolge verso le montagne lontane sembrano nere a confronto con lo splendore delle sabbie vicine.
Da ogni lato si scoprono nuovi spazi e l’impressione del deserto diventa ancor più angosciante a causa della affermazione visibile della sua immensità. In lontananze così limpide, che si direbbero più profonde della abituali lontananze terrestri, catene di montagne si allacciano e si sovrappongono con contorni nitidi e duri che le lusinghe effimere di foreste cespugli erbe non hanno mai attenuato. Lo splendore della materia quasi eterna. È là che i tuareg mi fecero incontrare i «corrieri». Tuareg anche loro, ma che erano entrati nel «businnes». Ovvero portavano la droga. 
Non c’era ancora la guerra nel deserto, i francesi e i loro alleati africani contro Al Qaeda. La Grande Pista era aperta, incontravi convogli senza immatricolazioni, guardati da armati dai volti nascosti, enigmatici e misteriosi. Mi mostrarono i posti tappa: dove accuratamente celati in vecchi pozzi disseccati, in tombe immemorabili, invisibili anche all’occhio più esperto, erano pronti i rifornimenti di benzina e di acqua. Certo, non erano più i tempi spettacolari di «air cocaine». Quando i fornitori colombiani facevano atterrare nel deserto i Boeing 727 carichi di stupefacenti. Un aeroporto avevano costruito nelle sabbie di Sinkrébaka, a nord i Gao! Ora c’erano le spedizioni regolari con le colonne di pick-up, sulle carovaniere dove un tempo passavano il sale e l’oro, da un mare a un altro mare. A Gao, stipata nei depositi accanto all’acqua grigia del Niger, «la farina», la chiamano così i riveriti «commercianti» maliani, attendeva l’ultimo balzo attraverso il deserto. 
E sì che c’era già Al Qaeda nel Sahara: una tangente in più da pagare, da aggiungere alle guide tuareg, ai funzionari, ai poliziotti e ai soldati di almeno tre eserciti per titillarne la scarsa onestà. Ma un chilo di coca rendeva così tanto… «Bisogna viaggiare in fretta con “la farina”; voi europei siete impazienti, non potete farne a meno e pagate bene, benissimo», sghignazzavano i corrieri con una allegria interna che brilla negli occhi e vuol pure sfogarsi in una fregata di mani lesta e sorniona. Il tramonto ci era attorno, l’oro sembrava essersi rovesciato per noi soli sul piccolo campo solitario. I pick-up con il loro carico sciagurato e prezioso erano orlati d’oro, il deserto intero era d’oro, i cespugli e le pietre. Poi venne la notte con il suo silenzio. E i racconti, come sempre nel deserto: il Grande Viaggio della droga. 
Tre anni dopo ho ritrovato quei racconti leggendo un’ inchiesta, appena chiusa con successo, e lunga, paziente, complessa, affascinante come un romanzo, del Nucleo investigativo dei carabinieri di Torino. Aveva ragione Zola: bisogna leggere i verbali giudiziari, sono straordinarie illuminazioni sulla vita vera, gli uomini vi compaiono senza mediazioni, sfumature, illusioni. Vivi: implacabilmente. Vertiginosa incursione in un mondo che respira accanto a noi, nelle città d’Europa, che si nutre dei nostri vizi e se ne arricchisce disprezzandoci, maneggiando le nostre lordure senza usarle per se, solo per indebolirci. Io non lo sapevo ancora ma nel deserto, tre anni fa, incrociai quasi certamente le merci milionarie e illegali di Mohamed Traoré, il maliano. La droga che ho visto, alla fine del viaggio, alimentava lo spaccio a Torino: e in Spagna, Germania, Portogallo, Francia, Svizzera. 
Traoré è un songhai; i carabinieri lo hanno scoperto quando hanno decifrato il dialetto misterioso con cui trattava i suoi affari lerci, dalla Spagna dove viveva, al Mali e in tutta Europa. Una accortezza in più contro le intercettazioni, il dialetto songhai. Nel Cinquecento era la lingua di un grande impero che andava dal Benin all’Atlantico, da Djenné alle miniere di sale di Teghaza. L’Askia Mohamed fu il primo africano a ottenere il titolo di comandante dei credenti: quando partì per il pellegrinaggio alla casa di Dio, anno dell’egira 902, nel mese di safar, si portò dietro, sontuosamente, per fare elemosina, trecentomila «mithqal», una tonnellata di oro.
È difficile afferrare con le dita, nelle pagine dell’inchiesta, Traoré: scivola via, maneggia milioni e parla di banalità, è opaco, subdolamente neutro. La grande via africana della droga, in fondo, è una storia di clan, di villaggi, di africanità: fanno viaggiare stupefacenti e milioni di euro attraverso il mediterraneo, le montagne i deserti, usano internet, i telefoni satellitari e poi restano legati ai loro riti. Gregari e capi consultano il marabutto prima di un viaggio o di un contratto, portano tutti al collo i gri gri, gli amuleti, un borsellino con dentro versetti del Corano, foglie, pezzi di osso, sabbia. Preservano da tutti i mali, ma non dalla morte come mi disse un santone a Dakar «perché la morte non è un male». Pregano da buoni musulmani, con fervore: «non ho risposto al telefono, ero alla moschea...»; una donna a Bamako chiamata da Traoré gli annuncia che ucciderà il montone e farà festa perché «il lavoro è andato bene... i vicini mi invidiano perché vedono la bella casa e vestiti e sanno che i soldi arrivano da te che hai fatto fortuna in Europa...», andrà a pregare il favore di dio nella grande liturgia del venerdì «dove c’è più gente… mi piacerebbe aprire un negozio…» lo tenta sorniona... C’è un mondo del delitto ed essi vi restano dentro come entro un tepore. 
L’inchiesta racconta come in Italia, in Europa, non si mescolino, non abbiano alcuna curiosità per il mondo che sta loro intorno: dormono di giorno stipati in alloggi fatiscenti («l’unico requisito, obbligatorio, è la porta blindata per complicare l’irruzione della polizia») e spacciano di notte, vogliono solo far soldi, in fretta, da mandare a casa, e tornare non più come manovali, spacciatori di strada, dell’Organizzazione (cento solo a Torino!) ma come importatori, grossisti e capi. 
Lo spaccio come un putrido mestiere, laido tran tran. Poi di colpo guizzano lampi di ferocia, di sangue, di terrore. Perché i guai di Traoré sono iniziati con la confessione di un piccolo spacciatore di strada senegalese finito in prigione. Un dettaglio, una crepa quasi invisibile. Aveva infranto la legge dell’Organizzazione, aveva rubato una parte degli stupefacenti. Sapeva di non avere scampo. Per scoprire il suo nascondiglio hanno torturato e ucciso a Dakar suo padre e poi mutilato una sorella. Solo confessare poteva salvarlo. Il velo si è alzato per la prima volta. «Una organizzazione fortemente strutturata e gerarchizzata… 
dall’approvvigionamento in Africa alla distribuzione capace di resistere agli eventi che la colpiscono... di grande pericolo sociale perché risulta sostanzialmente stabile». La cocaina che arriva in africa, in Senegal, costa già cara per al sua elevata purezza: 44 mila euro al chilo. Con tagli ripetuti, in Europa la vendono a cento euro al grammo. Milioni di euro a cui erano addetti come formiche piccoli spacciatori di strada: sognano di far carriera, con l’astuzia la tenacia la violenza, nell’Organizzazione non si ci sono gradi fissi, si può far aver successo come in una azienda capitalista. In una intercettazione uno dei capi parla con un’aspirante recluta: «Vieni, ti faccio vedere la strada per fare soldi… con tre viaggi sei a posto, io faccio così: compro la roba e poi la dò a qualcuno che la porta per me… devi fare soldi perché qui in Senegal se non hai soldi non conti niente… devi fare come me che non ho paura di niente…». A tre ore di volo da noi nascono così i narco-stati dell’Africa. Al Qaeda, la guerra nel deserto sono piccole tempeste, portano solo il fastidio di cercare nuove rotte, altri complici: «In Mali è tutto un casino colpa dei militari… a Timbuctu non si può più vivere, ci sono gli islamisti che si son messi a fare anche i doganieri , tutta la nostra rete è messa in difficoltà…». Allora con i guadagni si comprano armi, mettere a rispetto i gruppi rivali, controllare le vie del deserto. 
Un altro luogo: Dakar, il porto di arrivo dal Sud America. I moli sepolti sotto dune di merce come dune di sabbia accumulata dal vento, odore di colla in ebollizione, è rimasta attaccata alle cose anche se ormai non si incide più il verek, le acacia che produce lacrime di gomma; stormi di uccelli neri volano da una duna all’altra, si posano e piluccano. Dakar: città sogno, un po’ Napoli e un po’ Marsiglia, con i quartieri della miseria, le sinistre bidonvilles dove sfumano i suoi colori pastello. In Senegal ci sono decine di villaggi come Khambala dove gli inquirenti sono andati a cercare le tracce di uno dei capi del traffico, un villaggio rurale dove sono infisse ville da 50 milioni di franchi Cfa. I ragazzi per strada che sognano di fare gli ovulatori, corrieri che inghiottono confezioni di 10 grammi di droga e poi prendono il volo per Milano, raccontano agli investigatori che le ville appartengono agli emigranti tornati dall’Italia, gli arricchiti con lo spaccio. E hanno investito nell’immobiliare. 
Mohamed Traoré è stato arrestato a Barcellona il 12 febbraio: è in attesa di estradizione in Italia. 

il Fatto 5.4.14
Il vizio eterno del compromesso storico
Ripubblicati in un libro gli articoli sul settimanale “Rinascita” che diedero il via alla stagione di collaborazione tra Pci e Dc
di Fabrizio d’Esposito

Provate a ricordare, andando a memoria e non su Google, ma in fondo è lo stesso, un discorso storico di D’Alema o Veltroni, persino di Fassino o Bersani nel cosiddetto ventennio breve della Seconda Repubblica. Provate anche con Napolitano, l’ultimo togliattiano salito al Quirinale. Fatica inutile. Non lo troverete. Al massimo degli slogan. Tipo I care oppure Un paese normale. Di veramente storico, negli ultimi quattro sciagurati lustri della sinistra italiana, c’è forse solo il grido di Nanni Moretti in piazza Navona: “Con questi dirigenti non vinceremo mai”. Ecco perché, nel trentennale della morte, galeotto il film veltroniano, è riscoppiata la berlinguermania. Magari ognuno si ritaglia l’Enrico che preferisce, una sorta di Berlinguer fai da te, facilitato dalla prospettiva ecumenica della pellicola, ma il risultato, in un verso o nell’altro, è sempre lo stesso: la nostalgia di un gigante. Come conferma l’attualità dei suoi discorsi o delle sue interviste. Il berlinguerismo oscilla tra due temi ancora al centro della politica. La questione morale e il compromesso storico. Spesso, come dimostra l’esperienza di Napolitano, ostile alla prima e incline al secondo, si tenta di mettere in contrapposizione le due fasi di Berlinguer. Il punto è dirimente, per la portata delle analisi che fece il Compagno Segretario dell’ultimo, vero Pci. Anche volendo, però, assumere a priori questa antiteticità consolidatasi nella vulgata, emerge comunque la statura del Politico, con la maiuscola. Per rendersene conto, e accantonando la questione morale, basta rileggere i tre articoli che Berlinguer scrisse su Rinascita, glorioso settimanale di Partito, sempre con la maiuscola, per definire “il nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano”. Ossia Pci e Dc. Era il 1973 e ci fu il golpe fascista di Pinochet in Cile contro il socialista Allende. Gli articoli di Berlinguer uscirono il 28 settembre, il 5 e il 12 ottobre, e oggi sono stati raccolti in un pamphlet da Castelvecchi, che sarà in libreria a metà aprile (89 pagine, 9 euro). Il compromesso storico rientrò in “una visione del possibile” in continuità con il realismo e la svolta di Togliatti del ‘44.
PER FABIO Vander, che firma l’introduzione, il colpo di Stato in Cile fu solo un pretesto. Una critica che poi ha un fondamento riscontrabile ancora oggi, di fronte ai patti pseudo-riformisti tra Renzi e Verdini. Il compromesso storico, nelle sue varie evoluzioni, è il limite del nostro Paese e ha toccato nuove vette con Re Giorgio, che da tre anni tiene prigioniera l’Italia in una logica di grandi intese (Monti, Enrico Letta, in parte Matteo Renzi) . La nostra grande anomalia: “Con questa storia si è andati avanti per oltre un secolo, da Cavour a Berlinguer (e Moro). Aporia della democratizzazione questo significa. Curare il vizio della democrazia (la mancanza di alternativa) con la riproposizione dello stesso vizio che si intende curare. Il compromesso storico questo è stato: curare la democrazia malata mantenendola malata. Il Cile, a rigore, c’entra poco”. Com’è noto, Berlinguer ritenne che l’alternativa di sinistra, in principal modo tra Pci e Psi, “non è condizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democrazia ove a questa unità si contrapponga un blocco di partiti che si situano dal centro fino all’estrema destra”.
SI PUÒ anche non essere d’accora con la prospettiva obbligata del compromesso storico, ma restano senza dubbio il fascino, la densità e l’imponenza dell’analisi. Una mentalità tipografica anziché televisiva. Berlinguer si richiama persino a Lenin: “Lenin stesso, che è stato certamente il capo rivoluzionario più audace nella scienza dell’offensiva, è stato anche il più audace nel saper cogliere tempestivamente i momenti del consolidamento e
della ritirata, e nell’utilizzare questi momenti per prendere tempo, per riorganizzare le forze e per riprendere l’avanzata”. È la via, originale, italiana al socialismo, da Togliatti a Berlinguer. Una via parlamentare e sociale che doveva passare anche per il compromesso storico. Con il rischio, però, che l’accordo con la Dc diventasse permanente. Obietta Berlinguer ai critici: “La verità è che nessuno dei nostri critici e obiettori ha saputo e sa indicare un’altra prospettiva valida”. Trent’anni dopo l’Italia è ancora lì. Solo che al posto di Berlinguer e Moro ci sono Renzi e Berlusconi.

l’Unità 5.4.14
Libertà di ricerca
Nella mappa mondiale Italia come Croazia e Iran
Durante il convegno è emerso che il nostro Paese ha qualche problema nel colmare il divario fra politica e scienza
Un progetto permette di misurare l’indice
di Cristiana Pulcinelli


LIBERTÀ VA CERCANDO.MA NON LA TROVERÀ, PARE, IN ITALIA. DAL TERZO CONGRESSO MONDIALE PER LA LIBERTÀ DI RICERCA SCIENTIFICA che si è aperto ieri a Roma emerge infatti che il nostro Paese ha qualche problema su questo fronte. A farcelo notare ci ha pensato Andrea Boggio, professore associato di Legal studies alla Bryant University (Stati Uniti), che ha aperto il congresso intitolato «Colmare il divario tra scienza e politica», promosso dall’Associazione Luca Coscioni e dal Partito radicale, con la collaborazione dell’Università di Manchester e dalla European Society for Human Reproduction (ESHRE), con il patrocinio del Ministero degli Affari Esteri, del Ministero della Salute e di Roma Capitale.
Boggio ha presentato una novità: l’indice di libertà e autodeterminazione. Si tratta di uno strumento per misurare a livello mondiale il grado di libertà di ricercatori e pazienti. Alla realizzazione di questo progetto hanno lavorato alcuni studiosi già dal 2008 e ora, finalmente, è pronto. Tutto parte da una premessa: «Espandere il sapere scientifico mediante la ricerca, accrescere il benessere dei pazienti attraverso i trattamenti medici e garantire la somministrazione dei migliori trattamenti disponibili sono aspirazioni universali che accomunano ricercatori, professionisti del settore sanitario e pazienti di tutto il mondo». La trasformazione di queste aspirazioni in risultati concreti, tuttavia, è vincolata da leggi che non sono uguali dappertutto. «Gli ambienti regolatori variano di nazione in nazione: alcune nazioni favoriscono la libertà di ricercatori, professionisti del settore e pazienti; alcune la limitano». Allora, si sono detti i ricercatori, possiamo provare a delineare un quadro mondiale che metta a confronto la legislazione, e quindi il grado di libertà della ricerca, almeno su alcuni temi. Per ora sono state prese in esame quattro aree strategiche: ricerca con embrioni e cellule staminali, riproduzione assistita, aborto e contraccezione, scelte di fine vita. Per ognuna di queste aree, sono stati identificati aspetti chiave per misurare il grado di libertà di ricerca ed autodeterminazione garantita ai cittadini. Successivamente sono state create una serie di domande che permettessero la misurazione del grado di libertà ed infine sono stati raccolti dati in un gran numero di paesi, adottando una metodologia che si ispira al noto rapporto sulla libertà di stampa pubblicato ogni anno da Freedom House, organizzazione privata e indipendente con sede a Washington. Al momento Boggio e colleghi hanno messo a punto una mappatura completa per 42 paesi, parziale per più di 100: «Le sfumature più chiare rappresentato un maggior grado di libertà. I colori diventano progressivamente più scuri man mano che ci imbattiamo in un paese con maggiori proibizioni e restrizioni ». Quello che emerge è un quadro estremamente eterogeneo. Salta agli occhi, però, la posizione del nostro Paese: l’Italia nella classifica complessiva (che tiene conto dell’indice nei quattro settori esaminati) è al trentacinquesimo posto su 42. Subito prima della Croazia e dell’Iran e poco sotto la Turchia e la Colombia. Se consideriamo che nella classifica per la libertà di stampa siamo ventiquattresimi su venticinque paesi dell’Europa occidentale, non c’è da stare allegri.
Boggio sottolinea tre fatti. Il primo è l’estrema frammentazione delle regioni del mondo: «In Europa, per esempio, l’eutanasia attiva è legale in tre nazioni mentre in paesi come la Croazia e la Norvegia il grado di libertà attinenti alle scelte di fine vita è bassissimo. L’aborto è regolamentato in modo molto permissivo in Svizzera, Ungheria, Belgio, Olanda e Grecia, e praticamente vietato in Irlanda. La mappa risulta ancora più colorata se si considera la ricerca con embrioni e la riproduzione assistita ».
Il secondo punto è che le mappe che mettono in risalto il maggior grado di libertà a livello globale sono la mappa su aborto e contraccezione e quella sulla riproduzione assistita. Quella invece da cui risultano più restrizioni è quella sulle scelte di fine di vita. Questo perché i primi temi hanno una storia di attivismo lunga decenni. Il terzo punto è che anche le aree che sembrano più stabili e più orientate alla libertà individuale ed al diritto di autodeterminazione sono comunque oggetto di aspre battaglie politiche. «Il caso dell’aborto è paradigmatico – sottolinea Boggio - con costanti operazioni di boicottaggio e sabotaggio del diritto di autodeterminazione della donna».

Corriere 5.4.14
Nazionalismo e bolscevismo La guerra russo-polacca del 1919
risponde Sergio Romano


Non avevo mai sentito nominare il Trattato di Riga e, tanto meno, una guerra russo-polacca nel XX secolo. Se non sbaglio, non ne parlano nemmeno i libri di testo. Vuole spiegarci di che si trattò? 
Gianna Masini 

Cara Signora, 
La guerra che scoppiò fra la Russia e la Polonia nel 1919 fu il primo scontro fra nazionalismo e internazionalismo comunista dopo la rivoluzione bolscevica e la fine della Grande guerra. Risorta dalle ceneri delle sue tre spartizioni, la Polonia credette di potere cominciare una nuova esistenza nazionale ricostituendo il grande impero polacco-lituano dei secoli in cui era la maggiore potenza dell’Europa centro-orientale. Ancora impegnata nella sua guerra contro l’Armata bianca di Denikin e Wrangel, la Russia bolscevica credette di potere consolidare la rivoluzione con un conflitto che, nelle sue speranze, avrebbe mobilitato le masse proletarie degli Stati borghesi e favorito l’espansione del comunismo in Europa. 
La guerra fu un dramma in tre atti. Nel primo atto l’iniziativa fu dei polacchi. Atteggiandosi a protettori di un governo ucraino in esilio, conquistarono Vilnius, Minsk e Kiev. Ma nel secondo atto l’esercito russo comandato da Kamenev e Tuchacevskij, insieme all’Armata a cavallo di Semion Budionnyj, riconquistarono il terreno perduto, entrarono nel territorio polacco, si spinsero sino a Varsavia nell’agosto 1920 e misero l’assedio alla città. Era quello il momento in cui le masse popolari polacche, secondo le speranze russe, si sarebbero armate per aiutare i compagni comunisti accampati al di là della Vistola. Ma il nazionalismo prevalse sul sentimento di classe e il mondo assistette alla straordinaria mobilitazione della gioventù polacca. Nelle settimane seguenti un nuovo esercito polacco, comandato dal maresciallo Pilsudski e fiancheggiato da reparti francesi del generale Weygand, rovesciò le sorti della guerra, costrinse i russi a ritirarsi, riconquistò Minsk; ed era sulla strada di Kiev quando i due Paesi si accordarono per l’interruzione delle ostilità. La pace fu firmata a Riga il 18 marzo 1921 e le parti tracciarono un confine che lasciava alla Polonia una parte della Bielorussia e dell’Ucraina occidentale, fra cui Leopoli. Formalmente il trattato riconobbe l’indipendenza dell’Ucraina; nella realtà finì per sancirne la spartizione. Insieme ai territori ucraini e bielorussi la Polonia ebbe la soddisfazione di ottenere «30 milioni di rubli, oro in moneta o in lingotti per la partecipazione attiva dei territori della Repubblica polacca alla vita economica del vecchio Impero russo». 
L’assedio di Varsavia ebbe due spettatori di eccezione: Monsignor Achille Ratti (il futuro Pio XI), inviato in Polonia da Benedetto XV come visitatore apostolico, e il capitano Charles de Gaulle, addetto alla missione militare francese per la ricostituzione dell’esercito polacco. Se vorrà seguire la campagna dalla parte dei russi, cara Signora, potrà leggere L’Armata a Cavallo , opera di un grande scrittore russo, Isaak Babel, scomparso durante le purghe staliniane.

La Stampa 5.4.14
Gran successo per la lirica in streaming
di Giangiorgio Satragni


L’opera sul web avanza anche in Italia. Il Carlo Felice di Genova è il primo ad aver creato un canale tutto suo, che sta perfezionando, e offre live concerti e spettacoli in forma gratuita. Stasera va in onda La bohème di Puccini, l’indirizzo è www.streamingcarlofelice.com. Il teatro ligure balza così all’onore della cronaca per aver trovato nelle nuove tecnologie il riscatto da un profondo rosso finanziario e da una crisi artistica senza precedenti. Ora le cose vanno meglio su entrambi i fronti, anche grazie all’impegno di Fabio Luisi, genovese in carica all’Opera di Zurigo e direttore principale al Met newyorchese, che mise il suo prestigio a servizio dell’istituzione e del web. Pagliacci di Leoncavallo, regia di Zeffirelli, fu nell’aprile 2011 la prima opera che un teatro italiano mandò in diretta su internet.
Il Belpaese sconta, al solito, un perenne ritardo anche tecnologico. Nel frattempo, però, qualcosa si è mosso. E’ il caso del progetto OperainWeb che Telecom Italia ha stretto con il Petruzzelli di Bari, anch’esso in fase economica delicata, diffondendo sul web il Rigoletto di Verdi, nel maggio 2013, e La sonnambula di Bellini nel settembre scorso. Entrambi gli spettacoli restano disponibili fino a settembre 2014 sul sito Telecom. Anche La Fenice di Venezia, molto avanzata quanto a marketing e merchandising, è sbarcata sul web, ma sul sito europeo che iniziò a trasmettere concerti prima di tutti, ovvero medici.tv. Lì a novembre è andata in onda la rara Africaine di Meyerbeer, prodotta in vista del 150° dalla morte del compositore. Doveva passare anche su Rai5, che al momento non può trasmetterla in quanto priva di sottotitoli italiani; però anche il sito del canale tv si è in parte avvicinato all’opera live, associandosi alla trasmissione planetaria della Traviata scaligera dell’ultimo Sant’Ambrogio. Che però non si poteva vedere attraverso provider stranieri per questioni di diritti.
Dopo i concerti live, più facili da realizzare, consueti gli appuntamenti con l’Orchestra Nazionale Rai o l’Accademia di Santa Cecilia, si rafforza dunque l’opera sulla rete. I genovesi navigano con apparente vento in poppa. Avviano una collaborazione con il Centro Ricerche Tecnologiche Rai di Torino, grazie a cui la Bohème sfrutterà, per la parte audio, un solo microfono sferico dotato di 32 capsule che captano e riproducono la spazialità del suono. Il barbiere di Siviglia di Rossini, in programma a giugno, utilizzerà invece per la prima volta in una diffusione internet il sistema surround multicanale 5.1.

Corriere 5.4.14
Carta e innovazione. La sfida delle edicole
di Marco Gasperetti


FIRENZE — I giornali su carta? Hanno sofferto la crisi ma, nonostante le difficoltà e l’emorragia di copie, restano il cuore pulsante delle notizie, il core business sul quale si fonda l’editoria e le edicole sono i loro templi. Dalla tavola rotonda «Conoscere per crescere», organizzata in occasione del XI congresso nazionale della Snag, il sindacato autonomo dei giornalai, arriva un messaggio forte: la «carovana di carta» ha rallentato il suo incedere nel deserto della non informazione, ma è più viva che mai e gli edicolanti sono pronti a nuovi progetti innovativi. E persino a vendere, in accordo con gli editori, i giornali a metà prezzo, nel tardo pomeriggio quando le news non sono più primizie. «L’edicola è sempre stata un servizio pubblico — ha spiegato Armando Abbiati, presidente del sindacato autonomo di Confcommercio — e gli edicolanti sono piccoli imprenditori di un genere di prima necessità. Noi abbiamo fede nella carta, perché accanto alle piattaforme virtuali, può continuare a recitare un ruolo da protagonista». 
Da Firenze i giornalai hanno chiesto l’apertura di un tavolo nazionale sui problemi della categoria e soprattutto del settore. Un invito immediatamente accolto dalla Fieg, la Federazione degli editori di giornali, presente all’iniziativa con il suo direttore Fabrizio Carotti. «Bisogna lavorare con grande volontà, tutti insieme — ha detto Carotti —, noi editori insieme ai distributori nazionali, a quelli locali, ai punti vendita. Ci sono sfide enormi da affrontare, che possiamo superare anche grazie all’uso delle nuove tecnologie, che permettono di migliorare il servizio al cliente. Abbiamo le stesse ambizioni e la voglia di centrare gli obiettivi di crescita esattamente come quelle espresse dai rappresentanti dei punti vendita». 
Il vicedirettore del Corriere della Sera , Giangiacomo Schiavi, ha sottolineato che i giornali per sopravvivere dovranno essere credibili, responsabili e autorevoli. «E dovranno essere sempre più capaci — ha sottolineato — di selezionare e dare una gerarchia alle notizie che ci assediano con gran frastuono». Non sono mancati spunti polemici. Ai margini della manifestazione Abbiati ha denunciato una sorta di monopolio dei distributori di quotidiani. «Non è possibile che in Italia il sistema sia in mano a 90 aziende privatistiche — ha detto —. I distributori hanno potere di vita o di morte sul giornalaio e questo è inaccettabile».

La Stampa 5.4.14
“Più ansia, depressione e allergie”
Essere vegetariani fa male alla salute
di Paolo Mastrolilli

qui

Repubblica 5.4.14
Con Repubblica il nuovo iLibra Zygmunt Bauman analizza i demoni del presente
Così la paura avvelena la società liquida
di Giancarlo Bosetti


ZYGMUNT Bauman, sociologo polacco trapiantato a Leeds, Inghilterra, è, prima che quel prolifico e amato scrittore che tutti conoscono, un grande lettore, un vorace esploratore della cronaca e della letteratura delle scienze sociali che descrive il nostro tempo, i cambiamenti che attraversiamo e percepiamo e le tendenze di cui abbiamo una cognizione ancora confusa. Se nei suoi saggi si è rivelato il più efficace e originale inventore di linguaggio, quello della modernità “liquida”, questo è avvenuto grazie alle doti raffinate della sua scrittura e del suo eloquio, che riescono a conquistare il pubblico come solo i
grandi narratori.
Bauman rende omaggio in modo esplicito alla molteplicità delle sue infinite fonti, ma nel riferirne le scoperte e nel collegarle tra loro trova poi quasi sempre spunti per una sintesi che regala ai suoi lettori immagini e parole che marcano l’idea in modo permanente. Così avviene anche in questo testo (Il demone della paura), che rielabora suoi lavori precedenti e vi aggiunge una sintetica rassegna antologica. Il tema hobbesiano della paura attraversa tutta la storia della teoria politica da Machiavelli ai giorni nostri, è sia il nocciolo fondativo del potere assoluto del Leviatano sia la virtù del principe che ne sappia governare gli effetti. In queste pagine troviamo quel genere di paura che alimenta e/o avvelena tanta parte della politica contemporanea.
Per Bauman la madre e il padre di tutte le paure che percorrono il nostro presente è il declino, la scomposizione e la scomparsa dell’organizzazione economica, sociale, e anche politica, che andava sotto il nome di “fordismo”, da intendersi come il sostrato industriale che reggeva l’intero edificio. Questa base irradiava sicurezze e solidità nel corpo sociale. La fabbrica fordista era la «esemplificazione dello scenario di modernità solida in cui si stagliava la maggior parte degli individui privi di altro capitale». Quello era il luogo dei conflitti tra capitale e lavoro in una relazione, ostile, ma di «lungo termine». E questa caratteristica consentiva agli individui «di pensare e fare progetti per il futuro». Il conflitto era insomma un investimento ragionevole e un sacrificio «che avrebbe dato i suoi frutti», mentre la condizione attuale, la volatilità globale dell’economia, fa apparire i tentativi di ripetere analoghi conflitti con analoghi strumenti un gioco nostalgico molto povero di senso.
Nei suoi scritti Bauman mette sempre generosamente in evidenza il debito nei confronti degli autori dai quali trae ispirazione: i più frequentemente citati sono Pierre Bourdieu, Manuel Castells, Ulrich Beck, Anthony Giddens e Robert Castel, il francese cui si deve tra i primi, insieme a André Gorz, la scoperta che la “società del lavoro” volgeva al termine. In questa rassegna di paure, Castel è presente con qualche sua bella pagina in cui il tema è declinato in modo consapevolmente europeo: il paradosso è che l’insicurezza è molto diffusa nei Paesi sviluppati, che sono in realtà i meglio protetti rispetto al mondo intero. E questo perché insicurezza non è solo «vivere nella giungla», ma dipendere da protezioni forti «che diventano fragili e dalla paura di perderle». Tutta la fenomenologia della paura si riaffaccia così nei diversi segmenti della vita sociale degli ultimi decenni: il terrorismo, la criminalità della vita urbana, le tendenze a recintare la comunità di apparati di sicurezza, i rischi ambientali e della salute, e poi l’afflusso di Altri e Diversi, bersaglio prediletto dalle politiche della paura che hanno negli immigrati il più redditizio capro espiatorio.
Anche il capitale politico è “liquido” e pronto a qualsiasi investimento e coglie con prontezza le possibilità di profitti che la paura offre in misura crescente. Grandi investimenti si profilano di fronte allo scricchiolare della sovranità di quel Leviatano che aveva costruito la sua forza e legittimazione proprio sulla paura (ma restituendo protezione e sicurezza). Sorprendente e discutibile la proposta dell’ungherese Frank Furedi che critica la sinistra per la diffusione della paura del riscaldamento globale e che sembra in realtà suggerirle proprio un investimento analogo a quello che la destra fa su sicurezza e incolumità personale contro gli immigrati. Più ragionevole la risposta di Bauman e Castel: la vittoria sulle insidie della paura è da cercare sopra i confini nazionali, in una Europa sociale e, a livello mondiale, nella creazione e nel rafforzamento di istituzioni internazionali capaci di controllare i rischi. Lungo cammino, ma senza alternative.