Corriere 11.4.15
Nel Veneto umiliato di Zanzotto
di Mario Villalta
«Vivere in mezzo alla bruttezza non può non intaccare un certo tipo di sensibilità, ricca e vibrante, che ha caratterizzato la tradizione veneta». Anzi, provoca «impensabili fenomeni regressivi al limite del disagio sociale, devastazioni nell’ambito sociologico e psicologico». Diceva così Andrea Zanzotto in uno dei suoi colloqui con Marzio Breda, parlando degli effetti di quel «progresso scorsoio» che dava il titolo al libro uscito da Garzanti nel 2009 e ora ripubblicato in tascabile e in ebook con una nota di Claudio Magris. Testimone di una aggressione al paesaggio veneto che si accompagnava alla distruzione della cultura contadina, Zanzotto denunciava, nei suoi versi come in numerosi interventi, il dilagare della «megamalattia» che aveva trasformato il suo Veneto, la valle del Soligo dove abitava da sempre, in un territorio sfregiato da una edilizia casuale. Fino dai primi Anni 60, Zanzotto aveva richiamato, invano, l’attenzione su quello che stava accadendo. Nel 2009, a 88 anni, sconsolato, si affidava solo alla «disperata speranza» nell’intervento di un qualcosa, qualcuno che viene da fuori, magari «il vecchio E.T. cinematografico».
Il suo primo intervento sugli effetti di quella devastazione risaliva al 1962. Ma già allora aveva pubblicato diversi libri di poesia (il primo, significativamente, s’intitolava Dietro il paesaggio , 1951). Sentiva, fortemente, la responsabilità del dettato poetico. Commentando il celebre aforisma di Adorno (dopo Auschwitz non si può più scrivere versi) sosteneva che la poesia può riemergere a dispetto di qualunque previsione. Nasce anche da qui il recupero del dialetto, una tradizione che lo sviluppo stava annichilendo. Ma insieme, in una combinazione che è solo sua, Zanzotto usa parole, modi dire, reperti di quella Babele postmoderna che è l’esatto corrispettivo del mondo creato dal progresso scorsoio. Il problema poetico, scriveva Gianfranco Contini, si converte necessariamente in questione linguistica. Si riferiva, Contini, a Dante, ma in realtà a ogni poeta che ha a cuore una innovazione formale. Una formula critica che perfettamente si addice a Zanzotto, al suo inesauribile sperimentalismo. Solo a questo prezzo, diceva, a quello pagato nella combinazione di lingue lontane e incomunicabili, di arcaico e postmoderno, la poesia si salva. E, forse, ci salva.
Nel suo parlare di uomo schivo e ritirato, Zanzotto ripercorre con Breda i fatti della sua vita. I ricordi del padre pittore perseguitato dai fascisti, gli anni di università a Padova, la Resistenza, il suo socialismo utopista e umanitario, il suo rapporto con la psicoanalisi lacaniana. Rammenta, poi, l’incontro con Fellini per tre film, Casanova , La città delle donne , E la nave va . Fellini voleva, per Casanova , una serie di filastrocche in dialetto, più simili al petél — il linguaggio apparentemente senza senso dei bambini — che non a vere e proprie poesie. Suoni, echi di un mondo perduto, ricchi di remote suggestioni. A Fellini, del resto, Zanzotto avrebbe dedicato una raccolta di scritti raccolti sotto il titolo Il cinema brucia e illumina .
Uomo di vastissime letture, conoscitore di poeti (Hölderlin, Pound, l’adorato Montale), traduttore di Bataille, a volte sorprende in queste conversazioni come quando cita a memoria i versi della Conchiglia fossile dell’abate Zanella. Progressivamente deluso dalla politica, sempre meno religioso, Zanzotto rivendica la fede nella poesia, la sola, se vera e pura, che può evitare «le zone di pericolosa radioattività». Due anni dopo l’uscita di In questo progresso scorsoio , Zanzotto ci lasciava.
L’incontro : oggi alle 17 alla Biblioteca comunale di Pordenone si terrà un convegno su «L’idea di paesaggio in Zanzotto». Intervengono Marzio Breda, Matteo Giancotti e Gian
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 11 aprile 2015
La Stampa Tuttolibri 11.4.15
Hölderlin, in cerca d’assoluto per salvarsi con la poesia
Dall’amore con Diotima all’amicizia con Hegel e Schelling E un’onnipresente madre che lo vorrebbe ecclesiastico
di Alessandra Iadicicco
Le molteplici amarezze dell’insegnamento, la tirannia della filosofia, gli spiriti infernali dell’astrazione, l’insanabile dissidio che contrappone il cuore alla ragione e la ragione alla rivelazione. E ancora, la grandezza affascinante della natura, i passi da gigante dei rivoluzionari mossi da smania insopprimibile di libertà, la bellezza eterna dell’arte e quella concreta e proibita dell’amata. Il fuoco del cielo greco, la serenità giunonica, apollinea, la chiarezza della mente tedesca, il carattere nazionale, il forte sentimento della patria…
Sono i temi che risuonano nell’imponente epistolario del poeta e vate e veggente tedesco Friedrich Hölderlin, straordinario documento di vita e della Stimmung di un’epoca improntata al romanticismo. La sua pubblicazione integrale si deve al coraggioso editore Ariele di Piombino e all’impegno sapiente e scrupoloso del germanista toscano Gianni Bertocchini, traduttore e curatore del volume. Il testo, in gran parte inedito – a oggi in Italia erano uscite solo le lettere d’amore inviate a Hölderlin da Suzette Gontard, «Diotima», la moglie del banchiere francofortese che lo aveva assunto come precettore di suoi figli, pubblicate da Adelphi qualche anno fa – contiene scritti di natura, stile e provenienza assai diversi. Lettere di e a Hölderlin. Documenti formali e intime confessioni. Occasioni di autochiarificazione: di confronto con se stesso e con il suo tempo. Scelte di campo, prese di posizione, rivendicazioni della propria indipendenza e vocazione.
Numerose, a questo proposito appunto, sono le missive alla madre, Johanna, Christiana Gock, figura centrale nella biografia di Friedrich che rimase orfano di padre all’età di due anni e fu cresciuto dalla forte e volitiva signora in vista di una da lei auspicata carriera ecclesiastica. A lei, che ogni volta che se ne presentava l’occasione insisteva per fargli sposare la vedova di qualche pastore così da fargliene assumere il ruolo, Hölderlin non smise mai di ribadire, con rispettoso garbo filiale, il proprio dovere ineludibile di fedeltà a se stesso, anche a costo di sacrifici economici e dell’onta di farsi annoverare, in qualità di precettore, nella classe dei servitori. Al fratello, il fratellastro, nato dal secondo matrimonio di Johanna, scriveva di politica, dell’adesione convinta agli ideali della rivoluzione francese su cui, al contrario dei suoi antichi compagni di studi allo Stift di Tubinga - Hegel, Schelling -, non era ritornato neanche negli anni del terrore giacobino. Con i grandi amici idealisti condivideva letture – Schiller, Klopstock, Fiche, Kant, Euripide, Ossian – e soprattutto il cruccio e l’aspirazione di trovare, al di là delle rigorose concettualità filosofiche, acquisite solo «per rinvigorire il mio spirito», «per timore di essere considerato un poeta vuoto», un principio «che spieghi la divisione in cui pensiamo e esistiamo», che faccia sparire «il contrasto tra il soggetto e l’oggetto, tra noi e il mondo». Quel principio era il senso estetico, la poesia: l’organo di percezione e lo strumento di espressione in grado di cogliere, al di là delle deludenti categorizzazioni teoretiche, l’assoluto.
Un buon percorso per affinare quel senso era per Hölderlin appunto quello epistolare, tanto che «accarezzando da tempo l’ideale di una educazione del popolo», pensò di rifarsi a un titolo di Schiller per scrivere delle Nuove lettere sull’educazione estetica dell’uomo. Ma il genere “epistola” si rivelò prezioso fin dall’inizio anche per lui. Che, già negli anni da studente riconosceva, rivolto all’amico Niethammer: «su una cosa eravamo tutti concordi: le nuove idee possono essere esposte nel modo più chiaro in forma epistolare». Che ancora alla vigilia della follia scriveva all’amico Boehlendorff: «Scrivimi presto. Ho bisogno dei tuoi suoni puri. La psiche tra amici, il sorgere del pensiero nella conversazione nella lettera è necessario ai poeti». E che prima di rinchiudersi nel suo silenzio e nella torre sul Neckar a Tübingen, a una lettera consegnò il suo ultimo pensiero lucido e una delle sue frasi più lapidarie ed enigmatiche:«Credo di avere scritto assolutamente contro l’entusiasmo eccentrico, e quindi di aver raggiunto la semplicità greca».
Hölderlin, in cerca d’assoluto per salvarsi con la poesia
Dall’amore con Diotima all’amicizia con Hegel e Schelling E un’onnipresente madre che lo vorrebbe ecclesiastico
di Alessandra Iadicicco
Le molteplici amarezze dell’insegnamento, la tirannia della filosofia, gli spiriti infernali dell’astrazione, l’insanabile dissidio che contrappone il cuore alla ragione e la ragione alla rivelazione. E ancora, la grandezza affascinante della natura, i passi da gigante dei rivoluzionari mossi da smania insopprimibile di libertà, la bellezza eterna dell’arte e quella concreta e proibita dell’amata. Il fuoco del cielo greco, la serenità giunonica, apollinea, la chiarezza della mente tedesca, il carattere nazionale, il forte sentimento della patria…
Sono i temi che risuonano nell’imponente epistolario del poeta e vate e veggente tedesco Friedrich Hölderlin, straordinario documento di vita e della Stimmung di un’epoca improntata al romanticismo. La sua pubblicazione integrale si deve al coraggioso editore Ariele di Piombino e all’impegno sapiente e scrupoloso del germanista toscano Gianni Bertocchini, traduttore e curatore del volume. Il testo, in gran parte inedito – a oggi in Italia erano uscite solo le lettere d’amore inviate a Hölderlin da Suzette Gontard, «Diotima», la moglie del banchiere francofortese che lo aveva assunto come precettore di suoi figli, pubblicate da Adelphi qualche anno fa – contiene scritti di natura, stile e provenienza assai diversi. Lettere di e a Hölderlin. Documenti formali e intime confessioni. Occasioni di autochiarificazione: di confronto con se stesso e con il suo tempo. Scelte di campo, prese di posizione, rivendicazioni della propria indipendenza e vocazione.
Numerose, a questo proposito appunto, sono le missive alla madre, Johanna, Christiana Gock, figura centrale nella biografia di Friedrich che rimase orfano di padre all’età di due anni e fu cresciuto dalla forte e volitiva signora in vista di una da lei auspicata carriera ecclesiastica. A lei, che ogni volta che se ne presentava l’occasione insisteva per fargli sposare la vedova di qualche pastore così da fargliene assumere il ruolo, Hölderlin non smise mai di ribadire, con rispettoso garbo filiale, il proprio dovere ineludibile di fedeltà a se stesso, anche a costo di sacrifici economici e dell’onta di farsi annoverare, in qualità di precettore, nella classe dei servitori. Al fratello, il fratellastro, nato dal secondo matrimonio di Johanna, scriveva di politica, dell’adesione convinta agli ideali della rivoluzione francese su cui, al contrario dei suoi antichi compagni di studi allo Stift di Tubinga - Hegel, Schelling -, non era ritornato neanche negli anni del terrore giacobino. Con i grandi amici idealisti condivideva letture – Schiller, Klopstock, Fiche, Kant, Euripide, Ossian – e soprattutto il cruccio e l’aspirazione di trovare, al di là delle rigorose concettualità filosofiche, acquisite solo «per rinvigorire il mio spirito», «per timore di essere considerato un poeta vuoto», un principio «che spieghi la divisione in cui pensiamo e esistiamo», che faccia sparire «il contrasto tra il soggetto e l’oggetto, tra noi e il mondo». Quel principio era il senso estetico, la poesia: l’organo di percezione e lo strumento di espressione in grado di cogliere, al di là delle deludenti categorizzazioni teoretiche, l’assoluto.
Un buon percorso per affinare quel senso era per Hölderlin appunto quello epistolare, tanto che «accarezzando da tempo l’ideale di una educazione del popolo», pensò di rifarsi a un titolo di Schiller per scrivere delle Nuove lettere sull’educazione estetica dell’uomo. Ma il genere “epistola” si rivelò prezioso fin dall’inizio anche per lui. Che, già negli anni da studente riconosceva, rivolto all’amico Niethammer: «su una cosa eravamo tutti concordi: le nuove idee possono essere esposte nel modo più chiaro in forma epistolare». Che ancora alla vigilia della follia scriveva all’amico Boehlendorff: «Scrivimi presto. Ho bisogno dei tuoi suoni puri. La psiche tra amici, il sorgere del pensiero nella conversazione nella lettera è necessario ai poeti». E che prima di rinchiudersi nel suo silenzio e nella torre sul Neckar a Tübingen, a una lettera consegnò il suo ultimo pensiero lucido e una delle sue frasi più lapidarie ed enigmatiche:«Credo di avere scritto assolutamente contro l’entusiasmo eccentrico, e quindi di aver raggiunto la semplicità greca».
La Stampa Tuttolibri 11.4.15
L’Europa al bistrot del nulla mentre arriva il Califfo
di Mattia Feltri
Quando eravamo ragazzi anche noi al nord, come Pietrangelo Buttafuoco ad Agira, avevamo il Saraceno dei Pupi appeso alla parete. Ci era stato accordato il permesso, con le attenzioni del caso, di tirarlo giù per buttarlo nella disputa quotidiana con lo yankee Big Jim e altri derivati europei, e la battaglia si risolveva quando il Saraceno alzava la meravigliosa sciabola oltre lo sguardo fiero, e la calava proprio lì, sul collo del bianco che non portava il nome di infedele.
Sono le romanticherie dei ricordi, anche quelli di Buttafuoco, del Turco Napoletano di Totò, dei viaggi fra sapienti musulmani di Tintin, del Sarracino di Renato Carosone, quando l’immensa distanza fisica di due mondi era esotica e dolce. Il toccarsi, il trovarsi faccia a faccia, il mescolarsi non è mai cosa semplice, non lo è specialmente adesso che l’Europa è postmaterialista, è anche andata oltre il nichilismo, è stanca e annoiata dalle sue conquiste di libertà, non ha altro orizzonte che la torpida rinuncia a sé e - come scriveva Emil Cioran - ha riversato nei bistrot le sua migliore arte dialettica, a proposito della cottura dell’entrecôte; e intanto accoglie immigrati per i quali la vita è un banale transito verso l’aldilà, per i quali tutto è millenarismo, è quella metafisica da noi accantonata per la secolarizzazione, e per i quali c’è un angolo di infinito che si insinua fra la res cogitans e la res extensa, «dove le ombre del mondo sensibile si trasformano in simboli evocativi».
Che abbiamo noi da dirci? Ne avremmo se sia sunniti sia sciiti aspettano il ritorno di Gesù a cavallo, diretto a Gerusalemme dove sconfiggerà l’Anticristo e inaugurerà un regno quarantennale prima di morire ed essere sepolto accanto a Maometto, e lì staranno fino al giorno del giudizio. Già detto così, e Buttafuoco lo dice meglio, sembra la promessa vorticosa e poetica dell’ecumenismo, ma c’è che l’Occidente ha rinunciato a sé e che i terroristi dello Stato islamico, «intossicati dall’odio verso la civiltà», ammazzano ogni speranza, ammazzano gli occidentali, ammazzano soprattutto gli altri musulmani e non c’è istante di sferica perfezione che rivaleggi con quello del poliziotto che muore sotto la redazione di Charlie Hebdo invocando Allah, ucciso da un assassino che invoca Allah. Dunque il problema non sarebbe geografico, non sociale, è metafisico, e alla fine scivola dentro le righe stonatissime in un libro di profondità lirica, le righe in cui si insinua del patto repellente in scenografia hollywoodiana fra il califfo dell’Isis e lo sceriffo di Washington, altro che la sciabola del Saraceno sul collo di Big Jim.
Ma non è questo il punto. Il punto non è mai quello della chiusura del cerchio, il senso è tutto nel disvelamento, «io di mio ho un nome saraceno. Sono Pietrangelo Buttafuoco e mi chiamo Giafar al-Siqilli». Alle parole tocca rendere l’intangibile, cioè la vertigine di un senso che dentro di noi va indietro nei secoli. L’Europa sarà islamica e Ottomana, dice Buttafuoco. E a noi, sarà consentito chiacchierare del nulla dentro ai bistrot?
L’Europa al bistrot del nulla mentre arriva il Califfo
di Mattia Feltri
Quando eravamo ragazzi anche noi al nord, come Pietrangelo Buttafuoco ad Agira, avevamo il Saraceno dei Pupi appeso alla parete. Ci era stato accordato il permesso, con le attenzioni del caso, di tirarlo giù per buttarlo nella disputa quotidiana con lo yankee Big Jim e altri derivati europei, e la battaglia si risolveva quando il Saraceno alzava la meravigliosa sciabola oltre lo sguardo fiero, e la calava proprio lì, sul collo del bianco che non portava il nome di infedele.
Sono le romanticherie dei ricordi, anche quelli di Buttafuoco, del Turco Napoletano di Totò, dei viaggi fra sapienti musulmani di Tintin, del Sarracino di Renato Carosone, quando l’immensa distanza fisica di due mondi era esotica e dolce. Il toccarsi, il trovarsi faccia a faccia, il mescolarsi non è mai cosa semplice, non lo è specialmente adesso che l’Europa è postmaterialista, è anche andata oltre il nichilismo, è stanca e annoiata dalle sue conquiste di libertà, non ha altro orizzonte che la torpida rinuncia a sé e - come scriveva Emil Cioran - ha riversato nei bistrot le sua migliore arte dialettica, a proposito della cottura dell’entrecôte; e intanto accoglie immigrati per i quali la vita è un banale transito verso l’aldilà, per i quali tutto è millenarismo, è quella metafisica da noi accantonata per la secolarizzazione, e per i quali c’è un angolo di infinito che si insinua fra la res cogitans e la res extensa, «dove le ombre del mondo sensibile si trasformano in simboli evocativi».
Che abbiamo noi da dirci? Ne avremmo se sia sunniti sia sciiti aspettano il ritorno di Gesù a cavallo, diretto a Gerusalemme dove sconfiggerà l’Anticristo e inaugurerà un regno quarantennale prima di morire ed essere sepolto accanto a Maometto, e lì staranno fino al giorno del giudizio. Già detto così, e Buttafuoco lo dice meglio, sembra la promessa vorticosa e poetica dell’ecumenismo, ma c’è che l’Occidente ha rinunciato a sé e che i terroristi dello Stato islamico, «intossicati dall’odio verso la civiltà», ammazzano ogni speranza, ammazzano gli occidentali, ammazzano soprattutto gli altri musulmani e non c’è istante di sferica perfezione che rivaleggi con quello del poliziotto che muore sotto la redazione di Charlie Hebdo invocando Allah, ucciso da un assassino che invoca Allah. Dunque il problema non sarebbe geografico, non sociale, è metafisico, e alla fine scivola dentro le righe stonatissime in un libro di profondità lirica, le righe in cui si insinua del patto repellente in scenografia hollywoodiana fra il califfo dell’Isis e lo sceriffo di Washington, altro che la sciabola del Saraceno sul collo di Big Jim.
Ma non è questo il punto. Il punto non è mai quello della chiusura del cerchio, il senso è tutto nel disvelamento, «io di mio ho un nome saraceno. Sono Pietrangelo Buttafuoco e mi chiamo Giafar al-Siqilli». Alle parole tocca rendere l’intangibile, cioè la vertigine di un senso che dentro di noi va indietro nei secoli. L’Europa sarà islamica e Ottomana, dice Buttafuoco. E a noi, sarà consentito chiacchierare del nulla dentro ai bistrot?
Repubblica 11.4.15
La diffidenza dell’Accademia e quel Nobel vinto a metà
di Massimiano Bucchi
«EINSTEIN non dovrà mai ricevere il premio Nobel, neanche se ce lo chiedesse il mondo intero!». Così, nel 1921, Allvar Gullstrand, membro di spicco dell’Accademia Reale delle Scienze di Svezia, chiuse perentoriamente una delle tante discussioni sull’opportunità di assegnare il premio Nobel per la fisica ad Albert Einstein. Da tempo il nome di Einstein veniva suggerito, quasi ogni anno, per il prestigioso riconoscimento. Ma per molti degli accademici chiamati a scegliere, la teoria della relatività era difficile da comprendere; Gullstrand la liquidò come mera speculazione, più metafisica che fisica. Forse sull’esitazione del Comitato Nobel pesò, almeno in parte, l’ostilità verso Einstein e la relatività sviluppatasi in alcuni settori scientifici e politici tedeschi. Di sicuro l’austero ambiente accademico svedese era imbarazzato, e forse perfino infastidito, dal crescente clamore mediatico intorno alla figura di Einstein. Da quel giorno del novembre 1919 in cui i maggiori quotidiani internazionali, tra cui il New York Times , avevano parlato in prima pagina di “trionfo” e la “rivoluzione”, dando notizia di risultati sperimentali in linea con la sua teoria, Einstein si era trasformato in una celebrità mondiale, inseguita ovunque dai media per un commento o una foto.
Nel 1921, le proposte di assegnazione del Nobel ad Einstein erano ormai divenute una valanga. Qualcuno all’Accademia provò a far notare che ormai «Einstein era più famoso dello stesso premio Nobel», ma ancora una volta non ci fu nulla da fare: si preferì non assegnare il premio. Nel 1922 un’altra bocciatura per la relatività, ma un nuovo membro del Comitato, Carl Wilhelm Oseen, riuscì a proporre e fare accettare una soluzione inattesa: premiare Einstein «per la scoperta della legge dell’effetto fotoelettrico». Così furono assegnati due premi per la fisica: uno a Niels Bohr per l’anno in corso, il 1922; l’altro a Einstein, appunto, ma “retrodatato” al 1921, l’anno della mancata assegnazione. Tuttavia la relatività scottava ancora per l’Accademia, al punto che perfino sul diploma ufficiale, unico caso in tutta la storia del premio, si volle specificare: «Indipendentemente dal valore che (dopo eventuale conferma) possa essere attribuito alla teoria della relatività». Si raccomandò anche a Einstein di non menzionare la relatività nel suo discorso a Stoccolma. Raccomandazione inutile, perché lo scienziato ebbe la notizia quando si trovava su un piroscafo diretto in Giappone. Ricevette il premio l’estate successiva a Göteborg. In prima fila ad ascoltarlo, uno spettatore «desideroso di imparare qualcosa sulla relatività »: Re Gustavo V di Svezia. Oltre che specchio dei complessi rapporti tra scienza e politica tra le due guerre, la tribolata assegnazione del Nobel a Einstein è anche un esempio di quanto sia talvolta difficile, anche per gli scienziati, accettare e valutare idee nuove.
La diffidenza dell’Accademia e quel Nobel vinto a metà
di Massimiano Bucchi
«EINSTEIN non dovrà mai ricevere il premio Nobel, neanche se ce lo chiedesse il mondo intero!». Così, nel 1921, Allvar Gullstrand, membro di spicco dell’Accademia Reale delle Scienze di Svezia, chiuse perentoriamente una delle tante discussioni sull’opportunità di assegnare il premio Nobel per la fisica ad Albert Einstein. Da tempo il nome di Einstein veniva suggerito, quasi ogni anno, per il prestigioso riconoscimento. Ma per molti degli accademici chiamati a scegliere, la teoria della relatività era difficile da comprendere; Gullstrand la liquidò come mera speculazione, più metafisica che fisica. Forse sull’esitazione del Comitato Nobel pesò, almeno in parte, l’ostilità verso Einstein e la relatività sviluppatasi in alcuni settori scientifici e politici tedeschi. Di sicuro l’austero ambiente accademico svedese era imbarazzato, e forse perfino infastidito, dal crescente clamore mediatico intorno alla figura di Einstein. Da quel giorno del novembre 1919 in cui i maggiori quotidiani internazionali, tra cui il New York Times , avevano parlato in prima pagina di “trionfo” e la “rivoluzione”, dando notizia di risultati sperimentali in linea con la sua teoria, Einstein si era trasformato in una celebrità mondiale, inseguita ovunque dai media per un commento o una foto.
Nel 1921, le proposte di assegnazione del Nobel ad Einstein erano ormai divenute una valanga. Qualcuno all’Accademia provò a far notare che ormai «Einstein era più famoso dello stesso premio Nobel», ma ancora una volta non ci fu nulla da fare: si preferì non assegnare il premio. Nel 1922 un’altra bocciatura per la relatività, ma un nuovo membro del Comitato, Carl Wilhelm Oseen, riuscì a proporre e fare accettare una soluzione inattesa: premiare Einstein «per la scoperta della legge dell’effetto fotoelettrico». Così furono assegnati due premi per la fisica: uno a Niels Bohr per l’anno in corso, il 1922; l’altro a Einstein, appunto, ma “retrodatato” al 1921, l’anno della mancata assegnazione. Tuttavia la relatività scottava ancora per l’Accademia, al punto che perfino sul diploma ufficiale, unico caso in tutta la storia del premio, si volle specificare: «Indipendentemente dal valore che (dopo eventuale conferma) possa essere attribuito alla teoria della relatività». Si raccomandò anche a Einstein di non menzionare la relatività nel suo discorso a Stoccolma. Raccomandazione inutile, perché lo scienziato ebbe la notizia quando si trovava su un piroscafo diretto in Giappone. Ricevette il premio l’estate successiva a Göteborg. In prima fila ad ascoltarlo, uno spettatore «desideroso di imparare qualcosa sulla relatività »: Re Gustavo V di Svezia. Oltre che specchio dei complessi rapporti tra scienza e politica tra le due guerre, la tribolata assegnazione del Nobel a Einstein è anche un esempio di quanto sia talvolta difficile, anche per gli scienziati, accettare e valutare idee nuove.
Repubblica 11.4.15
Il genio che ci ha insegnato il coraggio di cambiare idea
A sessant’anni dalla morte, la grande eredità dello scienziato è nel metodo. E negli errori
Albert Einstein
di Carlo Rovelli
NON c’è dubbio che Albert Einstein — di cui ricordiamo i sessant’anni dalla morte, e i cent’anni dalla sua teoria della relatività generale — sia stato il più grande scienziato del XX secolo, l’uomo che ha visto più a fondo nella natura, ha intuito più cose che si sono rivelate vere. Questo significa che quello che lui pensava va preso per buono? Che non sbagliava? Tutt’altro. Anzi: pochi scienziati hanno accumulato errori quanto Einstein. Pochi scienziati hanno cambiato idea tante volte quanto lui.
Non parlo degli errori della vita quotidiana, opinabili, e comunque affari suoi. Parlo di veri errori scientifici. Idee sbagliate, predizioni sbagliate, equazioni sbagliate, affermazioni su cui lui stesso è tornato indietro, oppure più tardi smentite dai fatti.
Qualche esempio. Oggi sappiamo che l’Universo è in espansione. Il fisico belga Lemaître lo aveva capito proprio usando la teoria della relatività e lo aveva comunicato ad Einstein. Einstein aveva risposto che l’idea era una sciocchezza. Per poi doversi rimangiare l’affermazione quando negli anni Trenta l’espansione dell’universo è stata osservata.
Oggi sappiamo che esistono i buchi neri. Ce ne sono a milioni solo nella nostra galassia e la loro esistenza è una delle clamorose conseguenze della teoria di Einstein. Ma Einstein non l’aveva capito, e sull’argomento ha scritto lavori sbagliati, sostenendo che cose simili non possono esistere. Anche sull’altra grande conseguenza della sua teoria, l’esistenza delle onde gravitazionali, Einstein si è sbagliato. Ha sostenuto che queste onde non esistono, sbagliando l’interpretazione della sua stessa teoria.
Prima di scrivere l’equazione giusta della teoria della relatività generale, il suo grande trionfo, Einstein ha pubblicato una fitta serie di articoli, tutti sbagliati, ciascuno con un’equazione diversa. È arrivato addirittura a pubblicare un lavoro dettagliato e complesso per dimostrare che la teoria non deve avere la simmetria… mentre sarà proprio la simmetria a caratterizzare la teoria buona. Per tutti gli anni finali della sua vita, poi, Einstein si ostina a voler scrivere una teoria unificata di gravità ed elettromagnetismo, senza capire che, come si vedrà poco dopo, l’elettromagnetismo è solo una componente di qualcosa di più ampio (la teoria elettro-debole) e quindi il progetto di unificarlo con la gravità senza considerare il resto è viziato alla base.
Poi ci sono le perentorie affermazioni che ha disseminato, cambiando idea poco dopo. Nella sua prima versione della teoria della relatività ristretta, la nozione di spaziotempo, cioè l’idea che esista un continuo di quattro dimensioni che comprende sia lo spazio che il tempo, non c’è ancora. L’idea dello “spaziotempo” non è di Einstein, è dovuta a Minkowski, che ha riscritto la teoria di Einstein usando questa idea. Quando Einstein ne viene a conoscenza, dichiara che si tratta di una inutile e sciocca complicazione “da matematici”. Per poi cambiare opinione poco dopo e usare proprio la nozione di spaziotempo come base della sua teoria successiva: la relatività generale. Sul ruolo della matematica in fisica, Einstein cambia ripetutamente idea, sostenendo varie cose in contraddizione l’una con l’altra nel corso della sua vita.
Anche nelle grandi discussioni sulla meccanica quantistica Einstein ha cambiato idea ripetutamente. All’inizio sostiene che la meccanica quantistica è contraddittoria. Poi accetta l’idea che non lo sia, e si limita a insistere che deve essere incompleta, non descrivere tutta la natura. Sulla sua teoria, la relatività generale, a lungo è stato convinto che le equazioni non potessero avere soluzioni in assenza di materia, e quindi il campo gravitazionale dipendesse dalla materia, per poi cambiare idea e descrivere il campo gravitazionale come un’entità reale automa, che esiste di per sé.
Forse il caso più straordinario è uno strabiliante lavoro scritto nel 1917, in cui Einstein fonda la cosmologia moderna, comprende che l’universo può essere una tre-sfera, e introduce la costante cosmologica, la cui esistenza è stata verificata oggi, a un secolo di distanza. In questo lavoro Einstein riesce a sommare un clamoroso errore di fisica — l’idea, sbagliata, che l’universo non possa cambiare nel tempo — e un clamoroso errore di matematica: non si accorge che la soluzione matematica delle equa- zioni che studia è instabile, e quindi non può descrivere l’universo reale. L’articolo è al tempo stesso un insieme strepitoso di idee nuove, rivoluzionarie e corrette, e un insieme clamoroso di errori.
Questa lunga serie di cambiamenti di opinione e di errori toglie qualcosa alla nostra ammirazione per Albert Einstein? No. Al contrario. Ci insegna, credo, qualcosa sull’intelligenza: l’intelligenza non è intestardirsi sulle proprie opinioni. È essere pronti a cambiarle. Essere pronti a esplorare le idee, accettando il rischio di sbagliare. Per capire il mondo bisogna avere il coraggio di provare le idee, e riadattarle continuamente, per farle funzionare al meglio. La forza della scienza è proprio qui: la capacità di produrre idee nuove e di riuscire a chiarire quando un’idea è sbagliata. “Quelli che non sbagliano mai” (ne conosciamo tanti) sono quelli che restano intrappolati in vecchi errori.
Einstein che sbaglia più di tutti e Einstein che capisce a fondo la natura più di chiunque altro non sono in contraddizione, sono due aspetti complementari e necessari della stessa profonda intelligenza: l’audacia del pensiero, il coraggio di rischiare, il non fidarsi delle idee ricevute, neanche delle proprie. Avere il coraggio di sbagliare, e soprattutto aver il coraggio di cambiare idea, non una volta ma ripetutamente, per poter trovare. Per poter, «provando e riprovando», come diceva Galileo, arrivare a capire.
Penso che il grande Einstein, se avesse saputo che per ricordarlo elenchiamo i suoi errori, avrebbe fatto uno di quegli straordinari sorrisi sornioni di cui era capace, e ne sarebbe stato contento. L’importante non è aver ragione. È camminare lungo la strada per arrivare a capire.
Il genio che ci ha insegnato il coraggio di cambiare idea
A sessant’anni dalla morte, la grande eredità dello scienziato è nel metodo. E negli errori
Albert Einstein
di Carlo Rovelli
NON c’è dubbio che Albert Einstein — di cui ricordiamo i sessant’anni dalla morte, e i cent’anni dalla sua teoria della relatività generale — sia stato il più grande scienziato del XX secolo, l’uomo che ha visto più a fondo nella natura, ha intuito più cose che si sono rivelate vere. Questo significa che quello che lui pensava va preso per buono? Che non sbagliava? Tutt’altro. Anzi: pochi scienziati hanno accumulato errori quanto Einstein. Pochi scienziati hanno cambiato idea tante volte quanto lui.
Non parlo degli errori della vita quotidiana, opinabili, e comunque affari suoi. Parlo di veri errori scientifici. Idee sbagliate, predizioni sbagliate, equazioni sbagliate, affermazioni su cui lui stesso è tornato indietro, oppure più tardi smentite dai fatti.
Qualche esempio. Oggi sappiamo che l’Universo è in espansione. Il fisico belga Lemaître lo aveva capito proprio usando la teoria della relatività e lo aveva comunicato ad Einstein. Einstein aveva risposto che l’idea era una sciocchezza. Per poi doversi rimangiare l’affermazione quando negli anni Trenta l’espansione dell’universo è stata osservata.
Oggi sappiamo che esistono i buchi neri. Ce ne sono a milioni solo nella nostra galassia e la loro esistenza è una delle clamorose conseguenze della teoria di Einstein. Ma Einstein non l’aveva capito, e sull’argomento ha scritto lavori sbagliati, sostenendo che cose simili non possono esistere. Anche sull’altra grande conseguenza della sua teoria, l’esistenza delle onde gravitazionali, Einstein si è sbagliato. Ha sostenuto che queste onde non esistono, sbagliando l’interpretazione della sua stessa teoria.
Prima di scrivere l’equazione giusta della teoria della relatività generale, il suo grande trionfo, Einstein ha pubblicato una fitta serie di articoli, tutti sbagliati, ciascuno con un’equazione diversa. È arrivato addirittura a pubblicare un lavoro dettagliato e complesso per dimostrare che la teoria non deve avere la simmetria… mentre sarà proprio la simmetria a caratterizzare la teoria buona. Per tutti gli anni finali della sua vita, poi, Einstein si ostina a voler scrivere una teoria unificata di gravità ed elettromagnetismo, senza capire che, come si vedrà poco dopo, l’elettromagnetismo è solo una componente di qualcosa di più ampio (la teoria elettro-debole) e quindi il progetto di unificarlo con la gravità senza considerare il resto è viziato alla base.
Poi ci sono le perentorie affermazioni che ha disseminato, cambiando idea poco dopo. Nella sua prima versione della teoria della relatività ristretta, la nozione di spaziotempo, cioè l’idea che esista un continuo di quattro dimensioni che comprende sia lo spazio che il tempo, non c’è ancora. L’idea dello “spaziotempo” non è di Einstein, è dovuta a Minkowski, che ha riscritto la teoria di Einstein usando questa idea. Quando Einstein ne viene a conoscenza, dichiara che si tratta di una inutile e sciocca complicazione “da matematici”. Per poi cambiare opinione poco dopo e usare proprio la nozione di spaziotempo come base della sua teoria successiva: la relatività generale. Sul ruolo della matematica in fisica, Einstein cambia ripetutamente idea, sostenendo varie cose in contraddizione l’una con l’altra nel corso della sua vita.
Anche nelle grandi discussioni sulla meccanica quantistica Einstein ha cambiato idea ripetutamente. All’inizio sostiene che la meccanica quantistica è contraddittoria. Poi accetta l’idea che non lo sia, e si limita a insistere che deve essere incompleta, non descrivere tutta la natura. Sulla sua teoria, la relatività generale, a lungo è stato convinto che le equazioni non potessero avere soluzioni in assenza di materia, e quindi il campo gravitazionale dipendesse dalla materia, per poi cambiare idea e descrivere il campo gravitazionale come un’entità reale automa, che esiste di per sé.
Forse il caso più straordinario è uno strabiliante lavoro scritto nel 1917, in cui Einstein fonda la cosmologia moderna, comprende che l’universo può essere una tre-sfera, e introduce la costante cosmologica, la cui esistenza è stata verificata oggi, a un secolo di distanza. In questo lavoro Einstein riesce a sommare un clamoroso errore di fisica — l’idea, sbagliata, che l’universo non possa cambiare nel tempo — e un clamoroso errore di matematica: non si accorge che la soluzione matematica delle equa- zioni che studia è instabile, e quindi non può descrivere l’universo reale. L’articolo è al tempo stesso un insieme strepitoso di idee nuove, rivoluzionarie e corrette, e un insieme clamoroso di errori.
Questa lunga serie di cambiamenti di opinione e di errori toglie qualcosa alla nostra ammirazione per Albert Einstein? No. Al contrario. Ci insegna, credo, qualcosa sull’intelligenza: l’intelligenza non è intestardirsi sulle proprie opinioni. È essere pronti a cambiarle. Essere pronti a esplorare le idee, accettando il rischio di sbagliare. Per capire il mondo bisogna avere il coraggio di provare le idee, e riadattarle continuamente, per farle funzionare al meglio. La forza della scienza è proprio qui: la capacità di produrre idee nuove e di riuscire a chiarire quando un’idea è sbagliata. “Quelli che non sbagliano mai” (ne conosciamo tanti) sono quelli che restano intrappolati in vecchi errori.
Einstein che sbaglia più di tutti e Einstein che capisce a fondo la natura più di chiunque altro non sono in contraddizione, sono due aspetti complementari e necessari della stessa profonda intelligenza: l’audacia del pensiero, il coraggio di rischiare, il non fidarsi delle idee ricevute, neanche delle proprie. Avere il coraggio di sbagliare, e soprattutto aver il coraggio di cambiare idea, non una volta ma ripetutamente, per poter trovare. Per poter, «provando e riprovando», come diceva Galileo, arrivare a capire.
Penso che il grande Einstein, se avesse saputo che per ricordarlo elenchiamo i suoi errori, avrebbe fatto uno di quegli straordinari sorrisi sornioni di cui era capace, e ne sarebbe stato contento. L’importante non è aver ragione. È camminare lungo la strada per arrivare a capire.
Repubblica 11.4.15
Un intellettuale ha l’obbligo di scegliere l’impegno
Il dovere di rompere il silenzio
di Toni Morrison
Noi parliamo, noi scriviamo, noi facciamo lingua. È così che la civiltà guarisce I tiranni alimentano il loro potere con la distruzione calcolata dell’arte
Toni Morrison, premio Nobel per la letteratura 1993, nata in Ohio, Stati Uniti, nel 1931, sta per pubblicare in America il suo nuovo romanzo God Help the Child , in uscita il prossimo 21 aprile. Il libro è dedicato al mondo dell’infanzia e alle sofferenze dei bambini, spesso sottovalutate dalla società
È IL giorno dopo Natale del 2004, dopo la rielezione alla Casa Bianca di George W. Bush. Guardo fuori dalla finestra: sono di umore estremamente cupo, mi sento impotente. Poi un amico, anche lui un artista, mi chiama per farmi gli auguri. Mi chiede come va e invece di rispondergli il classico «Tutto bene, e tu?», non riesco a trattenermi dal dirgli la verità: «Non bene. Oltre a essere depressa non riesco a lavorare, a scrivere: è come se fossi paralizzata, non riesco a proseguire il romanzo che ho cominciato. Non mi sono mai sentita così, ma le elezioni…». Prima di potergli dare altri dettagli, lui mi interrompe gridando: «No! No, no, no! È proprio questo il momento in cui un artista deve darsi da fare: non quando tutto va bene, ma nei tempi di paura. È questo il nostro compito!».
MI SENTII stupida per tutto il resto della mattinata, specialmente quando ripensavo agli artisti che facevano il loro lavoro dentro gulag, celle di prigione, letti di ospedale; che fecero il loro lavoro mentre erano perseguitati, esiliati, ingiuriati, messi alla berlina. E a quelli che erano stati giustiziati. L’elenco – che abbraccia secoli interi, non solo l’ultimo – è lungo. Per proporre un breve campione posso citare Paul Robeson, Primo Levi, Ai Weiwei, Oscar Wilde, Pablo Picasso, Dashiell Hammett, Wole Soyinka, Fëdor Dostoevskij, Aleksandr Solgenitsyn, Lillian Hellman, Salman Rushdie, Herta Müller, Walter Benjamin. Se volessi fare una lista accurata, dovrei citare centinaia di nomi.
Dittatori e tiranni inaugurano sempre il loro regno e alimentano il loro potere con la distruzione deliberata e calcolata dell’arte: la censura e i roghi di libri non conformi, le vessazioni e le incarcerazioni di pittori, giornalisti, poeti, commediografi, romanzieri, saggisti. È il primo passo di un despota, che nei suoi istintivi atti malevoli non mostra semplicemente sconsideratezza o malvagità, ma anche capacità di percezione. Questi tiranni sanno benissimo che la loro strategia di depressione consentirà ai veri strumenti del potere oppressivo di prosperare. Il loro piano è semplice: 1. Selezionare un nemico utile – un “Altro” – per convertire la rabbia in conflitto o addirittura in guerra.
2. Limitare o cancellare l’immaginazione che offre l’arte, e anche il pensiero critico di studiosi e giornalisti.
3. Distrarre con giochi, sogni di bottino e temi di superiorità religiosa o sprezzante orgoglio nazionale che nascondono al loro interno passati dolori e umiliazioni.
In questo mondo contemporaneo di proteste violente, guerre intestine, richieste accorate di cibo e di pace, dove intere città vengono tirate su in fretta e furia nel deserto per dare riparo a popolazioni espropriate, abbandonate, terrorizzate, che fuggono per la loro vita e la vita dei loro figli, che cosa dobbiamo fare noi, i cosiddetti civilizzati?
Le soluzioni gravitano verso l’intervento militare e/o l’internamento: uccidere o imprigionare. Qualsiasi altra azione, in questo clima politico degradato, è vista come un segnale di debolezza. Viene da chiedersi perché essere “deboli” sia diventato un peccato estremo, imperdonabile. Forse perché siamo diventati una nazione tanto spaventata dagli altri, da se stessa e dai suoi cittadini da non riuscire a riconoscere la debolezza autentica, la vigliaccheria dell’insistere sulle armi ovunque, sulla guerra dovunque? Quanto è adulto, quanto è virile sparare contro medici che praticano aborti, bambini che vanno a scuola, passanti, adolescenti neri che scappano? Quanto è forte, quanto è potente la sensazione di avere un’arma omicida in tasca, alla cintola, nello scomparto portaguanti della propria macchina? Quanto è autorevole minacciare la guerra in politica estera semplicemente per abitudine, paura artefatta o ego nazionale? E quanto è patetico? Patetico perché non possiamo non sapere, in qualche recesso della nostra coscienza, che la fonte e la ragione della nostra aggressività inculcata non è soltanto la paura. È anche il denaro: lo stimolo del profitto dell’industria degli armamenti, il sostegno finanziario del complesso militar- industriale contro cui ci metteva in guardia Eisenhower.
Costringere una nazione a usare la forza è facile quando i cittadini sono largamente scontenti, quando provano sensazioni di impotenza che la violenza può facilmente alleviare. E quando il dibattito politico è straziato da un’irragionevolezza e un odio così profondi che le offese volgari appaiono normali, la disaffezione impera. I nostri dibattiti, nella maggioranza dei casi, sfigurerebbero anche nel cortile di un asilo nido: insulti, schiaffi verbali, pettegolezzi, risatine, il tutto mentre le altalene e gli scivoli del buongoverno rimangono vuoti.
Per gran parte degli ultimi cinque secoli, l’Africa è stata vista come un posto povero, disperatamente povero, nonostante sia scandalosamente ricca di petrolio, oro, diamanti, metalli preziosi e così via. Ma poiché quelle ricchezze non appartengono, in larga parte, alle persone che vivono lì da sempre, il continente è rimasto nella mente dell’Occidente meritevole di disprezzo, cordoglio e naturalmente saccheggio. A volte ci dimentichiamo che il colonialismo è stato ed è guerra, una guerra per controllare e possedere le risorse di un altro Paese, che significano denaro. Possiamo anche illuderci e pensare che i nostri sforzi per “civilizzare” o “pacificare” altri Paesi non abbiano a che fare con i soldi. Lo schiavismo è sempre stato una questione di soldi: manodopera gratuita che produce denaro per possidenti e industrie. I lavoratori poveri e i disoccupati poveri dei nostri giorni sono come le ricchezze dormienti dell’“Africa coloniale più scura”, esposti al furto di salario e di proprietà, posseduti da grandi corporation cancerogene che soffocano le voci dissidenti.
Nulla di tutto questo lascia presagire un futuro incoraggiante. Eppure mi ricordo quel grido del mio amico in quel giorno dopo Natale: no! È proprio questo il momento in cui un artista deve darsi da fare. Non c’è tempo per la disperazione, non c’è posto per l’autocommiserazione, non c’è spazio per la paura. Noi parliamo, noi scriviamo, noi facciamo lingua. È così che la civiltà guarisce.
So che il mondo è ferito e sanguinante, e se è importante non ignorare il suo dolore è anche fondamentale non soccombere alla sua cattiveria. Come l’insuccesso, il caos contiene informazioni che possono condurre alla conoscenza, perfino alla saggezza. Come l’arte. © 2-015, The Nation Traduzione di Fabio Galimberti
Un intellettuale ha l’obbligo di scegliere l’impegno
Il dovere di rompere il silenzio
di Toni Morrison
Noi parliamo, noi scriviamo, noi facciamo lingua. È così che la civiltà guarisce I tiranni alimentano il loro potere con la distruzione calcolata dell’arte
Toni Morrison, premio Nobel per la letteratura 1993, nata in Ohio, Stati Uniti, nel 1931, sta per pubblicare in America il suo nuovo romanzo God Help the Child , in uscita il prossimo 21 aprile. Il libro è dedicato al mondo dell’infanzia e alle sofferenze dei bambini, spesso sottovalutate dalla società
È IL giorno dopo Natale del 2004, dopo la rielezione alla Casa Bianca di George W. Bush. Guardo fuori dalla finestra: sono di umore estremamente cupo, mi sento impotente. Poi un amico, anche lui un artista, mi chiama per farmi gli auguri. Mi chiede come va e invece di rispondergli il classico «Tutto bene, e tu?», non riesco a trattenermi dal dirgli la verità: «Non bene. Oltre a essere depressa non riesco a lavorare, a scrivere: è come se fossi paralizzata, non riesco a proseguire il romanzo che ho cominciato. Non mi sono mai sentita così, ma le elezioni…». Prima di potergli dare altri dettagli, lui mi interrompe gridando: «No! No, no, no! È proprio questo il momento in cui un artista deve darsi da fare: non quando tutto va bene, ma nei tempi di paura. È questo il nostro compito!».
MI SENTII stupida per tutto il resto della mattinata, specialmente quando ripensavo agli artisti che facevano il loro lavoro dentro gulag, celle di prigione, letti di ospedale; che fecero il loro lavoro mentre erano perseguitati, esiliati, ingiuriati, messi alla berlina. E a quelli che erano stati giustiziati. L’elenco – che abbraccia secoli interi, non solo l’ultimo – è lungo. Per proporre un breve campione posso citare Paul Robeson, Primo Levi, Ai Weiwei, Oscar Wilde, Pablo Picasso, Dashiell Hammett, Wole Soyinka, Fëdor Dostoevskij, Aleksandr Solgenitsyn, Lillian Hellman, Salman Rushdie, Herta Müller, Walter Benjamin. Se volessi fare una lista accurata, dovrei citare centinaia di nomi.
Dittatori e tiranni inaugurano sempre il loro regno e alimentano il loro potere con la distruzione deliberata e calcolata dell’arte: la censura e i roghi di libri non conformi, le vessazioni e le incarcerazioni di pittori, giornalisti, poeti, commediografi, romanzieri, saggisti. È il primo passo di un despota, che nei suoi istintivi atti malevoli non mostra semplicemente sconsideratezza o malvagità, ma anche capacità di percezione. Questi tiranni sanno benissimo che la loro strategia di depressione consentirà ai veri strumenti del potere oppressivo di prosperare. Il loro piano è semplice: 1. Selezionare un nemico utile – un “Altro” – per convertire la rabbia in conflitto o addirittura in guerra.
2. Limitare o cancellare l’immaginazione che offre l’arte, e anche il pensiero critico di studiosi e giornalisti.
3. Distrarre con giochi, sogni di bottino e temi di superiorità religiosa o sprezzante orgoglio nazionale che nascondono al loro interno passati dolori e umiliazioni.
In questo mondo contemporaneo di proteste violente, guerre intestine, richieste accorate di cibo e di pace, dove intere città vengono tirate su in fretta e furia nel deserto per dare riparo a popolazioni espropriate, abbandonate, terrorizzate, che fuggono per la loro vita e la vita dei loro figli, che cosa dobbiamo fare noi, i cosiddetti civilizzati?
Le soluzioni gravitano verso l’intervento militare e/o l’internamento: uccidere o imprigionare. Qualsiasi altra azione, in questo clima politico degradato, è vista come un segnale di debolezza. Viene da chiedersi perché essere “deboli” sia diventato un peccato estremo, imperdonabile. Forse perché siamo diventati una nazione tanto spaventata dagli altri, da se stessa e dai suoi cittadini da non riuscire a riconoscere la debolezza autentica, la vigliaccheria dell’insistere sulle armi ovunque, sulla guerra dovunque? Quanto è adulto, quanto è virile sparare contro medici che praticano aborti, bambini che vanno a scuola, passanti, adolescenti neri che scappano? Quanto è forte, quanto è potente la sensazione di avere un’arma omicida in tasca, alla cintola, nello scomparto portaguanti della propria macchina? Quanto è autorevole minacciare la guerra in politica estera semplicemente per abitudine, paura artefatta o ego nazionale? E quanto è patetico? Patetico perché non possiamo non sapere, in qualche recesso della nostra coscienza, che la fonte e la ragione della nostra aggressività inculcata non è soltanto la paura. È anche il denaro: lo stimolo del profitto dell’industria degli armamenti, il sostegno finanziario del complesso militar- industriale contro cui ci metteva in guardia Eisenhower.
Costringere una nazione a usare la forza è facile quando i cittadini sono largamente scontenti, quando provano sensazioni di impotenza che la violenza può facilmente alleviare. E quando il dibattito politico è straziato da un’irragionevolezza e un odio così profondi che le offese volgari appaiono normali, la disaffezione impera. I nostri dibattiti, nella maggioranza dei casi, sfigurerebbero anche nel cortile di un asilo nido: insulti, schiaffi verbali, pettegolezzi, risatine, il tutto mentre le altalene e gli scivoli del buongoverno rimangono vuoti.
Per gran parte degli ultimi cinque secoli, l’Africa è stata vista come un posto povero, disperatamente povero, nonostante sia scandalosamente ricca di petrolio, oro, diamanti, metalli preziosi e così via. Ma poiché quelle ricchezze non appartengono, in larga parte, alle persone che vivono lì da sempre, il continente è rimasto nella mente dell’Occidente meritevole di disprezzo, cordoglio e naturalmente saccheggio. A volte ci dimentichiamo che il colonialismo è stato ed è guerra, una guerra per controllare e possedere le risorse di un altro Paese, che significano denaro. Possiamo anche illuderci e pensare che i nostri sforzi per “civilizzare” o “pacificare” altri Paesi non abbiano a che fare con i soldi. Lo schiavismo è sempre stato una questione di soldi: manodopera gratuita che produce denaro per possidenti e industrie. I lavoratori poveri e i disoccupati poveri dei nostri giorni sono come le ricchezze dormienti dell’“Africa coloniale più scura”, esposti al furto di salario e di proprietà, posseduti da grandi corporation cancerogene che soffocano le voci dissidenti.
Nulla di tutto questo lascia presagire un futuro incoraggiante. Eppure mi ricordo quel grido del mio amico in quel giorno dopo Natale: no! È proprio questo il momento in cui un artista deve darsi da fare. Non c’è tempo per la disperazione, non c’è posto per l’autocommiserazione, non c’è spazio per la paura. Noi parliamo, noi scriviamo, noi facciamo lingua. È così che la civiltà guarisce.
So che il mondo è ferito e sanguinante, e se è importante non ignorare il suo dolore è anche fondamentale non soccombere alla sua cattiveria. Come l’insuccesso, il caos contiene informazioni che possono condurre alla conoscenza, perfino alla saggezza. Come l’arte. © 2-015, The Nation Traduzione di Fabio Galimberti
Repubblica 11.4.15
La cupola mafiosa su Roma
di Carlo Bonini
ALCUNE sentenze pesano più di altre. Perché destinate a fissare un precedente. Tanto più importante se segno di una discontinuità. Non solo giuridica, ma politica, sociale. Persino antropologica. La sentenza di ieri della Cassazione su “Mafia
LA PRONUNCIA , che ha respinto i ricorsi degli indagati arrestati il 2 dicembre scorso nell’inchiesta, è “capitale” per quello che stabilisce. Che non sta nell’esito processuale immediato e pure significativo — gli indagati restano in carcere, l’inchiesta della Procura di Roma può proseguire e salire di livello forte di una pronuncia che la conforta nella solidità del quadro indiziario — ma nell’affermazione, che è insieme di diritto e di sostanza, che ne è il presupposto. A Roma esiste, o quantomeno si potrà affermare che esiste se gli indizi diventeranno prove nel giudizio di merito, una Mafia «originale » e «originaria». Questo ci dicono i giudici della sesta sezione penale della Suprema Corte.
«Originale» perché diversa nella sua architettura “associativa” dal paradigma della Cosa Nostra, della ‘Ndrangheta, della Camorra, della Sacra Corona Unita. «Originaria », perché autoctona, figlia di Roma, della sua peculiare e ancestrale forza di contagio criminale. Dunque di quel “Mondo di Mezzo”, per dirla con le parole dell’ex Nar Massimo Carminati, suo architetto, dove gli appetiti del Palazzo e quelli della Strada e dunque i loro “tipi umani” (consiglieri comunali e spezza ossa, funzionari pubblici e corruttori, guardie e ladri) si incontrano per svuotare, con la forza dell’intimidazione, il ricatto e l’omertà — e dunque come ogni Mafia degna di questo nome — non le forme, ma la sostanza della democrazia: la regolarità degli incanti pubblici, la trasparenza dell’agire amministrativo, la libertà nella formazione della volontà politica.
Per la prima volta nella storia repubblicana, il Genoma Mafioso, il “modello legale” dell’articolo 416-bis, nell’applicazione che ne dà la Cassazione, si libera della folcloristica e riduttiva rappresentazione della coppola storta, della lupara, del santino bruciato, della ferocia schizzata della narco Camorra e dei giuramenti ‘ndranghetisti. Che sono e restano Mafia. Ma che, da ieri, non la esauriscono. Era un passaggio tutt’altro che scontato. Che richiedeva non tanto una “rivoluzione” nell’interpretazione giuridica dell’articolo 416 bis, e dunque una nuova declinazione del significato di Mafia. Che infatti non c’è stata. Ma che obbligava la Corte a una scelta per certi versi persino più coraggiosa. Decidere se affermare o meno il principio in ragione del quale, di fronte a indizi solidi, ai “precursori” dell’agire mafioso (omertà, vincolo associativo, capacità e forza di intimidazione), non esistono territori franchi, né “città aperte” nell’applicazione di quella norma nata pensando al Padrino.
Già, non era scontato. Non fosse altro perché nell’unico precedente per Roma — il processo a quella Banda della Magliana di cui Massimo Carminati era stato sodale e quindi epigono — chi aveva tentato sin qui di attraversare questo guado (i giudici di merito) aveva visto proprio in Cassazione franare la contestazione mafiosa. E non era scontato per il venticello che immediatamente si era alzato — e che, tra gli altri, il Foglio di Giuliano Ferrara aveva deciso di insufflare — per sbertucciare, tra il semi-serio e il sarcastico, “l’azzardo giuridico” del procuratore Giuseppe Pignatone, dell’aggiunto Michele Prestipino, dei sostituti Giuseppe Cascini, Paolo Ielo, Luca Tescaroli, nonché lo sforzo investigativo del Ros dei carabinieri, evidentemente degno di altra causa che non Buzzi e compari. «Mafia parlata», aveva osservato Giosué Bruno Naso, l’avvocato di Massimo Carminati (per altro unico tra gli indagati a non essere, prudentemente e significativamente, tra i ricorrenti in Cassazione). «Non ci sono morti, né feriti. Pullulano invece gli episodi di corruzione, estorsione. Ma che senso ha il 416 bis?». A quanto pare, un senso c’è.
La cupola mafiosa su Roma
di Carlo Bonini
ALCUNE sentenze pesano più di altre. Perché destinate a fissare un precedente. Tanto più importante se segno di una discontinuità. Non solo giuridica, ma politica, sociale. Persino antropologica. La sentenza di ieri della Cassazione su “Mafia
LA PRONUNCIA , che ha respinto i ricorsi degli indagati arrestati il 2 dicembre scorso nell’inchiesta, è “capitale” per quello che stabilisce. Che non sta nell’esito processuale immediato e pure significativo — gli indagati restano in carcere, l’inchiesta della Procura di Roma può proseguire e salire di livello forte di una pronuncia che la conforta nella solidità del quadro indiziario — ma nell’affermazione, che è insieme di diritto e di sostanza, che ne è il presupposto. A Roma esiste, o quantomeno si potrà affermare che esiste se gli indizi diventeranno prove nel giudizio di merito, una Mafia «originale » e «originaria». Questo ci dicono i giudici della sesta sezione penale della Suprema Corte.
«Originale» perché diversa nella sua architettura “associativa” dal paradigma della Cosa Nostra, della ‘Ndrangheta, della Camorra, della Sacra Corona Unita. «Originaria », perché autoctona, figlia di Roma, della sua peculiare e ancestrale forza di contagio criminale. Dunque di quel “Mondo di Mezzo”, per dirla con le parole dell’ex Nar Massimo Carminati, suo architetto, dove gli appetiti del Palazzo e quelli della Strada e dunque i loro “tipi umani” (consiglieri comunali e spezza ossa, funzionari pubblici e corruttori, guardie e ladri) si incontrano per svuotare, con la forza dell’intimidazione, il ricatto e l’omertà — e dunque come ogni Mafia degna di questo nome — non le forme, ma la sostanza della democrazia: la regolarità degli incanti pubblici, la trasparenza dell’agire amministrativo, la libertà nella formazione della volontà politica.
Per la prima volta nella storia repubblicana, il Genoma Mafioso, il “modello legale” dell’articolo 416-bis, nell’applicazione che ne dà la Cassazione, si libera della folcloristica e riduttiva rappresentazione della coppola storta, della lupara, del santino bruciato, della ferocia schizzata della narco Camorra e dei giuramenti ‘ndranghetisti. Che sono e restano Mafia. Ma che, da ieri, non la esauriscono. Era un passaggio tutt’altro che scontato. Che richiedeva non tanto una “rivoluzione” nell’interpretazione giuridica dell’articolo 416 bis, e dunque una nuova declinazione del significato di Mafia. Che infatti non c’è stata. Ma che obbligava la Corte a una scelta per certi versi persino più coraggiosa. Decidere se affermare o meno il principio in ragione del quale, di fronte a indizi solidi, ai “precursori” dell’agire mafioso (omertà, vincolo associativo, capacità e forza di intimidazione), non esistono territori franchi, né “città aperte” nell’applicazione di quella norma nata pensando al Padrino.
Già, non era scontato. Non fosse altro perché nell’unico precedente per Roma — il processo a quella Banda della Magliana di cui Massimo Carminati era stato sodale e quindi epigono — chi aveva tentato sin qui di attraversare questo guado (i giudici di merito) aveva visto proprio in Cassazione franare la contestazione mafiosa. E non era scontato per il venticello che immediatamente si era alzato — e che, tra gli altri, il Foglio di Giuliano Ferrara aveva deciso di insufflare — per sbertucciare, tra il semi-serio e il sarcastico, “l’azzardo giuridico” del procuratore Giuseppe Pignatone, dell’aggiunto Michele Prestipino, dei sostituti Giuseppe Cascini, Paolo Ielo, Luca Tescaroli, nonché lo sforzo investigativo del Ros dei carabinieri, evidentemente degno di altra causa che non Buzzi e compari. «Mafia parlata», aveva osservato Giosué Bruno Naso, l’avvocato di Massimo Carminati (per altro unico tra gli indagati a non essere, prudentemente e significativamente, tra i ricorrenti in Cassazione). «Non ci sono morti, né feriti. Pullulano invece gli episodi di corruzione, estorsione. Ma che senso ha il 416 bis?». A quanto pare, un senso c’è.
La Stampa 11.4.15
«No all’eterologa a pagamento»
Bocciata la Lombardia
Il Consiglio di Stato: discriminatorio farla pagare fino a 4000 euro
Se siete una coppia che può usare i propri geni, paga la Regione. Se invece siete una coppia che per ragioni di salute è costretta a farsi prestare i gameti da qualcun altro, allora vi arrangiate. Pagate voi, tra i 1500 e i 4000 euro.
Questa norma, decisa dalla Regione Lombardia, unica tra le regioni a farlo, è stata bocciata dal Consiglio di Stato che l’ha definita discriminatoria. I giudici hanno accolto il ricorso che era stato presentato da Sos Infertilità, Medicina Democratica e un’associazione di medici milanesi che opera nella sanità privata sospendendo gli effetti della delibera lombarda e sollecitando il Tar della Lombardia, che aveva deciso di rinviare la decisione nel merito, a fare in fretta perché nel frattempo alcune coppie che sono in attesa potrebbero uscire dalla fascia d’età a cui possono accedere al servizio.
Il tema è sempre quello: fecondazione omologa (con propri gameti) ed eterologa (con gameti di altri). Dopo la sentenza della Corte Costituzionale che dichiarava illegittima la legge 40 che vietava l’eterologa, le Regioni si erano subito attivate per consentire ai propri cittadini di avere dei figli. Ma la Regione guidata da Roberto Maroni aveva imposto un balzello alto. Illegittimo, secondo il Consiglio di Stato.
La decisione
Pur nell’ambito della complessità e della delicatezza della questione, per il Consiglio di Stato «allo stato sembra condivisibile la censura della disparità di trattamento sotto il profilo economico dato che non sono dirimenti differenze tra fecondazione omologa ed eterologa». Quest’ultima, infatti, viene considerata solo una tecnica diversa rispetto alla prima. La delibera della Lombardia - dicono ancora i giudici - crea un pregiudizio grave e irreparabile considerato che alcune coppie, mentre il Tar decide, potrebbero non poter più avere figli perché fuori dalla fascia di età fertile.
I ricorrenti
Soddisfatti i legali delle associazioni: Massimo Clara, Carmelo Platania e Cinzia Ammirati che ora si aspettano una decisione nel merito da parte del Tar entro due mesi.
Parla invece di tentativo della Regione Lombardia di ripristinare i divieti della Legge 40 l’avvocato Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni. «Bisogna difendere le sentenze della Corte Costituzionale, bisogna difendere i diritti delle persone da fondamentalismi che hanno generato tutti i divieti della Legge 40». E invita la politica ad aggiornare le linee guida della legge secondo le indicazioni della Consulta.
Risponde il ministro della Salute Beatrice Lorenzin: «L’ordinanza non mi stupisce» perché in linea con la Corte Costituzionale «per questo ho inserito l’eterologa nei livelli essenziali di assistenza al pari dell’omologa».
«No all’eterologa a pagamento»
Bocciata la Lombardia
Il Consiglio di Stato: discriminatorio farla pagare fino a 4000 euro
Se siete una coppia che può usare i propri geni, paga la Regione. Se invece siete una coppia che per ragioni di salute è costretta a farsi prestare i gameti da qualcun altro, allora vi arrangiate. Pagate voi, tra i 1500 e i 4000 euro.
Questa norma, decisa dalla Regione Lombardia, unica tra le regioni a farlo, è stata bocciata dal Consiglio di Stato che l’ha definita discriminatoria. I giudici hanno accolto il ricorso che era stato presentato da Sos Infertilità, Medicina Democratica e un’associazione di medici milanesi che opera nella sanità privata sospendendo gli effetti della delibera lombarda e sollecitando il Tar della Lombardia, che aveva deciso di rinviare la decisione nel merito, a fare in fretta perché nel frattempo alcune coppie che sono in attesa potrebbero uscire dalla fascia d’età a cui possono accedere al servizio.
Il tema è sempre quello: fecondazione omologa (con propri gameti) ed eterologa (con gameti di altri). Dopo la sentenza della Corte Costituzionale che dichiarava illegittima la legge 40 che vietava l’eterologa, le Regioni si erano subito attivate per consentire ai propri cittadini di avere dei figli. Ma la Regione guidata da Roberto Maroni aveva imposto un balzello alto. Illegittimo, secondo il Consiglio di Stato.
La decisione
Pur nell’ambito della complessità e della delicatezza della questione, per il Consiglio di Stato «allo stato sembra condivisibile la censura della disparità di trattamento sotto il profilo economico dato che non sono dirimenti differenze tra fecondazione omologa ed eterologa». Quest’ultima, infatti, viene considerata solo una tecnica diversa rispetto alla prima. La delibera della Lombardia - dicono ancora i giudici - crea un pregiudizio grave e irreparabile considerato che alcune coppie, mentre il Tar decide, potrebbero non poter più avere figli perché fuori dalla fascia di età fertile.
I ricorrenti
Soddisfatti i legali delle associazioni: Massimo Clara, Carmelo Platania e Cinzia Ammirati che ora si aspettano una decisione nel merito da parte del Tar entro due mesi.
Parla invece di tentativo della Regione Lombardia di ripristinare i divieti della Legge 40 l’avvocato Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni. «Bisogna difendere le sentenze della Corte Costituzionale, bisogna difendere i diritti delle persone da fondamentalismi che hanno generato tutti i divieti della Legge 40». E invita la politica ad aggiornare le linee guida della legge secondo le indicazioni della Consulta.
Risponde il ministro della Salute Beatrice Lorenzin: «L’ordinanza non mi stupisce» perché in linea con la Corte Costituzionale «per questo ho inserito l’eterologa nei livelli essenziali di assistenza al pari dell’omologa».
Repubblica 11.4.15
Francesco Boccia, minoranza dem
“Il tempo per mediare c’è nei piani il limite è luglio si torni al Senato elettivo”
intervista di Annalisa Cuzzocrea
Avremo 400 deputati e 100 senatori nominati dai vertici dei partiti. E se vince un Le Pen che succede?
La fiducia?
Non voglio credere che il mio partito ricorra a un metodo che ci riporta a tempi molto bui della nostra storia
ROMA Francesco Boccia pensa che sull’ Italicum serva discutere ancora. Mercoledì, nell’assemblea del gruppo pd, il presidente della commissione Bilancio della Camera spiegherà il senso delle modifiche che ritiene necessarie per la legge elettorale. Ma sull’ipotesi di un voto di fiducia dice: «Non voglio credere che il mio partito ricorra a una cosa che ci porta a tempi bui della storia. Discutiamo un giorno in più ed evitiamo strappi che non servono a nessuno.».
La minoranza Pd chiede modifiche all’ Italicum, il governo è irremovibile. Teme che si arrivi a uno strappo irrevocabile?
«Le modifiche che si chiedono hanno un unico comune denominatore: fare una legge elettorale per i prossimi cinquant’anni, non per i prossimi cinque. Ci sono due temi sostanziali: il primo è come si seleziona la classe dirigente. Per dieci anni ci siamo battuti come leoni contro il Porcellum perché concentrava il potere nelle mani di pochi. Ora bisogna chiedersi: chi sceglie gli eletti nelle istituzioni? La mia risposta è: dev’essere il popolo italiano. Purtroppo il combinato disposto legge elettorale-nuovo Senato ci consegna 100 senatori nominati dai vertici dei partiti (i 100 consiglieri regionali) e su 630 deputati - 240 eletti con le preferenze e quasi 400 nominati. È opportuno lasciare tutta la selezione nelle mani di quattro persone? Il problema non è la sfiducia verso il nostro segretario, tutt’altro. Ma se in futuro viene fuori un personaggio sul modello di Le Pen padre, e vince al ballottaggio la campagna elettorale, possiamo star tranquilli che questo modello abbia i contrappesi giusti?».
La soluzione è una quota maggiore di preferenze?
«Il mio modello ideale è il sistema francese con i collegi, ma mi rendo conto che arrivammo all’ Italicum per l’accordo con una parte delle forze politiche che allora erano in maggioranza. Ora dobbiamo chiederci se rispettando i tempi possiamo trovare delle soluzioni. Nel Piano nazionale riforme contenuto nel Def mi risulta che Renzi abbia scritto che la legge elettorale va approvata entro luglio: diamoci quel termine, ma facciamo una modifica che non consenta a nessun uomo solo al comando di decidere la classe dirigente ».
Con il rischio di far saltare tutto?
«Ma no, ci sono mediazioni possibili: ad esempio, tornare al Senato elettivo. Poi c’è un secondo tema che merita un confronto ulteriore: che Paese siamo? Se non siamo davvero un Paese bipartitico, per la presenza di forze come il Movimento 5 Stelle, con l’ Italicum rischiamo di ritrovarci più frammentati di prima. Mi chiedo se non abbia più senso ispirarci al modello dei comuni e lasciare la possibilità a una coalizione di apparentarsi al secondo turno, tenendo fermo il premio di maggioranza ».
Se nulla cambia, lei come voterà?
«Io dirò queste cose al gruppo mercoledì e penso che quello sarà l’ultimo luogo dove fare una mediazione. Se ci sarà una maggioranza schiacciante contro la linea della minoranza, ne prenderò atto. Ma deve essere chiaro che le prove di forza non funzionano. Il Pd ha tante anime, anche nel Paese: una forza riformista nuova deve essere in grado di tenerle insieme».
Cosa pensa dell’ipotesi di un voto di fiducia?
«Penso che non sia opportuno. Se la storia ha un senso basta vedere quando queste scelte sono state fatte. Discutiamo un giorno in più, ma evitiamo strappi. Anche chi minaccia di non votare sbaglia, bisogna fare tutto quello che è nelle nostre possibilità per trovare una soluzione rispettando i tempi».
Francesco Boccia, minoranza dem
“Il tempo per mediare c’è nei piani il limite è luglio si torni al Senato elettivo”
intervista di Annalisa Cuzzocrea
Avremo 400 deputati e 100 senatori nominati dai vertici dei partiti. E se vince un Le Pen che succede?
La fiducia?
Non voglio credere che il mio partito ricorra a un metodo che ci riporta a tempi molto bui della nostra storia
ROMA Francesco Boccia pensa che sull’ Italicum serva discutere ancora. Mercoledì, nell’assemblea del gruppo pd, il presidente della commissione Bilancio della Camera spiegherà il senso delle modifiche che ritiene necessarie per la legge elettorale. Ma sull’ipotesi di un voto di fiducia dice: «Non voglio credere che il mio partito ricorra a una cosa che ci porta a tempi bui della storia. Discutiamo un giorno in più ed evitiamo strappi che non servono a nessuno.».
La minoranza Pd chiede modifiche all’ Italicum, il governo è irremovibile. Teme che si arrivi a uno strappo irrevocabile?
«Le modifiche che si chiedono hanno un unico comune denominatore: fare una legge elettorale per i prossimi cinquant’anni, non per i prossimi cinque. Ci sono due temi sostanziali: il primo è come si seleziona la classe dirigente. Per dieci anni ci siamo battuti come leoni contro il Porcellum perché concentrava il potere nelle mani di pochi. Ora bisogna chiedersi: chi sceglie gli eletti nelle istituzioni? La mia risposta è: dev’essere il popolo italiano. Purtroppo il combinato disposto legge elettorale-nuovo Senato ci consegna 100 senatori nominati dai vertici dei partiti (i 100 consiglieri regionali) e su 630 deputati - 240 eletti con le preferenze e quasi 400 nominati. È opportuno lasciare tutta la selezione nelle mani di quattro persone? Il problema non è la sfiducia verso il nostro segretario, tutt’altro. Ma se in futuro viene fuori un personaggio sul modello di Le Pen padre, e vince al ballottaggio la campagna elettorale, possiamo star tranquilli che questo modello abbia i contrappesi giusti?».
La soluzione è una quota maggiore di preferenze?
«Il mio modello ideale è il sistema francese con i collegi, ma mi rendo conto che arrivammo all’ Italicum per l’accordo con una parte delle forze politiche che allora erano in maggioranza. Ora dobbiamo chiederci se rispettando i tempi possiamo trovare delle soluzioni. Nel Piano nazionale riforme contenuto nel Def mi risulta che Renzi abbia scritto che la legge elettorale va approvata entro luglio: diamoci quel termine, ma facciamo una modifica che non consenta a nessun uomo solo al comando di decidere la classe dirigente ».
Con il rischio di far saltare tutto?
«Ma no, ci sono mediazioni possibili: ad esempio, tornare al Senato elettivo. Poi c’è un secondo tema che merita un confronto ulteriore: che Paese siamo? Se non siamo davvero un Paese bipartitico, per la presenza di forze come il Movimento 5 Stelle, con l’ Italicum rischiamo di ritrovarci più frammentati di prima. Mi chiedo se non abbia più senso ispirarci al modello dei comuni e lasciare la possibilità a una coalizione di apparentarsi al secondo turno, tenendo fermo il premio di maggioranza ».
Se nulla cambia, lei come voterà?
«Io dirò queste cose al gruppo mercoledì e penso che quello sarà l’ultimo luogo dove fare una mediazione. Se ci sarà una maggioranza schiacciante contro la linea della minoranza, ne prenderò atto. Ma deve essere chiaro che le prove di forza non funzionano. Il Pd ha tante anime, anche nel Paese: una forza riformista nuova deve essere in grado di tenerle insieme».
Cosa pensa dell’ipotesi di un voto di fiducia?
«Penso che non sia opportuno. Se la storia ha un senso basta vedere quando queste scelte sono state fatte. Discutiamo un giorno in più, ma evitiamo strappi. Anche chi minaccia di non votare sbaglia, bisogna fare tutto quello che è nelle nostre possibilità per trovare una soluzione rispettando i tempi».
Repubblica 11.4.15
Italicum, sinistra a Renzi “Almeno evita la fiducia” Bersani: “Sostituitemi”
L’ex segretario non vuole votare in commissione. Mercoledì la conta nel gruppo Pd. Anche Fi chiede modifiche sui capilista
di Giovanna Casadio
ROMA «In commissione Affari costituzionali è meglio che mi sostituiate». Pier Luigi Bersani, l’ex segretario del Pd, lo chiederà formalmente nella riunione dei deputati dem, mercoledì prossimo. L’assemblea sull’Italicum sarà la definitiva resa dei conti tra i democratici. Renzi rilancerà la sua linea, quella passata a maggioranza nella Direzione del partito, e alle minoranze chiude la porta: «Niente modifiche, ne sono state già fatte, la legge elettorale va approvata così com’è». E chiederà il voto in assemblea, soppesando così la reale consistenza del fronte del no, se cioè sono davvero un centinaio (su 309, un terzo) i dissidenti.
Ma la sinistra dem ha un piano d’attacco. Vogliono innanzitutto inchiodare Renzi a un impegno preciso, cioè escludere la fiducia sull’Italicum. «Almeno dacci l’assicurazione di non mettere il voto di fiducia», sarà la richiesta di Sinistradem, la corrente di Stefano Fassina e di Gianni Cuperlo, di Pippo Civati e della stessa “Area riformista” che è guidata dal capogruppo del Pd a Montecitorio, Roberto Speranza. Cuperlo è convinto: «Credo che non solo le sinistre bensì una larga parte del gruppo porranno questa questione».
Se si andasse al braccio di ferro, l’epilogo potrebbe essere uno strappo da parte di Speranza che metterebbe a disposizione il proprio posto di capogruppo. Del resto lo ha già fatto in direzione e nell’assemblea nazionale di “Area riformista” a Bologna. Per ora tuttavia i “trattativisti” cercano di tenere i toni bassi e Speranza invita a «evitare tensioni e spaccature». Getta acqua sul fuoco: «Sulla fiducia la discussione è prematura». Una riunione di corrente è stata però organizzata martedì, alla vigilia della resa dei conti nell’assemblea del gruppo. Invitati sono i settanta deputati che hanno sottoscritto l’appello a Renzi, proponendo un unico cambiamento all’Italicum: ridurre il numero dei parlamentari nominati per i partiti che non prendono il premio di maggioranza. Nell’assemblea di mercoledì, “Area riformista” si presenterà con una decisione precisa.
La tensione cresce ancora. Civati parla di provocazione vera e propria se fosse messo il voto di fiducia sulla legge elettorale e cita la possibilità, con tanto di parere dell’esperto, che possa essere segreto il successivo voto definitivo. «Io sono uno che esprime il suo dissenso a viso aperto, ma non so come andrebbe a finire con un voto segreto sull’Italicum... Con la minaccia della fiducia, il quorum pure sarebbe a rischio». Nella prima riunione della commissione Affari costituzionali, Scelta civica ha fatto sapere che chiede modifiche. Luca Lotti, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio e braccio destro di Renzi, afferma che il ricorso alla fiducia non è escluso: «Decideremo mercoledì all’assemblea del gruppo alla Camera». Il livello dello scontro è così alto che dalla minoranza trapela l’aut aut: se l’Italicum non sarà modificato, potrebbero mancare i voti in Senato sulla riforma costituzionale. E a Montecitorio Forza Italia pone sul tavolo le stesse richieste di modifica all’Italicum della minoranza dem. Giovanni Toti, il consiglio politico di Berlusconi, spariglia, lascia intravedere la possibilità di un sì forzista se venissero accolti alcuni emendamenti: «Si può aprire una riflessione sui capilista e le preferenze e sul premio di maggioranza o almeno dare la possibilità di apparentarsi al secondo turno». Insomma un asse tra sinistra dem, forzisti, Lega e Sel potrebbe saldarsi.
«Sarà già mercoledì un passaggio delicatissimo - riflette Alfredo D’Attorre - Do per scontato che il governo non metta la fiducia sull’Italicum, Renzi deve sgombrare il campo da questa ipotesi. Dal mio personale punto di vista, un governo che mettesse la fiducia sulla legge elettorale non merita la fiducia ». Nella partita politica sull’Italicum, lo spauracchio della fiducia compatta le minoranze, in genere divise sulle strategie e spaccate tra “trattativisti” e “oltranzisti”. La ministra delle Riforme, Maria Elena Boschi e i renziani negano la volontà di forzature e però ritengono che non ci sia ormai altro tempo da perdere e che soprattutto l’Italicum non debba tornare al Senato per ulteriori ritocchi ma avere il via libero definitivo della Camera. Matteo Richetti, renziano, avverte: «Io credo che si debba fare di tutto per evitare la fiducia. Ma, se l’alternativa è voto di fiducia o rinunciare alla legge elettorale, si deve sceglie la prima opzione».
Italicum, sinistra a Renzi “Almeno evita la fiducia” Bersani: “Sostituitemi”
L’ex segretario non vuole votare in commissione. Mercoledì la conta nel gruppo Pd. Anche Fi chiede modifiche sui capilista
di Giovanna Casadio
ROMA «In commissione Affari costituzionali è meglio che mi sostituiate». Pier Luigi Bersani, l’ex segretario del Pd, lo chiederà formalmente nella riunione dei deputati dem, mercoledì prossimo. L’assemblea sull’Italicum sarà la definitiva resa dei conti tra i democratici. Renzi rilancerà la sua linea, quella passata a maggioranza nella Direzione del partito, e alle minoranze chiude la porta: «Niente modifiche, ne sono state già fatte, la legge elettorale va approvata così com’è». E chiederà il voto in assemblea, soppesando così la reale consistenza del fronte del no, se cioè sono davvero un centinaio (su 309, un terzo) i dissidenti.
Ma la sinistra dem ha un piano d’attacco. Vogliono innanzitutto inchiodare Renzi a un impegno preciso, cioè escludere la fiducia sull’Italicum. «Almeno dacci l’assicurazione di non mettere il voto di fiducia», sarà la richiesta di Sinistradem, la corrente di Stefano Fassina e di Gianni Cuperlo, di Pippo Civati e della stessa “Area riformista” che è guidata dal capogruppo del Pd a Montecitorio, Roberto Speranza. Cuperlo è convinto: «Credo che non solo le sinistre bensì una larga parte del gruppo porranno questa questione».
Se si andasse al braccio di ferro, l’epilogo potrebbe essere uno strappo da parte di Speranza che metterebbe a disposizione il proprio posto di capogruppo. Del resto lo ha già fatto in direzione e nell’assemblea nazionale di “Area riformista” a Bologna. Per ora tuttavia i “trattativisti” cercano di tenere i toni bassi e Speranza invita a «evitare tensioni e spaccature». Getta acqua sul fuoco: «Sulla fiducia la discussione è prematura». Una riunione di corrente è stata però organizzata martedì, alla vigilia della resa dei conti nell’assemblea del gruppo. Invitati sono i settanta deputati che hanno sottoscritto l’appello a Renzi, proponendo un unico cambiamento all’Italicum: ridurre il numero dei parlamentari nominati per i partiti che non prendono il premio di maggioranza. Nell’assemblea di mercoledì, “Area riformista” si presenterà con una decisione precisa.
La tensione cresce ancora. Civati parla di provocazione vera e propria se fosse messo il voto di fiducia sulla legge elettorale e cita la possibilità, con tanto di parere dell’esperto, che possa essere segreto il successivo voto definitivo. «Io sono uno che esprime il suo dissenso a viso aperto, ma non so come andrebbe a finire con un voto segreto sull’Italicum... Con la minaccia della fiducia, il quorum pure sarebbe a rischio». Nella prima riunione della commissione Affari costituzionali, Scelta civica ha fatto sapere che chiede modifiche. Luca Lotti, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio e braccio destro di Renzi, afferma che il ricorso alla fiducia non è escluso: «Decideremo mercoledì all’assemblea del gruppo alla Camera». Il livello dello scontro è così alto che dalla minoranza trapela l’aut aut: se l’Italicum non sarà modificato, potrebbero mancare i voti in Senato sulla riforma costituzionale. E a Montecitorio Forza Italia pone sul tavolo le stesse richieste di modifica all’Italicum della minoranza dem. Giovanni Toti, il consiglio politico di Berlusconi, spariglia, lascia intravedere la possibilità di un sì forzista se venissero accolti alcuni emendamenti: «Si può aprire una riflessione sui capilista e le preferenze e sul premio di maggioranza o almeno dare la possibilità di apparentarsi al secondo turno». Insomma un asse tra sinistra dem, forzisti, Lega e Sel potrebbe saldarsi.
«Sarà già mercoledì un passaggio delicatissimo - riflette Alfredo D’Attorre - Do per scontato che il governo non metta la fiducia sull’Italicum, Renzi deve sgombrare il campo da questa ipotesi. Dal mio personale punto di vista, un governo che mettesse la fiducia sulla legge elettorale non merita la fiducia ». Nella partita politica sull’Italicum, lo spauracchio della fiducia compatta le minoranze, in genere divise sulle strategie e spaccate tra “trattativisti” e “oltranzisti”. La ministra delle Riforme, Maria Elena Boschi e i renziani negano la volontà di forzature e però ritengono che non ci sia ormai altro tempo da perdere e che soprattutto l’Italicum non debba tornare al Senato per ulteriori ritocchi ma avere il via libero definitivo della Camera. Matteo Richetti, renziano, avverte: «Io credo che si debba fare di tutto per evitare la fiducia. Ma, se l’alternativa è voto di fiducia o rinunciare alla legge elettorale, si deve sceglie la prima opzione».
Corriere 11.4.15
«Non va». «Serve lealtà» Tra Bersani e Boschi duello a cena sull’Italicum
di Massimo Rebotti
CREMONA Lui arriva da solo, le mani in tasca e dice «idea simpatica, non frequente», lei lo raggiunge poco dopo, sorridente: «Alla fine questo partito trova sempre una sua unità». Nel Pd di questi tempi le cose sono un po’ più complicate di una cena di autofinanziamento. Ma l’iniziativa della federazione di Cremona, nei giorni dello scontro più duro sulla legge elettorale, per certi versi è simbolica: Pier Luigi Bersani, l’ex segretario molto amato da queste parti («abito a un tiro di schioppo, ho solo dovuto attraversare il Po») allo stesso tavolo del ministro Maria Elena Boschi, «il volto del governo» come la definisce Luciano Pizzetti, sottosegretario alle Riforme insieme a lei, cremonese, che ha avuto l’idea: «All’inizio erano un po’ spiazzati, tutti e due. Ma hanno accettato subito». A cenare con loro oltre duecento persone, non solo militanti ma anche imprenditori della zona: si pagano 50 («sostenitore») o 100 euro («super sostenitore»). Proprio ieri Matteo Renzi sottolineava di preferire «che i partiti siano finanziati da chi va alle Feste dell’Unità e alle cene che non da tutti i cittadini». Mentre, davanti ai commensali di Cremona, l’ex segretario affermava tutt’altra idea: «Qui continuiamo a mangiare per tirar su i soldi ma in tutto il mondo democratico da Atene in poi, la politica è stata finanziata. Altrimenti vincono solo i ricchi».
Nonostante il tintinnio dei bicchieri, le crespelle al radicchio e il clima di festa, Bersani su quello che succederà nei prossimi giorni a proposito della legge elettorale ha l’aria grave: «Qui si tratta di democrazia, del futuro dei nostri figli, mica di noccioline: non sono nelle condizioni di votare un testo così». Poco distante il ministro, sul tema, ribadisce: «Alcune proposte della minoranza sono state accolte: il tempo della discussione è finito, ora è il momento della decisione e mi aspetto lealtà rispetto a ciò che decideremo nei gruppi parlamentari».
Entrano insieme nella sala all’interno dei padiglioni della fiera di Cremona, «siamo rivali per modo di dire» dice Bersani per rendere più calda l’atmosfera, i militanti applaudono e a occhio manca l’età di mezzo: tanti sono coetanei di Bersani, parecchi i trentenni come il ministro. Prima che si parta con gli antipasti l’insolita coppia si rivolge per un breve intervento ai commensali che intanto scattano con i telefonini: l’ex segretario parla solo del partito, il ministro esclusivamente del governo. «Il Pd ha solo 8 anni, è come un bambino, va curato». Si rivolge ai militanti di più lunga data: «Riconosco a Renzi di aver allargato il campo, ma non perdiamo le radici, per carità». La sala applaude.
Il registro del ministro non potrebbe essere più diverso, elenca i risultati del governo e descrive il partito come se fosse tutt’uno con l’esecutivo «siamo il Pd che riduce le tasse, aiuta i meno abbienti, grazie al quale le persone della mia età ora hanno un contratto a tempo indeterminato». Altro applauso, di uguale intensità. «Non è la serata per scannarsi» sorride un militante. E infatti non lo è, anche se la mediazione sull’Italicum pare quasi impossibile: «Ma io sono sempre ottimista — risponde Boschi — con i tanti amici del Pd si può trovare una convergenza».
Il ministro non dice che Bersani può essere l’ultimo ponte che rimane con la minoranza («Rispetto le sue posizioni»), ma la serata cremonese simbolicamente pare questo. Se c’è ancora spazio per la ricomposizione è a lui che si guarda. Ma l’ex segretario ha preoccupazioni più generali. Sostiene che non ci sia la consapevolezza del momento: «Qui si parla di argomenti di rilevanza costituzionale con una tale leggerezza…mi riferisco a tutti, eh, la politica, la stampa». Ma non è la serata, appunto. Maria Elena Boschi conclude: «Andiamo avanti con il sorriso e con determinazione». E il vecchio segretario sussurra: «Ma sì, la nostra comunità tiene… ».
«Non va». «Serve lealtà» Tra Bersani e Boschi duello a cena sull’Italicum
di Massimo Rebotti
CREMONA Lui arriva da solo, le mani in tasca e dice «idea simpatica, non frequente», lei lo raggiunge poco dopo, sorridente: «Alla fine questo partito trova sempre una sua unità». Nel Pd di questi tempi le cose sono un po’ più complicate di una cena di autofinanziamento. Ma l’iniziativa della federazione di Cremona, nei giorni dello scontro più duro sulla legge elettorale, per certi versi è simbolica: Pier Luigi Bersani, l’ex segretario molto amato da queste parti («abito a un tiro di schioppo, ho solo dovuto attraversare il Po») allo stesso tavolo del ministro Maria Elena Boschi, «il volto del governo» come la definisce Luciano Pizzetti, sottosegretario alle Riforme insieme a lei, cremonese, che ha avuto l’idea: «All’inizio erano un po’ spiazzati, tutti e due. Ma hanno accettato subito». A cenare con loro oltre duecento persone, non solo militanti ma anche imprenditori della zona: si pagano 50 («sostenitore») o 100 euro («super sostenitore»). Proprio ieri Matteo Renzi sottolineava di preferire «che i partiti siano finanziati da chi va alle Feste dell’Unità e alle cene che non da tutti i cittadini». Mentre, davanti ai commensali di Cremona, l’ex segretario affermava tutt’altra idea: «Qui continuiamo a mangiare per tirar su i soldi ma in tutto il mondo democratico da Atene in poi, la politica è stata finanziata. Altrimenti vincono solo i ricchi».
Nonostante il tintinnio dei bicchieri, le crespelle al radicchio e il clima di festa, Bersani su quello che succederà nei prossimi giorni a proposito della legge elettorale ha l’aria grave: «Qui si tratta di democrazia, del futuro dei nostri figli, mica di noccioline: non sono nelle condizioni di votare un testo così». Poco distante il ministro, sul tema, ribadisce: «Alcune proposte della minoranza sono state accolte: il tempo della discussione è finito, ora è il momento della decisione e mi aspetto lealtà rispetto a ciò che decideremo nei gruppi parlamentari».
Entrano insieme nella sala all’interno dei padiglioni della fiera di Cremona, «siamo rivali per modo di dire» dice Bersani per rendere più calda l’atmosfera, i militanti applaudono e a occhio manca l’età di mezzo: tanti sono coetanei di Bersani, parecchi i trentenni come il ministro. Prima che si parta con gli antipasti l’insolita coppia si rivolge per un breve intervento ai commensali che intanto scattano con i telefonini: l’ex segretario parla solo del partito, il ministro esclusivamente del governo. «Il Pd ha solo 8 anni, è come un bambino, va curato». Si rivolge ai militanti di più lunga data: «Riconosco a Renzi di aver allargato il campo, ma non perdiamo le radici, per carità». La sala applaude.
Il registro del ministro non potrebbe essere più diverso, elenca i risultati del governo e descrive il partito come se fosse tutt’uno con l’esecutivo «siamo il Pd che riduce le tasse, aiuta i meno abbienti, grazie al quale le persone della mia età ora hanno un contratto a tempo indeterminato». Altro applauso, di uguale intensità. «Non è la serata per scannarsi» sorride un militante. E infatti non lo è, anche se la mediazione sull’Italicum pare quasi impossibile: «Ma io sono sempre ottimista — risponde Boschi — con i tanti amici del Pd si può trovare una convergenza».
Il ministro non dice che Bersani può essere l’ultimo ponte che rimane con la minoranza («Rispetto le sue posizioni»), ma la serata cremonese simbolicamente pare questo. Se c’è ancora spazio per la ricomposizione è a lui che si guarda. Ma l’ex segretario ha preoccupazioni più generali. Sostiene che non ci sia la consapevolezza del momento: «Qui si parla di argomenti di rilevanza costituzionale con una tale leggerezza…mi riferisco a tutti, eh, la politica, la stampa». Ma non è la serata, appunto. Maria Elena Boschi conclude: «Andiamo avanti con il sorriso e con determinazione». E il vecchio segretario sussurra: «Ma sì, la nostra comunità tiene… ».
La Stampa 11.4.15
I centristi e il timore dell’annessione
di Marcello Sorgi
Chi dice che gliel’ha fatto capire. Chi dice che gliel’ha mandato a dire. Chi dice che l’ha detto chiaro e tondo, in uno degli ultimi “chiarimenti” faccia a faccia. Fatto sta che un fantasma, da qualche giorno, si aggira tra le file del Nuovo centrodestra, o come si chiama adesso, dopo l’unificazione con l’Udc, Area popolare, insomma i centristi delle due ex famiglie berlusconiane che stanno al governo con il Pd. È il timore di un’annessione, o peggio di un reclutamento di singoli che però verrebbero ad assommare un bel gruppetto degli attuali parlamentari, e sarebbero trasportati all’interno del partito renziano, né più né meno com’è avvenuto per i transfughi di Scelta civica.
La voce è arrivata all’orecchio di tutti i membri del gruppo dirigente ed ha alimentato sospetti e polemiche. Dietro le accuse alla linea responsabile di Alfano, Lupi e Quagliariello, che hanno portato allo scontro e poi al defenestramento dell’ex capogruppo Nunzia De Girolamo ci sarebbe anche l’ipotesi della confluenza, presto o tardi, dei centristi, nelle file piddine. Una prospettiva che i tre maggiori dirigenti di Ncd si sono affrettati a smentire con parole e fatti: rinviando la trattativa con Renzi sulla sostituzione di Lupi al governo dopo le sue dimissioni da ministro delle infrastrutture, e respingendo platealmente le pressioni di Renzi sul nome di chi doveva entrare per conto loro al governo. Non è un mistero che il premier non vedesse di buon occhio il ritorno di Quagliariello come ministro o la promozione di Dorina Bianchi, e avesse controproposto la scelta di Rosanna Scopelliti, figlia del magistrato vittima della ’ndrangheta nel 1991. “Non tocca a lui scegliere”, è stata la replica, risentita e ribadita in una serie di interviste.
Ma la vera ragione per cui Ncd vuole chiudere prima dell’inizio l’eventuale percorso di confluenza nel partito renziano è che risulterebbe opposto al progetto di «rassemblement» stile Ump francese che Alfano e i suoi puntano a realizzare sulle macerie del centrodestra berlusconiano: quando, dopo il fallimento annunciato alle regionali, e forse anche prima, stando alle ultime prese di posizione di Fitto, la crisi di Forza Italia esploderà senza rimedio. Il progetto prevede che se il rischio di elezioni anticipate dovesse farsi più forte, i centristi uscirebbero dal governo, passando all’appoggio esterno e preparando una proposta politica alternativa. Sarà quello il momento della verità, in cui si vedrà davvero qual è la reale forza di attrazione di Renzi su una base parlamentare in cui molti temono di non essere rieletti.
I centristi e il timore dell’annessione
di Marcello Sorgi
Chi dice che gliel’ha fatto capire. Chi dice che gliel’ha mandato a dire. Chi dice che l’ha detto chiaro e tondo, in uno degli ultimi “chiarimenti” faccia a faccia. Fatto sta che un fantasma, da qualche giorno, si aggira tra le file del Nuovo centrodestra, o come si chiama adesso, dopo l’unificazione con l’Udc, Area popolare, insomma i centristi delle due ex famiglie berlusconiane che stanno al governo con il Pd. È il timore di un’annessione, o peggio di un reclutamento di singoli che però verrebbero ad assommare un bel gruppetto degli attuali parlamentari, e sarebbero trasportati all’interno del partito renziano, né più né meno com’è avvenuto per i transfughi di Scelta civica.
La voce è arrivata all’orecchio di tutti i membri del gruppo dirigente ed ha alimentato sospetti e polemiche. Dietro le accuse alla linea responsabile di Alfano, Lupi e Quagliariello, che hanno portato allo scontro e poi al defenestramento dell’ex capogruppo Nunzia De Girolamo ci sarebbe anche l’ipotesi della confluenza, presto o tardi, dei centristi, nelle file piddine. Una prospettiva che i tre maggiori dirigenti di Ncd si sono affrettati a smentire con parole e fatti: rinviando la trattativa con Renzi sulla sostituzione di Lupi al governo dopo le sue dimissioni da ministro delle infrastrutture, e respingendo platealmente le pressioni di Renzi sul nome di chi doveva entrare per conto loro al governo. Non è un mistero che il premier non vedesse di buon occhio il ritorno di Quagliariello come ministro o la promozione di Dorina Bianchi, e avesse controproposto la scelta di Rosanna Scopelliti, figlia del magistrato vittima della ’ndrangheta nel 1991. “Non tocca a lui scegliere”, è stata la replica, risentita e ribadita in una serie di interviste.
Ma la vera ragione per cui Ncd vuole chiudere prima dell’inizio l’eventuale percorso di confluenza nel partito renziano è che risulterebbe opposto al progetto di «rassemblement» stile Ump francese che Alfano e i suoi puntano a realizzare sulle macerie del centrodestra berlusconiano: quando, dopo il fallimento annunciato alle regionali, e forse anche prima, stando alle ultime prese di posizione di Fitto, la crisi di Forza Italia esploderà senza rimedio. Il progetto prevede che se il rischio di elezioni anticipate dovesse farsi più forte, i centristi uscirebbero dal governo, passando all’appoggio esterno e preparando una proposta politica alternativa. Sarà quello il momento della verità, in cui si vedrà davvero qual è la reale forza di attrazione di Renzi su una base parlamentare in cui molti temono di non essere rieletti.
Il Sole 11.4.15
Un bonus che Renzi può “spendere” per le elezioni regionali e per la battaglia sull’Italicum
di Lina Palmerini
Un dono elettorale, come dice l’opposizione, ma anche una scelta che mette in difficoltà la sinistra Pd sull’Italicum. E rende più complicato fare agguati contro Renzi dopo aver votato un Def con un bonus destinato al welfare.
Il fatto che il tesoretto da un miliardo e mezzo sia scritto nel capitolo “stato sociale” e che il Def sarà votato prima della legge elettorale, rende più complicato per la minoranza tentare – subito dopo - agguati al Governo con i voti segreti e rischiare di buttarlo giù. E dunque sarà pure una mancia elettorale quella che ha preparato il premier ma di certo aiuta anche a smontare l’opposizione interna che si attrezza per la battaglia finale sui capilista bloccati e premi. Davvero si potrà mandare sotto il Governo affossando anche misure sul welfare? Davvero si potrà fare durante la campagna per le regionali? Risponde anche a questi interrogativi il bonus deciso ieri.
È chiaro che le minacce sul voto di fiducia fatte più o meno esplicitamente dai renziani restano tali. Difficile che al Quirinale possano vedere di buon occhio una mossa così azzardata, uno strappo così netto su una legge che deve definire le regole elettorali per tutti i partiti. È vero che ci sono stati precedenti ma questo non vuol dire che la forzatura sia gradita dalle parti del Colle. E dunque dove non funzionano le minacce, o non possono essere attuate, può funzionare la tattica politica. Con il tesoretto da un miliardo e mezzo ascrivibile a politiche sociali, il premier riesce a prendere due piccioni con un solo bonus: da un lato aprirsi la strada verso la campagna elettorale per le regionali; dall’altra mettere in una condizione più difficile la sinistra del partito. Che infatti già ieri dibatteva sulla destinazione più opportuna del bonus.
Piuttosto erano le altre opposizioni, da Forza Italia al Movimento 5 Stelle ad attaccare la mossa di Renzi. Una operazione che ricalcherebbe gli 80 euro promessi nella campagna per le europee che, in effetti, portarono molto bene al leader Pd. Questa volta la scommessa sembra la stessa. Del resto, il test delle regionali non è affatto banale per Renzi che subito dopo si troverà a un bivio: decidere se proseguire la legislatura fino alla scadenza naturale (2018) oppure anticipare le urne al 2016, magari in concomitanza con il referendum costituzionale (se la riforma sarà varata). E magari approfittando anche di primi eventuali risultati postivi in economia.
Il fatto è che per andare avanti a governare il premier non può accettare una situazione di continuo scontro parlamentare come è accaduto al Senato sulle riforme e come sarà alla Camera sull’Italicum. In poche parole non può continuare a governare con una larga fetta di gruppi parlamentari che gli remano contro. Addirittura con un capogruppo alla Camera che è tra i capi della minoranza interna, con un presidente della commissione Bilancio apertamente contro di lui, con un presidente della commissione Attività produttive che è l’ex segretario Pd Epifani, anche lui tra gli esponenti di spicco dell’area bersaniana.
La sfida elettorale delle regionali servirà anche a questo: a cambiare gli equilibri parlamentari, soprattutto se Renzi avrà in mente di governare fino alla fine della legislatura. E vincere la sfida vuol dire innanzitutto mantenere le Regioni che sono già del centro-sinistra, a partire dalla Liguria, la più incerta, quella più in bilico perché attraversata dagli scontri interni. Conterà anche la Puglia ma il vero colpo potrebbe essere il Veneto, dove il Pd è arrivato al 37,5% alle ultime europee. Una vittoria lì gli darebbe tutta la forza per modificare gli assetti romani.
Un bonus che Renzi può “spendere” per le elezioni regionali e per la battaglia sull’Italicum
di Lina Palmerini
Un dono elettorale, come dice l’opposizione, ma anche una scelta che mette in difficoltà la sinistra Pd sull’Italicum. E rende più complicato fare agguati contro Renzi dopo aver votato un Def con un bonus destinato al welfare.
Il fatto che il tesoretto da un miliardo e mezzo sia scritto nel capitolo “stato sociale” e che il Def sarà votato prima della legge elettorale, rende più complicato per la minoranza tentare – subito dopo - agguati al Governo con i voti segreti e rischiare di buttarlo giù. E dunque sarà pure una mancia elettorale quella che ha preparato il premier ma di certo aiuta anche a smontare l’opposizione interna che si attrezza per la battaglia finale sui capilista bloccati e premi. Davvero si potrà mandare sotto il Governo affossando anche misure sul welfare? Davvero si potrà fare durante la campagna per le regionali? Risponde anche a questi interrogativi il bonus deciso ieri.
È chiaro che le minacce sul voto di fiducia fatte più o meno esplicitamente dai renziani restano tali. Difficile che al Quirinale possano vedere di buon occhio una mossa così azzardata, uno strappo così netto su una legge che deve definire le regole elettorali per tutti i partiti. È vero che ci sono stati precedenti ma questo non vuol dire che la forzatura sia gradita dalle parti del Colle. E dunque dove non funzionano le minacce, o non possono essere attuate, può funzionare la tattica politica. Con il tesoretto da un miliardo e mezzo ascrivibile a politiche sociali, il premier riesce a prendere due piccioni con un solo bonus: da un lato aprirsi la strada verso la campagna elettorale per le regionali; dall’altra mettere in una condizione più difficile la sinistra del partito. Che infatti già ieri dibatteva sulla destinazione più opportuna del bonus.
Piuttosto erano le altre opposizioni, da Forza Italia al Movimento 5 Stelle ad attaccare la mossa di Renzi. Una operazione che ricalcherebbe gli 80 euro promessi nella campagna per le europee che, in effetti, portarono molto bene al leader Pd. Questa volta la scommessa sembra la stessa. Del resto, il test delle regionali non è affatto banale per Renzi che subito dopo si troverà a un bivio: decidere se proseguire la legislatura fino alla scadenza naturale (2018) oppure anticipare le urne al 2016, magari in concomitanza con il referendum costituzionale (se la riforma sarà varata). E magari approfittando anche di primi eventuali risultati postivi in economia.
Il fatto è che per andare avanti a governare il premier non può accettare una situazione di continuo scontro parlamentare come è accaduto al Senato sulle riforme e come sarà alla Camera sull’Italicum. In poche parole non può continuare a governare con una larga fetta di gruppi parlamentari che gli remano contro. Addirittura con un capogruppo alla Camera che è tra i capi della minoranza interna, con un presidente della commissione Bilancio apertamente contro di lui, con un presidente della commissione Attività produttive che è l’ex segretario Pd Epifani, anche lui tra gli esponenti di spicco dell’area bersaniana.
La sfida elettorale delle regionali servirà anche a questo: a cambiare gli equilibri parlamentari, soprattutto se Renzi avrà in mente di governare fino alla fine della legislatura. E vincere la sfida vuol dire innanzitutto mantenere le Regioni che sono già del centro-sinistra, a partire dalla Liguria, la più incerta, quella più in bilico perché attraversata dagli scontri interni. Conterà anche la Puglia ma il vero colpo potrebbe essere il Veneto, dove il Pd è arrivato al 37,5% alle ultime europee. Una vittoria lì gli darebbe tutta la forza per modificare gli assetti romani.
Repubblica 11.4.15
Il tesoretto del premier e la strategia del consenso
Al segretario dem serve con urgenza un volano per riaccendere almeno in parte la magia dell’anno scorso
di Stefano Folli
IL “tesoretto” da un miliardo e seicento milioni di euro è poca cosa se paragonato all’immenso tesoro servito a suo tempo per finanziare gli 80 euro, fiore all’occhiello della strategia renziana del consenso. Ma è pur sempre una cifra ragguardevole nella carestia delle risorse. Averla individuata nelle pieghe del bilancio pubblico e del Def aiuta il presidente del Consiglio a destreggiarsi nelle strettoie di primavera.
In un certo senso si può dire che Renzi ha ripreso da ieri sera a tessere il filo del rapporto con il suo elettorato. Filo che non si è mai spezzato, s’intende, ma che nelle ultime settimane si era un po’ allentato. Con l’eccezione della Swg, i sondaggi di opinione, chi più chi meno, hanno preso a registrare una contrazione della popolarità del premier e del sostegno al Pd. Le ragioni sono molteplici e hanno a che fare con quel tanto di logoramento inevitabile per chi governa. Peraltro le ultime settimane non sono state le più brillanti per l’esecutivo e soprattutto per il partito di maggioranza. Le inchieste sulle commistioni fra politica e affari nelle amministrazioni locali proiettano un’ombra sulla leadership: è inevitabile, quali che siano le responsabilità effettive.
E poi c’è la questione di fondo, nodo previsto e tuttavia allarmante: le riforme economiche, a cominciare dal cosiddetto “Jobs Act”, hanno bisogno di tempo per essere percepite dalla pubblica opinione come foriere di risultati tangibili. Idem per il parziale e limitato miglioramento della condizione economica generale. Le tasse non diminuiscono, tutt’altro, e i dati dell’Inps confermano quanto sia lento e farraginoso — è inevitabile — lo sforzo di ridurre la disoccupazione.
ARenzi serve con urgenza un volano per riaccendere almeno in parte la magia dell’anno scorso, quel misto di fiducia, novità e speranza che sfociò nel 41 per cento ottenuto dal Pd (ma in sostanza dal premier) nelle elezioni europee di maggio. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Il consenso al capo del governo resta ragguardevole, anche in virtù della mancanza di alternative, ma si comincia ad avvertire qualche scricchiolio. A un mese e mezzo dalle regionali, il fenomeno non va sottovalutato. E allora ecco il “tesoretto”. Con esso Renzi avvia di fatto la sua personale campagna elettorale; una campagna di cui il voto del 31 maggio sarà solo una tappa intermedia, ma non per questo irrilevante. Al contrario, le regioni sono sempre un “test” qualificante, in grado talvolta di cambiare il corso della politica.
Il presidente del Consiglio cerca dunque il suo colpo d’ala. Non può rischiare di perdere in Liguria né di restare invischiato nelle lotte di fazione in Campania; come non può rinunciare a lottare fino all’ultimo voto in Veneto. Per non parlare della Puglia, dove il caos intorno a Forza Italia offre un’ottima opportunità al centrosinistra. Il fatto è che dopo un anno di governo le munizioni di Palazzo Chigi si sono inumidite. Occorre rinnovare il repertorio.
Avendo promesso “né tagli né nuove tasse” nel Def, Renzi ha preso un impegno che è quasi un azzardo. Ma non ha risolto il problema di fondo: disporre di un argomento forte sul piano mediatico per sostenere il suo messaggio ottimistico e rendere credibile l’immagine di un paese che domani si pretende più ricco e sicuro di se stesso di quanto non sia oggi. Un miliardo e seicento milioni, se bene impiegati, possono fare un piccolo miracolo e rilanciare il partito del premier. Poi si vedrà.
Non c’è dubbio, del resto, che il premier sia un abile comunicatore e sappia come si conduce una campagna elettorale. I suoi interlocutori sono dal primo giorno gli elettori, singoli e come categorie. Cerca di non scontentarli, dai sindaci ai pensionati, e di sicuro dedica loro molta più attenzione di quanta ne riservi agli esponenti del ceto politico-parlamentare. È una buona strategia? Difficile dirlo, ma è palesemente l’unica che Renzi conosce. Ancora una volta, punterà su se stesso.
Il tesoretto del premier e la strategia del consenso
Al segretario dem serve con urgenza un volano per riaccendere almeno in parte la magia dell’anno scorso
di Stefano Folli
IL “tesoretto” da un miliardo e seicento milioni di euro è poca cosa se paragonato all’immenso tesoro servito a suo tempo per finanziare gli 80 euro, fiore all’occhiello della strategia renziana del consenso. Ma è pur sempre una cifra ragguardevole nella carestia delle risorse. Averla individuata nelle pieghe del bilancio pubblico e del Def aiuta il presidente del Consiglio a destreggiarsi nelle strettoie di primavera.
In un certo senso si può dire che Renzi ha ripreso da ieri sera a tessere il filo del rapporto con il suo elettorato. Filo che non si è mai spezzato, s’intende, ma che nelle ultime settimane si era un po’ allentato. Con l’eccezione della Swg, i sondaggi di opinione, chi più chi meno, hanno preso a registrare una contrazione della popolarità del premier e del sostegno al Pd. Le ragioni sono molteplici e hanno a che fare con quel tanto di logoramento inevitabile per chi governa. Peraltro le ultime settimane non sono state le più brillanti per l’esecutivo e soprattutto per il partito di maggioranza. Le inchieste sulle commistioni fra politica e affari nelle amministrazioni locali proiettano un’ombra sulla leadership: è inevitabile, quali che siano le responsabilità effettive.
E poi c’è la questione di fondo, nodo previsto e tuttavia allarmante: le riforme economiche, a cominciare dal cosiddetto “Jobs Act”, hanno bisogno di tempo per essere percepite dalla pubblica opinione come foriere di risultati tangibili. Idem per il parziale e limitato miglioramento della condizione economica generale. Le tasse non diminuiscono, tutt’altro, e i dati dell’Inps confermano quanto sia lento e farraginoso — è inevitabile — lo sforzo di ridurre la disoccupazione.
ARenzi serve con urgenza un volano per riaccendere almeno in parte la magia dell’anno scorso, quel misto di fiducia, novità e speranza che sfociò nel 41 per cento ottenuto dal Pd (ma in sostanza dal premier) nelle elezioni europee di maggio. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Il consenso al capo del governo resta ragguardevole, anche in virtù della mancanza di alternative, ma si comincia ad avvertire qualche scricchiolio. A un mese e mezzo dalle regionali, il fenomeno non va sottovalutato. E allora ecco il “tesoretto”. Con esso Renzi avvia di fatto la sua personale campagna elettorale; una campagna di cui il voto del 31 maggio sarà solo una tappa intermedia, ma non per questo irrilevante. Al contrario, le regioni sono sempre un “test” qualificante, in grado talvolta di cambiare il corso della politica.
Il presidente del Consiglio cerca dunque il suo colpo d’ala. Non può rischiare di perdere in Liguria né di restare invischiato nelle lotte di fazione in Campania; come non può rinunciare a lottare fino all’ultimo voto in Veneto. Per non parlare della Puglia, dove il caos intorno a Forza Italia offre un’ottima opportunità al centrosinistra. Il fatto è che dopo un anno di governo le munizioni di Palazzo Chigi si sono inumidite. Occorre rinnovare il repertorio.
Avendo promesso “né tagli né nuove tasse” nel Def, Renzi ha preso un impegno che è quasi un azzardo. Ma non ha risolto il problema di fondo: disporre di un argomento forte sul piano mediatico per sostenere il suo messaggio ottimistico e rendere credibile l’immagine di un paese che domani si pretende più ricco e sicuro di se stesso di quanto non sia oggi. Un miliardo e seicento milioni, se bene impiegati, possono fare un piccolo miracolo e rilanciare il partito del premier. Poi si vedrà.
Non c’è dubbio, del resto, che il premier sia un abile comunicatore e sappia come si conduce una campagna elettorale. I suoi interlocutori sono dal primo giorno gli elettori, singoli e come categorie. Cerca di non scontentarli, dai sindaci ai pensionati, e di sicuro dedica loro molta più attenzione di quanta ne riservi agli esponenti del ceto politico-parlamentare. È una buona strategia? Difficile dirlo, ma è palesemente l’unica che Renzi conosce. Ancora una volta, punterà su se stesso.
Repubblica 11.4.15
La carta del bonus e le forbici rinviate
di Federico Fubini
DECENNI di vita repubblicana hanno insegnato agli italiani almeno una verità di fondo: mai tenere il fiato sospeso per un programma di governo a cinquanta giorni da un’elezione. A fine maggio 17 milioni di cittadini sono chiamati alle urne in sette Regioni e oltre mille Comuni, e bastava questo a delimitare la portata del Documento di economia e finanza (Def) che il Consiglio dei ministri ha varato ieri sera. In una situazione del genere qualunque politico, in qualunque Paese, prende impegni quanto più vaghi possibile.
NON era questo il momento di entrare nel vivo dei tagli di spesa (in teoria) fino a 10 miliardi che il governo deve precisare entro l’autunno, se vuole evitare una nuova impennata delle tasse o un passo indietro sui propri impegni europei. Anche così, la sorpresa non è mancata: un “bonus” da 1,6 miliardi da distribuire ad alcune categorie di italiani, anche se non è ancora chiaro esattamente a quali. Matteo Renzi è già circondato da un numero sufficiente di consiglieri a Palazzo Chigi, quasi tutti di prima qualità, ma già solo un’occhiata ai dati dell’Istat può dare al premier un’idea di cosa fare di quel denaro. In Italia vivono ormai sei milioni di persone che rispondono alla definizione statistica di povertà. La carenza di un’alimentazione abbastanza buona colpisce centinaia di migliaia di famiglie (non solo al Sud) e se serviva la prospettiva di un voto che si avvicina a convincere un governo ad occuparsene, tanto meglio. Le elezioni servono anche a questo, se portano a investire risorse dove sarebbero ben spese.
Vale però la pena di fermarsi un attimo a vedere meglio da dove viene quel “bonus” di così incerta destinazione: dal calo degli interessi sul debito, seguiti al piano di acquisti di titoli di Stato della Banca centrale europea. Chi dubita che gli attuali rendimenti dei titoli di Stato italiani siano sostenibili a lungo, nota che i Btp decennali oggi rendono 64 punti base meno dei corrispondenti titoli degli Stati Uniti. Sembrerebbe quasi che fra i due sia l’Italia il Paese più solido, più dinamico e con il debito più basso. Ovviamente è vero il contrario e già solo questo spread invertito fra Italia e America dà la misura di quanto oggi questo Paese stia vivendo in un clima artificialmente sedato. Il siero lo sta iniettando la Bce, il suo effetto non può durare più di un paio d’anni, ma ora dà al governo la copertura necessaria per passare alla parte più rischiosa del suo compito. La revisione della spesa, quella vera, entrerà nella sua fase operativa non appena le urne delle amministrative saranno sigillate.
Le linee di fondo sono già scritte, almeno per il 2016. Dalla fine di deduzioni e detrazioni fiscali si potrà ricavare 1,5 o 2 miliardi; dal trasporto pubblico locale circa 500 milioni; dall’applicazione dei cosiddetti “costi standard” a tutte le strutture sanitarie, un miliardo; dalle nuove grandi centrali per gli acquisti dell’amministrazione pubblica, di nuovo un miliardo; un altro dovrebbe venire dalla cancellazione dei sussidi alle imprese ma, poiché andrebbero colpite soprattutto le commesse della Marina e dell’Aviazione, sono già in vista duri scontri con Finmeccanica. Lo stesso poi vale per le Ferrovie dello Stato per ulteriori, eventuali risparmi.
Come si vede, in totale non si arriverà a 10 ma al massimo forse a 7 miliardi di tagli sul 2016. Il meno che si possa dire è che la sfida del premier di portare a un cambio di direzione radicale non è ancora vinta, anche se l’Italia è sottoposta a un esame europeo di cui a stento sembra rendersi conto in questi mesi. Jens Weidmann, Wolfgang Schaeuble o altri dignitari tedeschi sospettano che questo Paese si adagi non appena gli si dà un po’ di spazio e gli si permette di vivere in un ambiente sedato. Sono convinti che l’Italia vada messa spalle al muro, per costringerla ad autoriformarsi nell’emergenza. Renzi e il suo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sostengono, in buona fede, che non è così. Ma anche loro sanno che dare ragione ai falchi tedeschi, nei prossimi due anni, sarebbe la più grave delle sconfitte culturali italiane.
La carta del bonus e le forbici rinviate
di Federico Fubini
DECENNI di vita repubblicana hanno insegnato agli italiani almeno una verità di fondo: mai tenere il fiato sospeso per un programma di governo a cinquanta giorni da un’elezione. A fine maggio 17 milioni di cittadini sono chiamati alle urne in sette Regioni e oltre mille Comuni, e bastava questo a delimitare la portata del Documento di economia e finanza (Def) che il Consiglio dei ministri ha varato ieri sera. In una situazione del genere qualunque politico, in qualunque Paese, prende impegni quanto più vaghi possibile.
NON era questo il momento di entrare nel vivo dei tagli di spesa (in teoria) fino a 10 miliardi che il governo deve precisare entro l’autunno, se vuole evitare una nuova impennata delle tasse o un passo indietro sui propri impegni europei. Anche così, la sorpresa non è mancata: un “bonus” da 1,6 miliardi da distribuire ad alcune categorie di italiani, anche se non è ancora chiaro esattamente a quali. Matteo Renzi è già circondato da un numero sufficiente di consiglieri a Palazzo Chigi, quasi tutti di prima qualità, ma già solo un’occhiata ai dati dell’Istat può dare al premier un’idea di cosa fare di quel denaro. In Italia vivono ormai sei milioni di persone che rispondono alla definizione statistica di povertà. La carenza di un’alimentazione abbastanza buona colpisce centinaia di migliaia di famiglie (non solo al Sud) e se serviva la prospettiva di un voto che si avvicina a convincere un governo ad occuparsene, tanto meglio. Le elezioni servono anche a questo, se portano a investire risorse dove sarebbero ben spese.
Vale però la pena di fermarsi un attimo a vedere meglio da dove viene quel “bonus” di così incerta destinazione: dal calo degli interessi sul debito, seguiti al piano di acquisti di titoli di Stato della Banca centrale europea. Chi dubita che gli attuali rendimenti dei titoli di Stato italiani siano sostenibili a lungo, nota che i Btp decennali oggi rendono 64 punti base meno dei corrispondenti titoli degli Stati Uniti. Sembrerebbe quasi che fra i due sia l’Italia il Paese più solido, più dinamico e con il debito più basso. Ovviamente è vero il contrario e già solo questo spread invertito fra Italia e America dà la misura di quanto oggi questo Paese stia vivendo in un clima artificialmente sedato. Il siero lo sta iniettando la Bce, il suo effetto non può durare più di un paio d’anni, ma ora dà al governo la copertura necessaria per passare alla parte più rischiosa del suo compito. La revisione della spesa, quella vera, entrerà nella sua fase operativa non appena le urne delle amministrative saranno sigillate.
Le linee di fondo sono già scritte, almeno per il 2016. Dalla fine di deduzioni e detrazioni fiscali si potrà ricavare 1,5 o 2 miliardi; dal trasporto pubblico locale circa 500 milioni; dall’applicazione dei cosiddetti “costi standard” a tutte le strutture sanitarie, un miliardo; dalle nuove grandi centrali per gli acquisti dell’amministrazione pubblica, di nuovo un miliardo; un altro dovrebbe venire dalla cancellazione dei sussidi alle imprese ma, poiché andrebbero colpite soprattutto le commesse della Marina e dell’Aviazione, sono già in vista duri scontri con Finmeccanica. Lo stesso poi vale per le Ferrovie dello Stato per ulteriori, eventuali risparmi.
Come si vede, in totale non si arriverà a 10 ma al massimo forse a 7 miliardi di tagli sul 2016. Il meno che si possa dire è che la sfida del premier di portare a un cambio di direzione radicale non è ancora vinta, anche se l’Italia è sottoposta a un esame europeo di cui a stento sembra rendersi conto in questi mesi. Jens Weidmann, Wolfgang Schaeuble o altri dignitari tedeschi sospettano che questo Paese si adagi non appena gli si dà un po’ di spazio e gli si permette di vivere in un ambiente sedato. Sono convinti che l’Italia vada messa spalle al muro, per costringerla ad autoriformarsi nell’emergenza. Renzi e il suo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sostengono, in buona fede, che non è così. Ma anche loro sanno che dare ragione ai falchi tedeschi, nei prossimi due anni, sarebbe la più grave delle sconfitte culturali italiane.
Corriere 11.4.15
L’accelerazione per alimentare la narrativa della ripresa
di Massimo Franco
Il termine «tesoretto» di solito non porta bene. Ma a nemmeno due mesi dalle elezioni regionali, la scaramanzia passa in secondo piano. Nell’evocare un Documento di economia e finanza senza lacrime, anzi con un miliardo e mezzo di euro da spendere, Matteo Renzi sembra mirare a un risultato che va oltre quel voto. La sua narrativa tutta proiettata verso concetti come velocità, cambio di passo, svolta, ha bisogno di offrire conferme magari solo simboliche ma tangibili. E l’idea che nelle pieghe del bilancio ci siano soldi da spendere calza perfettamente questo schema.
L’unico ritardo è stato quello di dodici ore del Consiglio dei ministri convocato per ieri mattina e spostato alla sera: un rinvio che ha evocato un alone di confusione e l’ombra di un contrasto sordo tra Palazzo Chigi e ministero dell’Economia, col primo deciso a prendersi il suo tempo prima di approvare le misure presentate dai tecnici di Pier Carlo Padoan. Ma il messaggio che Renzi sembra deciso a mandare è che se ora si intravede una manovra espansiva, è perché i tempi stanno cambiando; perché si indovinano i primi effetti, naturalmente virtuosi, del semestre di presidenza italiana in Europa.
È un segnale all’opinione pubblica, in un momento di appannamento dell’immagine del Pd, impelagato in Parlamento nella sfida sulla riforma elettorale; e macchiato dagli scandali delle cooperative a livello locale. Ed è una carota economica data ad una minoranza dei democratici che da tempo insiste affinché Palazzo Chigi esca dal recinto dell’austerità. Si tratta di un gioco sul filo dei limiti che il patto di Stabilità impone ai Paesi europei. È l’uso spregiudicato e tirato al massimo della famosa «flessibilità» chiesta alle istituzioni di Bruxelles.
La versione ufficiale è che si consuma tutto il margine a disposizione nel rispetto del 3 per cento nel rapporto tra deficit e Prodotto interno lordo. Quella fuori dai denti è che formalmente quel «tetto» finanziario è rispettato e nei fatti può darsi che non sia così; ma le aspettative di ripresa e l’impulso che queste misure potrebbero imprimere, sono considerati sufficienti per tentare la carta della «manovra espansiva». Vista così, l’accelerazione decisa da Palazzo Chigi mostra indirettamente una certa preoccupazione per come vanno le cose.
Somiglia ad una logica da «o la va o la spacca»; con la prospettiva che se l’economia non riparte, il governo possa essere costretto di qui ad alcuni mesi ad una manovra correttiva. In quel caso, si passerebbe dall’ambizione di aprire una stagione «senza lacrime», di sviluppo e di ripresa, e di calo di un’occupazione e di un carico fiscale purtroppo finora in crescita. Il «tesoretto» serve a esorcizzare l’incubo della recessione. E a resuscitare la luna di miele tra Renzi e la «sua» Italia.
L’accelerazione per alimentare la narrativa della ripresa
di Massimo Franco
Il termine «tesoretto» di solito non porta bene. Ma a nemmeno due mesi dalle elezioni regionali, la scaramanzia passa in secondo piano. Nell’evocare un Documento di economia e finanza senza lacrime, anzi con un miliardo e mezzo di euro da spendere, Matteo Renzi sembra mirare a un risultato che va oltre quel voto. La sua narrativa tutta proiettata verso concetti come velocità, cambio di passo, svolta, ha bisogno di offrire conferme magari solo simboliche ma tangibili. E l’idea che nelle pieghe del bilancio ci siano soldi da spendere calza perfettamente questo schema.
L’unico ritardo è stato quello di dodici ore del Consiglio dei ministri convocato per ieri mattina e spostato alla sera: un rinvio che ha evocato un alone di confusione e l’ombra di un contrasto sordo tra Palazzo Chigi e ministero dell’Economia, col primo deciso a prendersi il suo tempo prima di approvare le misure presentate dai tecnici di Pier Carlo Padoan. Ma il messaggio che Renzi sembra deciso a mandare è che se ora si intravede una manovra espansiva, è perché i tempi stanno cambiando; perché si indovinano i primi effetti, naturalmente virtuosi, del semestre di presidenza italiana in Europa.
È un segnale all’opinione pubblica, in un momento di appannamento dell’immagine del Pd, impelagato in Parlamento nella sfida sulla riforma elettorale; e macchiato dagli scandali delle cooperative a livello locale. Ed è una carota economica data ad una minoranza dei democratici che da tempo insiste affinché Palazzo Chigi esca dal recinto dell’austerità. Si tratta di un gioco sul filo dei limiti che il patto di Stabilità impone ai Paesi europei. È l’uso spregiudicato e tirato al massimo della famosa «flessibilità» chiesta alle istituzioni di Bruxelles.
La versione ufficiale è che si consuma tutto il margine a disposizione nel rispetto del 3 per cento nel rapporto tra deficit e Prodotto interno lordo. Quella fuori dai denti è che formalmente quel «tetto» finanziario è rispettato e nei fatti può darsi che non sia così; ma le aspettative di ripresa e l’impulso che queste misure potrebbero imprimere, sono considerati sufficienti per tentare la carta della «manovra espansiva». Vista così, l’accelerazione decisa da Palazzo Chigi mostra indirettamente una certa preoccupazione per come vanno le cose.
Somiglia ad una logica da «o la va o la spacca»; con la prospettiva che se l’economia non riparte, il governo possa essere costretto di qui ad alcuni mesi ad una manovra correttiva. In quel caso, si passerebbe dall’ambizione di aprire una stagione «senza lacrime», di sviluppo e di ripresa, e di calo di un’occupazione e di un carico fiscale purtroppo finora in crescita. Il «tesoretto» serve a esorcizzare l’incubo della recessione. E a resuscitare la luna di miele tra Renzi e la «sua» Italia.
La Stampa 11.4.15
La Sacra Sindone a Torino
In servizio 550 agenti al giorno
Pronti anche elicotteri e droni
Il prefetto: nessun allarmismo, solo prevenzione
di Massimo Numa
«Alla cultura della paura dobbiamo opporre la cultura dell’accoglienza, celebrare l’Ostensione della Sindone con serenità significa anche dire no a chi, con la violenza, vuole imporre una visione terroristica del mondo e di limitare così i diritti e le libertà dei cittadini». La Curia di Torino vuole rassicurare i pellegrini, in vista dell’Ostensione della Sindone, con inizio il 19 aprile per concludersi mercoledì 24 giugno e allontanare lo spettro del terrorismo islamico e delle contestazioni antagoniste. Ieri vertice in prefettura, con polizia, carabinieri, Finanza, Forestale, Vigili del fuoco, vigili urbani. Al centro, sicurezza e prevenzione, nel senso più generale, spiega il prefetto Paola Basilone.
I visitatori dovranno avere con sè un bagaglio leggero: ovviamente niente armi da fuoco, coltelli, lame, aste o bastoni, bottiglie di vetro o lattine, sostanze infiammabili, corrosive o esplodenti e bombolette spray. Sin qui, come si vede, è una questione di buon senso. Il prefetto precisa però che il Viminale ha compiuto uno sforzo notevole, in uomini e mezzi per affrontare «in serenità» questa particolare fase storica, con le note minacce dall’area integralista islamica contro i simboli dell’Occidente e della cristianità.
L’«esercito» dei volontari della Curia, con il compito di informare, guidare e orientare i pellegrini provenienti da tutto il mondo, supera quota 4 mila 500. Avranno pettorali viola e ci sarà anche personale sanitario con ambulanze specializzate. Il questore di Torino, Salvatore Longo, si addentra nei dettagli tecnici: «Cinquecentocinquanta agenti sull’arco delle 24 ore, poi una control room interforze collegata a una rete di videocamere di ultima generazione, posizionate a pochi metri una dall’altra. Si potrà accedere al percorso Sindone attraverso otto porte d’ingresso controllate da metal detector; altri rilevatori verranno impiegati durante il flusso più intenso, per singole verifiche. Nei “corridoi”, investigatori qualificati, reduci da corsi anti-terrorismo, in grado di collegarsi instantaneamente al sistema video, attraverso gli smartphone». Previsto l’impiego di elicotteri di polizia e carabinieri, più l’utilizzo di droni, in caso di emergenza e nei momenti più intensi della manifestazione. Presidi nei terminali ferroviari e aeroportuali: al «Sandro Pertini» di Caselle, sale dedicate ai pellegrini. Chiude il prefetto: «Nessun allarmismo, solo prevenzione». E la Curia: «Non si tratta di misure eccezionali, sono le stesse già applicate da tempo in Vaticano e in altri luoghi di culto».
La Sacra Sindone a Torino
In servizio 550 agenti al giorno
Pronti anche elicotteri e droni
Il prefetto: nessun allarmismo, solo prevenzione
di Massimo Numa
«Alla cultura della paura dobbiamo opporre la cultura dell’accoglienza, celebrare l’Ostensione della Sindone con serenità significa anche dire no a chi, con la violenza, vuole imporre una visione terroristica del mondo e di limitare così i diritti e le libertà dei cittadini». La Curia di Torino vuole rassicurare i pellegrini, in vista dell’Ostensione della Sindone, con inizio il 19 aprile per concludersi mercoledì 24 giugno e allontanare lo spettro del terrorismo islamico e delle contestazioni antagoniste. Ieri vertice in prefettura, con polizia, carabinieri, Finanza, Forestale, Vigili del fuoco, vigili urbani. Al centro, sicurezza e prevenzione, nel senso più generale, spiega il prefetto Paola Basilone.
I visitatori dovranno avere con sè un bagaglio leggero: ovviamente niente armi da fuoco, coltelli, lame, aste o bastoni, bottiglie di vetro o lattine, sostanze infiammabili, corrosive o esplodenti e bombolette spray. Sin qui, come si vede, è una questione di buon senso. Il prefetto precisa però che il Viminale ha compiuto uno sforzo notevole, in uomini e mezzi per affrontare «in serenità» questa particolare fase storica, con le note minacce dall’area integralista islamica contro i simboli dell’Occidente e della cristianità.
L’«esercito» dei volontari della Curia, con il compito di informare, guidare e orientare i pellegrini provenienti da tutto il mondo, supera quota 4 mila 500. Avranno pettorali viola e ci sarà anche personale sanitario con ambulanze specializzate. Il questore di Torino, Salvatore Longo, si addentra nei dettagli tecnici: «Cinquecentocinquanta agenti sull’arco delle 24 ore, poi una control room interforze collegata a una rete di videocamere di ultima generazione, posizionate a pochi metri una dall’altra. Si potrà accedere al percorso Sindone attraverso otto porte d’ingresso controllate da metal detector; altri rilevatori verranno impiegati durante il flusso più intenso, per singole verifiche. Nei “corridoi”, investigatori qualificati, reduci da corsi anti-terrorismo, in grado di collegarsi instantaneamente al sistema video, attraverso gli smartphone». Previsto l’impiego di elicotteri di polizia e carabinieri, più l’utilizzo di droni, in caso di emergenza e nei momenti più intensi della manifestazione. Presidi nei terminali ferroviari e aeroportuali: al «Sandro Pertini» di Caselle, sale dedicate ai pellegrini. Chiude il prefetto: «Nessun allarmismo, solo prevenzione». E la Curia: «Non si tratta di misure eccezionali, sono le stesse già applicate da tempo in Vaticano e in altri luoghi di culto».
Repubblica 11.4.15
Tortura, l’ombra del medioevo tra noi
di Stefano Rodotà
QUANDO nel discorso pubblico compare la parola “tortura”, immediatamente si determinano tensioni forti perché essa sfida altre parole, dalle quali sentiamo di non poterci separare come “dignità umana” e “democrazia”. Non sempre è stato così, perché si erano costruite forme di legittimazione sociale della tortura o addirittura s’era sperato che si fosse riusciti a confinare in un altro tempo non tanto la parola, quanto le pratiche che essa evoca. Infatti, quando nel 2000 si scrisse l’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a qualcuno sembrò anacronistico l’aver ripetuto che “nessuno può essere sottoposto a tortura, né a trattamenti inumani o degradanti”. Non era forse l’ombra d’un passato del quale ci eravamo faticosamente liberati?
Poi sono venute le repliche impietose della cronaca e della storia. Le immagini delle violenze nella prigione irachena di Abu Ghraib hanno confermato la permanenza della tortura, le tecniche si sono aggiornate, la tortura viene “esternalizzata” in Paesi compiacenti dove gli Stati “democratici” trasferiscono persone alle quali estorcere informazioni con la violenza. La lotta al terrorismo produce nuove razionalizzazioni, si diffonde l’ossimoro “tortura umanitaria” per giustificarla con l’argomento della necessità di salvare vite umane. Ma così viene cancellata la frontiera tra chi combatte il terrore e chi lo pratica. Non è una affermazione astratta. Il waterbording, la tortura dell’acqua praticata dagli americani, viene utilizzata dall’Is.
Ora anche la torpida Italia viene in qualche modo risvegliata. Ma non da rivelazioni inattese. Dal ritorno di una realtà che conoscevamo in ogni terribile dettaglio e che era stata deliberatamente rimossa, con il Parlamento da anni adagiato in una pigra inciviltà. La sentenza, unanime, della Corte europea dei diritti dell’uomo descrive come violenza cieca e ingiustificabile quel che avvenne nella scuola Diaz, ed è prevedibile che lo stesso accada per le analoghe vicende della scuola di Bolzaneto. La tortura è sempre violenza. Si manifesta, quasi allo stato puro, con lo strazio dei corpi, dove si mescolano punizione e esempio, affermazione di potere assoluto e annullamento dell’umanità dell’altro. Ma la violenza può essere finalizzata a un obiettivo specifico: ottenere informazioni su un possibile attentato o sul luogo dove si trova un ostaggio, far confessare un delitto, spingere all’abiura. Tutto questo era stato minuziosamente codificato, nei testi medievali la violenza era regolata, il dolore somministrato in funzione dell’obiettivo da raggiungere. Ma questa tortura legalizzata, ricondotta ad un insieme di regole, è tornata negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, in particolare con la teorizzazione di un giurista già noto per la sua difesa dei diritti, Alan Dershowitz, che ha sostenuto la legittimità di una tortura regolata, limitata a forme e casi specifici, e per ciò sottratta all’arbitrio. Qui il confronto tra libertà e sicurezza giunge al suo limite estremo e sfida la necessità di rispettare corpo e dignità delle persone con l’argomento dell’eccezionalità e dell’impossibilità di rispettare le antiche regole delle guerre tra Stati quando la guerra si fa globale. Ma questo è argomento pericoloso. Proprio perché i conflitti hanno caratteristiche nuove, invocando regole anch’esse nuove, come la tortura legittima, non ci si avvede che in questo modo si creano le premesse perché ogni contendente possa esercitarla.
Ma il caso della Diaz, come tanti altri, ci parla di una tortura che non ha altro fine che se stessa, facendo delle persone il puro oggetto dell’aggressione altrui. Sappiamo che giudici italiani, ben prima della sentenza di Strasburgo, erano stati consapevoli della impossibilità di condannare chi l’aveva praticata in assenza di una norma che la prevedesse. Parole al vento. Di che cosa s’impicciavano questi giudici, non si rendevano conto d’invadere il terreno della politica? E così ogni pretesto è stato buono per allontanare dal Parlamento il dovere di dare attuazione alla Convenzione dell’Onu sulla tortura. Le voci ragionevoli venivano spente, e il lungo silenzio parlamentare alimentava il silenzio della società, quasi che questa avesse accettato uno stillicidio di singoli casi di tortura come un piccolo prezzo da pagare per non turbare rapporti di potere descritti come necessaria difesa delle forze di polizia contro ingiustificate aggressioni. Il capovolgimento logico e politico è evidente. Non si potrebbe partire dalle libertà e dai diritti delle persone, ma dalle esigenze prioritarie della polizia, quasi che non avessero come fine proprio la garanzia di quei diritti.
Una volta di più, solo un richiamo dall’esterno ci ha ricordato che esistono i diritti e che la loro tutela non può essere subordinata alla logica della sicurezza o a quella del mercato. Ora si spera che la discussione parlamentare sulla tortura non sia soltanto rapida, ma consapevole del fatto che siamo di fronte al principio di dignità e al diritto fondamentale all’inviolabilità del corpo. Dovremmo avere sempre presente l’ammonimento di Antonio Cassese, il giurista che con più rigore e coerenza ci ha aperto gli occhi sui guasti della tortura, ricordandoci che essa «costituisce l’aspetto patologico dell’assenza di democrazia» e «perciò alligna in tutti gli Stati illiberali e nelle pieghe autoritarie delle strutture statali democratiche».
Tortura, l’ombra del medioevo tra noi
di Stefano Rodotà
QUANDO nel discorso pubblico compare la parola “tortura”, immediatamente si determinano tensioni forti perché essa sfida altre parole, dalle quali sentiamo di non poterci separare come “dignità umana” e “democrazia”. Non sempre è stato così, perché si erano costruite forme di legittimazione sociale della tortura o addirittura s’era sperato che si fosse riusciti a confinare in un altro tempo non tanto la parola, quanto le pratiche che essa evoca. Infatti, quando nel 2000 si scrisse l’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a qualcuno sembrò anacronistico l’aver ripetuto che “nessuno può essere sottoposto a tortura, né a trattamenti inumani o degradanti”. Non era forse l’ombra d’un passato del quale ci eravamo faticosamente liberati?
Poi sono venute le repliche impietose della cronaca e della storia. Le immagini delle violenze nella prigione irachena di Abu Ghraib hanno confermato la permanenza della tortura, le tecniche si sono aggiornate, la tortura viene “esternalizzata” in Paesi compiacenti dove gli Stati “democratici” trasferiscono persone alle quali estorcere informazioni con la violenza. La lotta al terrorismo produce nuove razionalizzazioni, si diffonde l’ossimoro “tortura umanitaria” per giustificarla con l’argomento della necessità di salvare vite umane. Ma così viene cancellata la frontiera tra chi combatte il terrore e chi lo pratica. Non è una affermazione astratta. Il waterbording, la tortura dell’acqua praticata dagli americani, viene utilizzata dall’Is.
Ora anche la torpida Italia viene in qualche modo risvegliata. Ma non da rivelazioni inattese. Dal ritorno di una realtà che conoscevamo in ogni terribile dettaglio e che era stata deliberatamente rimossa, con il Parlamento da anni adagiato in una pigra inciviltà. La sentenza, unanime, della Corte europea dei diritti dell’uomo descrive come violenza cieca e ingiustificabile quel che avvenne nella scuola Diaz, ed è prevedibile che lo stesso accada per le analoghe vicende della scuola di Bolzaneto. La tortura è sempre violenza. Si manifesta, quasi allo stato puro, con lo strazio dei corpi, dove si mescolano punizione e esempio, affermazione di potere assoluto e annullamento dell’umanità dell’altro. Ma la violenza può essere finalizzata a un obiettivo specifico: ottenere informazioni su un possibile attentato o sul luogo dove si trova un ostaggio, far confessare un delitto, spingere all’abiura. Tutto questo era stato minuziosamente codificato, nei testi medievali la violenza era regolata, il dolore somministrato in funzione dell’obiettivo da raggiungere. Ma questa tortura legalizzata, ricondotta ad un insieme di regole, è tornata negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, in particolare con la teorizzazione di un giurista già noto per la sua difesa dei diritti, Alan Dershowitz, che ha sostenuto la legittimità di una tortura regolata, limitata a forme e casi specifici, e per ciò sottratta all’arbitrio. Qui il confronto tra libertà e sicurezza giunge al suo limite estremo e sfida la necessità di rispettare corpo e dignità delle persone con l’argomento dell’eccezionalità e dell’impossibilità di rispettare le antiche regole delle guerre tra Stati quando la guerra si fa globale. Ma questo è argomento pericoloso. Proprio perché i conflitti hanno caratteristiche nuove, invocando regole anch’esse nuove, come la tortura legittima, non ci si avvede che in questo modo si creano le premesse perché ogni contendente possa esercitarla.
Ma il caso della Diaz, come tanti altri, ci parla di una tortura che non ha altro fine che se stessa, facendo delle persone il puro oggetto dell’aggressione altrui. Sappiamo che giudici italiani, ben prima della sentenza di Strasburgo, erano stati consapevoli della impossibilità di condannare chi l’aveva praticata in assenza di una norma che la prevedesse. Parole al vento. Di che cosa s’impicciavano questi giudici, non si rendevano conto d’invadere il terreno della politica? E così ogni pretesto è stato buono per allontanare dal Parlamento il dovere di dare attuazione alla Convenzione dell’Onu sulla tortura. Le voci ragionevoli venivano spente, e il lungo silenzio parlamentare alimentava il silenzio della società, quasi che questa avesse accettato uno stillicidio di singoli casi di tortura come un piccolo prezzo da pagare per non turbare rapporti di potere descritti come necessaria difesa delle forze di polizia contro ingiustificate aggressioni. Il capovolgimento logico e politico è evidente. Non si potrebbe partire dalle libertà e dai diritti delle persone, ma dalle esigenze prioritarie della polizia, quasi che non avessero come fine proprio la garanzia di quei diritti.
Una volta di più, solo un richiamo dall’esterno ci ha ricordato che esistono i diritti e che la loro tutela non può essere subordinata alla logica della sicurezza o a quella del mercato. Ora si spera che la discussione parlamentare sulla tortura non sia soltanto rapida, ma consapevole del fatto che siamo di fronte al principio di dignità e al diritto fondamentale all’inviolabilità del corpo. Dovremmo avere sempre presente l’ammonimento di Antonio Cassese, il giurista che con più rigore e coerenza ci ha aperto gli occhi sui guasti della tortura, ricordandoci che essa «costituisce l’aspetto patologico dell’assenza di democrazia» e «perciò alligna in tutti gli Stati illiberali e nelle pieghe autoritarie delle strutture statali democratiche».
Corriere 11.4.15
Scritture civili e impegno delle donne. Due dibattiti
Il racconto della Resistenza nel 70° anniversario della Liberazione è al centro di due incontri organizzati dalla Fondazione Corriere in Sala Buzzati a Milano, per il ciclo «1945-2015. Storia e storie dell’Italia liberata». Sulle esperienze della Resistenza divenute scrittura, si discuterà martedì 14 aprile al dibattito «Resistenza vissuta e Resistenza raccontata». Intervengono Aldo Grasso e Gabriele Pedullà. Coordina Antonio Troiano, con letture di Leonardo De Colle. Sulla lotta delle donne, il 15 aprile sarà la volta del dibattito «Resistenza quotidiana: vita materiale e donne partigiane», con Fiorella Imprenti ed Emanuela Scarpellini. Coordina Davide Casati. Entrambi gli incontri in Sala Buzzati saranno alle ore 18 (via Balzan 3 angolo via S. Marco 21, ingresso libero solo con prenotazione, telefono 02.87.38.77.07) e saranno visibili in diretta su fondazionecorriere.it.
Scritture civili e impegno delle donne. Due dibattiti
Il racconto della Resistenza nel 70° anniversario della Liberazione è al centro di due incontri organizzati dalla Fondazione Corriere in Sala Buzzati a Milano, per il ciclo «1945-2015. Storia e storie dell’Italia liberata». Sulle esperienze della Resistenza divenute scrittura, si discuterà martedì 14 aprile al dibattito «Resistenza vissuta e Resistenza raccontata». Intervengono Aldo Grasso e Gabriele Pedullà. Coordina Antonio Troiano, con letture di Leonardo De Colle. Sulla lotta delle donne, il 15 aprile sarà la volta del dibattito «Resistenza quotidiana: vita materiale e donne partigiane», con Fiorella Imprenti ed Emanuela Scarpellini. Coordina Davide Casati. Entrambi gli incontri in Sala Buzzati saranno alle ore 18 (via Balzan 3 angolo via S. Marco 21, ingresso libero solo con prenotazione, telefono 02.87.38.77.07) e saranno visibili in diretta su fondazionecorriere.it.
Corriere 11.4.15
«Nella vita si deve scegliere. Ecco la lezione dei partigiani»
Carlo Smuraglia: nel periodo 1943-45 si risvegliarono energie fino allora inerti
Forze diverse riuscirono a collaborare e posero le basi della nostra Costituzione
di Antonio Carioti
Nato nel 1923, Carlo Smuraglia era studente universitario a Pisa quando i tedeschi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, assunsero il controllo dell’Italia centro-settentrionale. Si allontanò allora verso le Marche, sua terra d’origine. E qui più tardi gli arrivò la chiamata di leva della Repubblica sociale fascista, alla quale si sottrasse fuggendo in montagna. Ma non perché si rifiutasse di combattere: fece infatti la sua parte quando in seguito, giunta nella sua regione l’VIII armata britannica, non esitò ad arruolarsi nella divisione Cremona del Corpo italiano di liberazione, con cui proseguì la guerra lungo l’Adriatico fino a Venezia.
Oggi, dopo una lunga esperienza politica e parlamentare nel Pci e nei Democratici di sinistra, Smuraglia è presidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi). E va spesso nelle scuole per illustrare ai ragazzi il senso della Resistenza. Al «Corriere» lo spiega così: «Il valore dell’esperienza partigiana consistette soprattutto nella decisione di prendere in mano il proprio destino, di fronte alla situazione tragica in cui l’occupazione nazista aveva posto gli italiani. Si trattava di scegliere tra la sedicente repubblica di Mussolini, succube dei tedeschi, e la prospettiva di affrontare un nemico molto potente per costruire un futuro diverso. In genere i giovani che andarono in montagna non avevano preparazione politica, perché erano sempre vissuti sotto la dittatura, ma furono mossi da un sentimento istintivo di libertà, che li spinse ad agire per riscattare la patria, per condurla fuori dal baratro in cui l’aveva gettata il fascismo. L’insegnamento più importante della Resistenza è dunque che nella vita si può e si deve scegliere, anche quando tutto sembra perduto».
Però molti altri giovani presero la strada opposta, aderirono alla Rsi, perché pensavano che la scelta più onorevole fosse continuare a combattere insieme ai tedeschi: «Anche tra i partigiani c’erano militari che volevano continuare la guerra, ma contro i nazisti che ci avevano aggrediti e avevano catturato un gran numero di soldati italiani, senza riconoscere loro la qualifica di prigionieri di guerra, per deportarli in Germania, metterli al lavoro e sfruttarli in condizioni schiavistiche. Quella per la Rsi fu una scelta sbagliata, motivata da ideali illusori o dal condizionamento degli anni passati sotto la dittatura, quando il fascismo appariva alla grande massa degli italiani come l’unico orizzonte possibile. Ma al di là delle spiegazioni, non si possono dimenticare gli atti efferati di cui spesso si macchiarono i miliziani di Salò».
Però atrocità vi furono anche da parte partigiana, come si legge nei libri pubblicati di recente da Giampaolo Pansa. «La guerra è sempre violenta, nella vicenda di ogni movimento armato di liberazione si trovano luci e ombre. Ma in questo campo ci sono state notevoli esagerazioni, alcuni episodi sono stati ingigantiti. E comunque non sono paragonabili all’uso sistematico della tortura e della rappresaglia da parte fascista, con i cadaveri delle persone uccise che venivano lasciati esposti a lungo per incutere terrore. Negli anni Cinquanta vennero intentati numerosi processi contro ex partigiani per reati comuni e io, come avvocato, mi sono spesso trovato a difendere gli imputati, che in molti casi venivano assolti perché le accuse si rivelavano infondate».
Come risponde a chi sostiene che la Resistenza coinvolse una minoranza di italiani e soltanto al Centro-Nord? «È una visione riduttiva. Al Sud, a parte le quattro giornate di Napoli, si verificarono diversi casi di opposizione alle prepotenze dei tedeschi, che reagirono con estrema ferocia. E poi la Resistenza non fu soltanto lotta armata: comprende anche gli scioperi delle fabbriche, il soccorso fornito dai contadini ai partigiani, ai fuggiaschi e ai perseguitati, il rifiuto di aderire alla Rsi da parte dei militari italiani internati in Germania. Importantissimo fu il contributo delle donne, che a volte combattevano, ma spesso portavano messaggi e rifornimenti, o curavano i feriti e aiutavano prigionieri e fuggiaschi. E non dimentichiamo quanti sacerdoti si opposero alle rappresaglie o aiutarono i partigiani, pagando a volte con la vita. È vero che la Resistenza non conquistò tutto il popolo italiano, ma considerarla opera di una ristretta minoranza mi sembra un grave errore».
Veniamo alla letteratura. «I romanzi hanno avuto un ruolo fondamentale nel fare luce sulle molteplici sfaccettature dell’esperienza resistenziale. Apprezzo quindi l’iniziativa assunta dal “Corriere della Sera” di rimettere in circolazione una scelta vasta e interessante di opere che sono diventate una sorta di classici. Penso a Beppe Fenoglio, a Italo Calvino, a Giorgio Bocca. Sono autori che ci fanno comprendere come la lotta partigiana abbia determinato un incontro di mondi diversi intorno a un obiettivo comune. Se poi consideriamo opere più recenti, secondo me spiccano tra tutti i libri di Marisa Ombra, che offrono un originale punto di vista femminile. La grande forza della Resistenza è consistita appunto nel coagulare energie della più diversa provenienza, che spesso fino ad allora, nella storia d’Italia, erano rimaste inerti».
Ben presto però, dopo la conclusione vittoriosa della guerra, l’unità delle forze antifasciste si ruppe. «È vero, ma ciò non impedì ai partiti, che si erano divisi sul governo, di proseguire nella collaborazione in sede costituente. Fu un piccolo miracolo laico: forze che ideologicamente erano molto distanti fecero uno sforzo costruttivo nella ricerca non di un semplice compromesso, ma di un denominatore comune su cui fondare la convivenza civile e il gioco democratico. Non credo che sarebbe stato possibile, se una grande capacità di comprensione reciproca non fosse maturata precedentemente, nel fuoco della lotta, durante la Resistenza».
«Nella vita si deve scegliere. Ecco la lezione dei partigiani»
Carlo Smuraglia: nel periodo 1943-45 si risvegliarono energie fino allora inerti
Forze diverse riuscirono a collaborare e posero le basi della nostra Costituzione
di Antonio Carioti
Nato nel 1923, Carlo Smuraglia era studente universitario a Pisa quando i tedeschi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, assunsero il controllo dell’Italia centro-settentrionale. Si allontanò allora verso le Marche, sua terra d’origine. E qui più tardi gli arrivò la chiamata di leva della Repubblica sociale fascista, alla quale si sottrasse fuggendo in montagna. Ma non perché si rifiutasse di combattere: fece infatti la sua parte quando in seguito, giunta nella sua regione l’VIII armata britannica, non esitò ad arruolarsi nella divisione Cremona del Corpo italiano di liberazione, con cui proseguì la guerra lungo l’Adriatico fino a Venezia.
Oggi, dopo una lunga esperienza politica e parlamentare nel Pci e nei Democratici di sinistra, Smuraglia è presidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi). E va spesso nelle scuole per illustrare ai ragazzi il senso della Resistenza. Al «Corriere» lo spiega così: «Il valore dell’esperienza partigiana consistette soprattutto nella decisione di prendere in mano il proprio destino, di fronte alla situazione tragica in cui l’occupazione nazista aveva posto gli italiani. Si trattava di scegliere tra la sedicente repubblica di Mussolini, succube dei tedeschi, e la prospettiva di affrontare un nemico molto potente per costruire un futuro diverso. In genere i giovani che andarono in montagna non avevano preparazione politica, perché erano sempre vissuti sotto la dittatura, ma furono mossi da un sentimento istintivo di libertà, che li spinse ad agire per riscattare la patria, per condurla fuori dal baratro in cui l’aveva gettata il fascismo. L’insegnamento più importante della Resistenza è dunque che nella vita si può e si deve scegliere, anche quando tutto sembra perduto».
Però molti altri giovani presero la strada opposta, aderirono alla Rsi, perché pensavano che la scelta più onorevole fosse continuare a combattere insieme ai tedeschi: «Anche tra i partigiani c’erano militari che volevano continuare la guerra, ma contro i nazisti che ci avevano aggrediti e avevano catturato un gran numero di soldati italiani, senza riconoscere loro la qualifica di prigionieri di guerra, per deportarli in Germania, metterli al lavoro e sfruttarli in condizioni schiavistiche. Quella per la Rsi fu una scelta sbagliata, motivata da ideali illusori o dal condizionamento degli anni passati sotto la dittatura, quando il fascismo appariva alla grande massa degli italiani come l’unico orizzonte possibile. Ma al di là delle spiegazioni, non si possono dimenticare gli atti efferati di cui spesso si macchiarono i miliziani di Salò».
Però atrocità vi furono anche da parte partigiana, come si legge nei libri pubblicati di recente da Giampaolo Pansa. «La guerra è sempre violenta, nella vicenda di ogni movimento armato di liberazione si trovano luci e ombre. Ma in questo campo ci sono state notevoli esagerazioni, alcuni episodi sono stati ingigantiti. E comunque non sono paragonabili all’uso sistematico della tortura e della rappresaglia da parte fascista, con i cadaveri delle persone uccise che venivano lasciati esposti a lungo per incutere terrore. Negli anni Cinquanta vennero intentati numerosi processi contro ex partigiani per reati comuni e io, come avvocato, mi sono spesso trovato a difendere gli imputati, che in molti casi venivano assolti perché le accuse si rivelavano infondate».
Come risponde a chi sostiene che la Resistenza coinvolse una minoranza di italiani e soltanto al Centro-Nord? «È una visione riduttiva. Al Sud, a parte le quattro giornate di Napoli, si verificarono diversi casi di opposizione alle prepotenze dei tedeschi, che reagirono con estrema ferocia. E poi la Resistenza non fu soltanto lotta armata: comprende anche gli scioperi delle fabbriche, il soccorso fornito dai contadini ai partigiani, ai fuggiaschi e ai perseguitati, il rifiuto di aderire alla Rsi da parte dei militari italiani internati in Germania. Importantissimo fu il contributo delle donne, che a volte combattevano, ma spesso portavano messaggi e rifornimenti, o curavano i feriti e aiutavano prigionieri e fuggiaschi. E non dimentichiamo quanti sacerdoti si opposero alle rappresaglie o aiutarono i partigiani, pagando a volte con la vita. È vero che la Resistenza non conquistò tutto il popolo italiano, ma considerarla opera di una ristretta minoranza mi sembra un grave errore».
Veniamo alla letteratura. «I romanzi hanno avuto un ruolo fondamentale nel fare luce sulle molteplici sfaccettature dell’esperienza resistenziale. Apprezzo quindi l’iniziativa assunta dal “Corriere della Sera” di rimettere in circolazione una scelta vasta e interessante di opere che sono diventate una sorta di classici. Penso a Beppe Fenoglio, a Italo Calvino, a Giorgio Bocca. Sono autori che ci fanno comprendere come la lotta partigiana abbia determinato un incontro di mondi diversi intorno a un obiettivo comune. Se poi consideriamo opere più recenti, secondo me spiccano tra tutti i libri di Marisa Ombra, che offrono un originale punto di vista femminile. La grande forza della Resistenza è consistita appunto nel coagulare energie della più diversa provenienza, che spesso fino ad allora, nella storia d’Italia, erano rimaste inerti».
Ben presto però, dopo la conclusione vittoriosa della guerra, l’unità delle forze antifasciste si ruppe. «È vero, ma ciò non impedì ai partiti, che si erano divisi sul governo, di proseguire nella collaborazione in sede costituente. Fu un piccolo miracolo laico: forze che ideologicamente erano molto distanti fecero uno sforzo costruttivo nella ricerca non di un semplice compromesso, ma di un denominatore comune su cui fondare la convivenza civile e il gioco democratico. Non credo che sarebbe stato possibile, se una grande capacità di comprensione reciproca non fosse maturata precedentemente, nel fuoco della lotta, durante la Resistenza».
Corriere 11.4.15
Un Paese che combatte per la libertà e si racconta
Le passioni e i dubbi degli uomini che lottarono in quei tempi. E poi le coscienze, la rabbia e il desiderio di riprendersi la dignità e la libertà anche nel sacrificio e nel sangue. E intanto, la vita quotidiana che preme, con la guerra, la fame, i rastrellamenti, i bombardamenti. Nel settantesimo anniversario della Liberazione, che ricorre quest’anno, il «Corriere della Sera» propone una nuova iniziativa editoriale che va in edicola a partire da oggi: la collana Biblioteca della Resistenza, a cura di Aldo Cazzullo, una collezione di venticinque volumi, tra romanzi e opere memorialistiche, dedicati al periodo in cui nacque e si organizzò la Resistenza, tra il settembre 1943 e l’aprile del 1945. Oggi in edicola il primo volume, Una questione privata di Beppe Fenoglio, al costo di e 1,90 più il prezzo del quotidiano, e il 18 aprile il secondo volume La casa in collina di Cesare Pavese a e 5,90 (più il costo del quotidiano). Poi, dalla terza uscita ( Uomini e no di Elio Vittorini, in edicola proprio il 25 aprile) i libri costeranno e 7,90 ciascuno (più il prezzo del «Corriere»).
(i.b.)
Un Paese che combatte per la libertà e si racconta
Le passioni e i dubbi degli uomini che lottarono in quei tempi. E poi le coscienze, la rabbia e il desiderio di riprendersi la dignità e la libertà anche nel sacrificio e nel sangue. E intanto, la vita quotidiana che preme, con la guerra, la fame, i rastrellamenti, i bombardamenti. Nel settantesimo anniversario della Liberazione, che ricorre quest’anno, il «Corriere della Sera» propone una nuova iniziativa editoriale che va in edicola a partire da oggi: la collana Biblioteca della Resistenza, a cura di Aldo Cazzullo, una collezione di venticinque volumi, tra romanzi e opere memorialistiche, dedicati al periodo in cui nacque e si organizzò la Resistenza, tra il settembre 1943 e l’aprile del 1945. Oggi in edicola il primo volume, Una questione privata di Beppe Fenoglio, al costo di e 1,90 più il prezzo del quotidiano, e il 18 aprile il secondo volume La casa in collina di Cesare Pavese a e 5,90 (più il costo del quotidiano). Poi, dalla terza uscita ( Uomini e no di Elio Vittorini, in edicola proprio il 25 aprile) i libri costeranno e 7,90 ciascuno (più il prezzo del «Corriere»).
(i.b.)
Corriere 11.4.15
La Resistenza di chi c’era
Romanzi e memorie ci restituiscono il senso genuino di quella stagione
di Aldo Cazzullo
Beppe Fenoglio racconta che i partigiani fucilavano i prigionieri fascisti. Italo Calvino aveva ben presente quanto fosse labile il confine tra i due schieramenti in lotta, visto che fa dire a un suo personaggio, il partigiano Kim: «Basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trova dall’altra parte». E Cesare Pavese, commosso di fronte ai cadaveri in camicia nera, conclude che «ogni guerra è una guerra civile». Non occorreva attendere le discussioni storiografiche e le polemiche politiche che ogni 25 aprile riaccende, per avere tutti gli strumenti per capire e giudicare quel che è accaduto settant’anni fa, in questi stessi giorni. La letteratura — più o meno grande, datata o attualissima, di valore documentale o universale — consentiva già poco tempo dopo la Liberazione di conoscere le pagine nere della Resistenza, di provare pietà per tutti i caduti di entrambe le parti, e di avere ben chiaro quale fosse la parte giusta e quale la parte sbagliata.
Non sempre gli uomini sono all’altezza degli scrittori. Cesare Pavese era stato arrestato e condannato al confino dal fascismo (nel frattempo la sua donna l’aveva lasciato per un altro; quando tornò a Torino, i suoi amici non riuscivano a mettersi d’accordo su chi dovesse dirglielo; si offrì Norberto Bobbio e andò a prenderlo alla stazione. Pavese rimase ubriaco per giorni). Eppure negli anni di guerra tenne un diario (rivelato nel 1990 da Lorenzo Mondo, allora vicedirettore della Stampa) pieno di ammirazione per le vittorie tedesche, in cui si annotava con rammarico che noi italiani «non sappiamo essere atroci». E alla guerra di Liberazione preferirà il nascondiglio nella «casa in collina».
Calvino invece entra a vent’anni nella divisione Garibaldi intitolata a Felice Cascione, «U Megu», il Medico in dialetto ligure, il capo partigiano autore di Fischia il vento , caduto in battaglia per salvare i compagni. Calvino sceglie di chiamarsi come la città cubana in cui è nato, Santiago. Scriverà: «Non fu vano il tuo sangue, Cascione, primo, più generoso e più valoroso di tutti i partigiani. Il tuo nome è ora leggendario, molti furono quelli che infiammati dal tuo esempio s’arruolarono sotto la tua bandiera». Tra loro ci fu anche il fratello di Italo, Floriano Calvino, che aveva solo 17 anni.
Anche Fenoglio è partigiano sulle sue colline, le Langhe. Fu lui, il figlio del macellaio di Alba, a scrivere forse le pagine migliori della nostra letteratura sulla Resistenza. Pagine che hanno a volte la forza dell’epica: «E nel momento in cui partì, si sentì investito, in nome dell’autentico popolo d’Italia, a opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante era la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. E anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra». Ma anche pagine cariche di autoironia, in cui la lotta di Liberazione viene demitizzata, come questa: «Venivamo ciarlando, proprio da incoscienti, e sulla collina dirimpetto sbuca brigata nera, tanta, spingendosi avanti due buoi e due dei nostri tutti insanguinati. Il primo che ci ha visti s’avventa spallando il fucile e urlando arrendetevi, banditi. Io gli ho fatto la prima pernacchia della mia vita. E m’è riuscita bene, come ci riuscì bene la conseguente corsetta».
Perché ripubblicare oggi la letteratura nata da una guerra che non si deve esitare a definire «civile» (anche se i combattenti non possono essere messi sullo stesso piano)? Intanto, perché i giovani molto spesso non la conoscono. Né la letteratura, né la storia. Sono cresciuti in un clima in cui gli uomini e le donne della Resistenza — che è un fenomeno molto più vasto del partigianato — venivano presentati come carnefici sanguinari, e i «ragazzi di Salò» come fragili vittime. I nostri giovani hanno forse sentito qualcosa delle pagine nere della Resistenza, che pure ci furono e vanno raccontate; ma sanno poco o nulla di quanto è accaduto a Boves, all’Hotel Meina sul Lago Maggiore, a Sant’Anna di Stazzema, a Marzabotto, alla Benedicta, a Gubbio, a Civitella Val di Chiana; sanno poco o nulla dei massacri nazifascisti. Non conoscono il destino terribile cui andarono incontro i torturati, gli ebrei, i perseguitati, gli internati in Germania, i sacerdoti, i carabinieri (su tonache e divise i nazifascisti si accanirono in modo particolare).
Ripubblicare e rileggere (o leggere per la prima volta) i classici della letteratura nata della Resistenza ha senso anche perché i testimoni diretti se ne stanno andando, uno a uno. Migliaia di partigiani sono morti sul campo. Quasi tutti non ci sono più. Anche la memoria dei tanti — appunto militari, donne, preti, ebrei, suore, bersaglieri, alpini, internati in Germania — che nelle varie forme dissero no al nazifascismo comincia a vacillare. È una memoria preziosa, che va salvata e tramandata alle nuove generazioni, perché conoscano il prezzo di sangue pagato per la loro libertà. Alcune opere sono frutto di fantasia. Altre sono la narrazione di fatti veramente accaduti. Altre ancora sono in bilico tra la ricostruzione storica e la creazione artistica. Nessuna va presa come verità assoluta, come dogma ideologico, come manifesto in cui ognuno si possa automaticamente riconoscere, cui debba pedissequamente aderire. Tutte vanno lette e conservate perché raccontano una storia che ci riguarda tutti: sia coloro che l’hanno fatta, sia coloro che stavano dall’altra parte (e spesso credettero in buona fede di servire l’Italia), sia coloro che non c’erano, per motivi anagrafici o per scelta.
Un ruolo particolare è quello delle donne, protagoniste della Resistenza, e delle scrittrici, che l’hanno raccontata. Accanto ai classici, come La storia di Elsa Morante e L’Agnese va a morire di Renata Viganò, la collana propone anche un libro meno noto, il diario di Ada Gobetti, la vedova di Piero. È una serie di ritratti di personaggi della lotta di Liberazione. Ma è anche una riflessione profonda sui rischi che attendevano l’Italia, sul pericolo di non essere all’altezza dell’energia e della speranza di quei mesi terribili e grandiosi.
Quel che scrive Ada Gobetti settant’anni fa, la notte dopo la liberazione di Torino — una notte in cui lei non riuscì a dormire — è ancora valido per noi, oggi: «Si trattava di non lasciar che si spegnesse nell’aria morta d’una normalità solo apparentemente riconquistata, quella piccola fiamma d’umanità solidale e fraterna che avevamo visto nascere il 10 settembre e che per venti mesi ci aveva sostenuti e guidati. Sapevo che — anche caduta, con l’esaltazione della vittoria, la meravigliosa identità che in quei giorni aveva unito quasi tutto il nostro popolo — saremmo stati in molti a combattere questa dura battaglia: gli amici, i compagni di ieri, sarebbero stati anche quelli di domani. Ma sapevo anche che la lotta non sarebbe stata un unico sforzo, non avrebbe avuto più, come prima, un suo unico immutabile volto; ma si sarebbe frantumata in mille forme, in mille aspetti diversi; e ognuno avrebbe dovuto faticosamente, tormentosamente, attraverso diverse esperienze, assolvendo compiti diversi, umili o importanti perseguir la propria luce e la propria via. Tutto questo mi faceva paura. E a lungo, in quella notte — che avrebbe dovuto essere di distensione e di riposo — mi tormentai, chiedendomi se avrei saputo esser degna di questo avvenire, ricco di difficoltà e di promesse, che mi accingevo ad affrontare con trepidante umiltà» .
La Resistenza di chi c’era
Romanzi e memorie ci restituiscono il senso genuino di quella stagione
di Aldo Cazzullo
Beppe Fenoglio racconta che i partigiani fucilavano i prigionieri fascisti. Italo Calvino aveva ben presente quanto fosse labile il confine tra i due schieramenti in lotta, visto che fa dire a un suo personaggio, il partigiano Kim: «Basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trova dall’altra parte». E Cesare Pavese, commosso di fronte ai cadaveri in camicia nera, conclude che «ogni guerra è una guerra civile». Non occorreva attendere le discussioni storiografiche e le polemiche politiche che ogni 25 aprile riaccende, per avere tutti gli strumenti per capire e giudicare quel che è accaduto settant’anni fa, in questi stessi giorni. La letteratura — più o meno grande, datata o attualissima, di valore documentale o universale — consentiva già poco tempo dopo la Liberazione di conoscere le pagine nere della Resistenza, di provare pietà per tutti i caduti di entrambe le parti, e di avere ben chiaro quale fosse la parte giusta e quale la parte sbagliata.
Non sempre gli uomini sono all’altezza degli scrittori. Cesare Pavese era stato arrestato e condannato al confino dal fascismo (nel frattempo la sua donna l’aveva lasciato per un altro; quando tornò a Torino, i suoi amici non riuscivano a mettersi d’accordo su chi dovesse dirglielo; si offrì Norberto Bobbio e andò a prenderlo alla stazione. Pavese rimase ubriaco per giorni). Eppure negli anni di guerra tenne un diario (rivelato nel 1990 da Lorenzo Mondo, allora vicedirettore della Stampa) pieno di ammirazione per le vittorie tedesche, in cui si annotava con rammarico che noi italiani «non sappiamo essere atroci». E alla guerra di Liberazione preferirà il nascondiglio nella «casa in collina».
Calvino invece entra a vent’anni nella divisione Garibaldi intitolata a Felice Cascione, «U Megu», il Medico in dialetto ligure, il capo partigiano autore di Fischia il vento , caduto in battaglia per salvare i compagni. Calvino sceglie di chiamarsi come la città cubana in cui è nato, Santiago. Scriverà: «Non fu vano il tuo sangue, Cascione, primo, più generoso e più valoroso di tutti i partigiani. Il tuo nome è ora leggendario, molti furono quelli che infiammati dal tuo esempio s’arruolarono sotto la tua bandiera». Tra loro ci fu anche il fratello di Italo, Floriano Calvino, che aveva solo 17 anni.
Anche Fenoglio è partigiano sulle sue colline, le Langhe. Fu lui, il figlio del macellaio di Alba, a scrivere forse le pagine migliori della nostra letteratura sulla Resistenza. Pagine che hanno a volte la forza dell’epica: «E nel momento in cui partì, si sentì investito, in nome dell’autentico popolo d’Italia, a opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante era la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. E anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra». Ma anche pagine cariche di autoironia, in cui la lotta di Liberazione viene demitizzata, come questa: «Venivamo ciarlando, proprio da incoscienti, e sulla collina dirimpetto sbuca brigata nera, tanta, spingendosi avanti due buoi e due dei nostri tutti insanguinati. Il primo che ci ha visti s’avventa spallando il fucile e urlando arrendetevi, banditi. Io gli ho fatto la prima pernacchia della mia vita. E m’è riuscita bene, come ci riuscì bene la conseguente corsetta».
Perché ripubblicare oggi la letteratura nata da una guerra che non si deve esitare a definire «civile» (anche se i combattenti non possono essere messi sullo stesso piano)? Intanto, perché i giovani molto spesso non la conoscono. Né la letteratura, né la storia. Sono cresciuti in un clima in cui gli uomini e le donne della Resistenza — che è un fenomeno molto più vasto del partigianato — venivano presentati come carnefici sanguinari, e i «ragazzi di Salò» come fragili vittime. I nostri giovani hanno forse sentito qualcosa delle pagine nere della Resistenza, che pure ci furono e vanno raccontate; ma sanno poco o nulla di quanto è accaduto a Boves, all’Hotel Meina sul Lago Maggiore, a Sant’Anna di Stazzema, a Marzabotto, alla Benedicta, a Gubbio, a Civitella Val di Chiana; sanno poco o nulla dei massacri nazifascisti. Non conoscono il destino terribile cui andarono incontro i torturati, gli ebrei, i perseguitati, gli internati in Germania, i sacerdoti, i carabinieri (su tonache e divise i nazifascisti si accanirono in modo particolare).
Ripubblicare e rileggere (o leggere per la prima volta) i classici della letteratura nata della Resistenza ha senso anche perché i testimoni diretti se ne stanno andando, uno a uno. Migliaia di partigiani sono morti sul campo. Quasi tutti non ci sono più. Anche la memoria dei tanti — appunto militari, donne, preti, ebrei, suore, bersaglieri, alpini, internati in Germania — che nelle varie forme dissero no al nazifascismo comincia a vacillare. È una memoria preziosa, che va salvata e tramandata alle nuove generazioni, perché conoscano il prezzo di sangue pagato per la loro libertà. Alcune opere sono frutto di fantasia. Altre sono la narrazione di fatti veramente accaduti. Altre ancora sono in bilico tra la ricostruzione storica e la creazione artistica. Nessuna va presa come verità assoluta, come dogma ideologico, come manifesto in cui ognuno si possa automaticamente riconoscere, cui debba pedissequamente aderire. Tutte vanno lette e conservate perché raccontano una storia che ci riguarda tutti: sia coloro che l’hanno fatta, sia coloro che stavano dall’altra parte (e spesso credettero in buona fede di servire l’Italia), sia coloro che non c’erano, per motivi anagrafici o per scelta.
Un ruolo particolare è quello delle donne, protagoniste della Resistenza, e delle scrittrici, che l’hanno raccontata. Accanto ai classici, come La storia di Elsa Morante e L’Agnese va a morire di Renata Viganò, la collana propone anche un libro meno noto, il diario di Ada Gobetti, la vedova di Piero. È una serie di ritratti di personaggi della lotta di Liberazione. Ma è anche una riflessione profonda sui rischi che attendevano l’Italia, sul pericolo di non essere all’altezza dell’energia e della speranza di quei mesi terribili e grandiosi.
Quel che scrive Ada Gobetti settant’anni fa, la notte dopo la liberazione di Torino — una notte in cui lei non riuscì a dormire — è ancora valido per noi, oggi: «Si trattava di non lasciar che si spegnesse nell’aria morta d’una normalità solo apparentemente riconquistata, quella piccola fiamma d’umanità solidale e fraterna che avevamo visto nascere il 10 settembre e che per venti mesi ci aveva sostenuti e guidati. Sapevo che — anche caduta, con l’esaltazione della vittoria, la meravigliosa identità che in quei giorni aveva unito quasi tutto il nostro popolo — saremmo stati in molti a combattere questa dura battaglia: gli amici, i compagni di ieri, sarebbero stati anche quelli di domani. Ma sapevo anche che la lotta non sarebbe stata un unico sforzo, non avrebbe avuto più, come prima, un suo unico immutabile volto; ma si sarebbe frantumata in mille forme, in mille aspetti diversi; e ognuno avrebbe dovuto faticosamente, tormentosamente, attraverso diverse esperienze, assolvendo compiti diversi, umili o importanti perseguir la propria luce e la propria via. Tutto questo mi faceva paura. E a lungo, in quella notte — che avrebbe dovuto essere di distensione e di riposo — mi tormentai, chiedendomi se avrei saputo esser degna di questo avvenire, ricco di difficoltà e di promesse, che mi accingevo ad affrontare con trepidante umiltà» .
venerdì 10 aprile 2015
Corriere 10.4.15
Raccontare la Resistenza, un impegno di libertà
Il riscatto di una nazione, ricordato nel settantesimo anniversario della Liberazione, che ricorre quest’anno. Da domani 11 aprile sarà in edicola la nuova iniziativa editoriale del «Corriere della Sera», la collana Biblioteca della Resistenza a cura di Aldo Cazzullo. Venticinque tra romanzi e opere memorialistiche dedicati a quel momento decisivo, tra il settembre 1943 e l’aprile del 1945, in cui non solo si organizzò e sorse la Resistenza al fascismo, ma nacque anche lo spirito dell’Italia postbellica. La prima uscita, Una questione privata di Beppe Fenoglio, sarà in edicola domani al costo di e 1,90 più il prezzo del quotidiano. Il secondo volume, il 18 aprile, sarà La casa in collina di Cesare Pavese e sarà venduto a e 5,90 (più il costo del quotidiano). Dalla terza uscita, con Uomini e no di Elio Vittorini — che sarà in edicola proprio il 25 aprile — i libri della Biblioteca della Resistenza costeranno
e 7,90 ciascuno (più il prezzo del «Corriere»). Si tratta di alcuni dei testi essenziali della nostra letteratura e memorialistica, imprescindibili per comprendere il Paese di ieri e di oggi: mentre gli eventi della grande storia scorrono sullo sfondo, nei romanzi si incontra lo spirito di quegli uomini e di quelle donne. I romanzi attraversano tutta la Penisola, nei diversi territori, sulle Alpi e nelle città, nelle campagne e in montagna: le Langhe di Fenoglio, la Torino di Pavese, la Milano narrata in Uomini e no di Vittorini e così via mostrano squarci di vita quotidiana e azioni di lotta, conquiste e tragedie, tra grandi passioni, senso della storia, dubbi e sentimenti personali. Una Resistenza «raccontata» da alcuni dei nostri più grandi scrittori.
Raccontare la Resistenza, un impegno di libertà
Il riscatto di una nazione, ricordato nel settantesimo anniversario della Liberazione, che ricorre quest’anno. Da domani 11 aprile sarà in edicola la nuova iniziativa editoriale del «Corriere della Sera», la collana Biblioteca della Resistenza a cura di Aldo Cazzullo. Venticinque tra romanzi e opere memorialistiche dedicati a quel momento decisivo, tra il settembre 1943 e l’aprile del 1945, in cui non solo si organizzò e sorse la Resistenza al fascismo, ma nacque anche lo spirito dell’Italia postbellica. La prima uscita, Una questione privata di Beppe Fenoglio, sarà in edicola domani al costo di e 1,90 più il prezzo del quotidiano. Il secondo volume, il 18 aprile, sarà La casa in collina di Cesare Pavese e sarà venduto a e 5,90 (più il costo del quotidiano). Dalla terza uscita, con Uomini e no di Elio Vittorini — che sarà in edicola proprio il 25 aprile — i libri della Biblioteca della Resistenza costeranno
e 7,90 ciascuno (più il prezzo del «Corriere»). Si tratta di alcuni dei testi essenziali della nostra letteratura e memorialistica, imprescindibili per comprendere il Paese di ieri e di oggi: mentre gli eventi della grande storia scorrono sullo sfondo, nei romanzi si incontra lo spirito di quegli uomini e di quelle donne. I romanzi attraversano tutta la Penisola, nei diversi territori, sulle Alpi e nelle città, nelle campagne e in montagna: le Langhe di Fenoglio, la Torino di Pavese, la Milano narrata in Uomini e no di Vittorini e così via mostrano squarci di vita quotidiana e azioni di lotta, conquiste e tragedie, tra grandi passioni, senso della storia, dubbi e sentimenti personali. Una Resistenza «raccontata» da alcuni dei nostri più grandi scrittori.
La Stampa 10.4.15
Dondero, la guerra all’ingiustizia del partigiano con l’obiettivo
Incontro con il grande fotoreporter. “Non è che a me le persone interessino per fotografarle ma perché esistono”
“La Resistenza? La via degli onesti”. “Il futuro? Sono ottimista”
di Angelo D’Orsi
Vado a trovarlo, Mario Dondero, dopo un paio di settimane di «ricerca». È a letto, malato dallo scorso dicembre. Sono reduce dalla visita alla bellissima esposizione che gli è stata finalmente dedicata, a Roma, alle Terme di Diocleziano, curata da Laura Strappa, compagna di Mario, e Nunzio Gustozzi. Una mostra fortunatamente prorogata al 26 aprile, e invito chi ne abbia la possibilità, a visitarla. Ebbene, proprio gli spazi delle Terme, con le istantanee di Dondero, e le esaurienti didascalie, il video della sua intervista, il ricco catalogo (edito da Electa), strappano la sua personalità al figurino del «fotografo» e anche a quello più complesso e ricco del «fotoreporter», e lo consegnano piuttosto al ruolo dell’intellettuale in senso pieno, e alto.
Militante
Proprio di questo vorrei discorrere con Mario, ossia della percezione che, da intellettuale militante, armato della piccola fedele Leica, ma anche di taccuino e penna, ha della realtà politica, con particolare riferimento ai 70 anni della Liberazione. Ma mi si chiede di essere breve, nella mia visita, per non stancarlo. Rinuncio al proposito di intervistarlo: ma, con voce quasi impercettibile, mi dice, no, parliamo pure.
Ed è lui a prendere la parola: «Bella cravatta», esordisce, confermando quella incredibile attenzione ai dettagli che emerge da ogni suo scatto. Tento un pistolotto sull’anniversario resistenziale, denunciando il revisionismo diventato ormai senso comune, e butto là: «Che cosa vuol dire essere partigiano?», e lo chiedo a lui che lo è stato davvero, in Val d’Ossola, a soli sedici anni. Mario è del 1928 e ha condotto un’esistenza errabonda, in ogni plaga del mondo. Ha incontrato fior fiore di intellettuali, nella Rive Gauche, in quella Parigi che è stata la sua patria d’elezione, ma ha conosciuto da vicino anche la rivolta di Budapest e le tante guerre del «dopoguerra», dal Vietnam all’Afghanistan.
L’esempio di Capa
Il suo idolo è Robert Capa, e la Guerra di Spagna è la presenza più forte nell’immaginario di chi non ha potuto parteciparvi, per mere ragioni anagrafiche. Avesse avuto l’età giusta, Mario sarebbe stato senz’altro il Capa italiano. Dondero ha collaborato sempre alla stampa di sinistra, dall’Avanti! all’Unità, dall’Ora di Palermo al mitico Paese Sera di Roma, e a grandi riviste internazionali, specie francesi (Paris Match, Vu…). Non aspetta neppure la fine della domanda, e parte: «Essere partigiano era l’atteggiamento più naturale… che un cittadino onesto dovesse avere».
Penso: il solito eccesso di understatement di quest’uomo che nella sua carriera di testimone con l’occhio fotografico ha attraversato guerre, conflitti sociali, avventure d’ogni genere, sempre con uno sguardo all’insegna precisamente dell’humanitas, come ha notato un suo amico ed estimatore, Massimo Raffaeli. Aggiungerei che il fotografo Dondero non va in caccia di immagini, ma è come se le situazioni, le persone, semplici o famose, aspettassero il suo obiettivo per essere trasformate in icone del loro tempo. E, a percorrere le 250 foto della mostra romana, ti appaiono ulteriormente modificate. Non testimoniano più semplicemente un istante, ma diventano, nella loro grazia, nella loro pulizia, o nella loro forza drammatica, ciascuna un capitolo dell’eterno presente, come dire, una rappresentazione della condizione umana.
Dondero appare preoccupato non di realizzare belle foto, ma di far parlare, attraverso di esse, belle persone. Anzi, potrei dire che per lui, la fotografia è la ricerca delle belle persone, anche in quelle che non lo sembrano, anche nelle situazioni più drammatiche: come egli stesso dichiarò una volta: «Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono». Una dichiarazione di poetica che è un messaggio: umanistico, ancor prima che civile o politico.
Fiducia nei giovani
Il fondo ottimistico del suo animo me lo confermano le poche frasi che riesce a scandire, tra le pause, dominando la sofferenza serenamente, spesso con un sorriso appena percettibile. I partigiani, dunque. Ci saranno stati certo comportamenti scorretti, fra loro, anche, ammette, e parla per esperienza, ma… e lascia intendere che furono casi sporadici. Ma che cosa vuol dire essere partigiano? Non esita nella risposta: «Essere dalla parte della giustizia». E aggiunge: «Dalla parte degli onesti». Gli cito il Gramsci che odia gli indifferenti del 1917, atteggiamento al quale il militante socialista contrappone orgogliosamente il suo essere «partigiano». Mario commenta così: «Una scelta di campo». E delinea il proprio partigiano ideale: «Leale, generoso… che compie la sua scelta, senza opportunismo». «Specie in quei momenti lì», aggiunge, «quando pronunciarsi significava rischiare, giocarsi la vita».
Gli innocenti
Alla mia giaculatoria contro il trasformismo, male endemico di questo Paese, replica sereno: «Sì, ma tanta gente integra, c’è…». Mi spingo a chiedergli in che cosa consista lo spirito della Resistenza, e con semplicità risponde: «Il senso della giustizia...». Infine, insinuo la domanda sul futuro dell’Italia: accenna a un sorriso più evidente, come a dire: che domande mi fai! Ma non si fa pregare: «C’è tanta gente innocente», usa proprio questa parola, e un po’ mi sorprende, e poi, proseguendo, accenna ai giovani «che non fanno calcoli, ci mettono passione…». Insomma, «tendi all’ottimismo?». Esita un attimo e annuisce: «Sì, tendo all’ottimismo».
Dondero, la guerra all’ingiustizia del partigiano con l’obiettivo
Incontro con il grande fotoreporter. “Non è che a me le persone interessino per fotografarle ma perché esistono”
“La Resistenza? La via degli onesti”. “Il futuro? Sono ottimista”
di Angelo D’Orsi
Vado a trovarlo, Mario Dondero, dopo un paio di settimane di «ricerca». È a letto, malato dallo scorso dicembre. Sono reduce dalla visita alla bellissima esposizione che gli è stata finalmente dedicata, a Roma, alle Terme di Diocleziano, curata da Laura Strappa, compagna di Mario, e Nunzio Gustozzi. Una mostra fortunatamente prorogata al 26 aprile, e invito chi ne abbia la possibilità, a visitarla. Ebbene, proprio gli spazi delle Terme, con le istantanee di Dondero, e le esaurienti didascalie, il video della sua intervista, il ricco catalogo (edito da Electa), strappano la sua personalità al figurino del «fotografo» e anche a quello più complesso e ricco del «fotoreporter», e lo consegnano piuttosto al ruolo dell’intellettuale in senso pieno, e alto.
Militante
Proprio di questo vorrei discorrere con Mario, ossia della percezione che, da intellettuale militante, armato della piccola fedele Leica, ma anche di taccuino e penna, ha della realtà politica, con particolare riferimento ai 70 anni della Liberazione. Ma mi si chiede di essere breve, nella mia visita, per non stancarlo. Rinuncio al proposito di intervistarlo: ma, con voce quasi impercettibile, mi dice, no, parliamo pure.
Ed è lui a prendere la parola: «Bella cravatta», esordisce, confermando quella incredibile attenzione ai dettagli che emerge da ogni suo scatto. Tento un pistolotto sull’anniversario resistenziale, denunciando il revisionismo diventato ormai senso comune, e butto là: «Che cosa vuol dire essere partigiano?», e lo chiedo a lui che lo è stato davvero, in Val d’Ossola, a soli sedici anni. Mario è del 1928 e ha condotto un’esistenza errabonda, in ogni plaga del mondo. Ha incontrato fior fiore di intellettuali, nella Rive Gauche, in quella Parigi che è stata la sua patria d’elezione, ma ha conosciuto da vicino anche la rivolta di Budapest e le tante guerre del «dopoguerra», dal Vietnam all’Afghanistan.
L’esempio di Capa
Il suo idolo è Robert Capa, e la Guerra di Spagna è la presenza più forte nell’immaginario di chi non ha potuto parteciparvi, per mere ragioni anagrafiche. Avesse avuto l’età giusta, Mario sarebbe stato senz’altro il Capa italiano. Dondero ha collaborato sempre alla stampa di sinistra, dall’Avanti! all’Unità, dall’Ora di Palermo al mitico Paese Sera di Roma, e a grandi riviste internazionali, specie francesi (Paris Match, Vu…). Non aspetta neppure la fine della domanda, e parte: «Essere partigiano era l’atteggiamento più naturale… che un cittadino onesto dovesse avere».
Penso: il solito eccesso di understatement di quest’uomo che nella sua carriera di testimone con l’occhio fotografico ha attraversato guerre, conflitti sociali, avventure d’ogni genere, sempre con uno sguardo all’insegna precisamente dell’humanitas, come ha notato un suo amico ed estimatore, Massimo Raffaeli. Aggiungerei che il fotografo Dondero non va in caccia di immagini, ma è come se le situazioni, le persone, semplici o famose, aspettassero il suo obiettivo per essere trasformate in icone del loro tempo. E, a percorrere le 250 foto della mostra romana, ti appaiono ulteriormente modificate. Non testimoniano più semplicemente un istante, ma diventano, nella loro grazia, nella loro pulizia, o nella loro forza drammatica, ciascuna un capitolo dell’eterno presente, come dire, una rappresentazione della condizione umana.
Dondero appare preoccupato non di realizzare belle foto, ma di far parlare, attraverso di esse, belle persone. Anzi, potrei dire che per lui, la fotografia è la ricerca delle belle persone, anche in quelle che non lo sembrano, anche nelle situazioni più drammatiche: come egli stesso dichiarò una volta: «Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono». Una dichiarazione di poetica che è un messaggio: umanistico, ancor prima che civile o politico.
Fiducia nei giovani
Il fondo ottimistico del suo animo me lo confermano le poche frasi che riesce a scandire, tra le pause, dominando la sofferenza serenamente, spesso con un sorriso appena percettibile. I partigiani, dunque. Ci saranno stati certo comportamenti scorretti, fra loro, anche, ammette, e parla per esperienza, ma… e lascia intendere che furono casi sporadici. Ma che cosa vuol dire essere partigiano? Non esita nella risposta: «Essere dalla parte della giustizia». E aggiunge: «Dalla parte degli onesti». Gli cito il Gramsci che odia gli indifferenti del 1917, atteggiamento al quale il militante socialista contrappone orgogliosamente il suo essere «partigiano». Mario commenta così: «Una scelta di campo». E delinea il proprio partigiano ideale: «Leale, generoso… che compie la sua scelta, senza opportunismo». «Specie in quei momenti lì», aggiunge, «quando pronunciarsi significava rischiare, giocarsi la vita».
Gli innocenti
Alla mia giaculatoria contro il trasformismo, male endemico di questo Paese, replica sereno: «Sì, ma tanta gente integra, c’è…». Mi spingo a chiedergli in che cosa consista lo spirito della Resistenza, e con semplicità risponde: «Il senso della giustizia...». Infine, insinuo la domanda sul futuro dell’Italia: accenna a un sorriso più evidente, come a dire: che domande mi fai! Ma non si fa pregare: «C’è tanta gente innocente», usa proprio questa parola, e un po’ mi sorprende, e poi, proseguendo, accenna ai giovani «che non fanno calcoli, ci mettono passione…». Insomma, «tendi all’ottimismo?». Esita un attimo e annuisce: «Sì, tendo all’ottimismo».
Corriere 10.4.15
I dolori di un giovane partigiano
Amore e guerra visti da Fenoglio
La collana parte domani con “Una questione privata”
di Roberto Galaverni
Un romanzo denso di asprezze, in cui s’intrecciano impegno e sentimenti Tra le sue fonti d’ispirazione spicca «Cime tempestose» di Emily Brontë
Da quasi trent’anni, quando l’ho incontrata tra le letture non ufficiali dei miei studi universitari e me ne sono innamorato per sempre, ho consigliato con entusiasmo Una questione privata di Beppe Fenoglio a ormai innumerevoli amici o conoscenti. In pratica senza eccezioni, il libro ha suscitato infallibilmente altrettanta sorpresa e entusiasmo. Racconto lungo o romanzo breve che sia, Una questione privata sembra davvero possedere qualcosa d’irresistibile, di magico, vorrei dire. Il fatto è che questo romanzo, d’ora in poi lo chiamerò così, che a mio parere è forse il più bello tra quanti scritti sulla Resistenza (è la grandezza di un altro libro di Fenoglio, Il partigiano Johnny , a rendermi incerto), è in verità un romanzo d’amore, sull’amore. E un amore folle, assurdo, spericolato, cieco, senza mezze misure: quello del giovane e anglofilo partigiano Milton per Fulvia, una ragazza di Torino sfollata ad Alba per evitare i bombardamenti. Un amore che vuole, meglio ancora, che deve vivere — vivere contro la guerra, contro l’orrore, contro le smentite della realtà — per tenere alla lettera tra i vivi un uomo, un ragazzo, che senza di esso quella realtà non potrebbe più attraversarla, quella vita non riuscirebbe più a viverla. Niente di meno. Come resistergli, dunque?
Il fatto è che questo romanzo della Resistenza è per certi versi un romanzo contro la Resistenza. L’assolutezza e la radicalità della questione privata mettono da parte, come ponendola tra parentesi, la questione pubblica e civile, cioè l’impegno nella lotta contro i fascisti. La ricerca della realtà del suo amore per Fulvia, su cui improvvisamente Milton vede gravare qualcosa di più che un oscuro presentimento, è insomma indifferibile, e non ammette, come di fatto non ammetterà, alcuna dilazione o sviamento. Per Milton, ancor più che nella guerra, è infatti qui, nel suo amore, e sottolineo suo, che ne va della vita. Per farsene un’idea bisognerà allora guardare lontano, lì dove Fenoglio aveva appunto guardato: alla letteratura inglese, dunque, e così all’intensità senza ritorno di certi drammi shakespeariani o dei romanzi di Thomas Hardy, come Tess dei D’Urbervilles e Juda l’oscuro , ma anche, più di tutto, del primo dei suoi riferimenti, Cime tempestose di Emily Brontë.
Forse solo Fenoglio poteva permettersi di scrivere una storia così. Scritta all’inizio degli anni Sessanta e pubblicata postuma nel 1963, subito dopo la morte dello scrittore (che era nato ad Alba nel 1922), Una questione privata rappresenta infatti il coronamento di una forsennata impresa di scrittura dedicata al tema della Resistenza e del partigiano, un lavoro che Fenoglio tra un fortissimo senso di realtà e sogni e ideali almeno altrettanto forti, la fatica della scrittura, i progetti naufragati, le delusioni editoriali e soprattutto le mille e mille e mille sigarette, aveva condotto come in trance , o piuttosto come in apnea, a partire almeno dalla fine della guerra. Malgrado tutti e malgrado tutto. Come qualcuno che sempre e ancora resiste; come uno scrittore-partigiano, appunto. E partigiano Fenoglio lo era stato e non dell’ultima ora.
E ancora partigiana o comunque di resistenza è tutta quanta la sua opera, anche quella parte legata non alla guerra, ma alla civiltà contadina delle Langhe, dove di guerra e di resistenza per la vita sempre e comunque si tratta. Dunque non c’erano dubbi per lui riguardo alla legittimità della propria operazione. Sapeva come pochi chi e quale fosse il nemico (lo ricordo per inciso, ma, proprio come Pavese, anche Fenoglio già alla fine degli anni Quaranta parla della Resistenza come guerra civile) e, di conseguenza, quale indubitabilmente fosse, come si dice nel Partigiano Johnny , la parte giusta («the right side», in inglese nel testo).
Eppure Una questione privata è intriso fino al midollo della Resistenza, con una violenza, una durezza, una ferocia, un buio, che è difficile riscontrare altrove e che solo il prodigioso senso del ritmo della narrazione, in sintonia col passo di Milton che cammina e cammina sulle colline, permette di attraversare. Fenoglio stesso aveva parlato della sua volontà di collocare la ricerca amorosa «nel fitto» della guerra civile. E infatti questione privata e questione pubblica risultano qui più che strettamente intrecciate, illuminandosi per contrasto e come per reciproca dismisura. Calvino, che aveva qualcosa da farsi perdonare da Fenoglio dal punto di vista editoriale, nel dare giustamente credito all’eccezionalità di Una questione privata , lo paragonò ai romanzi amorosi e cavallereschi come l’ Orlando furioso . Ma non è così. Si tratta infatti di un romanzo che va alla radice, che cerca sì, ma per trovare qualcosa d’essenziale e d’irrinunciabile; di un romanzo salvifico. Il romanzo, dunque, della Resistenza storica, ma anche, e sempre, della resistenza (stavolta con la minuscola) esistenziale e metafisica, della resistenza come modo di essere, della resistenza come vita.
I dolori di un giovane partigiano
Amore e guerra visti da Fenoglio
La collana parte domani con “Una questione privata”
di Roberto Galaverni
Un romanzo denso di asprezze, in cui s’intrecciano impegno e sentimenti Tra le sue fonti d’ispirazione spicca «Cime tempestose» di Emily Brontë
Da quasi trent’anni, quando l’ho incontrata tra le letture non ufficiali dei miei studi universitari e me ne sono innamorato per sempre, ho consigliato con entusiasmo Una questione privata di Beppe Fenoglio a ormai innumerevoli amici o conoscenti. In pratica senza eccezioni, il libro ha suscitato infallibilmente altrettanta sorpresa e entusiasmo. Racconto lungo o romanzo breve che sia, Una questione privata sembra davvero possedere qualcosa d’irresistibile, di magico, vorrei dire. Il fatto è che questo romanzo, d’ora in poi lo chiamerò così, che a mio parere è forse il più bello tra quanti scritti sulla Resistenza (è la grandezza di un altro libro di Fenoglio, Il partigiano Johnny , a rendermi incerto), è in verità un romanzo d’amore, sull’amore. E un amore folle, assurdo, spericolato, cieco, senza mezze misure: quello del giovane e anglofilo partigiano Milton per Fulvia, una ragazza di Torino sfollata ad Alba per evitare i bombardamenti. Un amore che vuole, meglio ancora, che deve vivere — vivere contro la guerra, contro l’orrore, contro le smentite della realtà — per tenere alla lettera tra i vivi un uomo, un ragazzo, che senza di esso quella realtà non potrebbe più attraversarla, quella vita non riuscirebbe più a viverla. Niente di meno. Come resistergli, dunque?
Il fatto è che questo romanzo della Resistenza è per certi versi un romanzo contro la Resistenza. L’assolutezza e la radicalità della questione privata mettono da parte, come ponendola tra parentesi, la questione pubblica e civile, cioè l’impegno nella lotta contro i fascisti. La ricerca della realtà del suo amore per Fulvia, su cui improvvisamente Milton vede gravare qualcosa di più che un oscuro presentimento, è insomma indifferibile, e non ammette, come di fatto non ammetterà, alcuna dilazione o sviamento. Per Milton, ancor più che nella guerra, è infatti qui, nel suo amore, e sottolineo suo, che ne va della vita. Per farsene un’idea bisognerà allora guardare lontano, lì dove Fenoglio aveva appunto guardato: alla letteratura inglese, dunque, e così all’intensità senza ritorno di certi drammi shakespeariani o dei romanzi di Thomas Hardy, come Tess dei D’Urbervilles e Juda l’oscuro , ma anche, più di tutto, del primo dei suoi riferimenti, Cime tempestose di Emily Brontë.
Forse solo Fenoglio poteva permettersi di scrivere una storia così. Scritta all’inizio degli anni Sessanta e pubblicata postuma nel 1963, subito dopo la morte dello scrittore (che era nato ad Alba nel 1922), Una questione privata rappresenta infatti il coronamento di una forsennata impresa di scrittura dedicata al tema della Resistenza e del partigiano, un lavoro che Fenoglio tra un fortissimo senso di realtà e sogni e ideali almeno altrettanto forti, la fatica della scrittura, i progetti naufragati, le delusioni editoriali e soprattutto le mille e mille e mille sigarette, aveva condotto come in trance , o piuttosto come in apnea, a partire almeno dalla fine della guerra. Malgrado tutti e malgrado tutto. Come qualcuno che sempre e ancora resiste; come uno scrittore-partigiano, appunto. E partigiano Fenoglio lo era stato e non dell’ultima ora.
E ancora partigiana o comunque di resistenza è tutta quanta la sua opera, anche quella parte legata non alla guerra, ma alla civiltà contadina delle Langhe, dove di guerra e di resistenza per la vita sempre e comunque si tratta. Dunque non c’erano dubbi per lui riguardo alla legittimità della propria operazione. Sapeva come pochi chi e quale fosse il nemico (lo ricordo per inciso, ma, proprio come Pavese, anche Fenoglio già alla fine degli anni Quaranta parla della Resistenza come guerra civile) e, di conseguenza, quale indubitabilmente fosse, come si dice nel Partigiano Johnny , la parte giusta («the right side», in inglese nel testo).
Eppure Una questione privata è intriso fino al midollo della Resistenza, con una violenza, una durezza, una ferocia, un buio, che è difficile riscontrare altrove e che solo il prodigioso senso del ritmo della narrazione, in sintonia col passo di Milton che cammina e cammina sulle colline, permette di attraversare. Fenoglio stesso aveva parlato della sua volontà di collocare la ricerca amorosa «nel fitto» della guerra civile. E infatti questione privata e questione pubblica risultano qui più che strettamente intrecciate, illuminandosi per contrasto e come per reciproca dismisura. Calvino, che aveva qualcosa da farsi perdonare da Fenoglio dal punto di vista editoriale, nel dare giustamente credito all’eccezionalità di Una questione privata , lo paragonò ai romanzi amorosi e cavallereschi come l’ Orlando furioso . Ma non è così. Si tratta infatti di un romanzo che va alla radice, che cerca sì, ma per trovare qualcosa d’essenziale e d’irrinunciabile; di un romanzo salvifico. Il romanzo, dunque, della Resistenza storica, ma anche, e sempre, della resistenza (stavolta con la minuscola) esistenziale e metafisica, della resistenza come modo di essere, della resistenza come vita.