sabato 31 dicembre 2005

Liberazione, 31.12.05
Intervista a Bertinotti: «Il berlusconismo è finito. La sfida si giocherà tra noi e Montezemolo»
di Rina Gagliardi


Ma se dovessimo definire in modo molto sintetico, quasi con uno slogan, la nostra prospettiva in questo ormai imminentissimo 2006?

«E’ la nostra sfida a Montezemolo» spiega il segretario di Rifondazione comunista. Non c’è nessuna iattanza o megalomania, in questa
affermazione: c’è, piuttosto, la consapevolezza della partita che si apre, anzi che è già ampiamente aperta nel terremoto italiano
seguito alla fine del berlusconismo. «Quello delineato dal presidente di Confindustria è il progetto più pericoloso: perché, attraverso la
proposta di una nuova Costituente, concerne direttamente l’assetto del sistema politico e pone al suo centro il primato assoluto
dell’impresa, della logica di merce, degradando il conflitto sociale a mera pulsione conservatrice».Una filosofia molto apparentata alla Grosse Koalition di stampo tedesco. Una filosofia - mi viene da osservare - non poi così distante da quella che domina il gigantismo della Cina di Jintao, su cui Bertinotti si sofferma a lungo e propone alcuneriflessioni. In questa intervista, che vale un po’ come consuntivo di fine d’anno, il ragionamento spazia da Pechino a casa nostra, l’Italia anzi l’Europa, con una attenzione costante: la necessità strategica, ma anche, perfino, il “realismo” di un’opzione di alternativa, non limitata al cambio di governo e classe dirigente.

Cominciamo proprio dal tuo viaggio in Cina. Che cosa ti ha più colpito, non solo dal punto di vista politico,ma da quello psicologico e culturale? Quali sono i veri punti di distanza tra noi e loro?

Se ci cimentassimo a scrivere adesso - riscrivere - un pamphlet politico intitolato “Delle divergenze tra i compagni cinesi e noi”, dovremmo dire, prima di tutto, che «la Cina è vicina». Nel senso che, davvero, ad occidente come ad oriente, siamo immersi nella globalizzazione economica ben più di quanto non crediamo.
E il punto centrale del dissenso concerne, infatti, proprio la natura della globalizzazione: per i cinesi, essa è un processo sostanzialmente neutrale, quasi come un fenomeno della natura. Come tale, immodificabile nelle sue leggi di base: al massimo, si può provare a correggerne alcune conseguenze, quelle che a lungo andare rischiano di accentuare l’instabilità e la governabilità sociale oltre ogni possibilità di controllo. Ma al di là non si può andare, un po’ come nella cultura socialdemocratica.

Tu dici "globalizzazione", ed è chiaro che cosa vuol dire. Ma, nell’ottica di Pechino, c’è o no una differenza tra globalizzazione e capitalismo?

Ti rispondo così: proprio come il socialismo o è mondiale o non è, tutti i sistemi economici inseriti nella globalizzazione hanno una natura capitalistica. Nella visione cinese, questa è comunque l’unica alternativa praticabile alla povertà: il primato del mercato (e della logica d’impresa, dico io), che unisce est e ovest in una relazione stringente, costituisce per loro la leva portante per entrare nella modernità, nel progresso, nello sviluppo. Il mercato, insomma, viene considerato l’unico elemento dinamico, che ha consentito alla Cina un ritmo di crescita di quasi il 10 per cento all’anno e la fuoruscita dalla povertà per centinaia di milioni di persone.
Perciò parlano di se stessi come di “un Paese in via di sviluppo” - definizione solo in parte soddisfacente, dati i punti di eccellenza tecnologica raggiunti in molti comparti dall’innovazione cinese. Non si può, naturalmente, negare lo sviluppo che c’è stato e continua ad esserci in Cina, uno sviluppo che corrisponde a vera creazione di ricchezza. E nemmeno ci si può permettere, dall’alto della “pancia piena” di un occidentale, di impartire lezioni a chicchessia e a loro. Però, invece, non possiamo sottacere che, accanto e come conseguenza di questo sviluppo, c’è una grande diseguaglianza sociale e di classe. In Cina, temo, le distanze tra ricchi e poveri, tra zone sviluppate e ipersviluppate e campagne in crisi (ma non solo) sono enormi. Come tutto, in questo paese, è di dimensioni gigantesche.

Questi problemi sono o no all’attenzione dei governanti?

Sì, sono consapevoli, mi pare, delle drammatiche storture sociali che lo sviluppo ha creato in più di vent’anni. Solo che la natura del processo è tale da non accettare vere correzioni, come dicevamo. Per la prima volta nella storia moderna, accade che nel punto più avanzato, nel luogo che possiamo definire come la “locomotiva” dello viluppo, il massimo dell’innovazione si coniuga con il minimo dei salari: insomma, si è spezzata del tutto una relazione “progressiva” tra boom economico e benessere sociale che pure il capitalismo, in altre epoche, ha comunque garantito - anche grazie, certo, alla lotta di classe e alla crescita dell’organizzazione sindacale.

Perché questa involuzione?

E’ l’effetto obbligato della competizione economica mondiale, è cioè uno dei dati organici della globalizzazione: nello scontro che oppone tra di loro le borghesie di tutto il mondo, i salari divengono una pura variabile dipendente, e vengono inseguiti al loro livello, appunto, più basso, più “compatibile” con gli interessi immediati delle imprese.

E il “mercato socialista”? Che senso ha in questo contesto?

Un ossimoro. Una contradictio in terminis che dice dell’intenzione del gruppo dirigente cinese di intervenire con correttivi sociali e politiche di tipo equitativo e in parte redistributivo.
Se non avessero messo in atto questo livello di Welfare, il paese sarebbe sprofondato in una crisi senza ritorno. Solo che, anche qui, gli effetti concreti sono relativi, rispetto alle dimensioni d’insieme: è un po’ come tentar di svuotare il mare con un cucchiaino.
Il fatto è che, in un contesto che assolutizza il primato della produzione e, alla fin fine, della merce, la tragedia vera è quella del lavoro: che scompare, letteralmente, nel suo ruolo protagonistico. In Cina, paese cardine della globalizzazione, il lavoro e il conflitto sociale sono privi di valore, non hanno spazio, sono tendenzialmente espulsi dal processo: nel senso che il cuore del processo stesso è il primato assoluto della merce e l’interesse dell’impresa. Non è neppure come ai tempi dello stakhanovismo, quando si trattava di versare lacrime e sangue per aumentare il più possibile produzione e produttività. Non è neppure la logica di Mao del “grande balzo in avanti”. E’ la legge pervasiva e anzi totalizzante della strada imboccata.

Da questo quadro, non mi pare che la democrazia cinese ne esca tanto bene. Non solo e non tanto la democrazia delle istituzioni liberali, di cui si può dare per “scontata” l’assenza, ma la democrazia che forse dovrebbe caratterizzare un paese che ancora dichiara il socialismo come proprio obiettivo - quella operaia, sindacale, partecipativa.O No?

Certo, anche per me questo è forse il punto più dolente. Non dico, naturalmente, che la democrazia borghese sia irrilevante, penso in proposito l’esatto contrario, dico che il metro giusto con cui guardare agli sconvolgenti processi in corso in Cina non può essere il suo grado di “democratizzazione liberale”. E’ la negazione radicale del conflitto, invece, e la repressione durissima e sistematica che lo accompagna, quando e se si manifesta, che mi fa sentire distantissimo da questa Cina, pur così “vicina” – pur, dentro tante e gigantesche differenze, così simile a noi. Se non puoi agire il conflitto, non riesci neppure ad avviare un percorso di liberazione, di autentica “messa in valore” delle persone, della loro autonomia e libertà. Senza di questo, la globalizzazione e la disuguaglianza non solo impongono la loro logica, come macchine inesorabili, ma diventano cultura, nel senso più profondo del termine. E nessuna civiltà è al riparo da questo pericolo, da un esito di mera omologazione - nemmeno la Cina, purtroppo. Nella quale è pur vero che è cresciuto - chiamiamolo così - un “ceto medio” anche molto ampio, che garantisce al sistema un certo consenso diffuso. Ed è vero che Shanghai è una vetrina dello sviluppo perfino fantastica. Ma è vero altrettanto che, se continuerà su questa strada, la Cina si troverà di fronte a contraddizioni sociali gigantesche, a tragedie di massa, sempre più drammatiche. Sempre “più vicina” al modello occidentale….

Vogliamo trarre una prima pur parzialissima conclusione?

De te fabula narratur: ecco il pensiero fisso che ha accompagnato questo viaggio. A parte ogni altra considerazione, noi, Europa, non possiamo neppur vagamente sperare di farcela, a battere la Cina (e l’India): sul terreno della concorrenza e della competività la partita è perduta, non ne possiamo che uscire schiacciati. Anche per questo, è essenziale la prospettiva di un’alternativa economica e sociale - che del resto è fondativi dell’identità del Partito della sinistra europea - capace di sottrarsi al paradigma della globalizzazione. E la leva vera di questa alternativa - le sue gambe - è la democrazia partecipata, il dispiegarsi del conflitto maturo, la costruzione di spazi progressivi di libertà collettiva sottratti alla logica del mercato e dell’impresa.

Un’alternativa che va intesa, luxemburghianamente, come una “necessità storica”? Oppure una proposta anche in qualche modo eealistica?

Ma è la globalizzazione a non essere, più di tanto, “realistica”. A lungo termine, le contraddizioni esplodono dovunque, ad est come ad ovest, e le esperienze conflittuali sono destinate a moltiplicarsi - non solo quelle politicamente organizzate e organiche, come la Val di Susa o la lotta dei metalmeccanici, ma le rivolte “pure”, senza sbocchi e senza neppure obiettivi politici - come quella delle periferie di Parigi. In Cina, in un contesto dominato dall’ordine, ci sono state in questi ultimi anni più di settantamila rivolte contadine. Nel mondo, in forme diverse, c’è un’opposizione massiccia alla globalizzazione e alla sua natura socialmente regressiva: qui si colloca l’idea di un’altra Europa. Non un nobile ideale, o un’istanza utopistica, ma una proposta politica concreta. Del resto, quando parliamo di alternativa qui da noi, come possiamo pensarla se non un quadro europeo? Un quadro nel quale stanno prospettandosi battaglie di grande portata, come quella contro la direttiva Bolkenstein, o la miriade di esperienze “extramercantili”, i beni comuni, l’acqua, e così via. Un quadro che, domani, potrebbe riaprirsi anche a livello degli Stati: se in Germania va in crisi il governo Merkel, come molti segnali fanno pensare; se in Francia si riapre un processo a sinistra, sia pure tra molte ambiguità; se in Spagna l’era Zapatero prosegue e magari fa un salto di qualità, se in Italia, come speriamo, l’Unione batte il centrodestra, con una presenza significativa nostra e della sinistra radicale…. beh, allora, comincia una fase interessante.

A proposito dell’Italia, non possiamo sfuggire da un bilancio del 2005.Un bilancio politico, intendo.

L’anno che finisce (a proposito, i miei auguri affettuosi a tutti i compagni e ai lettori di Liberazione) è stato in realtà l’anno della fine del berlusconismo. Il centrodestra ha subito un crollo, un echec, come dicono i francesi, non solo come politiche di governo, ma come blocco di consenso. Da molti punti di vista, noi stiamo già vivendo da un pezzo la transizione ad un’altra fase - siamo già ampiamente nell’era del postberlusconismo. Da qui, il terremoto, il movimento caotico a cui abbiamo assistito e stiamo ancora assistendo: tutte le forze, e segnatamente quelle borghesi, sono investite dalla transizione, e si vanno riposizionando. Perché adesso, con Montezemolo, fanno finta di non aver mai avuto nulla a che fare con Berlusconi, ma non è certo stato così, fino a pochissimo tempo fa….

Quali sono le questioni su cui il tonfo del berlusconismo si è rivelato “irresistibile”?

Intanto, la politica internazionale. Il centrodestra ha fatto una politica filoatlantica “perinde ac cadaver”, di fedeltà e sottomissione totale a Washington - insomma, ha scommesso tutto su Bush. E’ pur vero che Bush è ancora al potere, ma la crisi di consenso e di certezze di cui soffre questa amministrazione sono oggi molto evidenti: anche sulla guerra all’Iraq stanno cercando una via d’uscita. E, se non l’unipolarismo, l’unilateralismo non è più una carta vincente. Insomma: se non vuole rimanere isolata, l’Italia di domani non potrà più seguire una politica di alleanza con gli Usa senza se e senza ma. Secondo: la politica economica. Mai un fallimento fu così clamoroso: il nostro paese ha perso tutte le competizioni, pur avendo tutto puntato sul minimo costo del lavoro e la massima flessibilità. E dicevamo prima, siamo esposti più di chiunque alla concorrenza di Cina e India. Infine, si possono citare le “riforme istituzionali”: altro che classico topolino partorito dalla montagna! Non si sa neppure se è meglio indignarsi, o non prenderle sul serio…. Insomma, sono queste le basi sulle quali mi sembra difficile che l’Unione perda l’occasione elettorale del prossimo aprile.

Ma sono anche le basi di quella complessa operazione - chiamiamola neocentrismo, “terzismo”, futuro Partito democratico - che punta a condizionare da destra la politica dell’Unione,e a caratterizzarla in senso moderato. E i leader non sono solo Rutelli,Veltroni o altri politici, ma esponenti diretti del mondo imprenditoriale, come Carlo de Benedetti e Montezemolo…

Sì, in questo riposizionamento d’insieme, il presidente di Confindustria si è spinto molto sulla strada del progetto di un nuovo partito della borghesia: ha lanciato la Costituente, un’idea politicamente molto ambiziosa, e punta a ridisegnare l’intero assetto politico. E a rendere il sistema tutto funzionale al primato del mercato, all’assolutizzazione della merce, dove il conflitto sociale è derubricato a forza obsoleta o conservatrice. Da questo punto di vista, possiamo dirla così: nella prossima fase, la sfida si giocherà tra noi e Montezemolo. Non noi, povero piccolo partito. Noi sinistra, noi sinistra di alternativa, noi che non abbiamo messo nel cassetto l’idea di un futuro socialista. E se vogliamo avere un ruolo non testimoniale, non possiamo che lanciare la sfida al partito neoborghese, comunque si chiamerà e comunque sarà composto, in costruzione.

Non ti sembri una domanda naive:ma perché è così pericoloso questo progetto? In fondo, tutti i suoi leader sono sinceri democratici, senza ironia alcuna.

La pericolosità non nasce dalla vocazione non democratica dei diversi soggetti che lavorano per questo obiettivo, o sono pronti a convergere su di esso, ma dai suoi contenuti: per un verso, un assetto politico che esclude organicamente la sinistra, qualsiasi istanza della sinistra, forse dalla rappresentanza e certo dal governo, per un altro verso, la centralità delle merci e la svalorizzazione del lavoro, nel nome della competività e dell’“unità dei moderni”. Il pericolo che io vedo, insomma, è che il partito neoborghese che si accinge a governare l’Italia non solo si limiti a razionalizzare, “ripulendola”, l’era del centrodestra, ma si spinga su una strada di sostanziale “totalizzazione” della politica. Rivedo ancora il sogno della “Grande coalizione” tedesca: tutto per l’impresa e contro il ruolo sociale dello Stato. Perché Montezemolo e gli altri capitani coraggiosi dell’impresa non dicono mai che uno dei fattori del declino italiano, e forse non uno dei più irrilevanti, è stato l’abbandono dell’intervento dello stato nell’economia? E’ anche la fine della grande impresa pubblica, oltre che i disastri della grande impresa privata? Perché, certo, se lo dicessero, smentirebbero se stessi, le scelte che hanno appoggiato ieri e appoggeranno domani, l’ideologia che hanno predicato e vanno predicando. Perché diventerebbero palesi le loro responsabilità, e l’inefficacia del neoliberismo.

Infine: dalle tue parole vedo una certa inquietante somiglianza tra la politica del governo cinese e i propositi di Montezemolo. Sbaglio?

Forse non sbagli. E comunque ancora auguri a tutte e a tutti.



Liberazione, 31.12.05
Migranti di via Lecco: un po’ di moralismo non fa male alla politica
di Piero Sansonetti


Trascrivo integralmente le poche righe di una lettera pubblicata ieri dal giornale Libero. E’ intitolata: Occupazioni abusive e impotenza”. Tralascio la firma, che sicuramente è di un onesto cittadino, il quale probabilmente non si rende ben conto di quel che scrive, e non è giusto esporlo all’indignazione della gente assennata. Ecco la lettera. “Milano: somali, eritrei, etiopici prima occupano uno stabile, ora la strada. Cosa vogliono? Le villette? Perché non viene usato un idrante per farli sgomberare? Gli italiani in strada e loro nelle case a carico nostro? Avanti, tanto c’è Bertinotti che li difende”. Segue firma. A cosa si riferisce questo lettore di Libero? Alla vicenda dei profughi - alcune centinaia, diverse famiglie, molti bambini - che vivevano sistemati alla meno peggio in un palazzo di via Lecco, a Milano, e che sono stati sfrattati e buttati in mezzo alla strada, al gelo, il giorno dopo natale. giornali e le Tv ne hanno parlato poco di questa storia tremenda. I profughi erano tutti rifugiati politici regolari, la loro condizione era stata riconosciuta dalle autorità italiane - che in genere concedono il diritto di asilo con enorme parsimonia - ma questo non è servito loro a niente. L’idea è: ti do il diritto all’asilo non puoi pretendere che dia a te e ai tuoi bambini anche il diritto a sopravvivere.

Come si può commentare la lettera Libero? D’istinto viene da chiedersi: ma come è possibile che una persona normale, probabilmente sana di mente, che ha quasi certamente una sua vita regolare, forse un buon lavoro, forse una famiglia, amici, relazioni sociali, magari persino qualche idea, come è possibile che di fronte ad alcune centinaia di persone disperate, senza casa, infreddolite, affamate, sfuggite per miracolo a guerre e carestie e finite a cercare di salvare la pelle in una città italiana, di fronte a tutto questo, ai bambini che tremano per strada, pensi (e scriva) senza il minimo senso di vergogna: “attaccateli con gli idranti, disperdeteli, metteteli in fuga”? A me sembra un esempio di ferocia e di odio per il genere umano, quasi esagerato in modo paradossale. Eppure chiaro che non è così. L’opinione di quel lettore - e l’ira, la furia, l’aggressività che esprime - non è affatto un fenomeno raro. Anzi, rappresenta bene l’idea che appartiene a un settore abbastanza ampio dell’opinione pubblica italiana. E infatti trova ospitalità e comprensione in un giornale a grande tiratura nazionale, come Libero, che tra tutti i quotidiani italiani, mi dicono, è quello che sta vivendo il maggior successo di vendite.

Faccio un salto e cambio giornale. Il Corriere della Sera, altro stile. Trovo una bella intervista al presidente dell’Inter Massimo Moratti, potente petroliere, il quale, sempre sulla vicenda drammatica di via Lecco, dice parole di segno del tutto opposto a quelle scritte dal lettore di Libero. Sostiene Moratti: «Tutta la città deve vergognarsi». Ha ragione. Però, vi confesserò, io a questo punto vengo colto da una vera e propria vampata di moralismo, forse un po’ bigotto, che mi viene dalle viscere e non riesco a trattenere. Dico: Moratti spende dai 100 ai 200 miliardi all’anno per comprare giocatori di calcio, paga ogni mese - se non sbaglio - tre o quattro allenatori che ha licenziato perché non gli piacevano troppo, e li paga, più o meno, 200 mila euro al mese, distribuisce analoghi stipendi a una trentina di suoi giocatori la maggior parte dei quali acquistata non per giocare ma per fare numero. Chiedo: sicuro che di fronte alla tragedia di via Lecco l’unica sua risorsa sia di rilasciare una bella intervista al Corriere? Ma cosa dovrebbe fare? Non so, per esempio mettere mano al portafoglio e con l’equivalente dello stipendio mensile di uno dei suoi allenatori in “cassa integrazione” risolverebbe il problema di via Lecco e non proverebbe più vergogna, né per se né per la sua città. Non è tenuto a farlo: potrebbe farlo. E comunque dovrebbe rendersi conto del fatto che un mondo che permette a una persona di disporre di diversi miliardi al mese e a un’altra persona di non avere né un tetto né una minestra, è un mondo molto ingiusto, e che le ingiustizie provocano vittime e beneficiari, e che di questa ingiustizia - diciamo così - lui non è una vittima.

Certo che il mio è moralismo un po’ populista, demagogico. Me ne rendo conto. Però mi viene il dubbio che a forza di dire che la politica non deve essere moralista, e che bisogna separare le persone e le loro idee, che l’azione politica non è carità, che non si devono giudicare i comportamenti individuali eccetera eccetera, si finisce per trasformare la politica in qualcosa che non ha più niente a che fare con le relazioni umane - cioè con la materia, immensa, della quale dovrebbe occuparsi - ma solo con il potere, con le strategie, coi profitti, con i soldi, le finanze, le banche e quelle cose lì. Non voglio parlare adesso del caso Consorte, dei Ds che hanno appoggiato la scalata alla Bnl confondendo una banca con una borgata, né del caso Fazio, Draghi, Montezomolo eccetera. Però ho l’impressione che se non accettiamo l’idea che almeno una piccola porzione di moralismo deve entrare in politica, alla fine resteremo del tutto privi di argomenti di fronte alla lettera del lettore di Libero. Cosa gli diciamo, quando lui chiede che sia sgomberato il suo marciapiedi, se non possiamo usare argomenti di morale e di etica? Come facciamo a convincerlo che un essere umano è un essere umano, e che se è etiope o eritreo o somalo, è uguale a sua sorella, sua moglie, suo figlio, sua madre e il suo capoufficio? Se accettiamo che la politica è solo tecnica e strategia (nel migliore dei casi), amministrazione ed economia, in che modo possiamo fissare dei principi e spiegare a settori vasti di opinione pubblica che i principi esistono in quanto tali, hanno a che fare con lo spirito, con la storia, con la filosofia, e non con il conto in banca, e che i principi non necessariamente coincidono con i nostri interessi individuali, o di ceto sociale, o di casta di nazione?

PS. Naturalmente la lettera a Libero è niente confronto a quello che successo ieri in Egitto. Dove la polizia ha ucciso ventina di profughi sudanesi. Perché? Perché erano profughi, erano senza permesso, erano illegali, dici illegali dici senza diritti, solo la legalità genera diritti e divide il mondo due categorie. Attenzione non pensare che l’Egitto lontano. Il comportamento tenuto da un governo sinistra europeo, come quello spagnolo, a Melilla, stato molto diverso comportamento del governo egiziano. E neanche logica nostra, dei Cpt, dei campi di concentramento per migranti, è lontanissima dalla logica Mubarak.



Liberazione, 30.12.05
Parabole
Un patrimonio di tutti


Cara “Liberazione” anche io, ateo, mi trovo perfettamente d’accordo con quanto scritto dalla compagna Sandra Frangioni di Massa Marittima nella lettera a “Liberazione” del 28 dicembre a proposito del libro di don Vitaliano della Sala “Le parabole di Gesù Nazareno”, in quanto i messaggi positivi devono essere patrimonio di tutti.
Davide Sacchi Bologna


Religione
Io preferisco pensare


Caro direttore, sto seguendo da qualche giorno questo avvincente dibattito su religiosità e realtà umana e ora sto pensando alla parola ateo, al suo significato culturale. E penso che questo fonema, ateo, non rappresenti bene l’essenza di chi non crede. La lettera a, privativa, ci parla di una mancanza. E, come genialmente faceva notare Sansonetti, secondo il Papa, a chi manca Dio manca la dignità umana. In effetti si può pensare che manchi il pane, che manchi il latte, ma non si può pensare che all’ateo manchi Dio per il semplice fatto che Dio esiste solo nella mente di chi crede. E penso, anche, che la parola ateo va sempre unita alla parola ribellione perché quando non ci si ribella ci si identifica. Non dire no ad un prete che legge Le parabole di Gesù Nazzareno significa identificarsi con qualcuno che crede all’esistenza di un figlio di Dio, con qualcuno che pensa a questa favola non come ad un mito, ma ci crede veramente. E quindi mi sento offeso da qualcuno che non vuole che io pensi ma che creda a ciò che lui ha nella mente. E, se vogliamo dare un vero senso alle parole, forse dobbiamo dire che la parola da contrapporre a credente non è ateo, non è nemmeno non credente, la parola è… pensante.
Gian Carlo via e-mail

Un veleno paralizzante
Caro direttore, mi fa tanto piacere che sulle pagine di “Liberazione” si sia aperto il dibattito sull’ateismo, tema che mi sembra fondamentale approfondire. Da parte mia vorrei porre l’accento sul fatto che per noi atei è relativamente facile denunciare la macroscopica ingerenza e violenza insita nella dottrina delle gerarchie cattoliche (il papa ci ha rivelato l’amore di dio per l’embrione e l’«azione divina all’interno del grembo materno»!); più difficile è scoprire e smascherare quanto il pensiero religioso che, attraverso la famiglia e la cultura ha colonizzato la nostra mente sin dalla prima infanzia, influisca e opprima gli aspetti più profondi e non coscienti della nostra vita privata, soprattutto nel campo degli affetti e della sessualità. Leggendo il toccante e incisivo commento di Massimo Fagioli del 24 dicembre “La sessualità non è procreazione, ma è identità tra diversi”, mi sono chiesta quanto la difficoltà di noi donne a vivere un rapporto libero e vitale con l’uomo sia frutto di quel veleno paralizzante che l’educazione cattolica ci ha inoculato da bambine: il peccato originale è la colpa di Eva, la sessualità è male, solo lo scopo procreativo la rende lecita… Forse, come tu dici rispondendo ad Andrea il 23 dicembre, Cristo era gentile con le donne e non le discriminava, ma io so bene quanto quella figura mitica e irreale (la cui storicità tra l’altro è controversa) ha contribuito a rendere confuso ed angosciato il periodo della mia pubertà e ha inibito la realizzazione della mia identità femminile. Io penso che siano le tante striscianti influenze ideologiche di questo tipo ad ostacolare la realizzazione della nostra piena identità umana e quindi la possibilità, ad esempio, di concretizzare le tre parole cardine su cui “Liberazione” vuole sviluppare la ricerca: libertà, uguaglianza e fraternità, che la rivoluzione francese aveva inventato e poi presto tradito con la violenza del Terrore…
Fulvia via e-mail



Corriere della Sera, 30.12.05
Indagine della Società Italiana di Andrologia
Italiani troppo «svelti» a letto
Ben il 40 percento dei maschi del Bel Paese soffrono di eiaculazione precoce. E il 12 percento di disfunzioni erettili


ROMA - Il 40 percento degli italiani soffre di eiaculazione precoce, il 12-13 percento di disfunzione erettile, il restante di disturbi legati al funzionamento della prostata e, per la prima volta, viene alla luce l'insoddifazione sessuale di coppia. Sono queste le prime indicazioni che emergono dalle risposte date dai circa 9 mila uomini al questionario messo a punto per la settimana di prevenzione andrologica (21-26 novembre 2005) dalla Sia, la Società Italiana di Andrologia.

«Sono dati non definitivi ma comunque dicono di una tendenza nuova: è la prima volta che emerge un'alta insoddisfazione sessuale di coppia così come l'eiaculazione precoce», spiega Vincenzo Gentile, presidente della Sia e docente di urologia all'Università La Sapienza, di Roma, per il quale «una sana e fattiva attività sessuale fa parte della salute generale della persona».
DEPRESSIONE MASCHERATA - L'aumento dei disturbi legati alla sfera sessuale riguarderebbero il 10% della popolazione. «In generale si tratta - precisa Gentile - di disturbi dovuti ad un calo di vitalità e pertanto di desiderio: spesso c'è una depressione più o meno mascherata, un'ansia latente, una situazione di forte stress». Certamente «ci sono spesso cause organiche - continua Gentile - ma la componente psichica ed emotiva ha la sua buona incidenza». Oggi ci sono farmaci efficaci che permettono una adeguata e sufficiente erezione per avere rapporti sessuali: «Sono farmaci che agiscono sull'aspetto organico - nota Gentile - e fisico: per funzionare comunque serve l'attrazione e lo stimolo sessuale insomma un pò di desiderio».
INSODDISFAZIONE - Quel che la Sia non s'aspettava dalle risposte pur non definitive al questionario è la comparsa dell'insoddisfazione di coppia dovuta ad una serie di cause: la routine, la noia, il calo dell'erotismo, il dormire nello stesso letto, lo stress della vita quotidiana.
«Bisogna poi eliminare tutti i fattori di rischio - aggiunge Gentile - ansia e depressione, ipertensione e diabete, obesità e stress: insomma uno stile di vita equilibrato e sereno». E questo dello stile di vita è il primo tassello.

«C'è poi il rapporto di coppia, ossia la relazione uomo-donna da vivere nel dialogo e confronto, nella confidenza e rispetto reciproci - prosegue Gentile - Solo così nella massima apertura e sincerità la sessualità si arricchisce di contenuti e non appassisce fino alla noia e routine: insomma più il rapporto e la relazione di coppia sono liberi e vissuti in profondità, più sono appaganti per entrambi». In un rapporto e relazione di coppia aperti e liberi, «è possibile raggiungere la sana sessualità che è parte integrante - conclude Gentile - della salute complessiva». Insomma, far sesso allunga la vita e soprattutto fa vivere meglio.




La Provincia di Sondrio, 30.12.05
Ad Harvard sono stati avviati esperimenti su persone prigioniere di memorie traumatiche ma subito si è imposta una questione etica In America preparano la pillola che cancella i brutti ricordi

Uno degli elementi più importanti nella composizione della personalità umana è costituito dalla memoria. Quello che l'essere umano è, come pensa, come si comporta è infatti principalmente frutto delle esperienze che egli ha vissuto, nella realtà o nella propria mente, e delle quali ha conservato una traccia. Se fino a qualche tempo fa non c'erano dubbi sull'immortalità dei ricordi, buoni o cattivi che fossero, oggi l'eternità della memoria è messa in discussione da un farmaco in grado di cancellare le dolorose reminiscenze. Lustrino della scienza, e croce dell'etica, la pillola per cancellare i brutti ricordi è allo studio di un gruppo di medici e di psichiatri dell'università di Harvard, persuasi che le memorie cattive non solo si possano ma in alcuni casi si debbano annullare. Il riferimento è agli eventi traumatici, quali incidenti quasi mortali, attacchi terroristici, esperienze di guerra, che imprimono nella mente dell'interessato suoni, immagini, odori, responsabili di un disturbo mentale noto come sindrome da stress post traumatico. «Troppa adrenalina dopo un evento traumatico crea una memoria eccessivamente forte, eccessivamente emotiva e troppo profondamente radicata. Il nostro obiettivo - hanno spiegato gli esperti di Harvard - non è quello di far dimenticare ma di trasformare questa memoria speciale in una memoria normale». In altri termini, modificare il contenuto della memoria. Per ridurre l'adrenalina indotta dal trauma i ricercatori di Harvard hanno somministrato a un gruppo di 40 pazienti per 19 giorni dopo il trauma un farmaco contro l'ipertensione chiamato propranololo che interferisce con l'azione degli ormoni dello stress a livello cerebrale. Il risultato è stato positivo: una settimana dopo la fine della terapia i soggetti che avevano preso la pillola erano in grado di raccontare l'evento traumatico di cui erano stati protagonisti senza sintomi di stress e, a distanza di tre mesi, con minore ansia. Allo stato attuale per la sindrome da stress post traumatico non esiste una cura vera e propria. Uno degli approcci più comuni e controversi è quello di far rivivere gradualmente ai pazienti le esperienze che essi hanno subito al tempo del trauma in un ambiente che considerano sicuro. La disponibilità di un farmaco che aiuti o addirittura assicuri il superamento dell'evento traumatico mediante la sua cancellazione è dunque ritenuta una valida alternativa. Un'alternativa, peraltro, non meno controversa della rimozione, per reviviscenza dell'evento, del trauma. A destare perplessità, dal punto di vista etico, è il metodo farmacologico in sperimentazione ad Harvard: l'interazione su strutture e processi cerebrali il cui effetto è quello di modificare il contenuto dei ricordi. Secondo il Consiglio di Bioetica della Casa Bianca «cambiare il contenuto delle nostre memorie alterandone le tonalità emotive, per quanto desiderabile per alleviare sensi di colpa o consapevolezze dolorose, potrebbe sottilmente cambiare chi siamo». Inoltre, ha ribadito il Consiglio di Bioetica, «cancellare la memoria di esperienze terribili rischia di renderci insensibili alla sofferenza e alle ingiustizie di cui sono vittima gli altri».
Elena Salvaterra



Liberazione, 29.12.05
Il ministro Storace annuncia che metterà mano alla mitica legge-Basaglia sulla psichiatria, uno dei vanti della cultura e della politica italiana degli anni ’70. E’ in atto una ondata reazionaria dinnanzi alla quale una parte della sinistra vacilla
Aborto, droghe, carceri e ora i manicomi
L’Italia sta tornando agli anni ’50
di Piero Sansonetti


Il ministro della Sanità Francesco Storace ha annunciato che metterà mano alle legge 180, cioè alla famosissima legge Basaglia, una di quelle grandi riforme che negli anni ’70 cambiarono la faccia dell’Italia, la fecero uscire dalla sua cultura paurosa, clericale e reazionaria, la fecero diventare un paese moderno e sotto certi aspetti di avanguardia. Franco Basaglia sapete tutti chi è: uno psichiatra di prim’ordine e uno dei maggiori intellettuali italiani del dopoguerra. Fu lui che fondò e diresse una scuola di pensiero e di lavoro che chiedeva - e sperimentava - la fine dei manicomi, cioè negava che esistesse una soluzione carceraria e repressiva ai problemi della psiche. La sua scuola ebbe una risonanza così grande nel mondo intellettuale e politico, non solo italiano, di quegli anni - che erano anni un po’ più vivaci di quelli che stiamo vivendo - da produrre addirittura una legge dello Stato che stabiliva la fine dei manicomi, realizzando così quel miracolo, assai raro, che è la trasformazione in leggi - cioè in atti concreti e che riguardano tutti – del pensiero e dell’elaborazione culturale. Miracolo che con una parola meno altisonante potrebbe definirsi così: “Politica”.

Non c’è da stupirsi se un uomo come Francesco Storace - che non ha costruito la sua educazione sui libri o nelle aule dell’Università, ma piuttosto nelle sezioni del Msi e nei circoli fascisti romani - non conosca bene Basaglia, il suo pensiero, e non abbia in simpatia le leggi che ha ispirato. Il problema è che l’iniziativa di Storace non è affatto isolata, sta dentro un disegno, più o meno organizzato e consapevole, della destra italiana: quello di cancellare la grande stagione delle riforme che hanno modernizzato questo paese tra il 1969 e il 1979, e di sospingere l’Italia, di nuovo, verso il grigiume mediocre e borghese degli anni ’50.

Vediamo quello che è successo nell’ultimo anno, o poco prima. La legge Fini sulle droghe, che mette una pietra tombale su ogni pensiero vagamente antiproibizionista.

L’offensiva della Chiesa sulla fecondazione assistita, e poi sull’aborto, che punta all’abolizione della legge sull’interruzione della gravidanza del 1978, e al ritorno di una idea subalterna e ancillare del ruolo della donna. Poi c’è stata la cancellazione della legge Gozzini, che aveva portato un po’ di umanità nel sistema delle pene e nella condizione dei carcerati.

Ora l’idea di cancellare Basaglia e di tornare ai manicomi.

Sullo sfondo l’attacco continuo allo statuto dei lavoratori e una riforma costituzionale che di fatto abolisce il servizio sanitario nazionale, cioè una delle più grandi conquiste ugualitarie di tutto il secolo scorso.

Qual è il filo comune, che unisce tutti questi passi e questi provvedimenti? E’ la concezione della politica e dello Stato secondo la quale compito essenziale – quasi esclusivo - dei poteri pubblici è proibire, reprimere, usare la legge per garantire la tranquillità della gente perbene e la “normalità” dei comportamenti. La civiltà sta nella “normalità” contrapposta alla “diversità” eversiva. E le possibilità di sviluppo sono affidate alla macchina economica, che funziona molto meglio in assenza di turbolenze culturali, di conflitti sociali, di sforzi per costruire beni comuni e per eliminare gli squilibri nella ricchezza.

E’ una offensiva restauratrice in piena regola. Per certi aspetti assolutamente italiana, per altri collegata alla ventata reazionaria dell’America di Bush. E la sinistra non sembra molto attrezzata alla controffensiva.

Si mostra titubante, impaurita, sembra pensare che almeno un po’ di restaurazione in fondo è giusta. Se la sinistra non esce da questo difensivismo, dalla subalternità, dalla paura di essere se stessa, rischia di subire una sconfitta storica.


Liberazione, 29.12.05
Quale marxismo per il XXI secolo?
Tornare a Marx non basta. Troppo produttivista
di Giuseppe Prestipino


Una recensione di Tonino Bucci a Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, volume curato da Marcello Musto per la Manifestolibri 2005, contenente gli Atti di un convegno internazionale tenutosi a Napoli, ha offerto spunti per un dibattito, ospitato da questo giornale. Sono stato presente in quel convegno, so di un altro nutritissimo convegno sulla Mega (la nuova edizione delle opere di Marx ed Engels) organizzato in Giappone ed intervengo sollecitato dall’articolo scritto da Luigi Cavallaio nel quale, pur con la consueta competenza, egli non ha rinunciato a dichiarare i suoi noti rimbrotti per il cosiddetto "ecomarxismo", che a suo dire non potrebbe in nessun modo «rivendicare la propria discendenza da Marx».

Mi limito a due scarne notazioni: l'una sulla “discendenza”, ossia sul rapporto tra teoria (sociale) e politica; l'altra sul marxismo come scienza economica.

Vi sono teorie che possono guidare l’agire politico o esser fatte proprie da quest’ultimo. Ma, se tra la teoria e la politica che vuol appropriarsene, l’intervallo temporale oltrepassa l'arco di un “secolo lungo”, anche la migliore teoria dev’essere tradotta come dev’essere tradotto quel che è scritto, ad esempio, in portoghese per essere letto in un’altra lingua. E’ questo uno degli insegnamenti di Gramsci. E il buon traduttore-filologo pubblica la sua traduzione con il testo originale a fronte o, quanto meno, intercalando nella sua traduzione alcune parentesi contenenti parole-chiave in lingua originale. Fuor di metafora: il politico odierno non può proporsi, semplicemente, di “ritornare a Marx”; deve farci sapere su quale “traduzione di Marx” cade la sua scelta. Il passaggio da una teoria del XIX secolo a una politica d’oggi dev’essere mediato sul piano teorico prima che su quello politico. Ed è un falso problema quello che in un pensatore distingue (come fa, tra gli ultimi, Guido Carandini) lo scienziato dal profeta. Perché fare scienza è, nello stesso tempo, fare previsioni: che non è corretto chiamare profezie, se profeta è colui che parla in stato di semi-incoscienza, o colui per la cui bocca si rivelerebbe la parola di un dio. Le previsioni di Marx, come quelle di tutti i grandi, sono geniali ma contraddittorie: per certi aspetti si sono avverate per altri no. E anche Il Capitale, nel quale Marx non fa esplicite previsioni, ma compie soprattutto una rigorosa analisi sul suo tempo, «non è esente da contraddizioni » (Maria Turchetto).

Vengo al marxismo come scienza economica. Ogni scienza economica ha per oggetto scambi: di merci o, più in generale, di beni dei quali sia presupposta una scarsità. L’economia, prima che economia politica, sarà dunque economia ecologica, perché l’ecologia assume come suo oggetto precipuo la scarsità o l’esauribilità, oltre che dei beni prodotti dall’uomo, anche di quelli disponibili nell’ambiente naturale.

Consideriamo gli scambi tra gli esseri umani e l’ambiente in generale. L’animale umano non si adatta più all’ambiente, ma adatta a sé l’ambiente. Se l’uomo comincia a mettersi in testa di poter trasformare febbrilmente anche se stesso, nei propri bisogni e caratteri biologici e psichici, costringendo la natura a inseguire, e persino a precedere, quelle sue metamorfosi (o “metastasi”) esistenziali, allora una sorta di follia suicida si impadronisce degli umani e sembra impadronirsi anche dell’ambiente naturale. Gli umani intervengono dapprima sulla natura, per appropriarsene, mediante artifici. In un secondo tempo, trasformano in larga misura la natura stessa, facendone, per così dire, una natura artificiale. Ma, da ultimo, tendono a creare esseri umani artificiali.

Marx, il cui oggetto di studio è il modo capitalistico, deve a buon diritto prescindere dalla “natura fisica” dei prodotti, benché, nella Critica al Programma di Gotha, dichiari: «Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è fonte dei valori d’uso (e di tali valori consta la ricchezza reale!) come il lavoro che in sé è soltanto espressione di una forza naturale». Ma, quando il Marx dei Grundrisse scorge le prime avvisaglie di un processo che può preludere al superamento di quel modo di produzione, egli prevede allora il ruolo crescente della scienza tecnologizzata come nuova forza produttiva, per effetto della quale diverrebbe cosa «miserabile» l’equazione tra valore e quantità di lavoro umano salariato. Non prevede, invece, il crescente impiego della natura e delle sue risorse, che è strettamente correlato agli sviluppi portentosi di quelle tecnoscienze.

E, prefigurando la società futura, scrive che la «vera ricchezza» consisterà, non più nei valori di scambio derivati da quell’equazione, ma nei valori d’uso; anzi - così interpreta Charles Bettelheim - nell’«accrescimento dei valori d’uso».

Ed ecco il punto debole dell’economia critica, ovvero il debito involontario di Marx proprio verso la da lui criticata realtà capitalistica: l’«immane raccolta di merci», che è l’immagine emblematica con la quale si apre la sua opera maggiore, diverrebbe pur sempre, nella società futura, un «immane» accrescimento, invece che di valori di scambio, di valori

d’uso? Ma, allora, l’accusa che Bettelheim rivolge all’economia sovietica, di accogliere una forma-valore capitalistica per adattarvi presunti contenuti socialistici, una simile o meglio una simmetrica accusa non meriterebbero forse anche gli iniziatori del materialismo storico, per aver fatto proprio l’anelito capitalistico verso un illimitato «accrescimento», inteso di fatto come un vino vecchio da riversare (o occultare) entro una botte nuova, ossia entro una (presunta) forma comunistica?

Sia chiaro che gli ambientalisti seri non intendono demonizzare l’accrescimento dei valori d’uso come se fosse il Male assoluto. Raniero La Valle ha detto: chi governa il mondo s’è accorto che, se a parer suo il tenore di vita statunitense «non è negoziabile», l’ambiente restringerà inevitabilmente gli spazi di vita per gli umani; perciò chi governa il mondo ha scelto un suo pensiero “apocalittico” in base al quale i pochi si salveranno e i più saranno reietti o dannati. Una tale opzione “apocalittica” è venuta dopo gli anni dell’euforia neo-liberista e della globalizzazione capitalistica incontrastata, allorché si predicava che prima o poi, chi più chi meno, tutti avremmo direttamente o indirettamente beneficiato del nuovo exploit della “libera” economia, tutti saremo divenuti più o meno ricchi. Ebbene la messa in guardia da un indiscriminato accrescimento dei valori d’uso - non soltanto delle merci o dei valori di scambio - nasce dal fondato timore che tutti possano ritrovarsi (più o meno) poveri a breve scadenza: che tutti siano condotti controvoglia all’ascetismo.

In Sulle tracce di un fantasma, André Tosel ci fa capire che certo marxismo prolunga l’hegeliana cattiva infinità o persino l’hegeliano Spirito Assoluto, insiti nella moderna illimitata volontà di dominio tecno-capitalistica. La prolunga, sia pure soltanto come volontà di dominio sulla natura, e non più di dominio proteso anche sugli esseri umani. E, aggiungo (rimando al volume Accadde domani.Tra utopia e distopia, Edizioni Aracne, 2005), se il dominio è accompagnato sempre da una qualche forma di violenza, la nonviolenza non dovrebbe estendersi anche a quel che è fragile e/o esauribile nella natura extra-umana? Dovremmo sognare una liberazione senza alcun dominio. E quindi connotata dalla coscienza del limite. Non vorremmo regnare-sul-mondo o avere-il-mondo, ma essere-nel-mondo.


Liberazione, 29.12.05
Intervista al professor Gigi Attenasio, psichiatra di lungo corso, sulle ultime esternazioni del ministro della Salute. «Difendo la legge Basaglia, una conquista di civiltà»
«Storace non tocchi la 180, l’Europa ce la invidia»
di Frida Nacinovich


Buongiorno professor Attenasio. Sa che il ministro Storace vuole mettere mano alla legge Basaglia? L’ha detto giusto due ore fa. «Cosa? ne è sicura». Le leggo la notizia di agenzia: “Il governo metterà mano alla legge 180, si tratta di dare una prospettiva di sicurezza alle famiglie”.

Breve silenzio dall’altra parte del telefono. Poi Gigi Attenasio, medico-psichiatra di grande esperienza, fa sapere di essere «preoccupato, veramente preoccupato. Proprio non mi aspettavo una notizia del genere. Non capisco come mai si voglia mettere mano a una legge che ci è invidiata in tutto il mondo». Eppure Francesco Storace l’annuncio l’ha dato, in pompa magna. E chi se ne frega se fra un mese si scioglieranno le Camere in vista delle elezioni politiche di aprile.

Gli ultimi giorni del governo Berlusconi sembrano una corsa impazzita. Dalla legge elettorale a quella sull’aborto, per finire ora con la 180 sulla tutela del disagio mentale. Tutto da rivedere, tutto da (contro) riformare. Indietro tutta. «Incredibile - dice Roberto Musacchio, eurodeputato di Rifondazione comunista – La legge Basaglia è una conquista di civiltà che viene apprezzata in tutta Europa e rappresenta un vero e proprio punto di riferimento.

Per questo le dichiarazioni del ministro Storace sono inqualificabili e da respingere ». Il Verde Paolo Cento scuote la testa: «Per fortuna il governo ha i giorni contati ed i propositi di Storace di rivedere la 180 non possono essere realizzati».

La legge 180, meglio conosciuta come “legge Basaglia” è stata approvata ed è entrata in vigore nel 1978, è passata alla storia come il provvedimento che ha chiuso i manicomi in Italia. Essa ha vietato le nuove ammissioni in manicomio e sancito che non si costruissero più ospedali psichiatrici. Dal 1978 in poi, così, sono stati vietati nuovi ricoveri e si sono istituiti i centri d’igiene mentale (prima dell’entrata in vigore della legge, invece, bastava una firma del medico per rinchiudere per sempre in manicomio un malato considerato pericoloso «per sé e per gli altri»).

«Una legge democratica, di civiltà, di libertà», dice il professor Attenasio.

Trent’anni dopo l’approvazione della legge Basaglia, qual è il bilancio?

Sono stati chiusi posti non solo violenti ma anche dannosi da un punto di vista terapeutico.

Abbiamo ancora davanti agli occhi i devastanti esiti dell’internamento a vita. Non so cosa Storace intenda con quel «mettere mano». Bisognerebbe mettere mano al fatto che c’è stata una carenza di risorse.

Eppure il governo taglia i fondi al servizio sanitario nazionale, alla sanità pubblica.

Noi siamo per un servizio assolutamente pubblico. Il problema della salute mentale non è mercificabile. E’ un bene collettivo, così come lo è la salute.

Qualcuno ha detto che la 180 era una legge quadro e non dava strumenti concreti. Non è vero. Nei posti in cui sono stati messi in piedi i centri sono stati fatti molti passi avanti. Ci sono esperienze esemplari. Penso ad Arezzo, dove ho lavorato per molti anni e dove si è arrivati ad un superamento effettivo del manicomio. L’équipe del professor Pirella portava avanti l’esperienza del superamento dell’Ospedale psichiatrico. Mi viene in mente Trieste e tante altre realtà dove la legge è stata applicata alla lettera e se ne è dimostrata la bontà.

Il ministro Storace è stato chiaro:«E’arrivato il tempo di ridiscutere la legge Basaglia».

Lo ripeto: questa notizia mi sconvolge e mi preoccupa. Lo stravolgimento della legge elettorale, l’attacco, gravissimo, alla 194: stanno cambiando tutto quello che riescono a cambiare. Invece di mettere mano alle risorse, si cerca di cambiare la filosofia delle leggi.

A 20 giorni dallo scioglimento delle Camere,pare che Storace più che a confrontarsi seriamente con i problemi del paese pensi alla sua campagna elettorale.

Siamo andati a Strasburgo, invitati dal parlamento europeo, il presidente Borrel ci ha ascoltato con attenzione e poi ha detto che voleva fare in Europa quello che si è fatto in Italia.

Psichiatria democratica è diventata psichiatria democratica europea. In Italia abbiamo una legge conquistata non in paludati convegni ma nelle assemblee generali, nelle piazze, con la gente. Basaglia diceva che la legge è diversa dalle altre perché è stata fatta con la gente. Non c’è stata una trasformazione politica a tavolino, la legge è stata fatta sulla base delle lotte nei manicomi.

Più che mettere mano alla 180,il governo dovrebbe mettere mano al portafoglio per applicarla.

Spero che il mondo democratico, intellettuale, dei tecnici, dei politici, della cultura si ribelli. Personalmente mi auguravo che nell’ultimo mese prima dello scioglimento delle Camere i ministri del governo Berlusconi stessero più tranquilli.

Invece si profila una nuova crociata del ministro della Salute.

Cambiare la 180? Spero non ci riusciranno, sarebbe veramente grave. Tutti i ministri della salute dall’ottanta fino ad oggi - e non erano tutti comunisti, estremisti del bene comune - quando andavano all’estero venivano visti come portatori di una novità importante.

I vari tentativi di cambiare la legge Basaglia, penso ad Altissimo, a De Lorenzo, non sono andati in porto. Spero che Storace vada in Europa e ascolti quello che hanno da dirgli.



Liberazione, 29.12.05
«Dio ama l’embrione». L’«informe» è già uomo
Papa Ratzinger all’udienza generale: «L’essere umano considerato nel suo inizio pieno e concreto». Dossier vaticano contro l’aborto «strage degli innocenti». Il cardinale Trujillo tesse le lodi di Fallaci e Pera e dice che gli aborti sono peggio della guerra
di Fulvio Fania


Dio ama l’embrione. L’aria in piazza San Pietro è gelida ma l’argomento è surriscaldato e il Papa alza la fiamma. Parla infatti dell’embrione già come creatura umana, di «azione divina all’interno del grembo materno », di esseri ancora «informi» nell’utero e tuttavia già conosciuti ed amati da Dio.

Benedetto XVI si ripresenta davanti alla basilica coperto dal mantello rosso e da quel copricapo purpureo ornato di ermellino, tanto simile al berretto di babbo natale, che era rimasto deposto nei bauli dai tempi di Giovanni XXIII. Non è però uno scherzo la “catechesi” letta da Ratzinger. E’ il commento alla seconda parte del salmo biblico 138: Dio omnisciente tutto vede e tutto sa dell’universo e del suo vero «prodigio», che è proprio l’uomo. La Sacra scrittura canta così le lodi del Signore: «Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era già scritto nel tuo libro». Il Papa spiega che l’espressione ebraica è stata interpretata «da qualche studioso della Bibbia» come riferita precisamente all’embrione, «piccola cavità ovale e arrotolata ». Ed eccoci dunque balzati dalla poesia del salmista alla fisicità della gravidanza.

Come sempre Ratzinger è attento all’esegesi filologica e stavolta mette in evidenza anche le parole del salmo che descrivono la «tessitura» del corpo in formazione e la forma che esso va assumendo come per maestria di un vasaio. Aggiunge però una frase a braccio e così fa ben intendere che cosa gli prema davvero. Questa la sua sottolineatura: «Appare la grandezza di questa piccola creatura umana non nata, formata dalle mani di Dio e circondata dal suo amore. Un elogio biblico dell’essere umano fin dal primo momento della sua esistenza».

Non fa alcun cenno diretto all’aborto; risulta tuttavia chiarissima l’equivalenza tra uomo ed embrione, tutte creature seguite dallo sguardo amorevole di Dio. L’embrione, insomma, sarebbe già uomo o donna. Violarlo sarebbe un’offesa a Dio. A trarre le conseguenze del concetto provvede subito l’agenzia Fides, organo di Propaganda fide. Nelle stesse ore, infatti, la potente congregazione vaticana diretta dal cardinale Crescenzio Sepe, pubblica un lungo dossier contro l’aborto. Il documento punta alle emozioni forti, alla maniera del Movimento per la vita: «Strage degli innocenti», breve nota sulla rappresentazione artistica degli infanticidi e del massacro di Erode. Dunque l’aborto sarebbe assassinio e così lo giudicò la Evangelium vitae di Giovanni Paolo II. Il dossier elenca i principali testi del magistero papale e segnala in particolare le posizioni del cardinal Ratzinger che nel 1987 si domandò appunto perché l’aborto non suscitasse la stessa indignazione dell’infanticidio.

Come prefetto della Dottrina, il teologo bavarese si occupò a lungo dei vescovi suoi connazionali e dei consultori cattolici che facevano parte della rete pubblica nei vari Lander della Germania. Fu un lungo braccio di ferro; da un lato Wojtyla, il Vaticano e il cardinale di Colonia Meisner, dall’altro il presidente dell’episcopato tedesco Lehmann e la maggioranza dei vescovi. Alla fine scattò l’ordine: abbandonare il sistema consultoriale visto che per legge vi si rilasciano certificati di consulenza necessari per abortire. I cattolici tedeschi hanno tuttavia aggirato l’ostacolo costituendo nuove strutture non controllate dalle diocesi ma da associazioni del laicato.

Quella è stata comunque una memorabile battaglia per il cardinale Alfonso Lopez Trujillo, capodicastero vaticano per la famiglia, colombiano amico dell’Opus Dei e dei conservatori e sostenitore di Ratzinger al Conclave. C’era molto di suo nel discorso che il 3 dicembre Benedetto XVI ha rivolto ad un gruppo di vescovi latino-americani, un durissimo attacco al «crimine dell’aborto » e alle coppie di fatto dai toni immediatamente politici. Trujillo, che sta preparando un incontro mondiale delle famiglie per il 2006 in Spagna, sa di poter influire sui temi a lui cari. Nel dossier di Fides compare anche una sua intervista. Il succo è che la Chiesa di Ratzinger deve andare oltre la “Humanae vitae” di Paolo VI assumendo appieno le convinzioni del nuovo Papa. «Se l’embrione è essere umano - sostiene il cardinale – deve essere al contempo persona umana». Quindi sopprimere le cellule embrionali è un omicidio e gli aborti sono «qualcosa di spaventoso più di una guerra» e vanno giudicati nei tribunali. Meno male, per Truijllo, che ci sono “laici” come Oriana Fallaci e Marcello Pera, pronti ad associarsi alla «ribellione contro questo crimine». Che importa poi se hanno appoggiato la guerra in Iraq con tutti i suoi massacri? Completamente diversa l’atmosfera in mezzo alla neve che è caduta a Milano dove si affollano decine di migliaia di giovani cristiani - cattolici, protestanti, ortodossi uniti nella Comunità di Taizé. Arrivano da paesi e chiese differenti d’Europa, ogni fine anno in una città diversa. Questo è il primo appuntamento senza il fondatore, fratello Roger Schutz, assassinato il giorno dopo Ferragosto. Al suo posto ora c’è frère Alois; la guida di questo movimento ecumenico e di pace è passata ad un cattolico ma continuano a giungere gli auguri dei patriarchi di Costantinopoli e di Mosca, dell’arcivescovo di Canterbury, del Consiglio ecumenico delle chiese. Dal Vaticano è partito un messaggio non del Papa ma a suo nome. «L’esempio del fondatore di Taizé e la testimonianza di Giovanni Paolo II a favore del dialogo e della pace - vi è scritto - vi incoraggi ad essere artigiani di pace».



Liberazione, 29.12.05
Parabole
Chi sono i veri cristiani

Caro direttore sto seguendo con attenzione e con interesse il dibattito che si sta sviluppando attorno alla pubblicazione del libro delle parabole di Gesù e della sua pubblicità sul nostro giornale. Premetto che io sono credente, ma non praticante, e credo nelle molte anologie che ci sono tra la dottrina cristiana e il comunismo. Parlo di dottrina appunto per dividerla dall’operato di alcuni alti prelati che nel corso dei secoli hanno scritto pagine indegne della storia della chiesa. Personalmente penso che la pubblicazione di quelle parabole sia anche un ringraziamento a chi ha davvero colto il senso dell’essere cristiano e mi riferisco in particolare ai vari teologi della liberazione e ai migliaia di preti di strada che danno la loro vita per i più sfortunati… Lo spirito della pubblicazione, immagino, non era quella di giustificare l’operatività della chiesa come istituzione ma di mettere in rilievo che moltissime volte il pensiero di Gesù è molto più vicino al modo di agire di un comunista che di un uomo di chiesa. E’ ovvio che il nostro giornale come il nostro partito, cosa che fanno ampiamente, si debbano sempre battere affinché si raggiunga una vera laicità dello Stato e che l’ingerenza della chiesa negli affari italiani diminuisca sempre di più.
Roberto Longobardi
Torre Annunziata (Na)



Liberazione, 29.12.05
Questione cattolica e sinistra alternativa
di Domenico Jervolino


Da alcuni anni e per diverse ragioni è riemerso con forza nella vita politica italiana un dato che appartiene ai tempi lunghi della storia del nostro paese, vale a dire quel complesso di problemi che con una formula divenuta quasi classica si riassumono nel termine di “questione cattolica”. Questa riemersione è avvenuta paradossalmente nello stesso tempo in cui entrava in crisi l’assetto materiale della costituzione repubblicana che era stato caratterizzato per quasi un cinquantennio dalla presenza maggioritaria del partito di ispirazione cattolica. Un vasto retroterra cattolico è venuto allo scoperto allorché non ha avuto più una mediazione politica che in qualche modo funzionava anche da filtro. Fatto è che si è registrato un intervento sempre più diretto delle gerarchie ecclesiastiche nella vita pubblica e un ricompattamento del variegato mondo cattolico sotto la guida non solo pastorale ma anche politica della Conferenza episcopale mentre si è consolidata la posizione di privilegio dell’istituzione ecclesiastica, anche per effetto del nuovo concordato e del finanziamento dell’otto per mille gestito in modo fortemente centralizzato. Tutto ciò ha coinciso con una nuova rilevanza del fenomeno religioso nella società contemporanea, a livello globale, e con una particolare virulenza dei diversi integralismi che si sono rivelati capaci non solo di incidere nella vita quotidiana e nella società civile ma hanno avuto un impatto politico forte ed inedito fino a suggerire l’idea di uno scontro di civiltà o di nuove guerre di religione. Anche se si rigetta e anzi si contrasta questo tipo di teorizzazione, come è giusto fare, non si può non rilevare a) che occorre comunque fare i conti col ruolo delle ideologie e del simbolico nel mondo d’oggi b) che il solo fatto che il tema di un conflitto fra culture e religioni venga agitato dà corpo a questa prospettiva e le conferisce una capacità d’incidenza sotto molti aspetti paradossale (come quella di spettri in se stessi inconsistenti, ma che diventano fattori reali di paure e di comportamenti socialmente e storicamente rilevanti).
Questione cattolica (in Italia ma con riflessi e interazioni globali, se non altro per il ruolo mondiale della Chiesa cattolica e del papato) e questione religiosa (a livello più generale) non coincidono ma hanno sicuramente molti punti di contatto e interrelazioni.
Sotto molti aspetti la cultura laica e di sinistra è apparsa sprovveduta di fronte a tale complessa problematica. Inoltre pesa nel nostro paese una diffusa ignoranza in materia religiosa e teologica, che sotto molti aspetti è stata alimentata dalla stessa istituzione ecclesiastica, che ha rivendicato per sé il monopolio di tale cultura.
In fondo la quasi identificazione fra cristiano, cattolico, uomo di fede o di religione, finisce per essere assunta come un dato scontato, laddove esso non lo è affatto.
Questo ha significato soprattutto subalternità e conformismo, rispetto alla forma prevalente del cattolicesimo clericale, e come fenomeno di reazione la ripresa di forme di anticlericalismo rozzo che sembravano appartenere al passato. Dal punto di vista di una sinistra alternativa e di una forza comunista moderna, questa situazione di debolezza teorica e pratica mette in questione un patrimonio prezioso che si era configurato soprattutto a partire dalla fase postconciliare e dal 68-69, vale a dire il dato della militanza a pieno titolo di credenti nel movimento operaio, non semplicemente come alleati o compagni di strada ma come soggetti che scelgono di giocare e di verificare la propria identità al vaglio del conflitto di classe e dell’impegno politico. In questa prospettiva la critica dell’alienazione religiosa (che può essere svolta anche in una prospettiva di fede) e della commistione fra chieseistituzioni e potere apre la strada di una nuova laicità che accomuna piuttosto che dividere credenti o no, impegnati in una stessa lotta di liberazione. Questo patrimonio sta per molti aspetti alle nostre spalle, in parte è certamente datato, ma l’esperienza dei movimenti degli ultimi anni per la pace e per un altro mondo possibile indurrebbe piuttosto a rivisitarlo che a cancellarlo. E’ vitale riprenderlo se si vuole veramente far crescere una sinistra alternativa in Italia.

venerdì 30 dicembre 2005

Il Manifesto, 29.12.05
Storace: «Cambiamo la legge 180»
Dopo quella sull'aborto, il ministro della Salute prende di mira la legge 180 che portò alla chiusura degli ospedali psichiatrici. «Ci sono cose che dopo trent'anni vanno ridiscusse»
LEO LANCARI


Dopo la 194, la 180. Dopo l'attacco alle donne e alla possibilità offerta loro dalla legge di fare ricorso all'interruzione di gravidanza, adesso nel mirino sono finiti i diritti delle persone affette da una malattia mentale, quei «matti» che la destra più reazionaria vorrebbe tornare a chiudere dentro un manicomio. E' questa l'ultima uscita del ministro alla Salute Francesco Storace, che a meno di quattro mesi dalle elezioni ha annunciato ieri di voler «mettere mano» alla legge simbolo dell'antipsichiatria, quella 180 conosciuta anche come legge Basaglia, dal nome dello psichiatria che 27 anni fa si battè per la sua approvazione e che portò alla chiusura dei manicomi nel nostro paese. Il governo «metterà mano alla legge 180, perché si tratta di dare una prospettiva di sicurezza alle famiglie» ha detto ieri Storace, precisando che non è però sua intenzione «toccare l'impalcatura della legge». «Tuttavia - ha aggiunto - ci sono cose che dopo trent'anni vanno ridiscusse». Parole che non mancano di suscitare polemiche anche dure nei confronti del ministro, accusato da più parti di aver sollevato un problema solo a fini elettorali e perdipiù senza aver prima ascoltato le persone - famiglie, ma anche esperti - direttamente interessate. Una valanga tale di critiche da costringere, nel pomeriggio, il ministero a una rettifica che suona come una secca frenata rispetto al progetto annunciato. «Le affermazioni rilasciate oggi sulla legge 180 - è scritto nella precisazione - si riferiscono evidentemente a ipotesi di programma per il futuro, che saranno precedute da un'ampia, seria e approfondita consultazione con tutti i soggetti interessati».

Che l'uscita del titolare della Salute sia soprattutto una manovra elettorale, ci sono pochi dubbi. Lo scioglimento delle camere è già fissato infatti per il prossimo 29 gennaio e il governo non avrebbe materialmente il tempo di modificare la 180 neanche se tutta la maggioranza fosse d'accordo con Storace (e non è così, visto che oppositori al progetti del ministro ci sarebbero anche all'interno della stessa An). Dunque il riferimento a un problema pure reale, come le situazioni di disagio e sofferenza vissute dai familiari di molti malati psichici, è suonato ieri ai più come puramente strumentale. Del resto, e forse non a caso, Storace si guarda bene dall'entrare nei particolari dell'eventuale riforma di una legge che in Italia riguarda 600 mila malati gravi, 50 mila dei quali resistenti alle cure. L'unico disegno di legge di modifica della 180 discusso in questa legislatura è quello presentato dalla deputata di Forza Italia Maria Burani Procaccini. «Una legge che rilancia le strutture private come luoghi in cui effettuare il trattamento sanitario obbligatorio, ma soprattutto che consente ricoveri coatti senza limite di tempo», attacca il presidente nazionale di Psichiatria democratica Rocco Canosa. «Di fatto sarebbe un ritorno in breve tempo agli ospedali psichiatrici e un attacco alle libertà personali».

Non la pensa diversamente neanche Rosi Bindi, che in passato ha difeso senza riserve la 180. L'ex ministro della Sanità, oggi esponente della Margherita, prima ironizza: «Ieri la 194, oggi la 180: Storace gioca a tombola». Poi, più seria: «E' solo propaganda elettorale, perché Storace non parla della 180 come ha parlato della legge sull'aborto, perché non dice che la legge va applicata? Gli desse i finanziamenti di cui c'è bisogno e vedrà che la legge funziona. Sono i detrattori della 180 che non la fanno funzionare». D'accordo con Storace si è detto invece il sottosegretario alla Salute Elisabetta Casellati: «Quello che è mancato - spiega - è stato un aiuto alle famiglie che accoglievano i loro cari all'uscita dall'ospedale; famiglie impreparate a fornire un adeguato sostegno e sulle quali esclusivamente pesava il carico assistenziale dei loro malati». Divise, infine, le associazioni dei familiari dei pazienti psichiatrici: mentre l'Arap, l'Associazione per la riforma dell'assistenza psichiatrica, plaude all'annuncio del ministro, per l'Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale si tratta solo di «una sciocchezza» motivata «da ragioni elettorali».

Il Manifesto, 29.12.05
LEGGE 180
L'ultimo spot del ministro
MARIA GRAZIA GIANNICHEDDA


E'dall'inizio della legislatura che il centrodestra, per dirla con le parole di oggi del ministro Storace, «vuole mettere mano alla legge 180» ma finora l'operazione non è andata in porto. Ci aveva provato per prima la onorevole Maria Burani Procaccini di Forza Italia, sostenuta da un tecnico, lo psichiatra Cantelmi, a cui Storace aveva affidato la responsabilità della salute mentale nella regione Lazio; ci ha riprovato la stessa parlamentare con l'ausilio del deputato Cè della Lega Nord, firmatari di un nuovo testo, anch'esso bloccato in commissione affari sociali della camera da pesanti contraddizioni interne al centro destra, oltre che dal lavoro dei parlamentari dell'opposizione e dalle critiche puntuali della maggioranza dei familiari e degli operatori. La marea di critiche dagli opposti versanti aveva così obbligato la commissione della camera ad avviare un'indagine conoscitiva «sull'attuazione del progetto obiettivo salute mentale», indagine tutt'ora in corso, anche se l'ultima seduta è del 12 febbraio 2002. Qual è allora la trovata del ministro, visto che quando il centro destra dichiara cosa vuol fare della salute mentale neppure al suo interno riesce a trovare un consenso minimo? Non dire più in quale direzione ci si vuol muovere, con la scusa di avviare «una grande campagna di ascolto», che dovrebbe verosimilmente ascoltare quegli stessi che i deputati hanno già ascoltato e che hanno detto ciò che il ministro Storace può leggere, come ogni cittadino, nel sito web della camera. Ma il parlamento è una sede scomoda, ci sono le opposizioni, bisogna ascoltare tutte le campane, occorre tener conto di dati e fatti e portare almeno qualche argomento, mentre a colpi di spot elettorali e di comunicati si può dire qualunque cosa per cavalcare un disagio che questo governo ha fatto crescere e che mai è stato legato ai diritti affermati dalla «180», ma sempre alle politiche delle regioni e delle aziende sanitarie, che sono oggi la sede vera dei poteri e sono i luoghi in cui i diritti possono o no diventare servizi per le persone, culture della accoglienza e della convivenza.

E' su questo terreno concreto che il centro sinistra deve spostare il confronto, facendo il contrario del ministro Storace, indicando cioè nettamente in quale direzione intende indirizzare le risorse umane e finanziarie del servizio pubblico. Da molto tempo non è più vero lo slogan dei primi anni della riforma psichiatrica - la legge 180 è buona ma non è applicata perché mancano i servizi. Oggi i servizi ci sono, ancora insufficienti soprattutto al Sud, ma neppure qui è più questione di risorse ma di qualità, di modelli organizzativi, di culture degli operatori. Non basta dire no al manicomio: questo è ormai senso comune al punto che persino Storace ribadisce che «non si mette in discussione l'impalcatura delle legge». Occorre affermare con chiarezza che al posto del manicomio ci vuol ben altro che una rete di ambulatori con medici che prescrivono soprattutto o solo psicofarmaci, che lavorano su appuntamento e non vanno a casa dei pazienti; occorre riconoscere che è stato uno degli errori dell'ideologia aziendalistica separare gli interventi di tipo sociale da quelli sanitari e rincorrere la specializzazione dei servizi e la frammentazione delle prestazioni.

E' necessario dunque che anche le regioni storiche del centrosinistra, e quelle che il centro sinistra ha appena conquistato, intraprendano seriamente la strada della trasformazione dei servizi di salute mentale e dell'intero welfare, cercando di fare tesoro delle esperienze di trasformazione di cui l'Italia è ricca. Altrimenti il manicomio rinasce, e lo vediamo, e sarà più facile legittimarlo di nuovo nella legge.


Il Manifesto, 29.12.05
«La legge va rispettata»
Parlano i familiari dell'Unasam
ELEONORA MARTINI


«La legge 180 non si tocca. E' una legge di grande civiltà che il mondo ci invidia e che il nostro paese si è conquistato con tanta fatica». Non ha dubbi Gisella Trincas, presidente nazionale dell'Unasam, l'Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale, la federazione italiana che raggruppa oltre 150 organizzazioni dei familiari di malati psichici.

Eppure c'è il problema della solitudine delle famiglie. Allora qual'è il punto?

Il punto è una grave, colpevole, criminale, mancata applicazione della legge 180 che prevedeva centri di salute mentale aperti 24 ore al giorno; luoghi di ricovero ospedaliero umanizzanti, in grado di accogliere il malato e rispondere alla crisi; servizi capaci di sostenere adeguatamente le famiglie e di abbattere stigmi e pregiudizi. Ci sono territori in Italia, come Trieste, ma non solo, in cui i familiari non si sentono abbandonati perché sanno a chi rivolgersi e ottengono risposte immediate, di giorno come di notte.

Cosa suggerisce allora al ministro della salute Francesco Storace?

Se il ministro vuole rispondere alle sollecitazioni delle famiglie, non deve mettere mano alla legge 180, ma al portafoglio. Lo stato deve sostenere l'applicazione della norma con i finanziamenti adeguati. Quello che in questi 27 anni di legge non è mai stato fatto. La salute mentale è una priorità e deve essere posta come tale nei piani sanitari regionali. La 180 ha stabilito delle cose importanti: ha chiuso i manicomi e ha trasferito sul territorio la cura e l'assistenza delle persone con sofferenza mentale. Dobbiamo solo applicarla.

Perché oggi Storace pensa di poter mettere mano alla legge 180?

Il ministro utilizza in modo strumentale la questione della sicurezza delle famiglie. Per dare loro una prospettiva di sicurezza e rispondere ai problemi che si pongono durante la crisi del malato, bisogna finanziare i servizi e le piccole residenze di cura, dove le persone possono intraprendere un percorso di ripresa individualizzato.

L'intenzione è di ripescare la proposta di legge Burani-Procaccini...

La Procaccini prevede, per esempio, che i trattamenti sanitari obbligatori si possano fare anche nelle strutture private. Ripropone luoghi «altri», chiusi e separati, come erano i manicomi. E' sbagliato pensare di concentrare i malati in grandi strutture, dove i sanitari sono costretti a tenere insieme tante persone con gravi e differenti problemi psichici.

Dalla malattia mentale si guarisce?

Questo è il punto: se pensiamo che non si guarisca, allora diamo ragione a chi vuole chiudere i pazienti in grandi istituti. Ogni anno migliaia di famiglie chiedono un posto dove i malati possano andare a vivere:se il rapporto diventa conflittuale, per guarire è necessario separarsi. Il malato ha diritto di essere curato, come anche le famiglie hanno il diritto di non impazzire.


Il Manifesto, 29.12.05
«Ma l'esperienza di Trieste è un esempio per tutti»
«Se per sicurezza delle famiglie Storace si riferisce alla certezza delle cure, sono d'accordo con lui»
MATTEO MODER


«Se il ministro Storace parlando di maggiore sicurezza per le famiglie, intendeva certezza delle cure, garanzia dei diritti, nella libertà e nel rispetto della dignità del cittadino, per le persone che soffrono di disturbo mentale, non posso che dirmi d'accordo con lui». Giuseppe Dell'Acqua, direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste, psichiatra che lavorò con Basaglia fin dalle prime esperienze triestine, non ha dubbi su questi punti. «Certamente se per sicurezza si vuole intendere che le persone con disturbo mentale sono pericolose e in quanto tali vanno separate dalle famiglie, dal contesto sociale, stigmatizzate ulteriormente, non potrei certo trovarmi d'accordo. Voglio sperare - spiega Dell'Acqua - che si tratti della prima interpretazione e d'altra parte credo che quando Storace dice che non vuol mettere mano alla 180 penso che dica bene. La nascita due anni fa - prosegue Dell'Acqua - del Forum nazionale per la salute mentale, infatti, ha voluto sottolineare proprio questo aspetto: cioè la legge ha garantito dei diritti che ormai fanno parte del nostro codice genetico». «Evidentemente esiste una forte distanza tra queste affermazioni e le garanzie dei diritti e di libertà rispetto alla carenza, alla trascuratezza, alla violenza che vige in questo settore in quasi tutte le regioni italiane». Per Dell'Acqua sono proprio le regioni che hanno la maggiore responsabilità in questo settore assieme ai governi locali. «Quando dico che in tutte le regioni ci sono cattive pratiche - afferma - intendo dire che anche regioni di sicura tradizione democratica sono fortemente in ritardo rispetto alla legge 180, ovvero rispetto a quei livelli di cura che siano dignitosi. Basta pensare che nella maggior parte dei servizi di diagnosi e cura in Italia le persone vengono contenute, vengono legate. Basterebbe pensare che l'organizzazione triestina in questo settore, che è riconosciuta dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) come l'organizzazione modello rispetto alle forme della salute mentale comunitaria, è disattesa in moltissime regioni e aziende sanitarie. Non sono equamente diffusi in Italia, benché il numero sia in crescita, centri di salute mentale aperti 24 ore su 24 capaci di farsi carico dei cittadini con disturbo mentale e delle loro famiglie, di attivare percorsi abilitativi e riabilitativi, così forti come a Trieste».

Trieste ha scelto dimensioni di piccola scala. Ci sono quattro centri di salute mentale, uno ogni 60.000 abitanti, aperti 24 su 24, ciascuno con 8 posti letto. C'è un servizio ospedaliero di diagnosi e cura con pochissimi posti letto, ci sono delle strutture residenziali in numero limitato proporzionato alla popolazione e ci sono programmi di sostegno articolati per le persone con disturbo mentale e programmi di collaborazione con le cooperative sociali - che ormai datano circa 30 anni di vita - con capacità di inserimento nei percorsi di formazione lavoro e di lavoro estremamente significativi. «Circa 4.500 persone ogni anno - sottolinea Dell'Acqua - vengono in contatto con i servizi di salute mentale e su questo numero soltanto 6 su 100 mila sono i Trattamenti sanitari obbligatori (Tso), e ciò vuol dire poco meno di 14 persone rispetto alla media italiana di 35 per 100 mila». Il Dipartimento di salute mentale di Trieste riesce ad avvicinarsi al 5 per cento della spesa sanitaria regionale, mentre in Italia si sta sul 2,5 per cento «e questo - precisa lo specialista - solo per la sciatteria e la disattenzione dei governi locali e delle regioni. C'è un operatore per ogni mille abitanti, cioè abbiamo 248 operatori per 246.000 triestini. Siamo ovviamente al di sopra dell'indicazione minima che il progetto obiettivo della Bindi, nel 1999-2000, dava e cioè un operatore ogni 1.500 abitanti».

Altro risultato importante, frutto di una strategia che ormai riguarda tutta l'assetto dei servizi di salute territoriali, è il modello basagliano di de istituzionalizzazione. «Sia a Trieste sia per la Regione - dice Dell'Acqua - è il modello per la salute comunitaria centrata sul distretto sanitario». La spesa a Trieste è tutta per i servizi pubblici, non esistono privati: Il 96 per cento dei 16 milioni di euro destinati alla salute mentale va per attività territoriali. Altre regioni, pur contando sulle stesse somme, spendono moltissimo per cliniche e strutture private che forniscono bassissimi livelli di assistenza. «Questa organizzazione di servizi funziona - ha concluso Dell'Acqua - e funziona là dove è stata adottata come Aversa, Livorno e in alcune aree della Campania. Dove funziona c'è soddisfazione dei familiari, delle persone con disturbo mentale, delle amministrazioni locali e non ci sono rischi di pratiche violente».


Corriere della Sera, 29.12.05
Il quotidiano porta in edicola un libro con il commento di don Vitaliano, il «prete no global»
Le parabole di Gesù in vendita con «Liberazione», lettori divisi
Il direttore: Cristo non ha nulla a che fare con l’offensiva di Ratzinger


ROMA - Non che ci sia stata una levata di scudi ma a più di un lettore del quotidiano comunista Liberazione non è andato giù che in vendita con il giornale, il direttore Piero Sansonetti abbia portato in edicola un libretto dal titolo «le parabole di Gesù Nazareno», scelte e introdotte da don Vitaliano della Sala, il combattivo «prete no global» della provincia di Avellino. E non perché il curatore sia don Vitaliano, che piace molto alla sinistra per le sue battaglie a favore degli emarginati, dei poveri. Ma perché a «parlare» era Gesù. Ieri però, è arrivata lettera, dopo almeno una quindicina di repliche indignate, di una lettrice che non si è sentita «offesa» dalla pubblicazione. «Io, che mi definisco serenamente atea - scrive la signora Frangioni -, non mi sono sentita offesa o manipolata. Il messaggio di Gesù non è patrimonio esclusivo dei credenti». Parole che Sansonetti ha pubblicato con sollievo. Eppure, quindici a uno, continua a vincere quella cultura di sinistra che respinge un pensiero sentito pregiudizievolmente estraneo. Oppure no?
«Probabilmente sì - risponde il direttore di Liberazione - ed è per questo che abbiamo dedicato un’uscita della nostra collana sul "pensiero forte" a Gesù, peraltro inaugurata con il Manifesto di Marx e continuata con scritti di Beccaria, Robespierre, Rosa Luxemburg. Ci sarà anche san Francesco, io stesso farò l’introduzione, credo che non si possa prescindere, se si vuole parlare di non-violenza, da lui che l’ha praticamente fondata». Francesco-uomo forse non preoccuperà i lettori del quotidiano comunista più di Gesù-Dio. «Gesù - continua Sansonetti - non ha nulla a che fare con l’offensiva clericale di Ratzinger e di Ruini. C’è chi lo considera dio ma non mi riguarda, sono ateo. E però Gesù resta uno dei personaggi della storia che fa parte del pensiero forte. E il pensiero forte non appartiene soltanto ala cultura della sinistra».
E’ contento don Vitaliano. Il prete non più parroco per le sue idee, è certo che qualcuno, da lassù, ci abbia messo un «santo» zampino. «Mi avevano proposto un libro su di me ma io desideravo farne uno su Gesù, lo avevo confidato proprio il giorno prima ad un amico. Ebbene, il giorno dopo mi chiama Sansonetti e mi propone il libretto. Ho subito accettato».
Una sfida, parlare al popolo comunista, ateo e anticlericale? «Sono certo che Sansonetti l’abbia messo in conto qualche dissenso - dice don Vitaliano -. Ma mi sembra simpatico che si dialoghi con chi si professa comunista e ateo su una figura così forte. Si può leggere Gesù anche senza porsi il problema della fede. Il libretto l’ho dedicato a mio padre. Era di sinistra e profondamente laico; ho saputo dal barbiere, il giorno della mia ordinazione, che non era molto contento. Io non gli ho mai chiesto, quando era in vita, se credesse in Gesù-Dio ma so per certo che apprezzava il Gesù uomo».
Mariolina Iossa














LE INTERVISTE DI PresS/Tletter, 29.12.05
Continuano le interviste a personaggi impegnati nel campo dell’architettura e dell’arte. L’intervista e tutte le numerose altre comparse in questa rubrica sono raccolte all'interno della sezione Interviews di Channelbet e nel sito dell’Ordine di Roma: www.architettiroma.it Risponde Paola Rossi

1. Una auto-presentazione in quattro righe...
Donna …architetto: nell’ordine? Dipende.
Ho studiato architettura anche per sfuggire ad una particolare attitudine che mi voleva studiosa di matematica. Ho cercato disperatamente la fantasia e forse ci sono riuscita. Non sono io a poterlo dire ma certo il foglio bianco non mi fa più paura. Ogni volta è una nuova sfida e soprattutto un profondo cimento con me stessa.
Amo il cantiere e anche coprirmi di polvere : il momento più ” erotico” è quando si elimina per costruire, è l’inizio, è una promessa, poi cominciano i problemi……. Il momento più appagante è guardare le foto del lavoro compiuto anche se lì viene la voglia di ricominciare con un altro progetto . . . !
Punto di svolta sono stati l’incontro con l’analisi collettiva di Massimo Fagioli ed il rapporto con lui.

2. Ti sei occupata a lungo dei concorsi di architettura. Ce ne vuoi parlare?
Ho inventato e coordino da oltre sette anni l’Areaconcorsi dell’ordine degli architetti di Roma.Ho fatto quello che avrei voluto qualcun altro avesse fatto per me …Perché in Italia, ancora nel 1997, il concorso di architettura non esisteva. Era un’occasione per pochi, una eccezione che confermava la regola. E la regola era “ grandi concorsi per architetti gia ‘grandi’ “. Avevamo visto la stagione dei concorsi francesi e assistito all’epico periodo barcellonese che aveva proposto la possibilità di trasformare intere aree urbane ed offerto possibilità a tanti architetti. In entrambi i casi il progetto, e non il progettista, era al centro dell’attenzione, il fine la qualità degli spazi che si volevano creare. Ho pensato di affrontare il problema, per cominciare, con due proposizioni di lavoro : per primo riuscire a dimostrare che il concorso non era un ostacolo ai tempi di realizzazione (scusa molto spesso addotta dalle amministrazioni recalcitranti) e successivamente riuscire a costruire dibattiti e confronti sul fare architettura. Ho raggiunto la prima meta. Per quanto riguarda la seconda, in Italia, e soprattutto a Roma che conosco bene, si è proprio perso il senso della ricerca.

3. Sempre sui concorsi di architettura. Così come sono fatti, sono una truffa? Cosa si può fare?
No, non penso che siano una truffa, piuttosto, in alcuni casi, i presupposti e le persone possono farli diventare tali. Certamente come tutte le cose possono e devono essere migliorati.
Ma se vogliamo denunciare una truffa, questa sta nel fatto che l’aumento dei concorsi non corrisponde all’aumento delle realizzazioni, ancora oggi vengono realizzate solo le grandi opere o poco più mentre la più parte, dopo i fuochi d’artificio dei risultati concorsuali, resta sulla carta … Insomma da questo punto di vista siamo ancora agli inizi.
Si riescono a modificare i fatti ma le mentalità sono difficili a cambiare!

4. Cosa ne pensi dell’ architettura in Italia oggi ...
L’Italia è uno dei paesi più ricchi di storia e architettura. La qualità e l’armonia degli spazi, la bellezza degli edifici si vivono ad ogni passo nei centri storici delle nostre città.
Ma questa identità storica con tutta evidenza non è stata elaborata fino a diventare una certezza di potere e saper fare mentre negli altri paesi europei il rapporto con l’architettura è più coraggioso. Mi chiedo se scuole ed accademie si siano interrogate sul perché questo avviene.

5. Il nome di un architetto italiano vivente al quale faresti costruire casa tua...
Difficile delegare : ogni volta che qualcuno si affida a me per realizzare lo spazio dove vivere penso che sia una persona coraggiosa perché disposta ad affrontare un rapporto che mette a confronto idee e immagini, e in tema di creatività nessuno è disposto a rinunciare a priori alla propria.
Lo spazio della casa deve corrispondere, diciamo rappresentare, qualcosa che esiste all’”interno” del suo abitante, e per far questo è indispensabile il rapporto interumano.
In questo senso è ancora più difficile ideare uno spazio per se stessi : un artista che realizza un autoritratto rappresenta qualcosa di sé in quel momento, se poi sbaglia può sempre girare il quadro contro il muro! Ma un’architettura è fatta di mattoni, se si sbaglia non si torna facilmente indietro e vivere in uno spazio che non corrisponde profondamente è una condanna.
Allora, chiederei di pensare/immaginare la mia casa a Massimo Fagioli, il solo che, per la sua ricerca e la sua realtà umana personalissima, saprebbe interpretare, diciamo, la mia realtà interna e magari regalarmene una più bella … e poi mi divertirei a costruirmela !

6. Il nome di una star internazionale alla quale faresti costruire casa tua...
Sempre per i motivi detti non affiderei la mia casa a nessuna star.

7. Il nome di un edificio famoso che non ti piace affatto.
Corviale, che, senza ombra di dubbio e al di là di qualsiasi giudizio sul disegno architettonico, è un crimine contro l’umanità.
Non vorrei essere troppo sintetica e rischiare di non essere compresa ma non si può pensare una casa per un altro essere umano considerandolo e imponendogli l’identità di ... un pollo in batteria. E’ una violenza che ovviamente può causare altra violenza . Dimostrazione ne sono gli incendi delle banlieues parigine.
Serve un pensiero realmente nuovo per immaginare e proporre spazi vitali e accoglienti o almeno un po’ di amore e rispetto per gli altri.

8. Un edificio che ti piacerebbe realizzare... Insomma quale sarebbe l’incarico dei tuoi sogni?
E’ una sfida. Mi piacerebbe poter progettare un pezzo di città. Lo so che non esiste ricetta e che ogni tentativo, nella storia, è fallito in ipotesi astratte. Ma penso alle città medioevali, spazi coesi fatti di piazze, di vie, di trattorie… fatti dagli uomini per gli uomini mentre nell’architettura e soprattutto nell’urbanistica contemporanee si è persa l’immagine dello stare insieme a favore di un funzionalismo esasperato e disumano.E’ un progetto impossibile?

9. Ci vuoi parlare della tua collaborazione con Fagioli? In che modo architettura e psicanalisi possono convivere?
Mi hai letto nel pensiero! Le città pensate dai geni solitari sono fallite forse perché erano immagini individuali, mentre oggi esiste l’immagine dell’Analisi collettiva di Massimo Fagioli. Quindi vorrei progettare un pezzo di città con Massimo Fagioli.
E’ proprio di questi giorni una riuscita importante della mia collaborazione con lui: il Palazzetto bianco è di fronte agli occhi di tutti in via S. Fabiano nel quartiere Piccolomini.
Partecipo ai seminari di Analisi collettiva di Massimo Fagioli dal 1982. Nel 1985 Fagioli mi chiese di realizzare la ristrutturazione della sede dei seminari e di colpo mi trovai di fronte ad un cimento impossibile e affascinante insieme: perché il luogo di quel setting era qualcosa di assolutamente rivoluzionario. Solo nel rapporto con lui ho potuto progettare una forma architettonica che potesse rappresentare e contenere l’Analisi collettiva. Nell’agosto 1986 abbiamo realizzato la ristrutturazione della sede in via di Roma Libera.
“Le realtà psichiche si avvicinavano l’una all’altra per fondersi in una struttura intera che rappresentava la curva continua di un legno unico ricavato da un albero impossibile” ha scritto Fagioli nella quinta premessa al suo libro “Teoria della nascita e castrazione umana” nel 1989 . Così ho capito di essere riuscita e di avere scoperto una fonte inesauribile di immagini !
Ma tutto questo è storia, Fagioli nel 2001 ha completamente trasformato, ampliandolo, il setting di via Roma Libera.

10. Esiste una scuola ispirata al pensiero di Fagioli? Ci vuoi citare alcune opere?
Qui a Roma ci sono alcune opere pubblicamente visibili e vivibili da tempo: la libreria Amore e Psiche, inaugurata nel 1992, il restauro di un palazzetto nel centro storico di Roma, in via S. Andrea delle Fratte ultimato nel 1996, le due sculture-fontane di Largo E. Rolli e di piazza N. Cavalieri, entrambe ultimate nel 2000 e infine il Palazzetto bianco. E poi tante altre opere private. Tutti questi progetti , realizzati insieme agli architetti sono anche stati esposti in una mostra che ha toccato le maggiori capitali del mondo dal ‘93 al ’98.
Ma non esiste ne è esistita una scuola in senso accademico.
Possiamo piuttosto parlare della ricerca, unica nel suo genere, di un gruppo di architetti nei riguardi di una straordinaria fonte di idee e di immagini. Abbiamo vissuto una esperienza certamente fuori dal comune assieme allo psichiatra dell’analisi collettiva, che con noi ha ideato, disegnato, plasmato, raccontato, composto.
Questa ricerca, che ha indagato sulle radici del processo creativo in architettura e ha delineato un itinerario ricco di suggestioni tra architettura e linguaggio, si rapporta alla teoria innovativa dello psichiatra, ma anche alla realtà umana di Fagioli che non ha avuto paura di rispondere a chi gli chiedeva . . . il coraggio delle immagini.
E dal 1998 stiamo a guardare e direi “studiare” quest’uomo particolarissimo che continua a ideare disegnare progettare, ormai senza il nostro aiuto. Pochi giorni or sono è stata installata una sua opera, la “Scultura blu” nel cortile della Facoltà di Studi Orientali, nel cuore dell’Esquilino.

11. L’università italiana...la consiglieresti? E se si in quale città? E a Roma?
Si, con un suggerimento. L’architetto in formazione deve cercare ed esigere dalla scuola il massimo delle conoscenze tecniche e teoriche e della sperimentazione anche formale.
La dimensione artistica, la creatività, sono fatti assolutamente personali e spontanei che non possono essere insegnati e tanto meno imposti.

12. La tua visione dell’architettura: autodefinisciti: reazionaria, tradizionalista, moderata, progressista, sperimentalista, avanguardista ( o altro purchè la definizione sia al massimo di un paio di parole e non cercare di scappare alla domanda dicendo che sei oltre le sigle...)
Irrazionale ……e . spero, libera.

13. Eisenman, Koolhaas, Moss, Hadid, Herzog e de Meuron, Gehry, Coop Himmelb(l)au, Fuksas, Piano, Anselmi, Purini,Cellini, Casamonti, Portoghesi, D’Amato, Dardia. Devi organizzare un importante concorso a inviti di architettura e ti danno l’incarico di invitare cinque architetti Chi scegli?
Hadid , per una potenza di rappresentazione che non ritrovo in nessun altro e vorrei vederne la realizzazione corrispondente.
Gehry, per vedere se la sua architettura si adatta ad ogni luogo.
Purini, per il rigore delle sue impostazioni teoriche e progettuali e per la sua curiosità intellettuale. Ed infine Piano perché il mestiere non è acqua…

14: Saranno famosi: fammi tre nomi
Non ho mai capito i criteri con i quali si giunge alla fama. Se sapessi fare dei nomi vincenti giocherei piuttosto al Superenalotto!

15: Un libro che consiglieresti a uno studente, uno a un architetto, uno a un critico
La fonte meravigliosa di Ayn Rand a un architetto.
Amate l’architettura di Giò Ponti ad un critico.
Saper vedere l’architettura di Bruno Zevi ad uno studente.
Posso dirne un quarto?
Bambino, donna e trasformazione dell’uomo di Massimo Fagioli a studenti, critici e architetti.

16: Tre parole oggi importanti
FARE . FINALMENTE . ARCHITETTURA .

giovedì 29 dicembre 2005

Liberazione, 28.12.05
“Liberazione”
Io, atea, non mi sento offesa dalle “Parabole”


Cara “Liberazione”, ho letto sul nostro giornale alcune critiche relative alla pubblicazione del testo “Parabole di Gesù Nazzareno” commentate da don Vitaliano della Sala. Sinceramente io che mi definisco serenamente atea e sottolineo il serenamente, non mi sono affatto sentita offesa o manipolata da questa pubblicazione che tra l’altro non era obbligatorio acquistare: il messaggio di Gesù di Nazareth non è patrimonio esclusivo dei credenti e tanto meno delle gerarchie ecclesiastiche, è un messaggio universale chiaro e semplice, incentrato sui valori della pace dell’amore, del rispetto della dignità di ogni persona. Ho acquistato il testo ed ho apprezzato molto l’introduzione di don Vitaliano ed i suoi richiami ad alcune canzoni di Fabrizio de Andrè che considero uno dei maggiori poeti del
‘900Essere laici, atei, comunisti non deve impedirci di valorizzare messaggi positivi solo perché non sono “nostri”: le nostre menti ed i nostri cuori devono essere aperti ad ogni contributo di idee e di sentimenti, se questi possono arricchirci o comunque sono in sintonia con i nostri valori. Ricordo di aver sentito il compagno Bertinotti, in una trasmissione televisiva rispondere così a chi gli chiedeva il senso di dirsi ancora comunisti dopo i disastri del socialismo reale nei paesi dell’est europeo: «Dire che i valori del comunismo non esistono più perché è esistita la tragica realtà del socialismo reale, equivale a dire che il messaggio di Gesù non ha più valore perché sono esistiti le crociate, l’inquisizione, i roghi degli eretici». Mi scuso con il compagno Bertinotti se la mia citazione contiene delle inesattezze, ma il concetto era questo e mi sembra si adatti benissimo anche a questo caso.
Sandra Frangioni
Massa Marittima (Gr)



Liberazione, 27.12.05
Dopo la marcia di Natale oggi il dibattito alla Camera
La corsa all’amnistia nel paese dove i soli liberali sono i comunisti
di Piero Sansonetti


In Italia, ma anche in gran parte dell’occidente, l’espressione “tolleranza zero” è considerata una espressione positiva. E’ uno slogan che viene usato con entusiasmo per far funzionare le campagne elettorali.
La parola “perdonismo” invece è una specie di ingiuria, si pronuncia con disprezzo e anche con schifata ironia.
Eppure Tolleranza e Perdono sono le due parole fondamentali - dovrebbero esserlo - delle culture dalle quali proveniamo. Tolleranza è la chiave di volta dell’illuminismo.
Perdono è un termine che racchiude in se la sostanza profonda del cristianesimo e dell’insegnamento di Gesù. E’ curioso, ma è così: nella politica italiana tutto è permesso, fuorché ragionare rifacendosi ai pilastri del pensiero illuminista e cristiano. Chi lo fa è considerato un comunista sovversivo e pericoloso. O un anarchico.
La parola tolleranza è anche il fondamento del pensiero liberale moderno. E il fatto che più o meno i quattro quinti del parlamento italiano dichiarino di ispirarsi al liberalismo e considerino, i propri partiti, partiti liberali (da Forza Italia, alla Margherita, ai Ds, forse persino ad An...) non impedisce alla maggioranza del Parlamento e dei partiti di rifiutare qualsiasi politica liberale.
I vecchi maestri del liberalismo dicevano che in alcune occasioni è possibile, per salvare il liberalismo, rinunciare al liberismo economico.
Perchè ritenevano che il fondamento del liberalismo, prima ancora della libertà economica, fosse la salvaguardia e lo sviluppo della libertà individuale, dei diritti e della tolleranza. Oggi succede il contrario: una parte molto consistente dei partiti liberali rinuncia al liberalismo, lo sacrifica per salvare il liberismo. E’ così sul tema dell’amnistia. L’amnistia è uno strumento liberale per eccellenza.
In Italia, nei decenni passati, se ne è fatto grande uso. Centinaia di amnistie dai tempi dell’Unità, cioè poco dopo la metà dell’ottocento.
Sia per risolvere problemi carcerari, sia per chiudere periodi “storici” di lotte o guerre o violenze, sia per attenuare la durezza delle leggi.
Sull’amnistia concessa dal ministro Palmiro Togliatti nel ’47 ai fascisti si costruì la riconciliazione nazionale.
Oggi invece concedere una amnistia è quasi impossibile.
Perché? Perché nel marzo del 1992 il Parlamento, sulla spinta “giustizialista” di Tangentopoli, decise di abolire, di fatto, questo strumento giuridico. In che modo lo fece? Modificando la Costituzione e stabilendo, con legge costituzionale, che per concedere l’amnistia occorre il voto dei due terzi degli aventi diritto in ciascuna delle due Camere. I due terzi degli aventi diritto vuol dire quasi l’unanimità. Bastano 150/200 deputati, o 75/100 senatori per far saltare tutto.
In questi giorni una parte del mondo politico si sta mobilitando per forzare questa situazione e ottenere lo stesso l’amnistia, anche perché - per ammissione di tutti - le carceri italiane esplodono, gonfie fino all’inverosimile di donne e uomini accusati di piccoli reati, in gran parte legati alla miseria o alla condizione infernale dell’immigrazione clandestina. Chi, più di tutti, conduce questo sforzo, sono i radicali, il piccolo partito socialista, e Rifondazione, cioè un partito comunista.
Non è un paradosso questo? E cioè che alla prova dei fatti finiscano in un esiguo schieramento liberale i partiti comunisti, in lotta contro partiti moderati che si definiscono liberali ma fanno dell’autoritarismo, del decisionismo, del pugno di ferro e della tolleranza zero le loro bandiere fondamentali? E’ un paradosso fino a un certo punto. E’ inutile che facciamo finta di vivere in un altro “paese politico”. Noi viviamo nel paese dove persino in una città di sinistra come Bologna, il sindaco, ex capo dei sindacati e poi dei “Girotondi”, invoca il rispetto della legge e la repressione verso lavavetri, migranti e clandestini. E dice che questo legalitarismo e questa repressione devono essere il collante della sinistra. E il presidente del Consiglio, liberale, inizia la sua campagna elettorale con giganteschi manifesti nei quali annuncia di avere infilato in ogni quartiere, e in ogni condominio, più poliziotti e più carabinieri. Non facciamo finta di credere che solo la Lega e Borghezio sono forcaioli: il mondo politico italiano, in modo assai trasversale, riconosce quello della “sicurezza” - cioè del legalitarismo, cioè dell’ordine pubblico - come il valore fondamentale e come l’argomento decisivo di qualunque programma politico.
Ci si può stupire se un mondo politico di questo genere non riesce a trovarsi a suo agio nella battaglia per l’amnistia? E allora: perdiamo ogni speranza? No, restano delle speranze, perché c’è un settore
della politica italiana - sia al centro (radicali, socialisti, un pezzetto dei ds) sia a sinistra (comunisti) sia in zone cattoliche (della Margherita, dell’Udeur, forse dell’Udc) - che è molto combattivo, ha partecipato l’altro ieri alla marcia di Natale e si darà da fare oggi nel dibattito alla Camera - convocata in seduta straordinaria per questo scopo. Però sappiamo benissimo una cosa: o si riuscirà a convincere della necessità dell’amnistia tutta la sinistra - compreso il pezzo più giustizialista dei Ds - o le possibilità di riuscita sono zero. Solo se la sinistra, a quasi 15 anni da Tangentopoli, riuscirà a ritrovare la sua vecchia e tradizionale ispirazione garantista, sarà possibile tentare una alleanza con qualche settore non reazionario della destra e provare a toccare il limite dei due terzi del Parlamento. Altrimenti vinceranno loro: i nemici del liberalismo, della Tolleranza, del Perdono. Cioè la destra illiberale e gli amanti dell’autoritarismo.



Liberazione, 27.12.05
Il primo Natale di Benedetto XVI
Uomo tecnologico, terrorismo, armi, povertà
di Fulvio Fania


Natale senza Wojtyla, il primo di papa Ratzinger. Piazza san Pietro sotto le nubi e la pioggia, con il gigantesco albero austriaco e il grande presepe, induce ai ricordi e ai confronti ma in realtà lo stile del nuovo pontefice, lontano dalla teatralità comunicativa del predecessore, ha già finito di stupire e si impone per se stesso. Benedetto XVI dà un taglio alla babele di oltre sessanta lingue su cui si arrampicava a fatica anche il più anziano Giovanni Paolo II. Ratzinger, dopo la benedizione Urbi et orbi di mezzogiorno, si è accontentato di appena 32 idiomi, dall’arabo all’ebraico, dal suhaili al georgiano. Dicono che a Pasqua compenserà i linguaggi finora taciuti. Al nuovo papa interessano certo i “segni” del pontificato, perfino alcuni abiti che ripesca a sorpresa dalla tradizione, ma a parte questo gusto un po’ regale, ciò che gli preme sono soprattutto i discorsi, un intreccio accortissimo di teologia e messaggi per il presente. La serie natalizia era cominciata giovedì scorso con i saluti alla Curia, un testo fondamentale per comprendere la rilettura ratzingeriana del Concilio Vaticano II - ridimensionato a «riforma» necessaria ma non «rottura» - nonché del rapporto mai risolto tra Chiesa e modernità. All’inizio di quel “saluto” aveva posto una frase dell’amato San’Agostino, la stessa che ha ripetuto nell’augurio di Natale pronunciato in latino dopo il messaggio al mondo in cui è tornato sulle sue preoccupazioni: l’uomo «dell’era tecnologica » finisce vittima della propria intelligenza e cade in una «atrofia spirituale»; «l’età moderna» è stata presentata come «risveglio dal sonno della ragione», però la luce razionale «non basta a illuminare il mondo» se non è sorretta dalla fede in Cristo. Per Ratzinger, che pensa soprattutto all’Europa, la Chiesa deve costituire una costante «contraddizione» rispetto al pensiero contemporaneo. Ieri, giorno di Santo Stefano, il Papa ha ribadito il medesimo concetto dal punto di vista del martirio e del sacrificio. «Come non riconoscere - ha detto dalla finestra del suo appartamento appena ristrutturato - che anche in questo nostro tempo in varie parti del mondo professare la fede cristiana richiede eroismo?». Benedetto XVI allude a paesi asiatici come la Cina o arabi come l’Arabia saudita, ma è allarmato anche dalla condizione religiosa nelle società “secolarizzate”. «Come non dire - aggiunge infatti - che dappertutto, anche là dove non vi è persecuzione, vivere con coerenza il Vangelo comporta un alto prezzo da pagare?».
Benedetto XVI è molto attento a dare fondamento religioso ai propri appelli alla pace. A mezzogiorno di Natale questa è stata la sua invocazione: «Uomo moderno, talora debole nel pensiero e nella volontà, lasciati prendere per mano dal Bambino di Betlemme» per impegnarti «nell’edificazione di un nuovo ordine mondiale fondato su giusti rapporti etici ed economici», di fronte ai «preoccupanti problemi del presente»: il terrorismo, «le condizioni di umiliante povertà in cui vivono milioni di esseri umani», la proliferazione delle armi, le pandemie e il degrado ambientale «che pone a rischio il futuro del pianeta». Terrorismo e corsa agli armamenti sono i temi prescelti dal nuovo Papa per la prossima giornata cattolica della pace.
Collegato in mondovisione attraverso 111 reti tv, Ratzinger ha ricordato la «tragica situazione umanitaria» del Darfur e di altre regioni dell’Africa centrale e ha pregato per «il dialogo in Corea» e in altre aree dell’Asia; per «la pace e la concordia » in America latina e perché «i segni di speranza, che pure non mancano » ispirino «lealtà e saggezza» in Terra Santa, Iraq e Libano.
In questo elenco, così preciso, non può sfuggire la citazione della Corea. La diplomazia vaticana sa che dalle parti della Cina e dell’Estremo oriente, insieme alla possibilità di nuovi spazi per la Chiesa, si stanno addensando grossi rischi di future tensioni mondiali. Ciò non distoglie lo sguardo papale dal Medio Oriente, un territorio che Benedetto XVI scruta con un misto di inquietudine politica e religiosa. E’ quella infatti la culla del cristianesimo sempre più abbandonata dalla minoranza cristiana.
E’ inoltre la terra di Israele, con tutto ciò che significa per il cattolicesimo postconciliare e ancor più per un papa tedesco.
Ecco dunque che il dramma della Terra santa ha fatto irruzione nell’omelia della messa di mezzanotte, come sempre rigorosa nella spiegazione filologica delle sacre scritture e stavolta incentrata sulla figura dei pastori. «Vogliamo pregare - ha detto il Papa - per la pace in Terra Santa: guarda Signore quest’angolo della terra che, come tua patria, ti è tanto caro»



La Stampa Tuttolibri 28.12.05
Dopo la pillola di Laborit
UN FARMACO ANTISTRESS USATO PER I MILITARI FRANCESI DURANTE LA GUERRA D’ALGERIA E’ DIVENTATO LA PRIMA ARMA PER FRONTEGGIARE LA SCHIZOFRENIA. SVILUPPI SUCCESSIVI


RARAMENTE da una guerra nasce qualcosa di buono per l’umanità. La guerra d'Algeria ha portato invece la possibilità di curare per la prima volta la schizofrenia con dei farmaci. Negli Anni 50, in piena guerra d’Algeria, divenne necessario il trasporto costante per aereo dei più gravi tra i soldati francesi feriti da Algeri agli ospedali militari parigini. Benché il viaggio fosse breve, erano frequenti le perdite di pazienti dovute allo stress del viaggio. Il farmacologo francese Laborit, alla ricerca di "una ibernazione famacologica" per ridurre lo stress durante l’anestesia, era venuto a conoscenza di una molecola chiamata RP4560, un prodotto sintetizzato a Parigi nei laboratori della ditta francese Rhone-Poulenc come anti-istaminico. Chiamato clorpromazina, l’RP4560 fu subito scartato perché causava sonnolenza e abbassamento della temperatura corporea. La clorpromazina usata con scarso successo per il trasporto dei militari francesi, destò invece un vivo interesse in alcuni psichiatri. La sua prima utilizzazione in pochi casi di schizofrenia e mania fu resa nota nel 1952 da Delay e Deniker.
Dal 1954 al 1956 la notizia del primo trattamento farmacologico delle psicosi, chiamato drammaticamente da Henri Laborit "lobotomia chimica", si diffuse da Parigi al resto del mondo. La notizia fu accolta dapprima con molto scetticismo e in seguito, dopo i primi successi, con entusiasmo. L’introduzione della psicofarmacologia ha rappresentato una vera rivoluzione nella psichiatria moderna provocando un atteggiamento completamente nuovo verso i pazienti psichiatrici non solo da parte degli psichiatri e degli infermieri ma di tutta la società. Si tratta non solo della prima possibilità di migliorare la qualità di vita di un paziente condannato all’isolamento ma anche di ricuperarlo all’attività lavorativa. Ciò ha contribuito più di ogni altra cosa alla graduale chiusura dei manicomi.
I successi clinici della psicofarmacologia si sono succeduti in parallelo alle grandi scoperte dei neurotrasmettitori cerebrali. Dall’introduzione degli antipsicotici negli Anni 50 fino ad oggi il trattamento della schizofrenia si è basato sul bersaglio dei ricettori della dopamina (vedi il Premio Nobel del 2003 al farmacologo svedese Arvid Carlsson) di tipo D2. L’uso dei farmaci che bloccano i ricettori D2 abbassa l’intensità delle allucinazioni e modifica le idee deliranti permettendo il passaggio a un trattamento ambulatoriale anziché la segregazione a vita del paziente in istituto. Gli antipsicotici di nuova generazione con una maggior affinità per i ricettori D2 della clorpromazina si sono rivelati farmacologicamente più potenti della prima. L’efficacia clinica di questi ultimi non è però aumentata in parallelo in quanto si tratta di molecole agenti sullo stesso meccanismo farmacologico della clorpromazina (cioè sui ricettori dopaminergici D2). Un problema non indifferente è il fatto che il blocco di questi ricettori provoca a lungo andare sintomi molto simili a quelli del Parkinson (rigidità) e poi la comparsa di movimenti involontari non controllabili.
Una nuova molecola degli Anni 70, la clozapina, con un effetto più debole sui ricettori D2 pur mantenendo l’efficacia contro i sintomi della schizofrenia, diminuiva notevolmente il rischio di sintomi parkinsoniani. La clozapina si rivelava però anche più tossica delle precedenti molecole. Dopo la scoperta della clozapina l’industria farmaceutica mondiale si è concentrata sullo sviluppo di farmaci antipsicotici con la stessa efficacia della clozapina senza averne però gli stessi effetti tossici.
Sono nati poi antipsicotici di seconda generazione (rispetto alla clopromazina) o atipici. Nuovi interrogativi sono sorti dopo l’introduzione di questi farmaci. Principalmente: si può dimostrare una efficacia maggiore rispetto ai farmaci di prima generazione? Valgono il prezzo notevolmente più alto (in certi casi 10 volte maggiore) dei primi? Inoltre, pur diminuendo il rischio di sintomi parkinson-simili, gli atipici provocano altri inconvenienti come l’aumento di peso corporeo (con maggiore rischio cardio-vascolare), del diabete e del colesterolo. Questi quesiti sono stati messi in evidenza da farmacologhi e psichiatri italiani. Silvio Garattini, dell’Istituto Mario Negri di Milano, ha messo chiaramente in luce e valutato il pro e il contro della terapia farmacologica delle psicosi. L’Istituto Nazionale di Sanità Mentale degli Stati Uniti ha promosso uno studio in doppio cieco su 1500 pazienti psichiatrici trattati in 53 centri per una durata di un anno e mezzo. Lo scopo era paragonare un farmaco di prima generazione simile alla clorpromazina, la perfenazina, a quattro farmaci di seconda generazione in uso corrente in USA ed Europa (olanzapina, risperidone, quetiapina e ziprasidone). I risultati pubblicati di recente sul “New England Journal of Medicine” dimostrano che oltre il 70% dei pazienti ha sospeso il trattamento prima del termine dei 18 mesi o per scarso beneficio o per effetti collaterali non tollerabili. Esistevano alcune differenze minori tra i vari farmaci. I farmaci che si rivelavano più efficaci nel diminuire i sintomi della malattia erano anche quelli che provocavano un maggiore aumento di peso, di tasso di glucosio e di colesterolo.
Sono dati certo non incoraggianti.
Il problema degli effetti collaterali è più serio nei pazienti ad esordio precoce della malattia, talvolta prima dei 13 anni. Questi giovani pazienti giungono per la prima volta all’attenzione dei pediatri a causa di problemi scolastici, poca attenzione e inizio delle allucinazioni: sono tra quelli che più traggono profitto dalla terapia farmacologica, che li riporta a condizioni di vita accettabili. L’aumento di peso invece può portare a smettere la terapia anche a costo di una ripresa violenta dei sintomi psichiatrici.
Ezio Giacobini



La Stampa Tuttolibri 28.12.05
Crisi socioeconomica, l’uomo soffre di più
RISPETTO ALLA DONNA HA 4 VOLTE PIU’ PROBABILITA’ DI SVILUPPARE DISTURBI MENTALI E PSICOLOGICI


GLI uomini soffrono per i peggioramenti della loro situazione socioeconomica più delle donne. Sebbene queste ultime statisticamente abbiano due volte più probabilità di discendere nella scala sociale nell’arco della loro vita, il cosiddetto sesso forte patisce quattro volte di più di problemi mentali quando ciò accade: è il risultato di uno studio condotto da un gruppo di ricercatori inglesi dell’Università di Newcastle nell’arco di cinquant’anni su un campione di un migliaio di uomini e donne nati nella cittadina britannica.
Il gruppo di persone osservato, costituito dai nati nei mesi di maggio e giugno del 1947, ha vissuto il generale miglioramento negli standard di vita che ha toccato la Gran Bretagna nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Ma dai tardi Anni 70 in avanti c’è stato un ampio spostamento da una economia basata sulla manifattura ad una basata sui servizi. Ciò ha contribuito a ridurre i tassi di impiego tra gli uomini (particolarmente durante gli Anni 80) e, per contro, ad aumentare i livelli di impiego tra le donne, solitamente dedite ai lavori del terziario. a tendenza è stata più pronunciata in zone come l’Inghilterra nord-orientale, che include la città di Newcastle, dove l'economia locale aveva contato tradizionalmente sulle occupazioni manuali esperte e parzialmente qualificate effettuate principalmente dagli uomini, con implicazioni evidenti sulla definizione dei ruoli sociali tra i sessi.
I dati raccolti e interpretati dai ricercatori, pubblicati di recente sul «Journal of Epidemiology and Community Health», tengono conto quindi dei significativi mutamenti sociali intervenuti negli anni. L'équipe psichiatrica di Paul Tiffin ha seguito fino all’età di cinquant’anni uomini e donne, considerando il loro stato sociale a partire dall’occupazione del capofamiglia. Gli uomini che avevano sperimentato una discesa sociale sono risultati quattro volte più predisposti alla depressione o a malattie di tipo ansioso rispetto a quelli che invece avevano migliorato il proprio status, mentre fra le donne non è stata notata una differenza significativa simile nella salute mentale. Questi risultati sarebbero parzialmente spiegabili con la capacità delle donne di trarre soddisfazione e autostima in altri campi della vita, mentre per gli uomini, tradizionalmente abituati a considerare il lavoro e lo status economico familiare come indice del proprio valore, sarebbe più difficile affrontare quella che viene sentita come una sconfitta del proprio ruolo. La ricerca inglese mette in evidenza i riflessi sulle politiche di welfare da mettere in atto, sostenendo che, in periodi di crisi economica, è opportuno ripensare le strutture di sostegno e riabilitazione delle persone colpite distinguendo tra uomini e donne. A noi che leggiamo, rimane ancora una considerazione: chissà se per le donne nate dopo la rivoluzione degli Anni 70, sempre più legate al lavoro e alla carriera, sarà ancora così.
Per chi fosse interessato ad pprofondire l’argomento, ecco i dati sull’articolo originale: «Social mobility over the lifecourse and self reported mental health at age 50: prospective cohort study», di Paul A Tiffin, Mark S Pearce, Louise Parker, in Journal of Epidemiology and Community Health 2005 n°59 pp.870-872

Marina Palumbo




Liberazione, 28.12.05
Una imponente mostra sul Dadaismo internazionale al Beaubourg di Parigi fino al 9 gennaio, e poi a Washington fino all’11 settembre 2006. Tra le opere. la famosa Fontana di Duchamp, le invenzioni di Picabia, le materie di Arp
Dada, l’arte del rifiuto. L’improvvisazione contro tutti e tutto
di Roberto Gramiccia


Sull’etimologia dell’espressione Dada è inutile spremersi le meningi. Semplicemente non c’è. Hans Arp (uno dei padri del movimento) sosteneva che il termine venne pronunciato per la prima volta al Caffè Terrasse di Zurigo da Tristan Tzara (altro padre spirituale del gruppo) il 18 febbraio 1916. L’incendiario intellettuale moldavo (Moinesti 1896 – Parigi 1963) raccontava di aver scovato il termine per caso
nel dizionario Larousse, fra le pagine entro le quali casualmente era scivolato un tagliacarte proprio dove questa paroletta tagliente-irriverentedivertente e, vedremo, esplosiva come una bomba a mano era segnalata.
E’ Tzara stesso che ne denuncia l’assenza di significato, a parte l’utilizzo fattone dalla tribù africana dei Kru che con questa parola indicano la coda della vacca sacra, a parte l’assonanza con la “tata” della nostra tradizione e il dada che in russo significa due volte sì.
Era giusto peraltro che la parola fosse incontaminata, come una tovaglia nuova di zecca perché il movimento, l’Avanguardia, a cui dette il nome non aveva rapporti con il passato. Anzi con il Passato e il Modernismo ruppe tutti i ponti, denunciandone l’insopportabilità, il conformismo e la soggezione alle convenzioni borghesi. Dada fu un pensiero, prima ancora che un gruppo e un movimento, che gridò ai quattro venti il suo essere “contro tutto e tutti”. Contro la letteratura, contro la poesia, contro l’idea del bello e la concezione dell’artista-demiurgo e ispirato da dio, contro la perfezione, contro l’eterno stabile o “ritornante”. Contro le avanguardie storiche, persino, che pure esprimevano il massimo dell’energia innovativa per il tempo (parliamo dei primi due decenni del secolo scorso).
«Basta con le accademie cubiste e futuriste, laboratori di idee formali», diceva Tzara, denunciando la discontinuità anche con il Futurismo. Quest’ultima avanguardia, infatti, sorta solo pochi anni prima, pur condividendo la furia iconoclasta dei dadaisti, perseguiva un suo pensiero estetico: il dinamismo plastico cantore delle meraviglie della meccanica moderna e della velocità. Perseguiva un suo pensiero politico elitario e bellicista.
Dada era contro ogni estetica, contro ogni banalizzazione positivistica sulle magnifiche sorti e progressive della modernità. Era contro il principio di disciplina, di gerarchia e autorità. Dada era aconfessionale ed anarchico. E soprattutto era contro la guerra.
E’ impossibile capire il significato di questo ciclone artistico e culturale se non ci si riporta al particolare momenti in cui nacque, i tempi sanguinosi ed orribili della prima guerra mondiale. La “comare secca” che aveva seminato stragi ed orrori fino ad allora mai visti in tutta Europa. Il ripudio della guerra era il tessuto connettivo che teneva insieme le cellule di un tessuto fatto di anarchia, individualismo e ribellione. Che si trattasse di un sentimento comune a molti è dimostrato dal fatto che la rivolta culturale che produsse il movimento esplose contemporaneamente in posti diversi e lontani: Zurigo, New York per poi estendersi in Germania, in Francia e in buona parte dell’Europa. A Zurigo fu il Cabaret Voltaire il luogo di incontro destinato a divenire memorabile dove si incontravano, oltre a Tzara e Arp, Hugo Ball, Marcel Janco, Richter e Hulsenbeck, intellettuali e artisti che non volevano solo “imboscarsi” per fuggire alla guerra, ma alla guerra volevano reagire nel modo più radicale e liberatorio.
A New York i nomi furono quelli di Picabia, Man Ray, Duchamp.
Quest’ultimo artefice della rivoluzione più profonda della storia dell’arte di tutti i tempi - dopo quella di Caravaggio - la rivoluzione dei readymade, gli “oggetti di uso comune” destinati a sconvolgere assetti linguistici e formali consolidati da centinaia di anni.
La grande esposizione, “Dada”, curata da Laurent Le Bon, e allestita meticolosamente presso il Beaubourg rappresenta lo sforzo di raccogliere e catalogare una parte cospicua dell’enorme mole di documenti ed opere che il prolificissimo movimento seppe produrre.
La collaborazione con la National gallery of art di Washington (nella quale la mostra sarà trasferita dal 19 febbraio all’11 settembre), e con il Moma di New York ha consentito di fare le cose in grande, molto in grande.
Anzi, se c’è un’osservazione che rispettosamente può essere avanzata (ci riferiamo al rispetto che merita un’impresa titanica) è che il numero di reperti ordinati con cartesiana precisione in 38 box, senza considerare l’ambiente introduttivo e la Dada Galerie, è talmente grande da produrre quasi inevitabilmente, complice la grande folla sempre presente, uno spaesamento più o meno accompagnato dai sintomi tipici della Sindrome di Stendhal.
Insomma, si potrebbe dire che questa imponente mostra sia piegata sulle ragioni di quel sistema che i dadaisti avrebbero voluto far saltare in aria. Ragioni di sistemazione tassonomica e di natura commerciale evidentemente.
Resta il fatto che poter ammirare la ricostruzione di ambienti tipici del Cabaret Voltaire, piuttosto che quelli parigini, newyorchesi e tedeschi è più unica che rara. Come quella di vedere da vicino la famosa Fontana di Duchamp (il celeberrimo orinatoio capovolto) e gli altri suoi “oggetti di uso comune”, le invenzioni di Picabia, le opere polimateriche di Arp, le immagini fotografiche di Man Ray ottenute senza macchina da presa (rayographs), i lavori pre-surrealisti di Max Ernst e ancora le decine e decine di opere di Richter, Eggeling, Grosz, Schwitters, Hausmann e tanti altri.
Quello che resta alla fine nella testa è una gran confusione che tuttavia non ci sembra estranea a quelle che pensiamo dovevano essere le atmosfere dadaiste. Queste atmosfere, infatti, fecero un programma di lavoro e di ricerca del caos e dell’improvvisazione, rifiutando qualsiasi progettualità in cambio di un’idea di libertà insofferente a qualsiasi fine ultimo o anche intermedio.
Pur senza negare la potenza eversiva e liberatoria di questo movimento, non possiamo, tuttavia, non nutrire una riserva.
Quella che in qualche misura il Dadaismo, e in particolare il pensiero di Duchamp, abbiano, involontariamente, fornito materiale (opere e soprattutto idee) prezioso e abbondante usato per “giustificare” nel corso dei decenni la produzione di opere completamente disinteressate all’idea di qualità, all’idea di valore. Con lo sviluppo caotico e impetuoso della tecnologia, del mercato globale e del liberismo spregiudicato e bellicista (tutte cose che nemmeno Duchamp poteva prevedere) il caos produttivo del Dadaismo si è trasformato nell’ideale terreno di cultura di un’arte che spesso, al giorno d’oggi, è la brutta copia della pubblicità.




Liberazione, 27.12.05
“Liberazione”
Noi e la religiosità


Caro Sansonetti, sto seguendo con molto interesse il dibattito vivace su realtà umana e religiosità. Sono stata contenta l’altro ieri di leggere, in risposta alle lettere di Simona e Laura a proposito del libro sulle parabole di Gesù pubblicizzato su “Liberazione”, la tua affermazione «io sono ateo».
Poi ancora un’altra risposta sullo stesso tema, ad Andrea, in cui accenni al rapporto uomodonna.
Mi viene in mente il tuo editoriale del 6 dicembre quando critichi duramente il papa perché nelle sue arringhe decreta che ha dignità umana solo chi stabilisce «una relazione libera e consapevole con il suo creatore», pensiero
che, convieni, giustifica il razzismo. Più volte in questi giorni specifichi che Gesù non è il papa né i cardinali. Mi viene in mente anche la lettera di Massimo Fagioli del 26 novembre in cui, accettando la tua proposta di rispolverare le tre parole libertà, uguaglianza, fraternità, invita a cercare di dare un senso reale alle parole.
Sono nata e cresciuta in una famiglia cattolica praticante, conosco bene la figura di Gesù; e ti dirò che fin dalla prima adolescenza, quando stavo male e mi sentivo diversa perché, pensavo io, non riuscivo ad accogliere quel “dono della fede” che mi proponevano, la figura di quel Gesù a tratti mi affascinava.
Allora, per una esigenza di coerenza, cercai di coniugare l’idea di comunismo con la religione cercando in quel cosiddetto “cattocomunismo” che mi sembrava proponesse la soluzione. Stavo peggio. Penso che cercavo la verità sulla natura umana, forse per questo ho poi fatto Medicina. Il nodo potrebbe essere che Gesù “il figlio di Dio” sarà pur stato un uomo particolare, forse strano chissà, a volte diceva parole accattivanti, ma certo non aveva nessuna teoria sulla realtà umana. Che gli esseri umani si debbano voler bene e non distruggere lo dicono in tanti, ma noi abbiamo bisogno di un pensiero profondo, nuovo per comprendere cos’è l’amore, cos’è la violenza, che significa ateismo, qual è il senso dei rapporti interumani in cui si realizza il massimo della realtà mentale umana. Ritorniamo allora al tema “idee o parole” e continuiamo a discuterne.
Claudia via e-mail




Liberazione, 21.12.05
“Liberazione”
Lasciamo stare le parabole


Caro direttore, ho trovato molto interessante la lettera di Marco pubblicata sabato scorso, nella quale il lettore si definiva sbigottito dal fatto che “Liberazione” pubblicizzasse un libro di parabole del vangelo. Confesso che anche a me la cosa aveva creato una certa confusione; e questa confusione è andata aumentando nel leggere la sua risposta, dove lei afferma che il papa non c’entra con Gesù. Mi domando se sia davvero possibile considerare ciò che la chiesa dice e fa oggi ( comprese le criticabili posizioni del Vaticano su politica, sessualità, otto per mille ecc…) qualcosa di estraneo al pensiero religioso che la ispira da duemila anni. Un pensiero secondo il quale l’uomo nasce con il peccato originale per colpa di Eva, ed è quindi condannato ad essere violento e cattivo in un mondo dove Caino uccide Abele, in una immutabilità della storia che non permette alcuna trasformazione, e che concede come unica consolazione la morte come porta dell’aldilà. Il vuoto teorico lasciato dal crollo del comunismo e dalla crisi dell’ideologia marxista è enorme, ma non per questo dobbiamo farci prendere dall’angoscia per poi cercare conforto nella religione. Possiamo quindi lasciar stare le parabole , e orientarci verso proposte teoriche senz’altro più valide e interessanti alle quali il suo giornale ha dato spazio, come gli atti dell’incontro di Bertinotti e Ingrao con l’analisi collettiva a Villa Piccolomini. Dobbiamo e possiamo ribellarci alla rassegnazione e al fallimento solo cercando idee nuove, approfondendo la ricerca sull’uomo, sulla realtà mentale, sui rapporti interumani. E allora “Liberazione” rappresenterà ancora una speranza per me, per Marco, e per moltissimi altri…
Simona via e-mail

Non credo Simona che bisogna contrapporre Bertinotti e Ingrao a Gesù. Amo ingrao e ho enorme stima di Bertinotti: non li considero incompatibili con Cristo… ( Piero Sansonetti)



Non deludete gli atei e le atee
Caro Sansonetti, non si possono deludere gli atei e le atee di questi tempi, è già cosi difficile la nostra vita adesso più di sempre. Spiegami, se puoi, non solo la necessità di pubblicare le parabole di Gesù ma anche di illustrare questa iniziativa con un’immagine kinksize in ultima pagina di gusto da santino. Mi dicono che ieri era accanto al titolo, in prima pagina, non ho comprato il giornale, aspeto un chiarimento prima di rischiare ancora.
Laura via e-mail

Laura, io sono ateo. Però mi piace Gesù di Nazareth. Ti dirò, Laura, che credo che piaccia più me che a Camillo Ruini… prova a leggere il libro di don Vitaliano Della Sala e vedrai che non resterai delusa. Un saluto affettuoso( p.s.)



Liberazione, 21.12.05
Lessico Familiare: Draghi, Montezemolo e padre Chemeri
di Piero Sansonetti


I candidati più accreditati alla successione di Antonio Fazio, al vertice di Bankitalia, sono Tommaso Padoa Schioppa e Mario Draghi. Professionisti eccellenti, colti, dalla carriera brillante. Come si dice sempre in questi casi: indipendenti. Cosa vuol dire indipendenti? Che non si conoscono loro appartenenze di partito. Nessuno mai si chiede - di un professionista, di un giornalista, di un economista, di un qualunque uomo pubblico - se per caso appartiene a un’aera “economica”. Cosa intendo dire? Dico che esiste il potere politico, ed è un potere manifesto e piuttosto potente. Poi c’è il potere economico che non si esprime mai in modo palese, cioè non è manifesto, ed è parecchio più potente del potere politico. Spesso lo domina.
Questo significa che personaggi come Padoa Schioppa o Draghi prendono ordini da un determinato gruppo di potere economico? Certamente no. La loro professionalità li salva. Nemmeno Sandro Curzi prende gli ordini da Rifondazione, né Rizzo Nervo dalla Margherita e neppure Malgeri da An né Rognoni dai Ds: sono indipendenti perchè sono giornalisti di grande spessore, grande storia e grande autonomia: eppure spesso vengono indicati come uomini di partito.
Vi raccontiamo un aneddoto che non significa niente, o forse qualcosa significa sulla struttura di comando del potere in Italia. Negli anni sessanta c’era un gruppo di ragazzi che andavano tutti a scuola insieme, avevano la stessa età e facevano la stessa classe. Prima le medie, poi il ginnasio e il liceo. Grandi amici. La scuola era una delle più prestigiose di Roma, l’Istituto Massimiliano Massimo, retto dai padri gesuiti. Stava all’Eur (è ancora lì). Nella classe di questi ragazzi, il professore di lettere, alle medie, si chiamava Padre Chemeri, un latinista fine e un personaggio molto carismatico coi giovani. Il professore di matematica si chiamava Sideri, era un omino silenzioso e sonnolento che appena entrava in classe faceva chiudere tutte le finestre e gridava: "Silenzio!". Forse non sapeva troppo bene la matematica. Tra questi allievi di Chemeri e Sideri uno si chiamava Luca (Cordero di cognome, e più tardi iniziò a farsi chiamare Montezemolo, il cognome della madre), un altro si chiamava Mario (Draghi di cognome), un altro ancora Gianni (di cognome faceva De Gennaro), un altro ancora si chiamava Cristiano (Rattazzi).
Avrete capito che Luca da grande fece il presidente della Fiat, Gianni il capo della polizia, e Mario, forse, il governatore centrale. Cosa c’entra - direte - con tutto questo, il povero Cristiano? Poco e niente. Era il più studioso, era un ottimo ragazzo e come tutti i ragazzi voleva bene alla mamma e - immagino - anche agli zii. La mamma si chiamava Susanna, detta Suni, gli zii Gianni e Umberto (tutti e tre di cognome facevano Agnelli).
Non c’è nessuna morale in questa storia. Solo sembra un po’ la conferma che il capitalismo italiano è un po’ familista, un po’ asfittico, e che alla fine - girala come vuoi - tutti i poteri della borghesia finiscono nel quartiere generale, che è sempre quello: Torino, Corso Marconi.


Liberazione, 23.12.05
Parabole
Chiesa e sessualità


Caro Sansonetti, possono piacere Gesù e Don Vitaliano, Vendola può intitolare l'aeroporto di Bari a Karol Wojtila e può andare a messa tutti i giorni, ma se dal canto loro gli atei non hanno idee chiare, o non le rivendicano, allora siamo fregati. Perchè oggi, rispetto all'offensiva della chiesa e allo strapotere del capiutalismo è anzitutto necessario un salto culturale. In modo specifico è necessario acquisire la consapevolezza che il cristianesimo distrugge l'identità umana. Perché? Semplice, perché considera la sessualità peccato...La sessualità umana non equivale al bere e al mangiare, o alla ginnastica, né è legata alla procreazione come quella animale, ma è rapporto interumano e forma l'identità come immagine interiore maschile e feminile. Per questo i cristiani la vogliono distruggere. "Liberazione" ha ospitato un interessante dibattito sulla violenza contro le donne e, unico giornale in Italia, si sta ponendo un problema legato all'identità degli uomini e delle donne. Tu scrivi editoriali che contengono acute osservazioni. Ma se non si approfondisce la ricerca e non si diffonde il pensiero radicalmente diverso da quello cristiano sulla realtà non materiale umana, tutto ciò non porta molto lontano...
Andrea Ventura via e-mail

E' molto interessante quello che dici. Continuiamo a discuterne. Io però voglio ricordarti una cosa: Gesù ( e noi stiamo parlando di Gesù, non della storia della Chiesa) è forse il primo maschio che di fronte al linciaggio di una prostituta si oppone e lo impedisce. Poi si accompagna - sfidando il senso comune- con quella prostituta. A me sembra che Gesù non assomigli ne a Ruini ne a Ratzinger, ne alla grande maggioranza di cardinali e vescovi. Ti saluto con affetto
Piero Sansonetti




LaStampa Tuttolibri 24.12.05
Quando la preghiera diventa farmaco
Un medico credente riflette sulla necessità di un’empatia con il paziente: non basta affidarsi alla tecnologia e alle iperspecializzazioni

Eugenia Tognotti

CHE la preghiera sia la «medicina» non convenzionale più diffusa a tutte le latitudini e in tutte le religioni, è risaputo. Di fronte alla terribile prova della malattia e del dolore, un'esperienza tutta individuale, la gente, pur confidando nelle prodigiose risorse della scienza medica, cerca qualcosa di più e di diverso, speranza e conforto. Meno noto è che la «preghieraterapia» sembra produrre effetti terapeutici reali. Tanto che gli scienziati hanno cominciato ad interrogarsi sui suoi meccanismi d'azione. E ora la research on prayer è diventato un vero e proprio campo di studi, che negli Stati Uniti è munificamente finanziato dal governo. E i risultati di diversi studi condotti in reparti ospedalieri e pubblicati su autorevoli riviste scientifiche sembrano dare ragione a coloro che sostengono il potere terapeutico della preghiera: i gruppi di malati che pregavano durante la cura avrebbero richiesto dosi inferiori di farmaci e sarebbero andati incontro ad un più rapido processo di guarigione. A questo filone di ricerca - che sta facendo discutere - fa riferimento, tra l'altro, nel suo breve, ma denso saggio Credere e curare, Ignazio Marino, chirurgo italiano di fama internazionale trapiantato a Philadelphia, dove dirige il prestigioso centro trapianti della Thomas Jefferson University. La sua però non è la voce dello studioso che prende posizione in un'astratta disputa accademica. E neppure quella di un paziente che racconta un vissuto di malattia e un itinerario di cura e di preghiera. E' la testimonianza forte di un medico credente, che nella pratica clinica si confronta ogni giorno con quell'evento esistenziale, ma anche naturale, che è la malattia. E che lo fa - aiutato dalla propria fede - in uno dei templi della tecnologia medica avanzata e in un Paese come l'America, culla del materialismo. La sua riflessione - maturata in un quarto di secolo d'esperienza di lavoro in Europa e negli Stati Uniti - lascia affiorare il paradosso della medicina moderna: attrezzata come non mai, dal tempo d'Ippocrate in poi, sul piano diagnostico e terapeutico; provvista, grazie all'informatica, di nuove possibilità, che fino a qualche tempo fa sarebbero parse fantascientifiche (come quelle di un intervento chirurgico a distanza), la medicina vive oggi una drammatica crisi d'identità. Che si manifesta anche nel rapporto medico-paziente, impoverito dalla crescente complessità della strumentazione tecnologica e in cui immagini di pellicole, schermate di numeri, prescrizioni, sostituiscono la comunicazione, la parola del medico, il tocco della mano, l'ascolto degli stati d'animo, oltre che dei sintomi del paziente. Viene così a mancare quel reciproco coinvolgimento, quella «empatia» tra due esseri umani che nessun esame - scrive Marino - per quanto perfetto può sostituire. Come si muove un medico che crede nella scienza e nella medicina come missione in una realtà dominata dalla tecnocrazia produttiva, dalle pressioni del mercato, dai dilemmi posti dalle applicazioni delle scienze della vita? La fede - dice - può rappresentare una «bussola» per i medici in crisi d'identità, stretti tra un apparato tecnologico sempre più complesso e un'iperspecializzazione che sta erodendo i pilastri portanti del rapporto medico-paziente della tradizione ippocratica Un medico credente ha un vantaggio - spiega - rispetto a chi non lo è: le sue «regole morali» sono già scritte e comprendono quelle risorse aggiuntive, intangibili e preziose della cura che sono, l'umanità, la partecipazione, l'attenzione. Un punto di vista che, di certo, farà discutere. Una cosa è certa. Se - come dice un antico aforisma «Un buon medico, è la prima medicina» è da qui che occorre partire per curare una medicina smarrita e in crisi, a dispetto dei suoi trionfi.


LaStampa Tuttolibri 24.12.05
Giovani, benestanti, istruiti: sono gli adepti dei nuovi culti religiosi
Non sono vittime di un «lavaggio del cervello», non si tratta di «conversioni forzate», i casi di violenza fanatica rappresentano l’eccezione: le benevole e controverse tesi del sociologo Dawson

Franco Garelli

L’INTERESSE per i nuovi culti e movimenti religiosi non accenna a ridursi, anche se il fenomeno sta vivendo una stagione controversa. Questi gruppi non crescono più con il ritmo del passato, mentre si rafforza un'opinione pubblica e una letteratura ostile alle sette. Tuttavia l'attenzione dei mass media si mantiene alto e le conferenze e i corsi universitari sul tema continuano a riempirsi di gente e di iscrizioni. Da sempre le scelte estreme o più radicali costituiscono un oggetto di grande richiamo sia per le persone comuni che per gli studiosi di discipline diverse. Perché molti individui sacrificano oggi i valori dell'indipendenza e dell'autorealizzazione per far parte di gruppi religiosi particolarmente esigenti? Che chiedono loro rilevanti sacrifici economici, fisici e anche psicologici? Che cosa li spinge ad abbandonare le prospettive di una buona carriera, di una confortevole vita normale, per seguire capi carismatici o modelli di gruppo esotici e controcorrenti? Allo stato di salute de I nuovi movimenti religiosi è dedicato il volume di Lorne L. Dawson, docente di sociologia e di studi religiosi nell'Università di Waterloo, Canada. Uno dei punti qualificanti del lavoro è la sistematizzazione delle conoscenze sul fenomeno. Qual è anzitutto l'appeal dei nuovi movimenti religiosi, tenendo conto che i culti di successo odierni sembrano «setacciare più la crema che la schiuma della società»? A detta degli studiosi, chi si orienta verso questa esperienza sta vivendo una condizione di deprivazione, o di tipo affettivo-psicologico o sociale. Da un lato non ci si riconosce più nei valori dominanti nella società, dall'altro lato si è alla ricerca di ricompense (in termini di amore e di affetto, più semplicamente di significato) maggiori di quelle di cui si può disporre nella vita quotidiana. Di qui l'incentivo ad unirsi a un movimento religioso che promette cambiamento e compensazione, aprendosi ad un processo di «conversione» religiosa che può manifestarsi in varie tappe e livelli di coinvolgimento. Nel complesso, le persone reclutate dai nuovi culti sono in larga parte giovani, meglio istruite rispetto alla media, che provengono dai settori privilegiati della società. Per contro, non c'è un genere più incline di un altro a questa esperienza, così come il retroterra religioso di queste persone appare assai variegato. Nella maggioranza dei casi non si è di fronte a particolari indizi di patologia, anche se i membri di questi gruppi hanno perlopiù alle spalle esperienze difficili di separazione dalla loro famiglia, passaggi di vita complicati, forti tensioni di crescita in una società ostile, carenza di relazioni di intimità. Oltre a descrivere le caratteristiche e gli orientamenti prevalenti dei membri dei nuovi movimenti religiosi, questo libro affronta anche gli interrogativi più inquietanti che oggi si addensano su questo fenomeno. I loro seguaci sono vittime di un «lavaggio del cervello»? Si entra così nel cuore della controversia contemporanea sui culti. Questa accusa è al centro di molte contese di tribunale, sollevata da genitori che intendono riappropriarsi di figli «deboli» che si sono improvvisamente convertiti a nuove credenze e comportamenti o evocata da ex-membri di questi movimenti alla ricerca di forme di risarcimento per i «danni» ricevuti. Questi movimenti usano davvero tecniche sofisticate di «controllo della mente» o di «persuasione coercitiva» per procurarsi e mantenere i loro seguaci? Oppure tali accuse nascondono la debolezza delle proposte delle famiglie, la non accettazione che i figli facciano delle scelte religiose e di vita libere anche se sgradite e scioccanti? Sulla base degli studi del settore e delle sue ricerche empiriche, Dawson non condivide l'idea che i nuovi culti sottopongano i propri adepti a condizioni repressive e coattive, anche se questa opinione è assai diffusa nella società. Così dopo aver riassunto gli argomenti pro e contro la pratica della conversione coercitiva esercitata da parte dei nuovi movimenti religiosi, egli si sofferma sulla questione di chi continui a beneficiare del mito della conversione forzata. Molti gruppi (formati da genitori, professionisti della salute mentale, religiosi, ecc.) possono oggi aver interesse ad alimentare una coalizione anticulto, proprio per difendere interessi ed equilibri minacciati dal nuovo stato delle cose. Un'altra questione calda è rappresentata dal perché alcuni dei nuovi movimenti religiosi diventino violenti. Di tanto in tanto la cronaca porta alla ribalta storie drammatiche di violenza legata ai culti, come la morte (nel 1993) in uno spaventoso incendio del leader e di molti seguaci della setta del Daviniani a Waco, nel Texas, assediati nel loro quartier generale da agenti federali; o come il suicidio (nel 1994) di oltre 50 membri dell'Ordine del Tempio Solare in tre località della Svizzera e del Canada, scelta estrema a cui essi sono giunti dopo aver bruciato le loro case. Non mancano in alcuni casi leader paranoici e condizioni squilibrate, ma i comportamenti devianti sono delle drammatiche eccezioni, non la regola, nel variegato mondo dei nuovi culti. Del resto, forme di violenza attraversano anche gruppi e istituzioni religiose più consolidate nella società, che nessuno oserebbe mettere in discussione per casi anomali particolari. In sintesi, l'atteggiamento dell'autore di questo studio è benevolo nei confronti dell'esperienza dei nuovi movimenti religiosi. Se si depura la questione degli aspetti più controversi (e anche meno empiricamente verificati), emerge un fenomeno caratterizzato da un'indubbia rilevanza sociale e che ha molto da dirci sulle tendenze culturali emergenti. Se ci si libera dai pregiudizi verso le forme della nuova religiosità, non pare giustificato ritenerle delle esperienze irrazionali. Per molti adepti, questi gruppi rappresentano luoghi di una nuova ricerca, ambienti in cui offrire investimenti e sacrifici per ottenere servizi e soddisfazioni.





La Repubblica, 24.12.05
COMMENTO
Preghiera laica nel giorno di Natale
di EUGENIO SCALFARI


IL PRESENTE, il futuro, il passato. La libertà, la necessità. Nell'imminenza d'una ricorrenza dedicata alla vita che nasce, allo stupore felice del mistero d'una vita che nasce, meritano qualche riflessione quei cinque concetti che ho appena indicato. I primi tre delimitano il fluire del tempo, gli altri due le modalità del nostro vivere, antinomiche l'una rispetto all'altra, eppure così compresenti e coesistenti l'una con l'altra e tali da configurare completamente la condizione umana e il tempo entro il quale essa è chiamata ad operare.

Il giorno della Natività induce a riflettere sul mistero della vita che è senza alcun dubbio la conseguenza di un atto di libertà. Ma è altrettanto vero che questo atto di libertà compiuto da due persone pone il nuovo nato fin dall'inizio di fronte a elementi di necessità: il colore della sua pelle, il luogo in cui nasce, la condizione sociale, l'ereditarietà dei geni che presiedono alla sua struttura psico-fisica. Il nuovo nato è libero e condizionato al tempo stesso e questa dicotomia si rifletterà in ogni suo atto e in ogni suo pensiero dal momento in cui è nato a quello in cui morirà, che è incognito ma inevitabile.


IL NUOVO nato al quale è dedicata la ricorrenza cristiana del Natale vide la luce - così racconta la tradizione - in un villaggio della Giudea. La tradizione racconta che l'evento ebbe luogo in una stalla riscaldata dal fiato degli animali. Ne furono casualmente testimoni alcuni pastori. E questo è tutto; pochissimo, eppure sufficiente a stabilire fin dall'inizio di quella vita mortale alcune condizioni entro le quali il nuovo nato avrebbe vissuto e agito. Era maschio, era ebreo, era povero, correva il primo anno d'un calendario che dalla sua nascita ebbe inizio e che ora conta duemila e cinque anni. Questo è il flusso temporale decorso fin qui ma la sua nascita affonda in un passato che aveva alle spalle centinaia di migliaia di anni di evoluzione della nostra specie.

SPESSO accade che si discuta quale dei tre periodi che scandiscono la nostra vita sia più importante: se il presente o il futuro oppure il passato, fermo restando che futuro e passato vengono comunque immaginati e vissuti, o rivissuti, dal punto di vista del presente nel quale si trova il soggetto pensante.

IL PASSATO ha dalla sua il privilegio di fondarsi su fatti accaduti. Il passato è dunque un dato di fatto rivissuto per mezzo della memoria. Ma qui dobbiamo avvertire che la memoria è originariamente individuale, quindi soggettiva; per di più essa è mutevole nella mente d'uno stesso individuo.

Esiste anche una memoria collettiva, formatasi attraverso le "gesta" della "polis", della comunità cui apparteniamo. Vi apparteniamo non per nostra libera scelta ma perché così ha voluto il caso, quindi la necessità e non la libertà. Io sono nato in Italia e da genitori italiani, qualsiasi cosa ciò possa significare. Ma debbo sapere che una moltitudine di miei simili è venuta alla luce in quello stesso giorno in una quantità di altri luoghi in tutte le latitudini e le longitudini del pianeta, clima diverso, stelle diverse, diverse culture.

IL BAMBINO nato a Betlemme duemila e cinque anni fa fu fatto nascere dalla libera decisione di suo padre e sua madre in quel luogo e in quel tempo. Chiunque fosse suo padre (lo Spirito Santo secondo la dottrina della Chiesa) quella decisione fu libera. Nello stesso giorno nacquero altri bambini in Africa in Europa in Asia in America in Oceania e Australia. Il caso (o suo padre dall'alto dei cieli) decise le condizioni della sua vita. Ma egli, Gesù il Nazareno, diventato precocemente adulto decise di lanciare un messaggio che superava le condizioni delle genti in mezzo alle quali viveva; superava la legge che regolava la sua comunità.

Un messaggio indirizzato a tutti, uomini e donne, liberi e servi, poveri e ricchi. Un messaggio profetico proveniente dalla terra profetica dove era nato, la terra di Ezechiele, di Daniele, di Geremia, di Isaia, del Battista. La terra che Mosè aveva promesso agli schiavi in cattività egiziana.

Era possibile che un figlio di Dio nascesse in quel tempo e in un luogo che non fosse la terra profetica di Israele? Era possibile che nascesse ad Atene o ad Alessandria o a Roma o in qualunque altro luogo del pianeta? E che il suo
messaggio trovasse consenso e convocasse discepoli? E poteva riecheggiare nel mondo per mezzo di loro e attraverso i secoli?

No, non era possibile. Perché in quel piccolo villaggio della Giudea, e soltanto lì, esistevano le condizioni accumulatesi nel passato affinché il seme gettato fruttificasse e si spandesse nel mondo.

L'atto della nascita fu libero, effettuato in quel presente, ma le possibilità del futuro si verificarono grazie a quel passato. Senza quel passato, senza quella storia non ci sarebbe stato quel futuro.
Altri individui si sono certamente immaginati e pensati figli di Dio. Una moltitudine di individui l'ha immaginato e lo immagina, ognuno a suo modo in qualche sprazzo della propria natura lo immagina senza necessariamente esser pazzo. Ma lì soltanto e in quel momento ne esistevano le condizioni di realizzabilità.

L'evento ha avuto i suoi riflessi in larga parte del mondo e li ha tuttora su di noi. Su ciascuno di noi, che sia credente cristiano o credente di altra religione o non credente. Dunque l'atto libero cui si deve quella nascita ha posto ciascuno di noi a duemila anni di distanza di fronte a elementi dati, elementi di necessità dai quali nessuno di noi può prescindere perché fanno parte della nostra condizione storica nel nostro presente. si diceva del presente, del futuro e del passato.

SI DICEVA che il passato è affidato alla (mutevole) memoria soggettiva e a quella (altrettanto mutevole) della comunità a cui ciascuno di noi appartiene. Aggiungo che il passato è un'epoca determinata perché determinato e non infinito è il tempo della memoria.

Anche il futuro è determinato poiché è il frutto possibile della nostra immaginazione. La quale spazia in un tempo anch'esso finito. Quella individuale è solitamente più breve di quella collettiva, affidata alla classe dirigente di quella specifica comunità. Il tempo breve dell'immaginazione individuale e quello solitamente più lungo della classe dirigente della comunità, che si assume la responsabilità di operare per il bene comune.

Accade però talvolta che l'immaginazione della classe dirigente sia ancora più breve dell'immaginazione individuale, quando la responsabilità del futuro sia stata assunta da un tiranno o da una classe dirigente scellerata che anteponga la propria felicità alla felicità collettiva e si appropri delle risorse comuni per soddisfare i propri appetiti.
La storia ci offre infiniti esempi di siffatta appropriazione e d'una immaginazione che si riduce al motto "dopo di me il diluvio".

Passato e futuro vivono comunque nella nostra mente entro uno spazio temporale determinato. Non così il presente.

Il presente ci sembra ristretto ad un solo attimo che immediatamente si trasforma in passato, incalzato dall'attimo seguente che proviene dal futuro.
Ma, a rifletterci più a fondo, il presente è in realtà eterno nel corso di tempo assegnato alla nostra esistenza. Il flusso scorre continuamente ma la sua percezione è affidata all'attimo del presente e a quello soltanto, che nella sua istantaneità è dunque eterno.
Si tratta tuttavia d'una eternità fragilissima perché dipende sia dall'immaginazione del futuro sia dal ricordo del passato. Se per ipotesi la mente d'un individuo fosse del tutto priva d'immaginazione e anche di memoria, il suo presente cesserebbe di esistere come stato di coscienza.

L'individuo umano regredirebbe allo stato dell'animale che vive anch'esso in un eterno presente ma non ne ha coscienza, animato soltanto da istinti e pulsioni.
Ciò che accade agli individui accade anche alle comunità. Se esse recidono il passato dalla loro storia collettiva e cessano d'immaginare il futuro limitandosi a soddisfare gli appetiti attuali, regrediscono ad uno stato di ferinità che in breve dissolve ogni regola e inaugura la condizione dell'uomo-lupo hobbesiana.

Questa considerazione sul tempo è pertinente alla ricorrenza della Natività; essa infatti ci stimola a riflettere sul futuro e sul passato della vita che nasce qui e oggi e dell'infinita moltitudine di vite nate nel loro qui e oggi e di quelle che nasceranno nel loro oggi e nel loro qui. Memoria del passato, immaginazione del futuro danno senso al nostro presente e lo riscattano alla sua umanità. Le società che trascurano memoria e immaginazione si disumanizzano. Occorre dunque impedire questa trascuratezza, occorre ravvivare la memoria del passato e la
sollecitudine verso il futuro. Occorre scacciare il diabolico che dissipa il futuro per alimentare i godimenti del presente e cancella il passato rifiutandone il lascito e azzerando la memoria.

TALVOLTA accade che il presente sia così poco soddisfacente, così moralmente povero, così eticamente scadente da indurci a disertarlo, raccogliendoci in un presente solitario, in una solitaria preghiera, religiosa o laica che sia. (I religiosi forse ignorano che anche i laici pregano invocando la propria coscienza).

Per concludere userò qualche verso di una lirica molto pagana ma inopinatamente molto religiosa nel suo struggente evocare l'eternità d'un attimo consapevole.

Il giorno, disse, non potrà morire.
Mai la sua faccia parve tanto pura.
Non ebbe mai tanta soavità.

A me basta per dare senso alla vita.



Avvenimenti, 22.12.05
L’ora di religione
Privilegi porporati e programmi scolastici dettati dalla Cei. Dove è finito lo Stato laico?
di Simona Maggiorelli


L’inizio è nelle pagine di storia: l’insegnamento della religione cattolica fece il suo ingresso ufficiale nelle scuole italiane nel 1923 con la riforma Gentile. Una scelta rafforzata poi dal Concordato del ’29. Ora però, a più di cento anni di distanza, il ministro dell’Istruzione Letizia Moratti insiste su un inattuale ritorno a un modello confessionale della scuola pubblica. Lo raccontano l’assunzione in ruolo di 10mila insegnanti di religione varata dal governo Berlusconi e il fatto che le assenze degli studenti all’ora di religione ora vengono segnate e interpretate come penalità, eludendo il “particolare” che si tratta pur sempre di una materia facoltativa. Ma non solo. La commissione guidata da monsignor Tonini, incaricata dalla Moratti di stilare un manuale deontologico, ha appena concluso i suoi lavori e, presto, ne avremo il pensum ad uso di tutti gli insegnanti, non solo quelli dell’ora di religione. Mentre il vicepresidente del Cnr, lo storico Roberto De Mattei, con il compito di riformare la ricerca nel settore delle materie umanistiche, lancia proclami per un riscatto della società cristiana e contro i progressi della scienza, come fondatore dell’associazione Lepanto. E non si tratta, purtroppo, di un film in costume sul ritorno dei crociati. Basta andare sul sito www.lepanto.org per rendersene conto. Si tratta di scelte vere e pesanti, di cui si colgono già le ricadute sui programmi scolastici e sulla ricerca. Lo si è già visto con il tentativo del ministro Moratti di fare spazio al creazionismo nei programmi di biologia, ostracizzando l’evoluzionismo di Darwin. Un tentativo fermato dalle dure accuse mosse dall’Accademia dei Lincei già nell’aprile del 2004, ma poi approdato alla nomina ministeriale di una commissione presieduta da Rita Levi Montalcini e incaricata di decidere dell’utilità dell’insegnamento di Darwin, i cui documenti finali sono stati pesantemente manomessi, come aveva denunciato ad Avvenimenti il professor Vittorio Sgaramella, docente di biologia molecolare dell’università della Calabria e membro della commissione Montalcini e come racconta MicroMega nel nuovo numero “Chi ha paura di Darwin?”.
Abbiamo chiesto a Mario Staderini, insieme all’associazione radicale anticlericale.net, attento studioso di cose vaticane e autore di un libro sull’8 per mille, di raccontarcene radici e conseguenze.
«In questo viaggio, partiamo dall’insegnamento della religione cattolica all’interno della scuola pubblica - suggerisce Mario Staderini -. Si tratta di un privilegio concesso dallo Stato in base al Concordato, una norma di favore riservata alla sola Chiesa cattolica con cui si fa della scuola uno strumento di promozione di una confessione religiosa, peraltro discriminando tutte le altre».

Come si traduce in concreto?

Lo Stato è obbligato ad inserire l’insegnamento della religione cattolica all’interno dell’orario scolastico, e paga i docenti. Oggi sono circa 20mila ed è il vescovo a designarli, rilasciando (e revocando) il certificato d’idoneità in virtù di un giudizio etico e morale. C’è, dunque, un potere di controllo nei confronti di dipendenti statali da parte della diocesi e della Cei, la Conferenza episcopale, che dà le direttive.

L’intesa firmata nel 2003 fra ministero e Cei ha aggravato questa situazione?

Si è consentito alla Cei di fissare gli obiettivi dell’insegnamento, controllandone così i contenuti. Negli ultimi anni è in corso una vera e propria deriva clericale. Dopo numerosi tentativi di eludere la facoltatività dell’ora di religione, sono state approvate leggi unilaterali, come quella varata dal governo Berlusconi per l’immissione in ruolo degli insegnanti di religione. Ne sono già stati inseriti 10mila e si arriverà a 15.383 entro l’anno prossimo. Ma il Concordato non prevedeva nulla del genere.

E con quali costi per lo Stato?

Non c’è ancora una stima precisa, ma lo si può facilmente calcolare considerando uno stipendio medio di 2mila euro lordi: moltiplicato per 20mila si arriva a 500 milioni di euro a carico dello Stato ogni anno. Questo solo per gli insegnanti, senza contare il valore e le spese per le strutture.
Gli insegnanti di religione entrano nei consigli di classe. Quanto incide il loro giudizio?
Con la riforma Moratti si tenta di equiparare anche il valore didattico, inserendo la valutazione in pagella. I sindacati denunciano che, da qui al 2008, ogni tre docenti assunti dalla scuola pubblica, uno sarà di religione. La loro immissione in ruolo, poi, apre scenari paradossali: ammettiamo che non venissero più giudicati idonei all’insegnamento e revocati dal vescovo, perché divorziati o perché, supponiamo, hanno votato sì al referendum sulla fecondazione assistita, essendo di ruolo, passerebbero a insegnare quelle materie umanistiche in cui la loro formazione confessionale giocherebbe un preciso peso.
Già adesso nell’ora di religione non si studiano le crociate o la controriforma, spiegandone il peso storico.
Si studiano i Vangeli, la figura di Gesù e la vita della Chiesa cattolica, mentre le altre confessioni religiose sono considerate solo in rapporto subalterno a quella cattolica. È un insegnamento confessionale proprio perché segue un preciso carattere religioso e identitario. Ad esempio, tra gli obiettivi specifici stabiliti nell’Intesa vi è quello di far “comprendere che il mondo è opera di Dio”.
Con la riforma Moratti il pensiero religioso impronta i programmi di più materie?
Indubbiamente c’è un tentativo. Lo stesso Cardinal Ruini, nel messaggio di saluto per i nuovi insegnanti di religione di ruolo, disse esplicitamente che quello era il primo passo per far uscire l’insegnamento della religione cattolica da un ruolo marginale nella scuola pubblica, ed assumere finalmente un ruolo determinante nella crescita globale dei bambini e dei ragazzi. Un obiettivo che ha trovato appoggio nelle scelte del ministro Moratti e di una lunga serie di ministri cattolici che l’hanno preceduta. Gli strumenti utilizzati sono l’ora di religione, il codice deontologico dei docenti affidato al cardinal Tonini, l’ostracismo alla storia precristiana e all’evoluzionismo in biologia, così come la presenza di riti religiosi cattolici che ancora si celebrano, a vario titolo, nelle scuole pubbliche italiane. Un aumento di imput confessionali, dunque, a fronte invece di una quasi totale scomparsa dell’insegnamento dell’educazione civica. Non c’è poi da stupirsi se nel paese si va perdendo il senso civico e istituzionale, la conoscenza stessa dell’istituto referendario ad esempio, mentre aumenta, complice lo strapotere mediatico, l’attenzione ai messaggi criminalizzanti su aborto e fecondazione assistita delle gerarchie vaticane e delle associazioni integraliste. La scuola ha una precisa responsabilità.
In questo quadro, allora, è tanto più grave il finanziamento concesso dallo Stato alle scuole private cattoliche.
Al meeting di Comunione e liberazione dell’agosto 2001, il ministro Moratti affermò che non deve più esistere il monopolio pubblico dell’istruzione. Personalmente non avrei pregiudizi rispetto all’affidamento anche a soggetti privati del servizio pubblico scolastico. Il problema è che la libertà di insegnamento, negata nella scuola pubblica agli insegnanti di religione, è ancor più compressa nelle scuole confessionali. Finanziare le scuole private, in Italia, significa finanziare soprattutto le scuole cattoliche, di qui la strumentalità di questi provvedimenti. Nel 2004, il finanziamento pubblico alle scuole non statali, introdotto nel 2000 dal governo D’Alema, è stato di 527 milioni di euro. L’esenzione dall’Ici disposta dall’ultima legge finanziaria è un ulteriore tassello di una strategia per fare delle
scuole cattoliche private delle scuole d’élite, in cui formare le future classi dirigenti del paese. Ma anche nell’università la situazione è privilegiata.

In che senso?

L’articolo 10 comma 3 del Concordato stabilisce che le nomine dei docenti dell’Università cattolica del Sacro Cuore (che gode di finanziamenti pubblici) siano subordinate al gradimento, sotto il profilo religioso, della competente autorità ecclesiastica. Ciò significa vincoli per i professori ed una formazione particolare per gli studenti, della facoltà di medicina ad esempio; non senza conseguenze esterne: basti pensare che il Policlinico Gemelli è parte integrante della Università Cattolica. La messa sotto tutela dell’insegnamento, dell’università e della ricerca ha sempre una ricaduta sulla vita pubblica e dei cittadini. Tanto che l’Italia si colloca agli ultimi posti nell’utilizzo della terapia del dolore, nelle garanzie per i cittadini rispetto ai medici obiettori, mentre anche l’utilizzo della Ru486 è pervicacemente ostacolato. E dal 2004 ci ritroviamo con la legge sulla fecondazione assistita più proibizionista del mondo.
Ma il paese reale si ha la sensazione non sia poi così cattolico integralista come la Cei.
Infatti. Il filosofo cattolico Pietro Prini, in un suo libro, parla di “scisma sommerso” per descrivere la distanza tra la dottrina ufficiale e la coscienza dei fedeli. Ma non è detto che, con il ripetersi di politiche e strategie clericali, la distanza non si riduca.

E in Europa, c’è qualche paese che viva una situazione come quella italiana?

Sul fronte scolastico, la riforma di Zapatero sta liberando la scuola pubblica spagnola da influenze confessionali; in Germania è ancora forte la dimensione pubblica della Chiesa, così come in Portogallo. L’ Inghilterra, dove la religione anglicana è religione di Stato, ci fornisce un modello opposto: lo Stato non dà un penny alla Chiesa. Stati “a rischio”, per cosi dire, sono i nuovi paesi della Ue, specie quelli dell’ex Urss e dell’ex Jugoslavia. Il Vaticano, infatti, da anni sta conducendo una politica neoconcordataria con l’obiettivo di ottenere il riconoscimento di norme speciali.

Attraverso il meccanismo dell’ 8 per mille si finanziano le scuole religiose?

Non tutte. Con i fondi dell’8 per mille vengono finanziate facoltà teologiche e istituti di scienze religiose, nonché associazioni cattoliche come Age e Agesci, che ritroviamo poi presenti nelle commissioni ministeriali. Complessivamente, con l’8 per mille, 1 miliardo di euro finisce ogni anno nelle casse della Cei, nonostante oltre il 60 percento dei contribuenti italiani non esprima alcuna volontà in tal senso. Chi non firma l’apposito modulo, infatti, si vede prelevato comunque l’8 per mille delle sue imposte e destinato alla Cei in base alla percentuale delle scelte espresse dalla minoranza di italiani che hanno firmato. Insomma, una questione di ignoranza indotta.




La Stampa, 19.12.05
L’ITALIA INCAPACE DI SOSTENERE LA NATALITÀ
Mamme sfavorite, culle vuote
di Chiara Saraceno


L’Italia è un paese in cui esiste un clima fortemente sfavorevole alla maternità, a tutti i livelli. È quanto emerge chiaramente da una recentissima ricerca effettuata dall’Istat per la Commissione Parità Uomo Donna.
In primo luogo, l’Italia rimane un Paese in cui la divisione del lavoro e delle responsabilità tra uomini e donne, tra padri e madri, rimane fortemente asimmetrica. Una moglie-madre occupata svolge oltre il 78% di tutto il lavoro domestico e di cura per la sua famiglia, aggiungendo così diverse ore di lavoro non pagato a quelle di lavoro pagato. Nonostante i padri giovani oggi dedichino più tempo ai figli che una decina di anni fa, si tratta di un aumento molto contenuto (16 minuti al giorno in più in 14 anni), che lascia intatte le responsabilità delle madri. A distanza di cinque anni dalla approvazione della legge che lo consente, sono ancora molto pochi i padri che prendono un periodo di congedo di paternità. Spesso sono loro a non volerli chiedere. Ma spesso sono i datori di lavoro a scoraggiarli vivamente dal farlo: secondo i dati rilevati dall’Osservatorio sulla famiglia nella Pubblica Amministrazione, a 77 mila padri è stato negato l'utilizzo del congedo.In secondo luogo, i servizi, specie per la primissima infanzia, sono largamente insufficienti e costosi. È vero che negli ultimi anni vi è stato un forte aumento della offerta di nidi, che oggi accolgono il 15% dei bambini nella fascia di età 0-2 anni. Si tratta tuttavia di un aumento ancora lontano dal fabbisogno, dato che oltre il 50% delle mamme di bambini di quella età è occupata. Ed è dovuto quasi tutto all’aumento di offerta di nidi privati. Questi ultimi sono notoriamente molto più costosi di quelli pubblici; e soprattutto le loro rette non mutano con il reddito dei genitori. La frequenza a un nido privato in una città come Torino può costare fino a seimila euro l’anno: quasi dieci volte la cifra massima che la legge finanziaria 2006 prende in considerazione a fini di detrazione fiscale e sei volte l’ammontare del bonus una tantum per i neonati. E rimane il problema delle vacanze, sempre più lunghe delle ferie, delle malattie e così via. Se non ci fossero le nonne, molte madri non riuscirebbero proprio a stare sul mercato del lavoro. E anche così, la partecipazione al mercato del lavoro crolla quando le donne hanno un figlio: sono occupate l’87% delle giovani nubili, il 55% delle loro coetanee con figli.Per altro, le nonne disponibili a tempo pieno stanno diventando una risorsa scarsa: sia perché loro stesse si troveranno sempre più spesso nel mercato del lavoro; sia perché dopo lunghi anni di accudimento della famiglia, inclusi gli anziani fragili, anche le nonne desiderano un po’ di tempo per sé. Non stupisce allora del tutto che le madri delle giovani donne oggi non siano poi così favorevoli a che le loro figlie facciano un figlio in più: ne conoscono i costi per le loro figlie, ma forse anche ne temono i costi per sé. In ogni caso, anche dentro la cerchia familiare le giovani donne, lungi dallo sperimentare una pressione culturale alla maternità, come era successo ancora alle loro madri, oggi sperimentano piuttosto resistenze, avvisi di cautela.
È soprattutto nel mercato del lavoro che il clima è particolarmente sfavorevole alla maternità. Gli orari di lavoro sono rigidi e l'utilizzo della flessibilità «amichevole» poco diffuso. L’offerta di part time, ancorché cresciuta, continua a essere molto ridotta rispetto agli altri paesi. Allo stesso tempo, la diffusione del contratti di lavoro atipici impone il part time a donne che viceversa desidererebbero lavorare a tempo pieno. E in generale le esclude di fatto o di principio da quegli istituti (congedi, servizi aziendali) che sostengono le madri nel difficile esercizio di conciliare le loro diverse responsabilità. Quando rigidità degli orari di lavoro e della divisione del lavoro in famiglia si sommano, il sovraccarico e la tensione appaiono quasi insopportabili. È il caso ad esempio delle operaie dell’industria, ma anche delle lavoratrici autonome nel commercio.
Accanto alle piccole e grandi vessazioni che molte donne sperimentano sul luogo di lavoro quando diventano madri, continuano, infine, a verificarsi casi di interruzioni del lavoro o di licenziamenti/dimissioni di donne in gravidanza, soprattutto, ma non solo, al Sud. È inutile fare proclami sulla necessità di sostenere la natalità, se nulla si fa per incidere sulle condizioni che rendono così sfavorevole il contesto in cui le donne - e di conseguenza le coppie - compiono le proprie scelte di avere o meno un figlio, e soprattutto di averne uno in più.


Corriere della Sera, 28.12.05
Un’iniziativa Microsoft
Alla ricerca della memoria perfetta
Da quattro anni Gordon Bell registra su supporti digitali ogni istante della propria vita. Per non dimenticare nulla

SAN FRANCISCO (Stati Uniti) – Gordon Bell ha 71 anni. Ma, a differenza di molti suoi coetanei, non deve preoccuparsi della progressiva perdita di memoria connessa all’età. Della sua vita, il buon Gordon non dimenticherà proprio nulla. Grazie alle tecnologie digitali ogni singolo pezzo della sua esistenza è infatti registrato e conservato su MyLifeBits, un database del Microsoft's Bay Area Research Centre, dove Bell lavora come ricercatore.
A SPASSO CON IL GPS – Per registrare la massima quantità possibile di informazioni su se stesso lo scienziato gira il mondo equipaggiato di una mini fotocamera digitale che scatta una foto al minuto, indossa alcuni sensori in grado di captare differenze di luce e di calore e di tenere traccia del dato, non dimentica mai di portare con sé registratori che non si perdono nemmeno una conversazione mentre tutti i suoi spostamenti, ovviamente, sono seguiti tramite un dispositivo Gps. Una vera vita a prova di oblio, in cui Bell è immerso dal 2001, da quando prese la decisione di sottoporsi come cavia ad un progetto che tenta di mettere in pratica il sogno, tipico dell’era digitale, della memoria infinita
QUANTO E’ GRANDE UNA VITA? - In quasi cinque anni di un’esistenza, che tanto assomiglia a quella descritta da Steven Spielberg nel film Minority Report, Bell ha inserito nel proprio database la bellezza di 1.300 video, 5.067 file audio, 42 mila fotografie digitali, 100 mila e-mail, 67 mila pagine web. Più recentemente, l’archivio digital-esistenziale dello scienziato si è arricchito di dati riguardanti la sua salute, dalle calorie ai battiti del cuore. Ma quanto è grande, digitalmente parlando un’esistenza individuale? Secondo i ricercatori della società di Bill Gates, tutte le informazioni di una vita possono trovare posto in un terabyte di memoria (mille miliardi di byte). A patto, però, di escludere i video. Nel caso fossimo spinti dal desiderio di tenere una cronaca visuale della nostra esistenza ci vorrebbero altri 200 terabyte di memoria.
RISCHI E APPLICAZIONI - Dal punto di vista di Microsoft l’aspetto più interessante del progetto è quello di trovare un sistema intelligente ed efficiente di organizzare questa sterminata massa di frammenti di vita personale. Una sfida che non serve solo a spingere più in là i limiti dell’informazione ma potrebbe avere applicazioni anche in medicina. Un simile esperimento è attualmente condotto in un piccolo gruppo di pazienti affetti da malattie degenerative del cervello.
Raffaele Mastrolonardo




Corriere della Sera, 28.12.05
L'Udienza generale davanti a 30 mila fedeli
«Dio posa il suo sguardo sull'embrione»
Il Papa: «Le piccole creature umane non nate sono formate dalle mani del Signore e circondate dal suo amore».


ROMA - «Gli occhi amorevoli di Dio si rivolgono all'essere umano, considerato nel suo inizio pieno e completo». Anche se «ancora informe nell'utero materno», «l'embrione è una piccola realtà ovale, arrotolata, ma sulla quale si pone già lo sguardo benevolo e amoroso degli occhi di Dio».
Benedetto XVI riprende il ciclo di catechesi durante l'udienza generale del mercoledì e, di fronte ad oltre 30mila fedeli, affronta il tema dell'embrione e «dell'azione divina all'interno del grembo materno», un «capolavoro che è la persona umana, pur percossa e ferita dalla sofferenza».
Parlando dell'embrione, il Papa ha sottolineato come «è vero, sono imperfetti e piccoli, tuttavia per quanto riescono a comprendere, amano Dio e il prossimo e non trascurano di compiere il bene che possono».
Dunque, «anch'essi - spiega il Papa - contribuiscono, pur collocati in posto meno importante, all’edificazione della Chiesa, poiché, sebbene inferiori per dottrina, profezia, grazia dei miracoli e completo disprezzo del mondo, tuttavia poggiano sul fondamento del timore e dell'amore».
«Estremamente potente - ha aggiunto il Pontefice - è l'idea che Dio di quell’embrione ancora informe veda già tutto il futuro: nel libro della vita del Signore già sono scritti che quella creatura vivrà e colmerà di opere durante la sua esistenza terrena».



Corriere della Sera, 28.12.05
«Si tratta di dare una prospettiva di sicurezza alle famiglie»
Storace: «Rivedere la legge 180»
Il ministro della Salute: «Dopo 30 anni andrebbero ripensati alcuni aspetti». I verdi: «Per fortuna la legislatura è al termine»


ROMA - «Credo che sia giunta l'ora di mettere mano alla legge 180 (quella sui manicomi ndr), perché si tratta di dare una prospettiva di sicurezza alle famiglie. Non metto in discussione l'impalcatura della legge, probabilmente ci sono cose che trent'anni dopo vanno ridiscusse». Lo ha detto il ministro della salute Francesco Storace a margine dell'insediamento del presidente della Croce Rossa Italiana Massimo Barra.
CONTRARI I VERDI - «Per fortuna il Governo ha i giorni contati ed i propositi di Storace di rivedere la 180 non possono essere realizzati, ma quello che preoccupa è il nuovo tentativo di speculare sul dolore di migliaia di persone che si confrontano con il disagio mentale con l'obiettivo di rimettere in discussione la legge 180, conquista basilare della moderna psichiatria, secondo gli insegnamenti di Basaglia», ha affermato il coordinatore della segreteria dei Verdi, Paolo Cento, che ha aggiunto: «Il problema non è tornare al manicheo scontro tra basagliani e tobiniani, ma andare avanti ed estendere il sostegno alle famiglie che soffrono questo disagio, potenziare le strutture residenziali pubbliche e private e la loro integrazione nel territorio come peraltro prevede una proposta di legge avanzata proprio dai Verdi».
PERPLESSI GLI PSICHIATRI -È «fondamentale mettere mano alle attuali disfunzioni del sistema, attraverso progetti-obiettivo mirati, piuttosto che pensare ad un intervento sulla legge 180». È questa l'opinione del presidente della Società italiana di psichiatria (Sip) Carmine Munizza che, commentando l'annuncio del miniastro della Salute Francesco Storace circa l'intenzione di «mettere mano alla 180», ha rilevato come «non sarà certamente una nuova legge a garantire che i servizi nel settore della psichiatria funzionino». La legge Basaglia sulle malattie mentali, ha affermato Munizza, «è una legge di civiltà e di principio». Quanto alla volontà di rivederla espressa dal ministro Storace, Il presidente Sip avanza delle riserve: «Il punto - ha spiegato - è sicuramente quello di migliorare la qualità dei servizi; questo, però, non lo si fa toccando la legge, bensì stabilendo un nuovo progetto-obiettivo. L'ultimo - ha precisato - è scaduto nel 2000 e per questo riteniamo urgente l'emanazione di un nuovo progetto per dare risposta alle esigenze dei tempi». Insomma, una nuova legge, secondo Munizza, «sarebbe inutile, mentre più sensato sarebbe realizzare progetti mirati e prevedere magari dei commissari per le Regioni che non dovessero applicarli». Così come totale, ha ricordato il presidente Sip, è l'opposizione alla proposta di legge Burani che mirava appunto ad una riforma della 180: «In questo caso - ha concluso Munizza - non si faceva altro che riproporre sotto altre vesti il vecchio modello manicomiale».
ASSOCIAZIONI DIVISE - Le associazioni dei familiari dei pazienti psichiatrici si dividono dopo l'annuncio da parte del ministro della Salute Francesco Storace di «mettere mano alla legge 180»: positivo il commento dell'Arap (Associazione per la riforma dell'assistenza psichiatrica), una delle maggiori associazioni dei familiari dei malati di mente che da oltre 20 anni si batte per la revisione della 180, mentre per l'Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale Unasam l'idea di ritoccare la legge è «una sciocchezza» probabilmente motivata da «ragioni elettorali». L'Arap ha affermato di «salutare con gioia» la notizia che il ministro Storace ha annunciato l'intenzione di provvedere a una revisione della legge 180 che «assicuri alle famiglie la sicurezza personale e l'aiuto cui hanno diritto». «La legge 180, descritta dai suoi fautori come la più avanzata del mondo - ha commentato l'associazione - secondo i familiari dei malati ha spesso lasciato nell'abbandono i malati stessi e le famiglie, aprendo così la strada ad una ridda di violenze che ha prodotto, a tutt'oggi, varie migliaia di vittime tra i congiunti dei malati e molte centinaia di suicidi tra i malati stessi». L'Arap ha assicurato dunque al ministro la «piena collaborazione dei familiari affinchè, alle assicurazioni verbali da lui formulate, segua una riforma concreta e rapida della legge psichiatrica, concordata anche con le famiglie». Sicuramente, ha spiegato Emilio Covino dell'Arap, «non si pensa neppure lontanamente alla riapertura di strutture manicomiali, bensì a garantire il funzionamento di strutture adeguate all'interno degli ospedali. Altro punto - ha aggiunto - è poi quello di prevedere anche l'obbligatorietà di cura per i malati gravi non consenzienti, una situazione che oggi mette spesso le famiglie in gravissima difficoltà». Definisce invece una «sciocchezza» l'idea di mettere mano ala legge 180 il presidente onorario dell'Unasam Ernesto Muggia: «Si tratta di una stupidaggine - ha detto - soprattutto a un mese dalla scadenza delle Camere, una manovra elettorale». Secondo Muggia, infatti, «non ha senso andare a modificare la legge 180 che è una legge quadro e che, addirittura precorrendo i tempi, riconosce alle Regioni l'autonomia nell'organizzazione dei servizi di salute mentale, stabilendo semplicemente dei principi base». Dunque, è la posizione dell'Unasam, «va semplicemente messo in atto ciò che la legge prevede, ovvero servizi territoriali diffusi che oggi non sono assolutamente adeguati alle esigenze. Il punto - ha concluso Muggia - è che i servizi di salute mentale vanno finanziati meglio e, soprattutto, vanno garantiti su tutto il territorio nazionale».




Le Scienze, 26.12.05
Un microRNA regola la durata della vita

I geni che controllano la tempistica della formazione degli organi durante lo sviluppo governano anche il momento della vecchiaia e della morte e forniscono le prove dell'esistenza di un meccanismo biologico di invecchiamento. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista "Science".
"Nonostante esista una grande variazione nella durata della vita da specie a specie, - commenta il biologo Frank Slack, uno degli autori dello studio - i processi dello sviluppo e dell'invecchiamento condividono alcuni aspetti genetici. Utilizzando l'organismo modello C. elegans. un verme molto semplice ma geneticamente ben studiato, abbiamo identificato i geni coinvolti direttamente nella determinazione della lunghezza della vita. Gli esseri umani possiedono geni quasi identici a questi".
Un microRNA e il gene dello sviluppo che esso controlla, lin-4 e lin-14, influenzano gli schemi di sviluppo cellulare a stadi molto specifici. Slack e colleghi dell'Università di Yale hanno scoperto che le mutazioni di questi geni alterano sia la durata delle fasi dello sviluppo sia la longevità dei vermi.
Per determinare la loro funzione, i ricercatori hanno prodotto organismi con versioni mutate di entrambi questi geni. Gli animali con una versione non funzionante di lin-4 presentavano una durata della vita significativamente più breve rispetto al normale. Quelli con una versione sovraespressa di lin-4, al contrario, tendevano a vivere di più. Una perdita di funzione di lin-14, il target di lin-4, causava invece l'effetto opposto: una longevità superiore del 31 per cento.
Secondo Slack, questi risultati sono le prove dell'esistenza di un "orologio biologico intrinseco" che governa l'invecchiamento così come il normale sviluppo degli organi. Lo studio dimostra che i programmi di sviluppo regolati da questi geni vengono modulati attraverso la segnalazione di insulina, dimostrando la connessione fra il metabolismo dell'insulina e la vecchiaia.
© 1999 - 2005 Le Scienze S.p.A.




Le Scienze, 25.12.05
L'origine dell'usanza dei doni
Anche nelle società primitive era presente l'altruismo


Uno studio di prossima pubblicazione sul numero di febbraio 2006 della rivista "Current Anthropology" esamina le origini dell'usanza di fare doni in occasione delle festività e rivela che anche i membri delle società primitive erano frequentemente altruistici.
"La reciprocità - spiega Michael Gurven dell'Università della California di Santa Barbara - è probabilmente la base fondamentale della cooperazione fra gli esseri umani. Una delle caratteristiche centrali della reciprocità è la relazione contingente fra l'atto del dare e quello del ricevere in un ambito sociale. La contingenza è importante, perché stabilisce le regole per definire chi imbroglia in una relazione di scambio".
Lo studio, che rappresenta un tentativo rigoroso di quantificare l'estensione di differenti forme di vantaggio nelle relazioni di scambio, potrebbe risultare fondamentale per mettere la parola fine ad annosi dibattiti sulla funzione dell'altruismo nelle società di cacciatori-raccoglitori. Le forme strette di contingenza richiedono il meccanismo del "do ut des", mentre le forme più indulgenti enfatizzano l'importanza dei contributi relativi di ciascuno. Gurven ha esaminato gli scambi di cibo in due società non commerciali su piccola scala, un contesto classico per comprendere l'evoluzione della cooperazione condizionata negli esseri umani.
"Senza un qualche tipo di guadagno, - afferma - l'altruismo può essere un comportamento molto costoso nelle piccole società che si sostengono con cibi selvatici. Questo studio dimostra che in effetti le persone condividono più risorse con coloro che a loro volta sono disposti a donarle. Ma le famiglie che non possono produrre molto cibo, i parenti prossimi e i vicini talvolta ricevono più di quello che danno".
Michael Gurven, "The Evolution of Contingent Cooperation." Current Anthropology 47:1.
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Le Scienze, 25.12.05
La civiltà è scritta nei geni
Le impronte dell'evoluzione sono osservabili su tutto il genoma umano


Uno sguardo dettagliato al DNA dell'uomo ha rivelato che una percentuale significativa dei nostri geni è stata plasmata dalla selezione naturale negli ultimi 50.000 anni, probabilmente in risposta ad aspetti della cultura umana moderna come la nascita dell'agricoltura e lo spostamento verso insediamenti più densamente popolati.
Uno dei modi per cercare i geni che sono stati cambiati recentemente dalla selezione naturale è quello di studiare i polimorfismi di singolo nucleotide (SNP), differenze di una sola lettera nel codice genetico. Il metodo consiste nel cercare coppie di SNP che si verificano più spesso di quanto ci si attenderebbe se fossero dovute al rimescolamento genetico casuale e inevitabile di generazione in generazione. Queste correlazioni sono note come "linkage disequilibrium" (associazioni alleliche non preferenziali), e possono verificarsi quando la selezione naturale favorisce una particolare variante di un gene, selezionando contemporaneamente anche il SNP vicino.
Robert Moyzis e colleghi dell'Università della California di Irvine hanno cercato queste associazioni in una raccolta di 1,6 milioni di SNP sparsi in tutti i cromosomi umani. Hanno studiato con attenzione tutte le mutazioni cercando di distinguere le conseguenze della selezione naturale da altri fenomeni, come inversioni casuali di segmenti di DNA. L'analisi, descritta in un articolo pubblicato sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences", suggerisce che circa 1800 geni, il 7 per cento del totale del genoma umano, siano cambiati negli ultimi 50.000 anni sotto l'influenza della selezione naturale. Una seconda analisi con un altro database di SNP ha fornito risultati simili. Si tratta quasi della stessa proporzione di geni del mais alterati da quando gli esseri umani hanno modificato la pianta a partire dai suoi antenati selvatici.
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Le Scienze, 20.12.05
La divergenza fra umani e scimpanzé
La separazione sarebbe avvenuta fra 5 e 7 milioni di anni fa


Un gruppo di ricercatori ha proposto nuovi limiti per il periodo in cui sarebbero vissuti gli antenati comuni più recenti degli esseri umani e dei loro parenti più prossimi, gli scimpanzé. Gli scienziati dell'Arizona State University e della Pennsylvania State University hanno posizionato il momento della separazione fra i 5 e i 7 milioni di anni fa, una finestra molto più stretta di quelle fornite dai precedenti studi molecolari e dalle ricerche sui fossili, che si limitavano a indicare un periodo compreso fra i 3 e i 13 milioni di anni fa.
Sudhir Kumar e colleghi hanno analizzato il più ampio set disponibile di dati sui geni che codificano per proteine e hanno usato un nuovo approccio computazionale da loro sviluppato, che tiene maggiormente conto della variabilità - o dell'errore statistico - nei dati rispetto agli studi precedenti. Per affrontare il problema è necessario studiare i geni perché l'interpretazione dei primi fossili di umani al confine fra uomo e scimmia è tuttora controversa. Inoltre non è stato trovato quasi nessun fossile di scimpanzé. "Nessuno - spiega Kumar - aveva finora tenuto conto di tutti gli errori nella stima del tempo con il metodo dell'orologio molecolare". Lo studio è stato pubblicato online sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences".
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AprileOnLine, 24.12.05
Tutte le donne del presidente
Stati Uniti. Dalle signore di guerra a quelle della politica a stelle e strisce. Il 2005 Condi Rice, Harriet Miers e Karen Hughes
di Stefano Rizzo


Il 2005 non è stato un buon anno per le donne americane. Non ci riferiamo al fatto che, come in molti altri paesi del mondo, anche in America il loro reddito pro capite continua ad essere più basso di quello degli uomini di almeno il 30 per cento, né che costituiscono la maggioranza delle vittime della violenza, in guerra e in pace, né che le decisioni più importanti riguardo alla loro vita sessuale o riproduttiva vengono prese da altri (padri, mariti, preti, rabbini, imam). Tutto questo avviene da sempre e non sembra destinato a diminuire nel prossimo futuro.
Ci riferiamo piuttosto alle donne "famose", a quelle che sono assurte agli onori (o al disonore) della cronaca per i più svariati motivi. Innanzitutto le donne in guerra. Qui sembra che esse abbiano ormai raggiunto una invidiabile parità con i loro commilitoni maschi. Come dimenticare le torturatrici di Abu Ghraib: Sabrina Harman, la biondina dal sorriso ammaliante, Lynndie England, la brunetta con la simpatica zazzera, la soldatessa semplice Megan Ambuhl, la generalessa comandante del carcere Janis Karpinski, la comandante dell'intelligence militare Barbara Fast -- tutte all'altezza dei loro compagni maschi e forse anche in percentuale superiore alla loro? E' vero che gli eventi di cui parliamo si riferiscono al 2004, ma le poche miti condanne e le molte assoluzioni e proscioglimenti sono stati decisi nel corso di questo 2005 A queste signore si è aggiunta di recente la tenente colonnello Debra Harrison, attualmente agli arresti per avere preso bustarelle e regali vari (tra qui una cadillac e una piscina) per un importo superiore al milione di dollari da varie ditte incaricate della ricostruzione in Iraq. Sciocchezze in confronto ai miliardi lucrati dalla Halliburton del vicepresidente Cheney o dall'influente membro repubblicano della commissione difesa Cunningham, ma si tratta pur sempre della prima volta di una donna presa con le mani nel sacco lucroso delle forniture militari.
Ci sono poi le donne in politica. E qui c'è da mettersi le mani nei capelli (non in quelli, dio ci scampi, di Condi Rice, sempre assolutamente in piega). Nessuno si immaginava che la volitiva signora, una volta divenuta segretario di stato, si sarebbe trasformata in una liberal pacifista. Dopotutto era stata lei nella sua qualifica di consigliere per la sicurezza nazionale ad avvalorare le inesistenti ragioni della guerra e approvare i metodi spicci per trattare con i combattenti catturati. Era tuttavia difficile prevedere che inanellasse un così elevato nulero di gaffes e di errori diplomatici quanti ne ha accumulati nel corso del 2005. Dall'infelice battuta, di fronte alle migliaia di negri abbandonati a sé stessi nell'inferno di New Orleans, che "il razzismo in America non è più che un fenomeno residuale", fino alle recentissime dichiarazioni sulle torture, le carceri segrete e i rapimenti di presunti terroristi che hanno fatto infuriare le cancellerie europee. Nonostante le umili condizioni di partenza, grazie alla sua intelligenza, alla determinazione, all'enorme capacità di lavoro e al sacrificio della propria vita privata la Rice ha potuto raggiungere un ruolo politico che poche donne al mondo hanno mai avuto. Ma proprio per questo risulta incomprensibile come abbia potuto piegarsi con così totale adesione al volere del suo presidente e della "cricca" (il termine è di un repubblicano influente, Brent Snowcroft) di potere che lo circonda.
Diverso è il caso di Harriet Miers, diverso e patetico. Una fulgida carriera all'ombra di George W. Bush, da un oscuro incarico di responsabile della commissione del lotto dello stato del Texas a consigliere personale del presidente e poi capo del suo ufficio legale, in pratica incaricata di filtrare ogni decisione riguardante la politica della giustizia e le numerose nomine di giudici federali e della corte suprema. Anche in questo caso non si può imputare alla signora Miers di avere cambiato casacca, da democratica a repubblicana, né religione, da cattolica a evangelica. Né le si può imputare l'assenza di cultura giuridica, a parte il fatto che è stata presidente degli avvocati della città di Houston. Ciò che lascia stupefatti è il grado di piaggeria, di subalternità, nei confronti del presidente da risultare imbarazzante perfino per coloro che appartengono alla sua parte politica. Il quale presidente l'ha contraccambiata con pari sprezzo delle istituzioni nominandola giudice della corte suprema per poi essere costretto a ritirare la candidatura di fronte alla critiche infuriate piovute da ogni dove.
Appena merita di essere menzionata un'altra amica di vecchia data di George W. e della moglie Laura, Karen Hughes, premiata dal presidente per essergli stata accanto in tutte le canpagne elettorali e nella vita familiare. La signora Hughes è stata nominata sottosegretaria agli esteri (vice della Rice) con il delicato e importantissimo compito di risollevare l'immagine alquanto appannata degli Stati Uniti nel mondo. La cosiddetta "public diplomacy" condotta da una mamma e da una donna di casa doveva avere particolare effetto presso il pubblico femminile del mondo islamico. Ma così non è stato e in una sfortunata serie di viaggi in Turchia, Arabia Saudita e Libano la Hughes è stata contestata proprio dalle donne islamiche che le hanno ricordato che il modo migliore per rispettarle consiste innanzitutto nel non ammazzare, imprigionare e torturare loro e i loro figli.
(Di fronte agli insuccessi della Hughes deve avere gongolato il virile ministro della difesa Rumsfeld che, per parte sua, ha lanciato un più segreto programma di public diplomacy, comperando giornalisti iracheni, finanziando testate giornalistiche e reti televisive per magnificare le virtù della democrazia occidentale portata sulle canne dei fucili.)
Ma poiché non si pensi che ce la prendiamo solo con le donne repubblicane ricordiamo la più illustre democratica, Hillary Rodham Clinton, la futrura candidata (forse) alla presidenza degli Stati Uniti. La quale sta facendo di tutto per fare capire agli elettori di destra che non rischiano nulla con una donna come lei: non rischiano il pacifismo, non rischiano l'aborto, non rischiano i privilegi dei ricchi. Sarebbe lungo fare l'elenco delle posizioni «rassicuranti» assunte recentemente dalla signora Clinton; basti ricordare l'ultima proposta di legge da lei presentata sulla bandiera nazionale. Fin dai tempi del Vietnam la Corte suprema aveva più volte sentenziatoi che bruciare la bandiera in pubblico è una manifestazione costituzionalmente protetta della libertà di espressione. Ora la Clinton vuole porre fine a questo permissivismo e mandare in galera chi brucia la bandiera a stelle e strisce, anche se da svariati anni nessuno più l'ha fatto.
Di fronte a questo elenco di cattivi esempi al femminile qualcuno dirà: e allora? Cosa ti aspettavi? Perché mai le donne dovrebbero essere migliori degli uomini? Non sai che via via che le donne conquistano posizioni di influenza o di potere, che diventano più uguali, si comportano esattamente come i loro compagni maschi? Come loro potranno essere sadiche e ladre, ciniche e opportuniste – questo è appunto il significato di uguaglianza; non si è uguali solo nel bene, ma anche nel male.
A questa obbiezione si potrebbe rispondere che invece qualcuno, anzi moltedi coloro che hanno fatto la storia del femminismo hanno creduto, sperato e lottato perché con il miglioramento della condizione femminile migliorasse anche la qualità etica della società: una società più femminile – dicevano – sarebbe stata anche una società meno aggressiva, meno competitiva, più attenta ai bisogni della vita di tutti i giorni, alla cura delle persone, dei deboli, dei malati. Insomma una società più uguale è anche una società più giusta.
E allora, come augurio di Natale per tutti noi, uomini e donne, vogliamochiudere ricordando due donne la cui vita, a differenza di quelle fin qui citate, contiene una speranza per il futuro. Due donne diversissime, una bianca e una nera, una giovane e una molto anziana, una morta in modo improvviso e violento, l'altra serena nel suo letto. La
prima è Marla Ruzicka uccisa ad aprile a Baghdad nello scoppio di una bomba. Marla si trovava in Iraq per assistere le vittime dei bombardamenti; lo faceva già da due anni senza concedersi un giorno di riposo e per farlo aveva lasciato la sua vita agiata di ricca californiana. L'altra è Rosa Parks, la donna nera che mezzo secolo fa « vinse una battaglia stando seduta », rifiutandosi cioè di lasciare il suo posto sull'autobus ad un uomo bianco. Con il suo rifiuto Rosa dette nuova vita al movimento per i diritti civili; senza di lei donne come Condoleezza Rice e uomini come Colin Powell non avrebbero mai potuto occupare i posti che, nel bene e nel male, hanno occupato. Rosa e Marla: dopotutto ci sono almeno due donne da ricordare per il 2005, due eroine che fanno sperare.




AprileOnLine, 23.12.05
La Digos di Torino ferma un gruppo di femministe. Avevano manifestato in difesa della 194
Laicità. Riesumato il reato di ''vilipendio alla religione'' per una protesta nei pressi della Curia. Un vecchio slogan sembra tornato d'attualità: ''Tremate, tremate le streghe son tornate''
Roberto Mastroianni


Molti credevano che il femminismo fosse morto, e molti altri che il Medioevo fosse finito. Tutte e due le ipotesi vengono smentite dalla cronaca.
Mercoledì 21 dicembre 2005 un gruppo di studenti universitari, alcuni ragazzi dei Collettivi e dei Centri sociali hanno affisso due striscioni fucsia ai lati del portone di ingresso della Curia torinese. Sugli striscioni era scritto: “Più autodeterminazione, meno Vaticano” e “Poletto (Arcivescovo e Cardinale di Torino n.d.r.) stai zitto l’aborto è un diritto”.
E' finita in farsa, quella che sembrava essere una semplice manifestazione di contrasto alle politiche sulla procreazione assistita e sull’aborto di questo governo e alle ingerenze delle gerarchie ecclesiastiche nella vita politica italiana. Alcune manifestanti sono, infatti, state fermate alcuni minuti dopo la fine dell’azione dimostrativa dalla Digos di Torino che le ha portate in questura, in stato di fermo di polizia, per notificare il pericoloso reato 404 del Codice penale, ovvero, il “vilipendio alla religione”.
I ragazzi fermati sono stati denunciati a piede libero per aver organizzato una manifestazione non autorizzata e aver oltraggiato la religione. La pericolosa offesa perpetuata da queste eversive femministe, e da alcuni maschietti con loro conniventi, consiste nell’aver incollato alcuni preservativi affianco al campanello della Curia. Il Codice penale punisce le offese lesive dell’integrità e del decoro del sacro, dobbiamo quindi immaginare che il campanello della curia di Torino sia una specie di reliquia e che la sacralità del cattolicesimo si spinga ad ammantare ogni aggeggio che un sacro prelato ha sfiorato. Per evitare eventuali e futuri oltraggi alla sacralità vaticana, d’ora in poi sarà consigliato ai barbieri vaticani di raccogliere e custodire ogni capello tagliato a un chierichetto e a un prete o ai baristi e ai ristoratori di trattare con ogni riguardo le posate toccate da un prelato. Non vorremmo che un barista disattento venga accusato di oltraggio per aver lavato in modo non opportuno una posata toccata da un monsignore.
Oppure è da ipotizzarsi un reato di vilipendio al Vaticano, la cui sacralità in questo paese non può essere toccata neanche durante una manifestazione politica con un "offensivo" striscione che intoni “Più Autodeterminazione e meno Vaticano”. Ma le manifestazioni di libero pensiero, probabilmente, ledono l’aura sacrale che ormai cinge, come nel Medioevo, ogni stabile in possesso di Santa romana chiesa. I ricordi di uno Stato laico tendono a svanire, sembra normale, allora, che lo Stato pontificio assuma una dimensione metafisica e che la Repubblica italiana, oltre non esigere che gli immobili curiali paghino l’Ici, ne difenda l’integrità morale e sacrale. Le giovani femministe torinesi non si erano accorte che la regressione storica le avesse riportate indietro di un migliaio d’anni e che chiedere autodeterminazione equivalesse a compiere sacrifici umani, reato di eresia e stregoneria.
Parlando con Chiara, del collettivo femminista Mafalda, scopriamo che la manifestazione davanti alla curia torinese è stata indetta contro le modifiche della 194 proposte dal ministro Storace e che “il volantinaggio era stato organizzato davanti alla Curia e non davanti a una chiesa proprio per evitare di offendere i credenti”.
Ma in questo revival medievalista, che sembra aver investito l’Italia, dopo aver visto il grande inquisitore diventare Papa e il potere temporale (citando un presidente del Senato a caso, verrebbe in mente Pera) difendere strenuamente l’Occidente cattolico in pieno scontro di civiltà con le orde islamiche mancava di assistere al ritorno delle streghe. Ora che abbiamo visto le denunce di “vilipendio alla religione”, attendiamo i roghi in Campo de' Fiori. Se le streghe son tornate, d’ora in poi dovremo difenderci anche da loro e non solo dagli islamici che vogliono annientare la nostra civiltà. Le persone di maggiore cultura aspettano di sentire cosa ne pensa in merito la “Signora Fallaci”.
Tra un’amenità e l’altra, si prepara il funerale della laicità dello Stato e per molti cattolici quello del Concilio Vaticano II. Senza scomodare fini teologi come lAdriana Zarri, molti di noi guardano con preoccupazione all’involuzione reazionaria di Papa Benedetto XVI. I credenti disperano per la deriva autoritaria di un papato sempre meno attento alla contemporaneità, alla povertà globale, al celibato dei preti e al sacerdozio femminile ma sempre più attento alle abitudini sessuali dei cittadini italiani. I cittadini italiani sono disperati per le pieghe assunte dagli apparati di Stato in merito ai diritti civili. Se la Digos può fermare e schedare incensurati per il semplice fatto di aver manifestato contro le ingerenze delle gerarchie ecclesiali, la libertà di espressione nel nostro paese è messa fortemente a rischio.
Non ci resta che gridare “Tremate, tremate le streghe son tornate”. E sperare che nuovi movimenti, in prima istanza quello femminista, rivitalizzino la nostra democrazia malata.




AprileOnLine, 23.12.05
La reliquia di Violante

C’è una notizia relegata in un piccolo box sul "l’Unità" (pagina 9) di ieri e sottaciuta da quasi tutti gli altri giornali. Mercoledì scorso i gruppi Ds e Margherita della Camera hanno avuto la felice idea di “cominciare a lavorare insieme”.
Non si tratta di una razionalizzazione del lavoro parlamentare, ma di un importante passo simbolico e pratico teso alla scomparsa delle forze organizzate della sinistra, e ancor più del socialismo. Perché nessuno vorrà negare che, dopo i Gruppi parlamentari, sarà la volta dei partiti (almeno così devono pensarla alcuni).
Luciano Violante, capogruppo della Quercia alla Camera, regalando a Pierluigi Castagnetti, capogruppo della Margherita alla Camera, un orologio con il simbolo dei Ds (quindi non del Gruppo ma del partito) gli ha raccomandato di conservarlo perché è “una reliquia".: "Dal prossimo anno – ha aggiunto – il nostro gruppo non esisterà più”. Castagnetti ha replicato con un invito a brindare al Natale nella sede del Gruppo della Margherita (anch'esso provvisorio).
Grazie alla regola della "par condicio", ieri è apparsa un'intervista di Violante su "Europa", quotidiano della Margherita, e un'altra di Castagnetti su "l'Unità" (quotidiano fondato da Antonio Gramsci). In Aula, invece, quando si è votata la legge sul risparmio voluta dalla destra, Quercia e Margherita hanno parlato con una voce sola per fare le prove di quello che potrebbe accadere già nei prossimi mesi del 2006. (un'unica dichiarazione di voto contro la fiducia al governo, un'unica voce sul merito del provvedimento)
"l’Unità", a scanso di equivoci, chiosava così nel suo box quello scambio di regali tra Violante e Castagnetti: si tratta di “un percorso che porterà al gruppo unico e al partito democratico”. A questo siamo, alla sinistra e a una storia ridotti a “reliquia” in nome del vecchio nuovismo del “partito democratico”.
A parte ogni valutazione di opportunità circa il fatto che a tre mesi dalle elezioni si comunichi all’elettorato l’impressione di essere in liquidazione (al Senato si voterà ancora per i simboli di partito, non per delle “reliquie”), bisognerebbe che almeno la sinistra Ds reagisse.
Urge rendere chiaro al partito della Quercia che se fino ad ora si è potuto scherzare con federazioni, unioni, liste uniche, partito riformista e poi democratico, eccetera eccetera, adesso siamo al redde rationem. Il tempo per rendere visibile una alternativa allo scioglimento è questo?



AprileOnLine, 22.12.05
Non solo sangue. Ovvero mestruazioni e dintorni
Editoria. Un libro di Raffaella Malaguti sul ciclo mestruale, vissuto da milioni di donne ogni mese ma di cui non si parla mai
Barbara Romagnoli


Di alcune cose non si parla. Così ci viene insegnato da piccole, specialmente se si tratta delle “nostre cose”, quelle che arrivano solo a noi donne una volta al mese, circa, che quando arrivano la prima volta ci fanno diventare “signorine”, anche se siamo ancora bambine nel corpo e nello spirito e abbiamo tanta voglia di giocare alle bambole e rotolarci a terra con i nostri amichetti maschi.
È storia vecchia, sono duemila anni e più che di queste cose, benedette e maledette assieme, non si dovrebbe parlare. Raffaella Malaguti lo fa, oddio che scandalo - di questi tempi poi -, e ne parla in modo divertente e ironico. In “Le mie cose. Mestruazioni: storia, tecnica, linguaggio, arte e musica” (Bruno Mondadori, 13 euro, 2005) cerca di spiegare e descrivere cosa è successo in questi duemila anni. Non entra nel dettaglio, è certamente un libro didascalico e divulgativo il suo, ma fa bene leggere questo piccolo ma denso libro: solleva dei veli, sollecita ricordi e stimola riflessioni.
Malaguti, giornalista di professione, scrive in modo chiaro e diretto, non si perde in elucubrazioni velleitarie e quando dice la sua lo fa con lo sguardo di chi è abituato per mestiere a interrogare la realtà e a offrire risposte con dati e testimonianze.
Per questo il percorso seguito dall'autrice si muove dalla storia e la letteratura per approdare, con un finale riuscito alla perfezione, all'eco delle note di una canzone Blood in the boardroom - Sangue in consiglio di amministrazione, della straordinaria Ani Di Franco.
Già, perché è di sangue che si parla in questo libro e di tutti gli annessi e connessi e conseguenti ricadute simboliche nel quale è stato precipitato. Di un sangue che significa dolore, gioia, turbamento ma anche impurità, inferiorità, maleficio, stregoneria... Insomma, una storia, quella delle nostre cose, che va di pari passo con quella delle donne in generale, relegate per parecchio tempo ad essere comparse e non protagoniste del discorso ufficiale.
Eppure, è proprio l'aspetto linguistico, su come è stato costruito il discorso sociale attorno alle nostre cose, quello che più rimane impresso della lettura. Come gli eschimesi hanno tanti modi per nominare la neve, elemento primario nella loro sopravvivenza, così molteplici e diversissimi sono i modi (singole parole o complesse perifrasi) per nominare queste strane cose che dovrebbero riguardare solo le donne. Malaguti racconta di un museo virtuale delle mestruazioni (www.mum.org), visitando il quale veniamo a scoprire che negli Stati Uniti, patria del museo, per definire il ciclo si usa Surfing the crimson wave (fare surf sull’onda rossa) oppure i più familiari aunt Martha, aunt Rosie o aunt Flo (gioco di parole con flow che significa flusso). In Gran Bretagna e in Australia si usa l'espressione I’ve got the painters (ho gli imbianchini a casa), in Brasile “il marziano” o “visitante”, in Canada si dice I’m occupied (sono occupata) o The moody monthly (l’umore mensile), nella Repubblica Ceca si usa il politicizzato “Primo maggio” e l’elfico “fenomeno delle fragole”, simile al finlandese "giornate del mirtillo rosso, così come in Cina si dice “piccola sorella rossa", “il generale rosso ha bussato alla porta” e il più bello "acque lunari".
Insomma la fantasia non manca e dovunque andremo troveremo un eufemismo, una metafora, una immagine che rimanda a questa esperienza vissuta da milioni di donne, spesso, ancora oggi, nella totale ignoranza sul che fare e su una conoscenza vaga del proprio corpo.
Malaguti non si sofferma solo su un ragionamento letterario-linguistico nel quale riporta anche le mutazioni avvenute con la rivoluzione culturale del femminismo e le ricadute sulle nuove generazioni, ma affronta anche le cifre di un fenomeno che è diventato business e pubblicità (sul tema della comunicazione pubblicitaria molto interessanti sono i brani di interviste riportate dall'autrice e il cambiamento dei messaggi utilizzati per vendere i prodotti che riguardano le mestruazioni).
Chi ha mai pensato quanti sono gli assorbenti che utilizza una donna in media nella propria vita? O che nel 1999 in Gran Bretagna sono stati gettati nel wc ogni giorno circa 2,5 milioni di tamponi, 1,4 milioni di assorbenti esterni e 700mila salvaslip? Che impatto ha tutto questo sull'ambiente se si pensa che, scrive l'autrice, «per fabbricare i 18 miliardi di pannolini per bambini venduti ogni anno nel mondo si utilizzano 82mila tonnellate di plastica (che non sarà mai riciclata), 1,5 milioni di tonnellate di polpa di legno (anch’essa non sarà mai riciclata) e 14 miliardi di litri di olio, senza considerare le migliaia di megawatt di energia impiegata per la produzione». E Malaguti ci dice anche che questo è solo un esempio per immagine del business intorno a assorbenti, tamponi, salvaslip ecc. visto che su questo non c'è uno studio accurato. Come poco si sa della composizione con cui vengono confezionati questi prodotti per le donne. Ma state tranquille, almeno una notizia è smentita: quella, arrivata attraverso una mail girata a lungo in rete, che parlava della presenza di amianto. A quanto indagato finora non c'è traccia. Ma questo non rassicura del tutto le sostenitrici della dea madre, che fanno della “naturalità” delle mestruazioni la loro religione. Accanto ai loro rituali, in questo libro incontriamo anche le mestruo-attiviste e le cyberfemministe, chi sostiene l'uso del tampone e chi lo rifugge come la peste, chi ha disegnato l'assorbente leopardato e chi preferisce i filtranti in garza. Malaguti ha trovato un modo originale e diverso per parlare di sangue e dintorni, senza risposte definitive ma con domande sane e intelligenti.



AprileOnLine, 21.12.05
I ''poteri forti'' superstiti
Zoom. Partito democratico? Appuntamento per il 2008, firmato ''Corriere della Sera'' e ''Repubblica''
Leo Sansone


Partito democratico? L’appuntamento per l’esordio è fissato nel 2008, firmato “Corriere delle Sera” e “Repubblica”. I “poteri forti” in Italia si sono trasformati in “poteri deboli”, alle volte più deboli dei partiti in caduta verticale da più di dieci anni. E’ il caso della Banca d’Italia, un tempo onnipotente istituzione che governava in modo esclusivo sulla lira e con poteri quasi monarchici sui vari settori dell’economia (in particolare il credito e le banche).
Ora tutto è cambiato. Antonio Fazio, dopo gli scandali delle tentate scalate della Banca Popolare Italiana alla Antonveneta e dell’Unipol alla Bnl, è stato “azzoppato” dalle accuse di reati avanzate dalle procure della Repubblica di Milano e di Roma. La maggioranza e l’opposizione hanno dato il “benservito” al governatore della Banca d’Italia, al quale Giampiero Fiorani voleva dare “un bacio in fronte” in cambio del sì alla sua Opa (Offerta pubblica d’acquisto). Incredibile. Appena qualche anno fa, si era parlato di Fazio addirittura come di un possibile candidato alla presidenza del Consiglio sia per il centrodestra sia per il centrosinistra.
Ma se molti “poteri forti” crollano o vacillano, qualcuno regge. E’ il caso dei due maggiori gruppi editoriali del paese: la Rcs-Corriere della Sera e l’Espresso-Repubblica. Il primo è controllato dalla cosiddetta “galassia del nord” con al centro sempre la Fiat, molto indebolita rispetto all’era di Gianni Agnelli, ma ancora con un forte ruolo grazie a Luca Cordero di Montezemolo. Il secondo gruppo editoriale (e radiofonico con ambizioni televisive) è invece di proprietà di Carlo De Benedetti, un tempo grande antagonista di Gianni Agnelli. I due grandi gruppi editoriali rimangono fra i pochi “poteri forti” superstiti (gran parte della grande industria, compresa la Olivetti dell’ingegnere, non ha retto alla sfida internazionale della competitività) e da sei mesi “marciano divisi per colpire uniti”, come avrebbe detto il generale Karl von Klausewitz.
Tutti e due i gruppi, che pure si combattono dal 1976 (l’anno in cui Eugenio Scalfari fondò “Repubblica”), hanno deciso di ridisegnare il sistema politico italiano uscito dieci anni fa dal terremoto di Tangentopoli. In particolare, dopo le elezioni politiche di primavera, chiedono la nascita del partito democratico, il futuro perno riformista del centrosinistra. Paolo Mieli, ad un convegno della Margherita tenuto sabato, ha sollecitato Romano Prodi ad indicare “giorno mese ed anno in cui nasce il partito democratico”. Comunque il direttore del “Corriere della Sera” ha fissato al 2008 il traguardo limite per dare il via alla nuova formazione politica che avrà come “motore” i Ds e la Margherita. Dovrà essere, ha precisato, “un incontro virtuoso” tra cattolici, laici e postcomunisti in cui nessuna anima sia subalterna. Analogo il discorso di Ezio Mauro. Il direttore di “Repubblica” si è detto “interessato” al progetto del partito democratico. “La stagione grigia del postcomunismo –ha osservato– deve finire, la pratica delle annessioni va abbandonata”.
Non si tratta di semplici considerazioni di due autorevoli giornalisti ad un convegno, ma di un preciso progetto politico. Mieli il 16 dicembre, in uno dei suoi rari fondi di prima pagina, ha sollecitato un drastico cambiamento del sistema politico italiano. Il varo di due “formazioni unitarie” sia nel centrodestra (leggi il partito unico dei moderati) e sia nel centrosinistra (il partito democratico), ha scritto, “sarebbe una salutare novità”. Le manette della magistratura, ha aggiunto, non scatteranno per i politici in seguito agli scandali bancari, al contrario di quanto avvenne con “l’incubo” di Tangentopoli nel 1993. Ma è bene, ha avvertito, che i maggiori partiti delle coalizioni cambino, dando vita a metà della prossima legislatura a due grandi formazioni moderne in grado di raggiungere il 35% dei voti e di respingere i ricatti delle “estreme” rispettive.
Gli editori di Mieli tacciono, ma è evidente che il direttore del “Corsera” ha un mandato pieno a teorizzare la ristrutturazione del sistema politico. Mieli ha conquistato sul campo un ruolo di protagonista con due vittorie. La prima. A luglio ha respinto, con un’infuocata campagna di stampa, l’insidiosa scalata miliardaria (in euro) di Sergio Ricucci e degli altri immobiliaristi (in gran parte finanziata dalla Bpi di Fiorani) al quotidiano di via Solferino. La seconda vittoria. Con la sua direzione ha rivisto nei contenuti e nella veste grafica il giornale, restituendogli smalto e lettori (nonostante costi 1 euro contro i 90 centesimi dei concorrenti) e ristabilendo così il suo primato fra i quotidiani italiani.
Un analogo discorso ha fatto De Benedetti, dopo tanti articoli di “Repubblica”, qualche settimana fa (il 30 novembre in un convegno della Margherita e il 2 dicembre in una intervista al “Corsera”). Per il partito democratico ha invitato a “fare presto. O nasce durante la prossima legislatura o non nasce più”. Non solo. Il proprietario di l’Espresso-Repubblica ha anche indicato la necessità di fare largo a Walter Veltroni e Francesco Rutelli per realizzare “le riforme profonde”. Se prenderanno il timone i due cinquantenni allora, ha annunciato, “la tessera numero uno del partito democratico la prendo io, se volete”.
Mieli usa il fioretto e De Benedetti la scure, ma il risultato non cambia: indicano tempi, modi e contenuti per riformare il sistema politico. E’ un pressing comune. Il direttore del “Corsera”, in particolare, dà le indicazioni ai due schieramenti (anche se il piano dettagliato è per l’Unione) per rinsaldare il bipolarismo. L’ingegnere, invece, si dedica unicamente al centrosinistra arrivando addirittura a chiedere il cambio della leadership di Prodi in nome del ricambio generazionale. Una volta erano i congressi, cioè gli iscritti, a decidere la sorte dei partiti, votando programmi e segretari. Ora sono sempre di più i giornali (e le loro proprietà industriali e finanziarie) a svolgere una funzione di “supplenza”. Il giornalismo, sempre parafrasando von Klausewitz, sembra essere la prosecuzione della politica con altri mezzi. Del resto già nel 2000 “Repubblica” lanciò e impose Rutelli come il candidato del centrosinistra alla presidenza del Consiglio (Giuliano Amato, che era a palazzo Chigi, si fece da parte) nelle elezioni politiche del 2001. Ma non finì bene e Silvio Berlusconi vinse le elezioni divenendo il re dei “poteri forti” (televisioni, giornali, editoria, cinema, pubblicità, finanza e guida del governo).
Ma il progetto del partito democratico, fortemente voluto da Prodi, potrebbe diventare una corsa a ostacoli. Rutelli contro i Ds, sempre al convegno della Margherita di sabato, è tornato a brandire l’arma della questione morale, dopo la messa in stato di accusa da parte della magistratura di Giovanni Consorte, l’amministratore delegato dell’Unipol, artefice dell’Opa sulla Bnl. Il presidente della Margherita dice basta al collateralismo fra partiti e soggetti economici, cooperative comprese. “La Margherita –ha detto– ha visto giusto nella vicenda del Monopoli bancario”, ed ha ricordato quando sul ‘Corsera’ sollevò “dubbi su operazioni finanziarie nelle quali c’era del marcio e nessuno poteva immaginare fosse così profondo”. Accuse pesanti alla Quercia, che dà sempre ha rapporti con la Lega delle cooperative. Certo non sono una buona premessa per costruire né il partito democratico né delle liste comuni Ds-Margherita alle elezioni politiche.


AprileOnLine, 21.12.05
Legge 40, due priorità per l'Unione
Interventi. Una mobilitazione a Firenze per riaffermare l'autodeterminazione delle donne e l'indisponibilità a ''scambi politici''
Marisa Nicchi


Anche a Firenze si sta preparando una mobilitazione che riaffermi l’autodeterminazione delle donne come principio indisponibile ad alcun scambio politico. Pericolo di cui ci avverte anche un incontro svolto proprio a Firenze con esponenti politici del centro cattolico collocati all’opposizione e al governo, “Il Movimento della Vita” e un’ala dell’ambientalismo. Lo scopo dichiarato dell’iniziativa è promuovere “una nuova stagione di consapevolezza per la tutela della vita dopo il referendum sulla Legge 40”. La presenza di Francesco Rutelli, Luca Volontè, Carlo Casini desta preoccupazioni per le alleanze politiche che può prefigurare già sperimentate nella vicenda della legge 40. Ma, l’Unione e la lista unitaria, su almeno due priorità debbono essere chiare: il rifiuto di un uso ideologico della legge, e il diritto e il riconoscimento pieno della libertà /responsabilità delle donne sulla propria vita. Detto con semplicità. Lo Stato, attraverso le sue leggi, non può imporre a tutti/e una morale, una visione religiosa. Non ci possono più essere indugi e ambiguità sul considerare le donne responsabili, solo loro stesse, delle proprie scelte di vita. Non sono né da accompagnare per mano, né da riportare all’ordine “naturale” della procreazione e della famiglia. Non a caso il titolo del convegno fiorentino è “La natura e l’uomo”. Un ordine che lo Stato dovrebbe ripristinare con la prescrizione, mettendo al bando i comportamenti “innaturali”, vale a dire le relazioni affettive al di fuori del matrimonio fra un uomo e una donna, e riconoscendo soltanto la filiazione fondata sulla purezza genetica. Rientrano dalla finestra, per esempio attraverso il divieto di fecondazione eterologa, spettri molto simili a quelli che avevamo scacciato con il nuovo diritto di famiglia: bastardi, adultere, ragazze madri, figli illegittimi e non, genitori di serie a e di serie b, messi sul banco degli imputati per riaffermare il “modello naturale” violato.
Non c’è niente di innaturale nella concezione della famiglia che si evolve col mutare dei rapporti sociali, tra i sessi e le generazioni. Nella discussione aperta sui temi detti “eticamente sensibili” c’è un fondamento preliminare da tener fermo: in una società pluralista, in uno Stato laico, le scelte che riguardano la sfera più privata, l’amore, la generazione, la morte, la cura della salute, appartengono alla libertà/responsabilità personale. Invece, si è fatta strada, trasversalmente agli schieramenti e anche nel pensiero liberale, l’idea che in queste materie lo Stato sia legittimato a intervenire con norme restrittive delle libertà a cominciare da quella procreativa per finire a quella di ricerca.
Incide in queste posizioni la paura che il nuovo potere di cui le nuove conoscenze e tecnologie genetiche ci hanno dotato possa sfuggirci di mano. E’ il tema cruciale di un governo politico della rivoluzione ‘biotecnologica’ rispettosa dei diritti umani e delle libertà fondamentali anche delle generazioni future. Il movimento delle donne, riflettendo sulla tragedia di Cernobil, sollevò la questione della “coscienza del limite”, di nuove epistemologie fondate sull’ etica della responsabilità. Ma un equivoco affida questa vitale questione al divieto preventivo del diritto. Crede, irrealisticamente nell’epoca della globalizzazione, che basti una norma giuridica proibizionistica per metterci al riparo dalle possibili ricadute negative delle biotecnoscienze fortemente condizionate dagli interessi di mercato. Censurare la libertà della scienza è come impedire la libertà di pensare, la più profonda umiliazione umana. La sfida è un’altra, quella di valorizzare un discorso critico sul limite attraverso un’autocoscienza del mondo scientifico e politiche pubbliche in grado di garantire libertà, ma anche trasparenza sulle finalità, sui rischi e sulle opportunità. Lo scenario aperto dalle tecnologie riproduttive suscita inquietudini. Le donne avvertono un rischio di una deriva disumanizzante perché vengono cancellate come soggetto libero, responsabile, mediatore di vita. Cancellazione che unifica, in nome della difesa della vita, posizioni laiche e cattoliche, presenti anche al confronto fiorentino, quando si enfatizza il dato biologico e si riduce ad esso il concetto di “vita” che si deve comunque compiere, intangibile e sacra. Una vita che si vuole non più protetta dalla madre, ma dallo Stato chiamato a difenderne il diritto sin dal concepimento. Il sacro e la natura che, assunti come guida del comportamento dello Stato, “eclissano” la radice umana del nascere, del venire al mondo e finiscono per negare la relazione materna. Il fondamentalismo biologico-religioso usa e volge contro la donna ciò che le tecniche hanno reso possibile, l’autonomia del concepimento dai corpi. Ma non si può dimenticare che, nonostante ciò, senza la madre non vi è “vita” che possa svilupparsi, né vi è alcuna possibilità di nascere contro di lei. E la sua libertà e responsabilità non possono essere messe in discussione.



AprileOnLine, 20.12.05
Mieli e Mauro, direttori o leader?

Tra le troppe anomalie italiane (premier imprenditore con conflitti d’interesse, governatore di Bankitalia “a vita”, partiti dal logo prevalentemente botanico o simile a slogan sportivi, ingerenza della Conferenza episcopale nella legislazione, mezzi d’informazione privi di editori che fanno solo gli editori), c’è pure quella di giornali quotidiani che assomigliano indebitamente alle forze politiche e che hanno direttori vogliosi di dirigere più la politica nazionale che le proprie redazioni.
Sabato scorso ne abbiamo avuto la prova nel corso di un convegno a Roma promosso dalla componente della Margherita più filo “partito democratico” e ulivista, quella vicina al professor Arturo Parisi (a proposito, auguri a Parisi che è stato ricoverato per un lieve malore). Accanto agli interventi di dirigenti di Ds e Margherita, di personalità senza partito (l’ex premier Giuliano Amato) e di intellettuali, hanno fatto capolino i discorsi di Paolo Mieli (direttore del “Corriere della Sera”) e di Ezio Mauro (direttore di “Repubblica”)
Fin qui, niente di male: anche i direttori di giornale hanno tra i loro diritti civili quello di avere delle opinioni politiche e di poterle esternare, se ne sentono il bisogno. Il problema nasce dopo aver sentito quello che hanno detto nel corso del convegno in questione. I due direttori, infatti, oltre a rendere pubblico il proprio gradimento per l’eventuale nascita in tempi brevi del nuovo “partito democratico”, si sono spinti fino a dare dei veri e propri ultimatum all’auditorio che li stava ad ascoltare con Romano Prodi, Piero Fassino e Francesco Rutelli in prima fila.
Sintetizziamo il discorso di Mieli, copiando come ne ha riferito proprio il “Corriere”: “Il primo ostacolo che Paolo Mieli individua è ridurre a uno il Dna degli eredi del Pci e quello degli eredi della Dc, una storia di subalternità e non di compagni di strada che non può risolversi con l’equazione Cristo-Marx”. Di qui il primo suggerimento (davvero originale!): “Il partito democratico sia un incontro virtuoso tra cattolici, laici e postcomunisti in cui nessun’anima sia subalterna”.
Quanto all’intervento di Mauro, copiamo sempre il “Corriere”: “Il problema dell’Italia è aver avuto il più grande partito comunista di Occidente. La stagione grigia del postcomunismo deve finire, la pratica delle annessioni va abbandonata” (abbiamo così scoperto che per il direttore di “Repubblica” tutti i mali d’Italia affondano nella storia peculiare del Pci e non – come diceva il suo predecessore, Eugenio Scalfari – nell’essere rimasto quel partito troppo a lungo “in mezzo al guado” tra riformismo e comunismo, tra governo e opposizione).
Ma si è andati oltre. Mieli – lo riferisce sempre il suo giornale – ha spronato Prodi “a dichiarare giorno, mese e anno in cui nasce il partito democratico e fissa in due anni e mezzo il Big Bang della nuova formazione”. Mauro è stato più cauto nelle date (forse si è ricordato che fa il giornalista e non il veggente), ma non meno perentorio nel benedire il nascituro “partito democratico”.
Le cronache, a questo punto, non riferiscono di risposte date ai due direttori da parte di Prodi, Fassino e Rutelli. Del resto, la buona educazione vuole che non si replichi a degli ospiti che hanno avuto la cortesia di accettare un invito. Resta però il problema: tocca a Mieli e Mauro, come fossero dei leader politici, stabilire in che “giorno, mese e anno” deve nascere un nuovo partito?
Questa volta non tiriamo in ballo l‘argomento dell’auspicabile autonomia tra informazione e politica (“Corriere” e “Repubblica” sono i due quotidiani italiani più venduti). Anzi, capovolgiamo del tutto l’argomento: Ds e Margherita, come tutti gli altri partiti, sono autonomi dai grandi mezzi d’informazione?



La Stampa, 21.12.05
MA NON È DETTO CHE PER L’UMANITÀ SIA UNA CATASTROFE
Si realizza la profezia di Platone
di Maurizio Assalto


Nella parte conclusiva del Fedro, Platone racconta un mito. È la storia di un dio minore del pantheon egizio, un certo Theuth - inventore dei numeri e del calcolo, della geometria e dell’astronomia, del gioco degli scacchi e dei dadi, ma soprattutto della scrittura - che un giorno si presenta al faraone Thamous, a Tebe, magnificandogli le tecniche che intendeva distribuire agli uomini. Una su tutte: «La scrittura, o re, è la conoscenza che renderà gli egiziani più sapienti e più capaci di ricordare. Perché è stato scoperto come farmaco della memoria e della sapienza».
La risposta di Thamous, nella sua esaustiva concisione, equivale a un trattato di gnoseologia. No, replica, questa invenzione «apporterà l’oblio nelle anime di coloro che l’hanno appresa, per negligenza della memoria, in quanto, per fiducia nella scrittura, giungeranno a ricordare dall’esterno attraverso segni estranei, e non dall’interno autonomamente da se stessi».
Duemilaquattrocento e più anni dopo, la previsione pare avverarsi: nel passaggio dall’anima alla carta ai mondi impalpabili del Web, la catastrofe della memoria si compie nel definitivo smottamento che la porta a risiedere non soltanto all’esterno, ma in un supporto immateriale che c’è e non c’è. Che comunque risponde, risponde sempre. Provate a scrivere nella ricerca di Google un brandello di verso che non ricordate da dove viene, per esempio «armi cavalieri amori», e in 0,19 secondi avrete 240 mila risultati, alcuni dei quali riportano il verso esatto che volevate, l’incipit dell’Orlando furioso («Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori...»). A questo punto, il gioco è fatto. O forse, per la memoria, la frittata è fatta. Ma è davvero un quadro tutto in nero?
Platone rifletteva a non troppi decenni di distanza lo sgomento per la fine della civiltà orale e l’avvento della civiltà letteraria. Prima c’erano aedi che conoscevano a memoria l’Iliade e l’Odissea e altri poemi ancora, aiutati dalla forma narrativa, dalle iterazioni formulari, dal congegno ritmico. Con la scrittura, tutto ciò sarebbe stato relegato al passato, assieme alle qualità intellettuali che ne erano il presupposto. Ma la possibilità di srotolare il testo davanti a sé, su un papiro, consentiva di abbandonare la forma mitico-narrativa, che in precedenza serviva a mediare anche i contenuti sapienziali, e di sviluppare la capacità di astrazione. Soltanto grazie alla scrittura si poté arrestare la fluidità del racconto e fissare i concetti, allestendo una sintassi e un lessico adatti alla filosofia. Forse Platone non si rendeva conto di mettersi contro se stesso. È la filosofia il risarcimento dato all’uomo per la perdita dell’epos e della memoria orale: non solo una nuova disciplina, ma una forma mentale che, attraverso il pensiero razionale e la scienza, ha costruito un nuovo uomo e un nuovo mondo. Alla perdita che si consuma in questi anni, a causa di Internet, quale tipo di umanità seguirà?



Corriere della Sera, 20.12.05
Processo di Cogne, nuova udienza. Al via l'interrogatorio
«Stavo male la sera prima del delitto»
La Franzoni si sfoga con i giornalisti: «Condannatemi pure, ma sono innocente». Taormina polemizza sull'interprete inglese


TORINO - Stava male Annamaria Franzoni la sera prima della morte del piccolo Samuele. Lo ha dichiarato in aula la donna, imputata in appello per il delitto di Cogne, condannata in primo grado a 30 anni di reclusione.
«La sera prima mi sentivo in preda a uno stato di malessere. Avevo paura, perché in passato mi era capitato di svenire. Avvertivo pesantezza di stomaco, formicolio, fastidio a braccia e gambe. E durante la notte chiesi a Stefano (il marito - ndr) di chiamare un medico» ha raccontato la Franzoni che ha chiesto alla corte al Palazzo di Giustizia di Torino di essere interrogata. «Eppure - ha spiegato - al di là di quell'episodio stavo assolutamente bene. Ero la persona più felice. La nostra vita era bella così, eravamo contenti».
«SAMUELE PIANGEVA» - Annamaria ha raccontato che quella notte si svegliò di soprassalto perché sentì «un grande tonfo». «Quel mattino Samuele piangeva perché al risveglio non mi aveva ancora visto. A volte capitava. Mi chiamava: 'mamma, mamma ...' e se non mi vedeva subito piangeva» ha detto la Franzoni durante l' interrogatorio. «A parte questo - ha però aggiunto - era tranquillo». La donna ha riferito che mentre stava accompagnando fuori l'altro figlio, Davide, ha sentito «Sammy» piangere: «Sono scesa e l' ho messo nel lettone. Davide mi ha seguito per un pò ma è rimasto sulle scale. Non ha più visto Samuele».
«CONDANNATEMI PURE» - Poco prima, durante una pausa della nuova udienza, la Franzoni si era sfogata con i giornalisti: «Condannatemi a trent'anni, torturatemi pure, ma io sono e resto innocente. Mi sembra di essere in un sogno: spero che tutto finisca presto, a Samuele ci penso tutti i giorni, ho qui con me una sua foto» ha continuato commuovendosi.
PERIZIA - A chi le domanda il perché della sua decisione di non sottoporsi alla perizia psichiatrica Anna Maria Spiega: «Non voglio sottopormi a una perizia psichiatrica perché non ho bisogno di essere considerata matta per non andare in carcere».
A chi le fa osservare che dalla perizia potrebbero emergere delle prove di questa sua verità, Anna Maria Franzoni replica: «Non è vero che non ho nulla da temere perché i periti si inventano molto spesso qualcosa».
Quanto alla possibilità di ritornare a Cogne, il paese della Valle d'Aosta, dove il 30 gennaio del 2002 fu ucciso il piccolo Samuele: «A Cogne - dice - vorrei tornarci ma non per rimanerci perché l'incantesimo si è rotto. Davide (il figlio maggiore, ndr), invece, vorrebbe tornare, ne parla spesso. Tutti noi in famiglia ne parliamo spesso tanto che Gioele ne parla come se anche lui ci fosse stato».
SCINTILLE PER IL TRADUTTORE - La nuova udienza si è aperta con un acceso battibecco tra il presidente della Corte e la difesa. Motivo dello scontro la mancanza, lamentata dall'avvocato Taormina, di un interprete di lingua tedesca per tradurre le deposizioni del perito Herman Schmitter che dovrà relazionare sulle macchie di sangue rilevate dal video che i legali della Franzoni hanno consegnato alla Corte in una delle precedenti udienze. La Corte, nel conferire una perizia all'esperto Hermann Schmitter, ha infatti nominato un interprete di lingua inglese: «Eppure - ha detto - anche il mio consulente, Berndt Brinckmann, è tedesco». In primo grado, la lingua usata era stata l'inglese.
Al pubblico si sono aggiunti una trentina di familiari e amici della donna, arrivati dall' Emilia. Come primo atto, la corte ha disposto l'affidamento di una perizia a un esperto di informatica del Politecnico di Torino, Antonio Lioi, che dovrà esaminare le centinaia di fotografie scattate dai carabinieri sulla scena del delitto per capire il motivo per il quale ci sono dei «salti» nella numerazione.




Corriere della Sera, 19.12.05
È successo a Catania, protagonista un commerciante di 23 anni
«Niente patente a gay», accolto il ricorso
La sentenza del Tar: «L'omosessualità non è una malattia». Il ministero dei Trasporti dovrà pagare le spese processuali


CATANIA - «L'omosessualità non rientra nella categoria di malattia psichica». Con questa motivazione la seconda sezione del Tribunale amministrativo regionale di Catania ha accolto il ricorso del commerciante 23enne che a giugno si era visto mettere in dubbio la capacità di guidare dalla Motorizzazione civile solo perché è dichiaratamente gay. L'incredibile fatto era avvenuto su segnalazione dell'ospedale militare di Agusta, secondo i cui medici il giovane alla visita di leva, confessando di essere gay, era risultato non in possesso dei requisiti psicofisici richiesti per la patente. La richiesta di revisione era stata sospesa in via cautelare del Tar, che ha svolto una regolare udienza e emesso una sentenza con la quale ha condannato il ministero dei Trasporti al pagamento delle spese processuali, mille euro. Resta invece pendente, davanti al Tribunale civile di Catania, il processo per il risarcimento danni, da 500 mila euro, chiesto ai ministeri dei Trasporti e della Difesa dal legale del giovane, l'avvocato Giuseppe Lipera.
«DISTURBO DELL'IDENTITA' SESSUALE» - Durante il dibattimento, gli avvocati del ministero dei Trasporti hanno sostenuto che la revisione della patente era stata chiesta «non in considerazione del semplice accertamento dell'omosessualità, ma per le situazioni cliniche di sofferenza psichica». Per i giudici ha fatto testo invece la relazione del servizio di psicologia dell'Asl 3, secondo la quale «buone e integre appaiono le funzioni cognitive e la capacità di relazionarsi» del ragazzo. «Si aggiunga - scrive il Tar di Catania nella sentenza - che nel diario clinico dell'ospedale militare di Augusta si legge "all'esame psichico non turbe del pensiero e della percezione, diagnosi disturbo dell'identità sessuale"».